Piccolo manuale del giornalismo. Che cos’è, come si fa 9788842089476

Il termine "giornalismo" indica azioni diverse: il racconto di un fatto, il commento, una foto, un filmato, un

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Piccolo manuale del giornalismo. Che cos’è, come si fa
 9788842089476

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Libri del Tempo Laterza 433

TEMI DELLA COMUNICAZIONE Serie diretta da Paolo Mancini

VOLUMI PUBBLICATI

Modelli di giornalismo. Mass media e politica nelle democrazie occidentali di Daniel C. Hallin e Paolo Mancini

Il sondaggio di Paolo Natale

Mass media e discussione pubblica. Le teorie dell’agenda setting di Rolando Marini

Comunicazione interculturale. Il punto di vista psicologico-sociale di Angelica Mucchi Faina

La comunicazione delle pubbliche amministrazioni di Graziella Priulla

Vittorio Roidi

Piccolo manuale del giornalismo Che cos’è, come si fa

Editori Laterza

© 2009, Gius. Laterza & Figli Prima edizione 2009

Proprietà letteraria riservata Gius. Laterza & Figli Spa, Roma-Bari Finito di stampare nel luglio 2009 SEDIT - Bari (Italy) per conto della Gius. Laterza & Figli Spa ISBN 978-88-420-8947-6

È vietata la riproduzione, anche parziale, con qualsiasi mezzo effettuata, compresa la fotocopia, anche ad uso interno o didattico. Per la legge italiana la fotocopia è lecita solo per uso personale purché non danneggi l’autore. Quindi ogni fotocopia che eviti l’acquisto di un libro è illecita e minaccia la sopravvivenza di un modo di trasmettere la conoscenza. Chi fotocopia un libro, chi mette a disposizione i mezzi per fotocopiare, chi comunque favorisce questa pratica commette un furto e opera ai danni della cultura.

Introduzione

Il diluvio delle notizie, la possibile scomparsa dei quotidiani, il trionfo della tv, la frenesia del telefono e delle comunicazioni via Internet. Sono i temi che caratterizzano il dibattito sull’informazione, affannoso, contraddittorio, spesso accompagnato da una buona dose di pessimismo. Come se, per forza, le trasformazioni debbano preludere a una fase di polverizzazione delle notizie, a schiere di disoccupati, a un basso livello di professionalità. E se fossimo alla vigilia di una rinascita, anziché di un giorno luttuoso? Quale che sia il punto di partenza dei protagonisti dell’analisi, con in testa catastrofisti o utopisti, sembra evidente che essi debbano prendere le mosse dall’esame del giornalismo che abbiamo alle spalle, con le sue caratteristiche e le sue tecniche. Per poi vedere se siano valide ancora, nelle condizioni dell’oggi e in quelle di domani. I giornalismi diversi, dunque, e le differenti modalità della raccolta e della diffusione delle informazioni. In attesa che l’eruzione del vulcano Internet compia la propria opera, di distruzione e di riassestamento del globo, questo libro punta l’obiettivo sulle figure del giornalismo: il cronista, l’inviato, l’opinionista, il fotoreporter, il grafico, il direttore, il free lance. E sulle operazioni attraverso le quali ciascuno di costoro svolge il proprio lavoro, spesso confuso con altri protagonisti della comunicazione: un cantante, un presentatore, un disegnatore, un programmista, un regista. Nel campo delle professioni, è relativamente semplice illustrare la natura e l’oggetto del lavoro di un avvocato, di un ingegnere, di un medico, attività ben delineate, anche se costoro hanno accanto altre figure operative (una segretaria, un geometra, un infermiere). Per il giornalista è più difficile. Con questo termine sono genericamente V

indicate azioni diverse: un articolo, un commento, una foto, un filmato, un’intervista, un titolo, una pagina di giornale, un talk show, una vignetta, una cartina geografica, una tabella. Materiali non omogenei. Alcuni (un titolo, una foto) sono chiaramente intesi come giornalistici. Altri lo sono meno (una cartina, una tabella). Altri ancora non lo sono affatto (un problema di scacchi, il sudoku, l’oroscopo, ma anche una poesia o una lettera). Il carattere, i connotati del lavoro giornalistico vanno dunque chiariti. Anche se la domanda prioritaria, separata dall’accertamento delle capacità del giornalista, è quella che riguarda le attese dell’utente, quel cittadino che ha diritto di essere informato – spiegano i manuali di diritto – ma che in realtà deve accontentarsi spesso di notizie fumose, superficiali, poco documentate, talora del tutto false. Ciò accade, anzitutto, perché a questa attività di raccolta e di diffusione delle notizie non è stato attribuito grande credito. In origine, i giornalisti erano considerati poco più che intellettuali da strapazzo, un po’ vanesi, ambiziosi e intriganti. Solo dopo alcuni secoli si è cominciato a pensare che la loro dovesse essere invece un’attività professionale, specialistica, seria. Un servizio al pubblico, affidabile, non il sollazzo di novellieri fantasiosi. Gli ordinamenti delle democrazie hanno compreso che l’informazione sta alla base della vita civile, poiché dalla conoscenza derivano consapevolezza e, di volta in volta, critica o consenso. Nonostante ciò l’attività dei giornalisti è ancora casuale, volontaristica, approssimativa, solo qua e là veritiera e, appunto per questo, scarsamente credibile. Il cittadino medio acquista il «Corriere» o «la Repubblica» o «il Giornale», segue il Tg1 o il Tg5, ma non riconosce loro particolare autorevolezza. Pensa che la Rai sia di parte perché sa che i suoi dirigenti sono nominati, per legge, dai partiti politici. Si domanda: «Stanno dalla parte mia, i giornalisti?». E se la loro funzione è pubblica, volta cioè alla collettività, come mai tanto spesso essi appaiono faziosi, schierati, invischiati nei meandri della politica? L’informazione è il fenomeno che meglio rappresenta la globalizzazione. Da un minuto all’altro aumenta di continuo il numero delle persone che apprendono e che lanciano informazioni. Solo venti anni fa tutto questo non era concepibile. Eppure molti pensano che una simile pioggia di notizie non renda l’individuo più consapevole, esattamente come i filosofi della scuola di Francoforte, i quali temeVI

vano che il potenziamento degli strumenti della comunicazione potesse manipolare gli uomini e renderli più succubi e deboli. Il giornalismo è al centro di questo sviluppo delle comunicazioni. Poiché in passato esso è stato un anello debole, flessibile, docile alle richieste del potere, è logico temere che anche in futuro non sarà in grado di garantire una conoscenza neutrale, profonda, utile alle libere scelte individuali. La polverizzazione dell’informazione renderà il giornalista ancora meno riconoscibile e metterà in dubbio addirittura la sua esistenza. Già oggi le notizie vengono confuse, mischiate, miscelate con l’intrattenimento e con altre forme di comunicazione. Trucchi, messaggi subliminali e altri mille marchingegni insidiano il mestiere di chi trova una ragione di vita nella ricerca e nella diffusione delle notizie. D’altra parte nelle aule universitarie dove lo studio della comunicazione viene coltivato da migliaia di giovani, pur moderni e smaliziati, il fascino del mestiere giornalistico ancora resiste, avvolto da un’aura romantica, che tuttavia è bene spazzare dal tavolo scientifico, se si vuole ragionare con rigore e capire le strade che il giornalismo in futuro potrà imboccare. Chi lo ritiene una risorsa della società civile deve considerarlo scevro da ridondanze letterarie, estetiche, magari ludiche. E impostarlo come un sostegno indispensabile alla stabilità della vita democratica. Dunque, un’attività libera, ma finalizzata al traguardo della conoscenza da parte della collettività. Se questo è il giornalismo, esso va organizzato con regole rigorose, non abbandonato nelle mani di chi ha la proprietà e il controllo degli strumenti che veicolano l’informazione. Abbiamo bisogno di notizie, come dell’acqua e del cibo. Il commercio di queste informazioni deve rispondere ai bisogni della collettività, ma in quale misura la libertà e l’indipendenza dei media – requisito primo del giornalismo – possono essere accompagnate da precetti e regole di comportamento? L’identificazione di un’etica e di una deontologia del fare notizie è una necessità, in una comunità ordinata, purché la libertà – mai compressa o coartata – si accompagni al rispetto dei diritti delle persone. Un punto di incontro, e talvolta di scontro, che l’analisi spesso propone in primo piano. v.r.

Piccolo manuale del giornalismo

Parte prima

La teoria

Natura ed evoluzione del giornalismo

1. Qualche secolo di storia Quando è nato il giornalismo? Quando sono stati inventatati i caratteri mobili, è la risposta più frequente. Vero, perché l’idea di Gutenberg (nel Quattrocento, ma sulla base di intuizioni e applicazioni più antiche) ha offerto la possibilità di registrare su carta i segni, le parole, le informazioni. E quindi di trasmetterle. Ma il giornalismo è un’altra cosa. I primi fogli furono per lo più dedicati a far conoscere le disposizioni dei signorotti, le idee e le storie dei letterati, le convinzioni dei religiosi e dei filosofi, grazie all’opera degli amanuensi. Ci vollero secoli affinché dalla stampa, come attività artigianale volta a trasmettere in modo indiretto informazioni fra un individuo e l’altro, nascesse qualcosa che fosse possibile chiamare giornalismo. Come primo quotidiano viene di solito indicato il «Daily Courant», fondato a Londra da Samuel Buckley nel 1702. La tecnologia permise ogni tanto un balzo in avanti, ma a intervalli decisamente lunghi (Briggs, Burke, 2007; Bergamini, 2006). L’Ottocento, con le sue macchine meravigliose, fece fare i salti decisivi. La linotype (1886) consentì al tipografo di mettere in fila meccanicamente, su blocchetti di piombo, i caratteri scritti dal giornalista. La rotativa (1888) rivoluzionò il settore delle macchine a stampa, grazie alle grandi bobine di carta sulle quali le pagine venivano impresse a grande velocità. E poi il telegrafo, il telefax, il telefono, la radio, la tv, il computer, la teletrasmissione e Internet, al termine (per ora) di una cavalcata che chiamiamo storia dell’informazione. E che negli ultimi decenni si è sviluppata a grande velocità. 5

Lo sviluppo del giornalismo vero e proprio va ovviamente tenuto distinto da ciò che attiene ai libri, alla più generale pubblicistica, all’intrattenimento, all’insegnamento, alle molteplici attività attraverso le quali gli individui comunicano fra loro. Per capire e circoscrivere il giornalismo occorre individuare più strettamente il suo carattere e le sue modalità. Le invenzioni tecnologiche hanno segnato, ciascuna, modi nuovi di fornire notizie, di realizzare articoli, titoli, foto, pagine, servizi audio, video e web. Modi e opportunità che si sono di volta in volta aggiunti e affiancati ai precedenti, ma non gli hanno mai soppiantati. La storia del giornalismo somiglia a quella dei mezzi di trasporto, nella quale continuano a coesistere il cavallo e il razzo interplanetario. Ogni nuovo strumento ha comportato ovviamente opportunità e tecniche prima inesistenti. Il telegrafo, ad esempio, ha costretto i giornalisti di agenzia ad «attaccare» i propri pezzi con le famose «cinque W», per sfruttare nel minor numero di parole possibile i brevi dispacci che inviavano ai giornali. Prima di allora un articolo, dovendo arrivare in redazione per posta, con un treno o un piroscafo, veniva pubblicato molti giorni dopo essere stato scritto. L’incipit del pezzo non era così importante. Il telegrafo rese rapida la trasmissione, ma la disponibilità di poche parole impose di cambiare la tecnica di scrittura. Altre volte sarebbe successa la stessa cosa, nella storia del giornalismo, in coincidenza con lo sfruttamento di nuove tecnologie (il telefono satellitare, il modem e tutto ciò che è derivato dai sistemi digitali). Scrivere per il web o per il display di un telefono cellulare ha una sua peculiarità. Le applicazioni della tecnologia hanno cambiato la comunicazione, come tante altre attività umane. Ma la capacità di trasmettere qualcosa che potesse essere definito notizia è dipesa, oltre che dalla tecnologia, da una più complessa evoluzione culturale e dalle modifiche del sistema economico. I primi fogli riprodotti in poche centinaia di copie servivano a informare sui commerci, sui traffici, sugli affari. Riguardavano i mercati, i finanzieri, gli esportatori e gli importatori, i signori, i politici. Non contenevano notizie per il grande pubblico. Il giornalismo moderno nacque attorno al 1830, con la penny press; erano quotidiani molto popolari che potevano essere acquistati sborsando un solo penny, contro i sei degli altri giornali. Lì avven6

ne la rivoluzione, iniziata dal «Sun» e da James Gordon Bennett, che può essere considerato il primo vero editore. Fondatore e direttore del «New York Herald», capì che il suo giornale poteva rivolgersi a un pubblico molto più vasto. Non solo politicanti e affaristi, ma gente comune interessata a conoscere fatti di ogni genere e a pagare qualcosa per essere informata. Un penny era sufficiente. Da operazione di élite, il giornalismo diveniva fenomeno popolare, perché il pubblico era curioso, assetato di informazioni. La diffusione delle notizie prese rilievo commerciale. Si propose come un affare. Piccoli e poi grandi capitali vennero impiegati in questa attività. Dietro simili imprese si scorgevano altri obiettivi. Non solo guadagnare soldi, ma far vincere un’idea politica, condizionare i governanti, utilizzare i giornali per ottenere il consenso. Già all’alba del giornalismo si comprese che quei fogli potevano essere ottimi strumenti di propaganda. E infatti gli uomini del potere tentarono sempre di appropriarsene o almeno di indirizzarli, di comprarli o di chiuderli, di persuadere o costringere sia i proprietari sia i giornalisti. Spesso li assoggettarono ai propri voleri. Gli ordinamenti giuridici liberali posero la libertà di stampa in testa alla classifica dei diritti individuali e la difesero strenuamente. Essa rappresentava il primo baluardo contro l’autoritarismo, la vera garanzia degli esseri umani contro i soprusi e le prepotenze. Lo proclamarono i francesi nel 1789; gli americani nella loro Costituzione del 1791; ma anche lo Statuto albertino («La stampa sarà libera, ma una legge ne reprime gli abusi»); l’Editto sulla stampa, del 26 marzo 1848, e poi tutti i trattati internazionali, fino a quello di Nizza del 2000, al Trattato istitutivo della Costituzione europea, alle risoluzioni del Consiglio d’Europa. Libera stampa come primo dei diritti. Alcuni ordinamenti lo ritengono naturale, cioè diritto insito nella natura dell’uomo. Altri pensano che esso scaturisca dalle leggi. Il giornalismo, figlio di una curiosità ed esigenza individuale, divenne ben presto una vera e propria attività di tipo economico. La produzione di pagine inchiostrate, via via più numerose, venne considerata alla base di vere e proprie attività commerciali e, più tardi, industriali. Anche se la spinta etica e sociale era scarsa, o infinitesimale. L’importanza sociale delle informazioni, come fattore di crescita e di consapevolezza degli individui, era nelle coscienze di poche persone. Il giornalismo, attività letteraria e pseudo politica, passione affascinante e in qualche caso ardimentosa, fu visto come fon7

te di possibile reddito, che divenne cospicuo quando agli introiti provenienti dall’edicola si aggiunsero quelli della pubblicità. Nella sua Storia del giornalismo italiano (1996) Paolo Murialdi indica in Attilio Manzoni il «pioniere della pubblicità». Fu colui che, già prima del 1870, creò la prima concessionaria, incaricata di fare da tramite fra gli inserzionisti e i giornali. La Manzoni è ancora oggi protagonista sulla scena dell’industria giornalistica. Il suo fondatore, che per primo inserì le necrologie nelle pagine dei quotidiani, riuscì ad arricchirsi con l’elenco delle persone morte. L’ultima parte dell’Ottocento fu caratterizzata da una grande fioritura giornalistica, che il fascismo poi soffocò nel tentativo di ostacolare e asservire le idee e le notizie libere. Il giornalismo tornò a esplodere dopo la nascita della Repubblica. Fu allora che all’interno delle aziende si crearono le condizioni perché da antiche forme artigianali – che caratterizzavano il lavoro sia dei «poligrafici» sia dei giornalisti – si passasse a più moderne organizzazioni industriali. Le trasformazioni furono vistose. Un giro di boa significativo, nella storia dei quotidiani e nell’evoluzione della grafica, fu rappresentato negli anni Cinquanta dal «Giorno», che innovò profondamente nell’impaginazione e nel modo di offrire le notizie. Le nuove idee contagiarono gli altri quotidiani italiani, che cominciarono a farsi una più robusta concorrenza. La diffusione dei quotidiani, tuttavia, non raggiunse mai il successo e il consolidamento che molti si attendevano. In Italia, la vendita giornaliera delle copie stampate è sempre rimasta bassa rispetto ad altre nazioni (dove i giornali del mattino sono venduti in abbonamento e consegnati dal postino). L’indice di lettura non è cresciuto a sufficienza, soprattutto nelle regioni meridionali. Più vivace è stata la diffusione dei rotocalchi, a carattere popolare, portatori di un giornalismo voyeuristico e impiccione, fatto di storie umane e pettegolezzi. Lo stesso che nei paesi anglosassoni aveva formato una precisa sezione della stampa quotidiana, in cerca di scandali, di particolari della vita privata, di personaggi veri e fasulli. La seconda metà del Novecento fu l’epoca che vide apparire due grandi novità: la televisione e il computer, protagonisti in modi diversi di una trasformazione profonda della comunicazione e della cultura. La tv, a partire dal 1954, ha trasformato la società italiana più di quanto avessero fatto le guerre, le crisi sociali, le scoperte scientifi8

che. Ha cambiato le abitudini, i costumi, gli interessi delle persone. Ha svolto un’opera di aggregazione, di acculturazione e, ancor prima, di informazione. Il giornalismo televisivo, prima rappresentato dal blocco monolitico della Rai, poi dal duopolio nato negli anni Settanta e seguito da una parziale liberalizzazione, ha cominciato a far conoscere le realtà sociali, le bellezze del paese, i drammi e le calamità. Il computer ha mandato in soffitta la macchina per scrivere, il piombo e la linotype; ha reso linde e asettiche le tipografie; ha sveltito la scrittura e l’allestimento delle pagine; ha velocizzato le rotative, mostri d’acciaio capaci di sfornare decine di migliaia di copie in poche ore. La fotocomposizione ha consentito ai giornalisti di inviare direttamente in pagina i propri articoli e di elaborare i menabò sul video. La teletrasmissione ha eliminato le spedizioni, effettuate per decenni con aerei, navi e furgoni. Durante gli ultimi trent’anni del Novecento, nonostante il prezzo della carta continuasse a crescere, i giornali hanno tentato di catturare i lettori stampando un più alto numero di pagine, aggiungendo fascicoli, supplementi e regali. Quotidiani sempre più simili ai settimanali, infarciti di pubblicità, hanno cercato di adeguarsi alle richieste del lettore, rimpicciolendo il formato, ma, a ben guardare, sudditi del marketing e sintonizzati sull’appeal televisivo, sono rimasti lontani dai concreti interessi del pubblico. I quotidiani sono vissuti in una specie di limbo, minaccioso e speranzoso. Alcuni, anche gloriosi, sono morti, come quelli che uscivano il pomeriggio («Paese Sera», «Stampa Sera», «Il Giornale d’Italia»), scavalcati e messi in crisi dai notiziari tv. Altri hanno stentato a restare sul mercato, hanno chiesto e ottenuto aiuti finanziari dallo Stato, sempre in cerca di un successo di cassetta che non è mai arrivato, mentre la forma e l’organizzazione artigianale lasciavano il posto a un vero sistema industriale. Le imprese tuttavia raramente incassavano profitti e la logica commerciale tutti i giorni faceva a pugni con l’etica del buon giornalismo, che pure alcuni perseguivano. All’inizio degli anni Novanta, le 80-90 testate di giornali quotidiani hanno toccato tutte insieme la vetta dei 6 milioni e 800 mila copie. Ma il sogno dei 7 milioni non si è mai avverato ed è cominciata una discesa lenta, simile a una paurosa picchiata. I settimanali hanno retto, mentre per i quotidiani è continuata l’erosione, che appare difficile se non impossibile bloccare. 9

Poi è cambiato ancora lo scenario. Nella seconda parte del secolo era sembrato che la battaglia per l’informazione dovesse essere giocata fra televisione e carta stampata, con la radio a far da terzo incomodo. La tv è apparsa sempre più padrona del campo, grazie a leggi che le consentivano di accaparrarsi fette maggioritarie della torta pubblicitaria. Invece sono arrivati Internet e la free press. E la storia della comunicazione ha avuto un sussulto, che ancora la sta squassando. Il collegamento del computer con il telefono ha rivoluzionato le tecniche di trasmissione, sia dei testi sia delle immagini. I rapporti di lavoro e le comunicazioni interpersonali hanno subito una semplificazione e un’intensificazione impensabili. Perfino i bambini dispongono di apparecchi portatili. Il pianeta è avvolto dall’intreccio di milioni di comunicazioni. I satelliti che ruotano attorno alla terra ricevono e ritrasmettono a loro volta messaggi e notizie. La rete web ha aggiunto uno strumento (alcuni lo chiamano «ambiente») grazie al quale tutti possono comunicare. Molti pensano che i giornali di carta saranno annientati dalle trasmissioni digitali e dalla possibilità di ricevere notizie sul video o sul display dell’abitazione, dell’ufficio, dell’automobile, del telefonino. Chi lavora nel giornalismo deve adeguarsi affannosamente alle innovazioni, che nei primi anni del terzo millennio appaiono tutt’altro che concluse. Sono cambiate le tecniche di scrittura, ma anche i criteri di scelta e le modalità con cui la notizia viene offerta, arricchita, completata. Altra novità, la gratuità dei piccoli tabloid stampati e distribuiti dagli strilloni, sugli autobus, nelle stazioni. Per secoli le informazioni sono state oggetto di commercio. Come i libri, anche i giornali si dovevano acquistare, erano il prodotto di un lavoro collettivo che andava remunerato dall’editore e pagato dal lettore. Quando però la pubblicità, che per decenni era stato il secondo sostegno dell’azienda giornalistica, è diventato quello principale, l’imprenditore si è accorto che del ricavato della vendita poteva addirittura fare a meno: la pubblicità pagava tutto, dell’edicola si poteva fare a meno. Come i tele e radiogiornali, anche alcuni quotidiani diventavano gratuiti. La free press, dapprima osteggiata dai grossi editori (alcuni dei quali hanno aperto proprie testate) ha poi portato uno stile nuovo. Ha favorito certamente la lettura. Sono comparsi con il giornale fra le mani (Metro, Leggo, City) alcuni milioni di italiani che prima non acquistavano informazioni su carta. 10

Una rivoluzione dietro l’altra. Si può dire che non ci sia stato anno, negli ultimi venti, in cui il mercato delle notizie non abbia visto comparire concorrenti dal volto nuovo. L’anello debole è così diventato il quotidiano. Tramonta il rito della preghiera mattutina di hegeliana memoria? Il cittadino, già sommerso a tutte le ore dalla tv, ha preso a informarsi attraverso notiziari Internet, che compaiono sul video del computer o addirittura sui telefonini, capaci di ricevere e trasmettere parole e immagini. Qualcuno ha addirittura ipotizzato la morte dei giornali stampati. Ci sono aziende editoriali che hanno già fissato il giorno in cui l’edizione del notiziario Internet cancellerà quella su carta. Il panorama attuale, pur complesso, mostra strumenti di informazione giornalistica che convivono gli uni accanto agli altri e offrono al pubblico canali di informazione di diversa natura. La radio è caratterizzata da immediatezza e volatilità; la tv affascina, ipnotizza, immobilizza, intrattiene; il quotidiano aiuta la riflessione; la rete Internet è la più disponibile, aggiornata fino all’ultimo minuto; il telefonino è compagno insostituibile. E poi i rotocalchi, le riviste, i libri. Chi voglia informarsi non ha che da scegliere, nei diversi momenti della giornata. Può alimentarsi in modi diversi: apre il frigorifero, scende al bar, sceglie la rosticceria, la pizzeria, il ristorante. Se ha fame di notizie può soddisfarla in tanti modi: può acquistare una copia del «Corriere della Sera», 72 pagine, al prezzo di un caffè; oppure accendere il computer o il televisore, sbirciare il display del telefono. Può sapere cosa è accaduto pochi minuti fa, in diversi modi. La coesistenza di tante offerte aiuta il pubblico, che negli anni è anche maturato e cresciuto culturalmente. Le «vecchie» aziende editoriali sono costrette a rimodellarsi, a impostare diversamente l’attività. Chi resisterà? Esiste un futuro per il quotidiano di carta a pagamento? Tutti i giornali americani hanno cambiato velocemente il modello di organizzazione e il rapporto fra l’edizione stampata e quella on line. Ora è questa che comanda e la redazione deve adattarsi alle sue esigenze di immediatezza e di incisività. Il giornalista ci sarà ancora fra cinquant’anni? Molti pensano che esisterà sempre un pubblico che preferirà leggere un giornale stampato, che consente maggiore riflessione, analisi, confronto fra le idee. Il buon giornalista dovrà occuparsi soprattutto di cosa offrire sugli schermi digitali dei cittadini, continuare a rispondere alle loro esigenze, produrre contemporaneamente non una ma diverse forme 11

di giornalismo. Già oggi le redazioni somigliano a immense cucine, nelle quali la notizia viene preparata, cotta e offerta con modalità e ingredienti diversi. Questa trasformazione continuerà, fino a quando il rapporto fra i diversi vettori dell’informazione si sarà stabilizzato. Solo allora sapremo in quale misura il giornale stampato sarà sopravvissuto. Forse tornerà a essere un foglio per letterati, un contenitore di informazioni per una ristretta cerchia di esperti, più o meno quello che precedette l’epoca della penny press. Mentre le notizie, più fresche e popolari, voleranno veloci sugli iPhone e sui video digitali dai quali saremo circondati. È in corso una rivoluzione, incessante, che per ora non accenna a rallentare. Da essa dipendono l’idea che gli uomini si fanno della vita e le loro abitudini. Dalle informazioni, dirette o indirette, discendono le loro azioni. Con tutti i limiti dell’agire umano. Walter Lippman, giornalista e scrittore (vinse due volte il premio Pulitzer), scrisse: «Il modo in cui il mondo viene immaginato determina in ogni momento il comportamento dell’uomo. Non determina quello che gli uomini inseguiranno, determina i loro sforzi, i loro sentimenti, le loro speranze. Ma non le conquiste ed i risultati» (Lippman, 1999). Oggi gli uomini sembrano avere necessità di conoscere più che di immaginare e, a questo scopo, lavorano i giornalisti. 2. Al cuore del giornalismo: la notizia Ma cosa elabora e distribuisce un giornalista? Cos’è una notizia? Se non si definiscono le sue caratteristiche, l’analisi del giornalismo resta confusa, indistinta nell’infinito mondo della comunicazione e delle sue variabili. Il giornalista che cosa comunica? Qual è il suo specifico, cosa lo differenzia da altri comunicatori? Esiste una tendenza a sottovalutare una simile questione e a non identificare il giornalismo, all’interno dell’immenso mondo in cui gli individui immettono e ricevono comunicazioni. L’ambiguità e la confusione sono evidenti, tanto più ora che la tecnologia sta polverizzando l’informazione, in entrambe le direzioni, sia attiva sia passiva. Dicono alcuni: le notizie possono arrivare in qualsiasi momento, in qualunque forma e, soprattutto, da chiunque. Non c’è bisogno di dare a questa o quella informazione l’aggettivo «giornalistica». Giornalismo è tutto quanto compare su un cosiddetto «giornale», di 12

qualsiasi natura e da chiunque prodotto. Come dire: in una sala da concerti si fa musica, non c’è bisogno di stabilire chi suona che cosa. È notizia quello che il giornale riporta, contiene, segnala. Chiunque vi accede è giornalista. Una concezione onnicomprensiva, che mescola i prodotti dell’informazione in un calderone infernale, in una melassa indistinta, o se si preferisce in un rumore incessante, in cui si esibiscono migliaia di strumentisti. Un’idea molto diffusa, che rende problematica qualsiasi analisi. In questo modo si annulla la possibilità di attribuire al giornalista un compito e una responsabilità diversi da quelli di altri comunicatori. Un cantante, un attore, un presentatore possono dare emozioni, suggestioni, o fornire conoscenze. Anche costoro, spesso, danno informazioni. Allo stesso modo un drammaturgo, un poeta e in primo luogo un romanziere o un novelliere. Cosa hanno di diverso? Molti grandi giornalisti sono stati anche ammirati scrittori e forse è sciocco tentare di tracciare, all’interno della loro attività, una linea di demarcazione fra giornalismo e altro dal giornalismo. Hemingway, Montale, Moravia, li dobbiamo passare al microscopio? Una visione che non risolve alcun problema e, anzi, ne provoca parecchi. Soprattutto in chi volesse discutere i compiti, i doveri, le responsabilità del giornalista rispetto ad altri suoi «colleghi». Un poeta non ha doveri. È sbagliato chiedergli di rispettare regole. E così un pittore, lo vogliamo obbligare forse a usare un colore, uno stile, un pennello, piuttosto che un altro? Tutta la pittura moderna ha mostrato quanto fosse importante sconvolgere le regole e sbrigliare la creatività. Anche per il giornalista è così? Anche per lui ci sembrano importanti la fantasia e il genio creativo, privi di redini e di doveri? Vogliamo il giornalista, come il poeta, libero da qualsiasi obbligo? A ben guardare, con sempre maggiore frequenza, compare da parte dei cittadini la richiesta di un’informazione intesa come servizio sociale, come attività di interesse pubblico. Un lavoro utile, perché incide sulla conoscenza, sulla maturità delle persone, sul loro discernimento. Se questo è il compito, coloro che svolgono una siffatta attività assumono più precise responsabilità. Per fare un esempio provocatorio, ma più concreto, sulla rete ammiraglia della Rai Pippo Baudo non ha gli stessi compiti di Bruno Vespa, non fa lo stesso mestiere. Se affidassimo una trasmissione ad Andrea Camilleri non potremmo equipararla a quella guidata da Giovanni Minoli. 13

Se si segue questo ragionamento si è obbligati a dare sembianze, connotati e compiti specifici al giornalista, a individuare i requisiti dell’attività giornalistica, intesa come diversa da tutte le altre. Obbligato a specificare e differenziare è il giudice, allorché si trova a esaminare l’operato, la frase, la responsabilità del singolo operatore dell’informazione. In questo senso, tutte le polemiche degli ultimi anni sulla libertà di informazione di alcuni personaggi sono state spesso viziate all’origine: Sabina Guzzanti e Daniele Luttazzi uguali a Michele Santoro? O conta il fatto che uno dei tre sia giornalista? Il reato di diffamazione può essere commesso da tutti e tre, ma Santoro non ha forse motivazioni e responsabilità differenti, anche se tutti e tre esercitano la libertà di espressione garantita dalla Costituzione? Il giudice deve valutare un comportamento, magari irrogare una pena, conteggiare l’entità di un danno. Deve stabilire, anzitutto, che mestiere faceva quel tizio, in quel momento. Per questo si parla di diritto di cronaca, cioè del diritto che appartiene solo al giornalista e che giustifica il suo racconto, rispetto a ciò che è consentito ad altri cittadini. Il magistrato deve stabilire la natura dell’attività, per poi vedere se è stata svolta lecitamente o se essa vada sanzionata. Per semplicità (e per ora) diciamo che giornalista è colui che «dà notizie» e lo fa per mestiere, non per hobby o per pura casualità. La notizia è il suo problema (Papuzzi, 1998). Egli vive con i proventi di questo lavoro. Allora, ecco che la notizia diventa il centro del discorso. Cos’è, qual è, in cosa consiste? Prima osservazione: essa non può essere confusa con il fatto, cioè con l’evento che intende raccontare. Ne è la rappresentazione, di solito successiva. Non sempre, giacché la cronaca in diretta racconta il fatto che in quel momento sta accadendo. Il giornalista radiofonico descrive a Dallas l’auto nera che porta Kennedy agonizzante, ai Mondiali di calcio la serpentina e il goal di Maradona, al Giro d’Italia gli ultimi metri di un ciclista prima di un traguardo dolomitico, riporta ciò che vede, in contemporanea con lo svolgersi dell’evento. Seconda osservazione: non c’è notizia se non in presenza di un evento che sta accadendo o è accaduto. Certo si possono analizzare anche fatti che possono o stanno per accadere. Ma la parte principale del giornalismo è quella dedicata al racconto e all’interpretazione di ciò che è già successo. Terza osservazione: alcuni fatti non divengono mai notizie. Un marito e una moglie si scambiano delle informazioni spicciole: per 14

ciascuno può essere rilevante la comunicazione data dall’altro (vado dal parrucchiere, stasera faccio tardi, il lavandino perde acqua). Così fa certo notizia, per il marito, la comunicazione da parte della moglie che è stata dall’avvocato per chiedere il divorzio. Ma alla comunità importa poco. Per questo, in senso più specifico, si può dire che sia notizia l’informazione che interessa almeno un gruppo, una collettività, se non la totalità delle persone. Si usa il termine notizia anche nei confronti di un solo individuo, soprattutto quando le conseguenze sono rilevanti (l’esame è andato male, suo figlio è morto, lei è licenziato), ma l’accezione più frequente è quella che riguarda un interesse pubblico, cioè della comunità. Ci sono notizie che coinvolgono l’umanità intera (i ghiacciai si stanno sciogliendo, è scoppiata una guerra, un uomo è sceso sulla Luna). Di esse daranno conto anche giornali e radio e tv locali, le quali normalmente si dedicheranno a informazioni che interessano comunità più ristrette (in città, «il fiume è straripato», oppure «domani mancherà l’acqua»). La diffusione locale – su una piccola porzione di territorio – indurrà a considerare fatto notiziabile anche quello minimo: il parroco è stato trasferito, è arrivato il nuovo capitano dei carabinieri. Non è neppure vero che diventino notizia i fatti non previsti o imprevedibili. Anzi, in una certa misura molte notizie rientrano nell’arco degli eventi possibili: una nevicata, un crollo, in alcuni paesi perfino un terremoto. Quando un fatto diventa notizia? Quali devono essere i requisiti del fatto affinché ciò avvenga? È il giornalista che, appreso il fatto, lo valuta e decide se inserirlo nel proprio «notiziario» o se lasciare il posto ad altri eventi. I giornalisti indubbiamente selezionano e scelgono. Loro è la responsabilità della cernita e del rilievo dato a quella notizia, in testa al tg, oppure in coda, in apertura, «di spalla» nella prima pagina, oppure in poche righe in una pagina interna. Cosa scelgono in prevalenza i giornalisti dipende dalle caratteristiche che l’editore ha voluto dare al giornale: nazionale, locale, politico, economico, dedicato alla cronaca o alla cultura o allo sport. Discende da quella che essi ritengono sia la propensione del loro pubblico (più o meno colto, politicizzato, incuriosito dai problemi sociali, dalla cronaca nera, o magari dai pettegolezzi e dalle quisquilie colorate di rosa). 15

C’è un’agenda, cioè un criterio di scelta, una classifica, all’origine delle scelte delle redazioni, sulle quali influiscono la cultura, la preparazione, le convinzioni dei redattori. Anche se alcuni eventi non sono discutibili. Se muore il papa, se il presidente del Consiglio si dimette, se due treni si scontrano, il fatto ha una propria forza, evidente. L’opera del giornalista sarà volta a stabilire come pubblicare, non certo se pubblicare. La grafica, la scrittura, la titolazione, il montaggio, le modalità secondo le quali il fatto verrà offerto al pubblico: lì compariranno la perizia e la discrezionalità del giornalista. Ma nessuno dubiterà che quel fatto sia una notizia. Il giornalista valuta i requisiti del fatto e decide se esso sia notiziabile. Nei giornali e nelle testate più grandi esiste una modalità collegiale, è la redazione che sceglie, sulla base dei propri criteri di valutazione, autonomi. Le redazioni affinano parametri che discendono dalla sensibilità e dalle capacità professionali (dei singoli e, ovviamente, in primo luogo del direttore e dei caporedattori). In ogni settore della vita c’è chi ha sbagliato mestiere. Dunque, anche i giornalisti è possibile che scelgano (e «montino», cioè mettano in rilievo) fatti che al lettore interessano poco. Cattivi giornalisti (Lenzi, 1988). Non ha torto chi pensa che se i quotidiani italiani hanno sempre venduto poche copie questo sia dipeso dalle scelte effettuate dai loro redattori. Però è vero che nei giornali le scelte e il lavoro sono «redazionali». E per questo l’analisi delle scelte è più complessa. Il singolo giornalista ha un paracadute nella valutazione del caposervizio, del caporedattore, cioè della gerarchia che sta sopra di lui. Si noti che il mestiere dell’inviato – che si trova solo, lontano, immerso in un avvenimento – non si avvale del sostegno della struttura. È più difficile e delicato di per sé. Comporta la responsabilità di decidere cosa del fatto abbia valore di notizia e cosa no. In quel momento è lui che sceglie questo o quel particolare, senza paracadute. Mentre chi lavora in redazione sa che altri conoscono i particolari del fatto e possono correggere la sua valutazione. Il gruppo professionale di un giornale, quotidiano o periodico, come di ogni testata tv o notiziario diffuso via radio o Internet, si sforza di immaginare quale sia il suo pubblico, reale e potenziale (Wolf, 1998). Le aziende editoriali studiano il mercato e i desideri dei cittadini, diffondono le statistiche e le rilevazioni fra i propri utenti (uomini, donne, giovani, anziani, intellettuali) affinché le scel16

te redazionali si avvicinino il più possibile alla sensibilità e alle attese dei destinatari delle informazioni. Proviamo ad analizzare alcuni possibili requisiti della notizia. Molti studiosi parlano di valori-notizia, ma è probabilmente più utile discutere di elementi che danno a ciascun fatto una o più valenze, in rapporto a un determinato pubblico. Tenendo conto che ciascun giornale ha una propria modalità di scelta delle informazioni (Gans, 1980). C’è anzitutto da segnalare una relatività della notizia. Come già detto, è raro trovare un fatto che abbia interesse sempre e per tutti. Più frequente è che esso coinvolga invece una collettività, più o meno grande, ma comunque limitata. Perfino un terremoto, che abbia causato migliaia di vittime, può essere considerato di non eccessiva rilevanza da un giornale locale, distribuito all’interno di una comunità che viva all’altro capo del pianeta. Perfino l’elezione o la morte del capo di una potenza mondiale possono risultare di scarso rilievo, ad esempio per una tribù primitiva che viva nella foresta amazzonica e che poco si curi di ciò che accade fuori dal proprio habitat. Esiste una relatività nello spazio (è notizia per gli abitanti di quella città e non di un’altra) e una nel tempo: una cosa interessa ora, ma fra un mese avrà perso ogni interesse (scioperano gli autisti dei trasporti pubblici: mi interessa il giorno prima e durante lo svolgimento). In Italia, alla teoria della valutazione delle notizie dedicò grande impegno il sociologo Mauro Wolf. Spesso si nota che i giornalisti danno particolare rilievo agli avvenimenti caratterizzati da un elemento di negatività. I primi a teorizzare come uno dei più importanti valori-notizia fosse il carattere negativo dell’evento furono i norvegesi Johan Galtung e Marie Holmboe Ruge (1965). Il lettore di giornale o utente tv o navigatore Internet è sensibile alle informazioni negative, sia quelle che possono avere conseguenze su di lui (tempeste meteorologiche, incendi, epidemie), sia quelle che provocano forti impressioni ed emozioni (delitti, attentati) anche in individui non particolarmente interessati alla rilevanza sociale di questi fatti. I giornalisti sono convinti che la drammaticità di alcuni fatti attiri il lettore, anche se i sociologi e gli psicologi talvolta ritengono che l’eccessiva frequenza di questi temi allontanino il lettore dagli organi di informazione. La positività. Esiste in parallelo un sentire, un’aspettativa favorevole, nei confronti di avvenimenti di natura positiva (guarigioni ina17

spettate, parti plurigemellari ecc.). Ciò è particolarmente vero in quei casi (la scoperta di un vaccino o di una nuova terapia medica) dai quali il lettore spera che possa giungere beneficio a una persona di famiglia o a un amico. L’originalità. Ci sono notizie eccezionali per il giornalista purosangue: sono quelle uniche, mai accadute prima, quasi inverosimili. Per esempio, nell’aprile 2008 i giornali italiani hanno raccontato questo fatto accaduto negli Stati Uniti: Un uomo si uccide con un colpo di pistola alla gola. Il suo cuore viene trapiantato nel corpo di un altro. Questi riesce a scoprire il nome del donatore e si invaghisce della moglie (che ha quattro figli). La convince a sposarlo. Dopo qualche anno si suicida, sparandosi un colpo alla gola.

Una storia alla quale si stenta a credere. Un esemplare unico, una vicenda irripetibile, che un giornalista non può non considerare notizia. Diciamo una notizia da museo, a parte la sua tristezza. L’eccezionalità capita di rado, ma si possono osservare diverse gradazioni di originalità. La rilevanza dei protagonisti. Un avvenimento banale, che accade di frequente, di solito non viene riportato, ma se il protagonista è persona nota il giornale ne informa il lettore. Sa infatti che molte persone si interessano ai comportamenti dei personaggi pubblici, o famosi. Se un cittadino qualsiasi si rompe un piede, non fa notizia. Se l’incidente accade a un politico o a un personaggio di spettacolo, i giornali lo riportano. Tutto il settore dei giornali popolari – nei paesi anglosassoni hanno grande successo quotidiani con queste caratteristiche, mentre da noi il gossip premia soprattutto i periodici – si basa su un simile interesse, o presunto tale. Al punto che questi organi di informazione forniscono spesso notizia di fatti del tutto ininfluenti, magari neppure accertati con rigore. C’è un grosso settore dell’editoria giornalistica che vive sul gossip e perfino testate politiche, un tempo seriose, hanno cominciato a riempire intere pagine con fatterelli personali, pettegolezzi, molti dei quali violano la privacy dei protagonisti. Notizie spesso volute o accettate dai protagonisti. I quali in tal modo si assicurano visibilità, riescono a restare sull’onda di un’effimera celebrità grazie a un’informazione che del giornalistico perde i connotati, giacché non ha alcuna utilità sociale. L’utilità pratica di un’informazione. Noi italiani le chiamiamo più 18

spesso notizie di servizio (una strada chiusa al traffico, una nuova linea tranviaria, l’effetto benefico di un farmaco o di un alimento), perché incidono sulla vita delle persone, hanno per esse una ricaduta concreta. Ci si può sbizzarrire sottolineando altri requisiti e sottospecie, ma forse è più utile ragionare sulla relatività dell’interesse che uno stesso fatto può avere per un diverso pubblico. Per esempio, la caduta di un aereo, che pure è certo un evento grave. Quando essa si verifica, non sempre viene registrata e trasmessa dai giornali, neppure quando nel bilancio ci sono dei morti. Un velivolo (magari un piccolo aereo con una-due persone a bordo) precipitato in un altro continente è probabile che non venga citato dai giornali italiani. Lo sarebbe sicuramente se fra i passeggeri figurassero degli italiani o addirittura dei cittadini della località dove il foglio è distribuito. In questo caso, anzi, il fatto sarebbe riportato con grande rilievo, perché i lettori vorrebbero controllare se conoscevano le persone coinvolte. Lo stesso aereo però farebbe notizia se la caduta fosse dovuta a un sabotaggio o a un atto terroristico, o magari se il velivolo risultasse fabbricato in Italia o fosse simile ad altri utilizzati nel nostro paese. Allo stesso modo, un banale incidente d’auto avvenuto in un’altra nazione non sarebbe registrato dai nostri media. Ma se il lancio di agenzia dicesse che in quel tipo di vettura, circolante anche in Italia, i freni si sono guastati per un difetto di fabbricazione, è probabile (e sperabile) che i giornali italiani riportino i particolari. Più questi si riveleranno originali, più il fatto si trasformerà in notizia. Il cane che morde l’uomo è considerato un fatto normale. Meno normale che l’uomo morda il cane. Ma può incuriosire il caso in cui una persona sia stata morsa da un altro animale (un cavallo, un asino, un maiale, una scimmia). La realtà talvolta supera la fantasia e comunque il bravo giornalista accerta i dettagli: che cane era? Di chi era? Si può capire perché l’uomo lo ha morso? La cronaca giornalistica deve sempre essere condita di particolari. È in quelli che si trova il meglio. Eventi banali, come un furto o uno scontro fra due auto, diventano originali se si scoprono le modalità, i protagonisti, i retroscena. In questi casi la notizia non sta tanto nel fatto accaduto, quanto nel come o nel perché sia accaduto. Per identificare l’attività giornalistica, distinta da altre similari (un racconto scritto, un intrattenimento televisivo, un incontro in forma di intervista), bisogna osservare sia la forma sia il contenuto. A cosa mira l’autore? A esprimersi, a comunicare sensazioni e pen19

sieri? Oppure a informare su fatti che abbiano rilievo per la collettività? In questo ultimo caso sia i contenuti sia le modalità del lavoro giornalistico dovranno essere adeguate alla finalità del compito. Un fatto privato diventa notizia se, appunto, coinvolge il pubblico, se incide, se condiziona il lettore. L’interesse generale, ecco il requisito che, dopo alcuni secoli di sviluppo di un più astratto «giornalismo», è stato considerato come qualità distintiva, peculiare di tale attività. Non è giornalismo ciò che è privato, che è espressione individuale pura e semplice; lo è ciò che tocca la collettività e realizza quello che comunemente chiamiamo interesse pubblico. Rispetto alle modalità, la discussione più approfondita ha riguardato l’obiettività, cioè la possibilità, lo sforzo, la capacità del giornalista di riferire il fatto nel modo più oggettivo possibile. Cioè spersonalizzato, depurato, ripulito di tutto ciò che deriva dalla cultura, dal linguaggio, dalle idee e dai desideri di colui che ha accertato l’evento e lo descrive al lettore, ascoltatore o spettatore. L’obiettività, ovviamente, è impossibile da ottenere. I giornalisti guardano «con i propri occhiali», selezionano, scelgono (Bourdieu, 1997). Tutti sembrano d’accordo. Gli anglosassoni parlano di fairness, l’onesta imparzialità. Chi insiste su questo requisito (rispetto alla objectivity) chiede al giornalista onestà, completezza e ricerca della verità, che aiutano ad avvicinarsi alla verità, anche se chi la cerca ha una personalità e una intrinseca soggettività. Distacco e neutralità chiedono i teorici. Secondo alcuni, con il concetto di obiettività in realtà si intende ottenere una pluralità di risultati (McQuail, 1996), primo fra tutti l’imparzialità. 3. Dalla notizia alla cronaca Il giornalismo può essere definito un fenomeno complesso. Al suo interno comprende la ricerca, la narrazione, l’analisi, il commento e altre cose: la pubblicità, l’intrattenimento, il gioco. Ma tutti sono d’accordo che il compito principale sia quello di fare cronaca. Il racconto dei fatti costituisce cioè il primo impegno di chi si dedica a una simile attività. Il termine cronista sta per l’appunto a indicare il redattore che narra i fatti accaduti, di interesse nazionale o locale (un incidente, una sciagura, una cerimonia). Ma si tratta di un’interpretazione riduttiva, perché qualsiasi giornalista (politico, economico, sportivo) per prima cosa fa cronaca, vale a dire racconta l’evento, per poi, semmai, passare alla valutazione, all’interpretazione, alla critica. 20

La cronaca è l’essenza del giornalismo, anche se molti di coloro che intendono svolgere questo lavoro credono di dover commentare i fatti e se ne compiacciono. Il loro piacere sembra quello di esprimere opinioni. Quanti giovani sperano di diventare critici musicali, teatrali, cinematografici? Mentre non si rendono conto che il cittadino ha innanzitutto interesse e necessità di apprendere ciò che è accaduto. La storia del giornalismo tramanda questa origine distorta. I giornali sono stati visti, da chi li creava e li scriveva, come strumenti per spiegare, convincere, condizionare il lettore. Per vincere battaglie politiche. Per far prevalere idee filosofiche e tesi letterarie. Solo negli Stati moderni è emersa con più decisione l’impostazione che mette alla base di questo lavoro il ruolo di informare le persone sui fatti e dunque di dare risalto per prima cosa a ciò che realmente è avvenuto. Giornalismo è cronaca, innanzitutto. Certo, una definizione insufficiente. I filosofi dell’informazione si sono arrabattati sull’allargamento di questa concezione. La prima questione nasce dal fatto che il cronista è portatore di una propria visione della realtà, non è mai neutrale. Egli ha una cultura, una preparazione, un linguaggio, che vengono messi al servizio dell’informazione e che la condizionano. Due, tre, dieci cronisti racconteranno lo stesso evento in modi diversi. Non esiste una cronaca oggettiva. L’obiettività è un’utopia. Dunque, non è sufficiente fotografare, occorre anche spiegare. Non bastano né una né cento foto. Il cronista deve illuminare i lati oscuri, chiarire ciò che non si comprende, dare risposte. Di fronte al corpo di un uomo con un coltello conficcato nel petto, il giornalista cercherà di narrare le indagini per trovare l’assassino, di ricostruire non solo l’evento, ma la personalità del morto, le sue amicizie, le relazioni, l’origine del dramma che ha di fronte e che sta raccontando ai lettori. Perché la realtà è complessa, profonda, quasi mai banale. Quel delitto ha certo proprie caratteristiche, giacché i fatti non sono mai simili fra loro e se lo sembrano, è perché non vediamo ciò che li rende differenti. La cronaca è anche ricerca, ne ha bisogno, è esame dei particolari, studio delle cause e delle motivazioni. Il compito del giornalista sarebbe semplice se le sue fonti raccontassero per filo e per segno l’accaduto, se esse fornissero un quadro completo, esauriente del fatto. Ma poiché raramente questo accade, il cronista non fa solo la 21

«cronaca» – nel senso del racconto, ad esempio, di ciò che ha visto – ma la arricchisce attraverso un lavoro di analisi e di costruzione. Perciò espone ipotesi, si pone domande e si sforza di dare risposte, nell’interesse del lettore. Si comprende allora come qualsiasi cronaca sia costituita dal tentativo di completare il quadro che si sta dipingendo, trovando e illuminando ciò che non è chiaro e che non si vede. Un giornalista poliziotto? No, perché non è suo compito accertare responsabilità e individuare il colpevole (egli non ha alcun dovere di collaborare con gli inquirenti). Un istinto dal quale deve rifuggire. Ma poiché il suo riferimento è unicamente il lettore, egli deve utilizzare lo spirito critico e consegnare al pubblico una ricostruzione e una spiegazione il più possibile esaurienti. E vicine alla verità. Il lettore si aspetta di sapere chi sia il colpevole e dunque anche il cronista lo cercherà, ma senza per questo affiancare e aiutare le indagini vere e proprie. Egli vuole raggiungere la verità per proprio conto, per capire e spiegare al lettore, che è compito diverso da quello del poliziotto, il quale cerca il colpevole affinché il giudice lo condanni. Al cronista vengono fornite versioni più o meno ufficiali, ma egli non deve accontentarsi. Anche quando le fonti sono autorevoli il suo compito può non essere esaurito. Il Pubblico Ministero è pur sempre una parte del processo penale. È bene sentire anche gli avvocati della difesa. La verità si può avvicinare solo sentendo entrambe le parti in causa, l’accusa e la difesa. Perfino una sentenza può essere messa in discussione. Quanti errori giudiziari abbiamo visto? Quante volte, in Appello o in Cassazione, il colpevole è tornato a essere innocente? Il cronista espone ciò che ha trovato. È un essere umano che lavora per il prossimo e che può sbagliare. Non gli si può chiedere l’oggettività, ma una ricerca di ciò che è vero, questo sì. Chi sostiene che si può distinguere tra fatti (oggettivi) e opinioni (soggettive) si nasconde dietro un dito: anche il racconto dei fatti appartiene al giornalista, e lui scrive dal suo punto di vista, così come il direttore e il caporedattore, dai loro punti di vista, sceglieranno la posizione in pagina, l’ampiezza del servizio, il titolo (Scalfari, 2004).

