Piccoli mostri crescono: Nero, fantastico e bizzarrie varie nella prima annata de «La Domenica del Corriere» (1899) 9788883724909

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Piccoli mostri crescono: Nero, fantastico e bizzarrie varie nella prima annata de «La Domenica del Corriere» (1899)
 9788883724909

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WALKIETALKIE

Collana diretta da Luigi Bernardi

Fabrizio Foni

PICCOLI MOSTRI CRESCONO

NERO, FANTASTICO E BIZZARRIE VARIE NELLA PRIMA ANNATA DE «LA DOMENICA DEL CORRIERE» (1899)

Alberto Perdisa Editore, Oasi Alberto Perdisa, Perdisa Pop e Airplane sono marchi di Gruppo Perdisa Editore/Airplane srl © 2010 Gruppo Perdisa Editore/Airplane srl www.gruppoperdisaeditore.it Isbn 978 88 8372 490 9

Indice

1. Nihil novi sub sole: dal romance al novel e ritorno… novecentesco 1.1 L’avamposto della luna

13

1.2 Dualismo: il verme e la farfalla

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1.3 Un ciclo che pedala verso il fumetto

22

1.4 Gli irresistibili tentacoli dell’avventura, e una storia mai scritta

35

1.5 Un antico divieto, sempre aggirato

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2. Incipit Vita Nova: c’è posto per Tutti? 2.1 «Domenica del Corriere»… e sei il protagonista

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2.2 Sale, droghe, eccitanti: una ricetta sicura

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2.3 In copertina: niente foto, siamo romanzeschi

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2.4 Duecentomila lettori, e la follia di accontentarli (quasi) tutti

68

2.5 Il palese vizio occulto

75

3. Panem et circenses: un po’ circo, un po’ Grand Guignol 3.1 Imbonire è meglio che curare: le sirene di Barnum e quelle della domenica 3.2 Un grande serraglio: fachiri, cannibali, alieni, cadaveri 3.3 Un periodo elettrizzante: la scienza, magia dei tempi nuovi

87 97 105

3.4 La vita eccentrica: dal supermercato delle mummie egizie ai portentosi rimedi del Far West 3.5 Nero, ma anche… rosa Note

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In ricordo dei miei nonni Frido e Ilva, che amavano leggere, ascoltare e raccontare le storie.

We kill the lights and put on a show It’s all a lie but you’ d never know Your star will shine and then it will fall And you will forget it all The Birthday Massacre, Kill the Lights

1. Nihil novi sub sole: dal romance al novel e ritorno… novecentesco

1.1 L’avamposto della luna

Nel panorama italiano dell’editoria popolare, «La Domenica del Corriere» rappresentò una forte novità. Ma le novità che vogliono durare a lungo devono essere ben temperate, mediante il dosaggio opportuno di zucchero e veleni, di nuovo e di familiare, con un attento rodaggio che sappia calibrare il tiro a ogni passo. Tale fu appunto «La Domenica del Corriere», supplemento settimanale del «Corriere della Sera»1, che Luigi Albertini (1871-1941), ideatore, affidò alla direzione di Attilio Centelli (1855-1915). La prima uscita, dodici pagine per dieci centesimi di lire, porta la data dell’8 gennaio 1899, sul crinale tra l’Otto e il Novecento, tra il già consolidato e l’avvenire2. Certo, altre testate settimanali, destinate a un largo pubblico, erano già state lanciate e con discreto successo: si pensi alla domenicale «Illustrazione italiana» della milanese Treves, o a «La Tribuna illustrata», supplemento del quotidiano romano «La Tribuna», anch’esso in uscita la domenica3. Durante l’estate del 1898, Albertini aveva personalmente esaminato, grazie a una serie di viaggi, l’organizzazione delle 13

redazioni e le tecniche di stampa dei più diffusi periodici tedeschi, francesi e britannici; il salto alla sperimentazione fu breve, e in meno d’un anno faceva apparire il suo giornale illustrato, una rivista rivolta davvero al più ampio pubblico possibile, con la copertina e la quarta a colori. Cinquantamila copie iniziali, che nel giro di un anno diventano settantamila, e progressivamente andranno aumentando: poco oltre la metà del 1900, la tiratura raggiunge i centoquarantamila esemplari4. È indubbio che «La Domenica del Corriere», per più generazioni, sia servita da catalizzatore dell’immaginario collettivo5: un meccanismo fascinosamente perverso di evasione e informazione ambiguamente mischiate. Non è un caso che la più fortunata rubrica avrebbe avuto per titolo «La realtà romanzesca», proponendo resoconti eclatanti, al limite dello scabroso, dell’insolito, in un’imperterrita ricerca del bizzarro e del fait divers. La rubrica sarebbe stata creata dal salgariano Aristide Marino Gianella (1878-1961), nel 19176. Con alcuni passi della raccolta Jura (1987), è Luigi Meneghello (1922-2007) a fornirci un’esemplare e preziosa testimonianza autobiografica, a metà strada tra il trasognato e il divertito, che vale la pena di riportare per intero: La lettura più importante di S. prima di andare al ginnasio [il cui esame d’ammissione superò nel 1932] non fu un libro ma un anno, il 1905. È questo forse l’anno di storia italiana e mondiale che S. venne a conoscere più a fondo (non contando il 1492 a Firenze e il 1925 in Russia, che studiò poi da adulto: ma quella era storia locale). Fu perché nel tinello della zia Lena venne ad arenarsi, come una grossa zattera

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Una macabra operazione: «La catastrofe del battello sottomarino francese Farfadet: la estrazione dei cadaveri». Illustrazione di copertina di Beltrame per il n. 31 del 30 luglio 1905.

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alla deriva, la collezione di quell’annata della «Domenica del Corriere». Guerre, rivoluzioni, magnifiche disgrazie, cerimonie, avventure, pettegolezzi, barzellette, le nespole del Giappone, tutti i fatti grandi e piccoli di quel breve periodo, in patria e fuori, gli divennero familiari. Fu come un anno in più della sua vita, vissuto in anticipo nel mondo della luna: un avamposto. Era tempo molto antico (c’era lì tra l’altro un nuovo coetaneo di S., suo papà), però ancora vivissimo, e denso di eventi memorabili7.

Un microuniverso, quello della rivista, dal sapore leggendario e insieme cronachistico, reale e virtuale. E prosegue Meneghello: C’era stata per esempio, la faccenda della mano di scimmia che, tenendola in pugno, aveva il potere di far realizzare tre desideri. Nel 1905 questa mano fu acquistata da un ometto di mezza età. Glielo avevano detto che portava anche sfortuna, ma lui si mise in testa di fare una prova più o meno a colpo sicuro, desiderando una determinata sommetta di danaro: che male può fare? E invece, tac!, proprio nel momento che pensava il suo desiderio, suo figlio ebbe un incidente sul lavoro e morì orribilmente dilaniato: e così la Cassa infortuni gli mandò la sua sommetta. Sconvolto, ma forse anche piccato, l’ometto ricorse al secondo desiderio: «Che mio figlio torni a me». E nel silenzio della notte (era notte) sentì aprirsi la porta di strada e venir su un passo eccezionalmente strascicato. Era il morto che tornava, però nel suo stato di maciullazione, trainando i pezzi…

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Coinvolgente quarta di copertina (n. 38, 17 settembre 1905) realizzata da Beltrame: «Una scena di terrore in un serraglio a Mosca in seguito alla fuga di leoni dalla gabbia».

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Era il momento del terzo desiderio: purtroppo l’ometto, molto innervosito, stava al buio e la mano di scimmia gli era cascata. Fu una cosa molto risicata, il morto a brandelli raspava alla porta, e lui cercava freneticamente la mano sul pavimento… Insomma la trovò appena in tempo e riuscì a dire: «Che questo orrore se ne vada!» proprio mentre la porta cominciava a socchiudersi. Un anno incomparabile8.

Si tratta di The Monkey’s Paw (1902) di William Wymark Jacobs (1863-1943)9, celebre novella dell’orrore, effettivamente pubblicata dalla «Domenica del Corriere» nel 190510. Il riassunto che ne dà Meneghello corrisponde nella sostanza al vero, pur discostandosene in più punti: una versione “d’autore”, oppure fallacia della memoria?

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1.2 Dualismo: il verme e la farfalla

Nella descrizione di Meneghello – autore certamente noto, ma tutt’altro che di consumo circa la lingua e lo stile – si compendia tutto il dualismo del fantastico italiano del Novecento: la forma dell’intelletto, per lo più all’insegna del distacco e dell’ironia, coesiste con quella dell’emozione, ossia con il gusto popolare, in cui l’affabulazione e il piacere dello spavento, per quanto infantili, tardano a morire. Un dualismo che, per buona parte della critica, si risolve in absentia del secondo elemento, e che di fatto si è tramutato in rimozione: negazione che ha origine da un’analisi illustre, o piuttosto da una dichiarazione di poetica, che per lo più è stata accolta “dogmaticamente”. Mi riferisco alla distinzione operata da Italo Calvino (1923-1985) tra il fantastico dell’Ottocento e quello novecentesco, con il primo che si riassume in una produzione (e fruizione) «emozionale», e il secondo che si contraddistingue per un «uso intellettuale», e cioè «come gioco, ironia, ammicco»11: un quadro sintonizzato sul proprio sentire, poetica che aspira al fantastico come «lucida costruzione della mente», 19

e ne trova l’«eredità» nelle filosofiche Operette morali (1827 e 1834) di Giacomo Leopardi (1798-1837)12; un fantastico che ritrae «l’ordine che [il] fatto straordinario sviluppa in sé e attorno a sé, il disegno, la simmetria, la rete d’immagini che si depositano intorno ad esso come nella formazione d’un cristallo»13. Una linea novecentesca cui vanno ricondotti, sempre secondo Calvino, Aldo Palazzeschi (1885-1974), Massimo Bontempelli (1878-1960), Dino Buzzati (1906-1972), Tommaso Landolfi (1908-1979)14. Uno sguardo alla successiva riflessione sul fantastico italiano potrà facilmente confermare come l’ottica calviniana sia stata pressoché in toto sposata dalla critica15. Al contrario di altri, il “curioso” Calvino aveva probabilmente maturato una conoscenza di prima mano della «Domenica del Corriere»16, e nel corso dell’ultima fase del settimanale vi aveva collaborato in un paio d’occasioni, con una testimonianza autobiografica nel 1975 (Gli incrociatori degli alleati ci spararono all’alba), e rispondendo «a una “inchiesta sul diavolo oggi”», nel 197817. E la narrativa popolare, allora? A giudizio di Enrico Ghidetti e Leonardo Lattarulo, curatori di quella che ancora resta la più rinomata raccolta di racconti fantastici italiani18, la linea predominante è quella «dell’ibridazione e del virtuosismo intellettuale» (cioè dei «racconti fantastici […] declinanti verso l’allegoria, l’apologo, la fiaba, e sempre più distanti dal polo estremo del fantastico che è il “visionario”»), proprio a causa della «mancanza in Italia di quell’artigianato letterario che altrove ha consentito l’imponente sviluppo della paraletteratura – all’interno della quale la narrazione fantastica ha conosciuto 20

fino ai nostri giorni una sempre crescente fortuna (basti pensare ad autori come Lovecraft, Ray, Matheson)»19. In verità, sin dal primissimo Novecento, l’Italia fu la culla di una folta schiera di riviste popolari (di cui «La Domenica del Corriere» fu la punta di diamante) che ospitarono con regolarità, accanto alle narrazioni di autori stranieri, numerosi racconti fantastici di scrittori italiani. Su questi periodici, il fantastico nostrano ebbe sviluppi e proporzioni inusitati, e poco importa se, in buona parte, si trattò di una produzione ai limiti del dilettantismo. Una stagione che, a grandi linee, si potrebbe simbolicamente racchiudere nell’arco temporale 1899-1932.

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1.3 Un ciclo che pedala verso il fumetto

Nel 1932, infatti, muore Guglielmo Stocco (nato nel 1886), narratore ingegnoso, direttore della terza serie del «Giornale illustrato dei viaggi», a cui si devono altre iniziative editoriali nel segno dell’avventuroso e del fantastico, quali il mensile «Romanzo d’avventure» e il settimanale «L’Avventura»20. Con gli anni Trenta le riviste popolari di narrativa continuano a circolare, ma devono a fatica tenere il passo del fumetto (comprendente un po’ tutti i generi, dall’esotico alla fantascienza), che si fa sempre più spazio e di lì a poco avrà il sopravvento21. Ne La letteratura vista da lontano (2005), Franco Moretti parla di «evento, ciclo, e lunga durata: tre dimensioni temporali che hanno avuto assai diversa fortuna nell’ambito della storia letteraria. […] Il tempo di mezzo, il tempo del ciclo, è rimasto invece in buona misura inesplorato; e non è neanche tanto che la critica letteraria non abbia lavorato a questo livello, è che non se n’è ancora veramente compresa tutta la specificità: il fatto, cioè, che i cicli costituiscono delle strutture temporanee 22

Un gigantesco serpente di mare dalla terza serie del «Giornale illustrato dei viaggi» (n. 38, 13 settembre 1914).

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all’interno del flusso continuo della storia»22. A voler essere precisi, Moretti sonda con l’aiuto di alcuni grafici i cicli vitali dei generi (o sottogeneri) romanzeschi in Inghilterra: «il romanzo epistolare dal 1760 al 1790; poi il gotico, dal 1790 al 1815; e infine il romanzo storico, dal 1815 fin verso il 1850»23. E osserva che «[o]gnuno dei tre generi produce più o meno lo stesso numero di nuovi titoli per anno, e dura all’incirca gli stessi 25-30 anni», senza considerare «i “periodi di latenza” tra la comparsa dell’opera-prototipo, e l’inizio vero e proprio delle varie onde: Pamela esce nel 1740, e Il castello d’Otranto nel 1764 – ma i romanzi epistolari, e poi gotici, pubblicati prima del 1760 e del 1790 restano pur sempre pochissimi»24. Senza la minima pretesa di fornire un’indagine e una catalogazione così accurate (tali da suggerire anche delle perplessità, circa la loro attendibilità assoluta), si deve però ammettere che il concetto di “ciclo” ben sembra prestarsi alla storia delle riviste illustrate d’avventura, il cui ciclo vitale (fatti salvi gli “sgoccioli”) dura per l’appunto una trentina d’anni. E l’“opera-prototipo”? Si tratta, a mio giudizio, proprio della «Domenica del Corriere», apripista e modello insuperato, almeno per l’epoca. Emblematica, pur nella rapidità di circostanza, è la risposta che all’interno dell’anonima rubrica «Piccola posta» si fornisce a un lettore che aveva inviato un racconto giudicato dalla redazione inadatto, perché «troppo semplice»25. Il «sale», le «droghe», gli «eccitanti» su cui viene posto l’accento, come formula cui attenersi per scrivere, ben esemplificano il favore accordato dal settimanale alla narrativa di genere, finalizzata all’emozione prima che al gioco intellettuale26. Sulla dinamica (dialettica o conflittuale) dell’emozione e 24

dell’intelletto, tra le molte attestazioni “d’autore” che si potrebbero produrre (oltre a quella di Meneghello), è suggestivo il ricordo d’infanzia di Jean-Paul Sartre (1905-1980), alla scoperta della letteratura avventurosa e delle riviste popolari francesi: Durante una delle nostre passeggiate, Anne-Marie [la madre] si fermò come per caso davanti al chiosco di giornali che ancora esiste all’angolo del boulevard Saint-Michel e della rue Soufflot [a Meudon]: vidi figure meravigliose, quei colori accesi mi affascinarono, le volli a tutti i costi, le ottenni; il colpo era fatto: volli avere tutte le settimane Cri-Cri, l’Épatant, Les Vacances, Les Trois Boys-Scouts [sic] di Jean de la Hire e Le Tour du Monde en Aéroplane, di Arnould Galopin, che uscivano in fascicoli il giovedì. Da un giovedì all’altro pensavo all’Aquila delle Ande, a Marcel Dunot, il pugile dai pugni di ferro, al pilota Christian, molto più che ai miei amici Rabelais e Vigny. Mia madre si mise alla ricerca di opere che mi restituissero alla mia infanzia: ci furono prima i «piccoli libri rosa», raccolte mensili di fiabe, poi, a poco a poco, Les Enfants du capitaine Grant, Le Dernier des Mohicans, Nicolas Nickleby, Les Cinq Sous de Lavarède. A Jules Verne, troppo posato, preferivo le stravaganze di Paul d’Ivoi. Ma, chiunque fosse l’autore, adoravo le opere della collezione Hetzel, piccoli teatri la cui copertina rossa a nappe d’oro raffigurava il sipario, il taglio dorato era la ribalta. Debbo a queste scatole magiche – e non alle frasi ben bilanciate di Chateaubriand – i miei primi incontri con la Bellezza. Quando le aprivo, scordavo tutto: era leggere, questo? No,

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ma morire d’estasi: dalla mia abolizione nascevano subito indigeni muniti di zagaglie, la boscaglia, un esploratore col casco bianco. Ero visione, inondavo di luce le belle guance scure di Aouda, i favoriti di Philéas Fogg. Liberatasi di se stessa, la piccola meraviglia si lasciava diventare puro stupore. A cinquanta centimetri dal pavimento nasceva una gioia senza padrone né guinzaglio, perfetta. Il Nuovo Mondo sembrava dapprincipio più inquietante dell’Antico: saccheggi, massacri; il sangue scorreva a fiumi. Indiani, Indú, Moicani, Ottentotti, rapivano la fanciulla, legavano solidamente il vecchio padre e si ripromettevano di farlo perire fra i più atroci supplizi27.

Sulla scorta della Letteratura vista da lontano, si è voluto attribuire la palma di “opera-prototipo” alla «Domenica». E il periodo di latenza di cui parla Moretti? È vero che, nel gennaio del 1901, un paio d’anni dopo la nascita del settimanale, compariva «La Lettura»28, e nell’aprile del 1903 era la volta de «Il Romanzo mensile»: non va però dimenticato che si trattava di altri due supplementi – mensili – del «Corriere della Sera». Il primo, benché aperto al fantastico e all’orrore, era rivolto a un pubblico più selezionato, e il secondo si concentrava nella pubblicazione di storie di autori stranieri, di cui molte già apparse a puntate proprio sulla «Domenica». Un primo tentativo d’imitazione, volendo, lo si potrebbe ravvisare ne «Il Secolo XX», della grande casa editrice Treves, sorto nel giugno del 1902, e accostabile per taglio e per formato alla «Lettura». In ogni caso, la proliferazione delle testate di avventure e viaggi ebbe inizio dal 1904

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Una delle sgargianti copertine del Tour du monde en aéroplane, serie a fascicoli di Arnould Galopin e Henry de La Vaulx, pubblicata dall’editore parigino Albin Michel tra il 1912 e il 1914.

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La cultura popolare, un comune sentire: qui sopra una copertina di Georges Vallée per Les Trois Boy-Scouts (1913-’14 e 1919-’21) di Jean de La Hire e una quarta della «Domenica», firmata Beltrame (n. 44, 2 novembre 1902).

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(presumibilmente, dal mese di gennaio), con il settimanale «Per terra e per mare», diretto da Emilio Salgari per l’editore genovese Antonio Donath29. Anche in questo caso, sarebbe falso affermare che prima di «Per terra e per mare», o ancor prima della «Domenica del Corriere», l’Italia non avesse avuto le sue riviste avventurose illustrate: lo stesso Salgari, per esempio, aveva esordito come narratore nel 1883, con il racconto a tinte raccapriccianti I selvaggi della Papuasia, in quattro puntate sul settimanale «La Valigia. Giornale illustrato di viaggi» (un periodico edito a Milano da Ferdinando Garbini, apparso dal 6 febbraio 1879 come emulo del «Giornale illustrato dei viaggi»)30. La novità di questa stagione di riviste consisteva nella “scommessa” di proporre narrazioni non solo esotiche o d’avventura, ma anche fantastiche, gialle, d’anticipazione scientifica, a opera di scrittori italiani e, spesso, di lettori che diventavano autori per diletto, per il solo gusto di raccontare e vedersi pubblicati. Dagli spazi dedicati alla corrispondenza, si può infatti dedurre che, solitamente, gli autori agli esordi, o comunque ritenuti non abbastanza illustri, non percepivano alcun compenso. Già sul secondo numero della «Domenica del Corriere», si trova in risposta a tale A. S., che scrive da Firenze: Anche voi ci scrivete offrendoci di collaborare e domandando quanto paghiamo. Siete uno dei mille che si sono immaginati che la nascita della Domenica del Corriere dovesse arricchirli. Non possiamo pagare se non gli scrittori di prim’ordine, che hanno un nome già celebre, o coloro che ci portano novità assolutamente singolari e “sensazionali” per

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Qui sopra una quarta della «Domenica», firmata Beltrame (n. 44, 2 novembre 1902).

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[a]doperare una brutta parola di moda. I dilettanti, i novellini [d]ebbono contentarsi della gloria. Dove dovremmo cacciare tutta [l]a roba che ci vien offerta a pagamento?31.

È stata «Per terra e per mare» a inaugurare il reclutamento sistematico di narratori giovani o pressoché esordienti, dando vita a una scuola nostrana delle nuove tendenze della scrittura “di genere”, attribuendo maggiore risalto al racconto anziché agli articoli e ai resoconti (comunque presenti). Certo, a costo di scadere nella ripetizione, è il caso di ribadire come, pur senza adottare una caratterizzazione specifica (e cioè, senza fregiarsi del titolo di “rivista di viaggi e avventure”), e riservando gli spazi principali alla cronaca (in specie la copertina e la quarta a colori), con oltre cinque anni di anticipo – non così pochi, all’interno d’un mercato in pieno sviluppo – fu «La Domenica del Corriere» a imporre tale formula al grande pubblico, borghese e non solo. I risultati, i racconti prodotti, sembrano così realizzare in campo italiano quanto rilevato da Alexis de Tocqueville (18051859), oltre sessant’anni prima, come effetto della democrazia sul sistema culturale ed editoriale statunitense: Lo stile sarà spesso bizzarro, scorretto, soprabbondante e dilavato, e quasi sempre ardito e violento. Gli autori tenderanno più alla rapidità dell’esecuzione che alla perfezione. I piccoli scritti saranno più frequenti delle grandi opere, più frequente lo spirito dell’erudizione, la fantasia della profondità; vi regnerà una forza rude e quasi selvaggia nel pensiero, spesso una varietà immensa e una fecondità singolare, nei

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suoi prodotti. Si cercherà di meravigliare più che di piacere, di trascinare le passioni piuttosto che solleticare il gusto32 .

A proposito della scomparsa di specifici gruppi di forme letterarie, Moretti sostiene che [l]a causa dell’avvicendamento deve essere […] esterna ai vari generi, e comune a tutti loro: qualcosa di simile a un terremoto, o a un cataclisma che cambi in modo subitaneo e totale l’intero ecosistema letterario. Il che vuol dire: che cambi in modo subitaneo e totale il pubblico letterario. I libri sopravvivono se la gente li legge, e scompaiono se non lo fa: e se un intero gruppo di generi scompare di colpo, e al completo, dalla scena, la spiegazione più verisimile è che a scomparire siano stati, prima e più dei libri, i loro lettori33.

Senza ravvisare l’estrema celerità di cambiamento descritta qui sopra, si può ancora applicare il “modello”, in linea di massima, alle nostre riviste: al di là delle inevitabili e prevedibili successioni generazionali, i periodici di viaggio soccombono di fatto (ossia: perdono la stragrande maggioranza dei lettori) per l’insorgere d’una causa esterna, d’un cataclisma appunto, in quanto – come si è già accennato – non possono minimamente competere con la novità del fumetto, più agevole e più accattivante. Prima del trionfo del cinema (la cui produzione, però, richiede spese ben più consistenti), nel momento in cui la competitività si misura sul piano dell’intrattenimento, la sovrabbondanza delle immagini, che si fondono e si integrano mirabilmente con il testo, rende il fumetto una macchina

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pressoché invincibile per la generazione e la stimolazione del desiderio. Il fumetto infatti, impiegando un linguaggio che a livello “elementare” (ma in senso lato…) riassume quello cinematografico, segn[a] la fase in cui l’immaginario collettivo si appropria finalmente delle strutture economiche dell’immaginazione; si appropria della macchina, del denaro e del lavoro (necessari a rappresentare individualmente e collettivamente i fantasmi), nel senso che inserisce, ad uno stesso livello, il simbolo, l’allegoria, il racconto ed i mezzi materiali che producono simboli, allegoria e racconto. […] Ma possiamo riconoscere il fatto che il pubblico diventa macchinario produttivo a tutti gli effetti: da questo momento ogni discorso sulla qualità del prodotto non ha senso, perché sono i modi di produzione a confrontarsi, a entrare in conflitto, a risolvere il conflitto necessario alla rappresentazione, a contendersi come modelli di produzione dell’immaginario lo spazio degli investimenti individuali e collettivi. È ormai il modo di produzione interiorizzato dal pubblico che determina la fantasmagoria delle immagini, pregiudicando, una volta per tutte, i significati dei singoli messaggi, deformando il rapporto normale produzione-consumo, formando il linguaggio secondo codici che non appartengono all’estetica più di quanto non appartengono all’economia. […] […] Questa radiografia della composizione socio-economica del Mito cancella la distinzione tra immagine fantastica e immagine reale, dal momento che l’una e l’altra lasciano

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intravedere lo stesso contenuto e appaiono come le forme della civiltà industriale34.

E il fumetto, appunto, esibisce la propria “tecnica”: la compartecipazione di testo e illustrazione; la “struttura” della pagina è contraddistinta e scandita dalle vignette; il proprio “meccanismo” di funzionamento risulta così scoperto, palesa ciò che la narrativa popolare riusciva ancora a mascherare come letteratura, e forse arte (nelle accezioni, quelle di “arte” e di “letteratura”, più romantiche che a entrambi i termini si possano dare). Un processo, e una funzione, che senza dubbio si erano precedentemente innescati con la narrativa popolare, ma che dal fumetto (e ancor più, ovviamente, dal cinema), vengono potenziati e amplificati a dismisura per le masse, la cui immaginazione non si sente privata delle proprie capacità di fantasticare e spaziare (ricostruire, quasi pittoricamente, la “realtà” proposta dalla narrativa e non visibile, in-visibile, se non con gli occhi della propria mente). Scopre anzi nell’“immagine parlante” e poi nell’“immagine in movimento” un mondo che è fantastico ma al contempo più realistico (perché effettivamente visibile), e pertanto più adatto alla reificazione, alla proiezione del desiderio. Il progressivo, a tratti vertiginoso crescere delle tirature dei fumetti, all’epoca, parrebbe dimostrarlo35. In questo modo, però, ci si sta spingendo troppo oltre, almeno cronologicamente.

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1.4 Gli irresistibili tentacoli dell’avventura, e una storia mai scritta

Tornando alla «Domenica del Corriere» (e dintorni), sempre in Jura, lo scrittore di Malo racconta di come il padre gli narrasse d’un ancestrale oceano deserto, nel quale ogni pomeriggio dopo mangiato comparivano il Serpente di Mare e il Mostro Marino. Il racconto del papà, sempre uguale e diviso in due parti identiche, durava qualche minuto, e consisteva nel postulare ciascuna delle due apparizioni e identificarla. Erano ovviamente la stessa bestia, ma guai a confonderli. Il Serpente di Mare arrivava da sinistra, il Mostro Marino da destra. Avevano un andamento tubolare e ondulato, ma nello stesso tempo somigliavano a un vaporetto. Bizzarramente, avevano in bocca uno stuzzicadenti, come il papà. I loro nomi (in italiano, compreso l’articolo) dimostrano che non si trattava di fauna selvaggia degli abissi, ma di fantasmi della cultura riflessa: o almeno che la cultura riflessa scendeva molto in giù negli abissi a timbrare il materiale in risalita. Grandi e lenti, i

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La stretta mortale del polipo gigante, dalle Meravigliose avventure di Luigi De Rougemont: «L’orrendo mostro avviluppò uomo e barca come in una rete…» («La Domenica del Corriere», n. 1, 8 gennaio 1899, illustrazione di Alfred Pearse).

