Pluralità delle vie. Alle origini del Discorso sulla dignità umana di Pico della Mirandola. Testo latino a fronte 9788807102899, 8807102897

La rilettura di un classico del pensiero filosofico medievale e la ricostruzione critica della storia della sua redazion

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Pluralità delle vie. Alle origini del Discorso sulla dignità umana di Pico della Mirandola. Testo latino a fronte
 9788807102899, 8807102897

Table of contents :
Premessa
Introduzione. Il 1486
1. Alle origini del Discorso
1. Dignità come via da campiere
2. Un itinerario tripartito
3. I "misteri'', itinerario iniziatico universale
4. Il metodo
2. Verso il testo definitivo
1. Difesa della contemplazione
2. La pace
3. L'apologia
Conclusione. Universalismo corne pluralità delle vie
Testo latino dell'Oratio, traduzione italiana a fronte e sinossi
Avvertenza del curatore
Oratio
Indice dei nomi
Indice

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Pier Cesare Bori

~NGELICA

AA

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Campi del sapere /Fèltrinelli

I

culture

La diversità culturale è per la specie umana una ricchezza inestimabile: ma si tratta di una ricchezza generatrice di conflitti spesso tragici. Nazionalismi e fondamentalismi sono risposte difensive a questa sfida: corne è stata affrontata in passato? La collana intende presentare opere di ricerca e di riflessione sul tema della convivenza, degli intrecci, dei conflitti tra culture.

Pier Cesare Bori (1937) insegna Filosofia morale e Storia delle dottrine teologiche all'Università di Balogna. Ha pubblicato Il vitello d'oro (Bollati Boringhieri 1983), Gandhi-Tolstoj (con G. Sofri, il Mulino 1985), L'interpretazione infinita (il Mulino 1987), L'estasi del profeta (il Mulino 1989), L'altro Tolstoj (il Mulino 1995). Saverio Marchignoli ( 1964) ha pubblicato numerosi lavori sulla storia dell'orientalismo, sulla filosofia indiana e sulla storia della ricezione dei testi classici. f

Pier Cesare Bori Pluralità delle vie Alle origini del Discorso sulla dignità umana di Pico della Mirandola Testo latino, versione italiana, apparato t.estuale a cura di Saverio Marchignoli

~

Fèltrinelli

© Giangiacomo Feltrinelli Editore Milano Prima edizione in "Campi del sapere" aprile 2000 ISBN 88-07-10289-7

Premessa

Questo libro nasce dal mio interesse (e preoccupazione) per i terni della tolleranza, del pluralismo, dei diritti umani, del multiculturalismo, dell'universalismo, un interesse che nel corso degli ultimi venti anni mi ha portato a varie esplorazioni e infine mi ha fatto scoprire, piuttosto di recente, l'ambito umanistico corne un momento di grande importanza per quei terni. Proprio in questa prospettiva il famoso Discorso (detto poi sulla dignità dell'uomo) di Pico della Mirandola mi è parso un documenta meritevole di grande attenzione. La mia ricerca su Pico, iniziata dunque da un impulsa prevalentemente teorico, si è poi sviluppata a poco a poco nella direzione storica e filologica, al di là della mia prima intenzione. Questi due aspetti, teorico e storico, si riflettono ora nel titolo e nel sottotitolo del libro. Con il titolo alludo a una posizione teorica, quella seconda cui la "pluralità della vie" costituisce il modello più interessante di pluralismo. Con il sottotitolo preannuncio la mia tesi storica centrale: che questo modello è contenuto nel Discorso di Pico e che anzi esso appartiene al suo nucleo originario, complicatosi poi attraverso successivi interventi redazionali. Questo studio intende essere quindi un contributo all'interpretazione complessiva dell'Oratio di Pico, attraverso la storia della sua redazione. Non vi si troverà un commenta completo all'Oratio (reperibile perà nel sito Progetto Pico, di cui poco più avanti) e nemmeno vi si troveranno ricerche sulle sue fonti particolari (ermetismo, cabbala, magia ... ). Per quanta necessarie, queste ricerche possono sviare dalla questione dell'interpretazione complessiva dell'Oratio, che penso debba avvenire a partire dal rapporta tra due fonti e due lingue fondamentali, quella biblica e quella platonica. Bilinguismo e pluralismo sono ap7

punto tra i termini chiave di questa mia lettura di Pico e ne costituiscono la specificità, in un campo di ricerche che abbonda di recenti e importanti sviluppi, corne si vedrà nel corso della mia esposizione. Per quanta estemo a interessi propriamente teologici, credo che questo libro potrà interessare anche quanti seguono il dibattito sul pluralismo interna al pensiero cristiano, dibattito già acceso e probabilmente destinato a farsi sempre più vivo (per fare un solo esempio, pensa alle discussioni intorno al libro di Jacques Dupuis, Verso una teologia cristiana del pluralismo religioso, tr. it., Brescia 1998). Un commenta completo dell'Oratio si puà trovare nel sito Progetto Pico/The Pico Project in http://www.brown.edu/Departments/Italian_Studies/pico/. Il sito, in italiano, latino, inglese, nato dalla collaborazione tra la Brown University (Providence, Rhode Island, Stati Uniti) e l'Università di Balogna, offre fra l'altro una riproduzione completa del Discorso nell'incunabolo bolognese del 1496, due nuove traduzioni, italiana e inglese, un commenta filologico (doppio, varianti e fonti, in latino) e un commenta storico (in italiano e in inglese), ed è a cura della scrivente, di Massimo Riva, Michael Papio, Giorgio Melloni, Saverio Marchignoli, Dino Buzzetti e Karen De Le6n-Jones. La traduzione italiana usata nel testa, e riprodotta in appendice, proviene appunto da questa edizione elettronica. Alla fine del mio lavoro, ringrazio quanti vi hanno contribuito: Albano Biondi, arnica rimpianto, cui debbo la prima intuizione, all'inizio degli anni Novanta, circa la rilevanza di Giovanni Pico in rapporta al mio interesse per il pluralismo religioso; Massimo Lollini, del Department of Romance Languages dell'Università dell'Oregon, che mi diede l'occasione nell'autunno nel 1995 di tenere un corso dedicato all'Oratio; Massimo Riva, del Department of Italian Studies della Brown University, che mi accolse nei primi mesi del 1997 e che accettà con entusiasmo l'idea di un sito internet dedicato al Discorso; i collaboratori della stesso progetto appena ricordati, in particolare Mike Papio; Francesco Borghesi per l'aiuto prestatomi, in particolare per l'epistolario di Pico, attomo a cui sta lavorando, e Joan Pefia-Arias per il lavoro bibliografico. Un piccolo contributo CNR è stato importante per consentire un incontro in Italia di tutta l'équipe, a fine 1998. Ringrazio ancora Franco Bacchelli, per la generosità dei consigli, e per avermi messo a disposizione le sue pubblicazioni ancora inedite. You Shibata (e Mimiko) mi hanno invitato a parlare su questi terni all'Università Meiji Gakuin, a Tokyo nel dicembre 1997. Saverio Marchignoli (cui si deve la cura della cospicua appendice di questo volume, un ulteriore 8

passo verso l'edizione critica deil'Oratio) ha vissuto con me cosi intensamente questa impresa, corne tante altre, che ringraziarlo pare quasi fuori luogo. Insieme ringraziamo Giovanna Ferrari per l'accurato e intelligente lavoro redazionale. Sono debitore a Carlo Ginzburg per l'occasione che mi offre di un impareggiabile confronta intellettuale: di questo la sostanza, ancora più preziosa, è un'amicizia, in cui imparo di continuo a rallegrarmi di una diversità che unisce. (l'autore è raggiungibile in www.spbo.unibo.it/pais/bori/)

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Introduzione. Il 1486

1. Il 1486 è per il giovane Pico della Mirandola un anno straordinario. Nel marzo, a 23 anni, toma da Parigi a Firenze, tra i suoi amici Lorenzo dei Medici, Poliziano, Marsilio Ficino. L'otto maggio parte per Roma: Pico sta preparando una disputa da tenersi con dotti di ogni parte del mondo, invitati a sue spese per discutere le sue tesi filosofiche. Due giorni dopo ad Arezzo tenta senza successo di r apire Margherita, moglie di Giuliano dei Medici, causando molto scandalo. Il successivo periodo di isolamento trascorso prevalentemente a Fratta, tra Perugia e Todi, è per Pico eccezionalmente fecondo . Scrive il Commenta sopra una canzona de Amore dell'amico Girolamo Benivieni. Raccoglie le sue tesi, o Conclusiones , sino al numero di 900, in vista della disputa da tenersi all'inizio dell'anno successivo. Compone un elegante Discorso, chiamato poi Sulla dignità dell'uomo, destinato a introdurre e spiegare le Conclusiones. Il 7 dicembre è a Roma, dove le Conclusiones vengono pubblicate, suscitando subito reazioni molto negative. Papa Innocenzo VIII all'inizio del 1487 sospenderà la pubblica discussione, verrà nominata una commissione teologica che condannerà dopo qualche mese alcune delle tesi. Alla fine del 1487 Pico deciderà di ritornare a Parigi. 2. C'è un nesso tra lo svolgimento dei fatti accaduti tra il maggio e l'autunno 1486 e la contemporanea eccezionale prestazione intellettuale di Pico? Occorre ripercorrere quei fatti più analiticamente, cominciando dall'"incidente di Arezzo''. 1 Mar1 I docu menti son o stati raccolti da M. Del Piazzo, Nuovi documenti sull'incidente aretino di Pico della Mirandola, in "Rassegna degli archivi di stato", 23 (1963), pp. 271 -290. È ancora utile D. Berti, /ntorno a Giovanni Pico della Mi-

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gherita nell'86 era rimasta ricca vedova di "un Costante spetiale, che teneva cavalli per correre palii" e, risposata con il non ricco Giuliano di Mariotto dei Medici, gabelliere ad Arezzo, era andata a vivere in questa città. Secondo il racconto dell'oratore estense a Firenze, Aldobrandino Guidoni, in una lettera del 12 maggio 1486 al duca Ercole I, il giovane Pico, ammirato da tutta la città di Firenze per cultura e per onestà di costumi, aveva dichiarato qualche giorno prima di volersi recare a Roma, facendosi precedere da una spedizione di bagagli verso Perugia. Partito con una consistente scorta, si era fermato ad Arezzo e aveva tentato di rapire la signora. Questo signor conte è stato in questa cità cum tanta reputatione, cum tanta magnificentia et cum una universale bona expectatione di facti suoi, quanto che homo che mai fusse qui in questa cità, pero che parea veramente non potesse essere possibile la doctrina et scientia che era in lui. Il povero signore levo una voce, a questi di, de volere andare a Roma; et parve che facesse caricare tute le robe sue et adviarle verso Perosa. Poi lui seguito cum tuta la famiglia, che erano de le persone a piedi et cavallo, da 20; et haveva dui balestrieri a cavallo; et andaro ad Arezo, ove era ita una sua amorosa belissima.2

Secondo il marito offeso, Giuliano, la moglie Margherita fu rapita la mattina del 10 maggio contro la sua volontà. Cosi scrive al cugino Lorenzo dei Medici: Iermattina andando la Margherita, mia donna, colla serva pigliare recreatione al Duomo Vecchio da fuori d'Arezo, fu da gente del signore della Mirandola, contra sua volontà, presa e messa a cavallo et in groppa a gente di sua famiglia colla quale era il decto signore; che per questo era venuto la sera dinanzi qui agli alberghi d'Arezo, con circa 20 cavagli et con balestrieri acti a far male; et menorronla via, cavalcando quanto potevano. 3

Giuliano lamenta anche il tradimento di un suo giovane dipendente, che gli avrebbe inoltre trafugato più di 80 fiorini. Anche la lettera della Signoria di Arezzo a Lorenzo dei Medici, il 10 maggio, dice che Margherita "fu a tradimento, et armata manu [ ... ]et per força messa a chavallo". 4 randola. Cenni e documenti inediti, in "Rivista contemporanea", 7, anno XVI, 1859. Ho presenti le considerazioni di H. de Lubac, Pico della Miranda/a . L'alba incompiuta del Rinascimento, tr. it., 1994 2 , pp. 398 sgg. 2 Del Piazzo, Nuovi documenti, cit., p. 279. 3 Ivi, p. 276. 4 Ivi, p. 274. 12