C’è una volontà istintiva, nella maggior parte dei giornalisti, di interpretare la realtà secondo le proprie idee, in senso conservatore o 22

progressista. C’è una rinuncia alla neutralità, nonché una tendenza per cui «il catastrofismo si alterna all’ottimismo, per piacere a un lettore che vuole avere assieme l’abbondanza perenne, l’eterna gioventù, la felicità continua, ma che ignora i prezzi che deve pagare allo sviluppo incontrollato e continuo» (Bocca, 2008). Nel giornalismo italiano degli ultimi vent’anni è dilagata l’informazione politica. Ce n’è una quantità nettamente superiore a quella offerta in altri paesi. E molta di questa informazione è dichiaratamente di parte. Non si tratta solo di giornali di partito – che non se la sono mai passata granché bene – ma di giornali il cui editore ha deciso di appoggiare questa o quella parte politica, governo o opposizione, partito o movimento. C’è addirittura una legge che prevede sostegni economici a testate che appartengono a (veri o presunti) soggetti politici. La lotta politica, le vicende che coinvolgono il governo e l’opposizione, le dispute fra i partiti, hanno sempre influenzato la stampa. Nell’Ottocento il giornalismo si sviluppò con una forte connotazione ideologica e fu praticato soprattutto come attività politica. La figura del giornalista ha cominciato ad assumere lineamenti peculiari, ma sono rari i casi nei quali l’impegno politico non abbia il sopravvento su quello professionale. I giornali sono strumento di lotta politica e di aggregazione del consenso (Murialdi, 1994).

Ciò anche se alcuni grandi direttori, che pure sostenevano con forza le proprie idee politiche, proclamarono solennemente l’importanza della propria autonomia. La sola cosa importante è che nessun giornale sia sostenuto o, peggio, sia obbligato a sostenere gli uomini che sono temporaneamente al governo – scriveva Mario Borsa, direttore del «Corriere della Sera» – perché solo attraverso l’indipendenza dal governo la stampa può adempiere la sua funzione, che è quella di lodare o criticare ciò che si fa, mettere in luce il bene o denunciare il male, nell’interesse generale del pubblico (Borsa, 1925).

Peraltro, appena quarant’anni fa i quotidiani pubblicavano scarse informazioni sulla vita del Parlamento e sulle leggi. Le riassume23

vano solitamente nella seconda pagina e gli eventi del giorno venivano sintetizzati nel «pastone», un articolo unico, che mescolava i fatti e le prese di posizione, che leggevano ben poche persone (Forcella, 1959). La moltiplicazione degli articoli e delle pagine dedicate alla politica avvenne in pratica a partire dal 1976, che è l’anno della nascita di «la Repubblica», i cui fondatori, con in testa Eugenio Scalfari, intesero proprio scavare nelle vicende politiche, per carpirne i retroscena, con ben altro impegno rispetto al passato (Scalfari, 2004). Di lì iniziò la rincorsa che, durante i trent’anni successivi, ha portato non solo a una incredibile moltiplicazione degli articoli su questo settore della vita del paese, ma alla sua drammatizzazione o esaltazione. Il successore di Scalfari, Ezio Mauro, ha scritto che alla nascita di «la Repubblica» in pratica era «terminata l’intimità con il potere, cominciava un’epoca in cui il giornalismo non si accontentava delle verità ufficiali ma si sforzava di illuminare gli angoli rimasti in ombra, per conoscere altro, per capire di più, per informare meglio» (Mauro, 1997). Il giornalismo italiano dei nostri giorni è fortemente impegnato nel racconto delle vicende politiche. È sicuramente un merito, anche se lo stesso giornalismo (scritto e forse ancor più radiotelevisivo) può essere ritenuto in parte responsabile della banalizzazione della vita politica, che appare come un gioco delle parti, in cui a tutti è concesso di parlare e mostrarsi, anche a chi non ha nulla da dire. La politica vive, in questo modo, sui e nei mass media. Gli uomini politici sono più impegnati nelle apparizioni televisive che nell’attività parlamentare. E molte testate decidono di parteggiare per questo o per quello schieramento, più che svolgere la corretta informazione, che costituisce l’interesse del cittadino. Un atteggiamento che, oltretutto, non viene dichiarato espressamente, ad esempio allorché il direttore assume l’incarico e avrebbe il dovere di esporre la propria linea editoriale e politica. In quel momento egli scrive un articolo di fondo, in cui promette di essere indipendente e di occuparsi degli interessi della collettività, ma a partire dal giorno dopo mostra chiaramente di preferire una delle fazioni in campo. Il che è naturalmente lecito, ma raramente è esplicitato. La maggior parte delle testate si proclamano autonome, ma raramente lo dimostrano nei fatti, a causa degli interessi del proprio editore e della vicinanza con il potere politico. Quasi introvabile, in Italia, è l’endorsement, la dichiarazione esplicita con cui i direttori dei 24

giornali americani, al momento delle elezioni presidenziali, dichiarano il proprio candidato preferito. Lo fece Paolo Mieli, nell’aprile del 2006, da direttore del «Corriere della Sera», prima della consultazione vinta da Romano Prodi per poche migliaia di voti. L’onesta ammissione del direttore che era alla guida del più diffuso giornale italiano (di proprietà di un gruppo costituito da 11-12 azionisti) in genere non fu molto apprezzata. La trasparenza venne considerata come ammissione e desiderio di appoggiare lo schieramento di centrosinistra, mentre è evidente che il direttore di un giornale autorevole, nel momento in cui dichiara le ragioni per le quali ritiene più opportuno scegliere un candidato, impegna comunque il giornale a un atteggiamento equanime, corretto, e a un’informazione completa. Le polemiche naturalmente esplodono dappertutto. Al «New York Times» furibonda fu la polemica prima delle recenti elezioni vinte da Barack Obama, quando alcuni settori della redazione insinuarono che l’endorsement in favore di Hillary Clinton (alla vigilia di una importante tornata di primarie) era stata imposta dall’editore Arthur Sulzberger e dalle sue potenti amicizie. È aumentato, comunque, in molte direzioni, l’impegno giornalistico. La maggiore quantità delle informazioni è impressionante. Basta osservare il rilievo che hanno preso le pagine dell’economia e della finanza, ma anche quelle dello sport e della cultura. Un dispendio di energie, una profusione di articoli, che peraltro non ha portato ricchezza nelle casse dei giornali. I maggiori quotidiani («Corriere della Sera» e «la Repubblica») non vendono più di 600-700 mila copie. Mentre maggiori profitti fanno i settimanali, lanciati freneticamente nella corsa al giornalismo popolare, quello che nei paesi anglosassoni è occupato soprattutto da alcuni quotidiani, ad esempio domenicali. In Italia, un simile fenomeno non c’è stato e sono stati i rotocalchi a occupare questa cospicua fetta di mercato. Un’altra caratteristica del giornalismo italiano degli ultimi anni è il ricorso a commentatori esterni: sociologi, professori universitari, politologi, scrivono articoli importanti (spesso collocati in apertura della prima pagina). A parte le firme di persone molto note, è raro che al lettore venga spiegato chi sia l’autore. Esperti, certo, tecnici di questo o quel settore che esprimono le proprie idee (e che hanno interesse a farlo). Contributi importanti, che in molti casi arricchiscono il giornalismo, ma che non sempre sono scritti nell’interesse della collettività (sulla base di un’etica giornalistica) e contribuiscono a 25

rendere più consapevole il lettore. I telegiornali diffondono invece di rado dei commenti. I maggiori canali hanno scelto la forma del dibattito, talvolta del più salottiero talk show, in cui il giornalismo si stempera (e si confonde) in altre forme di approfondimento, spesso guidate da personaggi non iscritti all’Albo. E dunque anche bravi, ma privi dei codici deontologici dei professionisti dell’attività giornalistica. Sono forme di comunicazione e di informazione esercitate in libertà, che fanno bene alla vita democratica collettiva, ma che spesso non hanno nulla di giornalistico. Si pensi a certe forme di intrattenimento durante le quali le persone (spesso remunerate senza che l’ascoltatore lo sappia) litigano e disputano fra loro, senza che esista una vera ricerca della verità.

Il sistema giuridico

1. Le leggi sulla stampa Il giornalismo, e più in generale l’intero settore dell’informazione, trovano il loro fondamento giuridico nelle Costituzioni nate dalle rivoluzioni liberali. Ciò in Occidente, perché in altri quadranti del pianeta – anche immensi come quello cinese – l’affermazione dei diritti umani resta carente e in alcuni casi nulla. Molti regimi politici continuano e credere di essere in diritto di limitare la libertà di parola e di stampa degli individui. Per il bene del paese, dicono. Mentre i trattati internazionali proclamano con chiarezza e senza esitazioni il naturale e inviolabile diritto che è alla base della vita di tutte le persone. Per quanto riguarda l’Italia, come è noto, durante il ventennio mussoliniano il fascismo cancellò la libertà di stampa, chiuse molte aziende editoriali, incarcerò i giornalisti riottosi, creò il sindacato di quelli amici, cercò di imporre (con il Minculpop e con le veline dell’agenzia Stefani) l’elenco delle notizie che si potevano o non si potevano stampare o trasmettere. Con l’avvento della Repubblica e l’approvazione della Costituzione, a partire dal 1948 l’Italia affermò solennemente, con l’articolo 21, che la libertà di stampa era il fondamento della vita democratica. Anche se essa andava coniugata con gli altri diritti costituzionali dei cittadini, un limite che molti giornalisti ancora sessant’anni più tardi tendono a dimenticare. La Costituzione non disse cos’era il giornalismo. Con l’articolo 21 abolì ogni forma di censura preventiva («la stampa non può essere soggetta ad autorizzazioni») e successiva. Garantì a chiunque la 27

possibilità di esprimersi «con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione». Regolamentò i casi nei quali l’autorità giudiziaria può disporre il sequestro della stampa e stabilì che, con una legge, poteva essere stabilito che fossero «resi noti i mezzi di finanziamento della stampa periodica». Non andò oltre. Non precisò quale dovesse essere la natura del giornalismo, quali i suoi segni distintivi. A tutti parve chiaro che essa dovesse comunque accompagnarsi al rispetto dei diritti individuali, che la stessa Costituzione proteggeva (Bovio, a cura di, 2005). Ma le modalità con cui sarebbe stata applicata la libertà di stampa erano troppo importanti. Per questo i padri costituenti, prima di alzarsi dai propri scranni, vararono essi stessi (sulla base della XVII Disposizione transitoria) una specifica legge sulla stampa, anziché lasciarne l’elaborazione al nuovo Parlamento repubblicano. L’Assemblea aveva affermato che la materia della stampa fosse la prima a dover essere affrontata. Era meglio non lasciarla al successivo confronto-scontro che si sarebbe acceso fra i partiti. Nacque così la legge n. 47 dell’8 febbraio 1948. Nelle intenzioni doveva essere provvisoria, eppure è ancora oggi in vigore. È un segno non tanto della sua validità, quanto della delicatezza della materia. Le forze politiche, scottate dalle pratiche illiberali del fascismo, per molti anni non vollero toccare quelle norme, poiché ogni intervento avrebbe rischiato di limitare la sfera delle libertà. La legge n. 47/1948 contiene una serie di norme piuttosto burocratiche e ormai un po’ polverose. La cosiddetta legge sulla stampa non tentò nemmeno di occuparsi del lavoro e della responsabilità dei giornalisti (furono rinviati sia il tema della diffamazione sia quello dell’utilizzazione della pubblicità), ma espresse una serie di regole riguardanti il prodotto giornalistico, le aziende e gli adempimenti necessari. Dopo aver chiarito cosa dovesse intendersi per stampa o stampato («riproduzioni tipografiche o comunque ottenute con mezzi meccanici o fisico-chimici, in qualsiasi modo destinate alla pubblicazione»), la legge stabilì che ogni esemplare doveva riportare il nome dello stampatore, del proprietario e del direttore. E soprattutto abolì qualsiasi forma di autorizzazione, sostituita da una semplice registrazione. Non una valutazione, dunque, ma un atto pressoché automatico. Il nome del direttore responsabile (che deve essere cittadino italiano e possedere i requisiti per l’iscrizione nelle liste elettorali) va registrato presso la cancelleria del tribunale. 28

Fra tutte le previsioni della legge n. 47/1948 va però ricordato l’obbligo della rettifica, inteso (lo vedremo più avanti) come opportunità data al cittadino, coinvolto in un articolo di cronaca, di vedere pubblicata la propria versione dei fatti. Ciò a prescindere – cosa che ancora pochi giornalisti accettano – dall’accertamento di quale sia la verità. Da ricordare anche la definizione di stampa clandestina, quando la pubblicazione non sia stata registrata, o manchi il nome dell’editore e dello stampatore. Giornali o fogli messi in circolazione senza che sia possibile attribuire una eventuale responsabilità Abolita la censura, preventiva e successiva, e ristabilite le condizioni per l’esercizio pieno della libertà di stampa, il Parlamento non proseguì. E non legiferò fino agli inizi degli anni Sessanta, allorché cominciò a discutere se dare all’attività giornalistica una più precisa regolamentazione. La proposta era quella di istituire l’Ordine dei giornalisti. Fra i più convinti sostenitori di questa soluzione c’era Guido Gonella, (il parlamentare democristiano, più volte ministro e primo presidente dell’Ordine stesso), che si batté affinché il giornalismo avesse la protezione che veniva concessa alle professioni liberali. Fra gli oppositori più acerrimi, Luigi Einaudi (più tardi presidente della Repubblica), secondo il quale l’idea di un Ordine – immaginato per primo da Benito Mussolini nel lontano 1925 – avrebbe creato un gruppo corporativo, piegato ai voleri dello Stato, succube, perché «autorizzato» dal potere. Più volte venne posto il quesito di costituzionalità sull’esistenza dell’Ordine, in relazione all’articolo 21. Ma le sentenze della Corte costituzionale hanno sempre escluso l’illegittimità, soprattutto in considerazione del fatto che la legge n. 69 del 3 febbraio 1963 non impedisce ai cittadini che non siano iscritti all’Ordine di scrivere ed eventualmente vedere pubblicate le proprie idee. Cosa che, anzi, accade di frequente. Perché un Ordine? La risposta sta nella volontà del Parlamento di garantire ai giornalisti un proprio autogoverno, dunque di sottrarli per quanto possibile al controllo che su di essi potrebbero svolgere i detentori di quei poteri che i giornalisti – in una concezione liberale – dovrebbero tutti i giorni controllare. Una categoria che non sfugge, ovviamente, alla sorveglianza della magistratura, ma che realizza al proprio interno la funzione etica e deontologica. L’esistenza dell’Ordine, pur in presenza del diritto di ogni cittadino a esprimersi liberamente, deve però avere come condizione, ha più volte detto 29

la Corte, una struttura democratica di tale organismo e la garanzia di un accesso garantito aperto a tutti. La legge n. 69 del 1963 distingue fra giornalisti professionisti e pubblicisti: i primi svolgono l’attività in modo esclusivo e continuativo, i secondi possono invece praticarla contemporaneamente ad altra. Ma anche i pubblicisti sono giornalisti a tutti gli effetti, purché la loro attività non sia episodica e venga remunerata. Un lavoro, non un hobby. Secondo la legge, è l’Ordine regionale che tiene l’Albo, cioè gli elenchi dei giornalisti professionisti e pubblicisti (oltre a quello dei praticanti che, assunti da una testata, lavorano e si addestrano per 18 mesi prima di affrontare l’esame di Stato). Lo stesso Ordine regionale sorveglia il lavoro degli iscritti e li sottopone, eventualmente, a procedimento disciplinare (Viali, 2005). L’articolo 2 della legge, dopo aver sentenziato solennemente che la «libertà d’informazione e di critica» è «diritto insopprimibile dei giornalisti» (dunque, requisito naturale, originario del loro lavoro) definisce i principali doveri. Primo fra tutti l’«obbligo inderogabile» del «rispetto della verità sostanziale dei fatti, osservati sempre i doveri imposti dalla lealtà e dalla buona fede». Ma degli obblighi e del comportamento dei giornalisti parleremo più avanti. La discussione sulle modalità con cui si realizza l’attività giornalistica ha infervorato gli animi e ha caratterizzato la pubblicistica sulla libertà di stampa, lungo tutta la seconda parte del secolo. Da notare che da parte di alcune forze politiche è venuta con insistenza la richiesta di abolire l’Ordine dei giornalisti (il partito radicale nel 1997 ottenne un referendum abrogativo, in cui il quorum dei votanti non fu raggiunto), convinte che ciò significasse liberalizzare l’uso dei mass media; ma in genere in tutti i partiti dell’arco costituzionale è apparsa chiara la volontà di conquistare il controllo delle testate, scritte e radio teletrasmesse. Così è stato per la Rai, che è sempre stata la maggiore azienda editoriale italiana e che – prima da sola, poi accanto al colosso privato creato da Silvio Berlusconi – ha dominato il settore della comunicazione. L’analisi storica di questi fenomeni mostra che le forze politiche non hanno attribuito grande importanza a una effettiva libertà e autonomia dei giornalisti. Le leggi di sistema, semmai, si sono preoccupate di regolamentare la pur delicata questione della concentrazione delle testate, stampate e radio teletrasmesse, oltre quella dell’assegnazione delle frequenze da parte dello Stato. 30

Il Parlamento da molti anni ha creato un meccanismo di sostegni economici, elargiti agli organi della comunicazione dalla Presidenza del Consiglio, in base a una serie di leggi cosiddette dell’editoria (la prima fu la legge 5 agosto 1981, n. 416). Danari pubblici che, da una parte, garantiscono un pluralismo mediatico, assicurando la sopravvivenza anche di fogli e canali pressoché insignificanti, dall’altro permettono l’afflusso di soldi dello Stato nelle casse dei partiti politici, titolari di testate giornalistiche che quasi nessuno compra, legge o ascolta. Ciò in evidente violazione della volontà, espressa dagli italiani in un referendum, di abolire il finanziamento pubblico dei partiti. Il meccanismo di distribuzione dei soldi pubblici è stato basato finora (molti non lo crederanno!) sul numero delle copie dichiarate dalle aziende, anziché su quelle vendute. Chi è giornalista in Italia? Non solo chi svolge l’attività perché dipendente da un’azienda editoriale, ma anche chi comunque faccia lavoro giornalistico magari svolgendo contemporaneamente un’altra attività, sulla base dei requisiti e delle regole fissate dalla legge. La disciplina voluta nel 1963 è ormai fortemente discutibile. I 20 Ordini regionali valutano con criteri diversi coloro che fanno richiesta di essere iscritti all’Albo. Si crea una situazione di forte disparità, che non è controllata dal Consiglio nazionale, il quale è organo di indirizzo e di appello, ma non dispone di poteri di sorveglianza. Può solo segnalare il non funzionamento del Consiglio regionale al ministero della Giustizia, che nomina un commissario straordinario in vista delle nuove elezioni del Consiglio regionale disciolto. Lo sbarramento dell’esame di Stato per acquistare la qualifica di professionista costituisce un ostacolo uguale per tutti gli aspiranti, ma il praticantato (18 mesi) ha forti limiti di contenuto e di forma. Chi lavora in una redazione e impara il mestiere, con continuità e sotto la guida di colleghi professionisti, può essere ammesso all’esame. Allo stesso modo coloro che hanno effettuato il praticantato in una delle scuole di giornalismo create dall’Ordine. Un doppio binario, irragionevole, se si pensa che gran parte degli aspiranti professionisti non possiede neppure una laurea triennale (l’Unione europea ritiene requisito di base per accedere a qualsiasi professione). Assurda la vecchia norma contenuta nella legge n. 69/1963 in base alla quale per effettuare il praticantato, cioè per addestrarsi e studiare, prima si deve essere assunti in un’azienda. Come se un ospedale potesse assumere aspiranti medici e infermieri totalmente privi di 31

esperienza e di nozioni. Una legge che inutilmente le organizzazioni dei giornalisti hanno chiesto al Parlamento di modificare. In cosa consiste l’attività giornalistica? Quando si realizza? Quale deve essere il contenuto di uno scritto o di un servizio radiofonico, televisivo e diffuso sul web, per essere considerato «giornalismo»? La risposta non c’è nelle leggi. L’hanno data allora le sentenze dei magistrati. La corte di Cassazione (23 novembre 1983, n. 7007) ha definito giornalista «colui che, con attività tipicamente (anche se non esclusivamente) intellettuale, provvede alla raccolta, elaborazione o commento delle notizie destinate a formare oggetto di comunicazione interpersonale, attraverso gli organi di informazione» (giornali quotidiani, pubblicazioni periodiche, agenzie di stampa, servizi giornalistici della radio e della televisione). Evidente la vaghezza e l’incertezza che ne deriva. In alcune situazioni sembra di essere in presenza di forme di lavoro dilettantesche, più che professionali, anche in conseguenza della scarsa o inesistente preparazione di base. Il Parlamento in pratica ha lasciato alle dinamiche del mercato l’evoluzione di questa attività, pur in presenza di un organismo, come l’Ordine, reso obbligatorio. Ad alcune carenze ha cercato di supplire il contratto nazionale di lavoro, anche se il sindacato non aveva titolarità per regolamentare, ad esempio, il praticantato o i rapporti professionali fra i giornalisti. Sulle regole della comunicazione il Parlamento ha legiferato, come detto, quando si è occupato di frequenze televisive, di pubblicità, di concentrazione, quando ha modificato la struttura della Rai, quando ha toccato i codici, penale e civile, i casi di risarcimento del danno, i procedimenti giudiziari, la possibile pubblicazione degli atti processuali, la presenza nelle aule di giustizia di cronisti e telecamere. Una legge che ha inciso sulle modalità di fare giornalismo è la n. 675 del 31 dicembre 1996, Tutela delle persone e di altri soggetti rispetto al trattamento dei dati personali, che ha creato una serie di «dati sensibili» e ha imposto che i giornalisti possano pubblicarli, anche senza il consenso dell’interessato, solo allorché siano «essenziali» per assicurare l’informazione riguardo a fatti di interesse pubblico (lo vedremo nel capitolo dedicato alla deontologia). Una regola che peraltro non ha creato sconquassi e non è entrata più di tanto nelle abitudini dei cronisti (Paissan, a cura di, 2006). Altre leggi specifiche per il giornalismo non ci sono state (a parte la normativa per le pensioni e l’assistenza). Quelle approvate per 32

regolare le trasmissioni e le concessioni radio e televisive solo indirettamente hanno inciso anche sul giornalismo, andando a regolamentare le strutture – potremmo dire l’hardware, più che il software – che ospitano e veicolano le notizie giornalistiche: il mercato pubblicitario, le frequenze, la tecnologia digitale, le fibre ottiche, l’uso dei satelliti, la rete Internet. Il sistema giuridico è rimasto molto simile a se stesso, negli ultimi quarant’anni. Convivono numerose forme di giornalismo e cambiano le modalità di diffusione delle notizie, ma il quadro delle regole è lo stesso, mentre il mondo della comunicazione diviene più complesso. La figura del giornalista, in assenza di regole più moderne, appare pertanto ambigua, contorta. Un artigiano, un intrattenitore, un professionista, un servitore dello Stato, connotati contraddittori, una categoria multiforme, come poche altre. Un personaggio che fruga, non si fa i fatti suoi, spesso non ha pietà. Ha spiegato Eugenio Scalfari (2008): La curiosità comporta che denudiamo il mondo dei fatti, delle persone, dei paesaggi non accontentandoci delle apparenze, ma cercando la sostanza. E denudare significa invadere. Il giornalista, senza spogliarsi del proprio io, invade, passa limiti che altre persone, non altrettanto curiose, non varcherebbero. Il giornalista è spietato.

Una professione che nella gran parte dei casi non soddisfa il bisogno della collettività di un’informazione approfondita, curiosa e indagatrice sul funzionamento delle istituzioni. Peraltro il Parlamento ha varato leggi che hanno favorito espressamente le imprese editoriali. Ad esempio, la citata legge n. 416/1981, comunemente chiamata legge dell’editoria, che cercò di impedire le eccessive concentrazioni nelle imprese editoriali, attraverso la fissazione di soglie che non dovevano essere superate dai singoli gruppi; fissò tetti per la proprietà contemporanea di quotidiani e televisioni (il 20 per cento della tiratura nazionale, il 50 in gruppi di regioni); liberalizzò il prezzo di vendita dei quotidiani e l’utilizzazione della pubblicità. Una norma che contribuì a rilanciare l’editoria – negli anni successivi le vendite dei quotidiani raggiunsero vette mai più toccate – ma che non si occupò direttamente del giornalismo. Agevolò le imprese nella delicata fase in cui avvenne il passaggio dal piombo 33

all’elettronica, provocò l’abbandono della macchina per scrivere e della linotype, facilitò l’adozione del computer nelle redazioni e nelle tipografie. Una transizione da molti osteggiata (gli organici dei poligrafici arrivarono in poco tempo a dimezzarsi), che portò forti cambiamenti: rivoluzione nell’organizzazione del lavoro, diversa tecnica di scrittura, di impaginazione e di trasmissione. Scompariva un po’ alla volta la carta, come supporto del giornalista. I dispacci delle agenzie, che prima invadevano i tavoli delle redazioni, cominciarono a scorrere sul video dei giornalisti. Si modificava indirettamente anche la tecnica di elaborazione degli articoli. La legge 416/1981 fu ritoccata più volte (nel 1987, nel 1990, nel 1996, nel 2001) con la trasformazione della tipologia delle imprese e delle provvidenze di Stato. Alla base c’è sempre stata l’intenzione di aiutare un settore economico delicato, ma mai il Parlamento è arrivato a considerare l’informazione un’attività diversa dalle altre. Inascoltata è rimasta l’aspirazione, espressa per lo più solo dalle organizzazioni dei giornalisti, di considerare quello dell’informazione un comparto con caratteristiche particolari. Gli editori si sono sempre opposti a questa idea e hanno portato avanti con ostinazione la concezione solo padronale e privatistica – che nega l’interesse pubblico alle notizie – da cui scaturisce il continuo braccio di ferro con i giornalisti, nonché l’impossibilità di regolamentare il giornalismo come un vero servizio pubblico. Mentre «è l’impresa stessa, è il giornale nel suo complesso (dunque l’editore come imprenditore di informazione e il giornalista come produttore di notizie) che si trova investito di una responsabilità sociale» (Agostini, 2004). Solo una volta un rappresentante del governo espresse con chiarezza la necessità di una regolamentazione apposita. Fu l’economista Paolo Savona, nel 1993, in qualità di ministro dell’Industria, ad affermare la necessità di uno statuto dell’impresa editoriale che stabilisse i termini «di un nuovo equilibrio tra la gestione di altre attività industriali e quelle di informazione e contenga le condizioni di garanzia dell’autonomia della professione giornalistica e di corrette relazioni tra le parti» (Savona, 1993). È la proprietà dei mezzi di produzione, come sempre in economia, che non consente di valorizzare l’interesse sociale. Trattato come questione di natura solo privata, attraverso un confronto editori-giornalisti, il nodo non si è mai sciolto. Le leve delle aziende sono rimaste saldamente nelle mani dei proprietari (spesso azionisti e co34

me tali possessori di piccole quote) e ai lavoratori sono rimaste le briciole. Come in qualsiasi altro settore industriale. Con la differenza che in questo campo sono in gioco le idee, le opinioni, il consenso, che si forma attraverso la conoscenza dei fatti, che si realizza solo se i giornalisti godono di una propria autonomia (anche se questa non è affatto garanzia di verità e neppure di veridicità). Internet, con i suoi bassi costi, può scalzare questo macigno? Le profezie, lo dice l’esperienza, servono a poco, anche perché di solito si rivelano errate. Qualche speranza è riposta nelle normative europee, che già hanno dato una mano ai giornalisti italiani (ad esempio, a proposito del segreto professionale) facendo risaltare l’idea, più frequente in altre nazioni, della finalità pubblica del giornalismo. 2. Tra diritto di cronaca e casi giudiziari Facciamo un passo indietro, al fine di sistemare l’attività giornalistica all’interno dell’ordinamento giuridico. La Costituzione protegge la libertà di stampa alla pari con i diritti individuali delle persone. Dunque, libertà di stampa non significa diritto di insultare, disonorare, danneggiare le persone. Il diritto di fare informazione deve coniugarsi con quello delle persone. Il principale reato che un giornalista può commettere è la diffamazione. Vi incorre chiunque «comunicando con più persone offende l’altrui reputazione» (articolo 595 del codice penale). Lo commette qualsiasi persona che ne offenda un’altra davanti ad altri, diciamo in pubblico. Un comportamento che alcuni confondono con l’ingiuria o con la calunnia. Sbagliando perché l’ingiuria è commessa da chi «offende l’onore o il decoro di una persona presente», mentre la calunnia si realizza quando qualcuno «incolpa taluno che egli sa innocente». Quest’ultimo è un reato inserito fra quelli che turbano l’amministrazione della giustizia e lo svolgimento dei processi, mentre gli altri due sono diretti a danneggiare la persona (Malavenda, 2004). La diffamazione comporta una pena della reclusione fino a un anno o una multa fino a 1.032,90 euro. Che salgono però fino a due anni e a 2.065,80 euro se l’offesa consiste nell’attribuzione di un fatto determinato, o fino a tre anni e 2065,90 euro se l’offesa «è recata col mezzo della stampa o con qualsiasi altro mezzo di pubblicità». È la 35

previsione che riguarda i giornalisti. Ed è chiaro che la sanzione diviene più severa perché è molto più alto il numero di persone raggiunte dal messaggio offensivo (mentre non c’è diffamazione se esso è arrivato a una sola persona). Che un giornalista debba rispondere di ciò che fa, è normale. Non può pretendere di restare impunito nascondendosi dietro il blasone della libertà di stampa. Deve essere sanzionato, come qualsiasi altro cittadino, avendo provocato un’offesa o dei danni. Il problema è che il giudizio sul suo operato sarà dato chissà quando, talvolta dopo anni, allorché i fatti che egli ha raccontato – in condizioni di fretta e approssimazione – saranno diventati certi e verificati. Come comportarsi? In che modo coniugare il desiderio-dovere di informare con l’obbligo di non offendere e danneggiare le persone? I maestri del giornalismo invitano a diffondere (scrivere, trasmettere) ciò che in buona fede si è raccolto con il proprio lavoro. Enzo Biagi diceva: «Se sul terreno della cronaca resteranno morti e feriti, pazienza!». Era il risultato di un’etica professionale che privilegiava la libertà del cronista, rispetto a qualsiasi remora, freno, esitazione, dettati dall’esigenza di rispettare i diritti delle persone. In realtà, la linea di condotta l’hanno dettata i magistrati. Per molti anni, al termine dei processi per diffamazione, i giornalisti venivano condannati qualora la verità si fosse dimostrata diversa da quella che essi avevano trovato. Poi la legge n. 69 del 1963 ha detto che era obbligatorio il «rispetto della verità sostanziale dei fatti». Dunque, cos’era la verità sostanziale? Lo hanno spiegato i giudici, dei tribunali e della Corte di Cassazione, in modo ormai abbastanza uniforme. Può darsi che il giornalista non abbia colto la verità (di solito, al momento della pubblicazione non è stata accertata), ma in questi casi occorre vedere se, nel fare il suo lavoro, abbia rispettato tre condizioni: – la notizia sia stata originata da fonti attendibili e sia stata pubblicata dopo controlli condotti con cura; – esista un interesse pubblico alla conoscenza del fatto; – il linguaggio utilizzato non sconfini nella denigrazione gratuita della persona. Tre requisiti, facili a dirsi, ma che dovrebbero costringere a comportamenti il più possibile rigorosi, sia nella fase di accertamento della notizia, sia in quella di elaborazione e di diffusione. Attenzione alle fonti! Cioè a informazioni fornite da persone o enti poco cre36

dibili. E attenzione a ciò che è verosimile, che sembra vero, ma che a riscontri più profondi si rivela fallace. Sono state le Sezioni unite della Cassazione, nel 1983, a stabilire che la verità putativa si realizza allorché il giornalista ha svolto accuratamente il lavoro e ha fatto tutto ciò che era nelle sue possibilità per appurare come si erano svolti i fatti. Solo questo serio accertamento può portare a credere nella putatività, che non può invece essere sostenuta se egli ha trascurato di effettuare controlli e verifiche. Non bastano la verosimiglianza o la veridicità. Ha spiegato la Cassazione (Ansaloni, 30 giugno 1984) che proprio l’attività svolta per accertare la notizia consente di stabilire l’esistenza del dolo, in assenza del quale non c’è diffamazione. Il giornalista pertanto deve «dare la prova della cura da lui posta negli accertamenti esplicati per vincere ogni dubbio ed incertezza prospettabili in ordine a quella verità». La colpa può consistere nel non aver fatto fino in fondo il proprio dovere. Ad esempio, il Tribunale di Milano (18 settembre 1989) ha condannato un giornalista che, in modo arbitrario e ingiustificato, si era rifiutato di ascoltare altre fonti che intendevano offrire alcuni approfondimenti; mentre il Tribunale di Roma (16 luglio 1991) ne ha punito uno affermando che non ha valore il «convincimento della verità di quanto esposto», anche se il fatto è notorio o ritenuto ormai storico. L’interesse pubblico. I giudici la definiscono pertinenza: l’effettivo valore della notizia rispetto alla collettività è calcolato dal giornalista, che però successivamente può essere contraddetto dal magistrato chiamato a esaminare il suo comportamento. Molto spesso viene punita la pubblicazione di particolari ininfluenti (ma offensivi), raccontati all’interno di un contesto sostanzialmente veritiero. Il giudice sanziona la pubblicazione di avvenimenti che non hanno interesse per la comunità e sono stati aggiunti allo scopo di completare e aggravare la personalità del protagonista (Cassazione, 30 aprile 1980). Spesso l’errore viene commesso nel titolo. Il giudice ritiene che ciò accada se nel titolo la notizia non viene espressa in forma dubitativa, senza far riferimento alla fonte e, dunque, come se si fosse in presenza di una verità già oggettiva e accertata (Cassazione, 4 febbraio 1987; Cassazione, 27 novembre 1991). La forma civile. Una prosa aggressiva o ostile, oppure l’uso di parole e aggettivi volutamente dannosi, vengono puniti dal giudice, il 37

quale ritiene che il giornalista abbia valicato il limite della continenza. Cioè abbia esercitato il diritto di cronaca in modo scorretto, al di là della verità. La Cassazione (23 aprile 1986) chiede «moderazione, proporzione, misura, serenità» senza le quali la forma viene ritenuta scorretta, anzi illecita. Ben diversa è la condizione in cui si trovano i giornalisti di altri paesi. Ad esempio, negli Stati Uniti la sanzione per diffamazione è inflitta solo a coloro che avevano coscienza di sbagliare. Anche da noi il reato è doloso, ma la responsabilità e la sanzione sono applicate a coloro che, secondo il giudice, non hanno fatto tutto ciò che avrebbero potuto per accertare la verità. Come si può intuire, le tre condizioni fissate (quasi unanimemente) dai magistrati dipendono dalla capacità professionale del giornalista, dalla condizione oggettiva in cui egli si è trovato, dalla successiva opinione del giudice. È evidente che può esserci stato un errore di valutazione, magari commesso da altri, e che il giorno dopo (o dieci anni dopo, come avviene in certi procedimenti giudiziari) si accerti una diversa verità. Da questo punto di vista, un tempo i giudici erano inflessibili. Lì dove la verità, anche successivamente, risultava diversa rispetto alla versione pubblicata, il giornalista veniva condannato. Poi si è via via affermata la teoria che esistessero fonti privilegiate e dunque particolarmente attendibili (se lo dice il pubblico ministero o il capitano dei carabinieri in una conferenza stampa quella può essere considerata la verità «giornalistica»). L’altro spauracchio del giornalista è il pagamento di un danno di natura civile, che crea ancora maggiori apprensioni, perché può costringere a sborsare grosse somme di danaro. La responsabilità per danni è regolamentata dalla vecchia legge n. 47 del 1948, che all’articolo 11 prevede che «per i reati commessi col mezzo della stampa sono civilmente responsabili, in solido, gli autori del reato e fra di loro il proprietario della pubblicazione e l’editore». In solido vuol dire che la persona che si ritiene danneggiata può prendersela con uno qualsiasi dei tre, il quale si potrà rivalere sugli altri. Facile comprendere come l’anello debole, sul piano economico, sia il giornalista, anche se le aziende editoriali (solitamente, ma non sempre) fanno fronte al risarcimento civile (Viali, 2005). Pesante il rischio che corre il giornalista. In Italia, da alcuni anni, molti avvocati consigliano ai propri clienti di non sporgere querela e 38

non intentare causa per diffamazione, ma di badare al sodo e chiedere soldi. Come dire: che soddisfazione c’è a veder condannare un giornalista per diffamazione? Meglio un procedimento civile (che spesso si conclude con un accordo) e un bel mucchietto di euro, magari ricavato da un errore materiale commesso in buona fede, mentre la diffamazione, come abbiamo visto, presume l’esistenza del dolo, cioè la volontà di colpire l’onore (Ricciuto, Zeno-Zencovich, 1990). Le aziende giornalistiche hanno montagne di richieste di risarcimento, spesso minacciose, che con il loro potenziale costituiscono una limitazione all’intraprendenza del giornalista. Questi diventa timoroso, si domanda chi glielo faccia fare, rammenta che l’editore gli potrà chiedere (magari a rate o sulla liquidazione) di fare fronte per la sua parte – più o meno un terzo – a un oneroso pagamento. Molto difficile che il giornalista riesca a stipulare un’assicurazione, che lo tuteli contro l’eventualità di simili esborsi. Ciò per la difficoltà di trovare una compagnia che si accolli un rischio tanto aleatorio. Rispetto alla diffamazione esistono giuristi che escludono la possibilità di stipulare un’assicurazione. Altri negano che patti privati (un accordo con l’editore) possano difendere il giornalista. Infatti, secondo la legge, la responsabilità è soggettiva ed esiste un articolo del codice civile (il 1917) secondo il quale non possono essere coperti da assicurazione danni «derivanti da fatti dolosi». Non puoi assicurarti contro i danni che provocherai attraverso un tuo atto voluto, spiega la legge. I danni risarcibili possono essere sia materiali sia morali. I primi sono quelli (ad esempio le occasioni di lavoro o i contratti persi a causa dell’articolo di un giornalista) concreti, documentabili, che hanno inciso sul patrimonio del soggetto coinvolto nella pubblicazione. I secondi sono le afflizioni morali, psichiche, purché causate da un illecito penale, cioè un reato. Va anche ricordato che esiste ancora nei codici la riparazione pecuniaria, che il giudice può assegnare al diffamato (oltre l’eventuale risarcimento del danno). È una specie di multa che viene irrogata soprattutto sulla base della particolare gravità del reato e della notevole diffusione della pubblicazione giudicata offensiva. Qui è necessario chiarire, pur non essendo questo un volume giuridico, cosa si intende per «diritto di cronaca». Si dice che il giornalista svolga il suo mestiere proprio grazie a questo suo diritto: fare cronaca, raccontare cosa accade alla collettività, attività essenziale in 39

una democrazia, finalizzata a rendere il cittadino consapevole. Per questo la libertà del cronista è soffocata nei paesi governati da regimi autoritari. All’interno dell’ordinamento giuridico, in realtà, il diritto di cronaca è una esimente, vale a dire una causa di giustificazione. Nel diritto penale si intende come tale la condizione in cui si trova una persona che può fare ciò che ad altri non è consentito. Per via del ruolo, della funzione, dell’incarico che ricopre. Un qualsiasi cittadino non può scrivere che una persona è ladra o corrotta. Chi svolge il mestiere del giornalista, poiché ha il compito di raccontare fatti, veri o sostanzialmente veri, è, per così dire, giustificato. Ovviamente non può offendere alcuno in modo gratuito o usando termini ingiuriosi: mascalzone, farabutto, sporco individuo (Malavenda, 2004). Il giornalista è coperto sempre dal diritto di cronaca? Tutt’altro. Sarà il giudice a dirlo. Egli ha sempre sulla testa la spada di Damocle, perché il suo comportamento sarà più tardi esaminato e valutato. Numerose sentenze della Cassazione, abbiamo visto, spiegano, ormai in modo pressoché uniforme, che il giornalista, per essere «giustificato», deve aver fatto un uso corretto del diritto di cronaca. Deve, in estrema sintesi, aver fatto tutto il possibile per accertare la verità (ricerca che gli è imposta dall’articolo 2 della legge professionale del 1963). Se non la trova, ma se ha fatto rigorosamente il proprio lavoro – ad esempio fidandosi solo di fonti autorevoli – allora sì che avrà fatto buon uso del diritto di cronaca. Dovrà risultare che ha rispettato le tre condizioni poste dalle Sezioni unite della suprema corte. Almeno un accenno alla responsabilità del direttore. La legge impone che la testata sia registrata e così il nome del direttore responsabile. Ciò affinché per gli eventuali danni provocati dalla pubblicazione esista una preciso responsabile, anche nei casi in cui l’articolo sia privo della firma. Per molti anni si è detto che questa forma di responsabilità oggettiva era ingiusta, incostituzionale, sbagliata. Poi, la mira è stata corretta e il direttore è stato ritenuto responsabile di omessa vigilanza, è stato chiamato a rispondere a titolo di colpa (art. 57 del codice penale). In alcuni casi – considerato l’alto numero di pagine di un giornale – i giudici hanno puntato il dito, anziché contro il direttore, contro il vice, il caporedattore, il caposervizio, cioè colui che aveva il compito esplicito, all’interno dell’organizzazione del giornale, di controllare quella precisa sezione e quel testo. Ciò succede anche nei casi che diffamatorio sia il titolo, che spesso non 40

è stato preparato dall’autore dell’articolo, ma dai suoi superiori gerarchici (Abruzzo, 2006). La condizione in cui si trova il giornalista è di totale incertezza. Il suo è un mestiere in cui non ci possono essere garanzie. La verità può essere un’altra, rispetto a quella che egli ha accertato e raccontato. Questo significa che sua sarà la responsabilità. È possibile che qualcuno protesti, contesti, sporga querela o affermi di essere stato danneggiato. Allora l’autore dell’articolo avrà a che fare con la giustizia, che valuterà il suo comportamento e lo assolverà o condannerà, in sede penale o civile. A parte la possibile sanzione da parte dell’Ordine professionale, sganciata e autonoma rispetto alle altre giurisdizioni. Non c’è manuale di giornalismo che possa escludere il pericolo di un’avventura giudiziaria. Solo un comportamento serio e un rigoroso controllo – attraverso fonti autorevoli e credibili – possono far sperare in una valutazione positiva. Basta una scivolata, un sostantivo sbagliato o un aggettivo fuori controllo, per beccarsi una condanna. La notizia può essere esatta nella sostanza, ma un particolare può rivelarsi sbagliato. Attento deve essere l’uso delle parole: «accusato o già «imputato»? «Rinviato a giudizio» oppure «condannato»? La professionalità può difendere dall’errore, mentre la superficialità e il dilettantismo possono provocare seri guai. L’esame della giurisprudenza è illuminante. Basta citare episodi presi a caso. Un costruttore si lamenta, parlando con il cronista di un giornale, per i ritardi burocratici di cui sarebbero responsabili «i nostri amministratori», quelli che si occupano dell’attività edilizia. Afferma che l’unico rimedio sarebbero state le «bustarelle». Viene condannato per offesa a due funzionari comunali. Ricorre in Cassazione, affermando di aver fatto dichiarazioni solo generiche. Ma la Suprema Corte (sezione V penale, 7 dicembre 1999) respinge il ricorso spiegando che essendo solo due i pubblici ufficiali incaricati di quei compiti, i destinatari dell’offesa erano esattamente identificabili. Altro caso. Il giornalista non può difendersi affermando che la notizia è venuta dall’Ansa. Sempre le Sezioni Unite hanno affermato (1984) che «non esistono fonti informative privilegiate, tali da svincolare il cronista dall’onere di esaminare, controllare, verificare i fatti oggetto della narrazione». L’errore di un giornalista di un’agenzia di stampa non può giustificare quelli dei colleghi (dei giornali, delle tv) che riprendono i suoi lanci. Ciascuno risponde del proprio operato. 41

Molto rumore fece un’altra sentenza, emessa dalla Corte di Cassazione sempre nello stesso anno (caso Europrogramme Service, 18 ottobre 1984, n. 5259). In essa, dopo aver elencato le tre condizioni indispensabili per un uso corretto del diritto di cronaca (verità, interesse pubblico, forma civile) i giudici elencarono alcuni espedienti, spesso usati dai giornalisti: il sottinteso sapiente, gli accostamenti suggestionanti, il tono scandalizzato o sdegnato, l’artificiosa e sistematica drammatizzazione, le vere e proprie insinuazioni, l’uso sapiente delle virgolette. Tutti artifici che se usati da cronisti smaliziati possono rivelarsi scorretti. Un vero e proprio decalogo, che le organizzazioni dei giornalisti respinsero, giudicandolo uno strumento pedante, volto a limitare la libertà di stampa. La sentenza, comunque la si giudichi, sottintende la delicatezza della materia e mostra quanto sia grande il potere dei giudici, soprattutto di quelli che intendono applicare con meticolosità la legge, che finiscono per intimidire anche i giornalisti più coraggiosi. Per non parlare dei pavidi. La giurisprudenza naturalmente cambia, a un certo punto. Un esempio: l’intervista con contenuto diffamatorio. Per molti anni i giudici hanno condannato sia l’intervistato, sia l’autore dell’intervista (che avendola diffusa ha ampliato i suoi effetti). Nel 2001, però, le Sezioni Unite della Cassazione hanno affermato che il giornalista può evitare di essere punito. Ciò avviene se si mostra neutrale e fa emergere chiaramente la sua presa di distanza dall’offesa lanciata dall’intervistato. Deve trattare naturalmente fatti di interesse pubblico. Il giornalista non può accettare – e quindi ne risponde – dichiarazioni ingiuriose, per fatto personale, che non hanno attinenza con il fatto che è oggetto di attenzione pubblica. In un altro caso la Cassazione ha affermato che il limite della verità si atteggia in maniera del tutto peculiare, siccome riferito non al contenuto dell’intervista, cioè alla rispondenza del fatto riferito dall’intervistato alla realtà fenomenica, ma al fatto che l’intervista sia stata realmente operata e concetti e parole riportati dal giornalista siano perfettamente rispondenti a quanto proferito dalla persona intervistata (Cass. Sez. V, n. 2144 del 23 febbraio 2000).