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due bestioni si spostavano verso la parte centrale dell’oceano: quando erano in mezzo sopravveniva il sonno36.

Basta sfogliare qualche annata, o anche solo qualche numero delle riviste popolari d’inizio Novecento, ed è assai facile riscontrare articoli, resoconti e novelle in cui si dipingono mostri e portenti marini (o comunque acquatici)37. Già sul numero uno della prima annata della «Domenica del Corriere», nella puntata iniziale de Le meravigliose avventure di Luigi De Rougemont, in un paragrafo dal titolo Mostri marini, compare «il polipo gigante»38; quindi, sul quarto numero, la storia del ritrovamento d’una presunta sirena39. Nel numero venti, ci si interroga sull’esistenza effettiva del serpente di mare40, ed ecco sul numero trentasette comparire la risposta: l’animale sarebbe «stato finalmente non solo trovato, ma pescato vivo alle Antille e introdotto nell’acquario di Battery-Park a New York», cattura a cui segue una «grande costernazione», in quanto la bestia si presenterebbe come «un povero modesto serpente lungo due metri e mezzo con 30 centimetri di circonferenza»41. Sul numero trentanove, si riportano ulteriori delucidazioni in materia, tese a “razionalizzare” la leggenda, fornite «dal direttore del giornale La scienza in famiglia»42. Le spiegazioni, tuttavia, non riescono minimamente a intaccare il mito e i mostri d’acqua dolce e salata continuano a proliferare nella cronaca e nei racconti. Sul numero quarantasei infatti si trova la novella Il mostro del lago Lametrie. Dal diario del prof. Giacomo McLennegan, siglata in chiusura con le sole iniziali W.A.C. (la creatura stavolta è «un animale antidiluviano di colossali proporzioni, un mostruoso elasmosauro»): si tratta d’una traduzione italiana

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di The Monster of Lake Lametrie di Wardon Allan Curtis (18671940)43. Sul numero trentasei del 1900, un articolo su «La perla della California» non perde l’occasione di ricordare la presenza dei «più meravigliosi ed i più orribili campioni della fauna marina»44. Sul numero diciannove del 1901, si narra di Un abbraccio terribile: è quello d’un polpo gigante ai danni d’uno sventurato palombaro45. E così via, per un elenco che sarebbe inesauribile46. Gli esempi tratti da altre testate sarebbero altrettanto copiosi, per non parlare dei pulp del resto d’Europa, o statunitensi (persino la copertina del primo numero di «Weird Tales», del marzo 1923, raffigura un viscido mostro tentacoluto)47. A ben guardare, sulla «Domenica del Corriere», il mistero di un orribile essere lacustre è alla base di una novella d’ambientazione giapponese, Il genio del Fusijama48, presente sulle due uscite che precedono il numero con The Monkey’s Paw. Indubbiamente, per quanto riguarda la tematica della sopravvivenza di creature dell’età preistorica, il principale modello di riferimento per le narrazioni (ma spesso anche per certi improbabili resoconti…) fu il Voyage au centre de la Terre (1864) di Jules Verne (1828-1905)49, dove la decifrazione d’una pergamena del XVI secolo conduce il professor Lindenbrock e suo nipote Axel all’interno d’un cratere islandese, e da qui fino alle più remote profondità del pianeta, abitate da forme di vita primitive e mostruose. Successivamente, assurgerà a modello imprescindibile The Lost World (1912) di Arthur Conan Doyle (1859-1930)50, in cui una spedizione scientifica che esplora il Rio delle Amazzoni penetra in una regione popolata dai dinosauri (il romanzo verrà pubblicato per la prima volta in Italia nel 1913, proprio dalla «Domenica del Corriere»)51. 38

Il primo numero del pulp magazine statunitense «Weird Tales» (marzo 1923), con un’illustrazione di R. R. Epperly.

39

Per le descrizioni dei mostri acquatici, invece, esercitarono senz’altro una forte influenza il raccapricciante episodio della piovra gigante e assassina dei Travailleurs de la mer (1866) di Victor Hugo (1802-1885)52, e ancora un’opera di Verne, Vingt Mille Lieues sous les mers (1869-1870)53, con il sottomarino Nautilus attaccato da un orribile calamaro gigante. Dello stesso autore, nel 1901, «La Domenica del Corriere» proponeva in quattordici puntate Le Village aérien (1901)54. Nel 1897, però, dello scrittore di Nantes già il «Corriere della Sera» aveva ospitato la storia più prossima al gotico e al fantastico, Le Château des Carpathes (1892)55. Quanto alla già citata rievocazione di Meneghello, si potrebbe aggiungere che, subito dopo i mostri marini, è il turno d’un aneddoto su una villa infestata dai fantasmi, che l’autore «udiva una volta all’anno dall’arcaico zio Quarto, a Udine»56: non a caso, «La Domenica del Corriere» e le riviste di avventure e viaggi pullulano di storie che hanno per argomento gli spiriti, lo spiritismo, e la sopravvivenza dell’anima dopo la morte57. Ai ricordi legati alla «Domenica», seguono quelli del «primo vero racconto di fantascienza trovato da S. [Meneghello] in due vecchi numeri della “Lettura”»58, e cioè Au-delà des ténèbres (1916) del fecondo Jean de La Hire (1878-1956)59, assai conosciuto per la serie dei Trois Boy-Scouts (1913-1914 e 1919-1921), amata – come si è visto – da Sartre, e stampata in Italia da Sonzogno, a partire dal 192060. In verità, da uno spoglio condotto tra le annate della «Lettura», non emerge il nome dello scrittore francese. Tuttavia, Al di là delle tenebre figura sulla «Domenica del Corriere», nel 1917, in ventitré puntate, e poi in due numeri del «Romanzo mensile», a cavallo tra il 1922 e il 40

1923, con tanto di copertine dedicate61. È altamente probabile, quindi, che Meneghello si sia confuso con quest’ultima edizione (si trattava, tutto sommato, di supplementi del medesimo quotidiano). Forse che si potrebbe rintracciare qualche influenza diretta, da parte della narrativa proposta dalle riviste popolari, all’interno della restante opera dell’autore di Malo? Rischiosamente, si è tentati di rispondere sì. D’altra parte, non è poi così facile liberarsi delle prime, primissime letture personali. Filtrato da un’ironia ai limiti del surreale, il piacere del fantastico e del terrifico sembra comunque aleggiare in alcuni passi di Meneghello. Per esempio, ne Il dispatrio (1993)62. A Reading, in quell’Inghilterra che è antonomastica patria del gotico e della ghost story, l’Earlimount Hotel è dipinto come sinistro, e addirittura «ctonio» (all’insegna dell’Unheimliche, verrebbe quasi da dire con Freud): Un’impressione curiosa, molto forte, di cui mi pare ora, scrivendo, di capire per la prima volta la natura: il luogo teneva dell’oltretomba. Quando sentii suonare il gong, e io allarmato venni giù a vedere, in fondo alle scale c’era una vecchietta molto brutta e squilibrata, un po’ da circo devo dire, che volle sapere da dove venivo, e si mise a spiegarmi quanto bene aveva fatto Massolini all’Italia! Massolini: e io sorridere per profondo nervosismo, invece di dirle: Vecchietta, andate al circo63.

Sembra quasi di assistere ai colloqui, strambi e inquietanti, tra David Hemmings e una svanita e solo apparentemente innocua Clara Calamai, in Profondo Rosso (1975) di Dario Argento. 41

Oppure, si tenga in considerazione quest’altro passo, che ha tutte le caratteristiche del più classico incipit per un racconto di fantasmi – tanto che, senza sapere che si tratta di Meneghello, delle connotazioni più torve si potrebbe perdere il (peraltro lieve) distacco ironico: Qualche volta dovevo tornare all’Istituto di notte, forse a prendere un libro o degli appunti. Aprivo la portiera esterna con la chiave (cercata a lungo tra le chiavi del mazzo, al buio), richiudevo a chiave, e mi venivo a trovare fra due portiere a vetri. E cominciavano i terrori. La pelle mi si arricciava, temevo che i peli si rizzassero, precipitando una crisi… Spingevo la seconda portiera, mi inoltravo nel grande foyer a pilastri, buio, attraversato da riverberi molto ostili, provenienti dal parco. Dietro ogni pilastro c’erano orribili nodi, la sagoma informe di uno sconosciuto-conosciuto in attesa, morto, folle, micidiale… Era veramente un supplizio attraversare il foyer, affrontare la scala di travertino, così aggraziata di giorno, luminosa, così esposta ora alla trasparenza maligna del buio. Girava con lenta elica la scala, sboccava al primo piano in un atrio muto sciabolato dai riflessi… Tutto è finestra lassù e fa finestra alla paura. Entravo nel corridoio scuro, a sinistra, l’ala sud del grande edificio a U. Ho soggiornato anni e anni da queste parti, seconda porta a destra64.

Stille d’una potenziale – e mai scritta – novella della «Domenica del Corriere», magari ispirata dalla Mano di scimmia; e in quest’ottica parrebbe venirci incontro Ernestina Pellegrini, 42

in una monografia dedicata allo scrittore: l’autrice, a proposito del Dispatrio, parla di «un io ibridato linguisticamente e culturalmente, e permeabilissimo soprattutto agli aspetti più strani, “uncanny” delle nuove esperienze» vissute dal narratore in Inghilterra65. Uncanny, non è casuale, è il termine con cui la cultura anglosassone convenzionalmente traduce l’Unheimliche freudiano66. Ma – aspetto più interessante ancora – è la stessa Pellegrini a precisare come, nel Dispatrio, si assist[e] a una galleria di ritratti […] e a una panoramica di luoghi, insomma di eventi, persone, cose, evocati da uno speculum onirico-grottesco, che scaraventa lo scrittore in una zona ambigua, interstiziale fra la vita e la morte, fra due identità che si negano a vicenda, in un territorio misterioso dove si assaggiano cucchiaini di storia e cucchiaiate di fantasia 67.

Dopodiché, significativamente, cita proprio i due brani sopra riportati (sull’albergo e sull’edificio universitario di notte).

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1.5 Un antico divieto, sempre aggirato

Secondo la critica (ma pure secondo la prassi dei più noti autori “fantastici” del Novecento italiano), sembra che all’emozione debba necessariamente corrispondere un contrappeso, o meglio una finalità allegorica, filosofica, e pertanto anche utile: come se l’emozione in sé e per sé rappresentasse un errore, una colpa. Ci si potrebbe appoggiare a un acuto saggio di Gianni Celati, tra l’altro grande amico di Calvino: mi riferisco a Finzioni occidentali (1972), dove si affronta la questione del passaggio dal romance cavalleresco al novel in una maniera illuminante, per formulare un’ipotesi sul disinteresse della critica verso il fantastico popolare. Come ben riassume Celati, il romance è una «forma narrativa pre-moderna, leggendaria o fantastica», mentre il novel è una «forma romanzesca moderna, di tipo [almeno in senso lato] realistico»: infatti il novel nasce al culmine d’un processo di trasformazione

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di tutto il sistema simbolico della cultura europea, per effetto del quale il nostro mondo non saprà più riconoscersi nel proprio passato, se non per vederci i residui di una imperfezione da cancellare per sempre. Si può anche dire che nel suo sviluppo il novel abbia dato voce alla credenza dell’uomo occidentale di aver superato tutte le concezioni erronee della realtà, e di essere giunto a vedere cos’è la realtà in sé, senza veli, grazie alle armi del discorso critico. Qui indico che l’uso divulgato della critica letteraria e il romanzo moderno nascono assieme, in un nodo inestricabile, dove la critica funziona come una censura che controlla la passione romanzesca. Il romance arcaico in sostanza corrisponde al tipo di finzioni fantastiche che Don Chisciotte tentava di far rivivere, e che già nel Quijote sono viste come deliri del passato. Dopo il Seicento questo genere di finzioni avrà un’esistenza marginale e senza sviluppi: sarà relegato in una provincia di sottoletteratura, lasciata ai bambini delle classi alte e agli adulti delle classi popolari […]68.

Per definizione, la critica nasce come approccio razionale alla letteratura, e come vaglio per riconoscere «due modi diversi d’uso della finzione scritta che convivono nella stessa società: l’uno promosso come adeguato ai principî conoscitivi sui quali la civiltà occidentale si va orientando, l’altro visto come fantasie ingenue e sorpassate dalle conquiste conoscitive»69. Di conseguenza abbiamo «una presupposizione che orienta qualsiasi lettura, con cui l’evasione immaginativa è associata ai prodotti commerciali, e la narrativa seria a importanti problemi della

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vita sociale»: una separazione di ambiti che «rimane sostanzialmente immutata anche dopo la trasformazione ottocentesca del sistema editoriale»70. In qualche modo, dietro il disinteresse che investe la narrativa dell’editoria popolare, si potrebbero ravvisare le ripercussioni, a distanza, di quella censura che impose l’infimo posto della scala al romance, sebbene questo continuasse a essere prodotto e avidamente letto (per di più secondo modalità che, in relazione alla diffusione libraria del tempo, si potrebbero definire “industriali”). È proprio Celati a sostenere esplicitamente come, osservando il rapporto tra novel e romance, «[l]o stesso quadro potrebbe essere applicato alle diverse situazioni delle letterature europee dall’Ottocento a oggi, e ne risulterebbe che l’opposizione tra una narrativa seria e una non seria ha in fondo le stesse radici nel ripudio settecentesco del romance»71. Ci si deve interrogare, allora, su quale sia «il punto dolente per cui deve affermarsi questa seriosità della finzione, ripudiando l’esperienza romanzesca del romance, e tutta una provincia di sottoletteratura che arriva fino ai racconti polizieschi o alle storie di fantascienza»72. Il novel viene promosso socialmente perché utile, perché i fatti più o meno straordinari che espone sono di regola assoggettati al controllo della razionalità. Razionalità che si esplica pure nel “taglio”, attraverso una «riduzione del romanzo alla forma della novella lunga, che è il primo modo di distinguere il novel dal romance e di definirne l’etimologia»73. Alla coscienza critica che pare connaturarsi al novel si oppongono i territori d’incoscienza libera (e alle volte davvero 46

sfrenata) che contraddistinguono il romance, la cui lettura subisce il marchio dell’infamia e viene così tollerata, a stento, dalla cultura. Ben s’intende: solo se destinata all’infanzia, alle classi basse e agli “ignoranti”. I romance vengono ritenuti «nocivi perché, in mancanza d’una difesa critica contro le loro fantasie, producono quel vizio di identificazione romanzesca che ha tanto afflitto Don Chisciotte»74. E l’immedesimarsi implica «una accettazione acritica delle singolarità d’ogni storia, e quindi un elemento di incoscienza che assomiglia pericolosamente ad una disfunzione della ragione»75. Condividere con i personaggi quanto di astruso accade nella finzione romanzesca non appare altro, né più né meno, che «un vizio di realismo semantico, cioè di chi prende le parole per cose»76. Non per niente – e ci si ricollega più strettamente al nostro argomento – a giudizio di Todorov, è proprio nel prendere alla lettera le espressioni metaforiche che risiede uno dei principi generativi del fantastico, sebbene non il solo77. Lo stesso concetto di «esitazione» (hésitation), che starebbe alla base del fantastico, comporta inequivocabilmente una sorta d’immedesimazione da parte del lettore, gli richiede di calarsi nella parte, nella storia78. Alla luce di tutto questo, nel XX secolo, un fantastico intellettuale (com’è appunto quello che predilige Calvino) apparirà come il frutto d’una sperimentazione calcolata, grazie alla salvaguardia «dell’ironia sempre presente»79; un fantastico emozionale (e per sua stessa natura “imparentato” con il popolare) sarà un aborto del passato, coltivato da autori ingenui per masse ancor più ingenue. A un primo sguardo, le riviste popolari di primo Novecento 47

sono governate dalla funzione didattica e pedagogica allo scopo di offrire letture «per la gioventù e per le famiglie»80, istruttive per mezzo d’un “sano” diletto: all’apparenza, insomma, niente di sconveniente. Presentando, oltre ai racconti e ai romanzi a puntate, le descrizioni di lontani paesi e di costumi atipici, notizie di attualità, resoconti di esplorazioni e di scoperte, e persino passatempi «enimmistici» e gare scientifiche81, i pulp nostrani si proponevano come educatori fidati e, allo stesso tempo, come attenti informatori delle conquiste del progresso scientifico e del colonialismo civilizzatore. Stando a tali presupposti, parrebbe davvero impossibile che queste pubblicazioni potessero in qualche modo emanare una irresistibile fascinazione romanzesca. Eppure, di fatto, era esattamente così. A chi gioca con la fantasia è concesso di rientrare negli interessi della critica, a patto però che il suo prodotto non sfugga di mano al controllo della razionalità; la quale concede che ci si intrattenga con le fantasticherie, purché non le si prenda mai troppo sul serio. Da qui probabilmente deriva la maggiore fortuna critica e il riconoscimento (ormai) “ufficiale” d’un fantastico nelle forme di «gioco, ironia, ammicco», e come «lucida costruzione della mente». Il peccato originale delle testate popolari, a cominciare dal «Giornale illustrato dei viaggi» di Sonzogno, risiede nello stesso pericoloso limite contestato al romance. Le notizie fornite a proposito dei viaggi e delle esplorazioni riguardavano, nella maggior parte dei casi, gli aspetti più strani, avventurosi, crudeli e sensazionali: una potente sintonia con la versione originale francese, il «Journal des Voyages», e con altre testate straniere, a testimonianza di come il nostro paese partecipasse 48

Inchiodato: l’orribile supplizio riservato a un tiranno («Giornale Illustrato dei Viaggi», n. 670, 2 luglio 1891).

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e condividesse le strategie editoriali europee, proprio nelle pubblicazioni di massa. Dal 1917, come si è detto, una delle più amate rubriche della «Domenica del Corriere» si sarebbe occupata esclusivamente di quella realtà che sembrasse «romanzesca». In prevalenza le narrazioni proposte da questi giornali erano ambientate nei più disparati luoghi esotici, o comunque raccontavano una qualche deroga all’ordinario: per quanto riguarda le storie “nere”, l’alterità rispetto alla vita quotidiana poteva essere un contatto che s’instaurava con il mondo degli spiriti, oppure un delitto particolarmente efferato o inesplicabile. Tanti altrove geografici, metaforici, mentali. Ciò che è fuori dell’ordinario sconfina continuamente in territori che non gli competono, e che dovrebbero essere improntati esclusivamente al “vero”, anziché cedere alle lusinghe del fantasticare: è questo il caso delle relazioni di viaggio, degli articoli scientifici e di cronaca. La materia fantastica irrompe e si amalgama anche con quella parte dell’immaginario che dovrebbe attenersi saldamente al dato concreto, trasferendo la finzione nel presunto reale. A proposito della «Domenica del Corriere», l’attenzione si è in prevalenza appuntata sul campo della cronaca e dell’illustrazione cronachistica, individuandone ora i lati più favolosi e favolistici, ora le finalità d’influenza “pedagogica” o politica (con un’insistita attenzione al reperimento degli “sconfinamenti” più demagogici o propagandistici)82. La narrativa, specialmente quella italiana, o la forte componente “narrativa” insita in certa cronaca, è rimasta nell’ombra83.

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2. Incipit Vita Nova: c’è posto per Tutti?

2.1 «Domenica del Corriere»… e sei il protagonista

Con El ingenioso hidalgo don Quijote de la Mancia (1605 e 1615), Miguel de Cervantes (1547-1616) rendeva la realtà romanzesca nel tentativo – molto ambiguo, peraltro – di bandire il romanzesco pernicioso dalla realtà: don Quijote è presentato come un personaggio realmente esistito, la cui visione del mondo viene profondamente mediata, anzi intorbidita dagli stereotipi e dall’inverosimile che infestano i farraginosi romance. Le metaromanzesche avventure di don Quijote, nella loro smascherata trivialità, sono illusorie quanto è illusoria l’ottica cavalleresca del protagonista, perché di fatto sono invenzione di Cervantes. La fabbrica dei libri di cavalleria, con le sue “mistificazioni”, resta perciò più vera dell’esistenza dell’hidalgo: i romanzi “galeotti” esistono e hanno realmente circolato, don Quijote non l’ha mai visto nessuno. Insomma: l’industria del meraviglioso produce concretamente, la demistificazione di tale industria può a volte rivelarsi, materialmente, null’altro che un’invenzione, un’idea. Può capitare che la realtà rimanga ambigua, e che la sua esposizione ne sia l’unico dato tangibile. 53

A prescindere dagli argomenti trattati, e dalle modalità di trattamento, «La Domenica del Corriere» fu una realtà, e per numerosi lettori, nel corso di più generazioni, ebbe il ruolo di filtro, e filtro privilegiato, nei confronti della realtà stessa. È vero che, sulle pagine del periodico, a sancire espressamente che la realtà potesse essere romanzesca fu la famosa rubrica ideata da Aristide Marino Gianella. È altrettanto vero, però, che a guardare bene – e neanche troppo bene – la rivista predilige da prima (anzi, da subito) quei lati della cosiddetta realtà che scivolano prepotentemente verso l’abnorme, il diverso, il ridicolo, il disgustoso, l’orrido, o più semplicemente verso tutto ciò che possa essere etichettato, in varia misura, come curioso. Una tale propensione si riflette tanto sulla cronaca quanto sulla narrativa, sulla divulgazione scientifica quanto nell’umorismo, o addirittura nella pubblicità – in verità, che le réclame siano e vogliano essere sensazionali, non è cosa di cui ci si debba stupire. Va comunque osservato come, con l’istituzione de «La realtà romanzesca», la testata si sbarazzi definitivamente di ogni distinzione e di ogni impasse teorica – ma anche tutto sommato “pratica” – fra le categorie, già di per sé labili, di resoconto, racconto, novella, articolo, storia (con la s sia maiuscola sia minuscola), e similari84. E la realtà romanzesca, per quanto appaia ossimorica, è solo in apparenza impraticabile, e fu in ultima analisi la carta vincente del settimanale milanese (che, per tirature e diffusione, da lombardo si fece veramente “italiano”, nazionale). Sebbene non risulti la più ricca, vale allora la pena di analizzare dettagliatamente la prima annata della rivista, riportando ampi stralci, perché si tratta della fucina in cui viene forgiato il 54

modello, numero per numero, con la cura di realizzare un prodotto che corrisponda il più possibile ai gusti del pubblico. Nonostante per certi aspetti la macchina fosse ancora traballante, già nel 1899 i lavori procedevano spediti e la valutazione dei risultati era quasi maniacale (come appunto la legge del mercato richiede). I numerosi articoli di servizio forniscono evidenti prove di come la redazione tenesse sempre presenti tre specifici fattori, che insieme formano indubbiamente un tutt’uno: l’intrattenimento, il sensazionale, il popolare. In poche parole, all’interno della prima annata sono già presenti quelle caratteristiche, in nuce, che saranno poi sfruttate, fin quasi all’esasperazione, nel corso delle annate successive. Nel primissimo numero, come ci si può aspettare, si trova un editoriale (anonimo, ma che Ottavio Barié attribuisce senza esitazioni allo stesso Albertini)85, per introdurre la nuova testata, ma anche per cercare di stabilire, nell’immediato, un legame diretto, forte, con i lettori: le nostre forze non bastano da sole; abbiamo bisogno di aiuto. Un giornale non può prosperare se pensato e composto tutto quanto nell’intimità d’una redazione, da taluni pochi individui. Anch’esso come le piante non fatte pei languori delle serre chiuse, ha bisogno d’aria e di sole, di correnti vive di simpatia, della larga e spontanea cooperazione di molti. Un giornale, specialmente se illustrato, deve risultare specchio, riflesso della multiforme complessa vita pubblica. Domandiamo quindi la collaborazione dei nostri lettori; desideriamo che il Signor Tutti sia il nostro principale redattore, che una continua corrente spirituale unisca il giornale al

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pubblico, il pubblico al giornale. Così, soltanto così, confidiamo di riescire. All’opera dunque, e avanti86!

Il progetto è sì “sperimentale” ma, sempre sul numero uno, un altro articolo di servizio segnala come l’editrice del «Corriere della Sera» sia ben determinata a fare le cose in grande, in quantità e in qualità di stampa, essendosi procurata la più blasonata delle rotative, di marca statunitense: La Domenica del Corriere ha acquistato una macchina rotativa a colori della casa Hoe di Nuova York. Questa casa è la più grande e la più rinomata nel mondo fra le fabbriche di macchine da stampare. L’alto prezzo dei suoi prodotti impedì finora che penetrassero nel continente europeo, e perciò il loro spaccio restò circoscritto agli Stati Uniti ed alla Gran Brettagna [sic]. La macchina che abbiamo acquistato ci costa, messa in opera, centocinquantamila lire, e con le macchine accessorie poco meno di duecentomila. La macchina a colori Hoe è lunga circa 7 metri e alta 3, è una vera montagna di ferro. Essa stampa quattro colori contemporaneamente a velocità diverse. Si possono ottenere fino a 16000 copie all’ora di un giornale di otto pagine di grande formato, tagliato, piegato e incollato. È mossa da un potente motore elettrico di 25 cavalli della casa Belloni e Gadda. Fra pochi giorni il pubblico sarà ammesso a vedere la nostra macchina Hoe in azione87.

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Il giornale si offrirà, sempre, come una sorta di evento “domestico”, mentre alla sua officina – alla sua riproducibilità tecnica88 – si conferisce un alone di spettacolarità imponente, tentando di trasformare la tipografia in una fantasmagorica ribalta. La rotativa stessa è dipinta come una prodigiosa e inaudita attrazione. Esce il secondo numero, e da una risposta della rubrica «Piccola posta» (dove, sfortunatamente per noi, non si trascrivono mai le lettere inviate dai lettori) si desume come i poligrafi e i grafomani di mezza Italia non abbiano perso tempo a proporsi come collaboratori, e taluni a pagamento. La redazione mette le mani avanti, e precisa come le retribuzioni spettino esclusivamente agli autori già affermati. Tuttavia ciò non esclude che, per molti aspiranti autori, o comunque scrittori dilettanti, «La Domenica del Corriere» costituisca un ottimo banco di prova, o almeno uno sfogo al proprio protagonismo: A. S., Firenze. – Anche voi ci scrivete offrendoci di collaborare e domandando quanto paghiamo. Siete uno dei mille che si sono immaginati che la nascita della Domenica del Corriere dovesse arricchirli. Non possiamo pagare se non gli scrittori di prim’ordine, che hanno un nome già celebre, o coloro che ci portano novità assolutamente singolari e “sensazionali” per [a]doperare una brutta parola di moda. I dilettanti, i novellini [d]ebbono contentarsi della gloria. Dove dovremmo cacciare tutta [l]a roba che ci vien offerta a pagamento89?

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2.2 Sale, droghe, eccitanti: una ricetta sicura

Siamo davvero agli esordi e le proposte del pubblico fioccano: l’invito di Albertini (o di chi per lui) è stato preso alla lettera. Non mancano naturalmente coloro che vorrebbero vedersi pubblicati al più presto, e sollecitano la redazione. Qualcuno, ingenuamente, pretende la restituzione del manoscritto, e qualcun altro invia senza rendersi conto del materiale veramente illeggibile, non solo sul piano stilistico, ma pure della calligrafia: su entrambe le cose, infatti, non tarda a pronunciarsi la «Piccola posta»90. È senz’altro difficile scoprire se un lettore di Firenze, ma più presumibilmente una lettrice (che si firma «Mammola») abbia avuto l’onore di figurare, in veste di narratrice, sulla testata domenicale; nondimeno, dalla risposta che riceve, ci consente di rilevare come i racconti (e pertanto pure gli articoli) selezionati per la pubblicazione fossero comunque passibili di revisioni, riscritture, rielaborazioni91. Sui criteri di scelta adottati dai redattori la dice lunga quanto viene risposto, benché in modo un po’ sibillino e stringato, 58

a un certo Adolfo L. P. (del quale, caso abbastanza raro, non si ha la provenienza), per motivare lo scarto d’un suo elaborato: «Strano, forte, originale, non però adatto alla Domenica»92. Chissà se il signor Adolfo avrà potuto cogliere le ragioni d’una tale esclusione, quanto mai vaghe. Ai nostri occhi, invece, la risposta rimarca qualcosa che è già chiarissimo. È palese come non siano certo gli attributi di «strano», «forte» e di «originale» a impedire la pubblicazione del testo, anzi; si comprende bene come siano proprio quelli gli elementi che sono ritenuti adatti, e la conferma è facilmente reperibile da altre risposte: in primis da quella, già citata, con la prescrizione metaforica di sale, droghe ed eccitanti93, e poi da altre due, fornite a lettori distinti ma sul medesimo numero: U. B., Bologna. – Ella ha ragione e torto insieme; il lettore – creda a noi – è ristucco del solito terzetto amoroso, e preferisce quelle curiosttà [sic] e quelle stravaganze che molte volte sono le verità del dimani. Del resto accontenteremo anche lei e le belle lettrici bolognesi. O. V. B., Venezia. – Il soggetto non brilla per novità, oh no, e noi cerchiamo del nuovo94.