Invece, secondo Aldobrandino Guidoni, la donna era uscita dalle mura di Arezzo "infogata de lo amore del Conte". 5 Anche Luigi della Stufa riferisce a Lorenzo de' Medici che la donna, "corne innamorata e ciecha di si bel corpo, volontariamente montè> a cavallo in groppa a uno de' due mandati". 6 I.:oratore milanese a Firenze Stefano Taverna dice che il conte era stato "provocato da una femina formosa impazita di luy". 7 La sorella di Giovanni Pico, Costanza Bentivoglio, scrive a fra' Girolamo di Piacenza che "la femina lo seguiva volontariamente". 8 3. Il racconto dei fatti successivi nelle diverse fonti è concorde. Filippo Carducci, capitano e podestà di Arezzo (corne riferiva a Lorenzo dei Medici il pomeriggio dello stesso 10 maggio) fece suonare a martello le campane e fece inseguire il conte dai suoi uomini, cui si aggiunsero volontari sino al numero di duecento. Il conte fu raggiunto presso Marciano, ai confini di Siena, e, secondo Luigi Della Stufa, poiché gli aretini hebono più gente n'amazorno XVIII et il magnifico signore fu ferito malamente et se non si fussi stato il buon chavallo che haveva sotto, rimaneva anche lui in compagnia de' 18. 9

1 Dieci di Balla di Arezzo disposero che il conte, e il suo segretario Cristoforo da Casale Maggiore, rimanessero sotto custodia di chi, collaborando con gli inseguitori, l'aveva catturato (un certo Giovanni Nicolacci da Marciano), e che fossero raccolte le cose restate sul campo della piccola battaglia. Ma poco dopo il conte fu posto in salvo da chi lo custodiva, che ricevette un compenso di cento fiorini. Per questo Giovanni Nicolacci nel gennaio 1487 sarebbe stato multato dagli Otto di Guardia di Firenze, mentre il segretario di Pico sarebbe stato punito, corne "colui da cui era derivato tutto il male". 10 Con altri protagonisti, l'offesa a un Medici sarebbe stata ben diversamente riparata. Dietro a questo trattamento privilegiato lvi, p. 280. Ivi, p. 277. 7 lvi, p. 281. 8 Ivi, p. 284. Da un commenta ironico di Guglielmo Raimondo de Moncada, detto Flavio Mitridate, collaboratore di Pico, si ricava che Margherita non era l'unica donna innamorata di Pico. Era tuttavia un caso estremo; cfr. sotto, nota 17. 9 Del Piazzo, Nuovi documenti, cit., p. 277. Seconda Stefano Tavema, "hanno tagliato a pezi circha 14 di quelli del conte et luy ferito". Seconda Guidoni, "la famiglia del signor Zohanne nella zuffa, pur amazomo anchora !or qualche uno". 1 Com'era stato previsto da Guidoni, che già il 12 maggio sache mentre il conte non ne avrà conseguenze negative, "'] canzelero ne farà male, perché è reputato che ']fusse uno capestro, da cui sia processo ogni male"; ivi, p. 280. 5 6

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si scorge proprio Lorenzo dei Medici, che scrive alla Signoria di Arezzo il 13 maggio esprimendo il suo rincrescimento per 'Tingiuria fatta a Giuliano de' Medici", senza menzionare nemmeno il responsabile.11 Il desiderio di Lorenzo di scusare e proteggere il suo giovane amico è condiviso da Ercole I. Questi risponde al suo oratore Aldobrandino Guidoni d'essere molto dispiaciuto dei fatti, "perché teneramente amamo epso magnifico conte Zohane", lo prega di adoperarsi per la sua liberazione corne per un "nostro fratello" e lo scusa ricorrendo a precedenti biblici, "che certo le sono cose che anche Salamone, che fue tanto sapientissimo, incorse anchora lui alcuna volta in simile trasgressione; si che, il gli è da havere compassione".12 I.:immagine pubblica del conte sofferse tuttavia molto per il "chaso atroce" di Arezzo. 13 Aldobrandino Guidoni scrive da Firenze al duca Ercole I: Et veramente questo caso è di natura che a tuta questa città rencresce perché questo conte Zohanne havea in questa cità uno nome del più docto homo che fusse uno buon pezo; et era reputato uno sancto; ora ha perso la reputatione et conditione sua. 14

Altri documenti ci recano ulteriori, talvolta minute informazioni sul seguito degli eventi. Alcune riguardano il recupero delle cose perse o rubate durante lo scontro: Restaci un cavallo di quelli del Signore appresso l'oste; una cappa rosata foderata di panno verde, due balestre d'acciaio con un martinecto; et un turchasso con sette passatoi; una cappetta di tane trista, 15 con capperuccia foderata di domaschino pagonazzo; un giacho di maglio et una cintola di cuoio di pesce fornita d'ariento ... 16

Ma del conte stesso, in quei giorni e nei mesi seguenti, non abbiamo notizia. Anche di Margherita sappiamo solo che fu restituita al marito. Tuttavia da un commenta di Flavio Mitridate - il singolare collaboratore di Pico, di origine ebraica, che arricchiva le sue traduzioni dei testi cabbalistici con pungenti osservazioni personali - sembra si possa ricavare che Margherita, ancora alla fine del 1486 o all'inizio 1487, anche se gravida, sarebbe stata disposta a Ivi, p . 282 . .~ Ivi, p. 284. 13 Cos! è più volte designato l'incidente nella lettera della Signoria di Arezzo a Lorenzo, ivi, pp. 274-275. 14 Ivi, p . 280. 15 E cioè di colore tra rossa e nero, e di qualità scadente. 16 lvi, p . 285 . il

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raggiungere il conte a Roma; ne avrebbe avuto anche la possibilità, se questi avesse voluto.17 Ma c'erano stati di mezzo parecchi mesi e parecchi cambiarnenti importanti, per Giovanni Pico. 4. Dopo alcuni mesi di silenzio, a partire dal settembre della stesso anno, 18 la corrispondenza ricomincia a dard notizia di lui.19

17 Scrive Flavio Mitridate: "Hodie propter cuius [di Pico] pulchritudinem mulieres concurrunt ut coeant secum, precipue Margarita quam unus se offert homo mane ducere eam usque Romam, si voluerit Picus, quamvis sit praegnans" (Cod. Vat. Ebr. fol. 157r.; cfr. C. Wirszubski, Pico della Mirandola's Encounter with Jewish Mysticism, Jerusalem 1989, pp. 17-18). Flavio scriveva mentre era a Roma, a fine 1486. A rigore non si puè> dunque affermare, corne P. Zambelli, L'apprendista stregone. Astrologia, cabala e arte lulliana in Pico della Mirandola e seguaci, Venezia 1995, p . 11, che la donna fosse gravida mentre Pico la rapiva. I commenti a margine di Flavio Mitridate sono di grande interesse per conosceme la figura e il particolarissimo suo rapporta con Pico, oltre che per datame le traduzioni. Egli ironizza sulle vere capacità di Pico di interpretare i testi ("putasne Pice sine Mithridate intelligere posse?", Wirszubski, Pico della Mirandola's Encounter, cit., p. 72), sulla ricchezza di Pico ("si Picus esset pauper tot honores Romae non haberet", ivi, p. 16), sull'esito sfortunato dell'impresa romana ("Picus est carceratus in castri Sancti Angeli quia voluit revelare secreta non revelanda asinis que non sine misterio occultarunt sapientes", ivi, p . 17: alludendo al papa e ai cardinali). Allude anche a quel che è successo tra Pico e Margherita ("Et hic est ager in quo reuelantur turpitudines et fiunt coitus illiciti prope Lucinianum ubi captus fuit picus cum margarita", ibidem). Flavio Mitridate si aspetta di poter tomare a Roma ("vide Pice et intellege. Ego autem noli tibi exponere nisi rediero ad urbem", ivi, p . 72). Ha anche altre richieste: gli insegnerà la lingua caldea solo se arriverà un (oil) "bel ragazzo" ("quam [lingua] numquam Picus sciet nisi venerit naar iafe", ivi, pp. 72-73). B. Schefer, nella sua nuova edizione delle Tesi (900 Conclusions, Paris 1999, p. 258) segnala, sulla scorta di B. Kieszkowski, a proposito di "dominum naris" nella tesi 40 seconda l'opinione dei cabbalisti, che si potrebbe trattare di assonanza con naar, che si applica al Signore. Non è sicuro che Pico leggesse queste note, databili alla fine del 1486 o al 1487. Fu probabilmente a causa delle intemperanze del collaboratore, per altro affezionato e laboriosissimo, che Pico escluse dall'edizione definitiva del Discorso la menzione di Flavio Mitridate. 18 Seconda la recente, ben argomentata tesi di F. Bausi (L'epistola di Giovanni Pico della Mirandola a Lorenzo de' Medici. Testa, traduzione e commenta, in "Interpres", 17, 1998, pp. 7-57) la lettera a Lorenzo de' Medici dovrebbe risalire al luglio 1486: il ms. Capponi data la lettera "florentie, idibus iuliis 1486", cioè 15 luglio 1486, e si puè> pensare che Giovan Francesco retrodatasse la sua lettera al 1484 per evitare di mostrare un Giovanni Pico ancora interessato alla poesia volgare nel periodo in cui sarebbe dovuto essere diversamente occupato. Pico, corne il Poliziano dei Nutricia, avrebbe esaltato, anche per motivi di gratitudine, il Comento de' miei sonetti di Lorenzo de' Medici, che sarebbe allora il modello del contemporaneo Commenta sopra una canzona de amore pichiano. Vi sarebbe allora, oltre tutto, una continuità e una coerenza tra la lettera a Lorenzo e l'attenzione che ne! Discorso viene dedicata al tema retorico, corne si vedrà. 19 Sull'epistolario cfr. E. Garin, La cultura filosofica del Rinascimento italiano. Ricerche e documenti, Firenze 1961, p. 261. Leggo le lettere di Pico in base al-

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Marsilio Ficino gli ha scritto 1'8 settembre 1486, pregandolo di restituirgli il suo Corano arabo.20 Pico risponde 21 promettendogli di restituirglielo presto, appena potrà andare a Perugia, da cui si è allontanato per la peste. Gli parla con entusiasmo dei suoi studi linguistici. Fa progressi in arabo e in caldaico, dopo aver acquisito discrete conoscenze di ebraico (sarebbe in grado di scrivere una lettera in questa lingua). Pico non puè> pensare che cose cosl straordinarie gli siano giunte a caso: ciè> è avvenuto per volere divino e col favore di un nume che Io assiste benevolmente nei suoi studi. 22 A tanto valgono "Io slancio dell'anima, il lavoro e la diligenza, nonostante una certa debolezza fisica". Legge con entusiamo i sapienti caldei, che servono a chiarire quel che la tradizione ellenica presenta in forma incompleta e imperfetta (vedi più avanti, nel capitolo 1, i paragrafi 3.9 e 4.2). Legge autori arabi, corne "le epistole di Maometto di Toledo e Abulgal, che udi Averroè e le questioni di un certo Adelando [ ...] che filosofè> sotto Ammonio maestro di Plotino in Egitto". 23 Cose tanto entusiasmanti, cosi "pitagoriche e piene delle antiche nozioni e di disciplina esoterica", da indurlo a studiare direttamente quelle lingue, in modo da accedere direttamente ai testi. Quanto a Plotino, cui Ficino sembra richiamarlo, non Io ha mai abbandonato - assicura - e continuerà a studiarlo. 24 Pico è rapito dall'entusiasmo per le sue scoperte. Travolto da una specie di estasi ermeneutica applica a se stesso san Paolo: Marsilio mio, questa è la mia passione, questi sono i fuochi di cui brucio, e qui perme non c'è solo la promessa, ma il dono di una

l'edizione dell'Opera omnia, Basilea 1572, ed. anastatica Torino 1971, avendo presente l'incunabolo bolognese del 1496, salvo quelle pubblicate da L. Dorez, Lettres inédites de Jean Pico de la Mirandole (J 482-1492), in "Giornale storico della letteratura italiana", 25 (1895), pp. 353-359. . 2 Cfr. A.M. Piemontese, 1l corano latino di Ficino e i corani arabi di Pico e di Monchates, in "Rinascimento", 36 (1996), pp. 227-273. 21 G. Pico, Opera omnia, cit., pp. 367-368. La lettera di Ficino è in Supplementum ficinianum, ed. P.O. Kristeller, Firenze 1937, 1, pp. 34-35 . 22 "Animarunt autem m e, atque adeo agentem alia, vi compulerunt ad Arabum litteras Chaldaeorumque perdiscendas, libri quidam utriusque linguae, qui profecto non temere, aut fortuito, sed Dei consilio et meis studiis benefaventis numinis, ad meas manus pervenerunt": G. Pico, Opera omnia, cit., p. 367. Sugli autori caldei, v. più avanti, par. 3.9. 23 Su questi problematici autori, cfr. Zambelli, L'apprendista stregone, cit., pp. 28-29. 24 "Hoc scio, non excidisse mihi Plotinum, quem non in manibus habendum modo, sed discendum adeo mihi, et semper censui, et nunc quoque censeo": G. Pico, Opera omnia, cit., p. 368.