Linguaggio terribile, ma concetto che salva il cronista. Peraltro, in seguito le sentenze non sono state tutte univoche e omogenee rispetto all’indicazione della Corte Suprema (Razzante, 2008). 42

Professionalità e organizzazione

1. Le fonti L’attività del giornalista è fortemente personalizzata. Come quelle del medico o dell’avvocato. Spetta a lui e alla sua coscienza stabilire cosa pubblicare. Egli valuta i propri appunti, le testimonianze, le informazioni di agenzia, le risposte date da fonti più o meno autorevoli. E decide sulla base delle convinzioni che si è fatto e di quello che ritiene l’interesse del lettore. Più o meno come un chirurgo, che taglia dove ritiene necessario. Il giornalista, anche quello inserito in un gruppo di lavoro, risponderà in prima persona di ciò che ha diffuso. La stessa esistenza di un Ordine professionale giustifica e pretende autonomia del singolo, anche se la sua attività nella maggior parte dei casi rientra nell’opera di un gruppo di lavoro (che chiamiamo redazione, termine che usiamo anche per indicare il luogo dove i giornalisti lavorano). Ci sono errori, inesattezze, danni che il giornalista può provocare per colpe altrui o per la cattiva organizzazione del lavoro: un informatore poco attento, un titolo fatto da altri, un errore commesso in tipografia. Esattamente come un medico può sbagliare per colpe che risalgono al cattivo funzionamento della sala operatoria, o all’errore dell’anestesista. La responsabilità del giornalista è individuale. E non solo in senso giuridico, penale e civile. L’ordinamento vuole che l’onere della notizia (raccolta dei dati, accertamenti, scrittura ecc.) ricada sul singolo perché ciò garantisce maggiore libertà. Le informazioni, le opinioni, le idee saranno più libere in quanto i singoli avranno a proprio carico questa funzione sociale. Il giornalista libero pubblica la noti43

zia che crede contenga la verità e rifiuta di alterarla per interesse o convinzione di altri. Il cuore della funzione giornalistica è celato nella questione delle fonti. I giudici puniscono il giornalista, quando non ha trovato la verità, se è stato superficiale, negligente, se non ha fatto accertamenti, se ha ascoltato fonti non credibili e affidabili. Il tema delle fonti è dunque centrale nell’analisi di questo mestiere (Malavenda, 2004). Ai giornali e ai giornalisti le notizie possono arrivare in mille modi e attraverso canali diversi. Il telefono, ad esempio. Il suo squillo è sacro. Una buona redazione di cronaca risponde con solerzia, non può permettersi di lasciare che un apparecchio suoni diverse volte. Dall’altra parte del filo può esserci un lettore che ha assistito a un fatto, che segnala un problema, che lancia un allarme. Ha chiamato il vostro giornale, ma se lo lasciate aspettare ne chiamerà un altro. E non basta una segretaria. Deve rispondergli un cronista, gentile, curioso, che sappia cogliere al volo il valore della segnalazione. Il più delle volte a chiamare sono dei seccatori, magari nelle ore critiche, a pochi minuti dalla chiusura dell’edizione. Eppure bisogna rispondere, non solo perché con quella chiamata può arrivare una notizia ancora sconosciuta, ma perché quell’interlocutore è un lettore, che non possiamo deludere. Ogni voce è una fonte. Alcune sono istituzionali, sono voci (uffici stampa, funzionari ecc.) dipendenti di un’amministrazione o di un servizio pubblico. Una redazione locale, ogni tre, quattro ore consulta la polizia di Stato, i carabinieri, i vigili del fuoco. Con pazienza, sapendo che a ogni ora risponderà una voce diversa. In altre istituzioni e amministrazioni non basta telefonare. Alla Camera e al Senato ogni redazione che si rispetti ha un proprio redattore, che fa da informatore (una volta si diceva «trombettiere»), tiene l’agenda dei lavori parlamentari, sa cosa succede in aula e quali temi vengono affrontati nelle Commissioni. Lo stesso al Comune, alla Regione, alla Provincia. Fonti sono ovviamente i partiti politici, le cui dichiarazioni e prese di posizione sono diventate prevalenti, via via che l’informazione politica è stata ampliata. Fonti sono le agenzie di stampa, vere e proprie testate nate per alimentare i giornali. Il primo a creare un’agenzia fu un ungherese, Charles-Louis Havas, nel 1832, a Parigi. Cominciò col tradurre gli articoli dei giornali stranieri e capì che molte persone erano interessate a conoscere le informazioni della Borsa. Altre due agenzie ven44

nero aperte da Bernhard Wolff, a Berlino, e da Paul Julius Reuter, a Londra, che si accordarono fra loro per suddividere l’Europa in grandi settori di competenza ed evitare di entrare in concorrenza. Fino a quando, in coincidenza con la prima guerra mondiale, arrivarono in Europa le grandi agenzie americane, l’Associated Press e l’Upi. Il monopolio venne infranto e il regime di libera concorrenza nel settore dell’informazione fu sancito con un accordo internazionale, stipulato a Riga, nel 1934, che sostanzialmente sanciva una spartizione delle aree di influenza. Grazie alla telescrivente, le agenzie trasmettevano ai giornali le notizie scritte alla tastiera dai propri tipografi, «lanci» che arrivavano nelle redazioni grazie a strisce di carta perforate. In ciascuna redazione, i fogli di carta, tagliati e segnati dal caporedattore con l’indicazione del servizio di competenza (Esteri, Cultura, Sport ecc.) giungevano sui tavoli dei rispettivi capiservizio. Fino a quando l’elettronica mandò in soffitta la carta e i «take», o lanci, d’agenzia arrivarono direttamente sul video dei giornalisti. In Italia, la prima agenzia fu la già nominata Stefani, creata da Camillo Stefani, un giornalista piemontese, su incarico del conte di Cavour. Divenuta l’organo ufficiale del fascismo, alla fine del ventennio venne chiusa e dalle sue ceneri nacque l’Ansa (Agenzia nazionale stampa associata), voluta dagli editori dei quotidiani, nel 1945. L’Ansa è un’azienda con più di 400 giornalisti, che distribuisce a pagamento le proprie informazioni (e immagini) a moltissime testate ed enti, comprese parecchie istituzioni pubbliche. Ogni agenzia – insieme con l’Ansa, le maggiori sono l’Agenzia Italia e la Adnkronos – ha una redazione nelle grandi città e una fitta rete di corrispondenti. È la sua autorevolezza, ottenuta in anni di lavoro, che spinge altri giornali a considerare pubblicabili le sue notizie. Peraltro, il giudice non giustifica l’eventuale errore e punisce i responsabili anche se lo «aveva detto l’Ansa». Nessuno può sperare di restare impunito dietro lo scudo di un’agenzia, o della radio o della tv. In questo campo la responsabilità, lo abbiamo detto, è personale. Ciascun giornalista deve dimostrare di aver fatto gli accertamenti necessari, presso fonti credibili e autorevoli (Cesareo, 1994; Lepri, 2003b). I teorici del giornalismo hanno spesso esposto la distinzione fra fonti primarie e secondarie, che appare di scarsa utilità, mentre più rilevante è quella tra fonti dirette e indirette. Le prime sono le persone che hanno visto, sentito, cioè che offrono una testimonianza e una 45

prova raccolte senza intermediari. Le seconde portano invece un contributo alla ricostruzione dell’avvenimento, al quale tuttavia non hanno assistito. Detto che anche un testimone diretto, talvolta, sbaglia e ricorda male, è evidente che la fonte indiretta basa la propria affermazione su quelle di altri, che essa riferisce soltanto. Dunque, va presa con le pinze. In seguito a una rapina in banca, ben diverso valore per il cronista avranno la testimonianza dell’impiegato che si trovava all’interno dell’agenzia, o quella del cliente che addirittura è stato tenuto in ostaggio dai banditi, a fronte del successivo racconto di uno degli inquirenti, che ha ascoltato le persone presenti e che spiega come i fatti, secondo lui, si siano svolti. Per il giornalista, dunque, è importante arrivare presto sul posto dell’evento e riuscire a intercettarne i protagonisti. Se questo non è stato possibile, egli dovrà ascoltare la ricostruzione fatta da un capitano dei carabinieri o da un ispettore di polizia, che ha valore in quanto si tratta del responsabile delle indagini, ma che può essere errata, parziale, o dettata, ad esempio, dal desiderio di aver fatto bene il proprio lavoro. I buoni maestri insegnano ai giovani che è sempre utile dubitare, prima di credere di aver trovato la «verità». I codici deontologici dei giornali americani prescrivono che un’informazione – tanto più se delicata – possa essere pubblicata solo una volta che sia stata confermata da tre diverse fonti. Molto agguerrito è lo scenario di coloro che diffondono informazioni: uffici stampa, portavoce, organi di soggetti privati e pubblici che cercano di far pubblicare comunicati, dati, dichiarazioni, nell’interesse di una società, di una persona, di un progetto politico, industriale o finanziario. Sono ovviamente fonti di parte, che producono centinaia di messaggi destinati ai tavoli e ai computer dei giornalisti. In questa massa di note, in cui il giornalista serio ha il dovere di districarsi – ingigantita ormai dal nugolo delle mail – quale è utile che diventi «notizia» scritta e pubblicata? Qual è il fine di quella comunicazione? Interessa il cittadino? O quel comunicato e quella dichiarazione riguardano solo il loro autore? Sempre all’etica del giornalismo si deve risalire, mentre la questione delle fonti si fa più complicata e decisiva. Evidente è la necessità di avere giornalisti preparati, capaci di fiutare subito l’interesse pubblico, esperti in questo o quel settore, scaltri conoscitori di questioni e settori della vita pubblica. L’analisi del problema delle fonti è cruciale, tenuto conto che la 46

maggior parte delle testate, medie e piccole, non ha forze sufficienti per controllare i fatti e redige pertanto i propri notiziari sulla base di lanci di agenzia, di comunicati stampa, di versioni più o meno interessate dell’accaduto. La globalizzazione dell’informazione rende indispensabile il contributo delle agenzie. Senza di esse molti giornali non sarebbero in edicola e molti notiziari radiotelevisivi non sarebbero diffusi. Ma il problema della responsabilità, come si vede, diventa complesso. Si assiste a un giornalismo sempre più delegato, nel quale la ricerca e la verifica della notizia sono affidate al redattore dell’agenzia, il cui pezzo, tagliato, incollato e rivisto, si ritrova su centinaia di altri organi di informazione. Se uno sbaglia, anche gli altri sbagliano. Il rischio dell’omogeneizzazione è palese. Invece di 10-100 giornalisti lanciati come segugi, ce n’è uno soltanto, al quale tutti gli altri si affidano. Per assurdo, si assiste non al pluralismo delle voci e dei resoconti all’ennesima potenza, che la tecnologia consentirebbe, ma all’uniformità e al conformismo. E poi, a chi appartengono le potenti agenzie che si contendono il primato? Quali interessi cercano di realizzare? Chi garantisce che lavorino per il bene comune, per il totem della libertà di stampa e non per le mire di qualche potentato, affarista, reuccio dell’informazione o della politica? Il fatto che le agenzie siano dirette a soddisfare le esigenze delle redazioni – e non quelle del lettore – dà vita a una cultura giornalistica particolare. La ricostruzione dei fatti secondo criteri di scelta e tecniche espositive che non tengono conto delle caratteristiche delle persone, perché i redattori d’agenzia sanno che ci sarà una successiva mediazione, prima della diffusione al pubblico. Essi si rivolgono ad altri giornalisti, non direttamente al cittadino. La mentalità e la modalità che guidano il lavoro di agenzia costituiscono un ulteriore diaframma, che toglie immediatezza. L’avvento di Internet ha tuttavia cambiato lo scenario anche per le agenzie di stampa. Prima, esse non erano in gara per informare la collettività, ma lavoravano dietro le quinte, come fornitori di servizi alle redazioni. Di recente anche esse hanno deciso di scendere in campo, con propri notiziari pubblicati sul web. All’inizio lo hanno fatto controvoglia, temendo di danneggiare la propria attività di «venditori» di informazioni che, una volta rese pubbliche, non avrebbero mantenuto il proprio valore commerciale. Poi hanno deciso di diversificare le proprie attività, attraverso differenti modalità 47

produttive. Oggi anche le agenzie presentano un giornale on line. Il loro sito Internet consente rapidità e immediatezza. Per di più sfrutta la rete di informatori che l’agenzia possiede. Offre naturalmente al pubblico solo una parte delle informazioni che deve «vendere» ai giornali e alle quali non può rinunciare, pena la fine del proprio ruolo (Protettì, Polli, 2007). Anche l’agenzia si colloca perciò sul mercato dell’informazione, attraverso il web, affiancando gli altri mezzi a disposizione del cittadino. Con professionalità e organizzazione che divergono da quelle dei quotidiani e dei canali radiotelevisivi, ma che finiscono per convergere, più che per differenziarsi. 2. La struttura della redazione Nei giornali il gruppo di lavoro conta molto, può schiacciare il redattore. La redazione ha una struttura piramidale e gerarchica. L’eventuale contrasto fra il redattore e il suo superiore (il caposervizio o il caporedattore hanno la delega dal direttore) si risolve a favore del secondo, anche lì dove è preceduto da un utile confronto. Se la decisione presa dal secondo non viene accettata dal primo, questi può togliere la firma dall’articolo, che non riconosce più come suo. Non può rifiutarsi di consegnarlo – ha un contratto e il prodotto del suo lavoro «appartiene» in una certa misura all’azienda – ma se non condivide le correzioni, può disconoscere l’elaborato, anche per non portare la responsabilità di una versione dei fatti che ritiene sbagliata. Una simile eventualità non è rara in una redazione e può essere traumatica. Se diviene troppo frequente non può che portare a una interruzione del rapporto di collaborazione, magari allo spostamento del redattore ad altra sezione del giornale. Peraltro è evidente che il caporedattore, se ritiene inesatto l’articolo, «deve» correggerlo. Egli è lì apposta per svolgere una funzione di controllo e non può fare uscire il giornale con una versione errata dell’accaduto. A meno che egli non stia tentando di imporre qualcosa che appartiene al giudizio sul fatto, più che alla sua ricostruzione. Una correzione, diciamo, che discende dalla linea politica del giornale, che sarebbe stata contraddetta e violata. Ciò che qui preme sottolineare è il diverso ruolo che il redattore ha avuto nelle differenti epoche della storia del giornalismo. La sua individualità è stata esaltata o compressa. È accaduto e accade in tutto il mondo e 48

da noi il contratto di lavoro (nazionale, spesso corroborato da accordi aziendali) offre solo qualche difesa in più al giornalista. Il fascino dell’inviato speciale non deriva soltanto dal fatto che egli sia spesso in viaggio per il mondo, ma dalla maggiore libertà di cui gode, sganciato com’è dalla macchina del giornale. Un tempo l’inviato spediva il proprio articolo alla redazione (con un treno, una nave, poi con il telegrafo) e questo veniva pubblicato così com’era, non esistendo alcuna possibilità di verifica dei fatti da parte del direttore o dei suoi delegati. L’inviato era l’unico autore del proprio servizio e l’unico responsabile. Oggi, il più delle volte, la redazione aiuta l’inviato affinché, prima di mettersi a scrivere possa confrontare le proprie informazioni con quelle giunte in redazione da altre fonti. In ogni caso, poiché il sistema giuridico ha inteso fare del giornalista un professionista autonomo, il più possibile libero e naturalmente responsabile, le sue caratteristiche sono peculiari. Non può essere considerato alla stregua di un «impiegato», perché gode di un’autonomia e di un’indipendenza che quel tipo di lavoratore non possiede. Anche se nel 95 per cento dei casi il giornalista è legato da un rapporto contrattuale, a differenza di ciò che contraddistingue altri professionisti, come per esempio gli avvocati. Elemento che costituisce una contraddizione, ma che non inficia i caratteri distintivi di una simile attività. Le aziende editoriali hanno sempre cercato di inglobare e legare più strettamente i propri redattori, un po’ per evidenti necessità organizzative (quella che chiamiamo la «macchina del giornale») un po’ per controllare meglio il prodotto e sottrarlo alle valutazioni derivanti dalla personalità dei singoli. Per questo esse hanno rifiutato di essere considerate diverse, rispetto alle consorelle di altri settori dell’imprenditoria. E per questa ragione, da molti anni la Federazione nazionale degli editori cerca di svincolare il direttore e le figure di maggiore responsabilità della redazione, per dare loro il ruolo di dirigenti o di quadri aziendali. Ciò è in parte avvenuto nel nuovo contratto nazionale: direttori che perdono l’originalità della loro figura professionale, che discende direttamente dall’esistenza dell’Ordine, dal carattere professionale del loro lavoro e dalla libertà, che è assicurata dall’articolo 2 della legge n. 69 del 1963 (richiamata nel contratto di lavoro). Attributi che non esistono per altre figure, pur prestigiose, come ad esempio i manager delle aziende industriali, dotati di grandi poteri ma non equiparabili ai direttori di giornale, che 49

restano giornalisti e hanno la responsabilità di difendere l’autonomia della testata e dei colleghi che vi lavorano. L’articolo 6 del contratto dice che il direttore, oltre a impartire le direttive politiche e tecnico professionali del lavoro redazionale, nonché a stabilire le mansioni di ogni giornalista, è tenuto «ad adottare le decisioni necessarie per garantire l’autonomia della testata, nei contenuti del giornale e di quanto può essere diffuso con il medesimo». Il direttore garantisce la redazione anche dalle eventuali intromissioni e forzature dell’editore. Questa separatezza, attraverso la quale rendere più liberi i giornalisti, ha dato luogo a episodi anche clamorosi. Come le dimissioni di Indro Montanelli dal «Giornale» (che aveva fondato e diretto) allorché Silvio Berlusconi – azionista con una quota maggioritaria del pacchetto azionario – si era presentato nell’assemblea dei giornalisti affermando che non avrebbe garantito ulteriori finanziamenti se la redazione non avesse cambiato atteggiamento. Gesto che era stato ritenuto da Montanelli come un’intollerabile intrusione nei compiti del direttore. Ogni singolo giornalista è dunque titolare di una libertà «insopprimibile» (lo dice la legge), a differenza di altri lavoratori dipendenti. Risponde al direttore, che delega i propri poteri a capiservizio e capiredattori. È parte, sia pure principale, di un ingranaggio produttivo che somiglia a una catena di montaggio, ma gode di un’autonomia – che il contratto di lavoro gli conferma – che non ha eguali in altri mestieri. Gli imprenditori, sovente miopi e abituati ad altri schemi organizzativi, tentano di comprimere il suo spazio vitale e di obbligarlo ad accettare correzioni, tagli e aggiunte. Per questo premono sul direttore di testata. Ma il contratto di lavoro consente, come detto, al redattore di rifiutare di apporre la propria firma e di negare la paternità della notizia, che altri hanno manomesso. Una condizione giuridica e professionale unica nel suo genere. Chi propone l’abolizione dell’Ordine – considerandolo un orpello ingiustificato – dovrebbe riflettere sul fatto che con la sua scomparsa cadrebbero anche questa autonomia e questa peculiarità del lavoro giornalistico. Nelle aziende l’organizzazione del lavoro è sempre stata imperniata su un nucleo centrale, che dà le direttive e coordina i diversi servizi: Politica, Esteri, Cronaca, Economia, Cultura, Spettacoli, Costume, Sport. La redazione è sostantivo con il quale viene altresì indicato sia 50

l’atto (redigere un articolo), sia il luogo che ospita il gruppo dei giornalisti, sovente un open space di molti metri quadrati, dove si scrive, si titola, si impagina. Un quotidiano di carta apre i battenti nelle prime ore del mattino e li richiude a notte fonda, dopo aver allestito l’ultima edizione, quella che sarà distribuita nelle edicole locali. I turni di lavoro sono faticosi. Capiservizio e capiredattori spesso (all’estero non è così) sono presenti in tutti i momenti della produzione. Si lavora anche durante le ore notturne, nonché la domenica e in quasi tutti i giorni di festa (la retribuzione fa un bel salto). La redazione fronteggia ogni esigenza. Cerca e raccoglie le informazioni, le valuta e sceglie quali offrire, con maggiore o minore rilievo. E poi scrive, titola, illustra, seleziona e impagina le foto. Di solito è abbondante il contributo di collaboratori esterni, più imponente nei periodici e nelle pagine regionali e locali, che dispongono di un numero di redattori di gran lunga inferiore rispetto alle testate nazionali. Si tratta di un lavoro intellettuale in ogni caso delicato, che offre al pubblico un’informazione che può avere effetti anche pratici e non può essere considerata alla stregua di una merce qualsiasi. 3. Scenari presenti e futuri Con il passare degli anni, nelle redazioni si è rafforzato enormemente il lavoro di desk: sono aumentati i redattori addetti alla grafica e all’allestimento delle pagine, sono diminuiti gli inviati, i cronisti (i reporter) che vanno sul posto e raccolgono personalmente le informazioni. Grazie anche al potenziamento delle agenzie di stampa – le loro notizie arrivano direttamente sul video dei redattori – moltissimi redattori sono fermi davanti alla loro tastiera. Lavorano ore per tagliare, incollare, adattare, riscrivere, titolare. Squadre di figure multimansioni, che somigliano sempre più agli operai di una catena di montaggio, piuttosto che agli intellettuali autonomi e responsabilizzati che erano alla base del modello informativo. In questo senso il giornalismo è diventato attività più impiegatizia e ripetitiva. Le personalità scompaiono, la ricerca della notizia non c’è ed è sostituita da un lavoro di adattamento, di riduzione, di messa in pagina. Anche se i giornali appaiono indubbiamente molto più ricchi (attraverso l’infografica, i box, i dati, le schede) e curati. Gli ultimi sviluppi tecnologici sembrano assecondare questa ten51

denza. Nel web ci sono migliaia di notizie. Basta tirarle fuori e dar loro una veste grafica, completata da link e rinvii a servizi che le diversificano e offrono al lettore un’ampia possibilità di informarsi e di scendere nei dettagli. Dunque, il lavoro del giornalista si svolgerà sempre più a tavolino? Probabilmente sì, anche se la domanda ineludibile è: chi controlla le informazioni giunte in redazione? Si intravede il rischio concreto di un giornalismo deresponsabilizzato, impersonato da una massa di travet che espongono – come commessi di un supermercato – una merce che non hanno verificato. Un pericolo non da poco per una categoria che ha bisogno di credibilità, se vuole svolgere con successo la funzione di servizio pubblico che le è stata assegnata. L’avvento di Internet, nell’ultima parte del XX secolo, ha cominciato a trasformare i meccanismi di produzione delle notizie. In pratica, la stessa azienda, accanto al proprio prodotto principale (un quotidiano, un notiziario televisivo), ha cominciato a diffondere anche un notiziario elettronico. E per questo ha chiesto ai propri giornalisti di svolgere mansioni che comprendono entrambe le lavorazioni. È in atto una profonda rivoluzione organizzativa. All’inizio i notiziari web sono stati allestiti da pochi giornalisti, scelti fra quelli che più avevano dimestichezza con il nuovo strumento e con il suo linguaggio (link, multimedialità ecc.). Poi le aziende hanno dovuto far fronte alle nuove esigenze, creando veri e propri nuclei redazionali separati, che hanno cominciato a interagire con la redazione centrale (Sabadin, 2007). L’organizzazione della testata, in Italia, ha visto in secondo piano l’edizione web. Prima si fa il giornale base, si diceva, poi si pensa a quello diffuso via Internet. Esisteva la preoccupazione di danneggiare («cannibalizzare») il giornale stampato. Timore ormai tramontato. In molte testate estere avviene ormai il contrario: al notiziario stampato si pensa dopo, anche per via dei suoi tempi meno frenetici. E si privilegia l’obiettivo di porre on line la notizia, fornendo al lettore i maggiori arricchimenti possibili. In altre nazioni questa progressiva integrazione ha assunto ritmi accelerati. Ci sono aziende che già possiedono redazioni omnicomprensive, formate da giornalisti in grado, ciascuno, di elaborare e modellare i propri materiali in diverse forme, per il giornale stampato (o radio-tv) e per quello on line. 52

Libertà, professionalità e organizzazione sono gli elementi sui quali ha fatto perno l’analisi sociologica nel tentativo di catalogare le diverse forme di giornalismo presenti all’interno della galassia dell’informazione; è evidente l’esistenza di sistemi giornalistici con caratteristiche differenti, sia nella sostanza sia nell’impostazione. La libertà, intesa come reale indipendenza è il primo requisito. La Freedom House, una delle organizzazioni internazionali che seguono l’evolversi della libertà di stampa, colloca l’Italia piuttosto in basso nella classifica delle nazioni sviluppate. Sulla natura del prodotto giornalistico influiscono, in misura diversa da un paese all’altro, l’evoluzione della democrazia, lo sviluppo industriale, l’interesse della collettività per le attività professionali, per le specializzazioni. Nonché la separazione più o meno accentuata fra gli interessi di parte e quelli collettivi. Gli scenari giornalistici sono così visti e catalogati sulla base della diversa composizione di questi elementi. Ad esempio, Giovanni Bechelloni distingue tre tipicità – americana, anglosassone e latina –, all’inizio molto divergenti, poi via via più vicine. Ritiene che i giornali statunitensi siano prodotti sulla base di un’etica che guarda alla obiettività possibile e punta sulla cronaca, sulla ricerca della verità del fatto: «Tell the true», sempre, dicono gli americani. E giocano in questa direzione la propria credibilità, imitati dagli scandinavi e dai tedeschi. Nei paesi del Mediterraneo, e fra questi l’Italia, i giornalisti sembrano più interessati a spiegare il fatto. Per questo, finiti sul terreno delle opinioni, appaiono (e alcuni sono) schierati, di parte, dunque meno autorevoli. All’estremo opposto si pongono gli anglosassoni, legati alla completezza e alla chiarezza, che non commentano i fatti o lo fanno solo dopo averli ricostruiti con neutralità (Bechelloni, 1995). Il grado di libertà rispetto ai regimi politici, i sistemi industriali, il livello di autonomia dei giornalisti, l’influenza della pubblicità, sono elementi sui quali si basano modelli differenti, stratificati e consolidati all’interno di società e culture anche molto lontane le une dalle altre. A una tripartizione sono pervenuti Daniel C. Hallin e Paolo Mancini, autori che hanno seguito il percorso aperto negli anni Cinquanta dal celebre saggio Four Theories of the Press (Siebert, Peterson, Shramm, 1956). I parametri scelti sono stati l’aspirazione all’obiettività, il grado di professionalizzazione, il rapporto delle in53

dustrie editoriali con la sfera politica e partitica. Su questa base, è stato possibile individuare un’area nord-atlantica, di cultura liberale, dove l’informazione di massa è stata più precoce e, in un mercato subito sviluppato, ha contribuito con forza all’affermazione della democrazia. Quest’area è formata dalle nazioni del Nord Europa, dove l’informazione si è fortemente professionalizzata e al tempo stesso autoregolamentata, caratterizzata anche da un sostegno dello Stato a favore delle imprese. Infine, un gruppo di paesi (Francia, Grecia, Portogallo, Spagna, Italia), definito «sistema pluralista polarizzato»: sono territori nei quali la democrazia ha fatto più fatica ad affermarsi, l’informazione è rimasta fortemente legata alla politica, la professionalizzazione è stata più scarsa (Hallin, Mancini, 2006). Qui c’è anche la nostra fotografia. Nelle redazioni entrano persone prive di qualsiasi preparazione. Nel nostro giornalismo c’è un romanticismo e in qualche caso una passione civile, che costituiscono spinte formidabili, ma che limitano il raziocinio e l’autocontrollo, privilegiano l’opinione personale a fronte del resoconto freddo e il più possibile oggettivo e completo dei fatti, ciò che in altre nazioni rappresenta il vero traguardo da raggiungere, sia per i giornalisti sia per gli editori. Per chi fa questo lavoro è importante la capacità di relazionarsi. «Il giornalista deve avere gli strumenti adeguati a interpretare e rielaborare la complessa articolazione emergente dall’infittirsi delle interazioni sociali» (Sorrentino, a cura di, 2006). La redazione lo condiziona perché possiede una sua agenda, una catalogazione degli eventi, un termometro con cui misura l’interesse (presunto) del pubblico. E il singolo redattore deve adeguarsi o, nei casi migliori, combattere una tesi che non condivide, per affermare la propria. Allo stesso modo i giornalisti devono possedere una flessibilità professionale e culturale idonea a indirizzarli e a far loro intendere i mutamenti e le nuove esigenze. Sulla base di questa professionalità si concretizzeranno la stesura di un pezzo, l’articolazione di una pagina, la prevalenza di alcuni generi di notizie a scapito di altre. La selezione avviene sulla base di una gerarchia e questa, che pure è utile per muovere una macchina che va ad alta velocità, ingessa il prodotto giornalistico. Ecco spiegato perché, certe mattine, i quotidiani sembrano tutti uguali. L’omogeneizzazione discende dalla cristallizzazione di certi criteri (Wolf, 1998). Lo spettatore attende incuriosito, ogni sera, un te54

legiornale diverso. Invece ne vede quasi sempre uno uguale a quello della sera precedente. Pur essendo i fatti tutti differenti e la realtà un caleidoscopio, molti organi di informazione appaiono sempre simili a se stessi. Sistemi organizzativi, gerarchizzazione, metodi e antenne per la selezione e la catalogazione dei fatti sembrano unidirezionali. Captano solo alcuni segnali e non altri. Alcuni fatti diventano notizie tutte le sere, altri mai. Come se la cultura professionale dei giornalisti imprigionasse la realtà in schemi prefissati, dai quali non si può sfuggire perché la sensibilità dei singoli redattori è ormai in linea con la rotta disegnata (non per caso si parla di linea editoriale). La tipizzazione – soprattutto negli strumenti di informazione più vecchi – incasella i fatti rapidamente e li traduce in articoli, in servizi radiofonici e televisivi, sempre allo stesso modo. In questo senso, pur non essendo impiegati, i giornalisti finiscono per applicare modalità di lavoro che somigliano a quelli dei travet. In questo senso la redazione sembra uccidere il giornalismo, lo annebbia, gli toglie appeal. Essa in realtà è uno strumento per catalizzare le professionalità, per sommarle e massimizzare i valori che esse esprimono, è una struttura che dovrebbe rafforzare la gracilità del singolo giornalista. Purché al suo interno si sviluppino il confronto e la critica, giorno per giorno, ora per ora. Solo allora un simile organismo irrobustisce il giornalismo, lo rende impermeabile rispetto alle pressioni esterne. Il giornalismo americano ha sicuramente scelto questa strada, sul terreno dell’etica (al suo interno essa è capace di espellere i reprobi e i falsari) sia su quello dell’autonomia, per tenere lontani coloro che chiedono questa o quella notizia, questo o quell’appoggio. Ma il difetto principale del giornalismo italiano è comunque quello di non essere riuscito ad affrancarsi. La sua indipendenza è sempre stata limitata, per gli stretti legami che gli editori e i loro giornalisti hanno tenuto sia con la classe politica sia con quella economica. E non solo. Anche negli specifici settori dell’informazione, la cultura ad esempio, l’attività giornalistica – qua e là brillante – non ha tenuto le distanze dai protagonisti della letteratura, del teatro, del cinema. Tanto meno da quelli della televisione, che ha esaltato e celebrato. La discussione sui mass media è sempre caratterizzata da un’impronta ideologica, uno spirito critico poco liberal e più spesso piegato sulle idee di questa o quella parte politica (Roidi, 2008). 55

Il nostro paese, tanto sul piano storico quanto su quello della maturazione di un’industria culturale nazionale, nel passato ha esaltato il modello della comunicazione rispetto a quello dell’informazione, in modo tale da far prevalere la cultura dell’audiovisivo e della centralità televisiva, che ha eroso lo spazio per il testo e la scrittura (Morcellini, Midulla, 2003).

L’informazione giornalistica non è mai stata apprezzata per il valore in sé, all’interno di una democrazia costruita sull’equilibrio dei poteri e sulla massima libertà di espressione. Rispetto ad altre nazioni la nostra storia culturale ha prodotto un interesse più per la comunicazione che per l’informazione vera e propria. Anche ora, il fragore oceanico derivato dall’uso degli strumenti più moderni sembra indirizzarsi all’atto bidirezionale del dare e ricevere comunicazioni, più che a quello di dare e apprendere informazioni. Il giornalismo appare come una delle utilizzazioni e delle modalità, non certo quella principale. Un’opportunità, affiancata ad altre: l’intrattenimento, la letteratura, le arti. Uno strumento indistinto, mai ritenuto un pilastro della vita democratica. Solo negli ultimi anni del Novecento l’ispirazione e la ragione del giornalismo sono sembrate modificarsi. È comparsa una diversa legittimazione. Dopo il fascismo era ripresa prepotente una spinta libertaria e per molti versi anarchica. Il giornalista rivendicava un ruolo assoluto, interpretava il proprio diritto di cronaca quasi fosse una prerogativa per scrivere qualsiasi cosa. E conculcava alcuni diritti della persona, che pure erano protetti dalla Costituzione alla pari del diritto di fare informazione. Il giornalista era un sacerdote, impegnato in una missione che stava alla base della vita democratica. La stessa esistenza di un Ordine e di un Albo aveva consolidato questa idea che il giornalista fosse dotato di un enorme potere. Egli doveva e poteva scrivere e diffondere le proprie notizie. E poiché il suo lavoro era essenziale per la collettività, occorreva sopportare che alcune persone pagassero un prezzo individuale anche alto. Chi si trovava coinvolto negli avvenimenti o impigliato nei meccanismi della giustizia doveva sottostare alla supremazia dell’informazione, che rappresentava il bene sommo, indiscutibile. La legge n. 69 del 1963 aveva affermato che la libertà di informazione era un «diritto insopprimibile dei giornalisti». Peraltro essa doveva intendersi limitata «dalle norme dettate a tutela della personalità altrui» (art. 2). Lo stesso Guido Gonella, artefice principale di 56

quella legge, aveva sempre ricordato che «la libertà di stampa è un diritto della persona e deve coesistere con gli altri diritti della persona» (Gonella, 1959). Ma nella realtà il primo, anzi la prima, aveva finito per prevalere sui secondi. Nell’ultima parte del secolo è stata avvertita con maggiore forza l’esigenza di un bilanciamento. Ciò è avvenuto perché ha cominciato a delinearsi un diritto dei cittadini a essere informati, forse superiore e prioritario rispetto a quello del giornalista a svolgere il proprio lavoro (Razzante, 2008). E negli stessi anni, accanto all’affermazione di questa teoria dell’informazione, l’ordinamento giuridico ha delineato un più profondo diritto della persona alla propria intimità. La legge sulla privacy (n. 675 del 1996) ha contribuito a spostare i valori in campo. Ed ecco che al centro dell’obiettivo è comparsa l’informazione come valore pubblico, non il giornalista come titolare della funzione informativa. È il bene della collettività che deve essere realizzato, non il diritto del giornalista. Il suo diritto di cronaca esiste in quanto finalizzato all’interesse pubblico. Giornalisti e mass media dovrebbero rendersi conto che il concetto stesso di libertà alla base del loro lavoro è mutato. Sarà dunque l’interesse pubblico di una determinata notizia a dare al giornalista il diritto di oltrepassare il diritto del singolo alla protezione della propria intimità (Morresi, 2004).

Cambia la legittimazione del lavoro giornalistico. Non basta sbandierare e far valere la libertà di espressione. La motivazione e la finalità devono essere «pubbliche», vale a dire riferite alla collettività. Una concezione nella quale è insito certo un rischio: chi stabilisce cosa è di interesse pubblico e cosa non lo è? Qual è il limite e quale il giudice della natura dell’informazione che viene diffusa? In una concezione nella quale il carattere dell’informazione diffusa dal giornalista deve essere pubblico, cioè di interesse della collettività, si delinea il pericolo che altri soggetti pretendano di valutare la natura della notizia e della modalità con cui è stata raccontata, con ciò limitando e censurando in modo intollerabile l’attività del giornalista. Non è un pericolo di poco conto, considerate le forze in campo e le pressioni che già oggi si riversano sul giornalismo.

L’etica, la deontologia, l’autonomia

1. Lontano dalla verità: pubblicità e bufale La diffusione delle notizie giornalistiche è confusa, sommersa in un oceano dove si trova di tutto: informazioni interessate, segnalazioni, avvisi, forme di intrattenimento, pubblicità. E autentiche bufale, cioè invenzioni, imbrogli belli e buoni. Il cittadino fa fatica a individuare il messaggio giornalistico. Spesso non ha neppure voglia di districarsi nel groviglio di segnali, suoni, chiacchiere, rumori che giungono alle sue orecchie o ai suoi occhi. E molti sono coloro che non hanno interesse a distinguere con nettezza i notiziari giornalistici. Alcuni rotocalchi hanno perso completamente le caratteristiche del veicolo informativo. Decine di pubblicazioni periodiche vivono esclusivamente di pubblicità, così come i canali televisivi e radiofonici privati, per i quali non si paga canone né abbonamento. Come abbiamo visto, già nell’Ottocento editori e giornalisti hanno trovato nella pubblicità una forma di guadagno, da aggiungere a quella proveniente dall’edicola. Ma col tempo l’apporto della pubblicità alle casse dei giornali si è andato ingigantendo, tanto che la percentuale dei ricavi supera spesso il 50 per cento del totale. Non solo i giornali, ma anche le televisioni (e in minor misura le radio) vivono ormai di pubblicità. Un programma televisivo viene chiuso dopo la seconda puntata se gli ascolti sono inferiori alle attese, perché i clienti pubblicitari scappano se i dirigenti di quel canale non corrono subito ai ripari. Non succede per i notiziari giornalistici, ma anche i direttori sono sottoposti a spinte e pressioni. La pubblicità infarcisce le pagine e caccia fuori le notizie. Si vedono blocchi enormi di réclame che storpiano la grafica, con l’assenso dei direttori. 58

La pubblicità è il «braccio armato del mercato – ha scritto Giorgio Bocca – è la creatrice irresistibile di desideri e di consumi, la potentissima locomotiva che trascina il genere umano verso nuovi desideri e forse nuove guerre e forse verso l’autodistruzione». Per adattarsi alle esigenze del marketing «l’informazione deve essere sempre un pugno nello stomaco, deve stupire, impressionare, lasciare il segno sul lettore» (Bocca, 2008). Per questo assistiamo a un giornalismo che esalta, drammatizza, è catastrofista o ottimista. Un’informazione esagerata, perché così la vuole chi con i suoi soldi tiene su le finanze dell’editoria. I giornalisti hanno tentato di difendersi dall’assedio della pubblicità, venendo a patti. Il loro sindacato ha concordato, fin dal 1988, regole che miravano a tenere distinto il messaggio pubblicitario dalle notizie e imponevano l’obbligo nella carta stampata di utilizzare caratteri diversi e di segnalare la natura pubblicitaria di alcuni messaggi. Regole ormai insufficienti e applicate in mala fede. Basti rilevare il «corpo» piccolissimo, quasi illeggibile usato per gli avvisi ai lettori. In campo televisivo, le trasmissioni di intrattenimento hanno incamerato la pubblicità. Si vedono conduttori e presentatori famosi che si fermano per mandare in onda spot dei quali essi stessi sono protagonisti. Le preoccupazioni e le raccomandazioni espresse dall’Unione europea sono continuamente violate. Scarse sono le reazioni delle Autorità di controllo sulla concorrenza e sulle telecomunicazioni create dal Parlamento. Perfino la Rai, che ha una concessione di pubblico servizio, mischia i generi, confonde il giornalismo con altre forme di spettacolo, utilizza giornalisti come programmisti e, viceversa, non giornalisti in trasmissioni di natura informativa. Il risultato è un guazzabuglio in cui il giornalismo è annacquato e inquinato. Un mondo in cui non si sa chi fa che cosa. Humphrey Bogart diceva «È la stampa, bellezza», a indicare che la rotativa era partita e che quel potere non poteva essere fermato. Oggi la frase è un’altra: «È la liberalizzazione, è la globalizzazione», come se tutto debba essere consentito. Marshall McLuhan disse che l’informazione sul pianeta sarebbe divenuta globale ed è accaduto. La rete copre ogni angolo del mondo, ma non si vede perché al suo interno la natura dei messaggi debba essere affogata in un’enorme insalata. Mentre i pomodori si possono mangiare anche separati dalla verdura, dalle zucchine, dalle carote, le notizie devono essere confuse con altri generi di comunicazione. Ma è davvero inevitabile? 59