Novità e stravaganza, perciò, sono le corsie esplicitamente preferenziali per chi vuole accedere alle colonne del periodico. Non è affatto da escludere che «le verità del dimani» si riferiscano a storie fantascientifiche, di cui la «Domenica», di lì a poco, non sarà certo parca: se per gli articoli di divulgazione scientifica si cercherà di stampare informazioni per lo più attendibili95, 59

per la narrativa non saranno imposti freni – a patto di non violare (troppo) il vigente buoncostume. L’unico caso in cui si avanzano riserve verso una «grande stranezza» è rappresentato da tale «Selenio» di Bazzano, in provincia di Bologna, il cui scritto però risulta viziato da una «forma prolissa ed un po’ trascurata»96. Immancabilmente, il settimanale presenta anche dei giochi a premio. Sul numero tredici, compare per la prima volta l’elenco di quei lettori, con tanto di nome e città di provenienza, che hanno inviato soluzioni corrette ai giochi enigmistici del numero precedente. È così possibile avere un quadro parziale del bacino d’utenza allorché la rivista muove i suoi primi passi, e risulta evidente com’essa circoli estesamente per l’intera penisola (riporto di seguito il numero di solutori per ciascuna provincia, in ordine alfabetico):

Province e cittadine Alessandria Novi Ligure Pozzolo Formigaro Belluno Bergamo Bologna Brescia Breno Esine

60

Totale per provincia 2 (5) (1) 1 1 2 3 (6) (1)

8

1 1 2 10

Como Cremona Crema Cuneo Fossano Firenze Forlì Cesena Genova Livorno Mantova Porto Mantovano Virgilio Sabbioneta Villapasquali Massa Carrara Messina Milano Abbiategrasso Carate Brianza Modena Napoli Novara Lesa Domodossola Padova Este Parma Pavia

2

2 1

(1) 1 (1) 7 (3) 3 2 4 (1) (1) (1) (3) 4 3 39 (1) (2) 6 1

7 3 3 2 10

4 3 42

6 1 2

(1) (1) 3 (3) 5 1

5 5

61

Vigevano Cassolnovo Piacenza Ponte dell’Olio Pisa Pontedera Ravenna Faenza Roma Civitavecchia Sassari Alghero Savona Albenga Siena Teramo Intra Torino Treviso Trieste Varese Venezia Vercelli Vicenza Campiglia dei Berici Montebello Vicentino

(3) (1) 1 (1) 1 (1)

2 (2) 10 (1)

11 1

(1) 1 (1) 1 (1) 1 1 11 1 3 2 5 (1) (1)

(da: Anonimo, Giuochi a premio, n. 13, 1899, p. 9)

62

2

2 1 1 1 1 11 1 3 2 7

2.3 In copertina: niente foto, siamo romanzeschi

Il connubio tra realtà e romanzesco è ciò che maggiormente paga, e «La Domenica del Corriere» si sforzerà in tutti i modi, senza sosta, di sfruttarne tutte le potenzialità, e di incrementarlo. Per esempio, ci si accorge come non sia del tutto bastevole che le illustrazioni dei fatti di cronaca – come di consueto sulla prima e sulla quarta di copertina, quasi sempre a opera d’un impeccabile Achille Beltrame (1871-1945) – siano per l’epoca avvincenti e a colori sfolgoranti: per destare la completa meraviglia del pubblico, per dare l’illusione della realtà, quella effettiva, concreta, occorre che i disegni siano eseguiti «dal vero», o che siano fedelmente ispirati da fotografie scattate sul posto, o – nei casi più “disperati” – da qualche schizzo colto sull’istante: I lettori vorranno tener conto, speriamo, degli sforzi che facciamo per migliorare poco per volta questo giornale, ancora lontano da quella mèta che dovrà raggiungere allorché saranno rimosse via via tutte le difficoltà d’ogni natura che dapprincipio sembravano insormontabili. Tra le nostre

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aspirazioni vi è quella di sostituire, per quanto possibile, ai disegni di maniera, fatti tranquillamente ma cervelloticamente al tavolo, delle illustrazioni eseguite direttamente dal vero, od almeno con materiali tratti dal vero. Infatti le ultime nostre tavole furono composte con elementi esattissimi97.

Sorge spontaneo domandarsi perché, in presenza d’una cattura fotografica, questa non sia preferibile a un meno realistico disegno. A pensarci bene si tratta d’una questione speciosa: all’atto pratico i redattori, e l’artista con questi, comprendono appieno come l’illustrazione, caricata di gesti e di tratti teatrali, sia in ultima analisi immensamente più funzionale ad accendere la fantasia, a stimolare l’immaginazione di chi guarda. L’attestazione della sua adesione al vero è un pretestuoso sigillo, uno strumento perfetto che conferisce più vigore alla fabbricazione di emozioni. Perché, comunque la si osservi, «La Domenica del Corriere» è al di sotto d’ogni superficie una inesauribile fabbrica – tutta italiana, e non hollywoodiana – di sogni, che tramuta la realtà e la cronaca in un interminabile romanzo, talvolta rosa, talvolta nerissimo. Il reality show, quel format che oggigiorno colonizza le reti televisive, è in fondo, nel suo significato più vero, già ampiamente impiegato dal giornale milanese. Si è costretti a prendere atto che, da qualunque lato la si prenda in esame, la rivista si dimostra intrisa di realtà romanzesca. I lettori si interessano alla pubblicazione, e in molti decidono di iniziarne nell’immediato la raccolta, richiedendo gli arretrati mancanti (a titolo esemplificativo: il numero sette – di cui, al nostro sguardo, nulla colpisce più degli altri – viene esaurito, e dev’essere ristampato)98; altri suggeriscono di optare per un tipo

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Una copertina metatestuale (n. 6, 7 febbraio 1904). La figura di Beltrame, eseguita «da una fotografia», riflette a suo modo la pratica di rendere fiction il vero, incorniciandolo nell’irreale, e viceversa: uno spettacolo circense, emblema dell’evasione/illusione, muta realmente in dramma all’interno d’un teatro.

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di carta migliore99, e altri ancora vorrebbero che fosse adottata una numerazione di pagine progressiva, tra un numero e l’altro, e che le varie inserzioni pubblicitarie venissero concentrate su un unico foglio, in modo da poterle eliminare senza danno (nell’intento, plausibilmente, di far rilegare l’annata una volta conclusa)100. Con il numero trentasette, dalle dodici pagine iniziali il periodico passa alle sedici. Si tratta, a giudicare dall’annuncio redazionale, di un tentativo d’ingrandimento che ha dell’ardimentoso, e si avvertono i lettori che potrebbe trattarsi di una modifica provvisoria: Questo numero della Domenica del Corriere è di sedici pagine in luogo di dodici essendoché le inserzioni sovrabbondavano, né volevamo togliere per esse maggiore spazio dell’usato al testo. I lettori per tal modo guadagnano, gli articoli e le illustrazioni sia in nero che a colori essendo in quantità maggiore che nei numeri precedenti. Questo numero è tutto stampato e contemporaneamente cucito dalla nostra macchina americana Hoe. È anzi il primo completo esperimento fatto con la macchina stessa101.

La testata ovviamente non tornerà sui suoi passi, mantenendo le sedici pagine. Tuttavia, due numeri dopo – e stavolta forse per gonfiare l’innovazione – si rimarca ancora l’aumento, ribadendo che non è ancora da considerarsi una regola102. Tale E. M., da Cremona, si lamenta che talvolta articoli e racconti figurano pubblicati sotto pseudonimo, quando invece 66

si richiede ai lettori di farsi identificare, firmando le proprie missive per esteso. La presunta incoerenza segnalata è presto risolta: E. M., Cremona. – Ella vuole coglierci in fallo perché, avendo raccomandato a chi ci scrive di firmare sempre con nome e cognone [sic] abolendo lo pseudon[i]mo, stampiamo poi degli articoli segnati da pseudonimi. La contraddizione che ella vuole scorgere in ciò non è che apparente. Chi compila questo giornale non essendo il Padre eter[n]o non può conoscere personalmente i suoi due[-]trecentomila lettori, donde la necessità ch’essi si facciano conoscere; viceversa conosce benissimo – e come! – le persone che si nascondono dietro i [sic] pseudonimi accompagnanti gli articoli. Pe’ suoi collaboratori v’ha ad ogni modo chi risponde in pubblico direttamente firmando ogni settimana il giornale: pei lettori che si celano dietro iniziali o pseudonimi chi risponde, scusi? Ce lo sa dire? Ella almeno firma, e le siamo grati, e le saremo anche di più se vorrà ricordarsi più spesso, ed utilmente, della Domenica103.

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2.4 Duecentomila lettori, e la follia di accontentarli (quasi) tutti

Nel frattempo, la rivista si è fatta largo tra gli italiani all’estero, circolando in Francia, in Germania, in Gran Bretagna, in Svizzera e nel continente americano104. Alcuni tra il pubblico sembrano davvero fremere dal desiderio di essere pubblicati, o anche solo di ottenere una risposta personale o privata105. L’obiettivo perseguito dal giornale resta quello di offrire un prodotto che possa essere gradito “in generale”, dal momento che in effetti è «difficile accontentare tutti, quando questi sommano a 200.000»106. La cifra in realtà non è iperbolica, dal momento che la tiratura ammonta a cinquantamila copie, ma che è assai invalsa la pratica di passarsi di mano in mano la rivista, specialmente negli ambienti pubblici. Sul numero cinquanta, ormai prossimi alla chiusura dell’anno, è infine il tripudio, con una pagina celebrativa che, date le circostanze, ci si può ben azzardare ad attribuire al direttore Attilio Centelli, o ancor più allo stesso Luigi Albertini. Il testo si apre con la citazione «Noi siam piccini – ma cresceremo. / (Canzonetta per le scuole)», cui segue – lo si trascrive quasi per intero: 68

Amici lettori, ricordate il primo numero della Domenica del Corriere? – Non era riuscito proprio perfetto. Allora, un giornale a colori, messo fuori anch’esso in quei giorni da una grande casa editrice, ci diede, con molta prosopopea, una lavata di capo, dicendoci ch’eravamo pazzi a voler competere con lei, che possedeva artisti ed operai provetti, e officine varie, e macchine anche più varie, ed una lunga esperienza tecnica, e che ci eravamo messi ad un mestiere che ignoravamo, e che eravamo destinati a capitombolare. Senonché la Domenica, se era ignorante, aveva però voglia d’imparare, e rispetto del pubblico, ed entusiasmo giovanile, e conosceva inoltre il proverbio toscano che «non si fanno nozze con fichi secchi». Cominciammo dal persuaderci che non c’era a Milano chi sapesse fabbricare buoni clichés galvanici. Ipso facto uno di noi partì per Londra, ove acquistò tutta una completa officina galvanica, ad elettricità, ed in quindici giorni essa giungeva ed era impiantata a Milano col suo direttore, venuto anch’esso da Londra con la paga d’un sotto-segretario di Stato. E così possediamo ora un’officina galvanica assolutamente unica in Italia. Poi volemmo anche per la stampa dei caratteri aver le ultime novità, e facemmo acquisto, ugualmente a Londra, di due macchine Linotypes, che fondono i caratteri e li mettono insieme contemporaneamente, – risolvendo così un problema che da lunghi anni si studiava e che da molti era ritenuto insolubile. Macchina Hoe, officina galvanica, linotypes, tutto ciò rappresenta un impianto del valore di più di duecentomila lire. Movendo dei così grossi battaglini

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[sic], è impossibile che alla fine non si ottenga la vittoria, – e possiamo dire d’averla ottenuta – e quella casa editrice, che ci prese pel ganascino, se ne è accorta. Cominciammo con una tiratura di 50.000 copie, che nel corso d’un solo anno è salita a 70.000. Abbiamo avuto ragione di far le cose in grande e di aver arditamente acquistato la macchina tipografica più colossale che esista in Italia. È un piacere, il mercoledì, verso l’imbrunire, recarsi a vederla funzionare. Sotto due grandi globi, che spandono una chiara luce solare, il capo-macchinista ed i suoi aiutanti, saliti sugli alti terrazzini, girano intorno a quel gigante di ferro, regolando i calamai dei vari colori, oliando i complicati congegni, sorvegliando lo scorrere della carta continua e dei rotoli di quella detta di scarico. E da un lato piovono, in ben regolata cascata, i numeri già piegati, tagliati, cuciti con punti di ferro. Gl’inchiostri, – rosso, giallo, turchino, nero – asciugano appena impressi, sicché i fogli, benché piegati e ripiegati, non hanno una macchia, ed ogni numero del giornale viene al mondo stirato, nitido, completo, perfetto. Ricordate, lettori buoni, che c’impegnammo a darvi un giornale di sole dodici pagine, ma poi nel corso dell’anno, e quasi alla chetichella, lo portammo e l’abbiamo mantenuto a sedici. Ed a 16 lo manterremo nell’anno venturo, giacché confidiamo che il favore crescente del pubblico ci renderà leggero questo sagrificio. La Domenica è il solo giornale di sedici pagine, con tre o anche quattro stampe a colori

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in ogni numero, nonché molte incisioni in nero, che costi dieci centesimi. Nessun altro giornale dello stesso buon mercato esiste, – né può esistere, prima d’aver raggiunto, come noi, 70 mila copie di tiratura. Un giornale che ha avuto fortuna è esposto a molte censure. C’è chi vorrebbe la Domenica più letterariamente raffinata, magari più decadente. Ma se si consacrasse a discutere interminabilmente di Verlaine, di Maeterlinck, di BurneJones e di Nietzsche, come fanno altri, riuscirebbe proprio più interessante? – Il nostro vuol essere un giornale fatto per le famiglie e pel popolo, per il signor Tutti, non per una piccola cerchia di letterati e di esteti. Le novelle, i viaggi, la storia naturale, le applicazioni della scienza e dell’industria, le curiosità, lo sport, la campagna, la vita all’aria aperta, la vita sui monti e sul mare, la vita in casa, ecco la nostra tastiera. Siamo riusciti con questi intenti a creare un giornale originale? Crediamo di sì, se ci fidiamo alle [sic] tante lettere che riceviamo (più di cento al giorno). Esse ci dicono che il giornale è aspettato nelle famiglie, ogni settimana, con impazienza, e guai se un disguido postale lo fa ritardare. Ci dicono che in molti uffici pubblici, in molte aziende private, quando è il sabato, se ne compra una copia e la si passa di mano in mano, finché tutti l’abbiano letta, dal capo dell’ufficio al fattorino. Ebbene, siamo sicuri, che dopo la lettura d’ogni numero, una qualche utile informazione, un granello d’oro di scienza e d’esperienza, è rimasto nella mente d’ogni lettore. Si badi bene a questo: la Domenica è fatta tutta – testo ed

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incisioni – di materia nuova, fresca, inedita. Non è una bottega di rigattiere, non è un desinare composto con le vivande del giorno prima, non è un tritume di tutti gli avanzi di cucina. Non ristampiamo romanzi vecchi di cinquant’anni, come fanno altri; non presentiamo clichés logori e frusti per essere già molte volte passati sotto i cilindri delle macchine tipografiche. Le Avventure di Rougemont, Alla frontiera di Giulio Claretie, Sherlock Holmes, il poliziotto dilettante di Conan Doyle, Incubo di Wildenbruch ed altri romanzi e novelle, ci furono ceduti dagli autori espressamente per la Domenica. Altrettanto avverrà nel 1900; e già possiamo annunciare Le nuove ed ultime avventure [a caratteri più grandi] di Sherlock Holmes. [in grassetto] che ci presentano una serie di problemi fors’anche più complicati e drammatici di quelli che i nostri lettori già conoscono. Il loro successo in Inghilterra ed in America non è stato meno clamoroso di quello della prima serie. […] Il nostro passato è breve, – un anno solo, – ma è stato tale che possiamo ricordarlo con soddisfazione. Pel nostro secondo anno di vita, abbiamo il cervello pieno di progetti. E li andremo man mano attuando, se la benevolenza del pubblico ci sarà continuata. Faremo quanto ci è possibile per meritarla. Noi siamo piccini – ma andiamo crescendo!107

A questo punto, merita forse spendere qualche riga a

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proposito delle opere narrative cui trionfalmente si fa riferimento nell’articolo. Si è già avuto modo di parlare de Le meravigliose avventure di Luigi De Rougemont 108. Fatta eccezione per il romanzo Incubo (Das wandernde Licht, 1893) di Ernst von Wildenbruch (1845-1909), il cui primo episodio compare proprio sul numero cinquanta109, le altre storie sono già apparse sul settimanale nel corso del 1899110. I noti racconti di Conan Doyle con protagonista Sherlock Holmes, e già pubblicati al momento in cui esce l’articolo, sono La lega dei capelli rossi, L’uomo dal labbro spaccato, Il mistero della Valle Boscombe, I cinque semi d’arancio, Uno scandalo in Boemia, Il carbonchio azzurro, La testa rossa, Il pollice dell’ ingegnere, Un caso d’ identità, La treccia rivelatrice, Nozze illustri, Il diadema di smeraldi111. Precedentemente, in Italia, l’amatissimo detective aveva già fatto il suo ingresso, ma in sordina, nel 1895, con il volume Le Avventure di Sherlock Holmes112, in cui, a dispetto del titolo, erano presenti soltanto tre racconti di Conan Doyle, A Scandal in Bohemia (semplicemente come Le avventure di Sherlock Holmes), The Red-Headed League (con il titolo La lega dei “Rouquins”) e The Adventure of Silver Blaze (come Il cavallo di [sic] corsa)113, benché già corredate delle illustrazioni realizzate da Sidney Paget (1860-1908) per lo «Strand», e poi riprese anche dalla «Domenica». È sulle pagine di quest’ultima che, nel nostro paese, si forgia il mito del più illustre poliziotto dilettante. Albertini (com’è probabile), o chi per lui, sente il bisogno di rimarcare che, in barba a «chi vorrebbe la Domenica più letterariamente raffinata, magari più decadente», la rivista è destinata al «signor Tutti», e poco si cura della «piccola cerchia 73

di letterati e di esteti»114, escludendo perciò dal proprio interesse autori quali Edward Burne-Jones (1833-1898), Paul Verlaine (1844-1896), Friedrich Nietzsche (1844-1900), Maurice Maeterlinck (1862-1949).

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2.5 Il palese vizio occulto

Nondimeno, soprattutto nel caso del belga Maeterlinck, «La Domenica del Corriere» darà prova di numerose sintonie con quel decadentismo intrigato dalle «esplorazioni» nel campo dell’occultismo, anche in Italia meno «rare» di quanto si voglia pensare115, e all’ordine del giorno per le novelle del periodico milanese. Maeterlinck si mostra affascinato dai sogni premonitori, dalle pieghe insondabili della psiche, dallo spiritismo, dai fenomeni della telecinesi e della metapsichica in genere116. È emblematico il racconto Onirologie (1889)117, nella finzione una sorta di memoriale alla prima persona, inquietante ricognizione sulle valenze e il significato di alcuni sogni specifici e del sogno in sé, sulla sua capacità di riportare alla luce esperienze, dimenticate o rimosse, risalenti alla vita embrionale dell’individuo o addirittura prima. Pure sulla «Domenica del Corriere» ci si interroga sulla ereditarietà dei ricordi (vuoi di natura “biologica”, pensando all’influenza dei familiari, vuoi di natura “spirituale”, ipotizzando la metempsicosi); si disserta riguardo le sottovalutate e misteriose 75

risorse di cui possa disporre la nostra memoria, anche attraverso i sogni118. Incognite, queste, che per Maeterlinck sono tutt’altro che episodiche o marginali, dal momento che tre anni dopo pubblica una Introduction à une psychologie des songes (1892)119. Edgar Morin, ne L’ homme et la mort (1951), rammenta inoltre l’esperienza di Joséphine, cui [Maeterlinck] ha assistito. Ipnotizzata dal colonnello De Rochas, Joséphine risale nel suo passato sino al ventre materno. Sonno, silenzio. A questo punto esce dalla bocca di Joséphine una voce di vecchio burbero, morto a settanta anni, che ebbe l’idea di reincarnarsi nella madre di Joséphine. Si risale a un periodo ancora precedente, e il vecchio ridiventa bambino. Ancora sonno, ancora silenzio. È poi la volta di una voce di vecchia molto cattiva, che si era reincarnata in quel bambino120.

Il passo dal magnetismo all’ipnotismo, quindi allo spiritismo, e infine alla reincarnazione, non era scontato ma spesso piuttosto breve, in una incerta e costante fluttuazione tra fideismo e scientismo positivista. L’io narrante di Onirologie è convinto che, nel giro di poco tempo, appariranno sorpassate e «superflue» le scoperte abbastanza puerili del telegrafo e del telefono. Intendo parlare della comunione degli spiriti o dell’introspezione reciproca di tutte le intelligenze e di ciò che si potrebbe chiamare la “Telepsichia”, che permetterà a ogni anima, a un certo momento, di comunicare con un’altra che ella vorrà,

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ovunque essa si trovi nello spazio o nel tempo, dopo che avremo ritrovato i vincoli che ci uniscono l’un l’altro e di cui il magnetismo e la telepatia ricongiungono attualmente i primi fili sparsi121.

Prima ancora della «Domenica del Corriere», il potente “fascino” – è il caso di dirlo – del magnetismo, prepotentemente radicatosi nell’immaginario collettivo, era stato sfruttato dal «Corriere della Sera», che nel 1898 aveva importato e pubblicato a puntate Trilby (1894), di George Du Maurier (18341896)122, «vero e proprio libro magnetico per la società di quegli anni»123, un romanzo che aveva da subito furoreggiato in Gran Bretagna. Si è visto come l’invenzione del telegrafo, in prospettiva, facesse presagire ben più mirabolanti sviluppi. Ai primi esperimenti di telegrafia senza fili di Guglielmo Marconi (18741937), «La Domenica del Corriere» consacra nel suo primo anno una quarta di copertina124. Ai primi di febbraio del 1902 l’ingegnere Giuseppe Erede, sempre sulla «Domenica», metterà causticamente in dubbio il diramato buon esito dell’esperimento di telegrafia senza fili del precedente 12 dicembre, nel corso del quale Marconi riceve il primo segnale transoceanico, da oltre tremila chilometri di distanza. Il clamoroso abbaglio di Erede è dovuto alla malriposta certezza che il Marconi sia stato vittima di un’autosuggestione, aiutata dai rumori che l’elettricità atmosferica produceva nel suo telefono. Le persone che credono ai tavolini giranti si offendono

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se si sentono dire che sono vittime di un’illusione; credono di seguire il moto del tavolino e sono esse che lo spingono. Ora, se come pare, risulterà che è stato vittima d’un’illusione un uomo intelligente, un uomo di scienza come il Marconi, quelle persone non dovranno più offendersi, e si sarà fatto un gran passo per l’abolizione di quei ridicoli trastulli, che fanno tanto torto al nostro tempo125.

Il giovanissimo Emilio Guarini (1879-1953), nel frattempo, basandosi per l’appunto sulle scoperte di Marconi, inventa il ripetitore automatico126. Trasmettere la “parola” a distanza, senza fili, diviene così un’indiscutibile realtà, che sollecita anche eminenti scienziati ad approfondire se la trasmissione del pensiero (la telepatia) non abbia fondamenti e possibilità effettive, ancora da svelare. Non a caso, sempre dalla «Domenica», apprendiamo come, nel 1900, il Guarini – in attesa di condurre a termine qualche altra sua invenzione che non stupirà meno del ripetitore – si occupa alacremente… di telepatia! A suo avviso «fra non molto si conoscerà la legge, il principio che regola e spiega i fenomeni telepatici». Neppure più i segreti del pensiero!127

Raffaele Pirro, un articolista piuttosto assiduo del periodico, dopo aver dissertato su Miraggio e telepatia, e su Come si spiegherà la telepatia, pubblica la novella L’antropotelegrafia128, a metà strada tra metapsichica e protofantascienza, il cui incipit è quanto mai eloquente sui sogni e le aspettative del periodo:

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«Ebbene, amico mio, io sono l’autore della più grande scoperta del secolo!». Fino a questo punto lo avevo ascoltato in modo che non sarei stato capace di ripetere esattamente ciò che egli mi veniva dicendo. Il suo interminabile discorso aveva preso le mosse dalle forze misteriose della natura, le quali si manifestano nei fenomeni speciali che sono detti spiritismo, ipnotismo, telepatia, e la sua parlantina si era fatta più veloce a misura che egli si era ingolfato nell’argomento. Le sue idee erano giuste, molte si accordavano perfettamente con le mie; ma ad un certo punto, non so come, non avevo più seguito il filo. All’ultima esclamazione però, le parole del mio interlocutore cessando di essere per me dei semplici suoni che non avevano alcuna eco nel mio cervello, mi richiamarono all’argomento e lo guardai sorpreso, cercando nello stesso tempo di dare il suo giusto valore alla frase che mi aveva colpito […]129.

L’invenzione, come già il titolo sintetizza, consiste nella «trasmissione del pensiero» non solo senza l’impiego dei fili, ma anche senza telegrafo o altra strumentazione, bensì sfruttando le ignote e al contempo potentissime risorse insite nel corpo umano: […] La mia macchina l’ho trovata già bella e fatta nella natura e l’ho trovata perfetta. L’uomo è tale macchina da riuscire incontestabilmente superiore a qualsiasi altra che esso stesso possa costruire, e ciò non ha bisogno di dimostrazione.

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Ho chiamato dunque il mio sistema di trasmissione: «Antropotelegrafia»; non so se questa parola corrisponda perfettamente alla nuova maniera di comunicazione, ma tanto è la prima su cui si fermò il mio pensiero quando incominciarono le mie ricerche e, che volete, mi ci sono affezionato130.

Piuttosto frequentemente i fenomeni medianici, nel loro “meccanismo occulto” e ancora da decifrare, erano paragonati per analogia di funzionamento alla telegrafia, benché si trattasse d’una sorta di telegrafo con l’aldilà (nel caso dello spiritismo), o con la mente altrui (nel caso della telepatia). A questo proposito, la dice lunga il titolo d’un giornale fondato a New York nel 1852, «The Spiritual Telegraph», portavoce del movimento spiritico. Com’è noto, anche Luigi Capuana (1839-1915), fin dalla giovinezza accanito sperimentatore nel campo del paranormale, si dimostrava persuaso del futuro progresso nell’approfondimento e l’impiego di alcuni poteri straordinari e latenti: ho la convinzione che un giorno o l’altro, tra qualche secolo, tra parecchi secoli – il tempo non fa nulla; la natura è lentissima nella sua evoluzione – le facoltà medianiche, ora privilegio di pochi, diverranno comuni, per eredità, per svolgimento organico, come accade agli Anfiossi dei laghi sotterranei, che hanno gli occhi in embrione vivendo nell’oscurità, e che li aprono a poco a poco dopo di esser trasportati a vivere in acque illuminate dal sole131.