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gioia non fugace e vana, ma stabile, vera immagine della gloria futura che in noi sarà rivelata.25

Siamo dinanzi alla cellula originaria del Discorso, con l'eros, il fuoco, la gloria divina attinta qui e ora attraverso un itinerario spirituale in cui l'exploit intellettuale ha un ruolo centrale. Nella speranza di Pico ci sarà anche un riconoscimento esterno: nella solitudine di Fratta Pico matura il gesto con cui a Roma renderà pubbliche le sue scoperte, infrangendo la consegna esoterica che caratterizza gran parte delle tradizioni di cui egli tratta. 26 5. La certezza della gloria escatologica si mescola dunque con l'attesa di quella presente. La futura disputa filosofica romana è il suo pensiero costante. Pico attribuisce all'evento una enorme importanza: alle sue eroiche gesta intellettuali seguirà un trionfo che cancellerà il disonore dell'impresa di Arezzo. Il tema è frequente nelle lettere del periodo. Se ne parla anche nella breve epistola a Taddeo Ugolino, non datata, ma indirizzata "ex Fracta": "Romam propero", "mi affretto verso Roma". 27 Che cosa aveva in mente Pico? Che cos a doveva accadere a Roma? Pico, quando parla del futuro convegno, nella sua Oratio, domandare se questa scelta, oltre che riflettere diversi orientamenti teoretici (corne sostiene Panofsky), passa essere conseguenza della recente esperienza di Pico, che lo induce alla misoginia e a privilegiare amicizie maschili, prima fra tutte quella con Benivieni. 43 Ancor più pertinenti sono qui le conclusioni di E . Wind, 44 che descrive corne Pico rompesse con la triade edonistica di Ficino, Pulchritudo-Amor-Voluptas, ancora presente nella sua medaglia (databile intomo al 1484-85), per passare a quella più austera Pulchritudo-Intellectus-Voluntas 45 (si ricordi il severo trattamento della voluttà nel brano sopracitato del Commenta, e anche l'autentica "gioia non fugace e vana, ma stabile" nella lettera a Ficino del settembre 1486). Comunque, il tono di questi passi ci fa intravvedere quanta Pico stesso sia coinvolto nel Commenta sopra una canzona de amore di Benivieni (che poi vuol dire, nella rilettura della stesso Simposio). Certo, il Commenta è composta "seconda la mente e opinione dei platonici", per esplicita scelta dell'autore, e ha il suo modello nel rivolgimento (periagoghé) dell'anima (Repubblica) e nella sua ascesa, anagoghé (Simposio), mentre nella lettera a Comeo prevalgono l'idea e il linguaggio biblico della penitenza, della metdnoia, della "conversio mentis ad Christum". Nel primo modello linguistico e teorico, la conversione è verso Cristo; nel seconda, è verso la bellezza, impersonata dalla Venere celeste (il 1486 è anche l'anno della Nascita di Venere di Botticelli).46 Pico parla dell'identica casa (la sua stessa trasformazione morale) ricorrendo a due modelli religiosi, culturali e linguistici: dice la stessa casa seconda Platane e seconda la Bibbia. Tornerè> più avanti su questo punto: ma avanzo sin d' ora l'ipotesi che proprio in questo bilinguismo47 vi sia la prima e più origi42 E. Panofsky, Il movimento neoplatonico a Firenze e nell'Italia settentrionale, in Idem, Studi di iconologia, tr. it., Torino 1984, pp. 184-235, particolarmente

p. 198. 43 Puè> forse dipendere dalla stessa esperienza un'altra differenza rispetto a Marsilio Ficino, che Pico affermi "che in Dio non sia bellezza, perché la bellezza include in sé qualche imperfezione": Commenta, ed. cit., p . 495; cfr. S. Toussaint, Le formes de l'invisible. Essai sull'ineffabilité au Quattrocento, Lausanne 1989, pp. 56-57. 44 E. Wind, Misteri pagani nel Rinascimento, tr. it., Milano 1971, pp. 47-48. 45 Cfr. G. Pico, Commenta, ed. cit., p. 509. La "letizia" è nominata, ma non appartiene alle tre Grazie. 46 Cfr. E. Panofsky, Rinascimento e rinascenze nell'arte occidentale, tr. it., Milano 1971, p. 231. 47 Ha riflettuto molto su questo tema C. Dionisotti, Gli umanisti e il volgare tra Quattrocento e Cinquecento, Firenze 1968. S. Toussaint ha parlato di "bilin24

naria manifestazione, e forse lo stesso fondamento, della sua "molteplice filosofia", del suo atteggiamento teorico pluralistico, della sua capacità di guardare alla realtà seconda innumerevoli prospettive (quel secundum che, frequentissimo, scandisce le Conclusiones : seconda Tommaso, seconda Scoto, secondo Platone, secondo Aristotele, secondo la teologia degli antichi, secondo i caldei...).48 9. Quanto si è detto finora getta luce sul più importante testo pichiano coevo, il Discorso sulla dignità dell'uomo. Come vedremo meglio più avanti, la prima parte del Discorso è dominata dal tema dell'eros, secondo un modello platonico-dionisiano di rivolgimento-ascesa. È molto probabile che in questo l'esperienza personale di Pico abbia un ruolo importante. Sembra che egli parli nel Discorso partendo da se stesso, movendo dalla consapevolezza ormai acquisita della pericolosa ambiguità, ma anche della straordinaria potenza costruttiva di eros ("nihil amore potentius", aveva scritto a Corneo): eros, fattosi forza disciplinata, potrà spingersi alle esplorazioni intellettuali più ardue, per condurre poi alla meta estrema desiderata, l'identità con un assoluto irrappresentabile. Che Pico nel Discorso in qualche modo parli di sé, descriva qualcosa che lo riguarda, anzitutto è chiaro dalla lettera a Girolamo Benivieni del 12 novembre. Poco manca alla sua partenza per Roma. Due giomi prima, il 10 novembre, ha scritto a un amico il cui nome non ci è noto, dicendogli di non potergli dare certe informazioni, perché i suoi libri sono già partiti per Roma, e lui stesso ha già il cappella da viaggio in testa e gli stivali ai piedi ("petasatus iam et caligatus"). 49 Ma il materiale da presentare a Roma continua a crescere. Le tesi da discutere prima della tua partenza erano racchiuse nel numero di 700. Dopo la tua partenza sono cresciute sino a 900 e sarebbero progredite sino a 1000 se non avessi suonato la ritirata. Ma volli fermarmi a quel numero, in quanto mistico. Se è vera la nostra dottrina dei numeri, è il simbolo dell'anima che si ritira in sé stessa

guismo filosofico di Pico, da un lato avvolto nei misteri della Qabbala e delle teologie poetiche, dall'altro esposto alla cruda luce di una ragione che osava criticare l'astrologia cosl cara al Ficino" (Giovanni Pico e il Picus; un mita perla teologia poetica, in AA.W., Giovanni e Gianfrancesco Pico. L'opera e la fortuna di due studenti ferraresi, Firenze 1998, p . 3). 48 Debbo a Carlo Ginzburg questa importante osservazione. 49 G. Pico, Opera omnia, cit., p. 385. C'è qui una probabile allusione al petaso di Mercurio, e alla funzione di Pico, corne mistagogo e nuovo Ermes; cfr. cap. 1, nota 67. 25

colpi ta dallo stimolo delle Muse. AH' orazione si è aggiunto quel che ti mando. Essendomi proposto che non passasse giorno senza leg-

gere qualcosa dell'insegnamento evangelico, il giorno dopo la tua partenza mi cadde dinanzi quel che Cristo dice: "Vi do la mia pace, vi do la mia pace, vi lascio la pace". Subito, concitatamente, dettai alcune cose sulla pace, in Iode della filosofia, e lo feci con tanta velocità da precedere e confondere la mano del segretario. Avrei voluto (lo desidero sempre ma in quel momento soprattutto lo volevo) che tu fossi con me perché potessi ascoltare benevolmente quel testo recente, corne un bambino nato appena dal grembo. 50

Pico in questo periodo legge il Vangelo ogni giorno. Dalla lettura di Giovanni 14,27 nasce un nuovo brano del Discorso. Pico ne parla con emozione, corne di un parto: la penna della scrivano non fa in tempo a seguirlo. 51 Questo brano probabilmente si aggancia alla menzione, nella redazione preesistente, della latta fra odio e amore, dal cui dissidio Empedocle lamenta di essere "corne un folle trascinato nel profondo, esule dagli dèi". Ma nel nu ovo testa l'idea della guerra assume maggiore concretezza. Pico non conosce solo i dissensi intellettuali, sa anche bene cos'è la guerra, l'Italia ne è percorsa. Pico ha da poco scritto il suo Carmen pro pace , perché Dio allontani una guerra che freme per tutta Italia, in cui "tutto è devastato, tutto il ferro spazza via". 52 50 "Disputanda per me publice dogmata ante tuum a me discessum 700is claudebantur. Postquam abisti, ad 900• excreverunt progrediebanturque, nisi receptui cecinissem, ad mille. Sed placuit eo numero, utpote mystico, pedem sistere. Est enim (si vera est nostra de numeris doctrina) symbolum animae in se ipsam oestro Musarum percitae recurrentis. Accessit et orationi id quod ad te mitto. Cum enim statutum sit mihi ut nulla praetereat dies quin legam ex Evangelica doctrina, incidit in manus, postridie quam decesseras, illud Christi: 'Pacem meam do vobis, pacem meam do vobis, pacem relinquo vobis'. Illico subita quadam animi concitatione de pace quaedam ad philosophiae laudes facentia tanta celeritate dictavi, ut notarii manum precurrerem saepe et invertirem. Desideravi, quod et semper desidero, vel tune maxime [te] mecum esse, ut recens opus auribus, quasi e gremio editum infantem, benignius auditor exciperes. Sed quando coram non licuit, fer quod licuit per litteras. Vale. 12 novembris 1486": a Girolamo Benivieni, da Fratta, in Dorez, Lettres inédites, cit., p. 358. 51 Forse Pico ha in mente Io scrittore ispirato di Salmo 44,2 Vulgata : "Eructavit cor meum verbum bonum [ .. .] lingua mea calamus scribae velociter scribentis". Nella sua Vita, Giovan Francesco Pico menziona la "nimia in commentando velocitas" di Giovanni (ed. cit., p . 22). 52 "Omnia vastantur, omnia ferrum corripit, omne/iam latus Ausoniae fremit armis", in P.O. Kristeller, Giovanni Pico della Miranda/a and his sources, in AA.W., L'opera e il pensiero di G. Pico della Miranda/a nella storia dell'Umanesimo, I, Firenze 1965, p. 99. Va notato che !'ultimo verso "iungant caesa fadera porca" riecheggia nell'Oratio, § 17: "quippe quae cesa utraque bestia, quasi icta porca, inviolabile inter camem et spiritum foedus sanctissimae pacis sanciet", in un contesta analogo, il frammento "de pace quaedam" di cui parla nella lette-

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p La guerra è praticata pressoché corne mestiere dalla sua farniglia, ed essa imperversa anche tra i suoi membri: i fratelli Galeotto e Antonmaria lottano ferocemente tra di loro per assicurarsi il patrimonio familiare, mentre Pico ha rinunciato ai suoi diritti a favore di Giovan Francesco. 53 La madre ha avuto per lui altre ambizioni 54 ed egli stesso ne è stato risparmiato, sino a che, pochi mesi fa, è stato invece causa di spargimento di sangue. Pico ora, per diretta esperienza, sa che all'origine di tutto sono le disposizioni interiori. La pace, egli dice, va anzitutto perseguita con l'autodisciplina. Questa sarà la pace che "stabilirà un patto inviolabile tra came e spirito". Su questa base poi il rigore scientifico in materia di filosofia della natura "calmerà le liti e i dissidi di opinione che affliggono, dividono e lacerano l'anima inquieta". Ma poiché la natura, seconda Eraclito, fu generata dalla guerra, la pace anelata potrà venire solo dall'abbraccio con la sapienza, che grida "Venite a me, voi che siete affaticati, venite e vi ristorerè>. Venite a me, e vi darè> la pace che il mondo e la natura non possono d arvi"' .