I giornalisti hanno capito che la pubblicità, oltre a rappresentare un combustibile per le proprie aziende, può rivelarsi un veleno mortale. Per questo l’Ordine ha proibito ai propri iscritti di fare spot, se non per fini umanitari e di beneficenza. Ma la questione è culturale e non di rado si sono visti celebri direttori di giornali partecipare a spot, che minano la credibilità del giornalista. Perché il cittadino si chiede: ma quello mi dice la verità o propaganda la sua merce? Ci sono altri veleni che intossicano l’attività giornalistica. L’elenco è lungo. Nemici del buon giornalismo sono la partigianeria, la presunzione e naturalmente la vanità e lo «scoopismo», la voglia di emergere e di trovare notizie sensazionali. Anche i titoli possono essere fonte di ambiguità, sotterfugi per creare appeal verso un articolo, che invece una volta letto si rivelerà poco interessante. La grafica dei quotidiani ha ormai scelto titoli sparati, a tutta pagina, che ingigantiscono un’informazione (e minimizzano le altre) come facevano un tempo i giornali della sera, che puntavano tutto sull’avvenimento dell’ultima ora. Ma il lettore oggi riconosce una notizia gonfiata, si accorge quando un quotidiano – per realizzare la propria linea editoriale – esagera, imbocca la strada dello scandalismo. Metodi che tolgono credibilità al giornalismo. Poi esistono le «bufale». I falsi giornalistici hanno riempito le biblioteche. Fra i più clamorosi, se ne possono segnalare almeno tre: il caso «Timisoara», quello di Janet Cooke e gli imbrogli di Jayson Blair. Nel dicembre del 1989, in Romania, la popolazione si sollevò contro il dittatore Nicolae Ceauçescu. La repressione fu durissima. Le frontiere vennero chiuse ai giornalisti. Finché dalla città di Timisoara (vicina al confine con l’Ungheria) vennero le prime notizie di un «massacro»: centinaia di morti trovati nelle fosse comuni. Le informazioni vennero confermate dai profughi che riuscivano a fuggire all’estero. L’agenzia iugoslava Tanjug e le fonti ungheresi confermarono. Le televisioni di tutto il mondo mostrarono immagini di corpi sventrati – in particolare quelli di una donna e della sua figlioletta orribilmente martoriati – e fissarono il bilancio a 4362 morti. Solo un mese più tardi si cominciò a dubitare e fu la France Press a parlare di messinscena. Un falso giornalistico, costruito prendendo cadaveri da un cimitero. La donna era morta di cirrosi epatica, la bambina per una congestione e i loro corpi non portavano i segni 60

della tortura, ma quelli dell’autopsia. Nessuno aveva controllato quelle informazioni false e, cosa ancora più grave, una volta scoperto l’imbroglio, pochissimi organi di stampa (fra i quali le più illustri testate europee) rivelarono l’errore ai propri lettori (Roidi, 2008). Nel giornalismo degli Stati Uniti, lo scandalo più cocente fu quello che vide protagonista una giornalista del «Washington Post». Janet Cooke aveva vinto il premio Pulitzer per aver raccontato nel 1980 la storia di Jimmy, un bambino di 8 anni, che era stato drogato dall’amante della madre. Una vicenda orribile, al punto che le autorità avevano incalzato la giornalista affinché collaborasse alla punizione del colpevole rivelandone il nome. La Cooke, con le spalle al muro, alla fine aveva ceduto e ammesso di aver inventato tutto. Peraltro, il giornalismo americano, pur con i suoi clamorosi infortuni, ha mostrato di avere un’idea solida dei propri doveri e delle proprie finalità (Brancoli, 1994). Molto simile il putiferio al «New York Times», sollevato dal caso di Jayson Blair, un altro reporter di cui la categoria si è dovuta vergognare. Jayson era un cronista di colore, potremmo definirlo un «reporter d’assalto», molto apprezzato dai capiredattori del «New York Times», ma poco amato dai colleghi. Si scoprì che aveva copiato da un giornale texano l’intervista a una soldatessa fatta prigioniera dagli iracheni e liberata dai marines. E fu provato che il vizio lo aveva spesso. Per almeno una trentina di volte aveva copiato articoli di altri giornali senza mai citare la fonte. Quando lavorava a un fatto, raramente andava sul posto. Preferiva scrivere da casa propria, con l’aiuto di una fidanzata topo d’archivio che gli procurava foto utili a ricostruire i luoghi degli avvenimenti. Scoppiato lo scandalo, il direttore del «New York Times», Howell Raines, si dimise. Non solo aveva fatto di Blair il suo pupillo, ma aveva guidato la redazione come un gruppo di avventurieri: «Ogni giorno l’America deve parlare della nostra prima pagina», diceva. Non si rendeva conto che il giornale stava perdendo pezzi della propria credibilità. Il giornalismo deraglia perché vuole stravincere. Inventa i fatti perché non ne trova di sufficientemente attraenti. Ma le osservazioni che si possono fare sono anche altre. Nel caso di Timisoara, la cosa più preoccupante fu la rapidità con cui la notizia falsa si diffuse. Grazie alla credulità dei colleghi e al tam tam delle agenzie di stampa, quella notizia fece il giro del mondo. Le 61

conseguenze politiche potevano rivelarsi disastrose, visto che in Romania era in atto la ribellione di un popolo contro la dittatura. Il caso del giovane Blair mostra invece quanto possano essere pericolosi l’arrivismo e l’ambizione, a quali risultati possa portare il giornalismo d’assalto (se non accompagnato da una buona dose di onestà e di umiltà). Occorrono antidoti energici. Introdurli non spetta ai lettori, anche se costoro possono informarsi attraverso cento altri canali e «controllare» in qualche modo l’informazione errata. Ma la responsabilità primaria sta nei vertici di ciascuna struttura editoriale, che deve prevedere meccanismi capaci di indicare ed espellere i reprobi. Per questo l’uragano causato dal comportamento di Blair provocò al «New York Times» l’uscita del direttore e del suo vice Gerald Boyd. Diverso è il discorso sugli errori che un giornalista commette, talvolta, spinto dalla voglia di strafare. Fu volontario o no l’errore commesso da Andrew Gilligan? Dopo cinque anni, gli ascoltatori della radio inglese ancora ne discutono, perché l’episodio fece tremare il governo di Tony Blair. All’inizio del 2004, quando le truppe americane e inglesi erano impegnate a mettere ordine in Iraq, i sudditi della regina Elisabetta si domandarono se esistessero davvero le armi chimiche che George Bush aveva preso a pretesto per l’invasione. Grande era stata l’impressione provocata dalla morte (ufficialmente «suicidio») dello scienziato David Kelly, il cui corpo era stato trovato in un prato dell’Oxfordshire, con le vene dei polsi tagliate. Lo scandalo politico scoppiò quando Andrew Gilligan, giornalista radiofonico, una mattina disse ai microfoni della Bbc (la «zietta», come la chiamano affettuosamente gli inglesi) che il governo Blair aveva alterato la relazione della commissione internazionale che aveva indagato sull’esistenza delle armi di distruzione di massa, l’aveva in qualche modo gonfiata («sexed up») per giustificare l’intervento armato. In quei giorni erano morti i primi soldati britannici al fronte. Il governo Blair reagì con durezza. Lo staff del primo ministro (in cui si distinse il capo delle comunicazioni Alistair Campbell) chiese la testa di Gilligan, che non volle rivelare la fonte delle proprie informazioni. Kelly, che sulla presenza delle armi aveva indagato, si era sentito probabilmente tradito e per questo si era ucciso. Il primo ministro tentò di sedare la tempesta chiedendo l’intervento di un giudice neutrale. Fu nominato Lord Hutton che dopo qualche giorno 62

dette torto a Gilligan e ragione al governo. Di qui le dimissioni del vertice della Bbc (che aveva difeso il cronista ed era accusato di non averlo controllato) e l’uscita dall’azienda di Gilligan. Una vicenda che qualcuno ha usato per mettere in dubbio la leggendaria serietà dell’azienda radiotelevisiva inglese. In realtà, il successivo Rapporto Butler, più approfondito e neutrale di quello elaborato da Lord Hutton, dimostrò che Gilligan sostanzialmente aveva detto il vero, perché gli scienziati erano ormai sicuri che le armi chimiche in Iraq non esistessero. E Kelly lo aveva confermato. In conclusione, si può osservare che: – poche parole, usate in un notiziario radiofonico, possono scatenare il putiferio; – il governo britannico, messa in campo tutta la propria forza, aveva ottenuto un parere «amico» e schiacciato il giornalista; – l’informazione, se vuole restare libera, deve dire anche cose scomode, purché siano esatte; anche un piccolo errore, un’imperfezione provocata da una dose eccessiva di disinvoltura, può causare disastri. In quel caso portò Kelly, peraltro sempre coperto da Gilligan, fino al suicidio, perché non aveva ben calcolato il ginepraio in cui si cacciava rispondendo alle domande di un giornalista privo di scrupoli. Anche noi italiani abbiamo una galleria di nefandezze, ben nascosta negli armadi. Con il sorriso sulle labbra e una punta di onestà è sufficiente ricordare l’episodio accaduto quando sull’«Unione sarda» venne pubblicata, in prima pagina, la vicenda di un pensionato che aveva rubato in un supermercato un pacco di pasta e del formaggio. L’articolo diceva che era stato colto sul fatto dai proprietari dello spaccio e che però gli abitanti del quartiere avevano ottenuto che fosse perdonato. Il colpevole era dunque tornato libero e la sua storia aveva fatto capolino su tutti i giornali italiani e sulle principali tv. Fino a quando gli stessi giornalisti dell’«Unione sarda» avevano scoperto che la storia, inviata da un collaboratore, era interamente parto della sua fantasia. Peraltro i redattori l’avevano impaginata con tanto di foto del market dove il furto era avvenuto, evidentemente falsa anche quella. Drammatizzare un episodio come questo non serve. È utile invece osservare che la bufala è dietro l’angolo e che grandi e piccole redazioni possono essere infettate. Non solo il mestiere espone a rischi, ma l’impudenza, la faciloneria, la voglia di mettersi in mostra, da par63

te di giornalisti veri o presunti, rende questa attività non facilmente difendibile. 2. Diritti e doveri del giornalista Filosofi e sociologi dell’informazione hanno cercato di individuare i valori base dell’attività giornalistica, i principi sui quali, in alcuni paesi, sono state innestate vere e proprie regole di comportamento, che costituiscono la deontologia di questa professione. Diversi sono, come abbiamo visto, gli interessi che premono sui giornalisti e non unanime la concezione sui fondamenti del mestiere. Stabilito chi sono e cosa fanno i giornalisti, c’è poi da individuare quale sia la retta via. Senza risalire ad Aristotele e a un’astratta regola dell’agire umano, si tratta di indicare i principi ai quali deve essere ispirata l’informazione giornalistica e, di conseguenza, quali regole devono rispettare coloro che la praticano. Detto che l’agire giornalistico ha come fondamento il sacro valore della libertà di stampa, quali sono i limiti e i paletti? In ogni epoca sono state diverse le risposte. Il giornalista, visto dapprima come un letterato, uno scriba, un cronista da strapazzo, solo in tempi più recenti è diventato il cane da guardia dei potenti. Una figura considerata al servizio della collettività, colui che assume l’impegno di informare il cittadino, per aiutarlo a conoscere, a farsi delle opinioni, a votare con consapevolezza. Ciò è avvenuto, come abbiamo visto, con più facilità nelle nazioni che prima di altre hanno visto diffondersi le idee liberali, i diritti umani e la coscienza civile. Nella nostra penisola la fine del ventennio mussoliniano, la nascita della Repubblica e l’approvazione della Costituzione, nel 1948, aprirono un’epoca nuova. Ma aboliti gli orrori del fascismo, quale era l’idea, il valore etico che la collettività affidò a chi svolgeva questa attività? Per secoli, la credibilità della categoria si è retta sulla visibilità e l’autorevolezza di alcuni giornalisti, personaggi noti, direttori di giornali, che combattevano furiose battaglie politiche. Ma è mancata una teoria del giornalismo, che tutti i filosofi e i sociologi hanno poi imperniato sul rapporto fra il giornalista e il potere. Per questo, alcuni hanno parlato di stampa come «quarto potere»; e poi della televisione come «quinto» potere. Quasi che i titolari di questa attività 64

fossero in possesso di autonome facoltà e prerogative, e si ponessero in posizione di concorrenza con le istituzioni dello Stato liberale, retto, a partire da Montesquieu, sull’equilibrio fra i detentori dei tre poteri fondamentali: legislativo, esecutivo e giudiziario. Che gli operatori del giornalismo possano essere considerati soggetti appartenenti a un corpo del tutto indipendente, capace di influenzare o indirizzare le sorti del paese, è sicuramente teoria inaccettabile. Anche se discende direttamente dalla libertà di espressione, come baluardo della vita civile, di cui devono godere tutti i cittadini. Va respinta l’idea di un potere autonomo, tra l’altro – non lo si dimentichi – nelle mani di pochi capitalisti. Comprensibile che organi di informazione letti o ascoltati da milioni di persone riscuotano favore e consenso. Ma poiché i loro esponenti non hanno ottenuto alcun mandato a reggere le leve della nazione, non possono arrogarsi le prerogative degli uomini politici, che invece è giusto che detengano il potere. No al giornale-partito, insomma. D’altra parte, c’è chi minimizza il compito del giornalista e lo paragona a un guardiano, a un manovratore dei rubinetti della diga da cui far passare questo o quel flusso di notizie. Concezione ben più accettabile, perché inserita nel corretto alveo della vita democratica, è invece quella che intende il giornalismo come controllo del potere. Ecco il «cane da guardia» teorizzato nel mondo anglosassone, un sorvegliante, un osservatore della vita pubblica, che riferisca e spieghi gli eventi al cittadino. In Italia c’è da domandarsi quanto l’idea del watch dog abbia attecchito, quanto venga vissuta nelle redazioni e insegnata ai giovani praticanti. Sembrano ancora prevalere i comportamenti derivanti da quella libertà un po’ anarcoide che fece seguito al fascismo e che non tiene in grande conto neppure gli altri diritti costituzionali della persona. Nella legge n. 69 del 1963 c’è l’articolo 2, che si intitola Diritti e doveri: È diritto insopprimibile dei giornalisti la libertà di informazione e di critica, limitata dall’osservanza delle norme di legge dettate a tutela della personalità altrui ed è loro obbligo inderogabile il rispetto della verità sostanziale dei fatti, osservati sempre i doveri imposti dalla lealtà e dalla buona fede. Devono essere rettificate le notizie che risultino inesatte, e riparati gli eventuali errori. 65

Giornalisti ed editori sono tenuti a rispettare il segreto professionale sulla fonte delle notizie, quando ciò sia richiesto dal carattere fiduciario di esse, e a promuovere lo spirito di collaborazione fra colleghi, la cooperazione fra giornalisti e editori, e la fiducia tra la stampa e i lettori.

Dopo aver affermato con forza che il giornalista deve essere libero – l’aggettivo «insopprimibile» è totale, indica qualcosa di intoccabile – la legge dà a costui un obbligo «inderogabile» che è la ricerca della verità. Ecco cristallizzato il cardine dell’attività giornalistica, il fondamento della sua concezione etica. Come è stato interpretato questo articolo della legge? In realtà il rispetto dei diritti derivanti dalla «tutela della personalità altrui» è rimasto in secondo piano. Il giornalismo è stato vissuto ed esercitato facendo perno quasi esclusivo sulla libertà. Sul diritto più che sul dovere. La verità e i diritti delle persone – non è difficile dimostrarlo – sono stati spesso sacrificati sull’altare della libera informazione. È negli ultimi anni che norme deontologiche hanno cominciato a prevedere la difesa dei diritti della persona, protetti dalla Carta costituzionale. Regole, scritte dagli organismi rappresentativi dei giornalisti (Ordine e Fnsi), che non sempre sono entrate nella coscienza degli iscritti all’Albo. Ciò in seguito alle resistenze e alle obiezioni che vengono avanzate nei confronti dei codici etici. Si dice che la libertà è un requisito morale, che ciascuno deve coltivare. Esso deve vivere e affermarsi nei comportamenti dei giornalisti. A poco servono le regole scritte a fronte di difficoltà reali e degli interessi forti (dell’editore, per primo), che non coincidono con la finalità della buona informazione. Obiettivi politici, economici che spesso confliggono con la ricerca della verità e che tengono il giornalista – inserito nel meccanismo di un’azienda editoriale – imbrigliato e immobilizzato. E poi, quanti giornalisti sono realmente impegnati a trovare e diffondere la verità? Esiste un giornalismo di parte, che si esprime non solo nelle opinioni, ma anche nel semplice racconto dei fatti. Giornali militanti, giornalisti che piegano lo strumento usato per finalità tutte diverse, come sostenere o abbattere un governo, far vincere un partito, realizzare gli obiettivi commerciali o i secondi fini di un editore. Si conciliano queste applicazioni del giornalismo con la solenne affermazione dell’articolo 2 sull’obbligo di cercare e diffondere la verità? 66

La risposta, certo semplicistica è in una successiva domanda: quale verità? Ciascuno ha la sua, ciascuno ha il diritto di diffondere le informazioni secondo il proprio occhio e il proprio metro di valutazione. Cento sono i modi per fotografarla, cento sono i punti di partenza, le nozioni, le culture, che ogni giornalista porta nel proprio bagaglio. L’obiezione in realtà è di comodo. Si può accettare solo se accanto al proprio giudizio – che influenza il racconto del fatto – sopravvive l’obbligo di tendere alla verità, di avvicinarla. Ma chiaramente così non è. Molta parte del giornalismo dimentica il proprio fine. E allora la costruzione di un giornalismo professionale, che prenda le mosse dalla libertà proclamata nell’articolo 21 della Costituzione, ma si concretizzi in un rigoroso atteggiamento etico, traballa o crolla del tutto. La discussione sull’impossibilità di raggiungere l’obiettività è stata addotta da molti a giustificazione della propria faziosità. «Sono di parte, poiché l’obiettività non è raggiungibile e dunque, con onestà proclamo la mia soggettività», affermazione che si trasforma in arrogante teoria, allo scopo di giustificare comportamenti e nefandezze. E il giornalismo perde ogni credibilità. Al punto che in Italia gran parte degli operatori del giornalismo (ad esempio quelli che operano nel settore dei rotocalchi e del pettegolezzo) non sembrano disporre di alcuna, reale base etica. Se non quella del commercio. Che ha una sua liceità, ma che nulla ha a che fare con ciò che il Parlamento ha disposto nell’articolo 2 della legge del 1963. Nei paesi anglosassoni si mira all’onestà del giornalista, si afferma che l’obiettività è una meta impossibile, ma ciò non toglie che ad essa debba guardare il giornalista responsabile. E si aggiungono la cura, la completezza, l’accuratezza, impegni che aiutano una cronaca veritiera, anche se difficilmente asettica e neutrale. L’articolo 2 aggiunge poi altri obblighi. La rettifica. La legge afferma che il giornalista deve correggere spontaneamente gli errori e deve pubblicare (insieme con l’editore) le rettifiche chieste. Una norma violata, disapplicata come poche. E dire che risale al 1948, perché era già contenuta nella legge sulla stampa (art. 8). Essa obbliga a pubblicare il testo (massimo 30 righe) inviato dal lettore che si ritiene danneggiato, con lo stesso rilievo e nella stessa posizione grafica. Lo scarso rispetto di questa regola ha due spiegazioni: la pochez67

za della sanzione pecuniaria e, soprattutto, la convinzione del cronista di avere diritto a difendere la propria versione dei fatti, senza farsela «insidiare» dal contenuto della rettifica. Un errore. O meglio la non comprensione di un principio che la legge del 1948 (scritta, ricordiamolo, dall’Assemblea costituente) aveva voluto stabilire. Ovvero che il giornalista è titolare di un poderoso diritto di pubblicare ciò che crede. Però è giusto attribuire un piccolo diritto (30 righe) anche al cittadino coinvolto nella cronaca, dare a costui la possibilità di vedere scritta la propria verità. E ciò a prescindere dall’accertamento successivo, finale, che di solito avverrà nel corso di una vertenza o di un processo vero e proprio. Un principio violato costantemente, segnale di una precisa (in)cultura giornalistica. È abitudine dei giornali pubblicare nella rubrica delle lettere un testo della rettifica sunteggiato. In più di solito il cronista commenta ancora, per riaffermare il suo (presunto) diritto a mantenere l’ultima parola. Il segreto professionale. Il codice civile non aveva incluso i giornalisti fra le categorie titolari del diritto a mantenere il segreto professionale (la levatrice, il confessore, l’avvocato, il medico). Lo fece la legge del 1963, riconoscendo che la protezione della fonte che chiede l’anonimato può essere decisivo per ottenere informazioni delicate. Come prevedono gli ordinamenti di tutto il mondo. Dunque, quando la fonte pone l’anonimato come condizione per la sua testimonianza, quando esplicitamente chiede di restare coperta, il giornalista è tenuto a rispettare questo impegno. La legge gli consente di non rispondere neppure al giudice che eventualmente gli chieda di rivelare l’origine dell’informazione. Il codice di procedura penale, all’articolo 200, ha però introdotto una deroga. Afferma infatti che il giornalista non può sottrarsi al giudice, allorché questi non ha altra possibilità di arrivare alla verità. Cosa farà allora il giornalista? Una delle due leggi (quella professionale o quella penale) prevale sull’altra? Nonostante le disquisizioni in dottrina su questo punto il problema resta personale, di coscienza (Viali, 2005). Il giornalista valuterà i valori in campo, metterà sul piatto della bilancia l’eventualità di essere processato per correità o favoreggiamento. Anche il carcere. Negli Stati Uniti non sono infrequenti episodi di giornalisti che passano parecchi giorni in cella, pur di non tradire la propria fonte. C’è però anche un’osservazione diversa da fare: normalmente, in 68

molti paesi, il giornalista corretto comunica al lettore l’origine delle proprie informazioni. Per abitudine spiega dove ha preso le notizie che sta pubblicando, quali sono stati i suoi informatori. Solo quando la fonte lo chiede, la copre con l’anonimato. Da noi, a ben guardare, c’è pochissima trasparenza. Il cronista scrive senza spiegare da chi è stato informato. Spera così di ottenere altre informazioni dalle sue piccole «gole profonde». Finisce per comportarsi come attore di un gioco di cui fanno parte altre persone (politici, amministratori pubblici, impiegati, carabinieri, poliziotti, medici). Tutti assieme. Non si sa chi abbia raccontato i fatti, con quale esperienza e autorevolezza. L’articolo non rivela chi ci sia dietro quelle rivelazioni, con ciò favorendo talvolta fonti ambigue, le quali sanno che resteranno celate. Un altro esempio di costume giornalistico molto diverso da quello anglosassone. Lealtà e buona fede. L’ultima parte del primo comma dell’articolo 2 della legge professionale chiede ai giornalisti «lealtà» e «buona fede». Il secondo concetto appare chiaro, anche se un simile precetto appare spesso disapplicato. Il primo ha bisogno di un approfondimento. Il giornalista leale non si camuffa. Si qualifica ed espone la sua domanda. È scorretto fare finta di essere un poliziotto, un agente delle tasse o un assistente sociale, per carpire informazioni che altrimenti non si otterrebbero dall’interlocutore. Gli Ordini regionali hanno sanzionato episodi di questo genere. La Carta dei doveri del 1993 (che fra poco tratteremo) ha chiesto però al giornalista di superare qualsiasi ostacolo per accertare la verità nell’interesse della collettività. Dunque non fu sanzionabile quel cronista (Fabrizio Gatti del settimanale «L’Espresso») che, fingendosi un profugo straniero, si gettò in mare, fu ripescato dai carabinieri e per questo trascorse alcuni giorni nel centro di accoglienza di Lampedusa. In tal modo egli riuscì a raccontare quale fosse il trattamento degli extracomunitari, in quel luogo nel quale il ministero degli Interni proibiva l’ingresso. Qualcuno pensò anzi di premiare un cronista così curioso e coraggioso. Lo Stato si è occupato di rado di ciò che devono o non devono fare i giornalisti. Per fortuna. Sono le nazioni di stampo autoritario che stabiliscono come vada esercitata la libertà di stampa. In un paese retto da un ordinamento liberale è logico che il Parlamento non ceda alla volontà di fissare regole che limiterebbero l’esercizio della 69

libertà di stampa. Lo hanno fatto come abbiamo visto i magistrati, nel momento in cui si sono trovati a dirimere controversie e ad applicare le leggi penali e civili. Un giornalista aveva abusato del proprio diritto di cronaca, aveva diffamato un cittadino, lo aveva danneggiato? Per rispondere agli interrogativi il giudice, doveva innanzitutto analizzare la natura del lavoro, la rispondenza alle finalità del giornalismo. E in molti casi finiva per fissare un principio fino a quel momento inesistente. La protezione dei minori. Alcuni limiti di comportamento, che dunque la legge non aveva stabilito, sono stati invece introdotti dagli stessi giornalisti. I loro organismi rappresentativi – in particolare l’Ordine che per legge deve occuparsi di applicare le norme deontologiche – hanno varato regole che sono diventate obbligatorie per i giornalisti italiani. La Carta di Treviso è forse la più nota di queste norme, quella che ha trovato più frequente applicazione, a partire dal 1990. Quell’anno, appunto a Treviso, i rappresentanti dei giornalisti (Ordine, Fnsi e l’organizzazione Telefono Azzurro) stabilirono che i bambini dovessero essere in qualche modo «protetti», nei casi in cui la pubblicazione della loro identità e della loro immagine potesse compromettere una crescita serena. Un minore che si trovi al centro di un fatto di cronaca – questo fu il ragionamento – non è giusto che sia ulteriormente danneggiato dalla notorietà, dalle foto, dal bombardamento dei media, che potrebbe insidiare e ostacolare il suo cammino verso la maggiore età. La convinzione era maturata durante gli anni Ottanta, allorché bambini erano stati di frequente protagonisti di terribili fatti di cronaca. Se ne possono ricordare alcuni, attraverso l’indicazione dei soli nomi di battesimo. Marco, un bambinetto di 4 anni, tenuto prigioniero in una grotta da una banda di gangster (per tre anni), una volta liberato aveva dovuto sottostare, ancora sconvolto e annichilito, al martellamento dei flash, delle interviste, di cronisti che volevano descrivere e immortalare la fine dell’incubo. Serena, una bimba che era stata portata in Italia con un trucco da una coppia senza figli. Il Tribunale dei minori minacciava di toglierla ai falsi genitori adottivi: era giusto, si domandarono i mass media attraverso una raffica di articoli, titoli e interviste? Miriam, la figlia di un professore di matematica che per ordine di 70

una giudice era stato arrestato con l’accusa di atti osceni e lesioni. Una vicenda orribile, pubblicata per filo e per segno, fino a quando si era accertato l’errore della perizia medica (Miriam aveva un tumore) e di conseguenza del magistrato. E poi bambini contesi da genitori separati che speravano di intenerire l’opinione pubblica mostrando i figli innocenti. E altri scappati di casa o che addirittura si erano suicidati. L’informazione per questi minorenni era un pericolo, qualcosa che non li aiutava a rientrare nella normalità dopo aver subito un trauma. La Carta di Treviso stabilì che ad essi doveva essere garantita la protezione che deriva dall’anonimato. Il giornalista doveva avere come obiettivo anzitutto l’interesse del minore, che occorreva far prevalere su qualsiasi altro. Negli stessi anni, del resto, il codice di procedura penale stabilì (art. 114) il divieto di pubblicare «generalità e immagini di minori, testimoni, persone offese e danneggiate». Ormai, la norma è entrata nella mentalità e nel costume di molti giornalisti, anche se non sempre si è rivelata di facile applicazione. È doveroso raccontare all’opinione pubblica la storia di una ragazza di 16 anni che insieme con il fidanzato ha ucciso la madre e il proprio fratellino. Per farlo si possono evitare le foto (di Erica e Omar quasi non abbiamo conosciuto i volti), ma come si fa a non raccontare i particolari, attraverso i quali capire i retroscena di un dramma così agghiacciante? Le ragioni di un comportamento etico che autolimita il diritto di cronaca non possono tradursi in meccanismi predeterminati. Sta alla professionalità del cronista risolvere il rebus. L’Ordine dei giornalisti ha sanzionato le violazioni della Carta, spiegando che l’anonimato va garantito anche quando il giornalista è mosso da buone ragioni. Maurizio Costanzo portò sul palcoscenico del suo show televisivo una zingarella a cui qualcuno aveva spezzato i polsi, forse con un gesto di non voluta violenza seguita a un furto, in una strada del centro di Roma: «Vi mostro questa ragazzina perché solo così possiamo renderci conto di quanta malvagità c’è ormai nei nostri comportamenti» disse Costanzo al pubblico. L’Ordine del Lazio lo censurò ugualmente. C’è da aggiungere che la Carta di Treviso ha trovato applicazioni qua e là addirittura eccessive. Sovrapposta alle disposizioni del codice deontologico scaturito dalla legge sulla privacy, ha spinto molti giornalisti a non pubblicare mai foto di minori. Se non con il consenso dei genitori. Il che è certo eccessivo. Si fa un grande uso dei volti 71

di bambini, tutti biondi e paffuti, in campo pubblicitario e poi si interpreta in modo ottuso quella regola deontologica che era stata pensata per proteggere i minori. Che danno può provocare la foto di un gruppo di bambini all’inaugurazione di un parco o di un asilo? La deontologia può essere la soluzione di molti problemi del giornalismo, in sostituzione di leggi vessatorie e illiberali, purché sia applicata con intelligenza e buon senso. È già avvenuto. La Carta dei doveri è un vero e proprio codice di comportamento. Nacque da uno scontro fra i rappresentanti dei giornalisti e le istituzioni politiche, in piena Tangentopoli. Il più grosso scandalo giudiziario del dopoguerra cominciò, in pratica, il 14 febbraio del 1992, quando a Milano venne arrestato Mario Chiesa, amministratore di un istituto di assistenza per gli anziani, preso con in tasca 7 milioni di lire, una «mazzetta». Da lì partì la valanga: centinaia di inchieste giudiziarie aperte in tutta Italia. A iniziare fu la Procura di Milano, con il gruppo di pm (Borrelli, D’Ambrosio, Di Pietro, Colombo, Davigo) passato alla storia come il pool di Mani Pulite. Magistrati inquisitori che cominciarono a fare luce su decine di casi di corruzione e concussione. Sotto accusa politici e amministratori di quasi tutti i partiti, denunciati per aver preso soldi da imprenditori, in cambio di protezioni, appalti e favori. Ogni mattina i quotidiani raccontavano nuove incriminazioni. I cronisti giudiziari riuscivano ad avere molti particolari. L’opinione pubblica metteva insieme i pezzi di vicende che finirono per sconvolgere l’assetto della vita pubblica. Pagine e pagine di resoconti che dimostravano come i partiti non denunciassero i danari incassati e come alcuni leader addirittura infilassero nelle proprie tasche una buona parte di questi soldi. Verso la fine del 1992 cominciarono le accuse ai giornali. In sintesi, questo era il ragionamento: è normale che vengano pubblicate notizie sugli scandali, ma il discredito sulla classe politica del paese è complessivo, ingiusto. Un’impalcatura costruita sulle affermazioni dei pubblici ministeri, mentre i procedimenti sono ancora nella fase iniziale («indagini preliminari»). Non ci sono condanne. È lecito gettare tanto fango sulle persone e sulle organizzazioni politiche delle quali facevano parte? Il clima divenne incandescente di fronte ad alcuni casi di suicidio. Sergio Moroni, socialista, prima di spararsi scrisse al capo dello Stato una lettera in cui accusava la magistratura e i giornali di aver72

lo condannato e umiliato prima ancora del processo. Dopo di lui Gabriele Cagliari, ex presidente dell’Eni, si tolse la vita in carcere non sopportando la vergogna di ciò che stava accadendo. E poi Raul Gardini, imprenditore di statura mondiale, che si uccise prima ancora di essere indagato e interrogato. Fu coniata l’espressione «gogna mediatica». Così, in Parlamento vennero presentate decine di leggi che proponevano il divieto di pubblicare notizie fino al termine delle indagini preliminari, quando il procedimento viene archiviato o il processo avviato – attraverso il rinvio a giudizio – alla fase dibattimentale, ovviamente pubblica e dunque conoscibile. Spuntarono come funghi disegni di legge nei quali si proponeva che le inchieste fossero rese note ai cittadini solo al termine delle indagini preliminari. Se fosse stata approvata una legge siffatta, notarono le organizzazioni dei giornalisti, l’opinione pubblica sarebbe stata tenuta all’oscuro di tutto. La conoscenza del colossale fenomeno di corruzione sarebbe stata ostacolata, attraverso un bavaglio, una museruola ai mezzi di informazione che avrebbe riportato l’Italia indietro di secoli. Federazione della stampa e Ordine dei giornalisti si batterono affinché una simile mostruosità giuridica non si realizzasse e – mentre i progetti venivano riuniti presso la Commissione Giustizia della Camera dei deputati presieduta dal democristiano Giuseppe Gargani – grazie anche all’appoggio di altri uomini politici (Pertini, Spadolini) i giornalisti ottennero che le leggi penali e civili non venissero modificate. Di un più severo comportamento dei giornalisti si sarebbe occupato un codice deontologico, chiamato Carta dei doveri, che fu approvato l’8 luglio del 1993. Questo piccolo corpo di regole ribadisce innanzitutto il principio della presunzione di innocenza, che va rispettato allorché si dia notizia di persone coinvolte in procedimenti giudiziari, affinché esse non vengano denigrate e messe alla gogna prima ancora che i giudici si siano pronunciati. La Carta dei doveri però è andata oltre. Ha introdotto per la prima volta norme di incompatibilità e di rigore professionale. Ha vietato la pubblicazione delle immagini di persone ammanettate. Ha imposto al giornalista di accertarsi, prima di darne notizia, che l’avviso di garanzia – inviato alla persona nel momento in cui essa viene iscritta nel registro degli indagati – sia già a conoscenza dell’interessato. Un certo clamore fece, mesi dopo, la pubblicazione, da parte 73

del «Corriere della Sera», dell’avviso che i carabinieri consegnarono al presidente del Consiglio Silvio Berlusconi, mentre si trovava a presiedere un summit a Napoli. Il giornale uscì in anteprima, quando il premier non era ancora stato raggiunto dai carabinieri che recavano il plico (Barbacetto, Gomez, Travaglio, 2002). Ma il merito principale di questo codice è sicuramente quello di aver affermato che il giornalista è al servizio unicamente del cittadino, svolge cioè una funzione di interesse sociale, che va anteposta a qualsiasi altra. Suo compito è informare l’opinione pubblica, non certo servire il proprio datore di lavoro o contribuire alla realizzazione di altri interessi (politici, economici ecc.). Con questa affermazione si può dire che sia stato posto il fondamento solenne dell’etica del giornalismo italiano, per secoli caratterizzata da connotati vaghi e contraddittori. Giornalista è chi ha come unico riferimento il cittadino, si fa carico di informarlo, si preoccupa solo del suo interesse, prima di qualsiasi altro. L’etica del giornalismo trova, con questa norma scritta nel 1993, la sua più esatta definizione. Il giornalista non fa spot. È un’altra delle conseguenze di questo percorso ispirato al rigore professionale. L’iscritto all’Albo non può prestarsi a operazioni pubblicitarie. La Carta dei doveri lo proibisce in modo rigoroso E il Consiglio nazionale dell’Ordine ha avvertito l’esigenza di applicare con decisione questa norma (anche se non tutti gli Ordini regionali hanno seguito l’indicazione), perché è in gioco la credibilità dell’intera categoria. Il giornalista non può essere scambiato per un commerciante o un piazzista, il suo compito di informatore della collettività deve apparire con chiarezza. Solo per ragioni umanitarie (beneficenza ecc.) egli può usare la propria penna o il proprio volto per operazioni commerciali e, quando lo fa, il lettore o telespettatore deve comprendere questa finalità (Morello, 2006). Cronaca e privacy. Abbiamo visto come il cosiddetto diritto di cronaca debba fare i conti con i diritti delle persone, riconosciuti dalle Costituzione e dalle leggi: diritto all’onore, al nome, al domicilio. A questi si è aggiunto il diritto alla privacy, termine che in italiano indica l’intimità o meglio la sfera personale protetta. Per molti anni i giornalisti hanno pensato che l’individuo dovesse inchinarsi davanti agli onori e agli oneri della cronaca. Chi per qualche ragione era famoso (un politico, un amministratore, un divo, un campione) o si trovava coinvolto in una vicenda di interesse 74

pubblico, non poteva opporsi, diventava soggetto e quasi oggetto della curiosità collettiva. E i giornalisti potevano accanirsi, scavando e portando alla luce anche gli aspetti più nascosti della sua vita. Ora non è più così. L’ordinamento giuridico ha elaborato un concetto più preciso della riservatezza e dei diritti personali. Anche i giornalisti hanno dovuto cominciare a tenerne conto. I primi a elaborare una vera e propria teoria della privacy, alla fine dell’Ottocento, sono stati due bostoniani, Samuel Warren, famoso avvocato di Boston e il suo amico Louis Brandeis, un giudice, poi entrato a far parte della Corte Suprema degli Stati Uniti. Il loro articolo The Right to Privacy, pubblicato sulla «Harvard Law Review», è il punto da cui partirono tutte le teorie successive, che condussero alle affermazioni solenni contenute sia nella Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, sia nella Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, firmata a Roma nel 1950 e poi modificata a Strasburgo (Paissan, a cura di, 2006). Il punto finale (almeno per ora) di questa progressiva difesa della riservatezza, è la protezione dei dati, ovvero l’introduzione in Europa del concetto che ogni individuo deve essere considerato proprietario della propria individualità e della propria storia. I dati riguardanti la persona non possono essere trattati, archiviati, né tanto meno distorti. L’individuo ha il diritto di controllare i propri dati e di impedire ad altri di usarli. L’Italia, nel 1996, in ritardo rispetto alle altre nazioni, ha approvato la legge n. 675, che ha imposto appunto di richiedere il consenso dell’interessato a chiunque voglia citare o utilizzare i suoi «connotati». La legge n. 675 nacque in realtà al fine di dare applicazione al trattato di Schengen sulla circolazione delle persone in Europa. E coinvolse i giornalisti. La legge, redatta in modo maldestro – lo ammisero molti componenti del Parlamento – indicò tutta una serie di dati sensibili (la razza, la religione, l’appartenenza ad associazioni politiche o sindacali). Poi ammise anche i giornalisti, i quali in applicazione del diritto di cronaca erano esclusi dall’obbligo di chiedere il consenso alle persone coinvolte negli avvenimenti. Stabilì però una deroga riguardo ai dati circa il sesso e la salute. Per questi ci voleva il consenso. Si creò una situazione grottesca. Se durante una partita di calcio un atleta si infortunava, la società di appartenenza si rifiutava di co75

municare ai cronisti la natura e la gravità del malanno. Gli ospedali non fornivano più le generalità né le notizie sullo stato di salute di persone coinvolte in incidenti e sciagure. In più, nella prima fase di applicazione, molti enti, sia pubblici sia privati, ne approfittarono per chiudere i rubinetti delle notizie, anche se proprio in quegli anni si andava diffondendo, al contrario, la cultura della pubblicità e della trasparenza degli atti amministrativi. La legge n. 675 venne intesa da molti per restringere il campo dell’informazione, tanto da rendere più difficile il lavoro del cronista, principalmente nel settore della cronaca nera e giudiziaria. Preziosa fu l’opera del Garante per la privacy, organo composto da quattro persone, voluto dalla legge n. 675 e preposto al controllo dell’applicazione della normativa. Grazie alle proposte del suo primo presidente, Stefano Rodotà, furono celermente approvate alcune modifiche alla stessa legge n. 675, poi inserite nell’apposito codice deontologico predisposto in stretta collaborazione fra Garante e Ordine nazionale dei giornalisti, per i quali diventarono fondamentali gli articoli 5 e 6. Art. 5 (Diritto all’informazione e dati personali) 1. Nel raccogliere dati personali atti a rivelare origine razziale ed etnica, convinzioni religiose, filosofiche o di altro genere, opinioni politiche, adesioni a partiti, sindacati, associazioni o organizzazioni a carattere religioso, filosofico, politico o sindacale, nonché dati atti a rivelare le condizioni di salute e la sfera sessuale, il giornalista garantisce il diritto all’informazione su fatti di interesse pubblico, nel rispetto dell’essenzialità dell’informazione, evitando riferimenti a congiunti o ad altri soggetti non interessati ai fatti. 2. In relazione a dati riguardanti circostanze o fatti resi noti direttamente dagli interessati o attraverso loro comportamenti in pubblico, è fatto salvo il diritto di addurre successivamente motivi legittimi meritevoli di tutela. Art. 6 (Essenzialità dell’informazione) 1. La divulgazione di notizie di rilevante interesse pubblico o sociale non contrasta con il rispetto della sfera privata quando l’informazione, anche dettagliata, sia indispensabile in ragione dell’originalità del fatto o 76

della relativa descrizione dei modi particolari in cui è avvenuto, nonché della qualificazione dei protagonisti. 2. La sfera privata delle persone note o che esercitano funzioni pubbliche deve essere rispettata se le notizie o i dati non hanno alcun rilievo sul loro ruolo o sulla loro vita pubblica. 3. Commenti e opinioni del giornalista appartengono alla libertà di informazione nonché alla libertà di parola e di pensiero costituzionalmente garantita a tutti.

La legge chiede al giornalista, nel momento in cui stanno per essere pubblicati dati sensibili, cioè particolarmente delicati, di valutare se ci sia un interesse della collettività alla loro conoscenza e gli impone di limitarsi all’essenzialità dell’informazione (art. 5). Cosa si intenda per essenzialità lo spiega il successivo articolo 6. Per essere pubblicabile, quel connotato sensibile (la religione, le abitudini sessuali, la malattia) deve risultare originale, magari per delle modalità con cui il fatto è accaduto, o anche per la qualificazione del personaggio. Anche l’uomo pubblico ha diritto a una sfera privata, sia pure più limitata. I particolari «intimi» possono essere conosciuti dalla collettività solo se e in quanto attengono al ruolo e alla sfera pubblica. Il concetto di essenzialità dell’informazione è dunque diventato centrale. Il diritto di cronaca deve essere supportato da un simile requisito quando sono in gioco i cosiddetti dati sensibili. Ad esempio, il particolare che la persona citata sia omosessuale oppure musulmana può essere menzionato solo se indispensabile alla comprensione, cioè intrinseco alla vicenda. Altrimenti quell’aggettivo è fuorilegge. Una novità non da poco nel panorama del nostro giornalismo, che abbonda di pettegolezzi e fa uso indiscriminato di ciò che attiene alla vita dei protagonisti, veri o presunti, di fatti e fatterelli (Morresi, 2008). Due riflessioni. Da una parte, chi esamina soprattutto i resoconti della carta stampata ha l’impressione che la legge n. 675 sia ancora incompresa o inapplicata; le modalità in base alle quali è raccontato, ad esempio, un procedimento giudiziario sono molto simili a quelle usate trenta o cinquant’anni fa. Dall’altra, si scopre che alcuni magistrati hanno debordato. Ritengono che, in ogni caso, siano pubblicabili solo particolari essenziali, mentre la norma ha posto questa forte limitazione esclusivamente in presenza di dati sensibili. 77

Non intendeva disporre alcun divieto riguardo a particolari, anche banali, che non attengono alla sfera di quelle esplicite materie delicate da essa indicate. Se fosse vero il contrario saremmo in presenza di una forma di censura intollerabile. La legge sulla privacy ha cambiato, più di quanto si pensi, le regole di ciò che è lecito pubblicare e cosa no. Un caso emblematico è rappresentato dalla morte di Lucio Battisti. Quando si seppe che il cantautore era ricoverato in una clinica, in gravi condizioni, la moglie emise un comunicato ufficiale con il quale «vietò» espressamente ai media di dare particolari sulla malattia. La stessa cosa si ripeté più tardi, quando Battisti morì. La natura del male non fu svelata e il desiderio rispettato. I giornalisti si adeguarono, un po’ per evitare grane, un po’ perché non conoscevano la malattia (solo un paio di tabloid fecero delle ipotesi, fra le righe), un po’ perché il caso era eccezionale. La moglie del cantautore voleva – per rispettare la volontà del marito che era sempre vissuto isolato e lontano dai flash – che la sua figura restasse intatta nella memoria dei suoi ammiratori. Gli estranei non erano stati ammessi neppure nella camera mortuaria. Ma la cosa non finì lì, perché nel 2008, nel decimo anniversario della morte, la stessa moglie ha negato anche di fornire le immagini di Battisti e ha impedito che esse fossero inserite nella sigla di un festival di musica e in un video preparato da un altro cantante. Una difesa accanita, totale, della privacy, anche dopo la sua morte, come l’artista aveva desiderato. L’immagine, i dati, i connotati appartengono a ciascuno di noi. Sono nostri. Abbiamo il diritto di difenderli e di non lasciare che altri, per i loro fini, se ne approprino. Un diritto di cui i giornalisti devono tenere conto. In alcuni casi il Garante ha spiegato cosa sia lecito e cosa no. Ad esempio, davanti alla malattia di un uomo politico non è corretto indagare sul suo stato di salute. L’Autorità ha però osservato che, in previsione di una consultazione elettorale, il cittadino ha il diritto di sapere se quella persona sia in grado di esercitare il proprio mandato, una volta che eventualmente fosse eletto. Del tutto straordinaria fu la condizione in cui si venne a trovare il papa Giovanni Paolo II. I cittadini vedevano in tv che il pontefice non era in grado di esercitare alcune funzioni; negli ultimi tempi il suo braccio non riusciva neppure a benedire i fedeli. I massi media si comportarono con molta discrezione. Si limitarono a pubblicare i 78

bollettini e le generiche risposte fornite dai medici vaticani. Anche se enorme era l’interesse per una persona amata e guardata da milioni di persone. I sondaggi. Fra le regole deontologiche dettate direttamente dal Parlamento ci sono quelle che riguardano la pubblicazione dei sondaggi, divenute indispensabili allorché si diffuse l’abitudine di pubblicare i dati derivanti dalle rilevazioni di mercato e, soprattutto, da quelle riguardanti il successo dei partiti e degli uomini politici. Dapprima, nel 1995, intervenne un accordo stipulato dalle associazioni dei giornalisti con l’Assirm, l’associazione che riunisce gli enti demoscopici. Il protocollo rese obbligatorio che il pubblico venisse informato sulle caratteristiche del sondaggio, chi lo aveva realizzato e con quali modalità (quando, dove, utilizzando quali strumenti e quali domande). Si voleva impedire un uso disinvolto di informazioni che potevano apparire autorevoli e credibili, ma che in alcuni casi erano superficiali e inventate addirittura di sana pianta. Le stesse norme furono recepite dalla legge che nel 1997 istituì l’Autorità per le garanzie delle comunicazioni, alla quale fu affidato il compito, fra gli altri, di controllare il modo con cui i sondaggi erano diffusi. Con la legge 22 febbraio 2000, n. 28, il Parlamento approvò le norme sulla parità di accesso ai mezzi di informazione durante le campagne elettorali e referendarie. In essa è contenuto il divieto tassativo di pubblicare – nei 15 giorni che precedono il voto – rilevazioni e previsioni sulla consistenza politica delle organizzazioni e sul possibile esito della consultazione. Naturalmente alla base di ogni ragionamento c’è l’individuazione del sondaggio, distinto da altre attività di ricerca e di rilevazione (Natale, 2004). La finalità è quella di arrivare a una conoscenza più esatta della realtà, attraverso un’attività di ricerca basata su criteri il più possibile attendibile, se non addirittura scientifica. Evidente la necessità di conoscere e comunicare al pubblico le caratteristiche del questionario, le modalità, il metodo, il momento del campionamento (Corbetta, Gasperoni, a cura di, 2007; Pagnoncelli, 2001). La «par condicio» è invece una norma, contenuta sempre nella stessa legge n. 28 del 2000, che disciplina la comunicazione radiotelevisiva in occasione delle campagne elettorali. In pratica riguarda la pubblicità politica, ma anche le tribune, i dibattiti, le tavole rotonde, le interviste in contraddittorio e di queste prevede una meticolosa (e in certi casi difficilmente applicabile) disciplina concreta. Di79

sposizioni che, per fortuna, «non si applicano alla diffusione di notizie nei programmi di informazione», dunque, nei notiziari giornalistici. All’articolo 1 vengono illustrate le finalità: «La presente legge promuove e disciplina, al fine di garantire la parità di trattamento e l’imparzialità rispetto a tutti i soggetti politici, l’accesso ai mezzi di informazione per la comunicazione politica». Si afferma che le emittenti radiotelevisive «devono assicurare a tutti i soggetti politici, con imparzialità ed equità, l’accesso all’informazione e alla comunicazione politica». È dunque legge che si applica più alle aziende che ai giornalisti. Non la si può definire regola deontologica, anche se la parzialità e la mancata equidistanza dei giornalisti rappresentano un problema non da poco, soprattutto in Italia (De Vito, 2006). L’informazione economica e finanziaria. In ordine di tempo, l’ultima norma deontologica resa obbligatoria è quella che riguarda l’informazione economica. Le questioni finanziarie degli individui, delle aziende, delle istituzioni, la redditività e l’uso del danaro, hanno occupato spazi sempre maggiori nel quadro dell’informazione. La tv ha creato rubriche apposite, i giornali radio sono stati aperti spesso con la notizia dell’indice Mibtel, con il listino di Borsa, con il rapporto fra le monete. I problemi economici sono molto diffusi e discussi. Ormai tutti i quotidiani hanno ampie sezioni economiche. Il primo, negli anni Cinquanta, fu «Il Giorno». Alcuni hanno aperto fascicoli settimanali dedicati ai soldi, agli affari, alla finanza. L’economia si è dimostrata una delle spinte e delle novità del giornalismo, durante l’ultimo ventennio. «Il Sole-24 Ore» è diventato il più diffuso quotidiano economico d’Europa. Il mestiere del giornalista in questo campo è delicato. C’è il rischio di provocare incomprensioni e comportamenti sbagliati. C’è il problema del linguaggio, fatto di termini ed espressioni ai più incomprensibili, errore grave nelle testate generaliste, destinate a un pubblico meno preparato. Le notizie di economia e di finanza subiscono forti condizionamenti dalle istituzioni, dalle imprese, dalle banche che maneggiano i capitali. La capacità professionale del giornalista dipende anche dalla sua autonomia, che assume notevole importanza. I temi dell’economia e della finanza sono argomenti trattati attraverso la lente della politica, delle contrapposizioni fra maggioranza e opposizione, delle idee dei partiti. Il cittadino ha diritto che dal giornale stampa80

to o teletrasmesso gli arrivino informazioni corrette, decisive per la propria vita e il proprio reddito. Egli sente l’importanza di aggiornarsi e di capire quali strade intraprendere. Si affida al commercialista ma si informa attraverso i mass media. Gli uffici stampa degli enti pubblici (ministeri, Ferrovie, Poste), delle banche, delle assicurazioni, sfornano comunicati a getto continuo e i giornalisti si trovano assediati da fiumi di informazioni, ben elaborate ma naturalmente interessate e parziali, che affluiscono sui tavoli e sui computer delle redazioni. Spesso quei comunicati li ritroviamo in pagina (Rolando, 2004; Miani, 2005; Taverniti, 2001). L’incapacità dei giornalisti di prevedere i paurosi crac finanziari degli ultimi anni è stata evidente, anche se è venuta dopo quella dei dirigenti delle aziende e degli organi di controllo. I giornalisti sono stati condizionati dagli uffici stampa delle imprese? Si è domandato Enrico Morresi, giornalista e presidente della Fondazione del Consiglio della stampa svizzera: Io non so se i disastri di Swissair e di Parmalat ci renderanno più attenti al nostro dovere di informatori oppure dobbiamo ammettere che ci ha aiutati a tacere la cortesia con cui queste aziende hanno sempre trattato i giornalisti? (Morresi, 2004)

Ha contato qualcosa il fatto che i giornalisti svizzeri avessero uno sconto del 50 per cento sui voli Swissair? È chiaro il rischio di un’informazione prezzolata. Difficile si è dimostrata l’applicazione ai giornalisti della norma sull’insider trading. La legge n. 157 del 17 maggio 1991 vieta l’utilizzazione per fini personali delle informazioni raccolte per ragioni di servizio. All’articolo 2 stabilisce che è vietato acquistare o vendere, ovvero compiere altre operazioni, anche per interposta persona, su valori mobiliari [...] qualora si posseggano informazioni riservate ottenute in virtù della partecipazione al capitale di una società ovvero in ragione dell’esercizio di una funzione anche pubblica, professione o ufficio».