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Con modalità esemplari, sulla «Domenica del Corriere» si riscontrano gli strascichi primonovecenteschi (ma ancora ben lungi dall’esaurirsi) di ciò che Vittorio Roda ravvisa come un’esigenza tipicamente ottocentesca, incanalatasi in un’ermeneutica pluridirezionale che […] opta per strumenti ora meno, ora più, ora per nulla attendibili. Che fra i meno attendibili figuri, alle soglie del nuovo secolo, la cosiddetta trasmissione del pensiero, estremo anello d’una catena parascientifica che ha il proprio inizio nel modello mesmeriano, ci par difficile dubitare; ma è altrettanto indubitabile che il dibattito in materia assume proporzioni endemiche, coinvolge studiosi del calibro d’un Lombroso ed entrando, anche coll’ausilio d’affollati spettacoli popolari, nel dominio dell’immaginario immette nella letteratura del tempo un inquietante repertorio di letture della mente, comunicazioni a distanza e fenomeni telepatici, concorrendo per la sua parte al rilancio dell’opzione per l’irrazionale132.

In chiusura il diarista fittizio di Onirologie, dopo aver minutamente esposto i sogni angosciosi che sembrano trovare precisi riscontri nel passato della sua famiglia, lancia un singolare appello ai lettori: supplico tutti coloro che fossero in grado di dare qualche indizio in merito, e in generale riguardo tutti i desiderata per questo chiarimento, di volere, in nome di tutto ciò che hanno amato un giorno, indirizzare le loro informazioni al Sig.

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Balfour Stuwart, president of the Society of psychical inquiries, 75, Catherine street, Strand, London, il quale si incaricherà di trasmettermele133.

Si tratta di un “gioco”? Naturalmente sì, ma dai rimandi non troppo di fantasia, dal momento che l’immaginaria «Society of psychical inquiries» richiama inequivocabilmente la celebre Society for Psychical Research, con sede per l’appunto a Londra, e tra i cui presidenti, negli anni 1885-’87, vi fu il fisico scozzese Balfour Stewart (1828-1887) – e poco importa che Maeterlinck abbia modificato la e del cognome in u. In Italia, un anno dopo la nascita della «Domenica del Corriere», Angelo Marzorati (1862-1931) costituiva nel capoluogo lombardo la Società di Studi Psichici, finalizzata all’indagine scientifica ma senza pregiudizi della metapsichica, grazie alle sovvenzioni del noto industriale milanese Achille Brioschi (1860-1942), convinto che la moglie e la sorella fossero due medium. La società aveva Antonio Fogazzaro (1842-1911) come presidente onorario134, e tra gli iscritti annoverava Capuana, il fondatore dell’antropologia criminale Cesare Lombroso (18351909), l’autorevole psichiatra Enrico Morselli (1852-1929), Arrigo Boito (1842-1918), Salvatore Farina (1846-1918), oltre ad altri studiosi di fama internazionale tra cui l’astronomo Camille Flammarion (1842-1925), il quale, una ventina d’anni dopo (nel 1923), avrebbe ricoperto la carica di presidente della Society for Psychical Research. Insomma, l’esclusione di Maeterlinck dalla «Domenica del Corriere» fu puramente “ideologica”, per ciò che egli poteva astrattamente rappresentare; fu un riflesso della volontà

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programmatica di rivolgersi al «signor Tutti», anziché a una «piccola cerchia di letterati». Ne è in qualche modo la prova, più avanti, la presenza dell’autore belga su un altro supplemento del «Corriere della Sera»: quel fortunatissimo «Corriere dei Piccoli», varato il 27 dicembre 1908 sotto la direzione di Silvio Spaventa Filippi (1871-1931), sulle cui pagine, nel corso del 1915, figura per l’appunto il fiabesco e delicato Oiseau bleu (1909)135.

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3. Panem et circenses: un po’ circo, un po’ Grand Guignol

3.1 Imbonire è meglio che curare: le sirene di Barnum e quelle della domenica

Sappiamo bene come, tra gli elementi fondanti dell’epica, vi sia la ciclicità, rafforzata da una formularità che, allo sguardo odierno, senza una debita prospettiva storicizzante, può risultare pesante, o più semplicemente ripetitiva. Il supplemento principe del «Corriere» non sembra essere da meno: è un’epica di se stesso quella che celebra, alla pari d’un rito, sull’ultimissimo numero della prima annata (il cinquantadue). Ricompare, di nuovo magnificata, la prodigiosa rotativa statunitense, e questa volta mediante un’esposizione “virtuale”: Per aderire al desiderio ripetutamente espressoci da abbonati e lettori e sciogliere nel tempo stesso una vecchia promessa, pubblichiamo in questo numero un disegno della grande macchina americana Hoe, a quattro colori – la sola in Italia – con la quale viene stampata «La Domenica del Corriere». La nostra macchina è posta in azione da un motore elettrico di 25 cavalli della ditta Gadda e Co., e può produrre 16.000 copie all’ora di un giornale ad otto pagine ed 8.000 a sedici

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pagine, come è appunto la «Domenica». I cilindri sono 5. La carta si svolge dal rotolo inferiore, e riceve prima l’impressione delle pagine interne (quelle, cioè, che non possono essere stampate che ad un solo colore) e quindi, nel rovescio, l’impressione delle pagine a più colori. Primo a stamparsi è il color giallo, poi il rosso, il bleu ed ultimo il nero. La lunga striscia di carta continua dopo impressionata percorre la macchina in alto, affatto libera, per asciugarsi, e quindi passa sotto i cilindri che la piegano, i coltelli che la tagliano e l’apparecchio speciale che la cuce, cadendo così i numeri completi in pile su appositi panieri. – Il nostro disegno [per cui si veda in nota] è abbastanza evidente per mostrare tutto il complicato funzionamento della macchina Hoe, la quale misura la lunghezza di m. 7. – la larghezza di m. 3.75 e l’altezza di m. 3136.

Nel tempo, attraverso la cronaca (ma, quando capita, pure con i racconti), «La Domenica del Corriere» concederà numerosi spazi a fatti e argomenti che riguardano il circo, la fiera, gli acrobati in genere, le varie esposizioni, i caffè concerto e il varietà137. Nulla di sorprendente, dal momento che questi spettacoli popolari sono una specie di controcanto allegorico (ma non solo) alla volontà che la rivista ha di stupire, e intrattenere, perché «il circo [et similia] è uno degli apparati ottocenteschi che meglio definiscono la produttività simbolica degli spaesamenti metropolitani», e si afferma essenzialmente come apparato mobile, transumante, destinato a organizzare nei modi seriali dell’industria

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dello spettacolo il gusto cittadino per l’esotico e per l’estremo, per la paura della morte e per la messa a rischio del corpo. Gli ingressi del circo nello spazio metropolitano erano l’annuncio di quanto il progresso delle tecnologie aveva rimosso: la natura selvaggia delle bestie feroci, le fascinazioni dei costumi orientali, la forza del corpo, le forme mostruose della vita138.

Contemporaneamente, il settimanale è per l’appunto anche un’interminabile esposizione – meravigliosa, da Wunderkammer – tesa a solleticare «l’immaginario collettivo, nel divulgare lo spirito delle macchine, la seduzione delle merci e della loro messa in scena, le mitologie moderne del progresso, le forme espressive della cultura di massa e della società dello spettacolo»139. Nel corso della prima annata, qua e là, già si rintracciano i segnali di queste attenzioni. Sul terzo numero, firmato col solo nome Biagio, ecco un articolo dedicato ai lottatori, piuttosto ampio140. In seguito, sul numero quindici, ecco la sentita recensione d’una biografia di Phineas Taylor Barnum (1810-1891), il re degli imbonitori per antonomasia: L’editore Hachette, di Parigi, ha testé pubblicato un libro cui arrise subito la fortuna e che trova adesso molti acquirenti anche in Italia. S’intitola Les millions de Barnum, amuseur des peuples, ed è o vorrebbe essere una autobiografia di quell’insuperato re della réclame che fu Barnum. Nessun dubbio che il grosso del pubblico avrà creduto autentiche tali memorie poiché nella sua grande maggioranza

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il pubblico dimentica facilmente. Quanti sono infatti coloro che ricordano come qualmente nel 1850 sia già stata pubblicata l’autobiografia del Barnum, in America a cura di Oscar Commettant col titolo Lotte e trionfi ed a Parigi in una traduzione di Raoul Bondier illustrata da Janet-Lange? Orbene: le due autobiografie non sono affatto identiche, ragione per cui od era falsa la prima od è una mistificazione quest’ultima che i maggiori giornali adesso esaltano. Fidatevi delle autobiografie! Il recente volume di Jehan Soudan serve comunque a ravvivare il ricordo d’uno degli uomini più eccezionali che abbiano vissuto nell’età nostra. Barnum: Non vi par di sentire come un colpo di grancassa? Infatti questo nome riassume, compendia da solo tutta la storia della réclame. Si deve al genio industriale di Barnum la presentazione del famoso nano Tom Pouce, della pretesa balia di Washington, della sirena mitologica fatta in casa, della celebre cantante svedese Jenny Lind, del Museo Americano e del Madison Square: un circo grande come il Colosseo, che Barnum con 200.000 lire di spese trasportò a Parigi dove egli doveva trovare il suo Waterloo. Fu sempre Barnum che vagheggiò l’idea di comprare in Inghilterra, a qualunque prezzo, la casa in cui nacque Shakespeare. Fu lui che per il primo ideò i «Concorsi di Bellezza» e l’«Esposizione dei bambini meglio riusciti». Barnum volle anche essere deputato del Connecticut, e vi fu eletto, persuasi i suoi elettori che, in politica, il Barnumismo è sempre di moda. Che Barnum sia stato un buono scrittore pieno d’humour, lo prova il capitolo delle sue Memorie – quelle del

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1850 – intitolato La Blague. Egli ha lasciato anche un ricco patrimonio di massime e di sentenze una delle quali è rimasta celebre, questa: «È più facile ingannare due uomini che uno solo, tre più presto che due, e così di seguito in proporzioni geometriche; nulla dunque di più facile che ingannare il prossimo». Un precetto di Barnum, che vale tanto oro, è questo: «Il vostro successo dipende da ciò che farete voi stesso e coi vostri propri mezzi». Barnum è morto ricchissimo a New-York nella bella età di 81 anni, in mezzo ai suoi cari, compianto da tutti, persino dai suoi «fenomeni viventi» per i quali ebbe ed a cui volle sempre che fossero usate cure affettuose. Tutta New-York assisté ai suoi funerali splendidi come quelli di un monarca. La sua bara venne sepolta sotto i fiori offerti dai suoi compatriotti [sic] e dal personale – un esercito! – del suo Circo, che tutto vestito di nero lo accompagnò alla sua ultima dimora fiducioso che la sua morte fosse una nuova réclame! Barnum, questa volta, era proprio salito al cielo disposto ad adorare quel Dio nel quale egli aveva sempre creduto. Sicuro: Barnum era un credente ed uno spiritualista. Le ultime righe della prefazione al suo libro sono queste: «Io spero, con la grazia di Dio, di incontrare mio padre, lassù, in un mondo migliore»141.

Al di là delle critiche, e delle imprecisioni, il testo si offre alla stregua di un’agiografia di Barnum, che si profila (né più né meno della «Domenica» stessa) come una sorta di onesto imbroglione. E il periodico, a suo modo, riesce persino a fare

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autoironia dal primo numero, con uno sketch che occupa interamente la quarta di copertina, tre vignette a colori con didascalie: nella prima l’attenzione di alcuni passanti è rapita dal passaggio di un gruppo di carabinieri, e in particolare da una loro esclamazione: «Questa volta non ci scappa di sicuro…»; nella seconda si forma un capannello di curiosi che segue le forze dell’ordine, certo di ottenere una sensazionale anteprima: «Che cosa è accaduto?» «Un delitto, una donna tagliata a pezzi, corriamo…»; nella terza, infine, la gente pare essersi moltiplicata, ma ecco la grande delusione, perché non c’è alcun fatto di sangue da scoprire: i carabinieri, semplicemente, non volevano perdere il tram42. Ci vuol poco ad accendere l’immaginazione delle folle, basta toccare i tasti giusti. La «donna tagliata a pezzi» di questa scenetta sembra prefigurare la macabra e torbida vicenda della veronese Isolina Canuti, diciannovenne, il cui cadavere smembrato fu casualmente rinvenuto nell’Adige il 16 gennaio 1900, da due lavandaie, destando a lungo l’interesse della stampa. Sul fait divers si incentra anche un romanzo di Dacia Maraini, più volte ristampato, anche recentemente143. Nel 1901 «La Domenica del Corriere» dedicò ben due delle tre colonne che formano una pagina alle cause giudiziarie che ne seguirono, inserendo i ritratti delle sei figure maggiormente implicate144. La nera faccenda s’insinua a tal punto nell’immaginario di casa nostra, da essere impiegata come termine di paragone satirico: è questo il caso di una vignetta, sempre sulla «Domenica», per motteggiare Gabriele d’Annunzio (1863-1938) e i “tagli” che egli dovette impartire alla tragedia Francesca da Rimini145. Il delitto efferato, specie se a danno di giovani donne, attirava l’attenzione. È in tale contesto 92

che l’editrice fiorentina di Adriano Salani (1834-1904), specializzata in testi ad ampia circolazione, dà alle stampe un morbosissimo volumetto sull’inafferrabile Jack the Ripper e le sue famigerate imprese146. Altrettanto raccapricciante, per restare in argomento, fu il ritrovamento in mare, nel 1908, a Trieste, della testa di un’«avvenente canzonettista» algerina, Lucienne Fabry, celata in «un grosso involto bianco»; il resto del corpo, «in sette pezzi costituenti altrettanti pacchetti allestiti e legati con cura», attendeva di essere scoperto all’interno di «un villino nelle vicinanze» del capoluogo giuliano: un delitto succulento per «La Domenica del Corriere», che riprodusse anche la fotografia della vittima147. Ci sono però altri tasti giusti, e spingerli, per uno come Barnum, era cosa naturale: riscosse nel 1835 i primi successi di una folgorante carriera da impresario, esponendo al pubblico una certa Joice Heth, una schiava nera ch’egli asseriva essere stata la balia di George Washington (1732-1799), e che avesse centosessantuno anni. In realtà, per quanto apparisse decrepita, la donna ne aveva un’ottantina. Il tipo d’intrattenimento fornito da Barnum, pur non mancando di originalità (e spesso, anche, di una stupefacente magnificenza), si riassume eloquentemente in una sua celebre battuta, che tradotta suona: «Nasce un pollo ogni minuto: se non lo frego io, lo frega qualcun altro»148. Nel 1842 aprì a Broadway il Barnum’s American Museum, dove ai visitatori erano proposte le più singolari bizzarrie, come rarità provenienti dai più disparati recessi del mondo; per lo più paccottiglia, basti ricordare la «Sirena delle Fiji» (The Fiji o Feejee Mermaid), spacciata per il corpo imbalsamato d’una creatura straordinaria, acquistata nei pressi di Calcutta da un 93

marinaio di Boston: naturalmente si trattava di un cosiddetto gaff, ossia di un falso; l’effetto era ottenuto artigianalmente, congiungendo la metà superiore d’una scimmia con quella inferiore di un pesce149. Tra le attrazioni più fortunate rientravano gli animali esotici e feroci, gli scherzi di natura umani (i freak), e tutto quanto potesse destare scalpore, meraviglia o raccapriccio. Barnum non fu il primo né tantomeno l’ultimo a esporre portenti fasulli: numerose creazioni analoghe alla sirena delle Fiji erano mostrate durante gli spettacoli fieristici americani ed europei, per finire talvolta in seriose collezioni di reperti scientifici e archeologici, pubbliche o private. Attualmente, giusto per segnalare un esemplare “nostrano”, un curioso modello di sirena è conservato a Trieste, nel Civico Museo di Storia Naturale, con il nome di «chimera». Come si è già indicato, di sirene «La Domenica del Corriere» si era occupata fin dal quarto numero150, e tornerà sulla questione nel 1906, in occasione del rinvenimento di un’altra presunta sirena nel golfo di Aden, nello Yemen, di cui viene riprodotta anche la fotografia151. Per i freak umani, animali e finanche vegetali152, poi, saranno riservati numerosi spazi (per lo più a base di immagini e didascalie), in particolare i trafiletti de «Le mostruosità della natura», «Le curiosità della natura», o dei «Fenomeni umani». Nel 1871 Barnum mise in piedi il suo famoso circo, il P. T. Barnum’s Travelling Exhibition and World’s Fair on Wheels (“Esposizione viaggiante e fiera mondiale mobile di P. T. Barnum”). «The Greatest Show on Earth» (“Il più grande spettacolo del mondo”), come era presentato, si spostava con un impressionante numero di carrozzoni, e con un colossale tendone 94

Il richiamo dell’esotismo, della guerra e delle anomalie fisiche: tre manifesti del circo Barnum & Bailey e due illustrazioni di Beltrame e una fotografia dalla «Domenica». Dall’alto verso il basso: 1895 ca.; n. 29, 20 luglio 1902; 1898; n. 8, 21 febbraio 1904; 1899; n. 30, 29 luglio 1906.

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della capacità di diecimila posti a sedere. Nel 1881 confluirono nell’organizzazione gli allora noti circhi di James A. Bailey (1847-1906) e di James L. Hutchinson (1846-1910), con il risultato di uno spettacolo ancora più grandioso, nientemeno che La più grande raccolta di curiosi esseri umani mai visti insieme sulla terra. Radunata solamente dopo tre anni di costanti e persistenti ricerche pressoché in ogni parte del mondo conosciuto. Di incalcolabile profitto per scienziati e naturalisti, e un’incessante fonte di meraviglia per signore, bambini, e per il pubblico adulto del paese. Esibita qui in questa città per la prima volta, e contenente Birmani, Guerrieri Nubiani, Cannibali Australiani, Capi Zulù, Giapponesi, Cinesi, Siriani, Patagoni, Buddisti, Indiani dell’Est, il popolo Todas, Aztechi, o antichi adoratori del sole, Afgani, Indù, autentiche Danzatrici Nantch (qui per la prima volta assoluta), e Indiani Sioux, Lanciatori di Boomerang e molti altri.

Il brano, da un annuncio pubblicitario sulla prima pagina del «Brooklyn Eagle» (15 maggio 1884)153, fa ben capire come il fascino del sideshow venisse fondato, coscientemente, su un esotismo in molti casi fasullo. Una scorsa ai manifesti che erano fatti attaccare da Barnum e soci rivela immediatamente una forte attinenza con il medesimo immaginario che generò non solo la narrativa di stampo salgariano, ma anche le riviste di avventure e viaggi.

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3.2 Un grande serraglio: fachiri, cannibali, alieni, cadaveri

La prima annata della «Domenica del Corriere» dà spazio anche ai fachiri indiani, con un articolo del numero trentatré, di cui merita citare un passo consistente: Chi di noi non ha visto o almeno non ha sentito parlare dei Fakiri? La loro presentazione al nostro pubblico avviene ormai con relativa frequenza, quantunque conservi sempre il carattere di spettacolo straordinario e seguiti a venire annunciato a lettere di scatola nei programmi dei caffè-concerto o dei teatrini di varietà e ad essere magnificato come la maggior attrattiva, il più importante avvenimento della stagione. Senonché quelli che giungono fino nei nostri paesi sono in complesso Fakiri apocrifi o quanto meno degeneri: vestiti come persone ammodo, parlano per lo più l’inglese od il francese, hanno viaggiato il mondo perdendo negli inevitabili attriti, fra cose e persone tanto disparate, tanto da loro dissimili, buona parte se non tutte, delle loro primitive caratteristiche. Trasportate in una sala ultra moderna

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fra i globi di luce elettrica e gli eleganti abbigliamenti delle signore più o meno autentiche, alternate con le strofette d’una canzone in voga e con gli eterni esercizi sul trapezio, le gesta del cosidetto [sic] illuminato perdono affatto il loro carattere di misticismo austero e pauroso per rientrare nei limiti d’un trattenimento un po’ più piccante dei soliti. La bara di vetro graziosa come una vetrina, destinata a ricettare per più giorni il vivente Fakiro, i chiodi lucenti e piccini sui quali egli cammina incolume a piè nudi impressionano poco e non persuadono nessuno. Trattasi d’un prestigiatore forse più abile degli altri, dall’aria esotica e dal nome impossibile a pronunciarsi: ecco tutto. Per conoscere gli autentici Fakiri, per provare tutto il senso misto di ammirazione sgomenta, di orrore e di pietà prodotto sempre in noi dagli spettacoli contro natura e inesplicabili all’apparenza, bisogna vederli nel loro ambiente naturale: in India. In quella magica terra ove tutto è grandioso, esuberante, mostruoso o sublime; ove il sole ha splendori che accecano e la natura bellezze quasi divine; ove le erbe paiono alberi e gli alberi sembrano toccare con la cima il cielo azzurro e fondo; ove accanto alla tigre, alla pantera, al mortifero serpente, il colibri [sic] spiega la seduzione delle vaghe penne multicolori; ove la bellezza più pura, più affascinante della forma umana è profanata dalla vicinanza di orribili deformità; ove il lusso più sfacciato e la più sordida miseria, la maggiore delle civiltà e la più estrema barbarie si incontrano, si toccano ogni ora, ad ogni passo in una serie incessante di contrasti meravigliosi; – ivi ogni fenomeno più strano acquista credibilità, sembra perdere nella vastità, nella

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Una fotografia da un resoconto della «Domenica» (n. 33, 7 maggio 1899) e un’affiche per La Marque de la Bête (1916) di E. M. Laumann, rappresentazione del Grand Guignol ispirata a The Mark of the Beast (1890) di Rudyard Kipling.

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varietà infinita del quadro i caratteri fantastici che assumerebbe indubbiamente nei nostri paesi meno magnifici ma più equilibrati154.

Pare quasi d’intravedere, in filigrana, un’anticipazione di certe atmosfere che permeano i resoconti indiani di Guido Gozzano (1883-1916)155, oppure i cimenti, nei panni di «Ipnotico Cadavere Vivente» da fiera, dell’eccentrico e futuro regista Tod Browning (1880-1962)156. Affiora inoltre quel gusto sadomasochistico, travestito da etnografia, che spinge l’autore a mettere in luce come «[a]gli occhi di quella gente ingenua ed entusiasta il colmo della virtù e della santità consiste nell’infliggere a sé stessi le più orrende torture senza lagnarsi»157. Un gusto cui si conforma successivamente l’anonimo Gli orrori del fanatismo. La cerimonia dell’uncino, pure questo sull’India, e nello specifico su un cruento rituale «in onore della dea Bhadra Kâli»158. La testata tende naturalmente a “insegnare” che le più feroci torture vengono impartite nei paesi esotici, e meno “civili” – in Tibet, per esempio159 – ma non si lascia sfuggire quei casi di pena corporale o capitale che si verificano nel più avanzato Occidente, come nel Regno Unito, con Il supplizio della ruota pei condannati ai lavori forzati, dove si descrive il martirio inflitto ai detenuti nel carcere di Kingston, a Portsmouth, nello Hampshire160. Non passa certo inosservato il fenomeno del cannibalismo, che nella prima annata è inizialmente sfiorato con un trafiletto de «Le nostre illustrazioni» (rubrica che è solita descrivere le due pagine occupate da disegni, e talvolta tre, per l’aggiunta di una interna), in questo caso circa «[l]’apparizione della prima bicicletta

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L’irresistibile fascino del «fanatismo» religioso: «La sospensione della vittima a due soli uncini» durante una sanguinosa cerimonia (n. 42, 22 ottobre 1899).

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fra i cannibali», riprodotta in quarta di copertina con un’incisione «da schizzi di A. Lloyd» (l’avventato britannico che si arrischia nell’impresa)161. Più avanti, la «Domenica» ospita i ricordi di un certo P. A. McCann, Catturato dai cannibali, che si svolgono per ben tre pagine162, e sono così introdotti redazionalmente: La seguente avventura, quasi incredibile, nella sua terribilità, accadde però realmente ad un giovane esploratore e commerciante inglese noto pel suo coraggio e per la sua intraprendenza, il sig. P. A. McCann, del quale riproduciamo il ritratto. Nel narrarla ai nostri lettori ci siamo attenuti, per quanto possibile, alle stesse parole del protagonista, così impressionanti nella calma loro semplicità. Ecco come egli racconta il fatto: […]163.

Benché si narri in prima persona l’esperienza in Gabon dell’esploratore inglese, accompagnato dal fedele servo Ndongo (e di entrambi si presentano le fotografie), ciò che nell’immediato colpisce è quel «per quanto possibile», un inciso di poco conto solo in apparenza, perché di fatto conferma quanto finora riscontrato: vale a dire, per l’ennesima volta, che la realtà, nella filosofia della «Domenica del Corriere», ha sempre bisogno di un piccolo aiuto, di qualche dettaglio in aggiunta che la renda più romanzesca. Anche i giardini zoologici – d’altronde prossimi ai circhi e ai serragli viaggianti – rientrano fra i soggetti degni di menzione, specialmente se vi accadono disgrazie e fatti di sangue, o qualora vi sia introdotto qualche animale davvero singolare164. Sul numero quarantotto del 1899, pertanto, non si può certo 102

Animali bizzarri e pericolosi: «La lotta del principe di Molfetta con un orso» in una copertina di Beltrame (n. 22, 4 giugno 1899).

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tralasciare un incendio avvenuto nello zoo di Berlino, per il quale si riserva una drammatica e vivida illustrazione in quarta di copertina165. Le scoperte della scienza, della tecnica, vengono mostrate sempre come sorprendenti: invenzioni ora “magiche” e fantascientifiche (quando riuscite), ora buffe e infondate (quando da accertare, e suscitanti perplessità). È quest’ultimo il caso di un articolo sul «grande cannocchiale» destinato all’esposizione universale parigina del 1900, che avrebbe consentito, secondo la stampa francese, «di vedere la luna ad un metro»166: l’autore, che si cela sotto lo pseudonimo «Il Dottorissimo», pare da una parte rammentare l’ambiguo elogio di Galileo Galilei (1564-1642) e del telescopio formulato da Giovan Battista Marino (1569-1625), nel decimo canto dell’Adone (1623); dall’altra invece, parlando dei «seleniti» – o, meglio, delle seleniti – e per la sua ironia167, anticipa quasi il pionieristico Voyage dans la Lune (1902) di Georges Méliès (18611938)168, più che i “seriosi” romanzi che lo ispirarono, e cioè De la Terre à la Lune (1865) di Verne e The First Men in the Moon (1901) di Herbert George Wells (1866-1946)169. Con un trafiletto, accompagnato da una nitida fotografia, il numero tredici della «Domenica» si interessa all’inaugurazione d’un monumento dello scultore Primo Giudici (1852-1905), eretto in memoria di Paolo Gorini (1813-1881), fisico e geologo di Lodi, l’enigmatico “pietrificatore” di cadaveri ignoti ed illustri – Giuseppe Mazzini (1805-1872), Giuseppe Rovani (1818-1874) – che tanto fascino esercitò sugli scapigliati, «acquist[ando], fra i lodigiani, la fama di far camminare i morti»170. Non si perde occasione di precisare come lo scienziato «rammenta[sse] gli alchimisti di un tempo. Il popolino infatti lo chiamava “il mago”»171. 104

3.3 Un periodo elettrizzante: la scienza, magia dei tempi nuovi

Dal “mago” dell’Ottocento a Un mago dei nostri giorni: sei numeri dopo ci si imbatte in un lungo articolo (di quasi quattro colonne: non poco nell’economia d’un giornale di dodici pagine) dedicato a Nikola Tesla (1856-1943), il celebre inventore serbo, poi naturalizzato statunitense, che rivaleggiò per genio e creatività con Thomas A. Edison (1847-1931)172. L’articolo lo ritrae come un personaggio straordinario e inquietante, a metà strada tra la creatura soprannaturale e il prestigiatore abile e beffardo: Passando di meraviglia in meraviglia, il Tesla offre un altro, forse il più emozionante fra’ suoi esperimenti. Legato un animale qualunque ad una piattaforma, gli applica una corrente elettrica, ed esso cade tosto morto fulminato, mentre l’indicatore segna soltanto mille volts. Allora l’inventore salta sorridendo sulla medesima piattaforma, fa agire di nuovo la corrente, ed un acuto brivido fa rizzare i capelli sul capo al più freddo fra i presenti alla vista dell’indicatore che registra

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Scienziato e “mago” dei nostri giorni: «Tesla regge nelle mani due palle di fuoco» (n. 19, 14 maggio 1899).