Al di sotto c'è forse il nucleo dell'esperienza di Giovanni Pico nel mattino del 12 novembre 1486, dopo mesi di "longissima amaritudine e penitenzia", con un sentimento di guarigione e di riconciliazione: Questa è la pace che il Signore attua nei suoi cieli e che gli angeli discendendo in terra annunziarono agli uomini di buona volontà, perché per essa gli uomini salendo in cielo diventassero angeli. Au-

ra a Benivieni del 12 novembre 1486. Nel 1486 il marchesato di Saluzzo viene occupato da Carlo I di Savoia. Il duca Alfonso di Calabria alleatosi con gli Orsini contro i Colonna, che stanno dalla parte di Innocenzo VIII, invade le terre pontificie. 53 F. Ceretti, Il conte Antonmaria Pico della Mirandola. Memorie e documenti raccolti dal sac. Felice Ceretti, in "Atti e memorie delle rr. Deputazioni di storia patria perle provincie dell'Emilia", nuova serie, III, II, Modena 1878. 54 Si veda l'episodio narrato da Giorgio Merula in una lettera scritta intomo al 1483. Egli ricorda corne un po' meno di vent'anni prima avesse fatto visita a Mirandola, deviando dal percorso verso Bologna. La madre di Giovanni Pico, Giulia Boiardo, era sola con i tre figli, Caterina, Lucrezia e Giovanni, perché il marito, Giovanni Francesco, guerreggiava in Calabria. Giorgio Merula ricorda corne la nutrice, portando Giovanni, nato da poco, nella sala da pranzo, domandasse scherzando: "Che ne faremo di questo bambino?" "Arma an litteras sequetur"? "Sarà un guerriero, o non piuttosto un letterato?". Aggiunge Merula che la balia indovinà: "Divinavit profecto nutrix": Dorez, Lettres inédites, cit., p. 356. Giovan Francesco, nella Vita, afferma che Giovanni "odiava la milizia secolare e il vincolo della vita coniugale", e la prima ancora più del secondo (ed. cit., p. 72). 27

guriamo questa pace agli amici e al nostro tempo; la auguriamo a ogni casa in cui entriamo e alla nostra anima, affinché l'anima diventi cosi essa stessa dimora del Signore. (§ 18)

10. Non è senza fondamento che Giovan Francesco Pico nella sua Vita riprenda ed espliciti in termini cristiani i motivi della lettera ad Andrea Corneo, e parli di "conversione a Cristo" da parte di Pico che si era lasciato un poco deviare dal lusso e dai piaceri. Ma, sorvolando sull'incidente di Arezzo, egli attribuisce il massimo effetto sull'animo di Pico, in ordine alla sua conversione, alla "simultas", all'animosità degli ambienti romani, contra cui si erano infrante le sue aspettative di gloria: fu a quel punto solo, e non subito dopo l'incidente di Arezzo che, seconda Giovan Francesco, Pico si sveglià e comprese la vanità della gloria umana: ...prima, cupido di gloria ed acceso da vani amori, si era lasciato commuovere dagli allettamenti muliebri, anche per il fatto che moltissime donne ardevano d'amore per lui, data la bellezza del suo corpo e la grazia del suo aspetto, cui si aggiungevano la dottrina, le molte ricchezze, la nobiltà di famiglia. Non ricusando tali amori, si era un po' abbandonato alla mollezza, e aveva trascurato la via della vera vita. Ma svegliatosi a causa di questa ostilità, rintuzzè> l'animo che languiva nei piaceri e lo converti al Cristo, e mutè> le blandizie muliebri nei gaudi della supema patria. Non curandosi dell'aura della piccola gloria mondana, che tanto aveva agognato, con tutte le forze della sua mente prese a cercare la gloria di Dio e l'utilità della chiesa, e a disporre i suoi costumi in modo tale da ottenere l'approvazione anche di chi lo potesse giudicare non con animo amico. 55

Se si ricorda quanta ho suggerito sopra, che al successo dell'impresa della disputa Pico attribuiva probabilmente una straordinaria importanza per la ricostruzione della propria immagine, si capisce quanta il fallimento di questa ulteriore im55 "Prius enim et gloriae cupidus et amore vano succensus, mulieribusque illecebris commotus fuerat: foeminarum quippe plurimae, ob venustatem corporis orisque gratiam, cui doctrina amplexaeque divitiae et generis nobilitas accedebant, in eius amorem exarserunt; ab quarum studio non abhorrens, parumper via vitae posthabita, in delicias defluxerat; verum simultate illa experrectus, diffluentem luxu animum retlidit et convertit ad Christum, atque foeminea blandimenta in supernae patriae gaudia commutavit, neglectaque aura gloriae, quam affectaverat, Dei gloriam et ecclesiae utilitatem tota coepit mente perquirere, adeoque mores componere, ut post hac vel inimico iudice comprobari posset": Giovanfrancesco Pico della Mirandola, Vita , cit., pp. 40-42. Sorbelli traduce qui con "smarrimento" "simultas", che poco prima (pp. 36-37) aveva tradotto con "animosità".

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presa potesse pesargli, e corne potesse poi divenire occasione per lui di una ulteriore maturazione, quella compiuta "conversione" di cui parla Giovan Francesco Pico. Il quale perè>, corne si è detto, per preoccupazioni apologetiche evita di menzionare sia "il caso atroce" di Arezzo, sia i suoi importanti riflessi interni sulla vita e sull' opera di Pico. 11 . Sin dalla sua morte prematura la figura di Pico non ha cessato di affascinare la fantasia popolare e di attirare l'attenzione degli studiosi. Nell'ultimo secolo, e ancor più nell'arco compreso tra i due cinquecentesimi anniversari, della nascita e della morte, la ricerca ha prodotto molto. Si sono tenuti importanti convegni, nuove edizioni e traduzioni delle opere sono apparse, le fonti sono state indagate in profondità.56 In tutto questo fermenta, permane tuttavia, ormai da decenni, la divaricazione fra due fondamentali atteggiamenti interpretativi intorno a Pico, e in particolare intorno alle sue opere del 1486, il Commenta, le Tesi, e soprattutto il Discorso. Infatti, resistendo alla tendenza dominante dell'interpretazione pichiana (che parte da J . Burckhardt e, attraverso G. Gentile, E. Garin, E . Cassirer, P.O. Kristeller, arriva sino agli ultimi contributi sulla cultura magica, astrologica, esoterica, cabbalistica, sincretistica di Pico), un'altra tendenza vede in Pico - e nel suo Discorso - la continuità con la tradizione teologica, dalla Bibbia, ai Padri, alla teologia scolastica. Fra i rappresentanti di questa tendenza, Henri de Lubac spicca con il suo Pic de la Mirandole57 per il genuino pathos e per l'alto grado di erudizione. Con stile e sensibilità differenti, H . Reinhardt insisteva egualmente, in Freiheit zu Gott, sul carattere premoderno del pensiero "sistematico" di Pico. 58 Le pagine che seguono, piuttosto che dal bisogno di prender

56 Rinvio alla bibliografia, a cura di Joan Pefia-Arias, nel sito internet già ricordato Pico Project!Progetto Pico. Il combattivo ma spesso inadeguato W.G. Craven, Pico della Mirandola. Un casa storiografico, tr. it., Bologna 1984, costituisce comunque un'introduzione al dibattito storiografico intorno a Pico, e specialmente al Discorso. 57 Paris 1974, tr. it. cit. (prima ed. Milano 1977). 58 H. Reinhardt, Freiheit zu Gott. Der Grundgedanke des Systematikers Giovanni Pico della Mirandola, Weinheim 1989, cfr. anche Idem, De illis Pici vestigiis quae in regno theologiae [. .. ] supersunt, in "Vivens homo", 5/2 (1994), pp. 269298. Nella direzione della continuità con la tradizione sono anche A. Dulles, Princeps Concordiae. Pico della Mirandola and the Scholastic Tradition, Cambridge (Mass.) 1941; G. Di Napoli, Giovanni Pico della Mirandola e la problematica dottrinale del sua tempo, Roma 1965; F. Roulier, Jean Pic de la Mirandole (14631494), humaniste, philosophe et théologien , Genève 1989.

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posizione fra i due partiti, sono ispirate dal desiderio di fare passi avanti nella comprensione del Discorso, proponendone un'interpretazione fondata sulla storia della redazione. La mia ipotesi è il risultato della valorizzazione del contesta biografico, del materiale epistolare e soprattutto della redazione del Discorso contenuta nel manoscritto Palatino 885, pubblicato da Eugenio Garin nel 1962. Il lavoro muove da questa prima redazione a noi nota 59 (che chiameremo P), mostrando quindi corne si arrivà al testo definitivo del Discorso (il textus receptus che chiameremo R, edito nel 1496). 12. Giovanni Pico non fece circolare il Discorso. Solo nel 1496, a due anni dalla morte, il nipote Giovan Francesco pubblicà a Balogna, tra le altre opere dello zio, quella "elegantissima orazione" che sarà intitolata "De hominis dignitate" più tardi, a partire dall'edizione di Strasburgo delle opere pichiane, nel 1504. Del resto anche il Commenta fu pubblicato solo nel 1519 fra le opere di Girolamo Benivieni, e le Conclusiones, dopo la pubblicazione del 7 dicembre 1486 a Roma in vista della disputa che poi non ebbe luogo, cessarono di circolare per lungo tempo. Si puà comprendere del resto corne Giovanni Pico volesse lasciarsi alle spalle gli eventi dolorosi del 1487 e mettesse definitivamente da parte quegli scritti. La congettura che qui si adotta circa la redazione del Discorso distingue quattro momenti (al primo è dedicato il primo capitolo di questo libro, agli altri il seconda). 1) Il primo momento si colloca alla metà del settembre 1486, con la lettera a Marsilio Ficino (vedi sopra, par. 4), che attesta l'entusiasmo filologico di Pico soprattutto perle fonti caldaiche: il che corrisponde, quasi letteralmente, all'inizio della seconda parte, breve, dell'Oratio nella redazione attestata dal manoscritto Palatino 885 (P). 60 A metà settembre Pico cominciava forse

59 Edita da E. Garin ne! suo La cultura filosofica del Rinascimento italiano, cit., pp. 233-240. Dichiaro il mio debito verso le belle, innovatrici analisi di F. Bausi, Nec rhetor neque philosophus, cit.; uso, nonostante tutto, la formula "prima redazione" (che Bausi evita, p. 112), anche se a rigore sappiamo solo che essa è "precedente" al textus receptus . 6 Cfr. la Jettera a Ficino, in G. Pico, Opera omnia, cit., p. 367 ("in quibus et illa quoque, quae apud Graecos mendosa et mutila circumferuntur, leguntur integra et absoluta") e Oratio: "Quando permulti hique pretiosiores eorum libri ad nostros nullo interprete pervenerunt, et horum qui pervenerunt tum plures perverterunt potius quam converterint illi interpretes, tum certe omnibus eam caliginem obscuritatis offuderunt, ut quae apud suos facilia, nitida et expedii:a sunt, apud nostros scrupea facta laciniosa studiosorum conatum eludant plurimum atque frustrentur" (ed. Garin, cit., p. 239, § 26 P).