Le violazioni comportano fino a sei mesi di carcere e multe milionarie. Ma è molto difficile smascherare i giornalisti che abbiano fatto un uso personale delle informazioni raccolte per finalità pro81

fessionali. Rari sono stati i casi di giornalisti puniti o addirittura espulsi dall’Albo, anche perché gli Ordini dispongono di poteri di investigazione molto limitati. Non possono, ad esempio controllare i conti bancari degli iscritti, come può invece fare un magistrato. Celeberrimo il caso della Lombardfin, che portò alla radiazione o alla sospensione di alcuni iscritti all’Albo ma che si concluse con un niente di fatto, in seguito all’annullamento per vizi di forma della procedura svolta dai Consigli regionali (Seghetti, 1998). Le norme della deontologia professionale si sono mostrate insufficienti. Alcuni giornali, come «Il Sole-24 Ore», hanno redatto codici di comportamento. Nella Carta dei doveri approvata dalla Federazione della stampa e dall’Ordine dei giornalisti, nel luglio del 1993 (la cui parte dedicata all’economia fu creata proprio sulla base di quella del «Sole-24 Ore») si prevedono comportamenti rigorosi. Ad esempio, il giornalista non può subordinare in alcun caso al profitto personale o di terzi le informazioni economiche o finanziarie di cui sia venuto comunque a conoscenza [...] non può scrivere articoli o notizie relativi ad azioni sul cui andamento borsistico abbia direttamente o indirettamente un interesse finanziario, né può vendere o acquistare azioni delle quali si stia occupando professionalmente o debba occuparsi a breve termine.

Nel 2004 è divenuta operativa, anche in Italia, una direttiva europea sul market abuse che affida alle Consob, in ogni nazione, il controllo della diffusione di informazioni economiche. Essa concede allo stesso organismo un potere sanzionatorio, salvo per quei paesi all’interno dei quali esistano norme di autocontrollo «equivalenti». Per questo, al fine di evitare che fosse la Consob a sanzionare i giornalisti, l’Ordine nazionale ha approvato l’8 febbraio 2005 una nuova norma deontologica (integrata il 28 marzo 2007) e fino a oggi la Consob ha considerato accettabili queste norme e sanzioni. La Carta per l’informazione economica afferma che il giornalista deve riferire «correttamente, cioè senza alterazioni e omissioni che ne alterino il vero significato, le informazioni di cui dispone» e che egli non può scrivere articoli che contengano valutazioni relative ad azioni o altri strumenti finanziari sul cui andamento borsistico abbia in qualunque modo un interesse finanziario, né può vendere o acquisire titoli di cui si stia occupando. 82

Il modo più semplice per essere trasparenti verso il pubblico è quello di segnalare al lettore, ad esempio quando si trattano le questioni della propria azienda (la Fiat o una grande impresa di costruzioni), che si sta parlando del proprio editore. Le nuove norme europee si preoccupano di preservare gli interessi del lettore, affinché l’impreparazione o gli eventuali interessi privati del giornalista non prevalgano e non alterino l’informazione. La Consob, giudicata in maniera positiva la norma approvata dall’Ordine, controllerà ora che questa organizzazione effettivamente svolga una funzione sanzionatoria. Se ciò non avvenisse, la Commissione assumerebbe in proprio tale compito, come previsto dalla direttiva europea recepita dal nostro ordinamento. E la conseguenza sarebbe che al giornalista la sanzione sarebbe inflitta non dai suoi organi deontologici, ma da un ente esterno, di natura tecnica e amministrativa. Con una evidente perdita di autonomia della categoria. 3. Il sistema delle sanzioni L’Ordine dei giornalisti ha come compito principale (oltre a quello di tenere l’Albo) l’applicazione delle regole deontologiche. La legge del 1963 ha pertanto previsto una serie di sanzioni. Il giornalista viene controllato e punito prima dall’Ordine regionale a cui è iscritto, poi dal Consiglio nazionale, che funziona come giudice di appello. Il Consiglio regionale apre il procedimento disciplinare su segnalazione di chiunque o per decisione propria. L’enorme numero delle testate e dei giornalisti rende naturalmente molto difficile l’opera di controllo, rispetto all’epoca in cui la legge venne approvata. È un meccanismo (viene chiamata «giustizia domestica») che evita l’intervento dello Stato e garantisce maggiore autonomia ai giornalisti. Un sistema, per tutte le professioni, chiaramente esposto ai rischi derivanti dal corporativismo. Nel campo della libertà di espressione assicura maggiore indipendenza a coloro che svolgono una funzione di vigilanza democratica. La legge professionale afferma che vanno sanzionati i «fatti non conformi al decoro e alla dignità professionale» o quelli che «compromettano la propria reputazione o la dignità dell’Ordine». Non vengono presi in esame solo i comportamenti legati all’esercizio dell’attività giornalistica, ma anche «la condotta dell’iscritto nella sua 83

vita di relazione, cioè tutti quei fatti che ne possono ledere l’immagine» (Viali, 2005). Quattro sono le sanzioni che possono essere comminate dall’Ordine regionale. 1. L’avvertimento, che può essere un richiamo orale o scritto. Il presidente dell’Ordine regionale avverte l’iscritto che il suo comportamento è sotto controllo. Nei casi più lievi lo invita a un atteggiamento più corretto. Viene comunque eseguito un verbale. Il giornalista, se non condivide il richiamo, può chiedere entro 30 giorni di essere sottoposto al vero e proprio procedimento disciplinare. Che allora si apre, con tutte le procedure garantiste – è un vero e proprio procedimento amministrativo – previste dalla legge. 2. La censura. Una sanzione che viene inflitta «nei casi di abusi o mancanze di grave entità». Esprime il «biasimo formale per la trasgressione accertata» (art. 53) ed è subito notificata all’interessato, ma non produce dirette conseguenze professionali. 3. La sospensione produce una vera interruzione dall’attività. Può «essere inflitta nei casi in cui l’iscritto con la sua condotta abbia compromesso la dignità professionale» (art. 54) per un tempo non inferiore a due mesi e non superiore a un anno. 4. La radiazione. Corrisponde a una espulsione. È disposta «nel caso in cui l’iscritto con la sua condotta abbia gravemente compromesso la dignità professionale fino a rendere incompatibile con la dignità stessa la sua permanenza nell’Albo, negli elenchi e nel registro» (art. 55). Comporta il divieto di esercitare l’attività e di usare il titolo di giornalista. Dopo cinque anni dall’allontanamento l’Ordine può accettare, a sua discrezione, una eventuale reiscrizione del giornalista. Il meccanismo delle sanzioni ordinistiche ha, come detto, tutte le caratteristiche del procedimento amministrativo ed è fortemente garantistico. Così all’iscritto, invitato a comparire davanti al Consiglio regionale, vengono contestati in modo formale i fatti. Gli viene assegnato un termine di 30 giorni per discolparsi, presentando documenti e memorie difensive. Il Consiglio vota i procedimenti disciplinari in modo segreto. I provvedimenti devono essere motivati e notificati tramite ufficiale giudiziario, sia all’interessato sia al pubblico ministero. Terminato il procedimento disciplinare davanti ai «giudici regionali», il giornalista (entro 30 giorni) può proporre impugnazione da84

vanti al Consiglio nazionale dell’Ordine. L’appello può essere anche proposto dal Procuratore. Il ricorso viene esaminato da una commissione eletta dal Consiglio (Commissione Ricorsi) che è organo consultivo, procede agli accertamenti, agli interrogatori e, al termine dell’istruttoria, propone al Consiglio la conferma, l’annullamento, la diminuzione della sanzione. Non può aggravarla, salvo nei casi in cui il ricorso sia stato presentato dal procuratore. Ormai inaccettabile questo meccanismo, considerato che in sede di appello l’assemblea giudicante è formata da 140 persone. Il meccanismo proporzionale che sovraintende alla formazione del Consiglio nazionale ha infatti prodotto un gigantismo un tempo impensabile, che rende molto faticoso il funzionamento di questo organismo. Terminato anche il giudizio di secondo grado, il giornalista punito può fare ricorso ai giudici ordinari: Tribunale, Corte d’appello, Cassazione. Complessivamente esistono dunque cinque livelli di giudizio. Il «processo» al giornalista prevede possibili ricusazioni e sospensioni cautelari. Rispetto al giudizio penale e a quello civile, l’autonomia del procedimento disciplinare è totale. L’Ordine può giudicare il giornalista anche se nel frattempo risulta aperto un processo davanti ai giudici ordinari, ma può anche sospendere i lavori in attesa che quello si concluda. Il sistema di sanzioni non regge più. Se si vuole lasciare alla categoria, attraverso l’Ordine, il controllo e l’applicazione delle norme deontologiche, occorre un meccanismo più snello, che risponda all’esigenza di dare anzitutto al cittadino risposte veloci, oltre che garantistiche. Tra l’altro alcuni Ordini regionali non hanno l’organizzazione, i mezzi, spesso le capacità, per instaurare procedimenti regolari, quasi sempre complessi. La legge deve dunque rivedere il procedimento disciplinare, ma salvando il principio dell’autogestione, affinché non siano organi esterni a giudicare i giornalisti; i controllati non possono valutare il comportamento dei controllori. Va ricordato che in altre nazioni, le giurie che sanzionano i giornalisti (le Press Complaints Commissions anglosassoni) sono formate anche da rappresentanti degli editori e della cosiddetta società civile. Nonostante siano trascorsi più di quarant’anni dalla sua nascita, i dubbi sull’opportunità di avere un Ordine dei giornalisti sono rimasti in coloro che favoleggiano di un libero giornalismo, privo di qualsiasi laccio. Peraltro neppure costoro indicano soluzioni alter85

native, capaci di garantire un’etica e un controllo di responsabilità. Ipotesi e discussioni rafforzate dalla constatazione che l’organismo creato dal Parlamento nel ’63 e finora mai modificato, non ha dato risultati sufficienti. I procedimenti disciplinari sono casuali e lenti. Costituiscono una «giustizia domestica» che, proprio in quanto tale, non garantisce né il cittadino né l’autonomia reale dai poteri. L’enorme allargamento della categoria (nel 2008 i professionisti sono diventati 20.000 e i pubblicisti più di 80.000) avrebbe consigliato già da molti anni una riforma dell’ordinamento, chiesto più volte dagli organismi rappresentativi della categoria, ma il Parlamento non ha mai trovato il tempo e l’ispirazione per intervenire. Negli anni si è accentuata l’esigenza di valutare il lavoro del giornalista nei confronti dei diritti delle persone coinvolte nei fatti. Il cronista fa uso del diritto di cronaca, che, come abbiamo visto, i giuristi definiscono solo una causa di giustificazione. Ma quando egli valica i limiti? E come si fa ad avere una risposta certa, in tempi brevi? La protesta e in molti casi la vertenza giudiziaria, penale o civile, che il malcapitato propone, dà risposte con anni di ritardo (anche perché l’istituto della rettifica, come abbiamo visto, è disapplicato). Una soluzione, spesso indicata, è quella di un giurì, un arbitro, capace di emettere un lodo, accettato dalle parti, che dia risposta rapida allo scontro fra l’autore dell’articolo e la persona finita nel tritacarne della cronaca nera. Ordine e Federazione della stampa provarono a istituire un simile organismo, inutilmente giacché per funzionare e disporre sanzioni esso ha bisogno del supporto di una legge. 4. La Federazione della stampa, l’autonomia, il contratto In una società ideale, autonomia e indipendenza dovrebbero essere le condizioni di base per il lavoro di un giornalista. Nella società in cui viviamo è quasi impossibile che esse si realizzino, anzitutto per via di quel grande limite che è costituito dalla proprietà dei mezzi di produzione. Che è intestata non ai giornalisti, ma ad altri, che chiamiamo editori e che hanno diritto di realizzare i propri obiettivi, economici, commerciali e non solo. Per questo i giornalisti difficilmente riescono a lavorare in reale autonomia rispetto all’editore e ai diversi soggetti esterni che condizionano la loro attività. È molto difficile che essi siano anche proprietari della testata su cui scrivono. In86

ternet apre però scenari nuovi. Visto che un sito o un blog non costano quasi nulla, chiunque può fondare un notiziario web e diffondere informazioni, libero dal giogo di un editore e dalle pretese (legittime) di chi impegna i propri capitali in un’operazione commerciale. Si dirà che l’indipendenza è un fatto intellettuale, cioè personale. Ed è vero. Quante volte dal più alto scranno delle istituzioni è venuta ai giornalisti l’esortazione a tenere la schiena dritta? Dipende da loro e non c’è legge in grado di scongiurare che il giornalista pieghi il proprio articolo agli interessi di qualcuno. Lì dove l’asservimento è mentale o ideologico, dove rende il cronista di parte, non c’è salvezza. Ma l’analisi dell’informazione deve tenere conto delle condizioni reali: un giornalista ha famiglia, lavora per vivere, è pagato da qualcuno che può non condividere le sue idee e i suoi ideali. La libertà è il valore e la condizione più rilevante per una simile attività. La collettività deve preoccuparsi che essa si concretizzi, se desidera avere un’informazione di servizio. Altrimenti ne avrà una asservita, prona, parziale. Questa è stata la ragione che ha spinto il Parlamento, come abbiamo visto, a istituire con la legge n. 69 del 1963 l’Ordine dei giornalisti, organismo voluto non per asservire i giornalisti, come temeva Luigi Einaudi, ma proprio per garantire loro una possibile indipendenza. L’autonomia, almeno parziale, è stata il cardine e lo scopo primario sia dell’esistenza dell’Ordine sia di quella del sindacato dei giornalisti. L’Ordine ha realizzato due obiettivi: la tenuta dell’Albo per conoscere chi fossero i giornalisti, e l’applicazione delle norme deontologiche, per controllarne il comportamento. Solo in sporadiche occasioni questo organismo ha svolto una funzione di difesa dei singoli iscritti, i quali hanno invece trovato nel sindacato il possibile argine agli attacchi e ai rischi di asservimento. Dal punto di vista istituzionale l’Ordine è intervenuto più volte, invece, affinché si realizzassero in Italia condizioni favorevoli all’indipendenza dei giornalisti. Basti citare la battaglia condotta nel 1993 per evitare l’approvazione da parte dei Parlamento di una legge-bavaglio. Battaglia che portò al varo della Carta dei doveri, il codice che permise di superare la tempesta di Tangentopoli e di delineare in maniera più organica ed esplicita l’indirizzo etico da dare all’attività giornalistica. Ovvio che vada valutata, in pratica, la reale autonomia che l’esistenza dell’Ordine ha garantito ai giornalisti. Ma la sua abo87

lizione migliorerebbe la situazione? Che ne sarebbe di quel piccolo patrimonio di regole deontologiche che lentamente l’Ordine ha cercato di costruire e di applicare? La battaglia per l’indipendenza e l’autonomia ha avuto per protagonista principale il sindacato dei giornalisti, nato più di un secolo fa. La Federazione nazionale della stampa italiana da più di cento anni ha operato non solo per migliorare la condizione del giornalista, ma anche affinché l’autonomia professionale trovasse riferimenti e difese concrete. Lo ha fatto attraverso vari strumenti: il contratto nazionale; il rapporto di lavoro fisso (nella maggioranza dei casi di dipendenza); norme che impediscano le interferenze e le prevaricazioni; strutture attraverso le quali i giornalisti si pagano l’assistenza malattie e i contributi finalizzati a costruire il diritto a una pensione di vecchiaia (Tartaglia, 2008; Murialdi, 1995). Traguardi che la Fnsi ha cercato di raggiungere in un rapporto di collaborazione e più spesso di scontro con la Fieg, l’associazione che riunisce gli editori dei quotidiani. La Federazione della stampa nacque nel lontano 1908 (primo presidente Salvatore Barzilai) dall’unione di un gruppo di associazioni regionali e tenne il suo primo congresso nel 1909, a Bologna. Ha alle spalle una storia già lunga cento anni. In origine era stata fondata l’Associazione della stampa periodica, a Roma nel 1877 (il cui primo presidente fu Francesco De Sanctis). E non erano state ragioni sindacali né politiche all’origine della «Romana», ma il desiderio di giornalisti e editori di trovare una sede dove dirimere, attraverso una corte d’onore, le controversie. Troppo spesso, infatti, il giornalista veniva sfidato a duello. C’era bisogno di trovare una giuria, un foro dove risolvere senza spargimento di sangue le dispute che alcuni articoli provocavano. In seguito, gli iscritti all’associazione avevano capito che quell’organismo poteva essere utile per affrontare i problemi della stampa, difendere i soci dalle minacce e dalle intimidazioni, svolgere l’azione sindacale. La Fnsi è un sindacato «unico e unitario», esempio quasi introvabile nel resto del mondo. È raro infatti trovare una categoria che sia riuscita così a lungo a tenere unita la propria rappresentanza, nonostante le distinzioni politiche e culturali, le differenze sempre più marcate all’interno della galassia dell’informazione: semplici cronisti e inviati, corrispondenti e opinionisti, direttori, fotoreporter, grafici e art director. 88

La Fnsi è una federazione fra associazioni regionali. Suo scopo è la difesa degli interessi materiali e morali, qualunque sia la natura della loro prestazione, autonoma o subordinata. Essa ha anche il compito di difendere la libertà di stampa e di informazione e il diritto di cronaca, nei limiti e nel rispetto delle norme deontologiche, garantendo la pluralità degli organi d informazione, l’accesso alle fonti delle notizie e il diritto del cittadino di manifestare il proprio pensiero e di essere informato, in applicazione della Carta costituzionale e nel rispetto dei diritti inviolabili della persona (art. 3 dello Statuto Fnsi).

Le associazioni regionali godono di totale autonomia. Ad esse possono iscriversi tutti i giornalisti, professionisti o pubblicisti o praticanti iscritti all’Albo professionale (obbligatorio) previsto dalla legge del 1963. Gli organi della Fnsi sono: il congresso nazionale, il consiglio nazionale, il presidente del Consiglio nazionale, il segretario generale, il collegio dei revisori dei conti, il collegio dei probiviri. Il segretario generale, eletto (in base a una recente riforma dello statuto) dal Congresso, guida la politica sindacale e ha la rappresentanza della categoria. La Fnsi è un’organizzazione autonoma, non aderisce a nessuna delle confederazioni sindacali, ma a partire dal 1947 ha stipulato con la Cgil un patto di alleanza, che si è poi esteso agli altri sindacati (Cisl, Uil, Cisnal). Nel patto le Confederazioni riconoscono alla Fnsi (che nel proprio Consiglio nazionale accetta la presenza di un rappresentante degli altri sindacati) la rappresentanza degli interessi dei giornalisti. A partire dal 1985, la Federazione della stampa ha aderito alla Federazione internazionale dei giornalisti (Ifj) che ha sede a Bruxelles e riunisce le associazioni dei giornalisti di quasi tutto il mondo. Con una riforma statutaria attuata nel 1998, il sindacato ha anche modificato la definizione dei propri iscritti. Non più professionisti e pubblicisti, come li indicava la legge del 1963, ma professionali e collaboratori, concezioni più ampie, basate sull’esistenza di un contratto di lavoro giornalistico o almeno di un reddito derivante dal lavoro giornalistico. La categoria dei giornalisti, fin dalla nascita, cercò di attuare la propria difesa attraverso patti con l’Unione degli editori. Il primo fu 89

la Convenzione di opera giornalistica, sottoscritta nel 1911, costituita da 8 articoli, seguita due anni dopo da norme sul cambio di proprietà dei giornali (comprendeva la «clausola di coscienza») e sui primi fenomeni di concentrazione. L’accordo stipulato nel 1919 comprese la tredicesima mensilità, gli scatti di anzianità e l’indennità in caso di malattia. Il contratto di lavoro è stato per i giornalisti lo strumento per regolamentare diritti e retribuzioni, ma anche per esercitare la libertà di stampa e ottenere condizioni di lavoro all’interno dell’azienda tali da consentire la maggiore autonomia possibile, elemento rilevante nel campo dell’espressione del pensiero. Il rapporto fra libertà del giornalista e diritti dell’editore – che impegna e rischia i propri soldi – è il nodo centrale dell’informazione giornalistica. Con il contratto collettivo, proclamato erga omnes, e quindi dotato dell’efficacia di legge, dal D.P.R. 16 gennaio 1961, n. 153, i due soggetti base hanno cercato di risolvere i conflitti, con tutti i limiti che sono contenuti in un rapporto di natura privata. Non solo questioni di retribuzioni, di indennità, di ferie e orari di lavoro, ma norme sui rapporti sindacali, sulla nomina e i poteri del direttore, sulla partecipazione dei giornalisti alla gestione dell’impresa (o almeno sul diritto di conoscere le decisioni aziendali e di proporre le proprie valutazioni). Le regole contrattuali, applicate nei settori della carta stampata e delle agenzie, sono state poi estese al settore radiotelevisivo e più recentemente a quello nato dallo sfruttamento della rete Internet. Il desiderio degli imprenditori di abbattere i costi ha come conseguenza violazioni e storture evidenti. Citiamo a titolo di esempio il trattamento in qualità di programmista-regista, da parte della Rai, dei giornalisti che operano all’interno delle reti televisive. Molti di questi svolgono certamente un lavoro giornalistico, ma sul piano contrattuale sono trattati più o meno come gli impiegati. Nella storia dei contratti Fnsi-Fieg ci sono accordi che non hanno raffronti e paragoni in altri settori industriali. La ragione è sempre quella. I giornalisti producono una merce del tutto particolare, che va a incidere sulla conoscenza dei cittadini e che dovrebbe essere trattata in condizioni di libertà intellettuale. Ciò anche se gli autori non sono, per la maggior parte, lavoratori autonomi, ma soggetti che hanno firmato un contratto con una precisa fabbrica di notizie. Per questo un giornalista professionista si trova in una condizione anomala, a fronte di un avvocato, che svolge in totale autonomia 90

la propria attività. Solo il giornalista free lance è realmente indipendente (ma anche l’avvocato può avere un contratto da un’impresa privata o da un ente pubblico). La Fnsi tenta la difesa dei propri iscritti là dove gli interessi di mercato degli editori non coincidono con quelli della corretta informazione. È chiara l’esistenza di una diversa logica che vede per i giornalisti l’obiettivo di trovare la verità (come recita l’art. 2 della legge professionale), per gli editori l’aspirazione a vendere i propri prodotti e a realizzare il massimo profitto quale che sia il contenuto delle informazioni diffuse. Difficile trovare in altri campi diritti simili a quelli che i giornalisti si sono conquistati con le azioni sindacali: il diritto alla titolarità dei propri articoli; a conoscere in anticipo i piani aziendali; a esprimere la propria opinione sulle decisioni e i progetti aziendali attraverso il comitato di redazione; a dare o meno il gradimento al direttore scelto dall’editore. La clausola di coscienza è, come detto, la più antica fra le norme stabilite dai sindacati delle due controparti. È una delle più significative perché garantisce la possibilità per il giornalista di sciogliere il rapporto, senza danni, allorché si sia verificato (art. 32 del contratto) un «sostanziale cambiamento dell’indirizzo politico del giornale». In pratica, il redattore mantiene il diritto alle indennità (trattamento di fine rapporto e mancato preavviso) come nel caso di licenziamento. Ciò avviene anche nei casi nei quali «per fatti che comportino la responsabilità dell’editore, si sia creata una situazione evidentemente incompatibile con la sua dignità». Una norma che assicura al giornalista il diritto a difendere la propria dignità professionale. Peraltro, le controversie concrete dimostrano quanto sia difficile dimostrare il mutamento di indirizzo politico e il danno che nel caso specifico il giornalista ne ha ricevuto. Il direttore di testata è la figura peculiare del giornalismo. È obbligatoria, perché la legge pretende che sia chiaramente identificato il responsabile di ciò che viene pubblicato. La scelta, secondo l’articolo 6 del contratto nazionale, è riservata totalmente all’editore (come in altri settori riguardo alle figure dell’amministratore delegato o del direttore generale). Però, una volta nominato, il direttore deve trasmettere alla redazione il proprio programma di lavoro – nel quale dovrebbe spiegare gli accordi intervenuti con l’editore – e questa, dopo un dibattito in assemblea, può poi esprimersi con un voto se91

greto, accordando o negando il proprio gradimento al neonominato direttore. La consultazione non ha tuttavia valore cogente, giacché il giornalista prescelto può intraprendere il proprio lavoro e guidare la redazione anche a fronte di un voto negativo. Al direttore sono assegnati poteri enormi (proposte di assunzioni, di licenziamenti, mansioni, incarichi ecc.) pari a quelli del dirigente più alto in carica in altri settori. Ma tutti i giuristi tengono a sottolineare che la figura del direttore non è quella di un «quadro» aziendale, perché è anzi lui a rispondere del prodotto e a dover fare da schermo fra l’editore e la redazione. L’autonomia dei giornalisti, anzitutto di fronte al proprietario del giornale, è infatti garantita dal direttore. Pur nominato dall’editore, egli deve fare in modo che questi non interferisca nel lavoro redazionale. L’imprenditore non può intervenire sui redattori. Una delle violazioni più clamorose fu quella – l’abbiamo già ricordato – che vide protagonista Silvio Berlusconi e che portò Indro Montanelli alle dimissioni dal «Giornale», che aveva fondato. Il direttore non può subire intromissioni nel suo rapporto con i colleghi, neanche da parte dell’editore, col quale ha stretto l’originario rapporto di fiducia. Lo stesso contratto nazionale ha creato per i giornalisti particolari relazioni sindacali. I comitati di redazione (art. 34) costituiscono la rappresentanza sindacale dei redattori della singola testata (interni e collaboratori). Sono eletti con votazione segreta e hanno precisi compiti: mantenere il collegamento con le Associazioni regionali di stampa, controllare l’esatta applicazione del contratto, tentare la conciliazione delle vertenze individuali e collettive, «esprimere pareri e formulare proposte» sugli indirizzi tecnico-professionali, sugli organici, sulle iniziative e i progetti dell’azienda. Prerogative e facoltà previste dal contratto, ben più ampie di quelle detenute dalle rappresentanze di altre categorie di lavoratori. La finalità è sempre quella di far rispettare i diritti dei colleghi e portare la loro voce. Il confronto fra il comitato di redazione, il direttore e l’azienda si basa sulla garanzia che hanno i loro componenti di non poter essere licenziati e sulla potestà di far pubblicare dalla testata (anche radiofonica o televisiva) i propri comunicati. Il comitato di redazione deve essere consultato prima di ogni decisione capace di incidere sui livelli occupazionali. In occasione di una crisi aziendale, che possa condurre a riduzioni di personale e all’adozione della cassa integrazione, il contratto prevede una procedura di consultazione fra comi92

tato di redazione e direzione aziendale. Allo stesso modo la rappresentanza dei giornalisti ha diritto di conoscere i dati del bilancio consuntivo. La storia del giornalismo, in particolare in occasione di alcuni difficili passaggi, spiega l’importanza del ruolo svolto dal sindacato. Nei primi anni Ottanta, di fronte alle nuove tecnologie e al passaggio dal piombo al computer, la Federazione della stampa riuscì a ottenere accordi significativi, sia riguardo all’introduzione in redazione (e in tipografia) dell’elettronica, sia quanto al problema delle sinergie. Con questo termine venne indicata «l’utilizzazione dello stesso materiale giornalistico per più testate» che favoriva le economie aziendali e la sopravvivenza delle imprese più piccole. Di fronte al rischio di un cambiamento selvaggio, la Fnsi ottenne l’inserimento nel contratto nazionale di norme che creavano un itinerario procedurale, a livello nazionale e aziendale, che permette di costruire i processi sinergici, definendone di comune accordo e caso per caso i limiti di compatibilità e le garanzie necessarie [...] rendendo i giornalisti partecipi delle varie fasi di ogni processo di formazione di un piano sinergico (Tartaglia, 2003).

La stessa cosa avvenne nel momento in cui cominciarono a svilupparsi i giornali on line. Iniziò un lavoro che mirava anzitutto a individuare quali forme di comunicazioni attraverso Internet dovessero essere considerate «giornalistiche» e quindi rientrare nelle previsioni del contratto nazionale. Un percorso faticoso, per via delle resistenze da parte degli imprenditori, che si è concretizzato con il rinnovo contrattuale del 2009. Una partita non ancora conclusa, ma che ha già dato un risultato, quello di evitare che le aziende editoriali, sotto la spinta del ciclone Internet, agiscano unilateralmente e costringano i giornalisti a qualsiasi mansione venga loro richiesta. I comitati di redazione sono organismi che prendono naturalmente forza dalla compattezza del corpo redazionale e, viceversa, risentono della sua debolezza. Se per alcuni anni i giornalisti non sono riusciti a rinnovare il contratto non è stato solo per la durezza delle posizioni degli imprenditori, ma per l’impossibilità di portare avanti azioni sindacali. Queste dipendono, come è ovvio, dalla unità della categoria che le attua. E quella dei giornalisti appare ormai po93

co coesa. Basta osservare che quando la Fnsi indice uno sciopero alcuni giornali escono ugualmente in edicola. Le norme contenute nel contratto nazionale, pur essendo le più avanzate nel panorama della disciplina sul lavoro, non sono sufficienti a risolvere il problema dell’autonomia dei giornalisti. Ben diversa è la situazione italiana rispetto, ad esempio, alle redazioni francesi («Le Monde», «Le Figaro») che posseggono una parte del pacchetto azionario e vedono riconosciuto il proprio diritto perfino a nominare il direttore. Questa figura, come abbiamo detto, è centrale nell’organizzazione del lavoro della redazione, mentre non dovrebbe occuparsi di altre questioni (marketing, pubblicità ecc.) pure rilevanti nella vita aziendale. Ciò per garantire che le scelte giornalistiche prescindano da altre valutazioni e siano determinate solo da valutazioni professionali. Il direttore dispone di notevoli poteri, ma si può dire che di fronte allo strapotere degli editori la sua autorevolezza si sia affievolita e, di fatto, egli non garantisce quello scudo protettivo che era stato immaginato. L’articolo 6 del contratto ha anzi consegnato il potere a giornalisti-direttori, scelti dall’editore, che non hanno la capacità, né forse la voglia, di difendere l’indipendenza dei colleghi. Le regole contrattuali appaiono, dopo anni di applicazioni, del tutto insufficienti, anche se esistono nel panorama italiano esempi di direttori autorevoli, di notevole indipendenza intellettuale, pronti a lasciare l’incarico se il proprio ruolo viene sminuito. Occorre che l’ordinamento giuridico distingua le imprese editoriali da tutte le altre. Assegni cioè alle aziende che producono notizie caratteristiche diverse – pur all’interno della libertà di impresa – attraverso quello che sinteticamente si può definire uno statuto dell’impresa editoriale. Negli ultimi anni, l’incapacità delle aziende della carta stampata di reggere la concorrenza della televisione (che ha attirato la maggior parte della pubblicità) e di Internet, le ha spinte a cercare in ogni modo di tagliare i costi. Di qui l’inutilità della trattativa per il rinnovo del contratto nazionale di lavoro dei giornalisti, un patto stratificato e complesso, costruito in decenni di relazioni sindacali, di cui gli editori stanno cercando di scardinare alcuni punti fondamentali: abolizione degli scatti di anzianità, trasformazione dei direttori e dei vicedirettori in quadri dirigenti, obbligo per i redattori di sottostare a tutti i compiti imposti dall’integrazione multimediale. È un tentati94

vo di destrutturare il contratto nazionale e di giungere a una situazione più simile a quella di altri paesi, dove le imprese editoriali stipulano contratti aziendali o ancora più spesso patti con i singoli redattori, accordi a tempo, facilmente disdettabili. Ovvio che le garanzie per il giornalista si rivelano inferiori e il posto di lavoro più instabile. L’attuale contratto nazionale che era scaduto nel 2005 è stato stipulato nel marzo 2009. Il precariato anche in Italia è ormai una condizione nuova. Migliaia sono i giornalisti che lavorano privi di un legame stabile, con contratti a termine o con rapporti di collaborazione che non danno loro alcuna tranquillità. Vivono in una condizione di incertezza e più facilmente possono essere indotti a piegare i propri articoli ai desideri dell’editore. L’autonomia dei giornalisti trova sostegno anche nell’Inpgi, l’Istituto di previdenza dei giornalisti italiani. Ad esso gli appartenenti alla categoria pagano i contributi mensili che servono a finanziare le pensioni. Con ciò, essi non pesano sulle finanze pubbliche, autofinanziano il proprio sostentamento, anche al fine di essere meno condizionabili. L’istituto è stato creato con regio decreto del 25 marzo 1926, n. 838, e intestato ad Arnaldo Mussolini, ma più recentemente è stato dedicato alla memoria di Giovanni Amendola. Con legge 20 dicembre 1951, n. 1564, l’Inpgi è stato riconosciuto come ente pubblico sostitutivo, tenuto a garantire tutte le forme di assistenza obbligatoria. Nel 1994 è stato poi trasformato in una fondazione di diritto privato, mantenendo però la sua funzione di ente sostitutivo per garantire ai giornalisti le prestazioni previdenziali. Esso rimane perciò sottoposto al controllo della Corte dei Conti e alla vigilanza dei ministeri del Lavoro e del Tesoro. Questo controllo è necessario perché, in base all’articolo 38 della Costituzione, a tutti i lavoratori devono essere assicurati mezzi adeguati alle loro esigenze di vita in caso di invalidità di vecchiaia e di occupazione. L’Inpgi realizza le finalità e svolge i compiti che agli altri lavoratori sono assicurati dall’Inps; oltre alle pensioni di vecchiaia, quelle d’invalidità e quelle per i superstiti, i sussidi ai disoccupati, la cassa integrazione guadagni, gli assegni familiari e l’assistenza infortunistica. L’istituto (che per legge deve avere una riserva finanziaria valida cinque anni) investe il danaro proveniente dai contributi pagati dai giornalisti, ai quali offre mutui e prestiti. Talvolta costruisce e acquista abitazioni che affitta ai giornalisti. All’Inpgi si possono 95

iscrivere, come detto, anche i pubblicisti, grazie a una particolare gestione separata. L’istituto di previdenza si è occupato anche dell’assistenza malattie, fino all’istituzione del servizio sanitario nazionale. Quando questo entrò in funzione, poiché le prestazioni del SSN erano inferiori a quelle che i giornalisti già avevano, fu deciso di recuperare una condizione di maggior favore. A tale fine, Fnsi, Ordine e Inpgi dettero vita alla Casagit (Cassa autonoma di previdenza e assistenza integrativa dei giornalisti italiani) che nacque il 24 novembre 1974. Anche questa forma di assistenza, pagata dagli iscritti in forma mutualistica, contribuisce a fornire a coloro che svolgono l’attività una serenità e una almeno parziale indipendenza. Nel 1999 la Federazione della stampa ha poi creato il Fondo di previdenza integrativa (poi denominato Fondo complementare) che mira a rafforzare l’entità delle pensioni dei giornalisti, che negli anni futuri si calcola che perderanno parte della loro forza. Ancora un atto mirato al miglioramento della condizione degli operatori del settore e, indirettamente, a rafforzare la loro autonomia intellettuale.

Parte seconda

La pratica

Il giornale di carta

1. Questione di linguaggio Il giornalista si esprime in assoluta libertà. È anche per questo che molti giornali appaiono criptici, faticosi, quasi incomprensibili. Sono stati accusati di usare un linguaggio che non aiuta il lettore, soprattutto quello meno preparato e magari frettoloso. Ci sarà anche questa fra le ragioni per le quali i quotidiani italiani hanno sempre venduto poche copie? In verità, se si mettono a confronto due edizioni dello stesso giornale – diciamo separate da un intervallo di venti anni l’una dall’altra – si nota una maggiore modernità, un chiaro sforzo di facilitare la lettura. Ma le copie vendute in edicola sono rimaste poche. Quale linguaggio deve essere usato per i quotidiani? E quali differenze ci sono fra questo e quello più adatto alla radio, alla tv e oggi al web? La penisola italiana è lunga e nelle sue regioni si parlava e ancora si parla più che altro in dialetto. Che lingua usare che sia comprensibile per tutti? Nelle buone redazioni, al giovane è stato spesso spiegato che occorre utilizzare una lingua semplice, buona per tutti, capace di agganciare l’ultimo vagone del treno, piuttosto che quelli precedenti. Aiutare a leggere il lettore meno preparato, perché è facile farsi comprendere da un professore universitario, più difficile catturare l’attenzione di chi ha la quinta elementare e forse nemmeno quella. Un problema di vocabolario, di grammatica, di sintassi. «Non si dovrebbe mai dimenticare che lessico e sintassi non esistono mai nella loro complessità, per sé, ed esistono invece in funzione delle esigenze pragmatiche e semantiche di chi produce e di chi si vuole che riceva e intenda il testo» (De Mauro, 2003). 99

I notiziari offerti dai quotidiani, dai giornali radio, dai tg, sono indirizzati a persone comuni, non a un pubblico specializzato. Dunque, devono adottare un vocabolario che sia conosciuto ai più, termini semplici, in pratica quelli tratti dal parlare quotidiano. «Raccontalo a tua madre» è il consiglio che viene dato ai praticanti, evitare termini e frasari che nella vita domestica non si adoperano. Istruttive e persino divertenti le raccomandazioni contenute, ad esempio, nel manuale di scrittura edito da «La Stampa», in cui si ricorda a operatori e lettori che una virgola o un accento possono rendere diverso o incomprensibile decine di parole italiane (Stile La Stampa, 1998). C’è da osservare che il giornalismo adotta un linguaggio scritto, anche là dove la notizia viene diffusa attraverso la voce. Si tratta di una questione tutt’altro che secondaria. Per secoli le informazioni sono state diffuse esclusivamente attraverso la carta stampata. Il linguaggio è stato quello dei letterati, o almeno delle persone colte, dotate di un vocabolario forbito, che tendeva a distinguersi rispetto al parlare quotidiano, condizionato dai dialetti locali. Anche la radio, ancora oggi nei suoi notiziari giornalistici, impone la scrittura, prima della lettura. Gli annunciatori e poi i giornalisti leggono, quasi sempre, informazioni che in precedenza sono state scritte. Solo negli ultimi venti o trent’anni alcune forme di giornalismo radiofonico hanno adottato un linguaggio a braccio, più disinvolto e brillante, anche se spesso sbrodolato ed enfatico. Allo stesso modo i telegiornali, come vedremo, sono per gran parte letti prima che detti. Il risultato è di notevole nettezza, appaiono asciutti e veloci, ma spesso freddi e involuti, poco espliciti, poco vicini alla sensibilità e al modo di parlare dell’ascoltatore. Quando scriviamo, si sa, tutti noi usiamo termini più ricercati. È da qui che scaturisce il giornalismo burocratico, quello di tante notizie che leggiamo e ascoltiamo: il cadavere rinvenuto; il commissario che si è recato; le frasi profferite; la squadra che ha fatto il suo ingresso nello stadio. Un linguaggio inaccettabile, che si cerca di ripulire appena comincia il lavoro in una scuola di giornalismo (Rizza, 2003). Ma il rapporto fra lingua scritta e parlata è ancora non risolto, soprattutto nel giornalismo radiofonico e televisivo. Il dilettantismo che domina nella professione perpetua i difetti, naturalmente. Senza contare che le notizie elaborate e scritte prima della diffusione si 100

prestano a un più attento controllo da parte di chi vuole un’informazione neutra, governativa, o addirittura di parte. Certo, la libertà si deve coniugare con la qualità – oltre che dei contenuti, del linguaggio utilizzato – ma chi vuole mettere limiti e indirizzare il notiziario a proprio piacimento preferisce di gran lunga che il racconto dei fatti sia scritto in anticipo, anziché espresso al momento. Si rischia meno. E poi non è facile addestrare giornalisti in grado di affrontare un microfono con la pulizia di un annunciatore e la brillantezza di un attore consumato. Chiunque può scrivere per un giornale, può farsi una radio o un sito Internet e trasmettere vere o presunte notizie. Non c’è nessun obbligo di studiare e di prepararsi. Perfino l’iscrizione all’Albo è diventata un’opportunità, più che un paletto insormontabile. Scrivono tutti, a prescindere dalla loro capacità di mettere insieme frasi in un italiano buono o almeno sufficiente. Ciò avviene perché pochi hanno appreso le regole dello scrivere e, finite le scuole medie inferiori, la scrittura non viene più insegnata da nessuno. Nei licei, e in genere negli istituti superiori, non esistono corsi di scrittura e il tema è utilizzato come strumento «per la valutazione di competenze disciplinari e insieme della capacità di scrivere, senza che ci sia una specifica didattica dello scrivere, se si eccettua la correzione delle prove stesse» (indagine condotta dal Centro europeo per l’educazione nel periodo 1982-88). Poiché le scuole raramente insegnano a scrivere e non lo fa neppure l’università – che impone di scrivere una tesi senza aver misurato le reali capacità di scrittura del laureando – i giornalisti o pseudo tali intraprendono tale attività privi di una specifica preparazione. Impareranno sul campo, naturalmente, secondo quella vecchia teoria che sosteneva che il giornalismo si impara strada facendo, un’idea che tanti guasti ha causato e che ha dato spazio a centinaia di ignoranti o semianalfabeti. Anche se è vero, ovviamente, che fare il cronista non lo si può imparare a tavolino dove, al massimo, si può migliorare nella scrittura. Il giornalismo è dunque un contenitore di linguaggi. Vi si incontra di tutto: storpiature, neologismi, ermetismi e autentiche castronerie (Marchi, 1992). Le regole non esistono e va ancora bene se un buon giornale possiede un vademecum, un calepino, col quale chiede ai propri redattori di uniformare il linguaggio, le maiuscole, le virgolette, i trattini, i capoversi ecc. Se si aggiunge che la velocità di produzione è diventata frenetica, si comprende come mai, rispetto al passato, caporedat101

tori e capiservizio non abbiano più il tempo per correggere o rimandare indietro gli articoli insufficienti. L’abolizione dei correttori di bozze ha infine completato la frittata. Esce di tutto, sui giornali. Un tempo era vietato usare il dialetto, sia nei giornali stampati sia in quelli che passavano attraverso un microfono. Oggi, anche nei notiziari che è possibile definire nazionali, il divieto non esiste più. Si ritiene, a ragione, che le parole dei singoli dialetti possano ingentilire le informazioni, umanizzarle, e unificare la cultura del paese. Purché se ne faccia un uso discreto, limitato al frasario ampiamente conosciuto. 2. I segreti della scrittura La scrittura giornalistica resta il caposaldo del mestiere, una pratica che ha già subito forti rivolgimenti e altre trasformazioni subirà. Come si scrive per un giornale? Per secoli il giornalismo è stato mischiato con la letteratura. I giornali hanno accolto gli scritti di romanzieri e novellieri, in genere intellettuali che avevano imparato l’arte del bello scrivere, ma poco capivano delle tecniche necessarie a far giungere la notizia di un evento a una massa di persone. La confusione con la scrittura letteraria non si è mai estinta completamente, anche se progressivamente si sono delineate tecniche più specifiche. Una prosa asciutta, spesso secca e frammentata, è usata soprattutto dai cronisti nei loro resoconti. Un articolo di cronaca è diverso da una novella. Il lavoro del giornalista ha un fine principale, che è quello di far conoscere e capire l’avvenimento. Un romanziere crea, inventa, provoca emozioni, mentre un cronista cerca pezzi di verità e li mette insieme per ricostruire l’accaduto. Non gli è proibito commuovere o suscitare sentimenti forti. Anzi. Ma non può confondere la verità con l’immaginario, la narrazione del fatto reale con quella che è un parto solo di fantasia. Se cade un aereo, se due treni si scontrano, il cronista si pone domande e cerca quegli elementi (testimonianze, prove, indizi) che sembrano fornire le risposte. Ma non può lasciarsi andare. L’autore di una storia inventata non ha obblighi né regole. Il giornalista deve stare dentro binari reali, citare particolari esistenti, non frutto della sua immaginazione. In realtà pochi giornalisti italiani applicano questi principi. I più sono gli eredi di una scuola romantica, in cui la narrazione e la per102

sonalità del cronista prendono la mano. Noi non abbiamo seguito la distinzione tutta americana fra news e features. La prima è la tecnica rigorosa che porta all’esposizione il più possibile oggettiva degli elementi raccolti. La seconda è il racconto, focalizzato su un particolare o su un personaggio, estratti dal resoconto e sui quali il giornalista impernia la propria narrazione, facendo uso di una creatività che l’autore delle news non può permettersi. Nelle features si va oltre i dati di cronaca e si punta tutto sulle impressioni dell’autore, che sbriglia la propria capacità di scrittura, nel tentativo di coinvolgere più da vicino il lettore, pur senza scendere nel campo delle opinioni, che gli anglosassoni riservano alle views. Da noi al grande cronista è sempre stata chiesta un’ampia e affascinante capacità di raccontare il fatto. Per questo sono stati molto apprezzati i romanzieri, dediti al giornalismo, solo alcuni dei quali però (citiamo almeno Dino Buzzati), nati come cronisti, seppero distinguere rigorosamente l’attività giornalistica da quella letteraria. In genere si osserva invece una eccessiva mescolanza, una tecnica espositiva che raramente separa gli elementi reali del fatto da ciò che è frutto della libera capacità narrativa. È stata teorizzata la distinzione fra tecnica oggettiva e soggettiva. Nella prima è protagonista il fatto, nella seconda c’è il rischio che lo diventi il giornalista. Una tecnica che è paragonata al linguaggio cinematografico, dimenticando che il cinema è creazione, mentre il giornalismo è racconto dell’esistente. Il suo limite è un eccesso di spettacolarizzazione, si presta a scivolare nel pathos [...] è più esposta al vizio del protagonismo, in cui il giornalista sostituisce ai fatti le proprie sensazioni [...] è un’arma a doppio taglio: cattura il lettore con la forza delle suggestioni, ma tende ad annullarne il senso critico. È una scrittura persuasiva. Il giornalista deve tenerne conto perché il suo ruolo è di informare non di convincere (Papuzzi, 1998).