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man mano mille, duemila, diecimila e per ultimo due milioni di volts. La formidabile corrente passa di continuo attraverso il corpo del giovane, senza che pur un muscolo del suo volto si contragga. Senonché, sceso a terra e rifatto il buio nel laboratorio, tutti i contorni della sua persona sono segnati da miriadi di lingue di luce elettrica brillantissima che l’avvolgono come in un’aureola di gloria; ed allorché egli vi stringe la mano guizzate da capo a piedi come al contatto d’una potente pila. Il Tesla si è trasformato in una batteria elettrica vivente173!

Tra le varie, Tesla sarebbe in seguito pervenuto a ipotesi quanto mai inconsuete, che contemplavano l’esistenza di una «energia radiante» che, debitamente impiegata, avrebbe addirittura permesso l’annullamento e la ricreazione della materia. La previsione verrà formulata nel 1908 sul «New York Times», dove l’inventore scriverà: ogni atomo ponderabile è differenziato da un fluido tenue, che riempie tutto lo spazio meramente con un moto rotatorio, proprio come fa un vortice di acqua in un lago calmo. Una volta che questo fluido – ovvero l’etere – viene messo in movimento, esso diventa grossolana materia. Non appena il suo movimento viene arrestato la sostanza primaria ritorna al suo stato normale… Può allora accadere che, se riesce in qualche modo a imbrigliare questo fluido, l’uomo possa innescare o fermare questi vortici di etere in movimento in modo da creare alternativamente la formazione e sparizione della materia. Dunque al suo comando, quasi senza sforzo

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da parte sua, vecchi mondi svanirebbero e nuovi mondi entrerebbero nell’esistenza. L’uomo potrebbe così alterare le dimensioni di questo pianeta, controllare le sue stagioni, aggiustare la sua distanza dal Sole, guidarlo nel suo viaggio eterno lungo l’orbita di sua scelta, attraverso le profondità dell’universo. Egli potrebbe far collidere i pianeti e creare i suoi soli e le sue stelle, il suo calore e la sua luce, egli potrebbe dare origine alla vita in tutte le sue infinite forme. Dare origine alla nascita e alla morte della materia sarebbe il più grande degli atti umani, cosa che darebbe all’uomo una conoscenza profonda della creazione fisica; tutto questo gli permetterebbe di compiere il suo destino ultimo174.

All’interno d’una visione talmente grandiosa e spiazzante, tra le conseguenze e le applicazioni possibili, il cosiddetto “teletrasporto” è forse l’esito più innocuo: ipotesi che, in qualche maniera, sembra aver già “captato” tale Ettore Santi con il «racconto straordinario» L’esperienza di Donati, inviato alla «Domenica del Corriere» dal comune di Suzzara, nel mantovano, e pubblicato nel 1906175. Nella storia, l’inventore Lucio Donati costruisce un particolare «apparecchio» che gli consente di smaterializzare oggetti ed esseri viventi in un luogo per poi rimaterializzarli in un altro. E spiega, allo «stupefatto» amico Giovanni Altedi, come funziona questo apparecchio che produce la forza ignota finora e formidabile. L’apparecchio è, non posso ora dirtene di più, un trasformatore sul tipo di quello Tesla, modificato, secondo i miei bisogni, dopo lunghe indagini ed esperienze; nella

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cassa, in soffitta, una macchina pneumatica, azionata dalla forza stessa, alle sue prime manifestazioni, produce il vuoto, costituendo così il mezzo più propizio alla condensazione e all’aggruppamento delle onde materializzanti. Ora immagina un corpo vivente, [il mio cane] Fog, per esempio, addormentato per mezzo di un narcotico, chiuso nella cassa, colle membra ben distese; l’apparecchio funziona… il corpo, senza nulla perdere del suo volume, né della forma, si attenua, si fa più lieve, decresce rapidamente nella densità, gli elettroni si involano ad onde invisibili dal corpo, che sempre più si rende tenue e trasparente, e corrono a traverso lo spazio, seguendo la linea rigida ed impossibile a smarrire, che loro traccia la forza che li trascina; valicano gli ostacoli, si precipitano sulla rete metallica, seguono i conduttori, penetrano nella cassa, vi si fissano, aggruppandosi nella posizione primitiva, ricostituendo la materia, dando origine all’essere stesso d’onde furono dissociati, che rivive la vita prima, con gli stessi organi176!

Certo, per quanto brillante e ingegnoso, il nostro Donati ha ben poco dell’eccentrica eleganza del Tesla che appare nella recente pellicola The Prestige (2006)177, interpretato da un carismatico David Bowie; e tuttavia, per l’argomento trattato, si può dire che l’amatoriale racconto della «Domenica del Corriere» presagisce e precorre la sfolgorante produzione hollywoodiana. Sul piano dei portenti (para)scientifici, va ricordata poi la stravagante réclame che spunta sul numero otto, occupando due terzi abbondanti di una pagina, e che ricompare nel corso dei

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Gli strabilianti esperimenti di Tesla in The Prestige (2006).

numeri seguenti. Si tratta della «Catena elettrogenica Wood», osannata come una sorta di panacea, che vanta a caratteri cubitali «Migliaia di certificati di Medici e Infermi guariti»: Le medicine non vi han guarito? / Nessuna cura vi ha giovato? / Non disperate. La desiderata guarigione vi sarà indubbiamente procurata dalla corrente elettro-vitalistica, graduata per le diverse malattie, della leggerissima, portentosa, sempre trionfante / Catena elettrogenica Dott. Wood / (Dr. Wood’s Electro-genical Chain Battery) / rinvigoratrice e ristoratrice dell’organismo / indebolito dalle malattie, dall’eccessivo lavoro fisico e mentale, dall’età, dagli abusi, dai vizî, ecc. / Prodigiose guarigioni senza medicine / in migliaia di casi ribelli a qualsiasi altro metodo di cura178.

Più avanti, nel tempo, sarà la volta di rimedi altrettanto balzani e dalle presunte virtù miracolose179: a titolo esemplificativo, il «Pettine Elektro-Magneta» contro la calvizie180, l’«Electro110

Vigor del D.r [sic] Maclaughlin»181, le «Solette Elettriche» per le scarpe, presentate come «ormai celebri» contro «reumatismi, gotta, artrite, crampi, geloni, ecc.»182, la «Radiopatia», una «Meravigliosa cura che combatte tutte le malattie» ideata da tale G. A. Mann di Rochester, nello stato di New York, annunciato come «un potente taumaturgo» dal «potere misterioso»183. Siamo alle soglie della stregoneria (e c’è da domandarsi se il limite non sia valicato). L’uomo di scienza, che scopre o conosce realtà ai più ignote, è visto come detentore di un potere che dal benefico può rapidamente slittare al nocivo e al perturbante184. È quanto mai significativa, a tale proposito, La morte purpurea, una storia introdotta sulla «Domenica» con la qualifica di «Racconto… come nessun altro»185. L’anonimo protagonista, che dal testo si desume di nazionalità britannica, affitta «una graziosa villetta d’una piccola città della Riviera ligure», una località «estremamente pittoresca, che [ha] il vantaggio su molte altre di quell’incantato paese di non essere ancora conosciuta come stazione climatica»186. Nell’abitazione accanto si è stabilito un attempato tedesco, le cui singolari abitudini destano in fretta la sua attenzione: soffrendo d’insonnia, nottetempo, lo sorprende più volte mentre sotterra con una vanga dei misteriosi fardelli in giardino. La soluzione non tarda però a farsi avanti: fatta la conoscenza del vicino, scopre che questi è un insigne batteriologo, il prof. Schwartz, costretto a inoculare i vari risultati delle proprie ricerche a conigli e porcellini d’India, con esiti per lo più letali; le buche scavate, pertanto, servono da smaltimento igienico delle carcasse. Dalla frequentazione e dalla condivisa passione per gli scacchi, tra i due nasce una cordiale 111

amicizia. Tuttavia, quando ha ormai maturato una forte stima per l’anziano vicino (che si dimostra estraneo ad «alcuno di quei pregiudizi di razza e di religione che pure sono abbastanza comuni negli spiriti superiori»187, e i cui studi parrebbero improntati al più esteso umanitarismo), il narratore scopre che il lavoro dello scienziato non consiste nel reperire sieri e vaccini, bensì nella creazione di nuove e potentissime malattie infettive, ambito in cui ha raggiunto un agghiacciante quanto inaudito virtuosismo. Secondo una distorta concezione del modello malthusiano, i “filantropici” obiettivi del dottore coincidono con la radicale eliminazione delle classi meno abbienti, la cui infelice condizione sarebbe esclusivamente dovuta al sovrappopolamento: «[…] Ecco un provino», continuò il prof. Schwartz togliendo una piccola ampolla suggellata dallo scaffale e sollevandola quasi con amore contro la luce perche [sic] potessi vederne il contenuto attraverso il cristallo. «È forse il mio capolavoro. Trattasi di un incrociamento dei microbi trovati nel veleno del cobra, che è come saprete uno dei serpenti più micidiali. […] Alla forma di morte prodotta dai microbi di questo incrociamento ho posto il nome di “morte purpurea” perché il corpo della persona còlta da essa diventa tutto d’un bel color porpora prima di irrigidire. Ho detto “forma di morte” anziché “forma di malattia” perché è tale realmente la potenza distruttiva di questi microbi» ed il prof. Schwartz seguitava ad agitare il terribile tubetto davanti alla luce «da uccidere in men di venti minuti senza quindi lasciar tempo alla malattia di svilupparsi. Non v’ha rimedio di sorta che

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valga contro i miei microbi. Quanto a qualità infettive, la “morte purpurea” è il re di tutti i mezzi distruttivi. Basterebbe ch’io rompessi questo tubo, qui, in questa stanza, perché in breve voi ed io cessassimo di appartenere al mondo dei vivi, e perché l’infezione si spandesse così rapidamente da ridurre in un paio di giorni la cittadella che ci ospita tutta un camposanto. Non uno, pensate, non uno de’ suoi abitanti potrebbe sopravvivere…». Un’impressione di freddo, quasi un senso di malessere cominciai a provare ascoltando quelle rivelazioni così terribili. Ma se il tubo si fosse rotto veramente per una causa estranea alla volontà del dott. Schwartz? «Né crediate che la coltivazione di tali microbi sia difficilissima. Anzi senza troppe fatiche si potrebbe produrne un [sic] quantità sufficiente a riempire, supponete, una palla di cannone. Quale terribile prospettiva! La Francia si decide finalmente a rompere la guerra contro noi, tedeschi, per prendersi la rivincita ch’essa sogna dal 1870? Benone: noi facciamo scoppiare una bomba, una sola bomba riempita della mia “Morte purpurea” tra le fila degli assalitori, ed in meno di sei ore d’un esercito di quattrocentomila uomini non ne sopravviverebbe abbastanza per interrare i morti…». Gli occhi del prof. Schwartz scintillavano di orgoglio188.

Il protagonista non sa come agire: da una parte vorrebbe impedire allo scienziato di attuare i suoi piani, dall’altra, prima di essere introdotto nel laboratorio, ha giurato sul suo onore di mantenere il segreto che avrebbe sentito, e in più teme che avvertendo le autorità una perquisizione potrebbe portare alla

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rottura di qualche provetta, e perciò a irreparabili conseguenze. Il giorno seguente trova il batteriologo immobile nel proprio letto, deceduto per arresto cardiaco. Il «tubo maledetto» è però rimasto «stretto convulsamente in una delle sue mani»189, e sembra impossibile rimuoverlo senza il rischio d’infrangerlo. Il cadavere viene dunque sepolto nel cimitero del paese, con la fiala ancora in pugno. Il pericolo, pertanto, è solo temporaneamente scongiurato: Quattro spanne sotto terra, laggiù, in un vago paese della dolce Riviera che il sole benedice, è sepolto il tubo maledetto. Fra dieci anni se non prima la tomba del professore verrà rimossa per far posto ad altri morti, quando non avvenga che tutto il piccolo cimitero sia distrutto per edificarvi alberghi e palazzine: fatto abbastanza naturale attesa la espansione che hanno preso quei vaghi paeselli sospesi, sembra, fra cielo e mare190.

Ombra della speculazione edilizia? Più ottimista, per nulla catastrofica e, anzi, in prevalenza utopica, è la narrativa d’un professore di geografia che sarà un collaboratore assiduo della «Domenica del Corriere», con rubriche e articoli d’informazione scientifica: si tratta del socialista Ulisse Grifoni, nato nel 1858 a Monticello Amiata, in provincia di Grosseto, ufficiale dell’esercito in gioventù191. Di un suo romanzo si occupa un anonimo articolo sul numero quarantasei, che fin dal titolo si interroga: Si può compiere il giro del mondo in trenta giorni? Il nome e l’opera di Grifoni sono dapprima passati sotto silenzio, ma funzionalmente, per inquadrare l’autore 114

come un (valido) epigono verniano, e attirare in tal senso l’attenzione dei lettori: Chi non ha letto quel caro indimenticabile libro che è Il giro del mondo in ottanta giorni? Esso contribuì alla fama di Giulio Verne meglio forse di tutti gli altri – e furono moltissimi – che lo seguirono, ne’ quali la fantasia del romanziere è sempre sposata alla più vasta e soda cultura, alle ricerche ed alle affermazioni più esatte intorno alle scienze positive. Il successo assolutamente eccezionale ch’ebbero i volumi del fecondo scrittore di Nantes, che ha ora 71 anni, va anzi attribuito al fatto che le sue favole sono qual più qual meno intessute sovra un ordito scientificamente esatto. Pur che le circostanze di tempo e di luogo da lui descritte si fossero realizzate, molti de’ suoi libri avrebbero cessato di essere romanzi192.

All’elogio del “maestro” francese e delle sue doti di preveggenza scientifica segue il collegamento con il romanzo italiano, che viene così insignito del merito d’offrire una speculazione di fantasia che è al contempo rigorosamente fondata: Fra tre anni basteranno – pare impossibile! – trenta soli giorni. Ecco un libro fresco fresco che tale possibilità dimostra. Trattasi anche stavolta di un romanzo, al quale anzi si può rimproverare di essere venuto dopo quello del Verne a cui somiglia nella struttura e nello svolgimento. Il protagonista in luogo di un inglese è un americano, Mac Lear, redattore del New York Herald.

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In seguito ad una forte scommessa impegnatasi a Londra fra Gordon Bennet [sic, ma Bennett], il noto proprietario del grande giornale americano, e taluni membri dello stesso Reform Club [presso cui il protagonista del romanzo di Verne, Phileas Fogg, scommette di compiere il famoso viaggio], il primo s’impegna di far girare il mondo al suo redattore Mac Lear nel breve periodo di tempo stabilito. Inutile aggiungere che Gordon Bennet vince la scommessa. Mac Lear attraversa realmente l’Atlantico, l’America, il Pacifico, l’Asia e l’Europa tornando al punto di partenza in trenta giorni, anzi in ventinove essendoché egli parte in direzione ovest, al contrario di ciò che fece Phileas Fogg, il quale essendosi mosso verso oriente avea guadagnato senza sospettarlo un giorno, le sue giornate risultando di quattro minuti più brevi per ogni grado superato in quella direzione. L’identico fenomeno, ma in senso inverso, avviene a Mac Lear, il quale perde così un giorno intero, vale a dire quattro minuti per ognuno dei 360 gradi193.

Il romanzo di Grifoni è Il giro del mondo in trenta giorni, edito appunto nel 1899194, e l’anonimo redattore, attenendosi agli schemi consueti delle recensioni presenti sulla stampa popolare, fornisce un dettagliato riassunto della trama (che si riporta per intero): È possibile dunque girare il globo in ventinove giorni? Possibilissimo grazie al ravvicinamento dell’Asia all’Europa, ma soltanto quando la grande ferrovia transiberiana sarà compiuta. Per accostarsi anzi a codesta possibilità il prof. Grifoni

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imagina [sic] che il suo romanzo – ordito su un tessuto di dati e di cifre esattissime, proprio come nei libri di Verne – si svolga nel 1902, vale a dire fra tre anni, quando la transiberiana sarà pressoché finita: 6.150 chilometri sui 6.500 dell’intero percorso. Recatosi da Londra a Bristol, Mac Lear trova un battello speciale, la Folgore: – costruito sul tipo perfezionato di quella Turbinia, del Parson [sic, ma si tratta di Charles Algernon Parsons], che nell’inverno scorso raggiunse in ripetute prove la velocità di settanta chilometri all’ora e l’elica della quale può arrivare, affermasi, a 5.000 rivoluzioni al minuto! La Folgore non compiendo che 63 chilometri all’ora, Mac Lear supera in 80 ore la distanza fra le coste occidentali dell’Inghilterra e quelle orientali d’America. La velocità di tale traversata non deve destare che una sorpresa relativa, quando si sappia che un mese addietro il nuovo piroscafo del Norddeutscher Lloyd, il Kaiser Wilhelm der Grosse, di 14.349 tonnellate e 27.000 cavalli di forza, in viaggio ordinario impiegava da Southampton a New York poco più di cinque giorni, con la velocità media di 23 nodi all’ora (43 chilometri circa). Da New York un treno speciale avrebbe dovuto trasportare Mac Lear a San Francisco in 85 ore; ma per una serie d’incidenti romanzeschi egli ne perde undici, che però riguadagnerà più tardi. A San Francisco lo attende il Lampo: un altro battello sul tipo della Turbinia (occorre tener presente che siamo nel 1902) comandato da Mac Gregor, uno degli eroi di Cavite. La traversata del Pacifico, sostando anche ad un’isola per provvedersi di carbone, dura quattro giorni, scorsi i quali il

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Lampo entra nello stretto di Tsugaru e sosta a Wladivostok: il maggior porto russo in Oriente e punto di partenza della grande ferrovia che tra qualche anno allaccerà il Pacifico all’Europa. Man mano che procede, Mac Lear comunica con Gordon Bennet, a Londra, col mezzo del fotelefono: uno strumento che permette di parlare a qualunque distanza e di vedere insieme la persona con cui si parla. In altre parole è l’invenzione del galliziano [sic] Szczepanick [sic] della quale ci siamo occupati un mese addietro e che il mondo ammirerà l’anno prossimo all’Esposizione di Parigi. A Wladivostok attende il treno ordinato dal Bennet pel suo redattore. Il quale attraversa dentro un comodo pullman la Siberia – vasta da sola 40 volte tutta l’Italia – e la Manciuria, giunge su le rive del lago Baikal – il “gran mare” dei siberiani – che supera in tre ore, e quindi di nuovo con la ferrovia per la valle dell’Angara arriva a Irkutsk. Quindi via, con quella velocità che i treni aumentano di continuo, per Tomsk, Mac Lear arriva a Tcheliabinsk, estremo limite occidentale della strada transiberiana. È ormai il ventiquattresimo giorno di viaggio. In seguito al franamento d’un tunnel, l’ardimentoso americano abbandona il treno fra le nevi ed i ghiacci dei monti Urali, che attraversa in pallone dirigibile – una speranza che fra qualche anno potrà essere una realtà – e quindi di nuovo in treno per superare l’ampio bacino del Volga, e toccando Samhara, Pensa, Kaluga, Smolensk e rasentando la Beresina – destinata a facilitare i lavori del canale in progetto fra il

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Mar Nero ed il Baltico – nel ventottesimo giorno entra in Germania di dove per Francoforte su l’Oder, Münster, Bruxelles, Ostenda arriva a Londra un’ora avanti lo spirare del tempo utile per la scommessa. Il suo arrivo è salutato da interminabili feste; tutti i soci del Reform Club lo investono per conoscere i particolari delle dure prove superate, ma il vecchio presidente di esso, che è poi Phileas Fogg in persona, muore di crepacuore all’idea che il miracolo da lui operato nel 1872 in 81 giorni, fosse stato compiuto, a trent’anni di distanza, in 29, – e da un americano! Romanzi, sia pure, ma condotti con diligenza su dati e su fatti rigorosamente esatti, la connessione logica dei quali appare evidente quando il libro di cui stiamo occupandoci si voglia sfrondare da tutto ciò che la fantasia vi aggiunse per renderne più facile e più amena la lettura. In trenta giorni il giro del mondo! Ma a quali altre meraviglie l’imminente secolo ci farà assistere oltre alla quasi totale soppressione delle distanze? Beati i giovani poiché di loro è il regno… Delle sorprese195.

L’inventore cui si fa esplicito riferimento è Jan Szczepanik (1872-1926), appellato l’«Edison polacco» – per Galizia, ovviamente, s’intende qui la regione storica, grosso modo a cavallo di Polonia e Ucraina, provincia dell’Impero Austro-Ungarico, e non la regione spagnola – e l’articolo cui si accenna è Le conquiste della scienza. L’ultima meravigliosa invenzione, pubblicato cinque numeri avanti196. Probabilmente lusingato dalla sostanziale approvazione,

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Grifoni invia una tempestiva risposta al giornale da Pavia, il 20 novembre (l’articolo era comparso il giorno prima), in cui cerca di rafforzare ulteriormente il paragone con Verne, sostenendo di esser pervenuto all’idea del «fotelefono», cruciale nel romanzo, senza essere a conoscenza dell’analoga invenzione di Szczepanik. La lettera viene pubblicata sull’ultimo numero dell’annata, il cinquantadue (31 dicembre), e anche se lunga la si trascrive integralmente: Ci scrivono: Ho letto con vivo piacere il suo articolo intitolato: Si può compiere il giro del mondo in 30 giorni? e mi prendo la libertà di chiarire un punto, che m’interessa personalmente, essendo io l’autore del romanzo fantastico-scientifico: Il giro del mondo in 30 giorni, del quale ella si è benevolmente occupato. Accennando al fotelefono, che permette a Mac Lear di tenersi in costante comunicazione con Gordon Bennett, parlandogli e vedendolo, ella scrive: «In altre parole è l’invenzione del galliziano [sic] Srczepanick [sic] della quale ci siamo occupati un mese addietro e che il mondo ammirerà l’anno prossimo all’esposizione di Parigi». Assiduo lettore della «Domenica del Corriere», lessi infatti nel mese scorso l’articolo di “Simplex” sulla meravigliosa invenzione, e la notizia, che io non conoscevo affatto, produsse in me vivissimo piacere, perché la possibilità di questa scoperta io l’avevo intraveduta non solo, ma anche descritta fino dall’anno passato, quando cioè il nome del galliziano era ancora un mistero pei più.

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Dirò meglio: Se ella ha la compiacenza di dare uno sguardo all’ultimo capitolo, pubblicato da me due mesi prima che uscisse l’articolo firmato “Simplex” vedrà che mi ero servito di questo segreto per trasformare completamente il giornalismo e portarlo, si può dire, ad una ideale perfezione. Mi permetta di trascriverle quelle righe, le quali hanno una speciale importanza perché, se realmente la scoperta del galliziano Srczepanick darà pratici risultati, la grande trasformazione giornalistica, in questo romanzo da me fantasticamente intraveduta e descritta, potrà fra breve essere un fatto compiuto, ed i fornitori di carta da giornali e le fabbriche di macchine tipografiche rotative, potranno chiudere, come suol dirsi, bottega. Ecco il brano, a cui alludo: Mac Lear non si fece pregare e fondò, profondendovi tesori, il «S. Francisco-Herald», che in pochi mesi ebbe facile ragione di tutti i giornali della California e poté ugualiare [sic] anche i suoi più potenti confratelli di Chicago e di New York. Ma il gareggiare con essi non bastava a Mac Lear. Egli voleva superarli, egli voleva che il suo giornale divenisse il primo fra tutti, e, nel lambiccarsi il cervello per raggiungere questo scopo, concepì una originalissima idea, che doveva sconvolgere, e sconvolse infatti tutto il giornalismo del mondo. Mentre un giorno stava tormentandosi per cercare qualche cosa di nuovo, di sorprendente, ebbe una di quelle idee meravigliose, che, come l’uovo di Colombo, sembrano tanto facili dopo che qualche mente superiore le ha intravedute ed attuate. «Ho trovato» esclamò ad un tratto, battendosi la fronte «ciò

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che cercavo e che sconvolgerà tutto il mondo giornalistico. Se col fotelefono si può vedere la persona, colla quale si parla, si dovrà anche vedere e leggere un giornale che sia stampato a grandi caratteri, e disposto nella parete opposta a quella cui fanno capo i fili del fotelefono. Introducendo questa grande innovazione nel mio giornale, io potrò sopprimere tutta l’enorme quantità di carta, che oggi si consuma, e cessare le enormi spese postali dell’ invio, bastandomi una sola copia che, per mezzo del fotelefono, potrà essere letta da tutti i miei associati. Sarà la rovina delle cartiere e delle fabbriche di macchine tipograche [sic], ma sarà la fortuna del «S. Francisco-Herald», che per il primo potrà iniziare una così grande riforma». Questa splendida idea di Mac Lear, in apparenza sì semplice, portava una completa rivoluzione nel giornalismo. Infatti i giornali, fino a quel momento, non davano ai loro lettori che le notizie avute prima di andare in macchine [sic], e, per ventiquattro ore, queste notizie rimanevano invariate. Il «S. Francisco-Herald», introdotta questa innovazione, avrebbe potuto variare continuamente le notizie coll’arrivo di nuovi telegrammi, ed i suoi abbonati avrebbero così potuto conoscere, ora per ora, anzi minuto per minuto, tutti gli avvenimenti più notevoli, man mano che si svolgevano sulla superficie terrestre. Era in una parola il perfezionamento ultimo del giornalismo, che si otteneva, e Mac Lear si pose tosto allopera [sic], senza far trapelare ad alcuno la sua idea, persuaso che la sua riforma sarebbe accolta con maggiore stupore se fosse attuata, prima ancora che annunziata. Vendé quindi, per un giorno determinato, tutte le sue macchine rotative, che erano quanto di più perfetto era stato prodotto fino a quel giorno, e disdisse i contratti colle

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cartiere, in mezzo alla meraviglia di tutti, che non sapevano spiegarsi la causa della prossima soppressione, così credevano essi, di un giornale, che tanto era costato e che oggi produceva tesori. Tre mesi dopo tutto era pronto perché l’ardita innovazione potesse ad un tratto essere attuata, ed un bel giorno i duecentocinquantamila associati del «S. Francisco-Herald» furono improvvisamente avvertiti che l’ indomani cessava l’ invio del giornale per la posta, e che, mettendosi in comunicazione, per mezzo di un piccolo apparecchio fornito a tutti gli associati, ad un filo fotelefonico, a qualunque ora del giorno e della notte avrebbero potuto leggere il giornale, l’unica copia del quale stava esposta sulla parete, verso la quale convergevano gli apparecchi del fotelefono. L’ improvvisa riforma, attuata da Mac Lear, mosse a rumore tutto quanto il mondo civile, ed i principali giornali d’Europa e d’America cercarono tosto di imitarla. Ma intanto gli abbonati del «S. Francisco-Herald» crescevano in modo meraviglioso, e quando il «New York Herald», il «World», la «Tribune», ecc., si trovarono in grado di offrire ai loro abbonati gli stessi vantaggi, il «S. Francisco-Herald», benché non tirasse che una sola copia, era già divenuto il più diffuso giornale del mondo. Augurandole che presto la ottima «Domenica del Corriere» possa profittare della nuova invenzione e pubblicarsi col fotelefono come il giornale di Mac Lear, ho l’onore di segnarmi (Pavia, 20 nov.) dev. Ulisse Grifoni Professore di Geografia197.