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anche il Commenta sopra una canzona de amore (lettera a Baldo Perugino, vedi sopra, par. 5) . In questo periodo di entusiasmo egli clavette far circolare tra amici la prima redazione, che soprawisse anche più avanti, quando egli avrebbe voluto togliere di mezzo agni traccia dell'impresa romana con il suo esito penoso. Il manoscritto Palatino 885 testimonia di questa prima fase, anche se si tratta di una copia molto imperfetta e mutila (da integrarsi inevitabilmente con R), conseguenza appunto di una circolazione fortunosa e indipendente dalla volontà di Pico. 61 La struttura della prima redazione è semplice. La prima parte coïncide fondamentalmente con il testa edito (R): la dignità dell'uomo consiste in un itinerario, che, a somiglianza degli angeli, puà portarlo sino a Dio. Esso è tripartito e Io stadia intermedio è quello contemplativo e filosofico: Io attestano numerose tradizioni, bibliche ed extrabibliche. La seconda parte (Oratio, §§ 25-31 P) è brevissima 62 ed espone due punti del metodo di Pico: per "conseguire pienamente" la filosofia, che egli "persegue ardentemente", due case sono soprattutto importanti: la conoscenza integrale delle fonti, e la pratica della disputa, in cui anche "essere vinti è un guadagno". 2) Il seconda momento della storia della redazione del Discorso - nella mia congettura - consiste nell'aggiunta di un'apo-

61 Debbo a Franco Bacchelli, che ringrazio moltissimo, l'importante segnalazione che la copia dell'Oratio contenuta nel ms. Palatino 885 sarebbe di mano di Giovanni Nesi, l'autore dell'Oraculum de nova saeculo (1497), pronunciato dall'oltretomba da Giovanni Pico. Su questo "familiare di Marsilio Ficino e devoto di Frate Girolamo" cfr. C. Vasoli, che appunto cosi lo definisce (p. 68) nel saggio Giovanni Nesi tra Donato Acciaiuoli e Girolamo Savonarola, in Idem, I miti e gli astri, Napoli 1977, pp. 51-128 (con l'edizione dell'Oraculum alle pp. 110 sgg.) . Su Nesi, cfr. anche P.D. Walker, The Ancient Theology. Studies in Christian Platonism {rom the Fifteenth to the Eighteenth Century, London 1972, pp. 51 -58. In una singolare fusione tra profetismo ed ermetismo, l'Oraculum esalta in Savonarola, per bocca di Giovanni Pico, la compiuta realizzazione di un ideale gnostico-profetico, il cui massimo prototipo per Nesi era stato appunto Giovanni Pico, in particolare con la sua Oratio. In un primo confronto tra Oratio e Oraculum l'attenzione si sofferma soprattutto sul ritratto di Savonarola, detentore della "multiplex philosophia", sino alla "theologia domina", in cima alla scala di Giacobbe (Oraculum, 40 v.-41 r.; ed. Vasoli, cit., p. 114; "multiplex philosophia" anche in 73 r., ed. Vasoli cit., p . 126: cfr. Oratio, §§ 17-18 R) e sul Cristo "tam benigne vocantem" (73 r., ed. Vasoli, cit., p. 126; cfr. Oratio, § 18 R: "Tarn blande vocati, tam benigniter invitati", con lo stesso riferimento evangelico: "Venite a me", Mt. 11,28). Non era casuale l'interesse di Nesi per l'Oratio, né che egli ne copiasse in un primo tempo una redazione sia pure imperfetta, mettendola poi da parte, per attingere, nell'Oraculum de nova saeculo, all'Oratio appena pubblicata da Giovan Francesco. 62 Circa 5.000 caratteri contro i 28 .000 in R, che è complessivamente di circa 52.000 caratteri.

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logia della filosofia e della vita contemplativa (Oratio, §§ 24-25). L'aggiunta si puà datare alla metà dell'ottobre 1486, ed è coeva alla lettera a Corneo (vedi sopra, par. 6) da cui dipende letteralmente.63 Essa riflette l'ansia di Pico dinanzi all' avvicinarsi dell'impresa romana, ansietà che si acuisce nel momento in cui Corneo lo rimprovera di avere rinunciato alla vita attiva. 3) Il terzo momento coincide con la lettera del 12 novembre a Girolamo Benivieni (vedi sopra, par. 9) in cui Pico stesso dichiara di avere aggiunto al Discorso il brano "de pace" (Oratio, §§ 17-18). Aggiunge anche 200 tesi e arriva a 900. 4) Il quarto momento consiste nella dettagliata difesa della sua opera, con particolare riguardo all'ampio raggio delle fonti utilizzate (la magia, la cabbala ... ). Questo importante ampliamento puà risalire al periodo romano.64 La seconda parte dell'Oratio è pronta a divenire autonoma e a trasformarsi nell'Apologia, che Pico scrive rapidamente, attingendo appunto all'Oratio, e pubblica nel maggio 1487: l'unica parte dell'Oratio, si potrebbe dire, che egli abbia provveduto personalmente a pubblicare. È un importante riscontro, insieme con P, della fondamentale attendibilità di R. 65

63 A Corneo: "Exitialis haec illa est et monstrosa persuasio, quae hominum mentes invasit, aut non esse philosophiae studia viris principibus attingenda, aut summis labiis ad pompam potius ingenii, quam animi cultum vel ociose etiam delibanda. Omnino illud Neoptolemi habent pro decreto, aut ni! philosophandum, aut paucis [ ... ] ergo vicio alicui vertetur, et virtutem ipsam virtutis gratia, ni! extra eam quaerens perpetuo affectet et prosequatur quod divina mysteria, naturae consilia perscrutans, hoc perfruatur ocio, caeterarum rerum despector et negligens, quando illa possunt sectatorum suorum vota satis implere. Ergo illiberalem aut non omnino principis erit non mercenarium facere studium sapientiae. Quis aequo animo haec aut ferat aut audiat?": G. Pico, Opera omnia, cit., p. 377. Da confrontare con Oratio (§ 24 R): "Ita invasit fere omnium mentes exitialis haec et monstrosa persuasio, aut nihil aut paucis philosophandum. Quasi rerum causas, naturae vias, universi rationem, Dei consilia, caelorum terraeque mysteria, pre oculis, pre manibus exploratissima habere nihil sit prorsus, nisi vel gratiam inde aucupari aliquam, vel lucrum sibi comparare possit. Ouin eo deventum est ut iam (proh dolor!) non existimentur sapientes nisi qui mercennarium faciunt studium sapientiae". Cfr. più avanti, cap. 2, par. 1.1. 64 Bausi, Nec rhetor neque philosophus, cit., p. 111 indica corne terminus a quo il 7 dicembre 1486, la pubblicazione delle Tesi, e corne terminus ante quem il 20 febbraio 1487, quando fu chiaro che la disputa non si sarebbe tenuta, perché Innocenzo VIII la proibi e nomino una commissione di inchiesta. 65 Dato che è possibile confrontare R (1496) con P (1486), perla prima parte, e con A (1487) perla seconda parte, eventuali interventi redazionali minori dovuti non a Giovanni ma a Giovan Francesco Pico non si configurano a mio parere corne una fase ulteriore nella storia della redazione. Si veda più avanti, cap. 2, par. 3.3.

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13. Questa ipotesi permette anche di riconoscere i diversi significati che Pico venne attribuendo al Discorso, e di riflesso anche alle Tesi. All'origine stava la giustificazione della vocazione filosofica all'interno di una concezione mistica della dignità umana, concepita corne itinerario tripartito attestato dalle principali tradizioni; presupposti metodologici dell'impresa filosofica erano l'integrale conoscenza delle fonti, in considerazione della "immensitas" del vero, e la disponibilità alla discussione. Ma il disegno originario si venne rapidamente complicando. Da un lato, Pico venne a scorgere più chiaramente il rilievo teologico e forse ecclesiologico della sua impresa, e volle metter mano di nuovo all'Oratio per caricarla anche di questo significato (il frammento "de pace" introdotto a metà novembre). Dall'altro lato venne fatto segno molto presto a obiezioni (testimoniate dalla risposta ad Andrea Corneo, a metà ottobre), che divennero accuse pesanti dopo la pubblicazione delle Conclusiones a Roma: tutto questo imponeva di difendersi accentuando i toni della polemica ed espandendo l'Oratio con interventi apologetici. Si arriva al punto che nella primavera 1487 il nucleo originario del Discorso fu messo da parte e di esso si conserva solo quanta era funzionale all'autodifesa contro le accuse di eterodossia. Ma l'Apologia, e pure l'ultima espansione dell'Oratio, rimarranno fuori della mia trattazione, che riguarda invece proprio la ricostruzione e l'interpretazione di quel nucleo originario.

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1. Alle origini del Discorso

1. Dignità came via da campiere 1. Pico comincia il Discarsa con il riconoscimento della dignità della creatura umana. Egli ha letto nelle fonti arabe che "Abdallahprofeta Saraceno, interrogato dai suai discepali su che cosa, in questa sorta di scena del monda, scorgesse di sommamente mirabile, rispose: 'l'uomo"' 1 (Oratia, § 1 P).2 Anche le fonti ermetiche lo confermano: Asclepio dice che ''l'uomo è un grande miracolo". Dal suo punto di vista perà la dignità umana non si fonda tanto su antichi luoghi comuni (l'essere umano-microcosmo e la sua centralità nell'universo), attestati sia dalla Bibbia (Salmo 8,5), sia dai caldei ("magi" seconda P, "Persae" seconda R) perché allora non dovremmo ammirare piuttosto gli angeli? ma sul fatto che l'essere umano, non avendo fissa immagine e potendo cosi liberamente condividere l'essenza delle diverse creature, potrà alla fine attingere l'identità finale con Dio. Nella versione pichiana del racconto della creazione Dio, giunto al punto di creare l'essere umano, si trova a corto di archetipi. Ricordiamo le celebri parole con cui, seconda Pico, il Creatore si rivolge alla sua creatura: Stabili infine l'ottimo artefice che a colui cui non si poteva l'uomo, opera dall'immagine non definita, e postolo nel mezzo del mondo cosi gli parlè>: "Non ti abbiamo dato, o Adamo, una dimora certa, né un sembiante proprio, né una prerogativa peculiare, affinché tu avessi e possedessi corne desideri e corne senti la dimora, il sembiante, le prerogative che tu da te stesso avrai scelto. La natura degli altri esseri, una volta definita, è costretta entra le leggi da noi dettate. Nel tuo caso sarai tu, non costretto da alcuna limitazione, seconda il tuo arbitrio, nelle cui mani ti ho posto, a decidere su di essa. Ti ho posto in mezzo al mondo, perché di qui potessi più facilmente, guardandoti attomo, osservare quanta è nel mondo. Non ti abbiamo fatto né celeste né terreno, né mortale né immortale, perché corne libero, straordinario plasmatore e scultore di te stesso, tu ti possa foggiare da te stesso nella forma [P: notam] che avrai preferito. Potrai degenerare negli esseri inferiori, che sono i bruti; potrai rigenerarti, seconda la tua decisione, negli esseri superiori, che sono divini". (§ 5)

2. Occorre anzitutto parlare delle fonti del Discorso. A proposito di fonti di fonti, mi riferisco qui a quanto sta a fondamento del pensiero pichiano nel Discorso, non alle innumerevoli autorità di ogni tradizione cui Pico si riferisce, con una selva di allusioni e di figure che stentiamo a decifrare.3 Pico di pende essenzialmente da tre fonti: Genesi, Simposio, e Dionigi Areopagita. La scena originaria, nel Discorso, è costruita mettendo insieme tre immagini, il giardino dell'Eden, il giardino di Zeus, e il paradiso degli angeli.4 Ecco anzitutto il giardino dell'Eden, seconda Gen . 2. Il racconto biblico è ovviamente essenziale nel Discorso, nonostante innumerevoli e profondi rimaneggiamenti. È biblica la sequenza degli atti creativi che pongono Adamo al centro di una creazione già compiuta, anche se lo svolgersi del procedimento creativo è diverso dal racconto biblico in sei giorni. La creazione qui avviene dall'alto in basso : la zona sopraceleste, gli astri animati, gli animali sulla terra, l'essere umano. È biblica l'idea di un discorso di Dio alla nuova creatura, ma i contenuti sono assai diversi: non la proibizione di accedere al1' albero della conoscenza, ma l'invita a orientare il desiderio, la

3 Ciè> vale anzitutto perle fonti caldaiche, corne quella citata in Oratio, § 9: P reca una scritta in caratteri che sono stati riconosciuti corne etiopici che trascrivono l'ararnaico, R reca un vuoto, nelle versioni cinquecentesche l'ararnaico è ricostruito per retroversione. 4 Sviluppo qui il rnio saggio 1 tre giardini nella scena paradisiaca del De horninis dignitate di Pico della Miranda/a, in "Annali di Storia dell'Esegesi", 13/2 (1996), pp. 551-564.