«Scrivi una storia» dicevano e dicono i direttori italiani – consci della curiosità e spesso della morbosità del lettore – nell’intento di dar vita a un giornalismo più vicino alla sensibilità del pubblico. Da questo desiderio di trovare e raccontare «storie» (o di riportare in questa forma le notizie esistenti) è scaturita una modalità di scrittura giornalistica piuttosto ambigua, che non distingue ciò che è accertato da ciò che è frutto di idee, di supposizioni, della libera e talvol103

ta abile capacità di scrivere dell’autore. Una tecnica che applicata soprattutto al settore dell’informazione politica – più determinata che in passato a svelare i retroscena e le intenzioni non manifeste degli uomini e delle forze politiche – ha provocato non pochi guasti. Il lettore non riesce a comprendere cosa sia reale e cosa no, in che misura l’autore stia riportando ciò che è accaduto o ciò che è frutto della sua, legittima, interpretazione. L’abbiamo già detto, la verità oggettiva non esiste, è un’utopia. La si può solo cercare. Ma questa constatazione ha spinto grande parte dei giornalisti ad andare ben al di là degli elementi emersi durante la fase di ricerca della notizia. Durante la ricostruzione del fatto, soprattutto quando viene deciso che esso debba essere «montato», cioè messo in grande risalto, il cronista – che mai certo deve considerarsi semplice notaio – narra, ipotizza, si sforza di capire, mette insieme le tessere anche quando il puzzle è di difficile composizione. E soprattutto fa apparire realtà quelle che sono proprie supposizioni. Giusto lo sforzo di ricerca. Di fronte, ad esempio, a un misterioso fatto di cronaca nera, il giornalista fa per proprio conto un’investigazione, che nulla ha a che fare con quella portata avanti dagli inquirenti. Anch’egli cerca la verità (anche se non deve indicare colpevoli) e attraverso le proprie fonti prova ad avvicinarvisi. In questo modo, tuttavia, spesso egli spara giudizi, confonde il fatto con l’opinione, si trasforma in romanziere e magari in sacerdote, portato a sacralizzare il frutto del proprio lavoro. Che sia per questo che il giornalismo italiano ha perso credibilità, o non l’ha mai conquistata? Esso ha offerto ai lettori prodotti qua e là anche splendidi e di forte impatto psicologico, ma che appartengono molto alla sfera della fantasia e della libera espressione, e poco contribuiscono alla conoscenza della realtà. Il lettore crede a ciò che legge? I sondaggi dicono di no. Potrebbe essere questa tecnica di scrittura (bella, ma non sempre veritiera) a creare un rapporto instabile fra il giornale e i suoi destinatari, i quali – perché curiosi e desiderosi di sapere – comprano sì un giornale, che magari la pensa come loro (quanto alla politica, allo sport ecc.) ma non credono affatto che dica la verità. Per molto tempo la divisione dei giornali in settori (Politica, Interni, Cronaca, Cultura, Economia, Sport) ha spinto a definire queste aree come «generi» giornalistici. Il lettore sembra apprezzare un 104

ordine e una scansione dei fatti secondo logiche e criteri a lui comprensibili, piuttosto che essere costretto ad aggirarsi senza guida (il sommario che non c’è) in decine e decine di pagine. Dal punto di vista dell’analisi quella distinzione in aree non regge. Sembra più opportuno analizzare le diverse modalità sulla base dei supporti (stampa, radio, televisione, Internet) grazie ai quali le notizie vengono diffuse. Non un giornalismo politico, o economico, o culturale, ma settori ai quali può essere attribuita, in una certa misura, una differente tecnica di scrittura. Proprio la creazione di eccessive suddivisioni ha comportato che molti giornalisti, di questa o quella specializzazione, non hanno applicato i principi base, quelli del fare cronaca, che devono stare a fondamento dell’attività giornalistica, quale che sia il settore (la politica, l’economia, la cultura) dei quali il singolo operatore è chiamato a raccontare gli eventi. Così si incontrano sui giornali linguaggi diversi, qua e là molto criptici, giustificati in una pubblicazione specialistica, ma non in un foglio che viene acquistato da centinaia di migliaia di persone. Un errore dal quale il giornalismo italiano non è mai uscito, nonostante la maggiore presa di coscienza della necessità di usare un vocabolario semplice, alla portata di tutti. Le diverse aree di un giornale stampato possono prestarsi ad analisi approfondite. In questa sede ci limiteremo ad alcune osservazioni di fondo, la prima delle quali riguarda il fatto, tutt’altro che irrilevante, che il giornalista non scrive a suo piacere. Egli è inserito in un progetto di gruppo. Del suo articolo sono predeterminati l’inquadramento, in qualche caso la collocazione e quasi sempre le righe. Egli dunque deve costruirlo in base a dimensioni che dipendono dal rilievo che alla notizia si darà sul giornale (in prima pagina, anche un pezzo breve ha notevole rilevanza). La sintesi è una delle qualità richieste a un giornalista moderno. Stupisce che anche fra le grandi firme ci sia ancora chi scrive «articolesse» (come le si chiamava in gergo) smisurate, senza rendersi conto che neppure la loro celebre penna può renderli sopportabili. Il settore specifico della cronaca (nazionale o locale) adotta un linguaggio semplice. Le indicazioni che si sente dare il giovane cronista sono più o meno queste: usare le parole di tutti i giorni; periodi brevi; non eccedere con le dipendenti e gli incisi separati da virgole, parentesi o trattini; andare a capo ogni sette-dieci righe, per far respirare il lettore; evitare il ricorso a troppi aggettivi e avverbi (che 105

esprimono giudizi personali) e agli intollerabili luoghi comuni. La notte buia, le indagini in corso, lo scontro epocale, il traffico caotico sono segni di sciatteria, mentre con il minimo sforzo il linguaggio può essere meno stantio e più personale. Le pagine dedicate alla politica indulgono al politichese, cioè a un frasario mediato proprio da persone con le quali i giornalisti intrattengono un rapporto di contiguità, anziché di separatezza. È un errore etico, di impostazione, cui si aggiunge il prezzo che i quotidiani pagano all’eccessiva quantità di informazione politica. Pagine e pagine, con un articolo dedicato a ogni partito, anche quando nulla è successo. Un inseguire le dichiarazioni dei leader, un’abitudine a metterli in competizione. Il risultato è il cosiddetto teatrino della politica, che è in gran parte creato proprio dai mass media (la tv) più che dai segretari di partito o dai ministri, sempre pronti a «dichiarare», ovviamente, appena vedono un microfono proteso verso il loro naso. Il cittadino, rispetto al passato e se ne ha voglia, può leggere e disporre di moltissimo materiale politico, sul quale riflettere. Ma ci si domanda se i cronisti, anziché raccogliere frasi, accuse e repliche, non farebbero meglio a documentarsi sui lavori parlamentari e sul contributo, ad esempio, che i deputati e i senatori hanno dato alle rispettive commissioni e ai gruppi di lavoro. Il chiacchiericcio, le diatribe, le risse verbali fanno vendere, sembrano pensare molti direttori. Ma non è vero e, anche se lo fosse, questo è il loro obiettivo? Non c’è un’etica del giornalismo che precede le ragioni del commercio? Lo sviluppo dell’economia e la crescita del (relativo) benessere sociale hanno fatto sì che il cittadino chieda oggi al giornalismo contributi sempre più consistenti: non solo notizie, ma opinioni e soprattutto chiarimenti. L’opinione pubblica ha imparato a conoscere i fatti economici sulle pagine dei giornali. Ci sono trasmissioni radiofoniche (sulla Borsa, gli investimenti ecc.) all’interno delle quali si sentono uomini e donne che pongono quesiti con notevole competenza. C’è una conoscenza e un desiderio di notizie economiche impensabile fino a pochi anni fa. I giornali di carta, nei secoli, hanno contribuito enormemente alla diffusione dell’alfabetizzazione e della cultura. Essi trattano abitualmente eventi e questioni culturali (mostre, libri, musica) mischiandoli sempre più spesso con gli spettacoli. Si nota un enorme spazio dedicato alle trasmissioni televisive e ai loro personaggi. La carta stampata può vantarsi – quale più, quale meno – di aver favo106

rito lo sviluppo della musica per i giovani. Tutti i ragazzi che escono dai licei sembrano mettersi in fila sul portone delle redazioni per fare il critico musicale o teatrale. E troppo spesso i critici affermati sono giornalisti che non hanno mai fatto né la gavetta né la cronaca. Abbondano i commenti, ma scarseggia il racconto dei fatti culturali: come è organizzata una mostra d’arte, cosa contiene un libro. Il critico fa sfoggio di cultura, ci tiene a mostrarsi in veste di letterato o di musicologo, ma spesso dimentica di fare il giornalista. Un retaggio antico, una incapacità di modernizzarsi e di offrire al lettore notizie, prima di qualsiasi altra cosa. Lo sport è il settore del giornalismo in cui più chiaramente si è sviluppato un gergo. I giornalisti scrivono come parlano i giocatori e i tifosi. E viceversa. Il cronista vuole provocare passione ed emozione. Usa il traslato che è «fantasia, inventiva ed è per questo che certe cronache dello sport appaiono testi di piacevole e anche divertente lettura [...] si può essere indulgenti, a patto che l’emozione non prevalga sull’informazione» (Lepri, 2003a). La passione sportiva, soprattutto quella per il calcio, che è diventato un fenomeno a sé stante, con caratteristiche di morbosità e di squilibrio, ha coinvolto anche buona parte degli addetti all’informazione, che hanno rinunciato alla propria imparzialità, come si è visto durante le vicende giudiziarie relative al cosiddetto scandalo di Calciopoli. Rapporti abnormi, eticamente scorretti, dei giornalisti con le società, con gli arbitri, con i giocatori e con quel sottobosco che circonda il più grande passatempo nazionale, trasformato in un’industria mangiasoldi, diseducativa, ben lontana dai principi e dalle finalità dello sport. Il giornalismo ha non poche responsabilità relative allo sviluppo del tifo e della passione sportiva. Qui la scrittura sembra non possedere criteri né regole. Il risultato in qualche caso è splendido – basti fare solo il nome di Gianni Brera – in altri è scadente, mediocre, viziato da autoreferenzialità, che emerge con clamore in certi «processi» televisivi. 3. La struttura dell’articolo e le interviste L’evoluzione della grafica ha sconvolto anche le poche regole che sembravano capisaldi della scrittura giornalistica. Come quella dell’uso del «cappello» o «attacco» o «lead» (l’inizio del pezzo, che in editoria si chiama più spesso incipit). 107

Si tratta di cominciare l’articolo offrendo al lettore i cinque elementi principali della notizia: chi (who), cosa (what), dove (where), quando (when), perché (why). Un modo per far conoscere la sintesi dell’evento che nell’articolo viene raccontato, per catturare e legare il lettore. Gli storici spiegano che questa sintesi estrema entrò in uso soprattutto dopo l’introduzione del telegrafo. I giornalisti lo utilizzavano per inviare il proprio articolo (in precedenza scrivevano solo dopo essere tornati in sede o usavano treni e aerei per il recapito) e nel timore che la trasmissione si interrompesse collocavano in testa al proprio pezzo tutte le risposte agli interrogativi principali. Centravano il cuore della notizia e, semmai, aggiungevano il «come» (how). Si dice che il primo a teorizzare questa modalità sia stato un sociologo di Chicago, Harold Lasswell. Chi affronta il tema della scrittura giornalistica, ad esempio nelle scuole e nelle università, sempre spiega la necessità di un approccio che contenga le cinque «w», come tecnica di base della trattazione. In realtà, è evidente che l’evoluzione della grafica ha reso superflua, se non addirittura fastidiosa questa abitudine. Infatti, il lettore che comincia a leggere l’articolo è sempre già a conoscenza della notizia. Titolo, occhiello, sommario, con l’aggiunta di immagini, didascalie, schede e supporti infografici, hanno già fornito gli elementi principali. Il lettore sa di cosa si tratta. Talora, anche la «civetta» o «richiamo», in prima pagina, ha messo in mostra quell’evento (non a caso si parla di pagina «vetrina») e dunque non c’è affatto bisogno di sintetizzare i cinque elementi principali nel cappello iniziale. Se questo modo di «attaccare» il pezzo non è affatto indispensabile, è però altrettanto evidente che sbaglia chi comincia con osservazioni e divagazioni, omettendo di far capire al lettore di cosa stia parlando. La creatività e l’originalità dell’inizio sono auspicabili, purché la vaghezza non risulti dannosa e controproducente, non crei perplessità e incertezza in chi si è accinto alla lettura. Un attacco moderno impone, invece, di attirare l’attenzione del lettore, utilizzando uno o più elementi basilari della notizia, magari quello che colpisce la fantasia o che la rende più originale. L’importante è conquistare il «cliente» e incuriosirlo, indurlo a leggere ciò che verrà scritto più avanti. Un brutto «cappello» ha come conseguenza che il lettore passerà oltre, abbandonerà quel testo e girerà pagina (Rizza, 2003). 108

Anche lo sviluppo del contesto e le fasi della trattazione – spiegano i maestri – devono essere costruite in modo progressivo, se possibile avvincente. Qui sì che la perizia del narratore può tornare utile. Il materiale annotato sul taccuino va usato un po’ alla volta, non certo con la freddezza del verbale dei carabinieri. Le informazioni principali contenute nel pezzo possono essere giostrate al meglio. Ma sarebbe intollerabile se la principale («l’assassino è stato arrestato») arrivasse all’ultima riga, lì dove, tra l’altro, è possibile che il lettore, ormai stanco, non è giunto. Il bravo giornalista, dunque, dopo aver raccolto le informazioni deve saper essere anche buon narratore. Sarebbe un peccato se avesse buttato via, con una prosa stentata e noiosa, l’occasione di far conoscere i particolari di un fatto insolito e capace di appassionare i lettori. Diverse sono le teorie sulla scrittura (oggettiva o soggettiva) e sulla tecnica di porgere e sviluppare gli elementi del fatto (Papuzzi, 1998). Però è evidente che – fatta salva la necessità di fare apprendere al lettore questi elementi di base – l’abilità del cronista può coniugarsi con le doti narrative dello scrittore. In questo senso è giusto parlare della scrittura giornalistica come di una delle modalità più interessanti della letteratura. C’è una data, nella storia del nostro giornalismo, che viene spesso indicata come boa nella tecnica con cui le notizie vengono offerte al lettore; è l’anno 1956, in cui uscì «Il Giorno», a Milano. Un giornale che sovvertiva alcune vecchie regole e cercava in modo più moderno di andare incontro al lettore. Segnava l’inizio di una grafica dei quotidiani più coraggiosa e di una rivoluzione che avrebbe portato vistosi cambiamenti. La prima pagina «vetrina», le foto grandi, la cultura che lasciava la terza pagina, l’inserto settimanale, il risalto dato all’economia. A partire da quelle innovazioni – anche sotto la spinta della neonata televisione – all’interno del settore editoria cominciò un’operazione di notevole trasformazione. Più di estetica che di contenuto, almeno fino alla fondazione di «la Repubblica», nel 1976. La produzione e la vendita dei giornali diventava un’industria che, pur priva di grossi capitali e di imprenditori coraggiosi, compiva un deciso sforzo per aumentare il numero delle copie vendute. In questo scenario, l’inventiva degli art designer e dei giornalisti grafici, fu elemento importante, più che in altri paesi. Influì sull’allestimento delle pagine, sul lavoro dei tipografi (impegnati nel ventennio 1970-90 nella piena utilizzazione dei computer) e naturalmente sulla scrittura e sulla titolazione. 109

Nuovo modo di offrire le notizie significava e significa maggiore attenzione ai titoli. A che serve il titolo? Sicuramente ad attirare il lettore, a incuriosirlo, a convincerlo che quell’articolo merita di essere letto. Il titolista deve essere abile, perché lo spazio utilizzabile è poco e scarsi i caratteri. Ma deve anche essere onesto, non può imbrogliare il lettore facendogli credere che l’articolo contenga ciò che non c’è. Deve cogliere gli elementi principali della notizia e metterli in evidenza. C’è chi distingue fra il titolo di cronaca e quello più brillante o di fantasia, sganciato dal fatto, soprattutto quando è certo che esso è già conosciuto dal lettore. La distinzione scelta da Umberto Eco è fra titoli informativi ed emotivi, più freddi o più caldi (Eco, 1971). Dalla riuscita del titolo dipende gran parte dell’interesse che il lettore dedicherà all’articolo. Un pessimo titolo, magari fatto all’ultimo momento, può rovinare un lavoro di ore. Un buon titolo può valorizzare un pezzo anche oltre la sua oggettiva validità. La grafica moderna ha rivoluzionato le modalità con cui, in Italia, vengono realizzati i titoli. Accanto al vero e proprio titolo, di una o due righe, compaiono spesso i catenacci e/o gli occhielli. Rispetto al passato si vedono più raramente i sommari. Come si fa il titolo? L’evoluzione ha infoltito gli esempi possibili e ha reso «anarchica» la sua preparazione. Detto che ciascun giornale sceglie un look, una veste e di conseguenza caratteri, corpi, formati, giustezze, adatti alla propria impaginazione, la titolazione è formata da diversi elementi che non sono sempre tutti presenti. I quotidiani italiani, attualmente, hanno scelto in maggioranza una formula più leggera che in passato, in cui prevalgono il titolo e un catenaccio (o in alternativa un occhiello), talvolta dei piccoli sommari. Cosa sono questi elementi? Il titolo, a una o più righe, è la frase portante, che contiene o la sintesi della notizia (Giornalista accoltella l’amante) o quello che l’autore ritiene il particolare più interessante (Strangolata con un foulard), nel caso in cui egli giudichi meno rilevante che l’autore sia un giornalista e, quindi, abbia inserito questo connotato nell’occhiello. L’occhiello è la frase, scritta con un carattere più piccolo, che si trova sopra il titolo e che contiene di solito il dove e altri particolari rilevanti del contesto. Il catenaccio propone invece quella che viene ritenuta la seconda informazione importante del fatto. Il giornalista 110

tiene anche conto che il lettore leggerà l’occhiello solo dopo essere stato attirato dal titolo (che pure appare in successione). Alcuni esempi, fra i tanti che si potrebbero portare.

Il giornalista ha scelto per il titolo due elementi: che l’automobilista era ubriaco e che la donna è rimasta uccisa. Ha lasciato per il catenaccio altri tre particolari: l’indicazione della città; il fatto che il protagonista non avesse la patente; è pensabile che abbia voluto evitare il rilievo razzistico, non indicando nel titolo che si trattava di uno zingaro. Altro esempio. Il 26 marzo 2008, a Nuoro, scompare una donna, in circostanze drammatiche. Gli articoli che riportano l’avvenimento vengono così presentati dal «Corriere della Sera» e da «la Repubblica»:

Come si vede, entrambi i quotidiani segnalano già nel titolo che il fatto è avvenuto in Sardegna e parlano di rapimento, anche se non esisteva alcuna prova certa e tantomeno una rivendicazione. Il «Corriere» mette nel titolo anche la presenza della figlia, mentre «la Repubblica» (che non dispone di un occhiello) la colloca nel catenaccio. Questo giornale, chiaramente per motivi di spazio, omette an111

che che si tratta della moglie di un dentista, nonché esponente di Alleanza nazionale. Il «Corriere» pone nella stessa pagina brevi ricordi di alcuni sequestri di persona, avvenuti non solo in Sardegna. «la Repubblica» completa le informazioni contenute nel titolo con piccoli sommari. Gli attacchi degli articoli sono pressoché identici. «Corriere della Sera» (Alberto Pinna): Ritorna in Barbagia l’incubo rapimenti: una donna è scomparsa a Gavoi (Nuoro). Dina Dore, 38 anni, quasi certamente è stata portata via da una commando che l’ha sorpresa nel cortile di casa mentre giocava con la sua bimba di nove mesi. Il marito, Francesco Rocca, medico odontoiatra, è rientrato dal lavoro a tarda sera e ha trovato la bimba in lacrime, in una cesta, la casa a soqquadro, tracce di sangue nella cantina-garage. L’uomo ha dato subito l’allarme.

«la Repubblica» (Pier Giorgio Pinna): Ritorna l’incubo dell’Anonima Sequestri in Sardegna: davanti alla figlioletta di appena otto mesi, nella tarda serata di ieri è stata rapita da un commando di banditi la moglie di un dentista. L’ostaggio è Dina Dore, 37 anni. I fuorilegge hanno teso il loro agguato alla donna nel garage della sua casa di Gavoi, nel centro mondano a poche decine di chilometri da Nuoro. A dare l’allarme è stato il marito Francesco Rocca, 39 anni, ex consigliere provinciale di Alleanza nazionale, considerato benestante, ma non ricchissimo.

Si nota che l’attacco, in entrambi gli articoli, contiene molti degli elementi principali, anche se in ordine diverso. È rispettata la regola delle cinque W, ma con molta libertà e con un lead personalizzato. Un ultimo esempio. Quando il 3 ottobre 2008 il Congresso americano approva il piano straordinario di aiuti finanziari predisposto da Bush per fronteggiare la crisi economica, ecco alcuni titoli di prima pagina. «Corriere della Sera»: OCCHIELLO Riesce il nuovo tentativo alla Camera: sì ai fondi anticrisi: 700 miliardi di dollari. Oggi il vertice in Francia TITOLO Svolta negli Usa: è legge il piano Bush 112

CATENACCIO Il presidente soddisfatto: ma la situazione resta difficile. Wall Strett non recupera

«la Repubblica»: OCCHIELLO Borse mondiali in ripresa, oggi a Parigi il vertice del G4 voluto da Sarkozy. Record del tasso Euribor, rincari in arrivo per i mutui TITOLO Sì al piano Bush, resta la paura CATENACCIO La Casa Bianca: crisi difficile. Unicredit, le prove della speculazione

«Il Messaggero»: OCCHIELLO Dopo il Senato anche la Camera dice sì: 700 miliardi di dollari più sgravi per 150. Borse europee in rialzo, male Wall Street TITOLO Usa, via libera al piano anticrisi CATENACCIO Bush: ci vorrà tempo per vedere i risultati ma resteremo leader nell’economia mondiale

I tre giornali danno la notizia del varo della manovra di salvataggio senza fronzoli. Non ci sono grandi differenze. Il «Corriere» però la definisce una svolta (e mette il mancato recupero di Wall Street nel catenaccio), mentre «la Repubblica» sottolinea la paura, che resta. «Il Messaggero», più anodino nel titolo, sceglie per il catenaccio la frase di Bush che garantisce gli Usa: «Resteremo leader». Prevale, dunque, l’annuncio dell’avvenuto voto del Parlamento, mentre gli altri elementi – sparsi fra occhielli e catenacci – servono a mettere il dito sull’ipotesi ottimistica o su quella più dubbiosa. Fare i titoli è difficile, lo spazio è ristretto, occorre capacità di sintesi unita a quella di toccare la sensibilità oltre che la curiosità del lettore. Ma i software semplificano il lavoro. Un tempo il giornalista doveva sapere quante battute conteneva ciascuno degli elementi del titolo (una volta scelti il carattere e il corpo), e contarle personalmente. Oggi il computer mostra subito se – una volta definito il format di titolo – si è scritto qualcosa di «troppo corto o troppo lungo». Si tenga presente che la grafica prevede anche spazi bianchi, per dare equilibrio e respiro alla pagina su cui si sta lavorando. Per rendere un articolo più appariscente il redattore spesso lo forza, lo rende più accattivante. Operazione lecita, purché non si ecceda, con il rischio che il lettore, letto il pezzo, si accorga di essere sta113

to gabbato. Sta all’abilità del titolista trovare la soluzione migliore, tenendo conto che la titolazione – più ancora della scrittura – ha subito un’impressionante evoluzione. È passata dal grigiore di poche battute tipografiche all’urlo di titoli a tutta pagina, spesso per offrire notizie di dubbia rilevanza. In un quotidiano la preparazione delle pagine avviene in un arco di ore molto ristretto. I titoli sono l’ultima cosa che si fa, prima della «chiusura» in tipografia, in maniera frettolosa, quando non precipitosa. Non può essere dimenticato. In un periodico è maggiore il tempo a disposizione e si aggiungono piccoli accorgimenti, come l’esca, un elemento finale, che lascia il lettore in sospeso e che sarà compreso solo durante la lettura. La tecnica giornalistica prevede tutta una serie di operazioni prima della scrittura dell’articolo, durante la fase della raccolta dei dati. Rispetto al passato, i cronisti più raramente vanno a cercare le informazioni sul posto dove si è svolto il fatto. Ha preso il sopravvento l’attività di desk: disegno delle pagine, realizzazione al video, controllo e adattamento degli articoli e delle immagini. Nelle redazioni si fa un grande uso del telefono, anche se i grandi giornali hanno un gruppo di reporter (da noi il termine è raro) sguinzagliati per vedere, ascoltare, ricostruire, capire gli avvenimenti più rilevanti. L’intervista è uno egli strumenti che il giornalista utilizza durante la fase di accertamento delle notizie. Con questo termine in realtà vengono indicate attività che spesso non hanno nulla di giornalistico. Quante volte in tv sentiamo annunciare: «adesso intervistiamo Tizio» e poi segue solo una dichiarazione, o magari una chiacchierata informale? La parola «intervista» può avere un significato generico ed è utilizzata quando qualcuno formula domande e chiede risposte a un’altra persona. Nella maggior parte dei casi non denota una specificità, né una finalità giornalistica. Ad esempio, all’interno dei contenitori televisivi, un conduttore intrattiene un ospite e lo «intervista». Il contesto è quello di un salotto, l’atmosfera amichevole, il tono colloquiale, le poltrone, un bicchiere, un tema più o meno annunciato. Un’intervista giornalistica, invece, è un’altra cosa, è una delle modalità con cui vengono assunte le notizie. L’intervistato è una fonte e come tale va trattato. Naturalmente ci sono molti modi per ottenere informazioni da una persona e non è escluso neppure un contesto salottiero. Ma si tratta di intendersi. Se Fabrizio Frizzi o Paolo Bo114

nolis fanno domande a un personaggio, non è rilevante la definizione che diamo dell’incontro. Invece, se da una parte del tavolo c’è Paolo Mieli o Gianni Riotta e dall’altro un ministro o addirittura il presidente del Consiglio, la cosa cambia aspetto. Anche due giornalisti possono prendere un caffè con un uomo politico davanti a una telecamera. Ma la loro stessa presenza e professionalità fa entrare in campo una tecnica specifica. Lo spettatore si aspetta una serie di domande volte a «trovare la verità», perché sa che questo è il compito del giornalista. Allora, siamo di fronte a un genere giornalistico preciso, caratterizzato da regole. E l’eventuale presenza di una tazza di caffè non cambia la natura professionale dell’incontro (Roidi, 2008). In base a quali regole deve svolgersi un’intervista? Quali devono essere i suoi fini e le sue modalità? Sergio Zavoli, autore di interviste televisive divenute celebri, ha spesso detto che l’intervista deve mirare a far pronunciare dall’intervistato qualcosa che egli forse non avrebbe voluto. Sta lì la bravura dell’intervistatore. Diverse sono le condizioni nel settore della carta stampata, rispetto a quello televisivo o radiofonico, anche se la frase di Zavoli è valida in tutti i casi. Il giornalista va alla ricerca di una verità. Per questo fa domande utili al proprio scopo. Sul giornale di carta c’è da osservare che la scrittura dell’intervista avverrà in un secondo momento. È certo che l’intervistato parla più liberamente, rispetto a quando ha una telecamera puntata addosso. Lo frena un po’ il microfono del registratore – strumento che si rivelerà decisivo in caso di contestazioni – che rende l’intervistato più prudente. Mentre l’intervistato risponde, le sue affermazioni vengono fissate sul nastro e sarebbe bene anche sul taccuino. Le migliori scuole di giornalismo americane, inglesi e anche italiane, raccomandano che il giornalista mantenga un tono pacato, non mostri atteggiamenti né aggressivi né condiscendenti. E abbia la capacità, derivante dal modo in cui si è preparato all’intervista (alla Bbc in molti casi è la redazione che prepara le domande) di controbattere o ripetere la domanda laddove l’interpellato non abbia risposto o abbia «menato il can per l’aia». Ci sono giornalisti che sembrano voler azzannare l’interlocutore e altri viceversa che sembrano disinteressarsi del contenuto delle risposte. La professionalità dell’autore è legata alla neutralità con cui porge le domande. È sbagliato impostare il colloquio come una battaglia da cui si uscirà vincitore o vinto. Ma lo è altrettanto dargli il tono di una conversazione fra ami115

ci, che ammiccano e si scambiano manate sulle spalle. È vero, tuttavia, che per un giornalista qualsiasi modalità è buona, se ottiene risposta e centra il bersaglio. Il fine giustifica i mezzi? In una certa misura sì, all’interno di uno schema corretto (Papuzzi, 1998). E se l’intervistato non risponde? Che si fa, si cancella la domanda? No, il buon giornalista informa il lettore di aver formulato il quesito, ma di non aver ricevuto risposta. La puntualizzazione va fatta perché magari anche l’ascoltatore avrebbe fatto quella domanda e può domandarsi come mai non ce ne sia traccia. Sia il giornalista di carta stampata sia quello radiotelevisivo hanno naturalmente il problema di sintetizzare il contenuto delle risposte o di individuare i brani da trasmettere. Sia le righe, sia i secondi possono non bastare. È normale che la scelta cada sulle cose più interessanti, fra quelle dette. Il giornalista fa il suo lavoro in autonomia, ma sarebbe scorretto lasciare fuori ciò che all’intervistato premeva dire, per prendere solo particolari succosi, ma marginali. Il montaggio, nello studio tv, non può condurre a stravolgere il senso delle cose dette. Così come, in un testo scritto, le virgolette possono essere apposte anche a una sintesi del pensiero dell’intervistato, purché – ci sono sentenze dei giudici al riguardo – il senso di ciò che egli ha detto risulti rispettato. Come si comporta il giornalista se la persona da intervistare chiede di conoscere in anticipo le domande? In alcuni grandi giornali Usa è consentito anticipare solo gli argomenti della conversazione. Ma si ammettono deroghe se l’intervista è di particolare importanza. Una volta giunto di fronte al presidente degli Stati Uniti, superato lo scoglio posto dallo staff o dall’ufficio stampa, il bravo reporter prova a sollecitare risposte non solo sulle questioni preannunciate, ma anche su altre. Qui sta la bravura del giornalista, naturalmente se il presidente non si tira indietro (Rizza, 2003). E se quello protesta per una domanda non prevista? Un giudice, in Sicilia, ha assolto il cronista dalla denuncia di un vescovo che lo accusava di avergli posto durante un’intervista concessa dal prelato quesiti imbarazzanti e non preventivati: faceva solo il suo mestiere. La scrittura del testo dell’intervista da parte del redattore comporta poi altri problemi. Un buon giornalista non pubblica un’intervista priva di contenuti interessanti, che fa solo pubblicità all’intervistato. Anche se questi, interpellato, si aspetta di leggere in pagina ciò che ha detto. Inoltre, è vero che il giornalista ha diritto di valu116

tare le dichiarazioni e riportare ciò che fa notizia. Ma sarebbe scorretto diffondere solo le frasi negative, pronunciate dall’intervistato (magari quelle che il giornalista aspettava), vale a dire prendere dall’intervista solo ciò che al giornalista fa piacere. Se l’intervistato chiede di leggere il testo del pezzo, prima della pubblicazione, cosa si fa? Di solito si oppone un rifiuto, cortese ovviamente. Il rischio è che l’intervistato, letto il pezzo, cambi le carte in tavola e corregga il testo. Nel qual caso il giornalista sarebbe costretto a non pubblicare l’intervista (cosa che si consiglia all’estero) o a ingaggiare una discussione. Qualcuno ammette che si invii in visione non l’articolo intero, ma solo i brani virgolettati, per prevenire contestazioni successive su ciò che l’intervistato ha realmente detto. Meno importante è soffermarsi qui sulla conoscenza dei termini propri del gergo della carta stampata. Ma alcune parole sono utili nel bagaglio di chi si avvicina a questi temi. Anche chi non si occupa di impaginazione sa cosa sia la testata (il nome con cui il giornale è stato registrato); sa distinguere la spalla (titolo alto sulla destra della pagina), dal taglio (il titolo, più alto o più basso che attraversa longitudinalmente la pagina), il fondo (commento che apre la prima pagina) dall’editoriale (commento non firmato che coinvolge l’opinione dell’editore). Pochi giornalisti sanno distinguere i caratteri (bastoni, graziati ecc.) o conoscono la misura esatta di un punto o di una linea tipografica. Cose che appartengono ovviamente al passato, visto che il computer ormai fa da solo. Ma un giornalista completo non può non conoscere il menabò, il modello di ciascuna pagina, disegnato prima sulla carta e poi sul video, che subisce continue modifiche allorché arrivano notizie nuove e i redattori cambiano in fretta il progetto originario. Le modalità con cui vengono prodotti i quotidiani sono una evoluzione di idee vecchie, solo in parte rimodernate. Le modifiche sono state dettate quasi sempre dalle novità tecnologiche. Alcuni aggiustamenti (il formato) sono avvenuti a fatica, per alcune testate un centimetro alla volta, mentre altre hanno preso il coraggio a quattro mani dopo anni di tentennamenti, non volendo rischiare di perdere lettori affezionati. Gli interventi più radicali sono avvenuti in ritardo, rispetto ad altre nazioni e alle esigenze mostrate dai lettori. Più che rilanciare il giornale, alcuni dirigenti sono riusciti solo a frenare l’emorragia. 117

Ormai i problemi sono complessi, forse epocali. Come abbiamo visto, all’inizio del XXI secolo l’avvento di Internet come concorrente ha creato scompiglio nelle testate di carta. Le vendite dei quotidiani sono calate in tutto il mondo e gli editori hanno cominciato ristrutturazioni pesanti. Sono state abolite molte sedi di corrispondenza. Si privilegia il lavoro di desk. Si sfruttano le tecnologie per fare pagine con pochi giornalisti. O addirittura senza! I sindacati tentano di ricordare che i reportage e le inchieste sul campo sono strumenti per studiare la realtà, hanno un proprio valore e la loro soppressione impoverisce i giornali. Qualcuno ha cercato di privilegiare la qualità offrendo fascicoli specializzati, libri, cd, ma il mercato non ha dato grandi risposte. Se si paragona l’Italia ad altre nazioni occidentali, si deve ammettere che gli editori si sono mossi in ritardo, hanno messo in campo soluzioni inadeguate, mentre occorreva «accettare la sfida sulle nuove tecnologie di comunicazione esistenti e in arrivo, sulla concorrenza dei giornali gratuiti apparsi in ogni città, sulla conquista del tempo del lettore, sul rinnovamento dei formati e dei contenuti». Il giornale di carta, se vuole sopravvivere, deve cambiare strada. Deve avanzare sul terreno «della circolazione e della distribuzione gratuita» (Valentini, 2000). Deve collegare la propria operatività a quella di altri mezzi di informazione. In una società sempre più atomizzata nei suoi interessi – spiega Javier Moreno, direttore di «El Paìs» – credo che dobbiamo cercare di adattarci alle necessità dei cittadini interessati alla cosa pubblica e alla democrazia. Cambiano gli interessi, i gusti, la visione della società che hanno i cittadini di oggi: dobbiamo fare in modo di interpretare il cambiamento (Sabadin, 2007).

4. C’è un futuro per il quotidiano? Dopo secoli di successi e di trasformazioni, per il quotidiano di carta molti profetizzano una morte rapida. Un po’ per via degli alti costi – ne guadagnerebbero le foreste da cui esce la cellulosa – un po’ per la progressiva affermazione dei concorrenti diretti, tv, radio e ora Internet. In realtà è molto probabile che il giornale stampato (quotidiano, settimanale, mensile) riuscirà a convivere con gli altri veicoli delle notizie, anche se in una posizione non più dominante, come è vissuto per secoli. 118

In attesa che il declino della stampa si fermi e si giunga a una situazione di assestamento, conoscere la tecnica con cui viene prodotto il giornale di carta significa trovare riferimenti storico-pratici e indicazioni concrete sull’origine e sullo sviluppo della tecnica giornalistica, indicazioni che hanno caratterizzato i primi secoli di vita dell’informazione. L’intreccio fra stampa e tv meriterà poi un’ulteriore, interessante, fase di analisi. In questa parte del libro affronteremo dunque sia le principali caratteristiche dei giornali di carta, sia le questioni principali della loro realizzazione: scrittura, titoli, impaginazione, grafica ecc. I giornali che escono quotidie (quasi tutti hanno più di un’edizione, ma sono praticamente scomparse quelle diffuse la sera) hanno subito modifiche sia di forma sia di sostanza. Alcune macroscopiche. Poco è rimasto delle antiche «gazette», dei fogli della penny press strillonati nelle strade delle grandi città americane, delle edizioni dei più antichi quotidiani del mattino (la «Gazzetta di Parma» o quella di Mantova, «Il Resto del Carlino», «La Nazione», «Il Corriere della Sera»). Dalle notizie in poche righe si è passati ad articoli a tutta pagina; dai pochi fogli si è arrivati alle 40-80 facciate. Dalla scrittura notarile, burocratica, letteraria si è arrivati al linguaggio asciutto e secco dei cronisti moderni. Per vincere la competizione le aziende hanno inventato inserti, fascicoli speciali e gadget. Minore impegno è stato messo per capire e soddisfare i desideri dei lettori, che non sembravano appassionarsi ai contenuti dei giornali. Gli si è offerto altro (un sapone, un profumo, un paio di calze, un dvd) per sostenere un trend commerciale che non riusciva a stare in piedi con il solo dare e avere notizie. Dal bianco e nero si è arrivati al full color, con grandi resistenze da parte soprattutto delle testate politiche ed economiche, che pensavano di dover conservare una veste seriosa, cui il bianco e nero sembrava adattarsi meglio. La pubblicità è cresciuta al punto che ormai invade più del 50 per cento degli spazi disponibili, con la conseguenza di un pesante, talvolta sfacciato, condizionamento del prodotto di informazione. I cedimenti davanti alle esigenze delle direzioni commerciali sono sempre più vistosi. Pagine deturpate dove le notizie occupano spazi risicati; richieste di fronte alle quali neppure i migliori direttori sanno dire di no. Nel gennaio 2009 è caduto anche uno degli ultimi «san119

tuari»: il «New York Times» ha ammesso in prima pagina la pubblicità che per tutta la sua vita aveva rifiutato. L’antico formato broadsheet (circa 37,4 × 59,5 centimetri) ha lasciato il campo ai più piccoli tabloid (in inglese «succinto») di circa 32 × 47 centimetri, che consentono una più facile lettura, al mattino andando al lavoro, sul tram o sul treno regionale. Si sono molto ampliati i settori dedicati alla politica, all’economia, alla cultura. Lo sport ha giornali tutti suoi. Abbondano i «primi piani», vere e proprie monografie dedicate a un solo argomento di attualità. La loro utilizzazione da parte di quasi tutti i quotidiani ha scardinato la suddivisione delle pagine nelle tradizionali sezioni (spesso del tutto svuotate). In alcuni casi questa tecnica confonde il lettore, che non trova facilmente gli argomenti che lo interessano, e appesantisce il giornale. Quando il fatto del giorno è di notevole interesse (un nubifragio, un attentato ecc.) la redazione tende a strafare, vuole dimostrare di saper realizzare anche quattro, sei, talvolta dieci o dodici pagine su un unico avvenimento. Il lettore, forse favorevolmente impressionato, non è però in grado di leggere tutto quel materiale, che schiaccia e minimizza le altre informazioni contenute nel giornale. Una mania di grandezza diventata tipica dei nostri quotidiani e che non ha eguali all’estero. Mai la redazione di «Le Monde» o «El Paìs» stravolgerebbe i connotati del proprio giornale. E poi, questo sforzo per dare al resoconto dei fatti una misura extralarge come mai non produce vantaggi nelle vendite? Nei maggiori quotidiani italiani è sempre più grande il numero degli articoli scritti da persone esterne alla redazione, molte delle quali non sono giornalisti iscritti all’Albo. Ciò rende i giornali molto più ricchi rispetto al passato. Soprattutto di opinioni. La maggior parte delle testate ha deciso di aumentare la sezione dedicata ai commenti e alle analisi, a fronte dei resoconti di sola cronaca, nella convinzione che la «carta» sia maggiormente adatta alla riflessione, rispetto ad altri strumenti (la radio, il web, la tv) deputati a fornire le nude informazioni, con maggiore tempestività. Negli ultimi trent’anni, grafici e impaginatori hanno reso enormemente più piacevoli i quotidiani, fra i migliori al mondo se si guarda alla qualità estetica. I settimanali hanno riempito lo spazio dell’informazione «popolare», che nei paesi anglosassoni ha sempre caratterizzato anche una fetta dei quotidiani. I nostri rotocalchi rap120

presentano il vero successo dell’editoria di carta. Un’informazione «leggera», dedicata spesso ai fatti personali e al gossip, che surclassa le vendite dei quotidiani. Peraltro, fra questi, anche i più autorevoli hanno via via deciso di pubblicare notizie meno seriose, più rosa e mondane (il «Corriere della Sera» ha fatto da apripista a quello che è stato chiamato «mielismo»). Nell’ultima parte del secolo i quotidiani italiani hanno prodotto il massimo sforzo per superare la soglia dei 7 milioni di copie. Ma non ci sono riusciti e si sono fermati a quota 6,8 nel 1990. Poi un calo vistoso e una leggera risalita sopra i 5 milioni, nel periodo 20012007. Nel 2007 il fatturato è cresciuto dell’1,7 per cento (rispetto al 2,7 dell’anno precedente) mentre i costi operativi sono saliti del 6,1 contro il 3,1 del 2006. Un terzo delle imprese che producono quotidiani chiudono il bilancio annuale in perdita. Forti le disparità nelle vendite in edicola se si guarda la cartina dell’Italia. Rispetto al dato globale delle 114 copie vendute al giorno su 1000 abitanti, si nota che nelle regioni meridionali si scende a 60/1000. In pratica nel Nord e nel Centro si vende una copia ogni 9 abitanti, nel Sud una ogni 16. Si sono avvicinati al quotidiano soprattutto i cittadini delle fasce di età più alte, mentre i giovani hanno sostanzialmente confermato il proprio disinteresse. Le analisi condotte attestano che essi rifiutano questo strumento di informazione, mentre sono sempre più attratti dal telefono cellulare e dallo schermo televisivo. In genere sono lettori deboli, anche nei confronti del libro, col quale probabilmente hanno instaurato un cattivo rapporto durante gli anni della scuola. Anche i periodici, che hanno attraversato stagioni rigogliose, fra il 2006 e il 2007 hanno perso copie: – 4,2 i settimanali e – 3,9 i mensili. In tutte le nazioni è in atto una lenta erosione, una contrazione delle vendite determinata dalla concorrenza degli altri media (la tv, Internet) ma forse anche dalla perdita di autorevolezza della categoria giornalistica. La nascita di alcune testate gratuite («Metro», «Leggo», «City», «EPolis»), finanziate solo dalla pubblicità, ha creato un nuovo flusso di informazione che ha attirato milioni di persone che prima non compravano e non leggevano informazioni stampate. La free press, uno dei fenomeni nuovi apparsi nel panorama giornalistico, all’inizio è stato sottovalutato e snobbato. Gli editori più forti hanno cer121

cato di ostacolare l’arrivo delle testate gratuite. Poi, constatato che esisteva un’altra fetta di mercato da arare, sono scesi anch’essi su questo terreno e hanno inaugurato tabloid gratuiti. Due testate («Corriere della Sera» e «la Repubblica») hanno battagliato per la conquista del record di copie vendute (600-700 mila al giorno). Accanto ad esse hanno mostrato notevoli sforzi editoriali altre aziende autorevoli («La Stampa», «Il Sole-24 Ore»); alcuni giornali politici («l’Unità», «il Manifesto») hanno attuato trasformazioni sostanziose, mentre nascevano anche testate del tutto nuove («Libero», «il Foglio», «il Riformista»), ma solo alcune sono riuscite a conquistare un buon posto sul mercato, altre hanno appena segnato il territorio relativo a una compagine politica e vivono solo in virtù dei finanziamenti pubblici. Il quotidiano italiano, anche quando ha raggiunto le vendite più alte, non ha mai toccato le vette di paesi come il Giappone, dove le testate più diffuse vendono anche 7-8 milioni di copie al giorno, grazie alla diffusione in abbonamento, che da noi non ha mai dato risultati soddisfacenti, neppure dopo l’introduzione della teletrasmissione. In Europa occorre distinguere. I giornali d’assalto, più «popolari» e privi di scrupoli (il «Sun» in Gran Bretagna, la «Bild Zeitung» in Germania) hanno superato anche i 3 milioni di copie. Mentre quelli più seri e rigorosi hanno mantenuto un trend più modesto: 400-500-600 mila copie al giorno. Si tratta di una fascia all’interno della quale troviamo «Le Monde», «El Paìs», «The Times» e accanto possiamo porre i nostri «Corriere della Sera», «la Repubblica», «La Stampa», «Il Sole-24 Ore», con caratteristiche (la grafica, i contenuti, il numero delle pagine) di notevole qualità. Poi è arrivato Internet e di fronte alla nuova concorrenza le aziende editoriali che si dedicavano esclusivamente alla carta stampata hanno cercato di diversificare il prodotto. È in atto una modificazione dell’offerta e una integrazione con la diffusione dei notiziari web. L’organizzazione delle testate cambia di continuo e nascono redazioni multimediali. Nei giornali Usa i redattori confezionano prima il notiziario Internet – aggiornato 24 ore su 24 e integrato con inserti audio e video – e poi dedicano le proprie energie al giornale che uscirà in edicola o sarà diffuso dagli strilloni. La tecnica di produzione tradizionale sembra in bilico. Nessuno può dire quale sia il destino della carta stampata. Il desiderio di «leggere per riflettere» su fatti già appresi dalla tv, dal computer o dal te122

lefonino, consentirà ai giornali di mantenere una propria quota di mercato? O Internet spazzerà via tutto? Secondo Vittorio Sabadin, che ha studiato a fondo i cambiamenti in atto, «i giornali dovranno reinventarsi, adeguare le strutture alle nuove necessità e ai mutamenti delle abitudini dei lettori, utilizzando tutti gli strumenti a disposizione per combattere i nuovi nemici tecnologici sul loro stesso terreno» (Sabadin, 2007). Cambia l’organizzazione del lavoro, ma cambia anche la tecnica giornalistica. Già oggi all’interno delle scuole di giornalismo un giovane si addestra alla produzione di notizie utilizzando diverse «piattaforme». Egli deve essere in grado di scrivere, titolare, impaginare, lavorare con un microfono o una telecamera. Giornalisti multiuso, capaci di passare da una tecnologia a un’altra, secondo un modello organizzativo cui dovranno adattarsi i nuovi contratti di lavoro, sui quali non a caso da più di tre anni le organizzazioni dei giornalisti e degli editori non riescono a mettersi d’accordo. Miope si dimostra la vecchia disposizione della legge del 1963, secondo cui per diventare giornalista bisogna passare un periodo di 18 mesi all’interno di un’azienda. Al termine di quel «praticantato», egli sarà infatti un «monogiornalista», conoscerà un solo aspetto del mestiere e avrà scarse possibilità di trovare lavoro.