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È per un genuino e scherzoso entusiasmo o per un subdolo intento che Grifoni ha ribattezzato, al di fuori dell’ambito narrativo, «fotelefono» l’invenzione reale, e ha sostituito al nome dell’inventore Szczepanik quello del personaggio da lui creato, Mac Lear? In ogni caso, la realtà viene così resa, a tutti gli effetti, romanzesca. La missiva dello scrittore, e la sua pubblicazione da parte della «Domenica», sembrano ancora confermare che alla fine non è la percezione del reale a influenzare la finzione, ma viceversa.

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3.4 La vita eccentrica: dal supermercato delle mummie egizie ai portentosi rimedi del Far West

Il bizzarro può annidarsi dappertutto: nella cronaca, nello sport, nella pubblicità, nella vita familiare e, come ci si può aspettare, soprattutto nei racconti. Nella rubrica «Mosaico», curata da tale Nicoletta (una firma che assiduamente comparirà in calce a uno spazio riservato alle signore, «In casa e fuori»), si viene a conoscenza d’un vero e proprio mercato di false mummie, realizzate ad hoc: Mummie artificiali. [in grassetto] – Tutto si falsifica quaggiù: dal vino al colore dorato dei capelli femminili, dalla carta moschicida ai brillanti; ma nessuno avrebbe creduto fino ad oggi che si potessero falsificare anche le mummie. Pure il fatto inverosimile è avvenuto, anzi seguita ad avvenire ogni giorno. Un egittologo ardente quanto privo di scrupoli aveva infatti piantato recentemente una vera e propria officina di mummie al Cairo; costretto ad abbandonarla dall’incomoda curiosità del governo egiziano, egli trasportò adesso le tende in Inghilterra, a Liverpool,

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ove seguita ad esercitare la proficua se non onesta sua industria. Essa è abbastanza semplice: il nostro uomo compera degli scheletri per 100 o 125 franchi l’uno e li ricopre di una composizione di cartapesta somigliante nel colore alla carne umana pietrificata dal lungo corso dei secoli, mettendoli poscia a macerare in una soluzione di bitume fuso. Gli esemplari meglio riusciti vengono invece immersi in alcool canforato, in spirito pirossilico od in altri preparati chimici. Ottenute così le mummie, nulla di più facile che importare a un relativo buon mercato le casse, gli anelli, i braccialetti e gli altri ornamenti atti a completare l’illusione. I migliori clienti del singolare industriale sono i viaggiatori americani, anche perché trattasi forse dell’unico oggetto esente da dazio d’entrata nel loro paese. Essi arrivano a pagare per una mummia completa, cassa a [sic] gioielli compresi, una somma che varia da 3.000 a 12.000 fr[anchi]198.

Non è meno anomalo lo sport del «Polo-Bicicletta», ossia giocare a polo in bicicletta, né lo pseudonimo dietro cui si nasconde l’autore che ne disserta («Io Ciclo»)199. Si sprecheranno, nel corso delle annate successive, le notizie dei più assurdi modelli a due ruote, e dei più incredibili soggetti che le inforchino, di cui un divertente saggio è già offerto sul numero trentaquattro, in Eccentricità velocipedistiche. Dal pietoso al grottesco: un ragguaglio che spazia dal «più grande triciclo» esistente, al «triciclo-tandem destinato a trasportare i ladri in carcere», fino al «più grasso ciclista del mondo»200.

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Un’autentica «curiosità»: una barba di due metri e settantacinque centimetri (n. 13, 2 aprile 1899).

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Fanno categoria a parte «Gli eccentrici della vita», ritratti dalla rubrica omonima, che nella prima annata, quasi timidamente, si limita a presentare il solo caso di Un lord suonatore d’organetto201. Immancabili dunque i fenomeni da baraccone, per qualsivoglia caratteristica fisica, vuoi che si tratti d’Una barba fenomenale oppure de La più vecchia donna del mondo202 (Barnum docet). Come è risaputo, troveranno grande spazio le vicende per nulla amene, anzi spiccatamente fosche e che non sfigurerebbero all’interno della criminosa casistica delle rappresentazioni del Grand Guignol203. Ne è un perfetto esempio La tragedia di Villa Bellocchi, immortalata con un’avvincente copertina: Il lungo martirologio delle vittime del dovere si è accresciuto testé di due nomi: quelli dei carabinieri Mastrantoni e Corsini, uccisi nell’esercizio delle pesanti loro funzioni. La tragedia si svolse la sera del 29 gennaio u.s. [ultimo scorso] nella frazione di Villa Bellocchi presso Fano. Ivi era un festino aperto al pubblico, ed i due carabinieri vi si recavano per l’ordine, allorché in vicinanza del luogo s’incontrarono faccia a faccia con due uomini in maschera reduci appunto dal ballo, i quali intimarono loro di tornare indietro. Credendo trattarsi d’uno scherzo giustificato dai volti e dai grotteschi costumi, i carabinieri fecero per riprendere la via, ma mosso appena qualche passo due colpi di rivoltella, sparati loro dietro la schiena quasi a bruciapelo, stramazzarono il Mastrantoni. Pressoché moribondo questo non si perdé d’animo: tratta la rivoltella sparò a sua volta

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Il lato oscuro del carnevale: La tragedia di Villa Bellocchi secondo Beltrame e, alla pagina seguente, un manifesto per Les Trois Masques di Charles Méré.

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quattro colpi, uno dei quali colpì una delle maschere, certo Tans, un pregiudicato, che cadde ferito. Allora il Corsini inseguì il secondo datosi al largo; poi richiamato dai lamenti del collega spirante tornò in suo aiuto. Visto l’assassino che faceva atto di rilevarsi gli fu sopra: con una mano lo afferrò alla gola mentre con l’altra cercava strappargli la rivoltella che teneva ancora in pugno. Nella colluttazione l’arma scattò ed il bravo Corsini rimase ferito all’inguine così gravemente da spirare due giorni dopo a Fano. Il nostro disegno [in copertina] ritrae appunto la lotta fra il Corsini ed il Tans. L’altra figura è quella del carabiniere Mastrantoni rimasto sul terreno e morto prima che giungessero soccorsi. Durante la notte soldati e carabinieri operarono numerosi arresti di pregiudicati. Indosso al cadavere del Tans venne trovato anche un pugnale204.

Osservando l’illustrazione di Achille Beltrame, si ha la sensazione di non essere troppo distanti dall’immaginario cui attinge Charles Méré (1883-1970) per una pièce dal titolo Les Trois Masques, storia di un’efferata vendetta còrsa perpetrata in tempo di carnevale, dapprima sulla ribalta del parigino Théâtre-Mévisto, dal 26 aprile del 1908 (dove stazionerà per oltre centocinquanta rappresentazioni, per poi approdare al Grand Guignol il 5 dicembre 1931)205. Le sensazioni forti, estreme, suscitano l’istantaneo frisson del pubblico: incontrano allora un indiscusso favore, sulla «Domenica del Corriere», le confessioni di quanti si sono trovati tra la

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vita e la morte, o in stati di alterazione psicofisica. Rientrano in questa categoria i «ricordi di un comico inglese»; tutt’altro che comici, sono un resoconto minuzioso di quanto provato dall’autore nel momento in cui veniva impiccato per sbaglio; oppure la testimonianza di un medico, trasformatosi per abuso in «un cocainomane»206. Con il numero undici, il periodico non ha ancora compiuto tre mesi, e già si affaccia una delle tipologie di catastrofe che ricorreranno maggiormente, riscuotendo una morbosa attenzione: il disastro ferroviario, di cui vengono accentuati gli aspetti più patetici e truculenti: Avvenne pur troppo un massacro. Passato lo sbalordimento del primo momento tutti i viaggiatori rimasti incolumi si diedero a correre qua e là all’impazzata, mentre altri pensavano al salvataggio dei sepolti sotto i frantumi dei carrozzoni. Lo spettacolo offerto dai molti cadaveri dilaniati orribilmente, metteva spavento. I morti sul momento furono trenta, tra cui parecchi ragazzetti trovati coi libri di studio accanto. Taluni fra i morti non furono ancora riconosciuti. Ad oltre settanta sommano i feriti. Non tutti sopravvissero o sopravviveranno alle amputazioni necessarie. […] Il nostro disegno fu eseguito con la scorta di due fotografie istantanee fatte sul posto poco dopo la catastrofe, e gentilmente spediteci207.

Ma il giornale, all’occorrenza, può anche dimenticare presto, 132

Sensazionale quarta di copertina: «Belgio: il disastro ferroviario di Forest» (n. 11, 19 marzo 1899).

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e un contrasto sinistro sorge sul numero successivo, con un articolo che annuncia entusiasta il progetto per la realizzazione di un treno ad altissima velocità, capace di viaggiare fino a duecentoquaranta chilometri orari208. Non solo la strage, però, cattura la curiosità: più che una questione di “numeri” (il body count), è la modalità o, meglio, la “qualità” (il tasso di drammaticità, crudezza e naturalmente fatalità) che rende l’incidente memorabile e perciò degno di essere raccontato. Può prestarsi allo scopo un’imprevedibile caduta da cavallo, specialmente se causa La morte d’un bravo ufficiale, con visibile spargimento di sangue209. Genuinamente bizzarri, e aventi a che fare con animali dal comportamento decisamente insolito, sono i racconti Alle prese coi lupi, sull’altare. Raccapricciante avventura d’un sacrestano, di un non identificato L. H. Eisenmann, e Il Testamento del Naturalista del torinese Carlo Dadone (1864-1931), autore con una chiara predilezione per i soggetti macabri, eccentrici, ma non privo d’ironia 210. Tra gli articoli e i resoconti sono “di casa” quegli episodi che affondano nelle superstizioni e nelle credenze più arcaiche: poco importa che avvengano tra i Reali di Spagna, o tra le più inaccessibili regioni degli indiani d’America. Nel primo caso, si ha a che fare con «Un anello che porta disgrazia»: Finora si è sempre parlato di gioielli porta-fortuna, ma ora, per chi ci crede, è segnalata l’esistenza d’un anello destinato ad attirare sul capo dei proprietarî ogni sorta di disgrazie. Appartiene alla famiglia reale di Spagna, e narrasi che dopo averne in più occasioni esperimentata la fatale virtù, la Corte

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Lupi affamati in chiesa: «…afferrato uno dei pesanti candelabri cominciai a percuotere…» (n. 24, 18 giugno 1899).

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lo abbia finalmente regalato ad una chiesa, nella speranza di neutralizzarne così l’influenza nefasta. Senonché, poco tempo dopo, la chiesa stessa venne distrutta da un incendio e l’anello restituito immediatamente ai regali donatori. I quali adesso lo hanno sepolto in luogo sicuro in attesa d’una definitiva risoluzione sulla sua sorte211.

In verità, di storie di anelli infausti e dagli influssi perturbanti ce ne sono a bizzeffe, basti rammentare la celebre e arcana parentesi dell’anello di Policrate (574-522 a.C.), tiranno di Samo, nel terzo libro delle Storie di Erodoto (484-425 a.C.). Nel secondo caso, i lettori vengono fatti penetrare, per quanto sia concesso, nei misteri della suggestiva «danza dei serpenti» in Arizona: La parte più meravigliosa di quella vastissima, interessante, strana regione stendentesi ad occidente degli Stati Uniti d’America e compresa nell’unica denominazione di Far West, è per universale consenso quella chiamata Arizona e Nuovo Messico. È un paese nel quale la natura sembra siasi compiaciuta di spargere a piene mani tutte le sue più originali creazioni, tutti i contrasti più bizzarri e più imponenti insieme. […]. […] Ogni Pueblo possiede una o più stanze sotterranee dette «estufas» ove si praticano i riti più misteriosi, ed è quasi certo che nessun europeo poté mai assistere a codeste cerimonie, né penetrare i secreti dei sacerdoti e dei così detti sapienti che vi prendono parte[.]

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Alcune di tali cerimonie hanno luogo però all’aria aperta, e tutti possono quindi trovarvisi presenti, qualunque sia la loro fede ed il colore della loro pelle. Ma queste si celebrano solo assai di rado e formano secondo ogni probabilità la parte finale della funzione: una specie di epilogo destinato a persuadere le turbe che le fasi più secrete ed importanti del rito si compirono regolarmente. L’idea fondamentale di tutte queste pratiche religiose, palesi ed occulte, sembra consistere nel desiderio di difendersi contro gli attacchi delle potenze maligne, ciò che avviene per mezzo di certi animali cui si attribuisce una contraria influenza benefica e che portano il nome di «totems». Fra i rappresentanti del male il terribile serpente a sonagli occupa il primo posto negli animali terrestri come l’aquila è considerata il più importante fra gli abitanti dell’aria. Forse soli al mondo i Pueblos furono capaci di addomesticare il re dei pennuti e di farne in pari tempo una divinità paurosa ed un incaricato della pulizia stradale! I Moquis assunsero un compito anche più difficile e vi riuscirono: quello di addomesticare l’altra deità, ben altrimenti formidabile. Essi tengono nascosti in certi locali sacri ed impenetrabili alla folla dei profani un numero rilevante di grossi serpenti a sonagli; anzi una delle più ambite fra le loro cariche è appunto quella di custode di serpenti. Osservando l’illustrazione unita a questo articolo, – la prima fotografia della famosa danza dei serpenti, quale si eseguisce dai Moquis ogni due anni, che siasi mai presa con successo, – si vedrà chiaramente come gl’iniziati maneggino il più pericoloso dei serpenti che infestano il continente americano

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con la stessa sicurezza, la stessa disinvoltura con le quali toccherebbero delle innocenti anguille. Pure non ricorrono agl’incantesimi usati in Oriente né ad altri mezzi speciali atti a rendere innoquo [sic] il terribile rettile. Il professore Bandalier [sic, l’archeologo e antropologo Adolph Bandelier (1840-1914)], un chiaro scienziato incaricato di recente dall’Istituto Archeologico di studiare i costumi e le istituzioni dei Pueblos del sud-ovest, narra nella sua relazione che presso un altro ramo della stessa tribù vive una sacerdotessa chiamata la Madre, il cui compito principale consiste nel custodire uno strano liquido di colore verdastro. Questo sarebbe, secondo lo stesso professore, un rimedio infallibile contro il morso dei serpenti, per quanto il loro veleno sia potente. Purtroppo nessun europeo poté mai né con preghiere, né con minaccie [sic], né a prezzo di ricchissimi doni ottenere una goccia dell’acqua portentosa né impararne il segreto: quel manipolo di gente oscura e mezzo selvaggia conserva solo il monopolio di ciò che potrebbe costituire un inapprezzabile beneficio per tanta parte d’umanità quanta vive nelle regioni tropicali o vi si reca a scopo d’esplorazione212.

Il medicamentoso «liquido di colore verdastro», meglio noto come Snake Oil, ha una certa rilevanza nell’immaginario legato alla Frontiera, in particolare come portento venduto a squarciagola nel corso del cosiddetto Medicine Show da sedicenti dottori (in realtà ciarlatani ambulanti), che in molte pellicole western sembrano essere un’imprescindibile tassello del décor 213.

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3.5 Nero, ma anche… rosa

Veniamo nello specifico alla narrativa, e soprattutto a quella più propriamente nera o fantastica. Un qualche ammicco a certe atmosfere noir compare per la prima volta sul numero cinque, nel racconto drammatico Il cappello di Nannina (laconicamente siglato L. K.)214, ma è un accenno fulmineo (una bimba che provoca la morte della madre malata con un comportamento aggressivo), talmente rapido da dissolversi senza traccia, scivolando anzi nel lieto fine più consueto (non è stato altro che un sogno). Diverso è invece Su l’aia di Antonio Fortina, sul numero trentacinque, breve bozzetto espressionistico d’ambientazione rurale, che a tratti sfiora il surreale e possiede uno scioglimento degno della più raccapricciante pièce granguignolesca: «Ah! Madonna!…» urla la Gazza [soprannome della protagonista Nencia], e, livida, cogli occhi iniettati di sangue e con un balzo da tigre, afferra con selvaggia energia la compagna, la costringe a dare indietro in mezzo alla piattaforma.

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Un grido acutissimo e straziante echeggia nell’aria a cui tien dietro un urlo di terrore… Prima ancora che le vicine avessero badato alla rapidissima scena e avessero avuto campo di opporsi alla furia della belva, la Nencia precipita la rivale nel baratro e già le estremità inferiori, alle prese cogli ingranaggi della macchina [trebbiatrice], non sono più che una massa informe di carne e di sangue mescolata a frantumi di paglia…215

Indubbiamente interessante è la novella Il club dei suicidi, del cui autore si hanno sulla «Domenica» le sole iniziali, A. B.216; il titolo sembra riprendere The Suicide Club (1878) di Robert Louis Stevenson (1850-1894)217, ma il registro stilistico rivela pure qualche sintonia con certa produzione di autori quali Villiers de l’Isle-Adam o Léon Bloy (1846-1917). A Parigi, durante il Terrore, l’inglese Eduardo Tyndall, per capriccio, decide di aderire a un riservatissimo e aristocratico club dei suicidi, presieduto da un vecchio dall’aria elegante e sinistra, e i cui membri appartengono per lo più all’ormai decaduto Ancien Régime. Per essere ammesso, Tyndall deve attraversare un corridoio buio, bendato, per poi ritrovarsi d’improvviso nello sfolgorante sfarzo d’un salone riccamente illuminato (il richiamo ai rituali d’iniziazione massonica non è affatto casuale), dove i soci sono soliti ballare e intrattenersi. Ciclicamente, viene estratto a sorte un fortunato, che ha l’obbligo di togliersi la vita con il metodo che più gli aggrada. Il criterio di selezione tra le varie tipologie di suicidio risulta improntato all’estetismo più estremo e tetro:

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«Che mezzo scegliereste per farla finita con questa miserabile esistenza, caro signore?» disse un’altra voce. «Sapete bene che potete seguire in tutto e per tutto il vostro gusto. Vi sono tanti modi di uccidersi, ma se fossi in voi preferirei il veleno. Dopo tutto non occorre posare ad eroi». «Volete qualche consiglio?» disse il presidente. «Si può morire per annegamento, impiccarsi, tagliarsi le arterie delle braccia, gettarsi dall’alto di Notre-Dame o sotto le ruote d’una carrozza. Sono tutti mezzi infallibili, ma volgarucci, senza eleganza, indegni affatto d’un vero gentiluomo. Se invece prendete una buona dose di oppio, ve ne andrete tranquillamente, correttamente, senza soffrire troppo e senza far chiasso»218.

Anche la ghigliottina è ritenuta uno strumento plebeo, tanto che nell’antitesi tra il suicidio commesso individualmente, secondo modalità raffinate, e l’uniformità delle esecuzioni patibolari, si può ravvisare un’allegoria dello “scontro” tra cultura elitaria (in questo caso piuttosto velleitaria) e produzione seriale, di massa: […] Se qualcuno del volgo si sente il desiderio di morire prima del tempo, può togliersi la vita in cento maniere, per conto suo, o meglio ancora può farsi servire dalla famosa macchina che funziona ogni giorno, da mattina a sera, senza interruzione. Dopo tutto quella è stata una ingegnosa invenzione: peccato che il troppo uso l’abbia resa d’una volgarità veramente deplorevole219.

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La ghigliottina in un disegno di Frank Craig: uno strumento di morte troppo plebeo per gli aristocratici iscritti al Club dei suicidi (n. 40, 8 ottobre 1899).

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Se la regola dell’associazione prescrive che quanti eludono la sorte non possano arbitrariamente togliersi la vita, è altrettanto ferreo il decreto per cui, se un estratto tenta di sfuggire alla morte, viene denunciato seduta stante come realista e in breve destinato alla ghigliottina. Tra gli affiliati vi è anche una bellissima fanciulla, Clotilde di St. Méry, di cui Tyndall presto s’innamora, ricambiato. Da quest’ultima, che ha aderito tutt’altro che liberamente al circolo, apprende che in realtà il sorteggio è truccato; l’anziano presidente, anch’egli invaghito di lei, cerca di eliminare man mano i vari membri, per costringerla infine a scegliere tra il suicidio o il matrimonio. Il racconto si chiude con un duello all’ultimo sangue, e tuttavia leale, tra Tyndall e il presidente. A uscirne vincitore sarà ovviamente il primo che, novello amante della vita, farà ritorno in Inghilterra e si sposerà con Clotilde. Vale assolutamente la pena di precisare la “natura” dell’inserzione pubblicitaria si inserisce – come la lama d’una ghigliottina – esattamente a metà della storia. Di certo la grande réclame, occupante l’intero spazio disponibile, non potrebbe essere più azzeccata: Corone Funebri [più grande, in giallo] – Corone di metallo con fiori di porcellana, decorazioni inalterabili per cappelle, monumenti – Lavori artistici per decorazioni di lapidi, colombari e medaglioni – Splendide novità. Mazzi di fiori, bellissimi, per altari – Propria fabbricazione – Löffler [più grande, in rosso] – Milano – Corso Porta Nuova 9220.

La pubblicità presenta inoltre l’illustrazione di una giovane 143

donna, dalla chioma scomposta e l’aria contrita, nell’atto di adornare un monumento mortuario. Una simile presenza, reagendo con la storia, fa scaturire un irresistibile humour nero, difficile da credere involontario. Con buona probabilità, questo Club dei suicidi (anziché quello di Stevenson) ha ispirato un altro racconto della «Domenica del Corriere»: Lo Sparrow-Club (1902) dell’inventore cagliaritano Augusto Bissiri (1879-1968)221, la cui firma appare sul settimanale fino al 1904. L’ambientazione della novella è strettamente contemporanea (e a Melbourne), ma la struttura è indiscutibilmente analoga222. Sul numero quarantacinque del 1899 si trova Fra due cuori, del toscano Gino Chelazzi (1868-1956)223. Nella trama, Alfredo è il «secondo» del capitano Baldassarre, a bordo del transatlantico Adamastor. Avendo appena sposato la nipote del suo superiore, gli è stato concesso di portare sul piroscafo, assieme alla moglie, anche la vecchia madre, che altrimenti egli può vedere solo raramente. A cena, il capitano espone una «certa sua teoria sugli appetiti contrari e paralleli che, accolta dapprima con sorrisi di maraviglia, [finisce] per produrre una certa impressione nell’uditorio. Secondo questa teoria un affamato avrebbe dovuto morir di fame fra due bistecche che avessero esercitato su lui uguale attrattiva, per non saper quale si scegliere!»224. Una variante dell’asino di Buridano. Alfredo ne rimane alquanto turbato, applic[andola] agli affetti potentissimi che allora lo domin[ano]: quello per la madre, affetto sincero, puro, per riconoscenza, per ammirazione, per impulso di animo gentile e per la voce del

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Una lugubre réclame, abbinata a un racconto altrettanto lugubre (n. 40, 8 ottobre 1899).

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sangue; quello per la moglie, affetto nuovo, potente, imposto dal cuore; – la madre rappresentava per lui le più care memorie del passato; la moglie le più floride speranze dell’avvenire […]: ambidue [sono] per lui ugualmente potenti, ambidue lo domin[ano], lo attir[ano] ugualmente, sebbene in senso diverso225.

Si verifica quindi uno scontro («un cozzo spaventoso, terribile») con il piroscafo Orfeo; la nave inizia ad affondare, e Alfredo riceve dal capitano, risoluto a restare al suo posto, l’ordine di «salvare i [s]uoi». Cercando disperatamente la madre e la sposa, si accorge che l’affollata scialuppa su cui queste hanno cercato scampo si è rovesciata: nel lacerante dilemma su chi sottrarre per prima alle acque, «una voce gli par[e] sentire: “La natura ti impone di salvare prima la moglie”!». Sopravvive la consorte, e la madre soccombe inghiottita dai flutti. Trasportati sull’Orfeo, che pur danneggiato può proseguire la navigazione, Alfredo riceve alcune «cassette salvate ed appartenenti realmente al suo capitano». Esaminandone il contenuto, vi rinviene un carteggio tra il capitano e la sposa, da cui però emerge che quest’ultima ne era l’amante, anziché la nipote: Alfredo si sentì scoppiare dentro il cuore per lo strazio! Per una simile donna aveva lasciato perire sua madre! la sua buona madre che gli avea prodigato tante cure, che mai lo aveva ingannato, che gli aveva dato la vita, che aveva fatto per lui tanti sacrifizi per addurlo, orfano del padre fin da piccolo, fino a tal posizione! Per una simile donna era rimasto sordo al grido di lei: a quel grido di aiuto, di disperazione, di invito! Di invito, sì, perché egli lo sentiva ora distintamente quel

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grido che proveniva dal fondo dell’abisso! Ed era l’abisso che ora l’attirava, lo voleva a sé, accanto a sua madre! […]. E quel delitto egli doveva espiare. Già non avrebbe più avuto la forza di affrontare quella donna. Ucciderla? Un altro delitto ancora: no, non ne sarebbe stato capace. Eppoi era lui la vittima segnata dal destino, e sentiva troppo distintamente la voce della madre che dalla profondità del mare lo chiamava. Ma il togliersi la vita non sarebbe stato forse un altro atto di violenza contro sé stesso e la natura? Eppure egli doveva abbandonare quel legno ove eravi l’essere malefico.

Il finale è più allucinato che tragico: senza che alcuno se ne accorga, su una delle scialuppe dell’Orfeo, decide di rimanere «[s]olo, nell’immensità dell’Oceano», e lì «atte[ndere] il destino»226. Come si può notare, la novella, anche se con esiti molto superficiali, è caratterizzata dal tentativo di conferire uno spessore psicologico al personaggio. Davvero atroce, sul numero successivo, è la vendetta attuata in Sicilia, nei pressi di Palermo, dallo scultore Raffaele Carati227. Questi, da migliore amico del letterato Corrado Rovelli (il narratore protagonista), ne diviene l’acerrimo nemico poiché la bella Concetta Giuliani, da entrambi amata, ha respinto l’uno in favore dell’altro. Carati promette la più truce delle ritorsioni, dopodiché si eclissa per lungo tempo, preso da numerosi viaggi. A distanza di un anno, a pochi giorni dalle nozze di Corrado e Concetta, l’artista ricompare e, simulando di volersi riconciliare, invita l’amico a visionare per primo il capolavoro che sta ultimando, tra le mura di un isolato atelier. Irretito nella trappola, il protagonista scopre che la scultura

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è un perfetto simulacro della sua futura moglie, e si ritrova preda dell’altro, che lo stordisce, deciso a trasformarlo in una macabra opera d’arte: «Ora ti spiegherò, non dubitare», rispose lui [Carati], sogghignando. «Ti ho cangiato in una statua. Senti bene: tu sei immerso fino alle spalle nel gesso di Parigi. Mentre dormivi d’un sonno profondo, letargico, grazie al narcotico che avevo avuto cura di mescolare al vino da te bevuto in onore della tua futura sposa, ti collocai dentro questo piedistallo vuoto preparato apposta per te. Mescolai all’acqua delle due secchie che vedi tutto il gesso contenuto nella vicina vasca e lo versai entro il piedistallo stesso, assieme a te. Naturalmente, quantunque non sia sprovvisto di pratica, tutte queste operazioni richiesero un certo tempo. Sono ormai le quattro del mattino; il gesso s’è già completamente rappreso per modo che non puoi più fare il minimo movimento». Tutto l’orrore della mia posizione disperata mi apparve allora come un lampo; fredde gocce di sudore m’imperlavano la fronte, il cuore mi pareva avesse cessato di battere. «Povero ingenuo, credevi forse che fossi capace di dimenticare?» proseguì il mio tormentatore, implacabile. «Potevi supporre che io, Raffaele Carati, mi dessi rassegnatamente per vinto, che giungessi sul serio a perdonare a colui [sic] che avea distrutto ogni mia speranza di felicità? […] Morrai qui, in faccia all’immagine della fanciulla che adori; morrai d’una morte lenta, atroce, spaventosa. Perché io adesso parto, ti lascio solo, immobile, rigido, impotente: una vera statua di carne… E non sperare nell’impossibile, sai, perché

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ho combinato il mio piano con sapienza. Ho licenziato due giorni fa entrambi i servitori col pretesto che volevo chiudere la casa e partire per un lungo viaggio. Siamo in aperta campagna, lontani da ogni abitazione, da ogni strada battuta. L’isolamento è completo; puoi gridare fino a perder la voce, senza che nessuno ti senta e venga in tuo soccorso. Ho fatto io stesso la prova più volte. In una parola, a meno che un angelo scenda dal cielo a salvarti, morrai qui, solo, di fame e di sete, senza difesa, in mezzo a mille tormenti, disperato». Ero atterrito. «Raffaele, per pietà…» mormorai. Egli m’interruppe, con rinnovata violenza. «Ah domandi pietà! Sarebbe lo stesso che implorarla da Satana in persona. […] Ed ora, con dispiacere, bisogna proprio che ti lasci se non voglio perdere il treno. Addio per sempre, Corrado Rovelli; sii felice con la tua sposa… di marmo!». E quella furia, quel pazzo, – non potrei chiamarlo altrimenti, – assestatomi un pugno sul viso, uscì di corsa. Lo udii sbatacchiare l’uscio ed allontanarsi a gran passi; poi più nulla. Ero solo, disarmato in faccia alla morte228.