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conoscenza e l'essere intero verso la meta più alta. In questo, e non nell' obbedienza, consiste la vocazione umana. È corne se il discorso divino tenesse canto, positivamente, di Gen. 3,21 : "Ecco l'uomo è diventato corne uno di noi, perla conoscenza del bene e del male" . È biblico il tema dell'immagine, ma l'uomo in Pico non è creato a immagine di Dio: è "opus indiscretae imaginis", 5 non ha immagine predefinita (cfr. poco più avanti: "non esse homini suam ullam et nativam imaginem"). Ed è biblica l'idea della sovranità sulla creazione, espressa anche, in Gen. 2, con la facoltà di attribuire un nome alle creature. Nell'idea di dominio sulla creazione, molto importante nel De dignitate et excellentia hominis di Giannozzo Manetti e in Marsilio Ficino, 6 G. Gentile vedeva l'origine del concetto diregnum hominis .7 In Pico l'idea del dominio esiste, nel senso che la creatura umana con il suo sguardo domina le cose, e anzi puo diventare cio che vuole, corne micracosmo che contiene in sé i principi, le ragioni seminali di ogni essere. Ma il suo fine non è principalmente questo; il suo fine è di trascendere ogni principio (vegetale, animale, razionale, intellettuale) sino all'unione mistica con la divinità, che egli ritrava al centra del suo cosmo interiore, attraverso lo spirito (Plotino: "con il nostra centra ci mettiamo in contatto con il centra di tutto"; Enneadi, VI, 9, 8, 20, tr. G. Faggin). E solo dopa di tutto questo potrà essere veramente sopra il dominio del creato: E se, non contento della sorte di nessuna creatura, si raccoglierà nel centro della sua unità, fattosi uno spirito solo con Dio, nella solitaria caligine del Padre, colui che è collocato sopra tutte le cose su tutte primeggerà. (§ 6)

La dignità umana non consiste anzitutto nel dominio orizzontale sul cosmo da parte dell'uomo corne micracosmo (idea che pure è ben presente nello stesso Discorso ): c'è qui una nota polemica contra Marsilio Ficino e la sua apologia della dignità

5 La versione di E . Garin non coglie questo importante aspetto, traducendo "imago" con "natura". Su "indiscretus", cfr. ora M.J.B. Allen, Giovanni Pico, Marsilio Ficino and the Idea of Man, in Giovanni Pico della Mirandola. Convegno intemazionale ne[ cinquecentesimo anniversario della morte (1494-1994), Firenze 1997, I, pp. 177 sgg.; secondo Allen "indiscretus" va ricondotto all'àpeiron del Filebo. 6 Cfr. C. Trinkaus, Marsilio Ficino and the Jdeal of Human Autonomy, in AA.W., Marsilio Ficino e il ritomo di Platane, Firenze 1986, pp. 197-210. 7 Cfr. G. Gentile, il concetto dell'uomo nel Rinascimento (1916), in Idem, Giordano Bruno e il pensiero del Rinascimento, Firenze 1991, p. 66.

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umana. Tale infatti era stata la sua recente Theologia platonica, del 1482. Quando tanto nel proemio quanto nel corso del libro 1 aveva insistito sull'ascesa cui il "divino Platane" invita, dal cor· po sino a Dio, la prospettiva di Ficino era soprattutto quella della dignità umana corne immortalità dell'anima, posta in mezzo tra corpo e qualità da un lato, l'angelo e Dio dall'altro. 8 L'accento di Pico è diverso. La dignità umana non consiste primariamente nella centralità umana, non consiste nel dominio sulla creazione e non consiste neppure (corne viene comunemente affermato dagli studiosi) nella libertà corne tale. Consiste certo nella libertà, ma questa puà-deve attuarsi in una tensione verticale verso una meta non creaturale. 9 Per imprimere alla sua creatura una tensione che non è presente nella staticità della condizione paradisiaca biblica, Pico cambia il quadro, ed evoca un altro giardino. 3. Nel racconto pichiano il dinamismo insito nella creatura umana deriva la sua forza e qualità peculiare dall'influsso diretto di una fonte platonica, il Simposio. Singolarmente, mentre è stata notata la presenza del mito di Epimeteo (Protagora, 321cd), la sostanziale e precisa influenza del Simposio (interpretato da Ficino nel suo De a more, e dallo stesso Pico nel Commenta, del medesimo anno 1486) sembra sfuggita a precedenti analisi, per quel che ne so. È noto il racconto seconda cui Eros fu concepito da Péros (risorsa) e Penfa (povertà) il giorno della nascita di Afrodite, nel giardino di Zeus. Per questo Eros ha una natura carente, intermedia tra ignoranza e sapienza e sempre alla ricerca di questa (Simposio, 203d-204c). Non è inopportuno ricordare corne già Origene vedesse in questo mito un riflesso del racconto genesiaco. Nello scritto Contra Celso (IV, 39) egli replica a Celso che "volge in commedia la storia del serpente" e la ritiene "una leggenda corne quelle che si raccontano alle vecchiette". Ma, che vale anche per Socrate). Questa certezza permea le pagine sulla pace (Oratio, §§ 17-18 R), ma qualcosa del genere si intravvede anche nella lettera a Corneo: Partiro prossimamente per Roma e vi passero l'inverno, a meno che un avvenimento improvviso o una nuova sorte non mi portino altrove. Di là potrai forse sentire i progressi che il tuo Pico nella sua vita umbratile, di artigiano solitario, ha fatto con la contemplazione. 3

La lettera a Corneo (senza le ultime espressioni baldanzose) veniva tradotta in inglese da Thomas More intorno al 1510. More, tra gli ultimi umanisti l'unico dedito alla vita attiva, 4 era affascinato da Pico e dalla completezza del modello di vita che emergeva dalle sue opere, e che la sua stessa biografia pareva confermare.5 3 "Romam prope diem proficiscar inibi hyematurus, nisi vel repens casus vel nova intercidens fortuna alio me traxerit. Inde fortasse audies quid tuus Picus in vita umbratili et sellularia contemplando profecerit": ivi, p. 378. 4 Cfr. L. Valcke, Trois humanistes face à la cité: Jean Pic de la Mirandole, Thomas More, Erasme de Rotterdam, in Aequitas, aequalitas, auctoritas, a cura di D. Letocha, Paris 1992, pp. 9-32. 5 Thomas More traduce la vita scritta da Giovan Francesco, tre lettere, l'interpretazione del Salmo e altri scritti religiosi minori: Here is conteyned the lyfe

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3. In conclusione, il brano a difesa della filosofia, che viene ad ampliare l'Oratio contemporaneamente alla lettera ad Andrea Corneo, aggiunge al testo una tonalità polemica che originariamente non conteneva, trasformando la seconda condizione metodologica della redazione P: la figura di Socrate viene evocata a prefigurare la vocazione filosofica, non priva di rilevanza civile, e la vicenda stessa dell'autore del Discorso. Al modello ternario di sviluppo spirituale - disciplina morale, espansione intellettuale, unione mistica - viene accostato uno schema diverso, più semplice e comune, che contrappone vita contemplativa e vita attiva. 2. La pace

1. Come si ricorderà, Pico stesso nella lettera a Girolamo Benivieni del 12 novembre 1486 spiega corne egli abbia aggiunto un brano ispirato alla lettura del Vangelo: Essendomi proposto che non passasse giorno senza leggere qualcosa dell'insegnamento evangelico, il giorno dopo la tua partenza mi cadde dinanzi quel che Cristo dice: "Vi do la mia pace, vi do la mia pace, vi lascio la pace". Subito, concitatamente, dettai alcune cose sulla pace, in lode della filosofia, e lo feci con tanta velocità da precedere e confondere la mano del segretario. Avrei voluto (lo desidero sempre ma in quel momento soprattutto lo volevo) che tu fossi con me perché potessi ascoltare benevolmente quel testo recente, corne un bambino nato appena dal grembo. (cfr. Introduzione, par. 9)

Nel testo accresciuto la meditazione sulla concordia discors (cfr. sopra, cap. 1, par. 3.3) si sviluppa in un passo la cui tonalità si fa via via più appassionata. La pace teologica va preparata dalla disciplina morale: vengono evocate le fatiche di Ercole, con l'uccisione dell'idra e del leone (la sensualità e l'ira), e il rituale antico-romano del sacrificio della scrofa per sancire un'alleanza: si stringerà allora "tra la carne e lo spirito un inviolabile patto di santissima pace". La filosofia naturale, preparata dalla dialettica, pacificherà i dissidi, ma solo la teologia potrà realizzare la pace compiuta. La discordia, o Padri, assume in noi davvero molte forme; abbiamo gravi lotte interne e peggio che guerre civili in casa nostra. Esse soof Johan Picus, Earl of Myrandula, a grete larde of Italy, with dyvers epistles and otherwerkes ofy.e. saidlohan Picus, London [1510?].