L’informazione radiofonica

1. Lo ha detto la radio C’era una frase, un tempo, che si sentiva dire: «Lo ha detto la radio». Era il segno dell’autorevolezza che si attribuiva alle notizie apprese attraverso la vecchia scatola di legno con cui parlava l’emittente di Stato. A quella si poteva credere, era una fonte autorevole, un’amica alla quale si dava fiducia. Una radio – anzi la radio – che esiste ancora, ma che deve vedersela con la concorrenza di migliaia di stazioni, piccole o piccolissime, il cui segnale arriva o scompare d’improvviso dall’altoparlante della tua vettura mentre fai la curva o spunti sulla cima di una collinetta. L’autorevolezza della radio di quel tempo – dal dopoguerra fino all’esplosione delle antenne private – sicuramente non c’è più. Nasceva da una gestione monopolistica che si accompagnava a una professionalità formale, supercontrollata, ingessata da amministratori e giornalisti inquadrati e legati a una precisa finalità politica e sociale. La radio forniva a quel tempo un servizio di informazione tutt’altro che pluralistico. I notiziari, sotto il controllo di dirigenti moderati (scelti quasi esclusivamente dalla Democrazia cristiana) erano confezionati secondo regole standard. Anche rigorose. Al cospetto di una disgrazia, l’informazione veniva diffusa solo dopo la comunicazione agli interessati, per cui l’annunciatore diceva: «I famigliari delle vittime sono stati avvertiti», in modo che nessuno potesse allarmarsi. Regole valide ancora oggi, anche se i notiziari erano seriosi, spesso neutri, privi di opinioni e di interviste. Fino all’avvento della televisione la radio è stata lo strumento principe dei regimi autoritari, che in ogni epoca e continente ne hanno capito l’efficacia e l’hanno usata come arma per convincere, otte124

nere il consenso e indirizzare i cittadini (Monteleone, a cura di, 1994). Nello scontro con la televisione molti hanno profetizzato la morte della «sorella cieca». Ma hanno sbagliato. La radio ha mostrato invece una propria vitalità e funzionalità. Il transistor e la miniaturizzazione del ricevitore, anzi, hanno fatto dilagare la radiofonia, che ha saputo ritagliarsi una propria funzione comunicativa, accanto al mostro televisivo, grazie al messaggio «caldo» che essa sembra in grado di garantire, come notò McLuhan, a fronte della «fredda» televisione. Ora che è nato il web, anche l’informazione radiofonica lo utilizza e regge l’urto, pur ricevendo poco sostegno dalla pubblicità e dalle leggi di settore. Convive con gli altri strumenti di intrattenimento e di informazione e, a differenza della carta stampata, non sembra affatto avviata al declino. Durante gli anni Ottanta, grazie a una totale deregulation (qualcuno lo chiamava «Far West»), nacquero migliaia di emittenti, che dalla legge (quella firmata dal ministro Oscar Mammì) furono obbligate a irradiare anche notiziari giornalistici. Con pochi mezzi, ma con un’autentica passione, riuscirono a raccontare solo fatti locali e a sintetizzare gli altri. Poi si è capito che l’obbligo – in cambio della concessione della frequenza – non aveva senso. E le piccole private hanno preso a svolgere il ruolo che è nella loro natura. Ogni dieci chilometri di strada, soprattutto quelle statali, si odono voci diverse, si ascolta musica e un chiacchiericcio continuo, dialettale e un po’ grossier. L’informazione giornalistica di queste testate, a parte una ventina più ricche di mezzi, riguarda i fatti avvenuti in una ristretta porzione di territorio. Una rete animata, coloratissima, che tiene compagnia a milioni di italiani. Produce un’informazione limitata, ma utile perché spontanea e pluralistica. La notizia fornita attraverso la radio deve tenere conto della particolarità del mezzo e delle condizioni in cui si trova l’ascoltatore. La radiofonia prevede un tecnicismo differente dalle modalità di ogni altra forma di informazione, stampata, televisiva o sul supporto web. Gli impianti di produzione sono semplici, maneggevoli, poco costosi. La radio è uno strumento che sollecita solo uno dei cinque sensi, l’udito. Proprio per questo è più facilmente fruibile da una persona che sta svolgendo altre operazioni e che non avrebbe la possibilità di avvicinarsi a un computer, di guardare uno schermo, di esaminare le 125

colonne di un giornale stampato. Grande spinta è stata fornita alla radio dal telefono, che permette sia di ascoltare i notiziari radiofonici, sia di prendervi parte e dare il proprio contributo. Questa integrazione (che ha raggiunto talvolta livelli parossistici, spesso non accompagnata da una sufficiente qualità tecnica) rende possibile trasmissioni molto «partecipate». Decine di persone intervengono, fornendo notizie e opinioni, in programmi che altrimenti risulterebbero freddi e asettici. L’immediatezza della radio non ha eguali, offre comunicazioni di servizio in tempi strettissimi. E colui che non si è posto all’ascolto nel momento esatto della trasmissione, può utilizzare un servizio «on demand». Dopo appena qualche minuto può avere un servizio a portata di orecchio, che gli garantisca un’informazione celere e tempestiva. Magico è il rapporto fra la radio e la musica, sia classica che moderna, un binomio inscindibile, una fonte inesauribile di piaceri per l’udito. Leggendario è l’apporto che la radio ha dato in alcuni momenti dolorosi della storia italiana: la tragedia del Polesine, l’inondazione di Firenze, il terremoto dell’Irpinia. Ma anche di quelli gioiosi: le avventure di Bartali e Coppi, le imprese della nazionale di calcio. Con un microfono in mano sono diventati protagonisti giornalisti che sono passati alla storia (Nicolò Carosio, Nando Martellini, Enrico Ameri, Sandro Ciotti), sono stati molto amati dal pubblico, hanno lasciato un segno forte nel giornalismo italiano (Vittorio Veltroni, Sergio Zavoli, Ruggero Orlando). All’interno dell’affollato mondo della radiofonia non tutti rispettano le caratteristiche del mezzo. Chi ha occasione di sintonizzarsi a caso e cattura un segnale, in onda media o in modulazione di frequenza, spesso si trova al centro di una rumorosa baraonda, scarsamente professionale e poco ascoltabile. Il parlato schiaccia e opprime altri suoni che renderebbero l’ascolto più piacevole o sopportabile. La digitalizzazione ha solo in parte attenuato questi difetti e migliorato la qualità della diffusione. L’orecchio resiste poco. Chi è all’ascolto spesso sta facendo qualche altra cosa (guida l’auto, lava i piatti). Ha bisogno, per questo, che le informazioni gli vengano fornite a un ritmo, con una scansione, un tono di voce, adatti alle condizioni in cui si trova. Il giornalista non è e non deve essere un annunciatore, ma deve seguire alcuni principi e applicare accorgimenti che gli consentiranno di trasmettere e far ascoltare le proprie notizie. Già nei primi anni dopo la guerra la ra126

dio diventò più brillante. Si capì che «i fatti e gli uomini che compiono o subiscono i fatti, e le cose tutte che sono oggetto di cronaca o di storia, acquistano più virtù di parola, diventano anzi parlanti, fino a parlare direttamente al microfono». Lo scrisse in un libricino ormai introvabile, nel 1948, Antonio Piccone Stella, ingegnere della Rai, che elaborò un prezioso vademecum, poi distribuito a tutti coloro che si ponevano davanti a un microfono. La radio cominciò ad aprirsi alla realtà e a utilizzare il suo enorme fascino (Piccone Stella, 1948). Oggi le emissioni radiofoniche sono una mescolanza di parole e musica. Prevalgono contenitori che intrattengono gli ascoltatori alternando voci, interviste, opinioni e canzoni. I notiziari, per fortuna, sono annunciati da sigle ben conosciute, ma il rischio di confondere il giornalismo con il divertimento è alto. Durante gli anni Settanta la radio ha subito una grossa trasformazione. Da una parte si sono affermate le antenne libere e l’etere si è fatto selvaggio, anche se finalmente pluralistico. Dall’altra, la Rai (in particolare dopo la legge del 1975 e la moltiplicazione dei canali) ha introdotto profonde innovazioni. Fino a quell’epoca, i notiziari erano letti dagli annunciatori, professionali, ma che fornivano un’informazione congelata, fredda, ufficiale. Alcune regole vennero sintetizzate in un manualetto anche da Carlo Emilio Gadda, lo scrittore di Quer pasticciaccio brutto de via Merulana, dipendente Rai e mago del linguaggio, che fissò le regole basilari. Prima fra tutte quella di scrivere periodi brevi, poco collegati fra loro, evitando parole difficili, sigle, rime involontarie e tenendo conto che l’ascoltatore si irrita se ascolta «modi che abbiano a suscitar l’idea di una allocuzione compiaciuta, di un insegnamento impartito, di una predica, di un messaggio dall’alto» (Gadda, 1973). Piano piano lo strumento radiofonico dispiegò tutta la propria potenzialità. Prima del 1970, nell’azienda di Stato, solo alcuni giornalisti particolarmente addestrati potevano accedere al microfono e a questi «radiocronisti» patentati venivano affidati i momenti più delicati di un giornale radio, le «dirette» solenni, le interviste, le necessità dell’ultimo momento. Poi, i microfoni vennero aperti a tutti (o quasi) i giornalisti. Taluni erano inadatti e non addestrati, ma l’apertura rese il giornalismo radiofonico più variegato e più idoneo a reggere la concorrenza delle radio private, che nel frattempo stavano invadendo il mercato. 127

Esistevano forme di giornalismo più «familiari» dedicate soprattutto alla cronaca («Radiosera» che si collegava alle 19,30 con tutte le sedi regionali della Rai) e altre più suggestive, come i documentari di eccezionale qualità espressiva, nei quali i segreti e le potenzialità della radio erano messe a frutto da giornalisti famosi e da tecnici capaci di fare miracoli, tagliando, sfumando, missando. Una tradizione della Rai che è finita in archivio, come molte opere del passato. E che invece potrebbe suggerire, con modalità diverse, trasmissioni di qualità. Un giornalismo svelto e immediato, meno formale e più ficcante cominciò alla Rai a partire dal 1976. L’informazione unica del monolite si frantumò in tre canali, con diversa impostazione politica. Chiusa l’epoca del giornale radio unico guidato da Vittorio Chesi, i giornali diretti da Gustavo Selva (Gr2), Sergio Zavoli (Gr1) e Mario Pinzauti (Gr3) sperimentarono una tecnica maggiormente immediata, dominata dalle notizie fornite e commentate in diretta da giornalisti che intervistavano sul momento i politici, gli economisti, i protagonisti dei fatti. Tutto ciò mentre il sempre più affollato mondo delle radio libere lanciava trasmissioni più sbarazzine, rinunciando ad alcuni caratteri di qualità. Un prezzo che era inevitabile pagare a un giornalismo più diffuso, aperto alle sollecitazioni della democrazia moderna, compiuta, partecipata. I microfoni furono aperti nel tentativo di liberalizzare il prodotto Rai. Con qualche difficoltà, dovuta anche alle rigidità di accordi e diritti sindacali che impedivano, ad esempio, ai cronisti di registrare in esterna se non in presenza di fonici specializzati, a differenza di quanto avveniva in altri paesi (Nanni, 1998). Lo scenario della radiofonia è contraddittorio. Luci e ombre discendono dalla scelta centralistica che ha continuato a fare il Parlamento. Sia con la legge Mammì, sia con la legge Gasparri, non solo è stata privilegiata la tv – scelta come formidabile arma per condizionare l’opinione pubblica e indirizzare il consenso – ma si è continuato ad affidare alla Rai un modello nazionale, in cui le realtà regionali e locali avrebbero svolto ruoli marginali. Ciò mentre piccole e medie aziende si lanciavano nell’esperienza radiofonica offrendo al pubblico una pluralità di voci preziose, per quanto esili. La selva dei ripetitori, delle antenne e dei «ponti» si è infoltita senza dare alcuna certezza all’ascoltatore in automobile (forse un terzo del totale) il quale, nonostante l’avvento della tecnica digitale, perde spesso il col128

legamento con la propria «stazione» e si arrabatta con manopole e tasti, più o meno come cinquant’anni fa! Dal punto di vista strutturale c’è stato l’accavallarsi dei segnali. La spinta libertaria, frenetica e spesso scomposta, ha sfruttato i ripetitori e le frequenze che un tempo erano parco tecnologico della sola Rai. Che in questo modo ha perso, man mano, il suo segno distintivo e le sue prerogative, pur mantenendo per un po’ di anni l’autorevolezza che le nuove stazioni non possedevano. Sul piano dei contenuti – poiché la quasi totalità delle risorse è stata destinata alla televisione – la radio non ha avuto sufficiente spinta innovativa e organizzativa. E dire che la Rai, a differenza delle società concorrenti, disponeva di sedi e stazioni regionali che avrebbero potuto produrre una montagna di informazioni (anzi, venti piccole montagne) attuando un affascinante federalismo della radiofonia. Quanto all’informazione giornalistica, le novità principali comparvero alla metà degli anni Settanta, quando appunto Radiouno, Radiodue, Radiotre aprirono i microfoni a un linguaggio nuovo. Fu spezzata l’egemonia del giornale radio scritto, affiancato e poi superato da un giornale «parlato». I testi preparati – che per tanti decenni avevano avuto la sacralità che il monopolio e il controllo politico imponevano – si mischiarono con interventi a braccio, con commenti all’impronta, con interviste in diretta. I giornalisti prendevano il posto degli annunciatori e il loro arrivo al microfono rendeva l’informazione più comprensibile e vicina alla sensibilità dell’ascoltatore. Nella storia del mezzo radiofonico quella stagione mostrò il tentativo di un giornalismo realmente più democratico, perché aperto e più rispettoso dei diversi punti di vista politici e culturali. La vera novità era la possibilità di approfondire, di capire i retroscena, chiamando i protagonisti della vita pubblica a rispondere in diretta alle domande dei giornalisti. Una stagione importante (che il sottoscritto ha vissuto!), contrassegnata dalle analisi del Gr1 di Sergio Zavoli (ogni notiziario aveva una seconda parte dedicata all’approfondimento degli avvenimenti più rilevanti) e dagli editoriali polemici di Gustavo Selva sul Gr2 (che per questo fu soprannominato «radio belva»). Modalità nuove, maggiore personalità, rottura degli schemi dell’informazione compassata e supercontrollata che aveva caratterizzato i decenni precedenti. In anni più recenti, la radio non è mai stata rafforzata e rilanciata dalla Rai. E ha proposto non pochi difetti, legati all’incapacità di 129

tener dietro ai mutamenti e alle innovazioni. Ha ragione chi sostiene che la qualità (formale) dei notiziari radiofonici si è abbassata, ma il pluralismo e la vivacità sono comunque aumentati e hanno aiutato la radio a trovare una collocazione e una forza propria, pur a fronte dello strapotere del piccolo schermo. Mentre le radio private si contendevano le briciole lasciate da quella pubblica e conquistavano giorno per giorno pezzi di audience, il servizio pubblico finiva sul loro terreno, perdendo le proprie caratteristiche. Ha scritto Franco Monteleone, uno dei maggiori esperti di radiofonia: La radio pubblica non potrà mai più essere come prima, ma al tempo stesso sarebbe un errore continuare a considerare innovativi quei modelli di programmazione ispirati soltanto alla radiofonia commerciale, che persegue altri obiettivi, esercita altre funzioni, esprime altri interessi, e conseguentemente utilizza altri linguaggi» (Monteleone, a cura di, 1994).

La richiesta del pubblico è fortemente cambiata. È nata quella che Enrico Menduni ha definito radio di flusso: « una richiesta di benessere [...] un ascoltatore che non vuole adeguarsi agli orari, vuole un flusso al quale collegarsi quando può o quando ne ha voglia» (Menduni, 1994). Ciascuna emittente cerca un’occasione di rapporto stabile con i propri ascoltatori, allestisce un canale dotato di precisi connotati, primo fra tutti un’informazione giornalistica tempestiva, veloce, talvolta martellante, talvolta all news (ibid.) Il canale di informazioni continuate, durante le 24 ore, è stato annunciato da RadioUno. Così, nel 1994, illustrò il progetto il direttore Livio Zanetti: Il nostro fornisce nelle ventiquattro ore (dunque anche nelle ore notturne) una quarantina dei flash varianti tra i quattro e i sette minuti intervallati da brevissimi approfondimenti monografici [...] crea un flusso informativo continuo e ben rimato, mediante il quale viene raccontata agli ascoltatori la storia in progress della giornata [...] un giornale in diretta in 40 puntate che comincia ogni giorno da capo e non finisce mai.

In realtà il Gr1 non ha mai assunto la veste del «ventiquattro ore» di altri paesi, ma costituisce comunque un esempio di giornalismo radiofonico serio e aggiornato. Chi ama la radio non fa zapping, come avviene per i programmi tv – si osservi che non esiste in commercio una pulsantiera per il co130

mando a distanza – perché è legato a un canale, vuole collegarsi stabilmente con quello. Perfino quando guida la sua macchina. Finito il selvaggio West, l’assalto all’etere, pochi soggetti hanno consolidato le posizioni. Ci è riuscito chi ha rinunciato alla funzione generalista e ha scelto target più circoscritti. Non è per caso se i giovani, che rifiutano il giornale stampato, hanno scelto più spesso la radio, sia per informarsi sia per esprimersi (le radio universitarie, delle associazioni, dei movimenti). Contemporaneamente l’ascoltatore sembra aver capito che per informarsi deve scegliere canali autorevoli. Per questo sono emerse stazioni che fanno capo a grandi gruppi editoriali («L’Espresso», «Il Sole-24 ore») e portano con sé l’esperienza e la potenzialità che queste aziende posseggono e che il pubblico già conosce. Il destino della radio va di pari passo con le trasformazioni delle capacità uditive degli individui, con la percezione del rumore, con la difficoltà (e il desiderio) di discernere i propri interessi nell’oceano chiassoso delle voci e delle espressioni. La radio non tiene solo compagnia. È un medium tempestivo, pari solo ai notiziari Internet, ma è ascoltabile in momenti e modalità che non comportano una dedizione particolare. Non c’è bisogno di sedersi davanti a un video. Il suo concorrente più agguerrito è forse il telefonino che con le sue notizie volanti, simili a un sms, batte qualsiasi competitore. Così, la radio non sembra affatto in crisi, né sul piano dell’intrattenimento, né su quello dell’informazione. Il suo è un giornalismo legato solo al lancio della notizia e all’approfondimento? Ci sono trasmissioni dedicate all’economia, alla politica estera, ai problemi sociali, che contraddicono questa tesi. La tempestività e l’immediatezza restano i requisiti principali del mezzo radiofonico. Che si tratti di uno strumento che scende meno in profondità è smentito da molte vicende recenti, nelle quali proprio la notizia trasmessa attraverso la radio ha fatto clamore e addirittura scandalo. Nella vita della radio si possono citare trasmissioni che dimostrano quanto essa sia adatta all’esigenza del fare informazione. «Prima pagina», la rubrica di Radiotre, inventata da Enzo Forcella a metà degli anni Settanta, è un esempio pratico – non c’è canale che non l’abbia imitata – di maneggevolezza del mezzo e del suo sfruttamento per un’analisi aperta e democratica degli avvenimenti. Per quanto ormai vecchio, lo strumento radiofonico dimostra sempre nuove capacità di adattamento. 131

Il futuro? Profeti credibili in giro ce ne sono pochi. Anche la radio non merita analisi approssimative, ma qualche previsione si può avanzare, se si tiene conto delle caratteristiche del mezzo e dei rapporti sinergici che già si sono instaurati fra la radio e la rete web. Essa continuerà a farci compagnia, grazie alla sua semplicità tecnologica, nei diversi momenti della giornata. Continuerà a trasmettere musica, speriamo con una qualità dell’emissione superiore a quella odierna. Continuerà a fornire notizie, perché le sue potenzialità sono intatte, in tutti i punti del globo. Sulla radio il giornalismo dei prossimi anni potrà ancora fare affidamento, purché ad essa riservi notiziari sempre più veloci, tempestivi e credibili. I suoi concorrenti maggiori saranno il telefonino e il computer. Dovrà valorizzare le proprie doti. Ad esempio la diretta, con le emozioni che può fornire attraverso la testimonianza di un giornalista che vive l’evento e lo narra grazie a un microfono volante, che può trasmettere da qualsiasi punto della terra. Una magia. Solo la radio può informare e contemporaneamente commuovere, impaurire, avvertire, rassicurare chi è all’ascolto. Solo la radio può immettere il cittadino in un’aula parlamentare, in uno stadio, in un luogo sperduto (una montagna, una barca, perfino un abisso marino) e suscitare sentimenti ed emozioni, se usata con perizia e professionalità. Ma è da segnalare come il Parlamento non abbia fatto nulla per evitare che le frequenze della radio pubblica fossero aggredite da piccoli operatori commerciali. La classe dirigente del paese, che a parole più volte ha promesso di difendere il patrimonio della radiofonia pubblica, in realtà ha lasciato i canali Rai in preda al delirio dei segnali emessi dalle stazioni commerciali. Il digitale porterà a una separazione più specifica fra i canali e le frequenze. Niente più accavallamenti, voci che scompaiono e ricompaiono. Le parole di un giornalista, come l’assolo di un violinista e l’acuto di un soprano dovranno essere ascoltabili in un’acustica perfetta, al centro di una foresta o nel groviglio del traffico di una metropoli. All’interno di un sistema legislativo più definito e rispettato, la tecnologia futura garantirà qualità e ascolto anche alle emittenti più deboli, con un conseguente arricchimento di idee e di cultura senza pari, rispetto al passato. Quello che ciascuna di queste stazioni metterà in onda dipenderà dalla cultura, dagli interessi, dalla sensibilità dei suoi operatori. Ma la regionalizzazione e il localismo ne trarranno enorme giovamento, anche se resteranno condizionati da inevitabili interessi economici e commerciali. La radio ha il «futuro 132

dietro le spalle» come diceva Vittorio Gassman, fondato sull’enorme fiducia che si è conquistata. Esiste una chiara potenzialità, nello strumento radiofonico. Legata alla sensibilità dell’orecchio degli uomini moderni, alla loro maggiore volontà di ascoltare, di distinguere le voci e di apprendere. Se la classe politica capirà l’esigenza di lasciarla più libera e al tempo stesso di darle il sostegno di cui ha bisogno, non solo la radio non morirà, ma contribuirà a consolidare le radici e le modalità della democrazia. 2. Le regole di base Vale la pena di indicare alcune modalità e regole che nell’approccio alla radio sono indispensabili e che riguardano sia la scrittura dei testi, sia il parlare a braccio. Alcuni accorgimenti scritti da Carlo Emilio Gadda sono ancora validi. Ma le prime osservazioni di un calepino moderno – chi scrive ha parlato per dieci anni dai microfoni del Giornale radio della Rai – possono essere così sintetizzate: – l’ascoltatore si stanca già dopo 2-3 minuti; per questo è bene che rapidamente intervenga una voce diversa e che al microfono ci sia un’alternanza di voci; – il linguaggio deve essere il più semplice possibile, affinché la notizia sia compresa da ascoltatori di qualsiasi estrazione e preparazione scolastica; – le pause sono un’arte; la voce, anche durante una lettura rapida, deve rispettare le esigenze dell’ascolto, ogni intervallo corrisponde a una virgola o a un punto; i due punti, poiché non si vedono, devono essere «interpretati», altrimenti è meglio non usarli; – la buona dizione non può essere considerata un mito del passato, occorre un livello almeno medio di «pulizia»; – le ripetizioni non sono un difetto: giacché l’ascoltatore può aver perso qualche parola o l’intera prima parte della notizia trasmessa, in coda è utile ripetere l’informazione iniziale; – è meglio scrivere periodi brevi (soggetto, predicato verbale, complemento oggetto); le derivate e le dipendenti vanno evitate, allargano il periodo, ma chi è in ascolto può perdere facilmente il filo del discorso; – le virgolette (come le parentesi) non si vedono: occorre far precedere il discorso diretto dall’esplicita segnalazione di chi ha detto 133

quella frase; soprattutto se la frase virgolettata è lunga, l’indicazione messa in coda può non essere compresa. La tecnica per raccontare i fatti attraverso la radio è dunque unica, molto diversa da quella del giornale stampato, ma anche da quella televisiva. Un buon giornalista radiofonico sa che 14-15 righe occupano un minuto, a una velocità di lettura pulita, comprensibile anche per persone anziane o che possono avere qualche difficoltà. Sa che le sigle non vanno usate, perché non sono afferrate dall’ascoltatore e così le parole straniere, salvo quelle di uso comune per noi italiani. Sa che i toni ironici raramente sono afferrati da chi è in ascolto e così certe sottigliezze lessicali o parole scarsamente utilizzate. Al microfono al giorno d’oggi può parlare chiunque, ma senza esagerare con le inflessioni dialettali, con le vocali troppo aperte o chiuse. Una «erre» moscia può non dare alcun fastidio, ma una voce affettata o concitata, un tono urlato o dimesso, un ritmo troppo lento o troppo veloce è possibile che non facilitino la comprensione e la pazienza di ascoltatori che possono trovarsi sulle Alpi o in Sicilia, appartenere a gruppi acculturati o a quelli che vengono definiti analfabeti di ritorno. Questi e altri piccoli accorgimenti, apparentemente banali, costituiscono i «fondamentali» del parlare radiofonico. Soprattutto nel settore dell’informazione. Si tenga conto che spesso chi legge una notizia davanti al microfono è persona diversa da quella che l’ha scritta. E che per lo più lo ha fatto in gran fretta, con l’angoscia delle lancette dell’orologio. La radio suggestiona, ha un suo fascino, provoca emozioni. Un famoso sceneggiato realizzato da Orson Welles (Guerra dei mondi, trasmesso il 30 ottobre 1938), in cui si immaginava l’arrivo sulla terra dei marziani, provocò il panico fra gli ascoltatori, nonostante a distanza di pochi minuti una voce tranquillizzante segnalasse che si trattava di una fiction. Ci furono casi di suicidio. Uno strumento da usare con delicatezza. Una pausa superiore al minuto induce a pensare che ci sia stato un guasto, un cambio di rete, un attentato. Il racconto in diretta da parte di un radiocronista attrae l’ascoltatore, può riuscire a tenerlo incollato all’apparecchio, più ancora di una ripresa televisiva. Si pensi alle gare sportive. Ma il vocabolario deve essere comprensibile, il tono della voce adatto alle diverse situazioni. I cambi di ritmo sono indispensabili per evitare la monotonia. 134

Potere e pericoli della televisione

1. Immagine è notizia Nei tempi antichi la rappresentazione grafica della realtà è stato talvolta il mezzo più efficace per trasferire informazioni. Nei tempi moderni lo sviluppo delle tecniche di ripresa e di riproduzione ha ingigantito il valore dell’immagine, che in molti casi ha finito per prevalere sull’informazione orale e scritta. Questo spiega l’affermazione della televisione, che peraltro è stata usata per intrattenere, indottrinare, ipnotizzare le persone, più ancora che per informarle. L’industria dell’informazione ha fatto un uso sempre più massiccio delle immagini. Chi analizza le modalità di questa utilizzazione si accorge che sono state attuate pratiche discutibili, ambigue, talvolta eticamente da condannare. Per quanto riguarda i quotidiani, a partire dagli anni Settanta, si è via via modificato il rapporto fra gli spazi occupati dai testi scritti rispetto a quelli delle fotografie, divenute sempre più grandi e strategiche nella grafica delle pagine. Allo stesso modo, sugli schermi televisivi l’attenzione dei telespettatori è attratta da foto e sequenze che accompagnano le notizie, ma che non sono quasi mai di vera attualità. In entrambi i casi abbondano i materiali di archivio, la cui funzione è solo strumentale. L’occhio è catturato, ma il messaggio trasmesso diviene discutibile, perché allo spettatore non viene detto che ciò che vede non è attuale. L’intera società è suggestionata dalle immagini e anche l’avvento di Internet ha reso più virtuale il mondo che ci circonda. Sull’essere vince l’apparire, con conseguenze talvolta preoccupanti per la mente degli individui, soprattutto per i più deboli. 135

Non attiene a questo libro parlare della fotografia, divenuta una moderna arte visiva. Ma all’interno dell’informazione il clic fotografico ha avuto eccezionale importanza. Il lavoro del fotoreporter ha costituito una documentazione valida in sé, capace di trasmettere l’emozione di eventi storici, con un impatto superiore a quello provocato da qualsiasi resoconto scritto. Sono nati giornali, rotocalchi patinati, con centinaia di pagine dense quasi esclusivamente di immagini. Il più celebre fu «Life», creato nel 1936 da Henry Luce. In Italia, grandi settimanali («L’Europeo», «Epoca», il primo «L’Espresso» formato lenzuolo) hanno fatto la storia del giornalismo fotografico. Grazie alla Rolleiflex e alla Leica, ciò che il lettore vedeva diveniva più importante di ciò che leggeva. L’occhio era colpito prima ancora che la mente elaborasse l’informazione. Attraverso i grandi fotoreporter si potevano capire le guerre, le rivoluzioni, le scoperte, le innovazioni, la ricchezza, la miseria. La storia della fotografia ha cambiato il modo di fare giornalismo. C’è stato un tempo, a partire dagli anni Sessanta, in cui la cronaca nera ha prevalso sugli altri generi giornalistici. Pagine e pagine dedicate ai delitti passionali, alle sciagure, ai disastri ecologici. Vicende umane, terribili ma avvincenti, alle quali i giornalisti hanno dedicato fiumi di energie. E di foto. Il giovane cronista doveva imparare a tornare in redazione con un rullino pieno di scatti effettuati, anzitutto. Il suo compagno più prezioso era il fotografo (insieme con l’autista, che conosceva la città, i poliziotti, i carabinieri, capiva al volo la situazione, individuava il testimone). Sul posto bisognava arrivare presto e ripartire di volata verso il giornale, bruciando la concorrenza. Quella immagine in bianco e nero avrebbe fatto la differenza, mentre le notizie comunque sarebbero saltate fuori, con l’aiuto del collega che curava la Questura, delle agenzie, dell’amico maresciallo o brigadiere. Chi aveva la foto vinceva. I quotidiani maggiori possedevano una squadra di fotoreporter e un laboratorio per lo sviluppo immediato delle pellicole. Poi c’erano i paparazzi, che venivano a vendere le immagini della «dolce vita». Ma la partita si vinceva sulle foto di nera e per questo i fotografi dipendevano direttamente dal capocronista e si occupavano solo dei fatti della città. Difficile che se ne potesse impiegare uno per la conferenza stampa a Montecitorio o per la prima all’opera. Quelle immagini si compravano dall’Ansa 136

o dall’agenzia Italia. Era la cronaca che faceva vendere le copie, si diceva. Era la foto di nera che contava. Un’attenzione all’immagine dei fatti che ha toccato il punto più alto e più tragico negli anni del terrorismo. Piazza della Loggia, piazza Fontana, la stazione di Bologna, il rapimento Moro, le decine di cadaveri e di pozze di sangue provocati dal rigurgito fascista e dalle pallottole delle Brigate Rosse, hanno prodotto una galleria fotografica superiore nella sua tristezza, a quella di una guerra. Il colore ha arricchito i giornali stampati, ma forse ha attenuato l’emozione degli scatti in bianco e nero. La grafica moderna ha impaginato le immagini in dimensioni un tempo impensabili, a fronte di testi sempre più brevi. Ma è invalso l’uso di foto curiose, più che altro. L’estetica ha scavalcato l’informazione. Il piacere provato dall’art director ha attenuato la spinta a pubblicare notizie fotografiche. Ci sono centinaia di fotoreporter che girano il mondo, a proprie spese, e fanno fatica a piazzare il proprio materiale. Qualcuno ci rimette la pelle. Altri non riescono a vendere le proprie immagini. I settimanali traboccano di foto (pagate migliaia di euro) che ritraggono attricette e veline televisive, ma al giornalista free lance che torna dal Darfur o dalla Cecenia il caporedattore del settimanale spesso risponde: «Grazie, non interessa». I nomi di Robert Capa, Henri Cartier Bresson, Evgenij Chaldej, Joe Rosenthal, Jean-Pierre Laffont, Patrick Robert, insieme con quelli di tanti altri, spiccano sui muri dei musei in tutto il mondo. Ma le loro immagini difficilmente sono state pubblicate dai giornali. Colpa di una concezione del giornalismo che ha privilegiato l’intrattenimento, lo spettacolo, il provincialismo, rispetto ai drammi e alle tragedie che questi colleghi erano riusciti a documentare. Lì dove infuriano le guerre, i primi a morire sono i fotogiornalisti. Li ammazzano perché ai militari non piace che le loro imprese siano ritrasmesse. Per fortuna, anche se l’elenco dei morti si allunga mese dopo mese, ci sono ancora quelli che rischiano la vita con la macchina al collo. Le immagini dal Vietnam hanno fatto capire agli americani che quella guerra era perduta. Le immagini dall’Iraq hanno dimostrato che questa guerra è sbagliata. E cosa c’è stato di più terribile del vedere la sequenza delle torri gemelle che crollavano dopo essere sfondate dagli aerei dei pazzi di Al Queda? Vedere è più efficace che leggere. Le foto talvolta turbano le coscienze. È accaduto in Francia, 137

quando sono state pubblicate le immagini dei guerriglieri afgani che indossavano le divise dei francesi che avevano ammazzato. Ma quella è la verità. Quello è il giornalismo. I fotografi, ha scritto BernardHenry Lévy (2008), Sono giornalisti, non assistenti sociali, e nemmeno militari, o ausiliari dei militari [...]. Il loro dovere, il loro unico dovere è di mostrare, mostrare sempre, mostrare tutto [...]. Con il rischio di turbare. Di risvegliare. Di dire a un’opinione pubblica che – è normale – non vuole vedere: invece bisogna vedere.

Ci sono anche clamorose confessioni. Perfino Tiziano Terzani ammise di aver fornito un’immagine non veritiera del regime comunista cambogiano che aveva visto nascere. Un noto fotoreporter svedese, Gunnar Bergstrom, ha ammesso recentemente che, a 27 anni, era andato in Cambogia insieme con due colleghi e avevano fotografato ciò che i khmer rossi mostravano: gli ospedali, le scuole, i pranzi in comune. Non si accorsero delle migliaia di persone uccise, delle città evacuate, delle prove del genocidio, che erano sotto i loro occhi ma che l’infatuazione per quella tragica rivoluzione aveva loro impedito di vedere. Il servizio di Bergstrom era stato una messinscena, di cui neppure lui si era reso conto. Le immagini, ma quali immagini? Delicato il rapporto fra la foto giornalistica e il rispetto della privacy. Per tradizione antica, le pagine di cronaca pubblicavano senza esitazione le foto dei protagonisti. Senza alcuna remora. Più ce n’erano e più bravo appariva l’autore del servizio. L’approvazione della legge sulla privacy (la legge n. 675 del 1996) e l’introduzione (precedente) di alcune regole di deontologia hanno posto i primi freni a questa pubblicazione indiscriminata. Gli stessi giornalisti, con la carta di Treviso del 1990, hanno bloccato la diffusione delle immagini dei minorenni, e poi con la Carta dei doveri del 1993 hanno stabilito che era giusto preservare la dignità delle persone accusate, indagate, tradotte in carcere. Niente fotografie degli arrestati portati via in manette, dunque, a cominciare da quelle celeberrime dell’arresto di Enzo Tortora (17 giugno 1983). La proibizione è stata ripetuta dal Garante della privacy e dal codice deontologico seguito all’entrata in vigore della legge n. 675. Agli organi di polizia la legge ora vieta di diffondere le foto segnaletiche delle persone indagate. E si nota una diminuzione delle immagini dei 138

protagonisti anche nei casi di cronaca più clamorosi. Peraltro «la foto di un imputato in stato di arresto con le manette ai polsi, se ritrae il predetto in una posa in cui non sono visibili le manette non incontra alcun divieto normativo alla sua pubblicazione» ha stabilito la Corte di Cassazione (prima sezione civile, sentenza 19 marzo 2008, n. 7261). L’importante è che non si veda lo stato «di costrizione fisica» dell’arrestato. La legge e i giudici supremi si preoccupano della dignità della persona, ma non bloccano del tutto la possibilità di pubblicazione. 2. Il dominio della tv Sulla televisione sono state scritte montagne di saggi. Essa ha cambiato il paese, lo ha unificato, acculturato, intrattenuto, informato. Il giornalismo tv ha partecipato a questa opera di trasformazione della nazione. Il piccolo schermo in poco più di cinquant’anni ha svolto un ruolo fenomenale. Oggi, piazzato in ogni casa e ormai in ogni stanza, quali conoscenze riesce a dare ai cittadini? Con quale efficacia e penetrazione i giornalisti riescono a usare la tv per raccontare e spiegare ciò che accade? Il potere politico ha tenuto stretto alla propria catena lo strumento televisivo, conscio della sua importanza, così come il fascismo controllava saldamente la radio durante il ventennio. Tutti i governi dell’era repubblicana, nessuno escluso, hanno cercato di ammansire e indirizzare gli operatori del tubo catodico. Frequenze, satelliti, linee telefoniche, trasmissioni analogiche e digitali, testate e reti tv, sono stati l’oggetto del desiderio dei partiti politici, sia di maggioranza che di opposizione. Dirigenti, programmisti e giornalisti sono stati attentamente scelti fra gli amici e i simpatizzanti. Con poche eccezioni. Dal giorno in cui sono partite le trasmissioni della Rai, 3 gennaio 1954, la televisione ha cominciato la sua opera di trasformazione della cultura, della famiglia, delle abitudini, dei rapporti di coppia, del linguaggio, della sensibilità, delle coscienze. La maturazione e i cambiamenti delle persone e dei gruppi sociali hanno avuto nella tv un potente e continuo motore. In un paese in cui i quotidiani stampati non sono mai riusciti a scavalcare la soglia dei 7 milioni di copie, la televisione è stata vista, si può dire, dall’intera popolazione, bambini compresi; ha accompagnato la vita dell’intera comunità e ha inciso sui suoi cambiamenti. 139

Un telegiornale di prima serata è seguito anche da 8 milioni di ascoltatori, mentre quotidiani leader come il «Corriere della Sera» e «la Repubblica» sono acquistati da 600-700 mila persone (ma letti dal triplo). I pericoli del dominio televisivo sono stati denunciati dai filosofi, dai sociologi, dagli psicologi, che hanno osservato la forte teledipendenza di milioni di persone, immobili per ore davanti a uno schermo che li costringe alla passività e che li persuade a ingurgitare cumuli di banalità e di trasmissioni becere e diseducative. Se ci si riferisce al giornalismo, la televisione italiana ha brillato a sprazzi. Rai e Mediaset si sono rincorse negli ultimi venti anni, ma la concorrenza fra i due giganti non ha prodotto vertici di qualità. L’azienda pubblica solo nella prima fase della sua storia ha sfruttato il proprio potenziale e ha tentato di svolgere il ruolo di servizio pubblico che le era stato assegnato. Poi, insieme al concorrente privato ha ceduto in modo vistoso di fronte alle richieste dei clienti pubblicitari, che le consentivano di vivere e di fare utili. Fin dalle origini il telegiornale è stato uno dei programmi più visti dagli italiani. Già dai primi anni si realizza l’informazione di massa perché il telegiornale, nonostante tutti i condizionamenti, è fin dall’inizio una delle trasmissioni più seguite. È un telegiornale che trasmette cerimonie di ogni genere, che è parziale e fazioso in politica, privo o quasi di notizie di cronaca e su vicende giudiziarie; ma entra in molte case dove non è mai entrato un quotidiano (Murialdi, 1996).

Il tg unico è saldamente nelle mani dei partiti di governo e solo alla fine degli anni Settanta anche il maggior partito di opposizione si vede assegnata una rete. Alla testa e nelle redazioni dei tg per molti anni vanno uomini e (poche) donne che garantiscono un’informazione moderata. Interpretano lo spirito della Costituzione repubblicana e mantengono equilibrio e serenità anche nei momenti difficili della vita del paese, come quelli del terrorismo. I cittadini seguono in tv gli eventi tragici del mondo e dell’Italia, terremoti, alluvioni, crolli, partecipano così ai drammi e alle trasformazioni sociali, si affezionano e si attaccano a questo mezzo di informazione. Non si rendono conto che esso può essere usato in modo più efficace e penetrante, e che grazie alle splendide professionalità che possiede la Rai potrebbe offrire un’informazione più profonda e pluralista. Poi, grazie alle sentenze 140

della Corte Costituzionale, i privati vengono autorizzati a trasmettere (prima a livello solo regionale) e comincia anche in sede nazionale una debole concorrenza, che tuttavia sfocerà in un lungo duopolio. È nel 1975 che si assiste alla prima moltiplicazione delle testate, che introduce una diversità di tendenze e di culture, nell’informazione della Rai. Pochi mesi dopo (insieme con i giornali radio di Zavoli, Selva e Pinzauti) debuttano i due nuovi telegiornali: quello della rete uno, diretto da Villy De Luca, e quello del secondo canale, assegnato ad Andrea Barbato. Più tardi partirà il Tg3, diretto da Biagio Agnes e poi da Alessandro Curzi. Fra gli anni Settanta e Ottanta i servizi giornalistici della Rai vivono la loro stagione migliore, in una fase in cui la nazione è travagliata da vicende che segnano duramente le coscienze. Il giornalismo della Rai arriva in profondità, raggiunge fasce sempre più larghe di cittadini (Mancini, 1991), con ciò svolgendo una colossale operazione sociale, ma in tv non si realizza una vera liberalizzazione. Il cordone ombelicale con il Parlamento e i partiti toglie ai telegiornali vivacità e intraprendenza. Viene trasmesso solo ciò che ai potenti non dispiace. Negli anni Novanta, con la salita al potere di Berlusconi, il duopolio genera scarsa concorrenza mentre ricompaiono episodi di censura e di ostracismo, anche verso giornalisti liberi, come Enzo Biagi, che per tanti anni aveva mostrato spirito di indipendenza, unito a pacatezza e maestria professionale. Sono facilmente delineabili alcune caratteristiche del nostro telegiornalismo. La Rai, ad esempio, ha utilizzato i collegamenti diretti più di quanto abbia fatto Mediaset. Ne aveva i mezzi. Ma per molto tempo lo ha fatto al fine di trasmettere le partenze e gli arrivi dei potenti, le elezioni dei papi e soprattutto gli avvenimenti dello sport. In un certo senso le grandi potenzialità della Rai le hanno consentito di fare da ente «certificatore» del fatto, di essere più spesso testimone e garante degli eventi (Sartori, 2000). Rispetto al concorrente privato essa ha sfruttato per un certo periodo lo strumento del documentario, poi dimenticato e trasformato in uno «speciale» di breve durata e di minore spessore culturale e sociale. Lo spazio lasciato da questa forma di narrazione documentata dalle telecamere, che conteneva anche eccellenti reportage – con i quali il giornalista esplorava il pianeta, scavava nelle aree più lontane e più segrete della società – è stato occupato dal talk show, l’incontro intelligente e salottiero, il cui primo vero protagonista fu Maurizio Costanzo. Uno spettacolo in cui personaggi noti e meno noti ri141

spondono, raccontano, si confrontano, talvolta si insultano, alla ricerca di una verità verbale, testimoniata solo dalle esperienze e dalle voci dei protagonisti. Un giornalismo televisivo che si svolge sul palcoscenico, che rinuncia a fornire immagini-notizia, che punta tutto sulla qualità dei personaggi e sull’arguzia e la curiosità del conduttore. Una forma di comunicazione, guidata da un giornalista, che si è moltiplicata (Porta a Porta, Matrix, L’infedele ecc.), con formati e modalità diverse. In alcuni casi questo format – nella cosiddetta seconda serata televisiva – è utilizzato per approfondire il fatto di attualità, lo scontro politico, la questione sociale all’ordine del giorno. In altri, è una modalità che dà vita solo a dialoghi, piacevoli o meno, a intervistine superficiali, il cui esito è quello di tenere compagnia all’ascoltatore e di mettere in mostra l’ospite prescelto. Il quale acquista visibilità e popolarità, ma non fornisce notizie, né aiuta a trovare verità. Una forma di televisione che è dilagata, ha occupato spazi lungo tutte le 24 ore. «Ospiti» e chiacchiere – talvolta con tanto di bar – li potete così trovare in tutti i contenitori, al mattino presto, come il pomeriggio o a mezzanotte. Servono a intrattenere, ma anche a mettere a fuoco fatti e problemi. Sul piano organizzativo non appartengono neppure alla responsabilità di un direttore di testata. In molti casi, indubbiamente, raccontano fatti e persone, descrivono e dipingono una realtà. 3. Le notizie teletrasmesse La tecnica della notizia televisiva è del tutto diversa, rispetto a quella stampata e a quella radiofonica. È fruita, diciamo goduta, in condizioni molto differenti. «La capacità di evocazione dello scritto è molto limitata [...] permette magari di salvaguardare un’immagine mitica dei fatti, ma lascia per lo più indefinito il suo soggetto» (Calabrese, Volli, 1995). Le immagini e il parlato, le storie umane, coinvolgono lo spettatore in misura non raggiungibile da un articolo stampato. Chi legge un articolo può tornare sui suoi passi, controllare se ha capito o ha sorvolato. Chi guarda la tv, se perde la prima parte del servizio può non comprendere affatto cosa sia accaduto. Un telegiornale contiene 15-20 informazioni, a ciascuna delle quali è di solito dedicato un «pezzo» lungo un minuto, un minuto e mezzo, corredato di immagini, legato ai servizi successivi dalla voce di 142

un conduttore, che presenta gli eventi, senza commentarli, caratteristica stabile della tv italiana sia pubblica, sia privata (fa eccezione la presentazione delle notizie da parte del direttore del Tg4, Emilio Fede). Un telegiornale veloce, anche oltre il necessario. A differenza dei quotidiani stampati, ormai densi di opinioni, il tg non ne esprime, neppure nel ramo privato, che pure dovrebbe essere più libero e spregiudicato. Ai conduttori si affida un ruolo impersonale, che appiattisce il racconto anziché movimentarlo e renderlo di volta in volta riflessivo, polemico o colloquiale. Il giornalista, uomo o donna non fa differenza, presenta e lega le notizie in modo asettico, senza alcun tipo di partecipazione. Il tg rinuncia a sorprendere, diffonde le notizie con la medesima tecnica, come se fossero tutte uguali. Mai lo spettatore resta meravigliato, il giornalista non improvvisa, segue una scaletta che somiglia a un copione. È fermo, a mezzo busto o in piedi, non sa o non vuole mettere nulla di proprio, per paura di sbagliare, per non pendere da una parte o dall’altra. Col risultato di appiattire qualsiasi evento stia raccontando, anche il più clamoroso. Il commento è lasciato ad altre trasmissioni, non sempre sotto la responsabilità dei direttori di testata, e ai talk show che come detto mostrano differenti caratteristiche e non sempre rispondono all’etica della professione giornalistica. Gli strumenti del giornalismo tv sono più numerosi di quelli in possesso degli operatori di altri settori dell’informazione. In un quotidiano si cercano le notizie, le si scrive, si allestiscono le pagine, si fanno i titoli, si tagliano le foto. In tv, prima dell’emissione e della trasmissione, c’è una fase ancora più complessa, durante la quale le immagini vengono realizzate, si lavora al montaggio, si prepara il testo, si sistema lo stand up (le parole registrate in piedi dal giornalista), in molti casi si prepara il chroma-key (lo schermo davanti al quale il conduttore leggerà il notiziario). Un telegiornale è un’operazione complessa, che ha bisogno di una squadra tecnica (regista, cameramen, fonici, elettricisti ecc.) dai quali nasce la validità della trasmissione. Pochi sono i collegamenti con capitali estere e i servizi che giungono appaiono comunque freddi e prefabbricati. Il tg non dà conto delle grandi realtà del pianeta. E quando lo fa è per segnalare curiosità, più che problemi sociali. L’influenza della Chiesa cattolica sui programmi e sui notiziari è ancora evidente. I giornalisti mettono il microfono davanti alla bocca degli uomini politici e li lasciano parlare. Le risposte sono troncate dopo pochi se143

condi, il più delle volte a metà. Quali verità giungono sugli schermi nelle case? In quale misura questo tecnicismo – legato alle luci, ai colori, all’inevitabile legame con le regole dello spettacolo – aiuta la funzione dell’informazione? Qual è oggi la vitalità del giornalismo televisivo? Le grandi testate tv hanno rinunciato a graffiare e ad apparire scomode. La ragione è evidente: quelle della Rai sono controllate dai partiti, che non ammettono di essere infastiditi da giornalisti troppo intraprendenti; quelle di Mediaset sono ispirate dal «dio Pubblicità» e appartengono al più ricco uomo di Italia che, essendo anche sceso in politica, le considera un proprio strumento. Fa la parte dell’uomo liberale fino a quando i giornalisti non finiscono per apparirgli scomodi, vedi Montanelli, Biagi, Santoro. Altre imprese di rango sulla scena non sono comparse. Telemontecarlo, poi divenuta «La 7», non è mai decollata e chi non ha audience non può permettersi di dare troppo fastidio. Murdoch, il padrone di Sky, è ancora sulla porta, anche se il suo telegiornale fa capolino dal satellite e comincia a conquistare fette di ascolto. Il giornalismo televisivo è rimasto privo di reale concorrenza e autorevolezza e continuerà a esserlo fino a quando dipenderà dalla politica e dall’imprenditoria che, nell’elenco delle proprie finalità, antepongono il profitto commerciale alla diffusione di informazioni socialmente utili. Inutile sperare che la liberalizzazione possa scaturire dalla personalità e dallo spirito d’indipendenza di giornalisti più liberi di altri. Il sistema non fa emergere chi ha maggiore spirito di autonomia, lo soffoca, lo elimina o lo tiene in stand by. La speranza che la proliferazione delle piccole stazioni private potesse spezzare lo scenario esistente si è rivelata vana. A parte il successo di alcuni intrattenitori (talvolta veri e propri guitti) che hanno conquistato popolarità ma nulla hanno aggiunto al ruolo del giornalismo, che informa e fa crescere la democrazia. Poiché la televisione mostra immagini, essa appare come un mezzo più immediato e veritiero, in grado di far vedere ciò che accade. In realtà i video sono quasi sempre di repertorio o ripresi dopo l’evento. Lo spettatore fatica a capire ciò che è accaduto. Solo quando una persona casualmente ha filmato il fatto, o quando l’evento è stato ripreso dalle telecamere fisse, che si sono moltiplicate nei pressi delle banche e dei cosiddetti obiettivi sensibili, vengono mostrate sequenze che la polizia ha consegnato agli organi di informazione. Ma 144

di solito lo spettatore televisivo vede immagini, che scorrono durante la lettura della notizia, che richiamano soltanto i luoghi dove l’evento è accaduto. Da sole esse non parlano, significano ben poco. Importante e decisivo potrebbe essere l’uso della diretta, sia pure costosa e impegnativa. La nostra tv invece troppo spesso rinuncia a raccontare dal vivo i fatti di cronaca. Le maggiori testate Rai e Mediaset non hanno offerto agli italiani le lunghe ore dell’election day di Barack Obama. Hanno seguito solo i momenti del giuramento e del discorso di insediamento. Solo Sky News 24 ha trasmesso le immagini del nuovo presidente degli Stati Uniti che attraversava a piedi le strade di Washington tenendo per mano la moglie Michelle. Come nel caso di Obama, da noi si preferisce parlare e discutere – in questo caso del futuro dell’America – anziché mostrare ciò che accade e lasciare il giudizio agli italiani. Lo specifico tv, la potenzialità di far vedere, è sottovalutata, non utilizzata. La nostra televisione rinuncia a giocare il proprio atout. Spesso si assiste a processi tv, alla ricostruzione di un procedimento giudiziario, per arrivare alla verità prima ancora che i giudici si siano espressi. A quante trasmissioni abbiamo assistito sulla tragedia di Cogne o sull’uccisione dell’inglesina Meredith, a Perugia? Una volontà di dare giudizi preventivi che è diventata sistematica. Quali interessi soddisfa? Troppi processi mediatici, troppa commistione fra realtà e reality, ha detto Francesco Pizzetti, il Garante per la privacy nella relazione annuale 2007 al Parlamento. Nella società dello spettacolo si moltiplicano i talk show basati su fatti ed episodi della politica, della vita sociale, delle relazioni interpersonali, che mettono in piazza, nei moderni fori telematici, vicende spesso anche privatissime. [...] Questa non è vera informazione, non è trasparenza, non è un servizio che si fa all’opinione pubblica e alla democrazia. Non è giusto, in nome di una trasparenza che diventa prima di tutto spettacolo, e talvolta persino morbosità, invocare la legittimità di ogni invasione nella sfera più intima e riservata delle persone (Pizzetti, 2008).