A salvarlo interverrà casualmente un paracadutista francese, il quale, per colpa del forte vento, atterra sul tetto e da un lucernario penetra nell’atelier. Un’orribile metamorfosi da vivente a inanimato è al centro pure de La statua nera (The Black Statue: The Story of a Doctor’s Gruesome Discovery, 1899), racconto «incredibile» di Huan Mee, pseudonimo dietro cui si nasconde una coppia di fratelli inglesi, Charles Herbert (1864-?) e Walter Edward Mansfield

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La vendetta di uno scultore pazzo: immobilizzato in un blocco di gesso, in attesa «d’una morte lenta, atroce, spaventosa» (n. 46, 19 novembre 1899, illustrazione presumibilmente di Alfred Pearse).

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(1870-1916)229. Qui, il dottor Hazard – tutt’altro che atipico ritratto del mad scientist – compie «ricerche sulla vita e sulla morte», e ha scoperto «un processo che gli permette di assassinare impunemente i suoi simili e di cangiarli in marmo nero e lucente»230. Cerca di trasformare in statua pure la moglie Beatrice, che è riuscito a sposare con l’inganno, e che lo vuole denunciare per i suoi crimini; da ultimo, però, sarà lui a essere convertito in marmo. Novelle dal soggetto altrettanto straordinario risultano essere la già citata Il mostro del lago Lametrie di Wardon Allan Curtis e Il ragno della Guiana, siglato E. C.; in questo caso, dal titolo e dal testo è facile risalire alla fonte e chiarire l’identità degli autori: si tratta infatti de L’Araignée-Crabe (1860), uno dei più noti racconti fantastici della coppia francese Erckmann-Chatrian, alias Émile Erckmann (1822-1899) e Alexandre Chatrian (1826-1890)231. Senza dubbio, anziché dall’originale, il testo è stato tradotto dall’inglese, da una versione ospitata dallo «Strand» del gennaio 1899, di cui vengono riproposti anche i disegni firmati da Paul Hardy (1862-?); in più, il titolo sulla «Domenica» è un chiaro calco di quello adottato dal magazine britannico, The Spider of Guyana. Oltre a un gigantesco e ributtante ragno antropofago, spicca (ma non per l’epoca…) il ricorso all’ipnotismo, di cui si avvale un medico per interrogare la propria serva “sensitiva” e scoprire così la causa degli inspiegabili decessi232. Decisamente lontano dalla minaccia del nucleare, l’insetto è enorme per sua natura, anziché per le radiazioni di esperimenti scientifici scappati di mano, come più avanti, specie negli anni Cinquanta, ci mostreranno famosi film di fantascienza come Them! (1954) o 151

Tarantula (1955)233, rispettivamente noti in Italia come Assalto alla Terra e Tarantola. Una novella poliziesca, ma dal finale che vira inaspettatamente al fantastico, è La storia del N. 24 (B.24, 1899) di Conan Doyle234. Un detenuto indirizza una lunga lettera a un ispettore carcerario, asserendo di essere effettivamente un ladro, ma estraneo all’omicidio per cui si trova recluso. Terminando la confessione, e invitando l’insigne destinatario a verificare la sua innocenza, l’uomo minaccia di suicidarsi qualora egli non tenga conto delle informazioni ricevute, per tornare a perseguitarlo in veste di spettro: Ma ove anche lei mi abbandonasse come tutti gli altri, faccio in quest’istante solenne giuramento di appiccarmi qui, all’inferriata della mia finestra, di qui ad un mese, giorno per giorno. E da quel momento in poi verrò ogni notte a perseguitarla nel sonno, se pure è permesso ai morti di comparire a questo mondo pel tormento dei vivi235.

Come si è anticipato, «La Domenica del Corriere» costituirà un vero e proprio ricettacolo per le ghost story, ma soprattutto per novelle e articoli imperniati sul fenomeno dello spiritismo (e, per una certa affinità, del mesmerismo e della reincarnazione). Sul numero otto, per esempio, già si ha una dissertazione (para)scientifica sulla telepatia, dall’evocativo titolo Fra le ombre, di cui merita forse riportare un paio di passi: L’invisibile! Il fascino che nello svolgere dei secoli esso ha esercitato sullo spirito dell’uomo e continua ad esercitare è

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Ragni giganti: un’illustrazione di Paul Hardy, sullo «Strand» e sulla «Domenica del Corriere» nel 1899, una copertina di Andrew Brosnatch per «Weird Tales» di giugno 1925 e un’affiche per la pellicola Tarantula (1955).

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assolutamente irresistibile. Sino a ieri relegato fra l’oscurantismo della magia; oggi guadagnando l’attenzione degli scienziati, conserva sempre l’incanto del mistero, dell’inaspettato, dell’inesplicabile. Sinora senza negare i fatti se ne ignoravano le origini; adesso dei fatti stessi si ricerca il movente e se ne ricostruisce la genesi. Ed ecco ciò che gli studiosi delle scienze psichiche credono di poter affermare: L’uomo ha un sesto senso, il telesenso, che è l’organo trasmissore del pensiero a traverso le distanze – fa oggi miracoli tanto nel campo spontaneo che in quello sperimentale. I 702 casi di telepatia raccolti dalla Società per le ricerche psichiche di Londra espongono tutte le infinite meraviglie dell’ipnotismo, delle chiaroveggenze, degli sdoppiamenti che generano le allucinazioni visive ed auditive; ma di questi mi occuperò altra volta. Accennerò oggi solo a quei casi di telepatia spontanea e sperimentale, che sono percepiti dal telesenso meno raffinato. Non per questo mancano d’interesse236.

E più avanti: Il Prof. Jung [Carl Gustav Jung (1875-1961)] dell’Università di Ginevra propone questo metodo per esperimentare la telepatia: – due individui si comunicano fra loro un pensiero e si prefiggono che una terza persona ad una determinata ora percepisca il pensiero stesso. Giunto il momento s’interroga la persona designata domandandole; [sic] «a che pensate?». Il Jung afferma che tale esperimento non sbaglia mai. Provatevi237.

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L’articolo quindi avverte che «[f]ra i casi di telepatia annoverati dalla Società delle ricerche psichiche ve ne ha di quelli che dimostrano come l’azione telepatica continui anche dopo la morte»238, cui segue un breve catalogo d’esempi, che tirano in ballo anche le presunte facoltà di un potente medium. La Società delle ricerche psichiche è ovviamente la Society for Psychical Research. Sul numero undici, poi, ci si può imbattere in una pubblicità dell’editore milanese Ulrico Hoepli (che occupa un terzo d’una pagina, dal basso), tra i cui volumi si concede uno specifico riquadro ai seguenti saggi: Pappalardo A. La telepatia. (Trasmissione del pensiero). Di pag. XVI-330 L. 2,50 – Nella stessa collezione si sono già pubblicati l’anno scorso: Spiritismo (L. 2) dello stesso Armando Pappalardo e Magnetismo ed ipnotismo (L. 3,50) del dott. Giulio Belfiore. Con questi tre libri, piccoli di mole, ma densi di contenuto, ognuno può erudirsi, mettendosi al corrente delle questioni spiritualistiche239.

Si tratta di titoli a lungo ristampati, all’interno della fortunatissima e pressoché inesauribile collana dei «Manuali Hoepli» – che trattavano di tutto, dall’agraria alla filologia – ai quali si aggiungerà, qualche anno dopo, un volume sulla Teosofia240. La Theosophical Society, fondata nel 1875 a New York da Helena Petrovna Blavatsky (1831-1891) e dal colonnello Henry Steel Olcott (1832-1907), aveva per scopo principale lo studio comparato delle religioni, delle filosofie e delle scienze; attraverso una visione apertamente sincretica, gli studi teosofici 155

ripercorrevano i dogmi e le credenze dell’induismo e del cristianesimo, ma anche delle sette e dei culti meno noti e passati, nella convinzione di estrarne una nuova e superiore verità. Il primo Centro di Studi Teosofici italiano, a Milano, risale al 1891; al 1897 quello di Roma: tra gli animatori di quest’ultimo vi era Decio Calvari (1863-?)241. Il gruppo romano allestì una biblioteca circolante e curò la pubblicazione d’una rivista, «Teosofia». Sorsero gruppi teosofici a Palermo, Genova, Firenze, Napoli, Bologna, Torino. Infine, nel 1902, venne ufficialmente riconosciuta una sezione italiana; il primo segretario generale fu il colonnello Oliviero Boggiani (1859-1933), a cui successe Calvari. Dal 1905 fino al 1918 la carica fu ricoperta da Ottone Penzig (1836-1929), docente dell’università di Genova. Nel 1900, in occasione d’un suo breve soggiorno milanese, «La Domenica del Corriere» presentava ai lettori Un’ intervista col colonnello Olcott242. La reincarnazione era all’epoca in auge non solo perché rientrava tra i capisaldi della dottrina teosofica, e perché era avallata da una certa (e folta) branca dello spiritismo, che aveva come riferimento le “rivelazioni” del francese Hippolyte Léon Denizard Rivail (1804-1869), meglio noto sotto il nome di Allan Kardec243; ma anche perché i “seri” (o per lo meno seriosi) esperimenti d’ipnosi condotti da illustri uomini di scienza sui più disparati soggetti parevano gettare ombre inquietanti sulla questione, come si è accennato a proposito di Maeterlinck, testimone dei “viaggi a ritroso” della paziente di De Rochas. È allora in questo contesto che deve essere considerata la novella Metempsicosi? Come e perché divenni erede, edita in due puntate dalla «Domenica del Corriere», e inviata al giornale 156

da Pietro Crespi244. L’intreccio amalgama elementi drammatici e soprannaturali – all’interno del testo la trasmigrazione delle anime sembra accertata – con un finale indubbiamente umoristico: il venticinquenne protagonista, italiano, per ereditare quanto gli è stato lasciato da un ultraottantenne barone boemo, è costretto a dimostrare d’essere davvero la reincarnazione del padre del nobile, tra cavilli legali e risvolti grotteschi. «La Domenica del Corriere» però vuol essere un “apparato” per sognare, e oltre alla narrativa bislacca o orrorosa, e a quella fantastica e criminosa – insomma al di là dell’incubo e dell’adesione al fait divers – non può certo rinunciare al côté puramente fiabesco e meraviglioso, cui appartengono due storie «pei piccoli e pei grandi» di Edith Nesbit (1858-1924), Una invasione di draghi (The Deliverers of Their Country, 1899) e Il libro delle bestie (The Book of Beasts, 1899)245. Narratrice e poetessa inglese, la Nesbit è considerata una delle più importanti scrittrici per ragazzi, e non a caso la ritroveremo sul «Corriere dei Piccoli»246. Escludendo gli pseudonimi, si firmava utilizzando accanto al cognome l’iniziale puntata del proprio nome (E.), per non essere identificata nell’immediato come un autore di sesso femminile. Assai attiva politicamente, assieme al marito Hubert Bland (1855-1914) fu tra i fondatori, nel 1884, della Fabian Society, “prototipo” del futuro Partito Laburista. All’interno della sua produzione, però, non vanno dimenticate anche interessantissime storie dell’orrore. Uno scrittore indifferentemente a suo agio con la comicità, la fiaba e persino il fantastico più tetro, è il genovese Egisto Roggero (1867-1930), di cui il numero quarantanove ospita Il folletto della rosa247. La novella ha per protagonista il «giovane» 157

Creature fiabesche, «pei piccoli e pei grandi»: illustrazioni di Harold Robert Millar per due storie di Edith Nesbit (n. 36, 10 settembre e n. 51, 24 dicembre 1899).

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professor Hermann, fidanzato con la graziosa Margarette, e ha luogo in un’imprecisata «picciola e dotta cittadina alemanna» (potrebbe però trattarsi di Jena, dal momento che nel testo si accenna a «scolari della Burschenschaft»248, l’associazione studentesca dai princìpi liberali e patriottici, ivi fondata il 2 giugno 1815). Hermann trascorre buona parte del tempo, incluse le nottate, nello studio e nella compulsazione di «libracci preziosi» e «predilette cartacce». Siamo nel mese di maggio, quando la primavera si fa sentire prepotentemente, e persino il professore «non isdegn[a] assaporare il profumo gentile di poesia delle cose belle e viventi». L’anziana e «buona» Agnese, «la padrona di casa», ha lasciato una «bellissima rosa» sulla scrivania dello studioso, in una caraffa. Osservandola, il professore si accorge che il fiore è abitato da un insetto: solito a ricercar fra le muffose pagine dei codici le fonti di un’altra vita, scoperse ben tosto, su le ardenti corolle della rosa, celato nel suo seno, un altro piccolo essere che sino allora si era tenuto nascosto. Era un piccolo coleottero, uno scarabeo dal dorso lucente di smeraldo, che il giovane professore con la punta della penna si affrettò a stanare dal profumato suo ricovero. L’insetto, sgomento, così brutalmente turbato da quel freddo contatto, si dètte, con le esili zampette ad una corsa disperata su e giù pel suo olezzante rifugio, finché si arrestò ansante sur un rilievo del calice, e di là sporgendo la testina arguta fissò il professore con i piccoli occhi scintillanti, quasi a chiedergli: «Ma che ti ho fatto io dunque?».

Poco dopo l’insetto finisce nell’acqua, e lo studioso lo salva 159

dall’annegamento. Si verifica allora un fatto prodigioso: Ma oh, maraviglia!… Appena in salvo, sulla rosa, il coleottero, rizzatosi sulle zampette e fissandogli in volto gli occhietti scintillanti, prese a parlare… Hermann lo guardò sgomentato. Ma l’animaluccio, con una vocina di vecchietto raffreddato, così parlò: «Non aver paura, amico mio, di me; tu vedi come sono piccino: anche volendolo non potrei farti alcun male. Invece posso esserti utile, se tu lo vorrai. Io sono un piccioletto spirito, condannato a vagare da una rosa all’altra, per mille anni ancora… Tu mi hai salvato dalla morte: io vo’ dunque ricompensarti. Chiedi e otterrai da me quel che desideri». Hermann avevo [sic] spesso letto ne’ suoi libracci qualcosa di somigliante. Perciò non si meravigliò troppo e dopo aver alquanto pensato disse: «Dammi il mezzo, se puoi, di sapere, in qualunque momento, in qualunque ora del giorno, ciò che fa Margarette, la mia fidanzata». Il coleottero rise alquanto, alla sua maniera, poi mormorò in tono piuttosto ironico: «Un sapiente come te non dovrebbe chiedermi una tal cosa!… Ma via: voglio contentarti. Guarda in questa caraffa pensando alla tua Margarette: e la vedrai, sul momento, come si trova, e saprai ciò che fa»249.

Da provetto voyeur, il giovane spia attraverso la caraffa la fanciulla, e con sconcerto la coglie in atteggiamenti compromettenti con due uomini, nella propria casa. La fiducia tradita 160

e la folle gelosia si scioglieranno però in un grande equivoco: i due sconosciuti non sono altro che lo zio e il fratello della ragazza, rispettivamente «ambasciatore in Italia e […] suo attaché militare, arrivati» la mattina stessa «dopo cinque anni di esilio diplomatico a Roma, per rivedere la nipote e la sorellina in occasione delle sue fauste prossime nozze»250. Ma anche questa rivelazione, come tutto il resto, svaporano presto: tutto quanto è stato un sogno del professore, che non può far altro che rimproverarsi d’essere un «cattivo geloso»251. Nel corso della sua carriera letteraria, Roggero s’interessò di narrativa, poesia, teatro, musica e saggistica, inclusa la divulgazione scientifica. L’esordio avvenne nel 1893, con la pubblicazione del volume di versi San Rocchino, per i tipi dell’editore milanese Galli. Collaborò alla «Cronaca Rosa», all’«Illustrazione italiana», alla «Gazzetta del Popolo», ai «Libri del Giorno», all’«Illustrazione del Popolo», alla «Lettura» e naturalmente alla «Domenica del Corriere», sulle cui pagine Il folletto della rosa segna per l’appunto la prima apparizione. Tra il 1899 e il 1900 comparve sul settimanale con altri cinque racconti. Le sei narrazioni confluirono nel 1901 nella raccolta Racconti meravigliosi252, che l’autore volle dedicare «alle grandi anime di Edgardo Poe, di Charles Baudelaire e Guy de Maupassant», in qualità di «inarrivabili maestri». Nel 1900 intanto aveva dato alle stampe Romanzo in una goccia d’azzurro253, e nei primi sei numeri del «Secolo XX» dei fratelli Treves, nel 1902, uscì a puntate Komokokis254, romanzo di utopia e pessimismo, nel quale la pace può essere raggiunta soltanto in una sconosciuta realtà sotterranea, i cui abitanti sono votati al culto dell’eterna giovinezza (il prezzo della scoperta, però, è molto alto, ossia l’impossibilità del ritorno)255. 161

Cronache delle curiosità, della bizzarria, dell’orrido e del portentoso; narrativa avventurosa, di anticipazione scientifica, all’insegna della suspense, della paura, del raccapriccio, dello stupore; esempi ora pietosi di virtù, ora di spietata bestialità: una casistica variopinta e multiforme, cangiante dal rosa al nero, per una sola e ben forgiata “macchina” dell’editoria. E già il primo anno di vita, questo 1899, lo si può ben definire, prendendo a prestito l’aggettivo di Meneghello, un’annata «incomparabile».

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Note

1. Nihil novi sub sole: dal romance al novel e ritorno… novecentesco

1

Per un profilo storico del quotidiano milanese e del suo più rilevante direttore cfr. Glauco Licata, Storia del Corriere della Sera, prefazione di Giuseppe Are, Milano, Rizzoli, 1976, e Ottavio Barié, Luigi Albertini, Torino, Utet, 1972.

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Pur subendo dei cambiamenti – a livello di rubriche, collaboratori ecc. – «La Domenica del Corriere» si mantiene sostanzialmente inalterata nel taglio e nella struttura fino al 22 aprile 1945. Con la trasformazione per ordine del CLN del «Corriere della Sera» in «Corriere d’Informazione», il supplemento assume come titolo «La Domenica degli Italiani» dal 27 maggio dello stesso anno fino al 31 marzo 1946, allorché riprende il nome originale, con il quale resterà nelle edicole fino al 12 ottobre 1989.

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«L’Illustrazione italiana» fu inaugurata e diretta da Emilio Treves (1834-1916) il 14 dicembre 1873, come «La nuova illustrazione universale»; l’anno seguente divenne «L’illustrazione universale», per

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acquistare infine, nel 1875, il titolo definitivo. «La Tribuna illustrata» uscì a partire dal 6 gennaio 1890, sotto la direzione di Vincenzo Morello (1860-1933), che utilizzava lo pseudonimo di Rastignac. Sulla figura di quest’ultimo cfr. Lina Anzalone, Storia di Rastignac. Un calabrese protagonista e testimone del suo tempo, prefazione di Domenico Nunnari, Soveria Mannelli (Catanzaro), Rubbettino, 2005. Dal 1893, il periodico opta per una cadenza mensile, affiancando però un «Supplemento illustrato della Domenica», a cui subentra, tra il 1897 e il 1901, «La Tribuna illustrata della Domenica» (assorbendo pure «La Tribuna illustrata»). Nel 1902, quindi, riacquista il nome di «Tribuna illustrata». 4

Si veda l’anonimo trafiletto senza titolo, in alto a sinistra della p. 2, sul n. 35 (2 settembre 1900), dove si legge: «Siamo dolenti di dover ripetere che del num. 32 l’edizione è completamente esaurita, e poche altre copie sono disponibili del num. 33. Né la colpa fu nostra: noi non siamo stati imprevidenti, tanto è vero – e la notizia farà piacere agli assidui della “Domenica del Corriere” – che degli ultimi numeri, come di questo, la tiratura, facilmente controllabile da chiunque, è salita a 140.000 esemplari».

5

Una mostra a cura di Giovanna Ginex, dal titolo La Domenica del Corriere. Il Novecento illustrato, si è tenuta dal 22 novembre 2007 al 3 febbraio 2008 nel capoluogo lombardo, a Palazzo Reale, promossa dal Comune di Milano e dalla Fondazione Corriere della Sera. Sono state esposte 370 illustrazioni originali, capaci di ripercorrere il XX secolo e soprattutto di restituirne l’immaginario. L’omonimo catalogo è pubblicato dalla milanese Skira (2007).

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A riguardo, cfr. Franca Mariani Ciampicacigli, «Realtà romanzesca» nella «Domenica del Corriere» (1922-1941), Ravenna, Longo, 1976. Narratore d’avventura, Gianella ebbe l’onore e l’onere di portare a compimento le Straordinarie avventure di Testa di Pietra, romanzo lasciato incompiuto dal suicida Emilio Salgari (1862-1911), edito dalla fiorentina Bemporad nel 1915. Mosse i primi passi sulle pagine di «Per terra e per mare» (1904-1906), settimanale di avventure e viaggi fondato dallo stesso Salgari, e che fu un fervido laboratorio per i nuovi autori italiani e le varie correnti della letteratura di genere (poliziesco, fantastico, fantascientifico…). Si vedano in proposito Emma Giammattei, Il sistema dell’avventura e il settimanale di viaggi, in Scrivere l’avventura: Emilio Salgari, Atti del Convegno Nazionale (Torino, marzo 1980), introduzione di Angelo Jacomuzzi, Quaderni dell’Assessorato per la Cultura, Torino, s.d. [ma 1981], pp. 275-306 (in particolare pp. 294-306); Claudio Gallo, Le avventure immaginarie di Emilio Salgari, in Emilio Salgari, Per terra e per mare. Avventure immaginarie, Torino, Aragno, 2004, pp. 7-28 (il volume contiene in appendice una Bibliografia di Per terra e per mare (1904-1906 ) redatta da Vittoriano Bellati e Claudio Gallo, alle pp. 297-315); Fabrizio Foni, Alla fiera dei mostri. Racconti pulp, orrori e arcane fantasticherie nelle riviste italiane 1899-1932, prefazione di Luca Crovi, postfazione di Claudio Gallo, Latina, Tunué, 2007, pp. 103-117.

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Luigi Meneghello, Opere scelte, a cura di Francesca Caputo, progetto editoriale e introduzione di Giulio Lepschy, con uno scritto di Domenico Starnone, Milano, Arnoldo Mondadori, 2006, pp. 10201021. A proposito della S. utilizzata dall’autore, commenta Starnone: «Meneghello è un cultore rigoroso della realtà dei fatti, delle

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cose come veramente sono o sono state. L’io narrante che l’autore mette in scena è smaccatamente autobiografico, come del resto lo è la terza persona (S.: il Soggetto, lo Scholar, lo Studente)» (Il nocciolo solare dell’esperienza, ivi, p. XXX). La raccolta Jura compare nel 1987 per i «Saggi blu» della milanese Garzanti. Il passo citato però è già presente in un articolo pubblicato sul quotidiano «La Stampa» (8 marzo 1978), con il titolo Cari fantasmi (in volume, poi: La fauna dei fantasmi). 8

Ivi, p. 1021.

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La prima apparizione è sul numero di settembre 1902 dell’«Harper’s Magazine».