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no tali che, se noi non le vorremo e se aspireremo a quella pace che ci sollevi cosl. in alto da collocarci fra gli eletti del Signore, solamente la filosofia potrà dominarle completamente dentro di noi e sedarle. La filosofia morale, in primo luogo, se l'uomo bramerà soltanto una tregua con i suoi nemici, reprimerà le sfrenate scorrerie della bestia multiforme e la furia, la rabbia e la tracotanza del leone. Quindi, se con più avveduto consiglio vorremo per noi la sicurezza di una pace perenne, essa verrà e soddisferà generosamente i nostri desideri in quanto, uccise entrambe le bestie, quasi immolando la scrofa stabilirà fra la carne e lo spirito un inviolabile patto di santissima pace. La dialettica calmerà la ragione ansiosamente agitata fra le contraddizioni del discorso e le capziosità del sillogismo. La filosofia naturale pacificherà le liti dell'opinione e i dissidi che, da una parte e dall'altra, tormentano, sconcertano e dilacerano l'anima inquieta. Ma li acquieterà cosl. da farci ricordare che la natura, corne ha detto Eraclito, è generata dalla guerra e per questo è chiamata da Omero "contesa". In essa, percio, non si danno a noi vera quiete e stabile pace, che sono invece dono e privilegio della sua signora, la santissima teologia. Essa, mostrandoci la via che a questa conduce, ci accompagnerà da lei che, vedendoci da lontano affannati, griderà: "Venite a me, voi che siete affaticati; venite e io vi ristorero; venite a me e io vi daro la pace che il mondo e la natura non possono darvi". (§ 17 R)

Con una operazione esegeticamente corretta (giacché Gesù stesso si presenta corne Sapienza personificata nei Vangeli) 6 Pico trasforma le parole evangeliche (Mt. 11,28 e Gv. 14,27) in un appello della Teologia - la conoscenza divina personificata, meta ultima dell'ascesa iniziatica - che chiama alla pace. 2. C'è qui l'amicizia pitagorica, 7 e c'è anche l'ideale di "un cuor solo e un'anima sola" della prima comunità cristiana seconda gli Atti degli apostoli, 8 che del resto si presentava corne vera attuazione dell'antico ideale comunitario filosofico, 9 e c'è l'unità mistica: 10

Cfr. dello scrivente Per un consenso etico tra culture, Genova 1995, pp. 41 sgg. Giamblico, Vita pitagorica, XXXIII,§§ 229-240. 8 C'è un mio studio sulla enorme ricezione di alcuni passi di Atti nella chiesa antica: Chiesa primitiva. L'immagine della comunità delle origini (Atti 2, 42-47; 4,32-37) nella storia della chiesa antica, Brescia 1974. Il tema affascina anche Thomas More, Utopia, ed. E. Surtz e J .H. Hexter, New Haven and London 1965, p . 218: "Christo communem suorum victum [ ... ] placuisse"; vedi anche ivi, p. 519. 9 J. Dupont, Études sur les Actes des Apôtres, Paris 1964. 1 Cfr. Fil. 4,7 Vulgata: "Pax Dei, quae exsuperat omnem sensum", e Gv. 17,11: "ut sint unum''. 6

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Chiamati con tanta dolcezza, invitati con tanta benevolenza, volando all'abbraccio della beatissima madre con piede alato corne Mercuri terreni, godremo della pace tanto desiderata. È questa la santissima pace, l'unione inseparabile, l'amicizia concorde, per cui tutte le anime in quell'unica mente che è al di sopra di ogni mente, non solo si accordano ma, in un certo modo ineffabile, si fondono intimamente in una cosa sola. (§ 18 R)

Questa pace l'autore aÙgura al suo secolo, augura a ogni casa in cui entra (Mt. 10,12), 11 augura alla propria anima, affinché divenga dimora di Dio. Questa pace Dio fa regnare in cielo tra i suoi angeli, che l'annunciarono in terra alla nascita del Messia (Le. 2,14), affinché gli uomini di buona volontà potessero divenire angeli. 3. La scena finale del passo raffigura le nozze dell' anima con Dio: dell'anima che purificatasi con la morale e la dialettica, decorata di variegata filosofia, 12 salita sino al vertice della teologia, si unisce e si fonde con lo sposo divino, dimenticando e quasi morendo a se stessa (sfilano dinanzi agli occhi immagini ricavate dal Salmo 44,11-14 Vulgata): 13 se poi questa è morte, e non invece vita, giacché "preziosa è al cospetto del Signore la morte dei suoi santi" (Salmo 115,15 Vulgata), corne ben mostra anche l'atteggiamento di Socrate dinanzi alla morte, soprattutto nel Fedone (cfr. soprattutto 60a). E se la nostra anima si mostrerà degna di tanto ospite - immensa è la bontà di lui - vestita di oro corne di manto nuziale e circondata dalla molteplice varietà delle scienze, accoglierà il bellissimo ospite non più corne ospite, ma corne sposo; e per non essere mai separata da lui, desidererà separarsi dal suo popolo e, dimentica della casa del padre, e persino di se stessa, vorrà morire a se stessa per vivere nello sposo, al cui cospetto preziosa, certo, è la morte dei santi, morte, dico, se morte puè> chiamarsi quella pienezza di vita nella cui meditazione i sapienti fecero consistere l'esercizio della filosofia. (§ 19 R) È anche un saluto francescano; cfr. le due Regole, I, 14 e II, 3. Si spiega corne allusione al Salmo 44,14 ("circumamicta varietatibus"); vedi la nota seguente. 13 Che suona: "Audi, filia, et vida et inclina aurem tuam: et obliviscere populum tuum et domum patris tui; et concupiscet rex decorem tuum, quoniam ipse est Dominus tuus [ ... ] Omnis gloria eius filiae regis ab intus, in fimbriis aureis circumamicta varietatibus". "Investi variegate", cosi la versione CE! traduce l'ebraico lirqamôt (traduzione dei LXX: pepoikilméne). 11

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Sullo sfondo è giusto la "morte di bacio" . Pico ricorda nel Commenta il binsica di cui parlano i cabbalisti, a proposito del Cantico dei cantici, "Baciami co' baci della bocca tua" (Cant. 1, 1). Qui, diceva Girolamo Benivieni, arde morendo el cor, ardendo cresce

e Pico ripete: "el core nello amoroso foco ardendo more e per tal morte cresce a più sublime vita" . 14 4. Pico si rendeva sempre più conto del rilievo religioso della sua proposta: se infatti al centro stava la filosofia, il contesto, il quadro dinamico in cui era posta, corne si è visto, era quello di un itinerario spirituale con un esito mistico. Sempre più chiaramente Pico doveva prospettarsi una udienza in cui l' elemento ecclesiastico avrebbe avuto il massimo rilievo. Albano Biondi si domandava, al termine della bella introduzione alla sua traduzione delle Conclusiones: Che cosa si proponeva di concreto Giovanni Pico, intendo oltre l'affermazione della dignità della filosofia, nel presentare a papa e cardinali il suo diorama di posizioni filosofiche e teologiche da comporre in generale concordia? Nutriva speranza che si valutassero con la debita gravità la sua diagnosi dell'esaurimento, o quanta meno della stato di torpore della pratica filosofica e teologica vigente, aprendosi alle nuove proposte? Le Conclusiones avevano indubbiamente il carattere di un progetto, che comportava ampliamento di prospettive, anche se ci limitiamo alla sala constatazione che si immettevano nel dibattito autori nuovi, testi che erano fuori del percorso tradizionale del discorso filosofico-teologico dei cattolici. Ma c'era molto di più: c'era la convinzione - che gli orecchi o i cuori più sensibili dovevano percepire - che l'incontro tra le religioni o le posizioni filosofiche doveva avvenire a livello di devozionalità mistica, attribuire in proprio all'uomo e a Dio, sarebbe attività non contemplatrice, bensl creatrice, realizzatrice dell'essere della sostanza ('perfectionem totius substantiae'): Io spirito insomma; concepito non più secondo l'intellettualismo greco, per cui la mente ha la realtà contro di sé; ma secondo l'idealismo cristiano, per il quale la vera realtà è opera dello stesso spirito": Gentile, Giordano Bruno e il pensiero del Rinascimento, cit., p. 30.

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avendola Dio disposta cosi, genera nell'universo una bellezza [decorem] degna di ammirazione"; e anche Weil: "Ogni religione è l'unica vera [ ...]allo stesso modo ogni paesaggio, ogni poesia, ecc. è l'unico bello". Qui il riferimento alla bellezza è decisivo: non la bellezza in sé dell'archetipo celeste, cui si riferisce Timea 28a (che la Weil commenta), 22 ma la variegata bellezza che esiste solo nella pluralità degli stili e delle culture. Forse solo la formulazione in termini di bellezza cosi intesa rende la differenza perfettamente accettabile e affabile. Contenendo e temperando in se stessa il conflitto, corne "arnica inimicizia e concorde discordia" (vedi sopra, cap. 1, par. 3.3), la bellezza sarebbe allora il contrario di quella "forza" che la Weil detestava, 23 e la cui assenza, corne si è visto, si è rimproverata all'Italia del Cinquecento (e non solo): "letterati e non uomini interi". La difficile prospettiva di un universalismo non monistico e non sincretistico comincia a illuminarsi quando si parla della bellezza unica e variegata, che ognuno (singolù, comunità) potrebbe perseguire.

22 "Quando l'Artefice di qualsivoglia cosa, guardando a cio che è, e servendosene corne esemplare, ne porta in atto l'idea e la potenza, è necessario che in questo modo riesca tutta quanta bella" (cfr. sopra, nota 14). 23 Cfr. anche N. Ginzburg: "Eppure deve esistere la possibilità di una forza che rifiuta il potere [...] di una forza che conserva il ricordo delle persecuzioni viste e subite, e detesta la forza sopra ogni cosa", in È difficile parlare di sé, a cura di C. Garboli e L. Ginzburg, Torino 1999, p . 239.

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Testo latino dell'Oratio, traduzione italiana a fronte e sinossi a cura di Saverio Marchignoli

Avvertenza del curatore

l. Sigle: R è la prima edizione a stampa dell'Oratio, compresa nel primo volume delle opere di Pico uscito a Bologna - a cura del nipote Giovan Francesco Pico - nel 1496 presso Benedetto Faelli. Si è consultato l'esemplare conservato presso la Biblioteca Universitaria di Bologna. P è l'unico manoscritto conosciuto che riporti, parzialmente e con importanti differenze rispetto a R, I'Oratio; di mano anonima, esso è contenuto nel codice miscellaneo Palatino 885 (cc. 143-153), conservato presso la Biblioteca Nazionale di Firenze. Esso fu scoperto e pubblicato da Eugenio Garin. A è l'edizione, fatta stampare dallo stesso Pico, dell'Apologia (Napoli, presso Francesco Del Tuppo, 1487). Si è consultato l'esemplare conservato presso la Biblioteca Estense di Modena: esso reca anche alcune correzioni a margine che si è ritenuto di di difficile lettura (si potrebbe pensare alla sequenza '-l-r-'-g-w-?-l, ossia forse al-ragul scritto da chi faccia un uso ingenuo dell'alfabèto arabo); segue, dopo uno spazio vuoto, la spiegazione id est hominem respondisse. · 5 Persae: P ha magi. 6 sibi iure: P ha iure sibi. 1

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Dis corso di Giovanni Pico della Mirandola conte di Concordia

§ l. Ho letto, molto venerabili Padri, nelle fonti degli Arabi, che Abdalla Saraceno, interrogato su che cosa, in questa sorta di scena del mondo, scorgesse di sommamente mirabile, rispose che non scorgeva nulla di più mirabile dell'uomo. Con questo detto concorda quello famoso di Mercurio: "Grande miracolo, o Asclepio, è l'uomo". § 2. A me che pensavo al senso di queste affermazioni non erano sufficienti le molte cose che da molti sono addotte circa l'eccellenza della natura umana: che l'uomo è principio di comunicazione tra le creature, familiare alle superiori, sovrano sulle inferiori; per la perspicacia dei sensi, per l'indagine razionale e per il lume dell'intelligenza è interprete della natura, interstizio tra la fissità dell'etemo e il flusso del tempo e (corne dicono i persiani) copula, anzi imeneo del mondo, rispetto agli angeli (ne dà testimonianza Davide) solo un poco inferiore. § 3. Cose grandi queste, ma non le principali, non tali cioè da consentirgli di rivendicare a buon diritto il privilegio della somma ammirazione. Perché infatti non ammirare di più gli stessi angeli e i beatissimi cori del cielo? Alla fine mi è sembrato di aver capito perché l'uomo sia tra gli esseri viventi il più felice e quindi il più degno di ammirazione, e quale sia alfine, nella concatenazione del tutto, la condizione che egli ha avuto in sorte, che non solo i bruti, ma anche gli astri, ma anche le intelligenze ultraterrene gli invidiano. Cosa incredibile e mirabile! E corne altrimenti? Giacché a causa di quella propriamente l'uomo è

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randum profecto animal iure homo et dicitur et existimatur. Sed quae nam ea sit audite, patres, et benignis auribus 7 pro vestra humanitate hanc mihi operam condonate. § 4. Jam summus 8 Pater architectus deus hanc quam videmus9 mundanam domum, divinitatis templum augustissimum, archanae legibus sapientiae fabrefecerat. Supercelestem regionem mentibus decorarat; ethereos globos aetemis animis vegetarat; excrementarias ac feculentas inferioris mundi partes 10 omnigena animalium turba complerat. Sed, opere consumato, desiderabat artifex esse aliquem qui tanti operis rationem perpenderet, pulchritudinem amaret, magnitudinem admiraretur. Jdcirco iam rebus omnibus (ut Moses Timeusque testantur) absolutis, de producendo homine postremo cogitavit. Verum nec erat in archetipis unde novam sobolem effingeret, 11 nec in thesauris quod nova filio hereditarium largiretur, 12 nec in subselliis 13 totius orbis, ubi universi contemplator iste sederet. Jam plena omnia; omnia summis, mediis infimisque ordinibus fuerant distributa. Sed non erat paternae potestatis in extrema faetura quasi effetam 14 defecisse; non erat sapientiae, consilii inopia in re necessaria fiuctuasse; non erat benefici amoris, ut qui in aliis esset divinam 15 liberalitatem laudaturus in se illam damnare cogeretur. § 5. Statuit tandem optimus opifex, ut cui dari nihil proprium poterat16 commune esset quicquid privatum singulis fuerat. Jgitur hominem accepit indiscretae opus imaginis atque in mundi positum meditullio sic est alloquutus: "Nec certam sedem, nec propriam faciem, nec mu nus ullum peculiare tibi dedimus, o Adam, ut quam sedem, quam faciem, quae mu ne ra tu te optaveris, ea, pro vota, pro tua sententia, habeas et possideas. Definita caeteris natura intra praescriptas a nabis leges cohercetur. Tu, nullis angustiis cohercitus, pro tuo arbitrio, in cuius manu te posui, tibi illam prefinies. Medium te 17 mundi posui, ut circumspiceres inde comodius quicquid est in mundo. Nec te celestem neque terrenum, neque mortalem neque immortalem fecimus, ut tui ipsius

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P omette benignis auribus .