Certo, anche ciò che si vede sullo schermo è fortemente soggettivo. Discende dalle decisioni del regista e dalla maestria dell’operatore. La sala dove si svolge un convegno può apparire piena o vuota, a seconda della prospettiva da cui è stata effettuata la ripresa. Ci sono giornalisti che hanno attuato vere e proprie frodi. Grandi in145

viati che, arrivati sul posto di uno scontro a fuoco fra soldati e guerriglieri, non trovando più nulla da filmare, hanno chiesto a un reparto «amico» di rifare alcune sequenze, esattamente come al cinema. Anche il giornalismo televisivo, nonostante le immagini, è tutt’altro che veritiero. Perfino durante le gare sportive, anche se vengono utilizzate numerose telecamere, il goal, il fallo, il fuori gioco sono difficili da valutare. Neppure il rallentatore della moviola a volte ci riesce. Se accade nello sport, figuriamoci lì dove ciò che si apprende, o si crede di apprendere, è più delicato, «politico», impegnativo. La tv è fallace. Però attira l’occhio, lo cattura, lo ammalia e con l’occhio anche l’orecchio. È una maga che dà suggestione, ancor più quando dice di rappresentare la realtà. Siamo portati a crederle. Il suo fascino è quello del quinto potere! Che ha permesso a questo strumento di battere tutti gli altri e di conquistare una vera egemonia nel mondo della comunicazione. Pericolosa, secondo alcuni, perché la tv è invasiva, totalizzante, costringe in una posizione passiva, al limite della subordinazione. E chi la maneggia sente di poter attirare milioni di persone. Per questo Karl Popper, a proposito degli addetti alla tv, ha detto: «Dovrebbero prendere prima la patente». Una provocazione che esprimeva le preoccupazioni per tutto ciò che di grave questo strumento può provocare. L’affermazione della fiction ha acuito la sensibilità dello spettatore, ha reso problematico per il giornalista garantire la distinzione fra fantasia e realtà, ha provocato grossi rischi di commistione. Un problema che hanno soprattutto le reti Rai, che alternano e mischiano di frequente fiction e servizi su fatti accaduti (docufiction la chiamano gli americani). In più la spettacolarizzazione, indispensabile per chi maneggia la tv, acuisce il pericolo di enfatizzare, ingrandire, sfruttare le arti della regia, delle luci, della ripresa, per rendere più appetibile ciò che non lo era nella realtà. Tutto il giornalismo è condizionato dalla questione della proprietà. Ancora di più quello televisivo. In Italia, per decenni è esistito soltanto il gigante Rai. Un monopolio che ha legato il giornalismo radiotelevisivo alla volontà e ai desideri dei governanti. Addirittura sulla base di una legge. In misura maggiore o minore, tutta la legislazione sul sistema radiotelevisivo ha stabilito un legame con il Parlamento e con i partiti. I dirigenti della Rai – anche nei momenti in cui più forte era il richiamo al cosiddetto pluralismo – sono sempre stati scelti dai governanti. Dopo la fine del monopolio i canali sono au146

mentati, ma si è cristallizzato un duopolio Rai-Mediaset, che costituisce ancora un’anomalia, rispetto ad altre democrazie, doppiamente clamorosa giacché il proprietario del colosso privato era nel frattempo sceso nell’agone politico e aveva addirittura conquistato la «stanza» di presidente del Consiglio, dalla quale controlla anche la tv di Stato. Nel settore della radio c’è stata una progressiva liberalizzazione, perché sono diventati attivi un grande numero di soggetti privati. In quello televisivo anche le leggi più importanti (Mammì, Gasparri) hanno mantenuto il legame fra la Rai e il sistema politico. E il giornalismo è rimasto in buona misura alla greppia dei partiti. Il pluralismo è stato inteso come moltiplicazione delle testate e assegnazione alle diverse forze politiche. I giornalisti hanno sempre dovuto tenere conto che il loro direttore era stato indicato e nominato da una precisa forza politica e aveva diritto a dare una linea di parte – piaccia o no questa definizione – che limitava in modo ineluttabile la loro libertà professionale. A ciò si aggiunga che il modo di fare informazione sugli avvenimenti politici è stato via via inteso come trasmissione di dichiarazioni e prese di posizione, più o meno polemiche, anziché come analisi delle azioni, dei progetti, delle leggi, dei contenuti amministrativi messi in atto dai politici. In tal modo si è arrivati a trasmettere un «teatrino» – costruito con immagini e frasi registrate senza alcuna mediazione giornalistica, talvolta senza neppure la domanda di rito – che ha avvilito sia la professione giornalistica sia l’immagine delle istituzioni politiche. Si tratta di una crisi profonda e la mancanza di un reale pluralismo ne è la ragione di fondo. La storiella di tanti canali che offrirebbero prodotti diversi è una favoletta. I telespettatori sanno che oggi il telecomando serve a poco; basta osservare l’omologazione fra Raiuno e Canale 5. La nostra televisione ha smesso da gran tempo di essere una fabbrica di talenti, di sperimentazione, per diventare un grande discount, un supermarket di format (Rangeri, 2007).

Non c’è stata la differenziazione, che tutti auspicavano in Italia, fra Rai e Mediaset. «La televisione pubblica produce esattamente ciò che produce quella privata. La più grande macchina culturale del paese si rivolge alla stessa immensa platea della grande macchina Mediaset» (Berselli, 2000). 147

Parziale e ingiusto sarebbe un giudizio complessivo sul giornalismo offerto dalla televisione italiana. La qualità tecnica, estetica, grafica è aumentata nettamente negli ultimi venti anni. Sono cresciute la tempestività e la completezza, nell’arco delle 24 ore. Si sono moltiplicate le trasmissioni di commento, sulla politica, sull’economia, sui fenomeni sociali. Non altrettanto è cresciuta la capacità di indagine e di «svelamento» della realtà. Permane una timidezza, una paura di disturbare i potenti, che anzi compaiono sempre più spesso sul teleschermo e lo usano per sostenere le proprie tesi e giustificare i propri comportamenti. Si assiste a un corto circuito fra telegiornali e quotidiani, che si imitano e si rincorrono, invece di viaggiare ciascuno sul proprio binario, I primi tg del mattino, quando nacquero, apparvero subito come la fotocopia dei giornali che da poche ore erano sui banchi delle edicole. Intrattenimento e informazione si sono contaminate. E la seconda ne è uscita con le ossa rotte. Nonostante ciò l’informazione continua ad essere l’anima nobile della televisione, anche se tende a ibridarsi con altre forme, rappresenta pur sempre un centro di potere, permette di influenzare l’opinione pubblica. Per questo [...] Rai e Mediaset hanno disseminato il palinsesto di appuntamenti con le notizie. Nell’attesa dell’unica notizia che interessi loro: aver fatto buoni ascolti (Grasso, 1998).

Manca la volontà di indagare. Perché una free lance come Milena Gabanelli riesce a frugare nei segreti e nei disservizi, mentre le potenti reti Rai e Mediaset si limitano a un racconto superficiale e di comodo? Ficcanaso sono gli attori delle «Iene», mentre in genere quello televisivo resta un giornalismo «dimezzato», secondo una famosa definizione di Giampaolo Pansa. Il legame troppo stretto tra la tv e il mondo politico non discende solo dalla questione della proprietà. I nostri telegiornali sono intrisi di politica. Propinano allo spettatore enormi quantità di dichiarazioni ed elucubrazioni. Secondo l’Osservatorio di Pavia non esiste in Europa una televisione che trasmetta una pagina politica così abbondante. Le rilevazioni, compiute sia nel luglio sia nel mese di settembre del 2008, hanno dimostrato che i telegiornali Rai dedicano almeno il 34,8 per cento delle proprie edizioni alla politica, mentre la media dei tg del resto d’Europa si attesta al 16,5 per cento. Un rap148

porto sproporzionato che – si può pensare – non fa bene al giornalismo e neppure all’attività politica, che sembra svolgersi più sul piccolo schermo che nelle aule parlamentari (Di Salvo, 2004). I satelliti che girano attorno alla terra ci hanno dato la prova, già da qualche anno, che l’occhio della tv poteva spiare ogni angolo del globo. Avremmo visto le guerre in diretta, abbiamo pensato. Ma non è avvenuto. I comandi militari tengono lontani i telecineoperatori come è sempre avvenuto in passato. Il giornalista embedded (incastonato) trasmette solo ciò che gli eserciti vogliono che trapeli. I free lance continuano a giocarsi la vita per una manciata di immagini. Ribelli e truppe regolari non amano i giornalisti, li cacciano e talvolta li uccidono. Dalle città dell’Iraq e dalle montagne dell’Afghanistan riceviamo immagini frammentarie, che non ci consentono di capire. In queste situazioni estreme la tv non garantisce la possibilità di vedere e sapere. I cittadini italiani, grazie al piccolo schermo, ricevono una massa di informazioni molto superiore a quella, diciamo, di trent’anni fa. Ma sono più liberi, cioè realmente più informati? I filosofi della Scuola di Francoforte hanno affermato che l’individuo è invece manipolato, che gli strumenti dell’informazione lo trasformano in uomo-massa, lo costringono a soddisfare bisogni fittizi, che prima egli non avvertiva e che gli vengono trasmessi giorno per giorno dalla televisione. L’uomo a una dimensione di cui parlava Marcuse ha perduto la propria capacità critica, è stato modellato a somiglianza dell’immagine che i media riflettono e fanno prevalere. Dunque, gli uomini avrebbero perso una quota di libertà, anziché aumentarla. Nell’era di Internet sono ancora valide queste preoccupazioni? La rete telematica mondiale sta cambiando anche il destino e l’uso della televisione. Il futuro della tv è strettamente legato a quello del telefono e del computer. Dall’intreccio e dalla fusione di questi tre strumenti sono già nati miracolosi congegni tascabili, personalizzati, che consentono all’individuo di inviare e captare informazioni, sia video, sia sonore, che renderanno gigantesche le potenzialità giornalistiche. Chiunque, con simili strumenti potrà fornire informazioni. Tutti giornalisti, dunque? La polverizzazione della comunicazione renderà superflua la mediazione dei cronisti? O l’individuo avrà ancora bisogno di qualcuno a cui affidare la decrittazione, la scelta, il controllo, all’interno dell’oceano che abbiamo chiamato web? 149

L’affermazione del web

1. Un nuovo scenario Nella storia della comunicazione ogni innovazione tecnologica ha segnato una svolta, la cui importanza, per i primi anni, non è stata afferrata e capita fino in fondo. Internet, nell’ultima parte del secondo millennio ha portato cambiamenti e prospettive impressionanti nello scambio delle comunicazioni. Ma anche in questo caso è impossibile prevedere appieno il futuro. Lo scopo iniziale del collegamento da punto a punto, da un computer all’altro, era stato pensato per fini militari. Durante gli anni Sessanta il dipartimento della Difesa degli Stati Uniti aveva messo a punto l’Arpa (Advanced Research Projects Agency) il cui compito era quello di consentire ai comandi strategici di essere collegati fra loro anche in caso di esplosioni nucleari. Disporre di una rete capace di mettere in contatto fra loro i reparti e i centri operativi sopravvissuti al disastro. Qualche anno dopo si diffuse il termine Internet (Inter Networking). Per la verità, l’idea del Web (World Wide Web) nasce in Europa, nel 1989. È un tecnico inglese del Cern di Ginevra, Tim Berners-Lee che progetta una serie di «linguaggi», imperniati sul sistema binario (numeri 0 e 1) che fanno da fondamenta alla Rete, una ragnatela di computer che in pochi anni coprirà il pianeta. Sono protocolli per la trasmissione: Html (Hyper text markup language), Url (Uniform resource locators), Http (Hyper text transfer protocol); acronimi che indicano modalità complesse. Attraverso queste tre diverse procedure i documenti esistenti in ogni singolo computer possono spostarsi, viaggiare e approdare a tutte le altre macchine collegate. 150

Il sistema binario era stato scelto già nel 1974 dagli scienziati per lanciare – dal radiotelescopio di Arecibo – un messaggio nello spazio, nella convinzione che quel linguaggio semplice fosse il più adatto per comunicare con eventuali altri abitanti dell’universo. Attraverso le infinite formulazioni e combinazioni dei numeri 0 e 1, qualsiasi essere vivente avrebbe potuto comunicare. Nasceva il cyberspazio. Quando Internet si diffonde per usi civili, viene usato il termine «autostrade» multimediali, per indicare i flussi di informazioni che in tal modo potevano circolare. Più esatto sarebbe il termine «sentieri» informatici, che si intrecciano e si accavallano appena si digitano le tre celeberrime w. Una rete mondiale che mette in collegamento tutti gli individui in possesso di un computer e offre a ciascuno incredibili opportunità di leggere, scrivere, cercare, guardare, commentare, scambiarsi impressioni, incontrarsi e conoscersi, sia pure in un universo virtuale. La rete mondiale si presta a trasmettere e a ricevere comunicazioni di qualsiasi tipo e a qualsiasi scopo. Il singolo individuo, nel momento in cui riceve la comunicazione, può trasformarsi in soggetto attivo, mentre tutti gli strumenti precedenti gli consentivano di ricevere ma non di intervenire. Leggeva, ascoltava, guardava, ma non agiva. Al massimo sceglieva, nel senso che cambiava canale o comprava un giornale diverso. Internet offre invece l’opportunità di chiedere, di approfondire, di allargare l’obiettivo. Se uno vuole può «costruirsi» il notiziario, lasciando aperte porte di accesso per il tipo di informazioni che gli interessano. Digitando sulla propria tastiera, chiunque può dialogare con altri soggetti e attraverso una piccola telecamera può addirittura vedere queste persone. La comunicazione interpersonale, già massimizzata dai telefoni portatili, si arricchisce, diventa non solo multimediale, ma interattiva. Qualunque notizia viaggia su questi veicoli. E ciascuno di noi perde la propria condizione di solitudine, può mettersi costantemente in contatto con altri individui. Sullo schermo, anche di minime dimensioni, arriva ogni sorta di informazione, che si va ad aggiungere a quelle di cui già disponevamo, giornali di carta, radiofonici, televisivi. Una rivoluzione con cui tutti i preesistenti mezzi di informazione hanno dovuto fare i conti ed è tutt’altro che conclusa. Nessuno, in buona fede, può prevedere gli sviluppi di questo processo che ridimensiona le tecnologie preesistenti. 151

In Italia, alla fine del secolo si calcolava un gap di dieci anni nei confronti degli Stati Uniti. Un distacco di natura industriale, a causa del ritardo con cui le imprese, i governanti, gli informatori di professione, hanno compreso le potenzialità del nuovo mezzo; un gap culturale, causato dalla sottovalutazione della novità e, di conseguenza, dall’incapacità di adeguare i metodi di lavoro e i programmi di sviluppo. Internet è stata scambiata per un gioco. Invece si è rivelata un gigantesco tsunami, capace di produrre effetti straordinari nella vita degli individui, che attraverso la rete fanno acquisti, prenotano treni, studiano, pagano le tasse e le contravvenzioni stradali. Il giornalismo on line si è affacciato in Italia a cavallo del secolo. Negli annali è segnato come primo giornale web il «Tribune Chicago Online», allestito nella primavera del 1992, figlio del corrispondente quotidiano di carta. Fra le industrie italiane, quella editoriale ha mostrato scarsa sensibilità e con molto ritardo ha cominciato a sfruttare la rete, quasi non volesse accettare il declino degli strumenti dei quali stava facendo uso. Ancora oggi, mentre in altri paesi le imprese della comunicazione stabiliscono la data in cui le edizioni di carta dei notiziari scompariranno, ci sono testate italiane che aumentano la foliazione, progettano inserti e fascicoli suppletivi. Idealisti, incapaci o kamikaze? Attraverso la rete l’informazione è polverizzata. Ciascuno può inviare e ricevere messaggi. Se vuole, con poca spesa, può fare e diffondere un giornale telematico. Un sito, un portale, un blog possono contenere notizie anche di rilevante interesse sociale. Si tratta di intercettarle e, naturalmente, di controllarle e verificarle. Chiunque abbia un computer e riesca a connettersi può essere fonte di informazione. Monaci missionari, esploratori, giornalisti in zone di guerra, sopravvissuti a un terremoto, sono riusciti con i loro computer a trasmettere messaggi preziosi, un tempo impossibili. Lì dove sono crollati strade e ponti, linee telefoniche e telegrafiche, lì un computer, in un qualsiasi punto del globo, se ha batterie sufficienti può riuscire a emettere segnali di vita, lanciare informazioni decisive. Ma ci sono altri aspetti. Non è raro che i grandi telegiornali (in Italia ha cominciato il Tg1) trasmettano sequenze e immagini riprese da comuni cittadini. La stessa cosa hanno fatto nei paesi anglosassoni i grandi quotidiani, accogliendo i pensieri, le denunce, i racconti, le segnalazioni dei propri lettori, consentendo loro di partecipare alla realizzazione del giornale. Accanto ai soggetti deputati a fornire 152

l’informazione tradizionale ne sono comparsi altri, che possono comunicare sia pensieri più o meno rispettabili, sia notizie di interesse pubblico, cioè apprezzabili dalla comunità. Peraltro, i messaggi di questi cittadini non vengono inseriti fra le news, perché non accertati e verificati. È stato chiamato «citizen journalism», ma forse la parola giornalismo non serve. Basta ammettere che chiunque può fornire informazioni di valore pubblico, magari supportate da immagini. Tramonta la sacralità della funzione giornalistica? Forse è più logico pensare che accanto al giornalismo professionale ne sia nato un altro, che chiunque può praticare (Pratellesi, 2004). Il web ha cambiato lo scenario. Siamo in un mondo diverso e coloro che si occupano di informazione devono adeguarsi. Per primi proprio i giornalisti. Gli strumenti di lavoro si sono moltiplicati. Le migliori scuole hanno capito che devono addestrare i giovani a saper fare tutte le operazioni che un’azienda editoriale può richiedere loro: scrivere, titolare, fotografare, allestire pagine, parlare al microfono, intervistare, riprendere con una telecamera, montare un servizio, sunteggiare per il web, preparare schede infografiche. Un praticante che si sia preparato a una sola di queste prestazioni professionali – magari perché inserito in una redazione tradizionale – risulterà dimezzato, incontrerà minori opportunità, troverà più difficilmente lavoro. Naturalmente la Federazione della stampa intende mantenere e difendere, attraverso il contratto nazionale di lavoro, regole che impediscano di trasformare il giornalista in una colf tuttofare, una specie di addetto alla catena di montaggio, che prepara notizie come il mitico Charlot avvitava bulloni. I vantaggi che offre la rete Internet applicata al giornalismo (o viceversa?) sono diventati presto evidenti. Il più innovativo è la partecipazione, perché ciascuno, non contento di connettersi al sito della «Repubblica», del «Corriere», dell’Ansa, può decidere di approfondire, può scegliere la direzione da prendere, partendo dalla notizia che gli viene fornita, imparando a navigare, a linkare, a entrare nei dettagli, a mettere a fuoco un aspetto, a seconda dei propri interessi e desideri. Può trovare le informazioni che gli occorrono, mentre fino ad oggi doveva accontentarsi di quelle che aveva ricevuto con l’edizione del giornale comprato in edicola o che il telegiornale aveva allestito. In un pianeta in cui tutti possono informare, il rischio più evidente è il falso, l’imbroglio o, nel migliore dei casi, il messaggio inesatto. 153

È il pericolo che corre il navigatore, ma non più di quanto lo corra il lettore di un qualunque giornale stampato. Questi lo risolve, anzi lo evita, acquistando un giornale autorevole, preparato da persone specializzate, delle quali conosce la competenza e l’onestà. Anche la difesa del navigatore sta nella professionalità di chi gli fornisce informazioni. Un volume acquistato in libreria può essere pieno di favole o di bubbole o di dati scientifici. Bisogna saperlo riconoscere. Affascinante è l’esplorazione del web, grande la curiosità nel visitare siti e blog sconosciuti. Milioni di persone che scrivono, piangono, ridono e lo fanno in pubblico. Che raccontano le proprie storie, che si mettono in mostra, che hanno voglia di parlare agli altri, spesso con narcisismo e vanità, altre volte con serietà e spirito pubblico. Qualcuno l’ha chiamata «democrazia dal basso» ed è indubbiamente una forma clamorosa di evoluzione della libertà di parola: milioni di persone che si esprimono senza freni e mettono a disposizione i propri pensieri e le proprie informazioni. Un enorme sciame di comunicazioni, nelle quali ci si può avventurare e anche perdere, perché lì si può annidare il nemico e il veleno. Per navigare serve una guida? Lo chiameremo giornalista? Può darsi. Proprio questa, nel web, può essere la funzione del cronista: uno che mette insieme le tessere del puzzle, che naviga per nostro conto, che dopo aver pescato nell’oceano compone, sviluppa, completa l’informazione. La mediazione dunque non scompare, ma assume connotati differenti, è addirittura più complessa. Possiamo farne a meno, cercando da soli le fonti alle quali attingere. O possiamo chiederla e scegliere che sia il giornalista a lavorare per avvicinarci ai fatti e, se possibile, alla verità. Il rischio della bufala lo corre anche il giornalista nel momento in cui utilizza Internet come fonte. Il terreno è minato e riportare un’informazione acquisita dalla rete può fare incorrere in trappole ed errori clamorosi, che il giudice, se sarà chiamato a intervenire, non potrà che punire, esattamente come fa con il giornalista che riporta le voci, il chiacchiericcio, le insinuazioni di persone prive di credibilità e di titoli sufficienti. Anche nella rete il giornalista deve guardarsi dalle fonti poco credibili. A prima vista, con Internet, il lavoro del giornalista si semplifica. I motori di ricerca lo aiutano in un baleno a mettere a fuoco i dettagli, ma deve stare attento a dove mette le mani. Deve sapere dove cercare. Se vuole restare un professionista e non un orecchiante. 154

2. I giornali on line Le grandi testate editoriali hanno esitato molto prima di dedicarsi a Internet. Hanno lasciato che i primi esperimenti fossero portati avanti da giornalisti e tecnici che si stavano appassionando al nuovo strumento. Solo molto più tardi hanno finanziato veri e propri progetti. Sono apparsi frenati soprattutto dal pericolo di «cannibalizzare» il giornale di carta, di rovinarlo con le proprie mani. Editori e giornalisti si domandarono: come è possibile rendere pubbliche le stesse notizie, su un supporto diverso? Non è grande il rischio che il cittadino, ricevute le notizie sul video, eviti di andare all’edicola? Per alcuni anni il provincialismo, vecchio difetto dei nostri editori, ebbe il sopravvento. Sarebbe bastato qualche viaggio all’estero per capire che altre aziende avevano già affrontato un simile problema e lo avevano risolto creando siti Internet in cui veniva offerto un prodotto completamente diverso da quello di carta sfornato dalla stessa azienda. Un notiziario veloce, tempestivo, puntato sulla sintesi e sulla possibilità per l’utente di allargare lo sguardo, di andare in profondità, di scegliere sulla base della propria curiosità e del proprio interesse. Il gruppo Espresso, con Kataweb e con il sito la Repubblica.it, fu il primo a investire sul web e a inventare un giornale telematico, nel quale inserire notizie, musica, cinema, teatro, sport, un contenitore sostenuto dalla credibilità di professionisti che il pubblico già conosceva. E dei quali si fidava. Su questa strada si sono messi anche altri editori. E la sperimentazione è tutt’altro che conclusa. A «la Repubblica» il rapporto fra la redazione del quotidiano e quella del sito web è in continuo divenire, mentre Kataweb ha rappresentato l’innovazione, il laboratorio dei nuovi media. Con problemi complessi. Basti dire che l’investimento non ha ripagato i costi e l’azienda è stata già costretta a frenare e a rivedere i propri piani. Ormai tutti i grandi quotidiani hanno un’edizione on line, più o meno «contattata» dai cittadini. I primi a essere fidelizzati sono naturalmente i lettori del giornale cartaceo, che usano Internet per informarsi nelle diverse ore del giorno o per le proprie attività personali. Tutto ciò è successo in decine di imprese editoriali del mondo, che si sono trovate strette nella tenaglia rappresentata da innovazione e tradizione. Non è eccessivo affermare che il settore della comunicazione è quello che, negli ultimi decenni, ha subito i cam155

biamenti più frenetici e radicali. Un comparto che deve fare i conti con l’offerta e la domanda, come qualsiasi altro, ma anche con il compito di far viaggiare la libertà e le idee degli individui. Internet è stata la molla per realizzare il principale dei diritti umani. E mentre nei paesi più arretrati il centralismo della politica tentava di contrastare l’onda liberatoria mossa dalla Rete, nei paesi occidentali più sviluppati la concorrenza fra i diversi media dava il via a una battaglia epocale, ben lungi dalla conclusione. Il giornalismo italiano è in mezzo al guado. Lo sono le aziende, lo sono i singoli operatori del settore. Se si pensa che grandi giornalisti come Indro Montanelli rifiutarono sempre di utilizzare il computer, si può capire quali resistenze possa incontrare il mutamento globale che ora è in atto. Ma non c’è scelta. Bisogna cambiare e alla svelta. Dice Ferruccio De Bortoli, direttore del «Corriere della Sera» (in un libro intervista a Stefano Natoli): Il giornalista della carta stampata è un solitario o per lo meno un professionista che inserito in una struttura ben definita porta lo stesso pezzo a tanti lettori differenti». Invece quello che lavora per il web «non sta in una struttura definita, non scrive da solo, ma è immerso suo malgrado in una sorta di network dai confini incerti. [...] C’è una differenza fondamentale di linguaggio e di fruizione. L’articolo per il web deve essere scritto con quel linguaggio, per quella utenza, per i motori di ricerca che devono intercettarlo, deve essere aperto ai contributi multimediali e deve essere una sorta di work in progress. Un pezzo che si arricchisce di contributi, di contrasti, di polemiche, diventando di fatto un prodotto che si modifica di ora in ora. Affascinante (Natoli, 2008).

Chi vuole costruire un giornale on line deve comprendere le principali caratteristiche del mezzo, assimilarle e abituarsi a utilizzare le tecniche che ne discendono: 1. digitalità: comporta che il navigatore proceda rapidamente, si sposti da un’icona all’altra, pertanto egli ha bisogno di testi brevi all’interno dei quali linkare scegliendo il particolare che gli interessa e che intende sviluppare; 2. multimedialità: oltre ai testi scritti e ai titoli,vengono utilizzati foto, sequenze audio e video (testimonianze, interviste), tabelle, grafici; 156

3. interattività: il giornalista dialoga con gli altri componenti della redazione, con i suoi vertici, con la tipografia, con il servizio grafico, con l’archivio, con le agenzie di stampa, con la posta elettronica; 4. tempestività: poiché il giornale on line è rivolto a un utente che può scegliere di informarsi in qualsiasi momento, a costui deve essere offerto un prodotto aggiornato appena qualche minuto prima; oltre alla qualità e alla completezza del contenuto, la rapidità è il requisito principale del notiziario web; 5. la personalizzazione: la redazione offre al navigatore una gamma di contenuti la più ampia possibile; lo mette poi in condizione di scegliere e leggere con grande facilità, spostandosi da un particolare all’altro e concentrandosi su ciò che lo interessa; non costringe mai il lettore a leggere un brano faticoso, il cui sviluppo sia precostituito, lo lascia il più possibile libero di scegliere la direzione e la modalità con cui procedere. Per quanto riguarda la scrittura, il consiglio più frequente è quello di utilizzare la tecnica della «piramide invertita», dare cioè al lettore la più ampia piattaforma, contenente tutti gli elementi, per poi aiutarlo a «salire», ordinando i dati e le notizie, seguendo un ordine «a strati: la notizia principale, quelle secondarie, le informazioni di sostegno (il background) dell’una e delle altre. Con il risultato che il lettore potrà fermarsi in ogni momento, al livello di approfondimento desiderato» (Tedeschini Lalli, 2003). La tecnica del giornale telematico è in continuo divenire e non ha ancora incontrato una fase di assestamento. La sperimentazione è dunque un’altra caratteristica del giornalismo di Internet. Per le imprese editoriali, alle prese con questioni di bilancio e con una perenne crisi di settore, la rete Internet ha portato con sé problemi strutturali e di costi. L’integrazione è apparsa come elemento indispensabile: fra i mezzi, i supporti, le tecnologie. Ma integrazione anche fra gli uomini addetti alla produzione di notizie, per evitare che la frammentazione e la suddivisione dei compiti amplifichi ancora i costi. Per questo le aziende puntano a un giornalista multimediale, capace di utilizzare tutti gli strumenti (carta, radio, tv, web), se non contemporaneamente almeno in rapida successione. Sono proprio i nuovi giornalisti lo snodo della rivoluzione telematica. Vittorio Sabadin, vicedirettore della «Stampa» di Torino (che era alle prese con la questione del cambio del formato) al ter157

mine di una lunga esplorazione condotta nei giornali di mezzo mondo, è arrivato a questa conclusione. I mutamenti nell’organizzazione del lavoro che attendono i giornalisti hanno l’aspetto di un incubo, ma sono l’unica via di salvezza. I giornalisti dovranno lavorare in redazioni multimediali, impadronirsi del linguaggio del web, imparare a usare telecamere e macchine fotografiche digitali, preparare articoli più lunghi per l’edizione stampata e più brevi per quella on line, inseguire i mercati di nicchia, apparire in video e confezionare contemporaneamente giornali su carta che abbiano un forte impatto emotivo e coinvolgente senza rinunciare alla qualità e all’approfondimento (Sabadin, 2007).

Qualcosa mai successa in passato. Una rivoluzione nel modo di pensare e realizzare le notizie. Uno sforzo di adattamento che non porterà soldi nelle tasche dei giornalisti. Abituati in passato a monetizzare l’introduzione in redazione di tecnologie e modalità nuove, è probabile che guadagneranno invece, sottolinea Sabadin, più o meno quello che guadagnano attualmente. Oggi, circa 440 milioni di individui leggono un quotidiano di carta. Molti di costoro nei prossimi anni troveranno più comodo e meno dispendioso apprendere l’accaduto da Internet, dai telefonini, dagli schermi tv aggiornati 24 ore su 24. Il web sarà un concorrente formidabile, ma i prodotti a stampa avranno almeno una strada per difendersi, quella dell’approfondimento, che dovrà essere percorsa affidandosi alla professionalità e alla qualità, in ogni campo dello scibile. Il giornale di carta dovrà collocarsi subito prima del libro. Sarà verosimilmente più periodico che quotidiano, perché la funzione di diffondere le notizie verrà svolta dai telefoni, dalla radio, da Internet, dagli schermi televisivi. Il motore di tutto questo sarà naturalmente la pubblicità, che verrà catturata dai più bravi, dai più veloci, dai più completi. I giornalisti dovranno adeguarsi a tutto questo. Ad essi spetterà il compito (ancora una volta) di selezionare le informazioni, ordinarle e sceglierle. Saranno al centro della guerra per l’informazione, perché ancora una volta il mercato delle notizie non somiglierà agli altri mercati. Sul tavolo ci sono questioni giuridiche complesse. In Cina, un giorno sì e l’altro pure il governo blocca i motori Internet, proibisce 158

la diffusione di alcune informazioni. Ma anche nelle nazioni a regime liberale alcuni pensano a una regolamentazione almeno parziale, ad esempio per difendere i giovanissimi, attraverso password e «cancelli elettronici», per ostacolare la diffusione di immagini oscene, la pedofilia, i reati commerciali, le truffe. Altri sono di avviso opposto e considerano la regolamentazione un modo per soffocare la rivoluzione del web (http://zambardino.blogautore.repubblica.it/). Gli individui cercano le notizie da soli. Internet dà a chiunque la possibilità di trovare informazioni, anche a persone finora isolate e irraggiungibili. Per non essere spazzato via il giornalista dovrà mettersi a loro disposizione, essere loro utile, in certi casi indispensabile. Se vuole sopravvivere deve sperare che i cittadini non siano in grado di organizzare e selezionare le informazioni senza il suo aiuto. In molte nazioni la coscienza di questa prospettiva è acquisita. In Italia si assiste a un dibattito teorico e un po’ stantio. Le imprese esitano. I governanti, alle prese con una crisi economica e finanziaria che non ha eguali nella storia, non possiedono né il tempo né la lungimiranza per rafforzare l’uso del web. Ma la sua forza prorompente ha già reso molti servigi alla democrazia.

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Piccolo glossario del giornalismo

Attacco Anche detto «cappello». Sono le prime righe, il modo in cui l’autore decide di cominciare l’articolo. Nei libri si chiama «incipit». Bianca La parte della cronaca dedicata agli avvenimenti della politica e dell’amministrazione locale. Buco La mancanza di una notizia importante, che altri giornali invece posseggono. Capocronaca L’articolo che apre la prima delle pagine di cronaca. Un tempo era quasi sempre un commento. Capocronista Il giornalista che è capo delle pagine di cronaca locale. Carattere È il segno tipografico che può corrispondere a una lettera, a un numero o a un simbolo dell’alfabeto. Catenaccio La riga posta sotto il titolo. Chroma-key Lo schermo con le immagini, che fa da sfondo, alle spalle del giornalista del tg. Colonna Unità di misura per la suddivisione della pagina e per la composizione dei testi. Corpo La dimensione del carattere tipografico. Dea L’archivio elettronico dell’Ansa. Desk In origine il tavolo di lavoro, ma ora è usato per indicare i compiti interni volti all’allestimento del giornale, distinti da quelli esterni (inviato, cronista ecc.). Diffamazione L’offesa all’onore diffusa a più persone, spesso con il mezzo della stampa. Diffusione Il numero delle copie vendute da un giornale. Distribuzione Le operazioni indispensabili per la consegna del giornale. Editoriale Il commento o fondo di prima pagina, quando non è firmato. Si presume che sia condiviso dalla proprietà della testata. Embargo L’avviso ai giornali, soprattutto da parte delle agenzie, che una notizia non può essere pubblicata prima di una certa ora. Essenzialità Requisito imposto dalla legge sulla privacy per la pubblicazione dei dati sensibili (razza, religione, stato di salute ecc.). 171

Filo La linea, più chiara o più scura, orizzontale o verticale, di solito di spessore contenuto, che può separare le colonne di testo o gli altri elementi inseriti in una pagina stampata. Foliazione Il numero delle pagine e l’ordine della loro scansione. Fondo L’opinione, in origine a due colonne, cha apre la prima pagina. Più spesso è di natura politica. Gerenza Il riquadro del giornale che contiene i nomi del direttore, dello stampatore, le indicazioni richieste dalla legge sulla stampa. Giustezza La larghezza del testo stampato sulla pagina. È calcolata in punti e righe tipografiche. Impaginazione Collocazione nella pagina degli articoli, dei titoli, delle foto. Infografica Presentazione, creata sullo schermo, di dati, immagini e grafici. Lancio In inglese, take. Singolo, breve messaggio emesso da un’agenzia di stampa. Lead Il termine inglese che indica l’inizio dell’articolo. Link Rinvio, legame con altro testo (file). Linotype La macchina, fornita di tastiera, sulla quale il tipografo copiava i testi scritti e li trasformava in barrette di piombo. Menabò Il progetto della pagina di un quotidiano o di un rotocalco, prima disegnato a mano, poi al computer. Occhiello Le informazioni poste sopra il titolo. Proto Il capo del gruppo dei tipografi. Punto Il «punto» tipografico è una misura che corrisponde a 0,376 millimetri. Riga La riga tipografica, formata da 12 punti corrisponde a 4,412 millimetri. Rotativa Macchina a stampa: le pagine vengono impresse, attraverso la rotazione, su gigantesche bobine di carta. Scaletta L’ordine con cui il giornalista imposta il proprio articolo, sulla base degli appunti e delle informazioni raccolte. Scoop Termine inglese con cui si indica la notizia pubblicata in esclusiva e prima di altri giornali. Sommario Sintesi di altri elementi dell’articolo, che va a integrare il titolo. Stand up Le immagini del giornalista, in piedi, che compare durante un servizio tv. Tabloid Quotidiano di piccolo formato. In inglese, «succinto». In origine era di 30 × 45 cm. Taglio Un titolo posto al centro o in basso, che taglia trasversalmente la pagina del giornale. Talequale Servizio radiofonico, scritto e letto senza interruzioni. Teletrasmissione Trasmissione per via telefonica ed elettronica delle pagine di un giornale da una città all’altra. Timone È il progetto del giornale, che contiene tutte le pagine e si modifica di ora in ora. 172

Indici

Indice degli argomenti

Agenzie di stampa, 6, 19, 32, 34, 41, 4348, 51, 60-61, 90, 136-37, 157. Avvertimento, 84. Calunnia, 35. Carta dei doveri, 69, 72-74, 82, 87, 138. Casagit, 96. Censura, 27, 29, 78, 84, 141. Clausola di coscienza, 90-91. Comitato di redazione, 91-92. Computer, 5, 8-11, 34, 46, 81, 93, 109, 113, 117, 122, 125, 132, 149-52, 156. Contratto di lavoro, 32, 48-50, 89-95, 153. Cronaca, 14-15, 19-22, 29, 36, 39, 44, 50, 53, 67-68, 70, 74, 76, 86, 102-105, 107, 110, 120, 127-28, 136-40, 145.

Federazione nazionale della stampa, 73, 82, 86, 88-89, 93, 96, 153. Fonti, 21-22, 36-38, 40-41, 43-46, 4849, 60, 69, 89, 104, 154. Fotocomposizione, 9. Fotografia, VI, 6, 21, 51, 54, 61, 70-72, 109, 135-39, 143, 156. Free press, 10, 121. Ingiuria, 35, 40, 42. Inpgi, 95-96. Internet, V, 5, 10-11, 16-17, 33, 35, 4748, 52, 86-87, 90, 93-94, 101, 105, 118, 121-23, 131, 135, 149-59. Intervista, VI, 19, 42, 61, 114-17, 128, 153, 156. Linotype, 5, 9, 34.

Danno civile, 14, 32, 38-39, 72, 91. Dati sensibili, 32, 75, 77. Diffamazione, 14, 28, 35-39. Diffusione, V-VII, 7-8, 15, 28, 33, 36, 39, 47, 58, 80, 82, 100, 106, 122, 126, 138, 144, 159. Direttore responsabile, 28, 40, 91. Diritto di cronaca, 14, 38-40, 42, 56-57, 70-71, 74-75, 77, 86, 89. Doveri del giornalista, 13, 30, 61, 65, 83.

Obiettività, 20-21, 53, 67. Ordine dei giornalisti, 29-32, 41, 43, 49-50, 56, 60, 66, 70-71, 73-74, 76, 82-88, 96.

Endorsement, 24-25. Essenzialità dell’informazione, 76-77.

Par condicio, 79. Penny press, 6, 12, 119.

Notizia, V-VII, 6-8, 10-20, 27, 32-34, 3637, 41, 43-47, 50-52, 54-61, 65-66, 69, 72-73, 76-77, 80, 82, 89-90, 94, 100-10, 113-14, 116-19, 121-26, 128, 131-37, 140, 142-43, 145, 148, 15153, 155, 157-59.

175

Privacy, 18, 32, 57, 71, 74-76, 78, 138, 145. Protezione dei minori, 70-71. Pubblicità, 8-10, 20, 28, 32-33, 35, 53, 58-60, 74, 76, 79, 94, 116, 119-21, 125, 158. Quotidiani, V, 5-6, 8-11, 16, 18, 23, 25, 32-33, 45, 48, 51-52, 54, 60, 72, 80, 88, 99-100, 106, 109-11, 114, 117-22, 135-36, 139-40, 143, 148, 152, 155, 158. Radiazione, 82, 84. Radio, 5, 10-11, 14-16, 24, 30, 32-33, 45, 47-48, 52, 55, 58, 62-63, 79-80, 90, 92, 99-101, 105-106, 115-16, 118, 120, 124-34, 139, 141-42, 146-47, 151, 157-58. Redazione, 6, 11-12, 16-17, 25, 31, 34, 43-45, 47-52, 54-55, 61, 63, 65, 81, 91-94, 99, 107, 114-15, 120, 122, 136, 140, 153, 155, 157-58.

Rettifica, 29, 67-68, 86. Riparazione pecuniaria, 39. Rotativa, 5, 9, 59. Rotocalchi, 8, 11, 25, 58, 67, 120, 136. Scrittura, 6, 9-10, 16, 34, 43, 56, 100105, 107-109, 114-16, 119, 133, 157. Segreto professionale, 35, 66, 68. Sondaggi, 79, 104. Sospensione, 82, 84-85. Tabloid, 10, 78, 120, 122. Teletrasmissione, 5, 9, 122. Televisione, 8, 10, 32-33, 55, 58, 60, 64, 94, 105, 109, 124-25, 129, 135, 13949. Titoli, VI, 6, 16, 22, 37, 40, 43, 60, 70, 108-14, 117, 119, 123, 143, 153, 156. Vendita, 8-10, 25, 33, 109, 118, 120-22. Web, 6, 10, 32, 47-48, 52, 87, 99, 120, 122, 125, 132, 149-50, 152-59.

Indice del volume

Introduzione

V

Parte prima

La teoria Natura ed evoluzione del giornalismo

5

1. Qualche secolo di storia, p. 5 - 2. Al cuore del giornalismo: la notizia, p. 12 - 3. Dalla notizia alla cronaca, p. 20

Il sistema giuridico

27

1. Le leggi sulla stampa, p. 27 - 2. Tra diritto di cronaca e casi giudiziari, p. 35

Professionalità e organizzazione

43

1. Le fonti, p. 43 - 2. La struttura della redazione, p. 48 - 3. Scenari presenti e futuri, p. 51

L’etica, la deontologia, l’autonomia

58

1. Lontano dalla verità: pubblicità e bufale, p. 58 - 2. Diritti e doveri del giornalista, p. 64 - 3. Il sistema delle sanzioni, p. 83 - 4. La Federazione della stampa, l’autonomia, il contratto, p. 86

Parte seconda

La pratica Il giornale di carta

99

1. Questione di linguaggio, p. 99 - 2. I segreti della scrittura,

177

p. 102 - 3. La struttura dell’articolo e le interviste, p. 107 4. C’è un futuro per il quotidiano?, p. 118

L’informazione radiofonica

124

1. Lo ha detto la radio, p. 124 - 2. Le regole di base, p. 133

Potere e pericoli della televisione

135

1. Immagine è notizia, p. 135 - 2. Il dominio della tv, p. 139 3. Le notizie teletrasmesse, p. 142

L’affermazione del web

150

1. Un nuovo scenario, p. 150 - 2. I giornali on line, p. 155

Bibliografia

161

Piccolo glossario del giornalismo

171

Indice degli argomenti

175