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(R ha sumus). ha

9 videmus: P videtis. 10 inferioris mundi partes:

P ha has mundi inferioris partes. effingeret: P ha effigiet. 12 /argiretur: P ha largiatur. 13 (R ha subsellis ). 14 Cfr. Bausi, Nec rhetor neque philosophus, cit., p . 108. 15 esset divinam: P ha divinam esset. 16 P aggiunge qui ei (da accogliere secondo Bausi, Nec rhetor neque philosophus, cit., p . 104). 17 te: P ha tete. 11

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detto e stimato un grande miracolo e un meraviglioso essere animato. Ma quale essa sia udite, Padri, e con orecchio benigno, conforme alla vostra umanità, siate indulgenti verso questa mia opera. § 4. Già il sommo Padre, Dio architetto, aveva foggiato questa dimora del mondo, che noi vediamo, il tempio augustissimo della divinità, secondo le leggi della sapienza arcana. Aveva ornato con le intelligenze la regione iperurania; aveva animato i globi eterei di anime eterne; aveva riempito le parti escrementizie e sozze del mondo inferiore con una turba di animali di ogni specie. Ma, compiuta !'opera, l'artefice desiderava che vi fosse qualcuno che sapesse apprezzare il significato di tanto lavoro, che sapesse amarne la bellezza, ammirarne la grandezza. Percià, terminata ogni cosa, corne attestano Mosè e Timeo, pensà alla fine di produrre l'uomo. Ma tra gli archetipi non ce n' era alcuno per dar forma alla nuova progenie, non c'era nei tesori qualcosa da elargire in eredità al figlio, non c'era tra i seggi di tutto il mondo tacciato di temerarietà e di imprudenza. Vedete in quale difficoltà sono incappato, in che situazione mi sono cacciato, in quanto che non posso senza colpa promettere, per mia parte, ciè> che subito dopo non posso senza colpa non mantenere. Forse potrei citare quel famoso detto di Giobbe che

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ritum esse in omnibus, et cum Timotheo audire:125 "Nemo contemnat adolescentiam tuam ". Sed ex mea verius hoc conscientia dixero, nihil esse in nobis 126 magnum vel singulare; studiosum me forte et cupidum bonarum artium non inficiatus, docti tamen nomen mihi nec sumo 127 nec arrogo. Quare et quod tam grande humeris anus imposuerim, non fuit propterea quod mihi conscius nostrae infirmitatis non essem, sed quod sciebam hoc 128 genus pugnis, idest litterariis, esse peculiare quod in eis lucrum est vinci. Quo fit ut imbecillissimus quisque non detrectare modo, sed appetere ultra eas 129 iure possit et debeat. Quandoquidem qui succumbit beneficium a victore accipit, non iniuriam, quippe qui per eum et locupletior130 domum, idest131 doctior et ad futuras pugnas redit instructior. Hac 132 spe animatus, ego infirmus miles cum fortissimis omnium strenuissimisque tam gravem pugnam decernere nihil sum veritus. Quod tamen temere sit factum nec ne rectius utique de eventu pugnae quam de nostra aetate potest133 quis iudicare. § 29. Restat ut tertio loco 134 his respondeam, qui numerosa propositarum rerum multitudine offenduntur, quasi hoc eorum humeris sederet anus, et non potius hic mihi soli quantuscumque est labor, 135 esset exanclandus. Indecens profecto hoc et morosum nimis, velle alienae industriae modum ponere, et ut inquit Cicero in ea re, quae eo melior quo maia,r, mediocritatem desiderare. Omnino tam grandibus ausis erat necesse me vel succumbere vel satisfacere; si satisfacerem, non video cur quod in decem praestare quaestionibus est laudabile, in nongentis etiam praestitisse culpabile existimetur. 136 Si succumberem, habebunt ipsi, si me odeet[. ..] audire: A ha et forsan audire cum Ti.motheo. nihil [. ..]nabis: A ha nihil in nabis esse. 127 sumo (R ha summo ): A ha vendico. Dopo arrogo A ha un breve brano non 125

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parallelo. 128 hoc [. ..] vinci: il parallelismo con P riprende qui; P ha Est autem pugnis palladicis hoc peculiare, quod in eis lucrum est vinci. 129 eas: P ha illas et. 130 (R ha locupectior) . 131 idest: A ha idem (nell'esemplare modenese corretto a margine, a mano, in idest). 132 Hac [. ..] veritus: P ha Hac ego spe infirmus miles, et qui e tyronatus modo rudimentis excessi, cum fortissimis omnium strenuissimisque non decertaturus, sed vincendus descendi, nil veritus (quae est vestra excellens in omni scientiarum genere doctrina) futurum hune mihi congressum ad usum maximum. Si interrompe qui il parallelismo con P, che prosegue solo al§ 30 (vedi Sinossi). 133 potest: A ha poterat. 134 A omette tertio loco. 135 est labor: A ha labor est (nell'esemplare modenese corretto a margine, a mano, in est labor). 136 existimetur: A ha esset existimandum.

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sostiene che lo spirito esiste ed è dawero presente in tutti gli uomini, e con Timoteo ripetere: "Nessuno disprezzi la tua giovane età". Ma per parlare in coscienza potrei dire con tutta sincerità che in me non v'è nulla di grande o di singolare; pur senza negare di essere forse avido di apprendere e desideroso delle virtù, tuttavia non mi attribuisco né pretendo il titolo di dotto. A chi mi chieda corne e perchè io abbia caricato sulle mie spalle un peso tanto grande, risponderà che non fu certo perché io non fossi consapevole della mia debolezza, bensi perché sapevo che è proprio di questo genere di battaglie, quelle intellettuali, il fatto che in esse l'esser vinti sia in realtà un guadagno. Ne consegue che tutti i più deboli possono e debbono non tanto sottrarsi a tali battaglie, ma anzi a pieno diritto ricercarle. Dal momento che colui che perde riceve dal vincitore un beneficio, e non un'offesa, proprio perché - grazie ad esso - toma a casa anche più ricco di quando era partito, ossia più colto e più pronto ad intraprendere future battaglie. Animato da questa speranza io, pur essendo un debole soldato, non ho avuto nessun timore di combattere una battaglia tanto difficile contro gli awersari più forti e valorosi. E tuttavia, se cià sia stato intrapreso con sconsideratezza o meno, lo si puà giudicare più propriamente a partire dall'esito della contesa piuttosto che dalla mia età. § 29. Cià che mi resta, in terzo luogo, è rispondere a chi si sente offeso dal gran numero delle tesi che ho proposto, corne se questo peso gravasse sulle loro spalle e non fossi piuttosto solo io a dover sopportare questa fatica, per quanto grande essa sia. C'è vera insolenza e troppo puntiglio nel voler porre un limite all'operosità degli altri e, corne dice Cicerone, esigere la mediocrità in cià che tanto più è bello quanto più è grande. Dinanzi a un'impresa cosi rischiosa, era senz'altro necessario o che fossi sconfitto o che avessi successo; in caso di successo non vedo perché quello che è encomiabile compiere in dieci questioni venga giudicato colpevole se compiuto in novecento. Se poi fossi sconfitto, essi avranno di che accusarmi, se mi odiano, o di

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runt, unde accusarent, 137 si amant unde excusent. 138 Quoniam 139 in re tam gravi, tam magna, tenui ingenio, exiguaque doctrina, adolescentem hominem defecisse, venia potius dignum erit140 quam accusatione. Quin et iuxta poetam: "Si deficiunt141 vires, audacia certe laus erit: in magnis et voluisse sat est". Quod si 142 nostra aetate multi, 143 Gorgiam Leontinum imitati, non modo de nongentis sed de omnibus etiam omnium artium quaestionibus soliti sunt, non sine Laude, proponere disputationem, cur mihi non liceat, vel sine culpa, de multis quidem, sed tamen certis et determinatis disputare? § 30. At superfl.uum inquiunt hoc et ambitiosum. Ego vero non superfl.uo modo, sed necessario factum hoc a me contendo, quod et si ipsi mecum 144 philo/136v/sophandi rationem considerarent, 145 inviti etiam fateantur plane necesse est. Qui enim se cuipiam ex philosophorum familiis addixerunt, Thomae videlicet aut Scoto, qui nunc plurimum in manibus faventes possunt illi quidem vel in paucarum 146 quaestionum 147 discussione suae doctrinae periculum facere. At148 ego ita me institui, ut in nullius verba iuratus, me per omnes philosophiae magistros funderem, omnes scedas excuterem, omnes familias agnoscerem. Quare, cum mihi de illis omnibus esset dicendum, ne, si privati dogmatis defensor reliqua posthabuissem, illi viderer obstrictus, non potuerunt, etiam si pauca de singulis proponerentur, non esse plurima quae simul de omnibus afferebantur. Nec id in me quisquam damnet, quod me quocumque ferat tempestas deferar149 hospes. Fuit enim 150 cum ab antiquis omnibus hoc observatum,1 51 ut omne scriptorum genus evolventes, nullas 152 quas passent commenta137

habebunt [. .. ] accusarent: A ha erant habituri unde accusarent, si me ode-

runt. excusent: A ha excusarent. Quoniam: A ha Quando. 140 erit: A ha erat. 141 deficiunt: A ha deficiant. 142 A aggiunge qui et. 143 multi: A ha mihi. 144 et [. ..] mecum: A ha et ipsi si meam. 145 considerarent: A ha considerarint. 146 (R ha impaucarum). 147 (R ha questionum). 148 At [. ..] agnoscerem: P ha primum id fuit, in nullius verba iurare [scritto in interlinea sopra iuratum, che non è cancellato; Garin ha iuratus], sed se per omnes philosophiae magistros fundere omnes scedas excutere, omnes familias agnoscere. 149 deferar: A ha devehar. 15o enim: P ha autem. 151 hoc observatum: P observatum hoc. 152 p aggiunge qui prorsus. 138 139

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che scusarmi, se mi amano. Infatti, che sia stato un giovane, per debolezza d'ingegno e scarsa dottrina, a soccombere in un'impresa cosi importante e cosi grande, sarà un fatto degno di perdono piuttosto che di accusa. E anzi, corne , fu osservato da tutti gli antichi e soprattutto da Aristotele, che per questa ragione fu chiamato da Platane àvayvû:JcrT11c;, ossia lettore, ed è davvero segno di chiusura mentale confinarsi all'interno di una sola scuola, sia essa il Portico o l'Accademia. E non puè> scegliere la propria scuola fra tutte quante senza sbagliare chi non le abbia prima conosciute tutte da vicino. Per di più in ciascuna scuola c'è qualche cosa di peculiare, che essa non ha in comune con le altre. § 31 . E ora, per cominciare