10 W.W. Jacobs, La mano di scimmia, «La Domenica del Corriere», n. 25, 18 giugno 1905, nella traduzione di A. Rovito-Bresciano. 11 Italo Calvino, Definizioni di territori: il fantastico, in Id., Saggi 19451985, a cura di Mario Barenghi, Milano, Arnoldo Mondadori, 2001 (prima edizione: 1995), t. I, p. 266. In origine, il testo compare in lingua francese su «Le Monde» del 15 agosto 1970, per soddisfare alcune domande rivolte a Calvino in occasione della pubblicazione dell’imprescindibile saggio di Tzvetan Todorov, Introduction à la littérature fantastique, Paris, Éditions du Seuil, 1970 (trad. it. La letteratura fantastica, Milano, Garzanti, 1977). Nel 1980, l’intervista viene raccolta da Calvino in Una pietra sopra. Discorsi di letteratura e società, Torino, Einaudi, 1980. 12 Id., Il fantastico nella letteratura italiana, in Id., Saggi 1945-1985, cit.,

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t. II, p. 1679. Originariamente il testo della relazione, in spagnolo, viene raccolto nella miscellanea Literatura fantástica (Madrid, Siruela, 1985), al cui interno è presente anche un Coloquio con Jorge Luis Borges. In italiano, l’intervento è in parte proposto da «la Repubblica» (30 settembre – 1° ottobre 1984) con il titolo I libri delle meraviglie. 13 Id., Definizioni di territori: il fantastico, cit., p. 267. 14 Cfr. Id., Il fantastico nella letteratura italiana, cit., p. 1680. Come felice eccezione ottocentesca, che «a Poe sarebbe certamente piaciuta» (ivi, p. 1682), Calvino ricorda il Carlo Collodi (1826-1890) di Pinocchio (1881-1883). 15 In proposito rimando a Fabrizio Foni, Alla fiera dei mostri, cit., pp. 3-18 (Quale fantastico?) e alla postfazione di Fabrizio Foni – Claudio Gallo (a cura di), Ottocento nero italiano. Narrativa fantastica e crudele, introduzione di Luca Crovi, Torino, Aragno, 2009 (Il riflesso perduto. Sulle orme del fantastico popolare italiano, pp. 517-539). Per un recente bilancio sulla critica cfr. Stefano Lazzarin, Il punto sul fantastico italiano: 1980-2007, «Moderna», n. 2, 2007, pp. 215-252. 16 Che Calvino avesse ben presenti i “meccanismi” di rappresentazione (non solo iconografica) dei fait divers più truculenti e sensazionali da parte della «Domenica del Corriere», lo si evince da un articolo scritto per «la Repubblica» (28 gennaio 1983), Visita alle locande insanguinate, successivamente in Collezione di sabbia (Milano, Garzanti, 1984), con il titolo Le meraviglie della cronaca nera. Calvino si riferisce principalmente a periodici popolari francesi, e soprattutto al «Petit Journal», che però «sarà il modello della “Domenica del Corriere” (con una

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trentina d’anni d’anticipo: il “Petit Journal” comincia nel 1863, la “Domenica” nel 1899)». Cito da Italo Calvino, Saggi 1945-1985, cit., t. I, p. 455. È impensabile che Calvino, anche solo sfogliando qualche annata del periodo 1899-1945, non abbia notato i romanzi e i racconti di volta in volta pubblicati. In più, lo scrittore “ritorna” sul settimanale per «parlare […] di ritratti e fotografie [di Benito Mussolini] viste da me durante il ventennio» e, per quanto riguarda i «giornali illustrati», rammenta che ce n’erano «essenzialmente due: la popolarissima “Domenica del Corriere” e “L’Illustrazione Italiana”, quindicinale in carta patinata, per un pubblico più altolocato»; e poi: «Un’estate [Mussolini] assistette alle Grandi Manovre con un berretto bianco da yacht man, calzoni e stivali da cavallerizzo e una giacca credo celeste. (Quello che ricordo è probabilmente una tavola a colori di Beltrame sulla “Domenica del Corriere” […])» (da I ritratti del Duce, ivi, t. II, pp. 2880 e 2887 – testo, precisa il curatore Barenghi, la cui stesura risale ai giorni 21-25 febbraio 1983). 17 Per quest’ultimo intervento, cfr. la sezione B (I discorsi approssimativi) delle Note sul linguaggio politico, dapprima raccolte in Una pietra sopra, cit., ora ivi, t. I, pp. 376-380 («La Domenica del Corriere» è nominata a p. 376). La testimonianza (il cui titolo, informa Mario Barenghi, è redazionale) compare su un numero della «Domenica» che celebra il trentennale della Liberazione (1° maggio 1975), e anch’essa è reperibile con il titolo originale (Il mio 25 aprile 1945) in Saggi 19451985, cit., t. II, pp. 2810-2813. 18 Faccio naturalmente riferimento ai due volumi di Notturno italiano: il primo, Racconti fantastici dell’Ottocento, a cura di Enrico Ghidetti; il secondo, Racconti fantastici del Novecento, a cura di Id. e di Leonardo

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Lattarulo, pubblicati nel 1984 dagli Editori Riuniti di Roma. L’antologia fu nell’immediato recensita, favorevolmente, da Calvino (cfr. Benvenuti fantasmi, «la Repubblica», 30-31 dicembre 1984, ora in Saggi 1945-1985, cit., t. II, pp. 1689-1695, con il titolo Un’antologia di racconti «neri»). 19 Enrico Ghidetti – Leonardo Lattarulo, Prefazione, in Id. (a cura di), Notturno italiano, cit., p. VIII. A dimostrazione di come una tale concezione sia radicata e vada ancora per la maggiore, soprattutto in ambito accademico, basterà dare un’occhiata al recentissimo Fantastico italiano. Racconti fantastici dell’Ottocento e del primo Novecento italiano (Milano, BUR-Rizzoli, 2009), corposa antologia di oltre seicento pagine a cura di Costanza Melani, dottore di ricerca in Letteratura Italiana dell’ateneo fiorentino, nonché allieva dello stesso Ghidetti. In particolare, nella premessa alla sezione primonovecentesca (Malinconicamente, ironicamente, fantastico, ivi, pp. 557644), la curatrice non solo cita Ghidetti e Lattarulo, ma addirittura li parafrasa: anche dopo l’Ottocento, avverte la Melani, «il racconto fantastico avrà vita difficile», e «[a] complicare ulteriormente le cose […] sarà, nel Novecento italiano, la perenne instabilità morfologica del racconto fantastico che, sotto le spinte avanguardistiche ed eversive della commistione dei generi, porterà, molto spesso, a un’ibridazione del fantastico con la fiaba, l’allegoria, l’apologo, il surreale: molti degli scrittori di questo secolo, infatti, si allontaneranno dal fantastico visionario e simbolico dell’inconscio collettivo, per scrivere racconti virtuosisticamente intellettuali e, tutto sommato, anche poco angosciosi. In Italia non ci sarà spazio per un Lovecraft o per un Matheson e gli autori che più si avvicinano al fantastico come lo abbiamo inteso rappresentare in quest’antologia si contano

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sulle dita di una mano» (ivi, p. 560). La sezione Nero, sempre più nero (ivi, pp. 417-556) si chiude con Il vampiro di Giuseppe Tonsi (pp. 545-556), di cui la Melani sembra ignorare la prima comparsa sulla «Domenica del Corriere» del 2 novembre 1902 (n. 44, pp. 10-12, con il soprattitolo «Racconto incredibile»), segnalando soltanto il volume eponimo in cui il testo viene raccolto due anni dopo (Il vampiro. Racconti incredibili, Catania, Niccolò Giannotta, 1904). Dettaglio sfuggito anche a Lattarulo, che ha precedentemente inserito il racconto in un’antologia da lui curata (Il vero e la sua ombra. Racconti fantastici dal Romanticismo al Primo Novecento, Roma, Quiritta, 2000, pp. 227-238). Si tratta di un’omissione che è sintomatica di come il disinteresse gravi sulla narrativa della «Domenica del Corriere». Dal momento che né Lattarulo né la Melani propongono un profilo dello scrittore, vale forse la pena di riportare alcuni brevi cenni biografici. Giuseppe Tonsi nasce il 18 aprile 1866 a Fuipiano al Brembo, una frazione del comune di San Giovanni Bianco (Bergamo). Il 3 aprile 1885 prende servizio presso la succursale della Banca Nazionale a Bergamo come «aspirante al volontariato»; risulta quindi «volontario» presso il medesimo istituto dal 22 dicembre dello stesso anno, e il 14 aprile dell’anno seguente è assunto come «applicato di 4a classe». Nel novembre del 1886 viene collocato in aspettativa per svolgere il servizio militare. Rientrato alla banca dopo diciotto mesi, intraprende una lunga carriera che gli impone continui trasferimenti da un capo all’altro del Paese: nel 1889 è a Benevento, in seguito a Roma, a Potenza, Foggia, Sassari, Catania, Napoli, Monteleone Calabro (dove è chiamato come capo dell’agenzia) e poi Siracusa (dove assume le funzioni di direttore). Il 27 agosto 1906 approda a Cremona, sempre come direttore, e qui si trattiene fino al 3 settembre 1917, quando torna finalmente ai

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luoghi d’origine, alla direzione della succursale bergamasca. In pensione dal 1° settembre 1919, muore il 6 aprile 1930. Per queste informazioni ringrazio sentitamente Isabella Cerioni e Patrizia Pagliano della Divisione Biblioteca e Archivio Storico della Banca d’Italia, e Annamaria Santinelli della Divisione Servizi Demografici ed Elettorale del Comune di Bergamo. 20 Il «Giornale illustrato dei viaggi e delle avventure di terra e di mare» era uscito in Italia dal 5 settembre 1878 per i tipi del milanese Edoardo Sonzogno (1836-1920), che aveva rilevato i diritti del francese «Journal des Voyages et des Aventures de Terre et de Mer», nato l’anno precedente. Oltre al titolo, il settimanale nostrano riprendeva dal modello estero i resoconti di viaggio su cui avrebbe fondato la prima serie, esauritasi con la fine del 1891. Dall’estate del 1896 partiva la seconda serie, che propose a puntate romanzi avventurosi di autori francesi quali Louis Boussenard (1847-1910) e Alfred Assollant (18271886). Nel dicembre 1910, tuttavia, la rivista si arenava nuovamente, per risorgere nel 1913 sotto la direzione di Guglielmo Stocco, con una formula che ebbe un certo successo, e cioè far convivere le narrazioni di genere italiane con quelle straniere. Infine, nell’aprile del 1931, la rivista sarebbe confluita ne «Il Mondo», altro periodico Sonzogno, che fino al 1937 avrebbe mantenuto il sottotitolo di «Giornale illustrato dei viaggi». Per la medesima casa editrice, «Il Romanzo d’Avventure» fece la sua prima comparsa nel giugno del 1924, offrendo ai lettori The Time Machine (1895) di Herbert George Wells (18661946), e «L’Avventura. Settimanale dei più drammatici racconti del mondo» cominciò le uscite dal 3 maggio del 1928, con La pantera dagli occhi di smeraldo dello sconosciuto Riccardo Portos, e – bizzarro accostamento – una prima puntata dei Gulliver’s Travels (1726 e 1735)

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di Jonathan Swift (1667-1745). Su queste e altre riviste coeve rinvio a Fabrizio Foni, Alla fiera dei mostri, cit. 21 Per un profilo storico dei comics editi in Italia rammento qui due studi: Claudio Gallo – Giuseppe Bonomi, Tutto cominciò con Bilbolbul… Per una storia del fumetto italiano, Zevio (Verona), Perosini, 2006 e Luca Boschi, Irripetibili. Le grandi stagioni del fumetto italiano, Roma, Coniglio, 2007 (mentre il primo tenta una ricostruzione complessiva, fin dalle origini, il secondo muove a partire dagli anni Sessanta). Ma si vedano pure gli interventi raccolti in Sergio Brancato (a cura di), Il secolo del fumetto. Lo spettacolo a strisce nella società italiana 19082008, Latina, Tunué, 2008. 22 Franco Moretti, La letteratura vista da lontano, con un saggio di Alberto Piazza, Torino, Einaudi, 2005, p. 22. 23 Ivi, p. 23. 24 Ivi, pp. 23 e 26. 25 Anonimo, «Piccola posta», «La Domenica del Corriere», n. 25, 25 giugno 1899, p. 9. Riporto integralmente il breve testo della risposta: «A. L., Vercelli. – Non è adatto perché troppo semplice ed [i] lettori hanno bisogno di sale, di droghe, di eccitanti». 26 Si noti la sintonia con il titolo d’un volume a cura di Antonia Arslan Veronese, Dame, droga e galline. Romanzo popolare e romanzo di consumo tra 800 e 900 (Padova, Cleup, 1977 e Milano, Unicopli, 1986). I saggi ivi contenuti, tuttavia, si concentrano sulla narrativa

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di Carolina Invernizio (in particolare Il bacio di una morta – prima edizione: Firenze, Salani, 1886), Luciano Zuccoli (La divina fanciulla – prima edizione: Milano, Treves, 1920), e Annie Vivanti (Naja Tripudians – prima edizione: Firenze, Bemporad, 1920). 27 Jean-Paul Sartre, Les mots, Paris, Gallimard, 1964 (trad. it. Le parole, Milano, Il Saggiatore, 1964, pp. 53-54). Nell’originale francese: «Au cours d’une de nos promenades, Anne-Marie [la mère] s’arrêta comme par hasard devant le kiosque qui se trouve encore à l’angle du boulevard Saint-Michel et de la rue Soufflot [à Meudon]: je vis des images merveilleuses, leurs couleurs criardes me fascinèrent, je les réclamai, je les obtins; le tour était joué: je voulus avoir toutes les semaines Cri-Cri, l’Épatant, Les Vacances, Les Trois Boys-Scouts [sic] de Jean de la Hire et Le Tour du monde en aéroplane, d’Arnould Galopin qui paraissaient en fascicules le jeudi. D’un jeudi à l’autre je pensais à l’Aigle des Andes, à Marcel Dunot, le boxeur aux poings de fer, à Christian l’aviateur beaucoup plus qu’à mes amis Rabelais et Vigny. Ma mère se mit en quête d’ouvrages qui me rendissent à mon enfance: il y eut «les petits livres roses» d’abord, recueils mensuels de contes de fées puis, peu à peu, Les Enfants du capitaine Grant, Le Dernier des Mohicans, Nicolas Nickleby, Les Cinq Sous de Lavarède. A Jules Verne, trop pondéré, je préférai les extravagances de Paul d’Ivoi. Mais, quel que fût l’auteur, j’adorais les ouvrages de la collection Hetzel, petits théâtres dont la couverture rouge à glands d’or figurait le rideau: la poussière de soleil, sur les tranches, c’était la rampe. Je dois à ces boîtes magiques – et non aux phrases balancées de Chateaubriand – mes premières rencontres avec la Beauté. Quand je les ouvrais j’oubliais tout: était-ce lire? Non, mais mourir d’extase: de mon abolition naissaient aussitôt des indigènes munis de sagaies, la brousse, un explorateur

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casqué de blanc. J’étais vision, j’inondais de lumière les belles joues sombres d’Aouda, les favoris de Philéas Fogg. Délivrée d’elle-même enfin, la petite merveille se laissait devenir pur émerveillement. A cinquante centimètres du plancher naissait un bonheur sans maître ni collier, parfait. Le Nouveau Monde semblait d’abord plus inquiétant que l’Ancien: on y pillait, on y tuait; le sang coulait à flots. Des Indiens, des Hindous, des Mohicans, des Hottentots ravissaient la jeune fille, ligotaient son vieux père et se promettaient de le faire périr dans les plus atroces supplices» (dall’edizione Paris, Gallimard, 2007, pp. 61-63). 28 Per un indice completo della testata, cfr. Elisabetta Camerlo, La Lettura 1901-1945. Storia e indici, Bologna, Clueb, 1992. Si veda inoltre Elena Morandi, «La Lettura» (1901-1952), «Otto/Novecento», n. 6, novembre/dicembre 1995, pp. 193-211. La rivista è pure consultabile attraverso l’emeroteca digitale della Biblioteca Nazionale Braidense, installando un apposito plug-in reperibile sullo stesso sito (emeroteca. braidense.it, ultima visita: 22 settembre 2009). 29 Sfortunatamente, «Per terra e per mare» non segnala il giorno o il mese di uscita; ogni numero riporta l’indicazione del numero, dell’anno (entrambi con cifre arabe), e dell’annata (in numeri romani), ad esempio: n.1, 1904, anno I. A complemento del titolo, la rivista recava «Giornale di avventure e di viaggi diretto dal Capitano Cavaliere Emilio Salgari», poi mutato, dal n. 19, in «Avventure e viaggi illustrati. Scienza popolare e letture amene. Giornale per tutti diretto dal Cap. Cav. Emilio Salgari». Per alcuni riferimenti bibliografici, si veda la nota 6.

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30 Il racconto I selvaggi della Papuasia apparve dal 26 luglio al 16 agosto 1883, recando le iniziali dell’autore (S.E.) solo alla fine dell’ultima puntata. Reperibile in Emilio Salgari, Tutti i racconti e le novelle di avventure, Milano, Mursia, 1977 (pp. 11-18) e in Id., Gli antropofaghi del mare del corallo, a cura di Felice Pozzo, Milano, Arnoldo Mondadori, 1995 (pp. 21-34). A proposito degli elementi fantastico-orrorifici presenti nella narrativa dello scrittore veronese cfr. Emma Giammattei, op. cit., pp. 275-306; Roberto Fioraso, L’ horror positivista di Emilio Salgari, in «Yorick Speciale», n. 23 bis (L’ horror fra cinema e letteratura. Dai precursori italiani a H. P. Lovecraft), 1998, pp. 17-31; Id., Salgari e Poe, in Roberto Cagliero (a cura di), Fantastico Poe, Verona, Ombre corte, 2004, pp. 177-187; Fabrizio Foni, Romanzo febbrile, anzi un po’ “ frenetico”: Il bramino dell’Assam (1911) tra ipnosi, sotterranei e misteri, in Luciano Curreri – Fabrizio Foni (a cura di), Un po’ prima della fine? Ultimi romanzi di Salgari tra novità e ripetizione (1908-1915), Roma, Luca Sossella, 2009, pp. 124-136. 31 Anonimo, «Piccola posta», «La Domenica del Corriere», n. 2, 15 gennaio 1899, p. 9. 32 Alexis de Tocqueville, De la démocratie en Amérique, 2 voll., Paris, Librairie de Charles Gosselin, 1835-1840 (trad. it. La democrazia in America, Torino, Unione Tipografico-Editrice, 1884, p. 475 – L’opera occupa il t. II del vol. I all’interno della Scelta collezione delle più importanti opere moderne italiane e straniere di scienze politiche, diretta da Attilio Brunialti per la Utet, per un totale di 8 voll. pubblicati tra il 1884 e il 1892). Nell’originale francese: «Le style s’y montrera souvent bizarre, incorrect, surchargé et mou, et presque toujours hardi et véhément. Les auteurs y viseront à la rapidité de l’exécution

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plus qu’à la perfection des détails. Les petits écrits y seront plus fréquents que les gros livres, l’esprit que l’érudition, l’imagination que la profondeur; il y régnera une force inculte et presque sauvage dans la pensée, et souvent une variété très grande et une fécondité singulière dans ses produits. On tâchera d’étonner plutôt que de plaire, et l’on s’efforcera d’entraîner les passions plus que de charmer le goût» (dall’edizione Paris, Flammarion, 2008, présentation par Roger-Pol Droit, pp. 692-693). 33 Franco Moretti, La letteratura vista da lontano, cit., pp. 30-31. 34 Alberto Abruzzese, La grande scimmia. Mostri vampiri automi mutanti. L’ immaginario collettivo dalla letteratura al cinema e all’ informazione, Roma, Luca Sossella, pp. 166-167 (prima edizione: Roma, Roberto Napoleone, 1979). Ad essere precisi, la citazione non è riferita al fumetto (che pure viene trattato dall’autore), bensì al cinema, e nello specifico alla celebre pellicola statunitense King Kong (1933), ideata e diretta da Ernest B. Schoedsack e Merian C. Cooper per la RKO. Nondimeno mi pare che l’analisi calzi a pennello per il linguaggio dei comics. 35 Stando ad alcune fonti «L’Avventuroso», settimanale della fiorentina Nerbini dedicato alle nuvole parlanti, raggiunse tirature di cinquecentomila copie addirittura. Cfr. ad esempio Claudio Gallo – Giuseppe Bonomi, Tutto cominciò con Bilbolbul…, cit., p. 62. 36 Luigi Meneghello, Opere scelte, cit., p. 1019. 37 Per uno studio che affronta il tema su più versanti, dal mito all’antica

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storiografia, fino alla biologia marina (senza dimenticare i prodotti della cultura di massa – tra cui, ovviamente, narrativa e cinema), cfr. Richard Ellis, Monsters of the Sea: The History, Natural History, and Mythology of the Oceans’ most Fantastic Creatures, New York, Alfred A. Knopf, 1994 (trad. it. Mostri del mare. Serpenti marini, manati, globster, calamari giganti, piovre, squali, balene e altre creature degli abissi, Casale Monferrato [Alessandria], Piemme, 2000). Di taglio divulgativo e per lo più sprovvisto di riferimenti e indicazioni precise, si veda Giancarlo Costa – Maurizio Mosca, Mostri del mare, Milano, Mursia, 1999. 38 [Louis De Rougemont], Le meravigliose avventure di Luigi De Rougemont, «La Domenica del Corriere», nn. 1-27, 1899. Autore delle fortunate Adventures Of Louis De Rougemont, inizialmente apparse tra l’agosto del 1898 e il maggio del 1899 sulle pagine di «The Wide World Magazine», fu lo svizzero Henri Louis Grin (1847-1921). Con lo pseudonimo di Louis De Rougemont, inventò il romanzo d’avventure eponimo in cui, attraverso la finzione autobiografica, erano descritti strabilianti episodi di vita vissuta tra popoli selvaggi e contrade ostili dell’Oceano Pacifico e dell’Australia. Nel 1921, sui nn. 28-40, queste false memorie furono riproposte dal «Giornale illustrato dei viaggi», con il titolo Il Cannibale Bianco. Le incredibili avventure di Louis De Rougemont. 39 A. [Armand] Dayot, La sirena di Brignogan, «La Domenica del Corriere», n. 4, 29 gennaio 1899, p. 3. 40 Simplex, Esiste dunque un serpente di mare?, «La Domenica del Corriere», n. 20, 21 maggio 1899, p. 3.

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41 Anonimo, Hanno trovato il serpente di mare!, «La Domenica del Corriere», n. 37, 17 settembre 1899, p. 13. 42 Anonimo, A proposito del serpente di mare, «La Domenica del Corriere», n. 39, 1° ottobre 1899, p. 8. 43 W.A.C. [Wardon Allan Curtis], Il mostro del lago Lametrie. Dal diario del prof. Giacomo McLennegan, «La Domenica del Corriere», n. 46, 19 novembre 1899, pp. 8 e 10-11, con il soprattitolo di «Storie incredibili». In origine, il testo viene pubblicato sul «Pearson’s Magazine» (agosto 1899). In lingua originale il testo è reperibile sul web al seguente indirizzo: gaslight.mtroyal.ca/lametrie.htm (ultima visita: 16 ottobre 2009). 44 Simplex, La perla della California, «La Domenica del Corriere», n. 36, 9 settembre 1900, p. 8, con il soprattitolo «Paesi e costumi». 45 F. S., Un abbraccio terribile. Il sangue freddo di un palombaro, «La Domenica del Corriere», n. 19, 12 maggio 1901, p. 4. Ma già sul n. 44 del 5 novembre 1899, alle pp. 7-8, si trova Afferrato dai polpi, presunto resoconto attribuito a tale Erberto Perkins, e così introdotto redazionalmente: «Tra le più spiacevoli e pericolose avventure che possano toccare ai pescatori ed ai naviganti, v’ha certo quella di scontrarsi con dei polpi. La forza enorme che tali mostruosi e ripugnanti animali possedono [sic] nei lunghi tentacoli, la nessuna presa offerta alle armi dalla viscida loro superficie, l’aspetto stesso disgustosissimo contribuiscono in eguale misura a renderne temuta la vista anche a chi si trovi faccia a faccia con essi in posizione aperta e ben provvisto di mezzi di difesa. Ma il fatto di un viaggiatore completamente inerme

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ed in ristretto spazio, senza possibilità di fuga, alle prese con più d’un grosso polpo è tale da impressionare anche i meno pavidi. Ecco come il signor Erberto Perkins racconta il terribile caso occorsogli recentemente durante un viaggio in Australia: […]». 46 Riporto, a titolo esemplificativo, sempre dalla «Domenica del Corriere»: Anonimo, Il colossale cetaceo di Livorno (n. 39, 29 settembre 1901, p. 8, nella rubrica «Le curiosità della natura»); R. Lostia, Gli abitanti degli abissi (n. 11, 16 marzo 1902, p. 8); Max Pemberton, La casa sotto i mari (nn. 36 e 43, 7 settembre e 26 ottobre 1902, pp. 6-8 e 6-8 – prima puntata: n. 29); R. Lostia, Gli animali straordinari (n. 49, 6 dicembre 1903, pp. 3-4, nelle «Curiosità della natura»: a p. 4 si parla del «serpente di mare»); F. R., Mostri favolosi e marini (n. 51, 20 dicembre 1903, pp. 3-4); Anonimo, Una pesca emozionante (n. 48, 2 dicembre 1906, p. 10, nella rubrica «Le nostre pagine a colori», e illustrato a p. 16 da Achille Beltrame); Anonimo, L’avventura di un palombaro (n. 41, 11-18 ottobre 1908, p. 9, nella rubrica «Le nostre pagine a colori», e illustrato a p. 16 da Beltrame). A proposito della grande influenza esercitata dai “portenti” marini sulla stampa popolare, segnalo l’omonimo catalogo della mostra Cronache e meraviglie di mare nelle copertine delle riviste illustrate (4 dicembre 2005 – 8 gennaio 2006), tenutasi presso il Museo della Marineria di Cesenatico. Il volume, a cura di Giordano Berti e Maria Antonietta Stoico, è stampato da Ramberti Arti Grafiche di Rimini (2005). Cfr. inoltre la stimolante riflessione di Roger Caillois, La Pieuvre. Essai sur la logique de l’ imaginaire, Paris, La Table Ronde, 1973 (trad. it. La piovra, Parma-Milano, Franco Maria Ricci, 1975), recentemente raccolto in Id., Œuvres, édition établie et présentée par Dominique Rabourdin, Paris, Gallimard, 2008, pp. 949-1033.

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47 Il racconto, cui l’illustrazione di R. R. Epperly si riferisce, è Ooze di Anthony Melville Rud (1893-1942); presentato in copertina come «An Extraordinary Novelette», viene riproposto sempre su «Weird Tales» del gennaio 1952. In trad. it. è reperibile in Peter Haining (a cura di), Weird Tales. La mitica rivista di fantasy e fantascienza (Parte prima 1923-1939), Roma, Fanucci, 1982, pp. 29-55, con il titolo Qualcosa di viscido. L’edizione originale dell’antologia (Weird Tales. A Facsimile of the World’s Most Famous Fantasy Magazine, St. Helier, Neville Spearman, 1976) non solo diverge in più punti circa la scelta dei testi, ma ne propone anche un numero decisamente più consistente. Sebbene il fantastico e la fantascienza fossero già stati trattati sulle pagine di altri periodici statunitensi di consumo, il mensile «Weird Tales» si proponeva al pubblico come un prodotto esplicitamente innovativo. La peculiarità della testata consisteva nella consapevole scelta di operare non più all’interno della narrativa genericamente popolare, ma optando per una specializzazione ancora più settoriale. Si fregiava del sottotitolo di «Unique Magazine», e nel primo numero l’allora direttore Edwin Baird (1886-1957) introduceva la nuova pubblicazione nel seguente modo: «Weird Tales presenta racconti diversi da quelli che si possono trovare nelle altre riviste. Racconti fantastici, straordinari, grotteschi talvolta, che narrano storie anomale e strane: insomma storie da mozzare il fiato. Alcune saranno un incubo, altre – scritte dalla mano di maestri – tratteranno “argomenti proibiti”». Cito da Jacques Sadoul, Histoire de la science-fiction moderne 1911-1971, Paris, Albin Michel, 1973 (trad. it. La storia della fantascienza. Dal fantastico al capovolto il genere letterario del futuro, Milano, Garzanti, 1975, p. 54). Fin dalle copertine, infatti, il periodico avrebbe sfruttato di frequente il connubio tra orrore, sadismo e ammiccamenti erotici che talvolta oltrepassavano l’allusivo. «Weird Tales» ospitò le narrazioni di autori

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quali Howard Phillips Lovecraft (1890-1937), Clark Ashton Smith (1893-1961), Robert Ervin Howard (1906-1936), e funse da “scuola” e da trampolino di lancio per Fritz Leiber (1910-1992), Robert Bloch (1917-1994), Theodore Sturgeon (1918-1985), Ray Bradbury (1920), Richard Matheson (1926). Per una storia della rivista cfr. Robert Weinberg, The Weird Tales Story, Berkeley Heights, Wildside Press, 1999, dove sono reperibili numerose foto e illustrazioni. Esiste anche un indice cartaceo (per numero, per narratore, per poeta e per illustratore di copertina), salvo eccezioni generalmente attendibile: Sheldon R. Jaffery – Fred Cook, The Collector’s Index to Weird Tales, Bowling Green, Bowling Green State University Popular Press, 1985. Su internet, alla pagina www.yankeeclassic.com/miskatonic/library/ stacks/periodicals/weirdta/magcat2.htm si può consultare un altro catalogo, provvisto di riproduzioni delle copertine numero per numero. Un buon profilo di questo e altri pulp magazine è fornito da Jacques Sadoul, op. cit., e per varie ricerche è assai valido il Collectors Showcase allestito da Jacques Hamon, che archivia un’impressionante quantità di copertine (www.collectorshowcase.fr). In data 22 settembre 2009, le due pagine web segnalate risultano attive e consultabili. Sull’iconografia cfr. anche Robert Lesser, Pulp Art: Original Cover Paintings for the Great American Pulp Magazines, with contributions by Roger T. Reed, Fred Cook, Shirley Steeger et alii, New York, Gramercy Books, 1997. Per un “inquadramento” delle riviste pulp all’interno dell’industria culturale legata al fantastico, si veda inoltre Sergio Brancato, Sociologie dell’ immaginario. Forme del fantastico e industria culturale, Roma, Carocci, 2000, nello specifico le pp. 35-41 e 67-70. 48 E. Carbone, Il genio del Fusijama, «La Domenica del Corriere», nn. 23 e 24, 4 e 11 giugno 1905, pp. 11-12 e 11-12.

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49 Jules Verne, Voyage au centre de la Terre, Paris, Hetzel, s.d. [ma 1864]. Sulla biografia e l’opera del romanziere francese ricordo qui Jean Chesneaux, Une lecture politique de Jules Verne, Paris, François Maspero, 1971 e 1982, con titolo modificato in Jules Verne, une lecture politique e l’aggiunta di una postfazione (trad. it. Una lettura politica di Jules Verne, Milano, Moizzi, 1976), poi risistemato e accresciuto di cinque capitoli, una premessa e una conclusione in Jules Verne. Un regard sur le monde. Nouvelles lectures politiques, Paris, Bayard, 2001; Herbert R. Lottman, Jules Verne, Paris, Flammarion, 1996 (trad. it. Jules Verne. Sognatore e profeta di fine millennio, Milano, Arnoldo Mondadori, 1999); Philippe Mellot – Jean-Marie Embs, Le Guide Jules Verne, Paris, Les éditions de l’Amateur, 2005 (quest’ultimo propone una vasta e accurata bibliografia, anche della critica). 50 Originariamente sul «Philadelphia Press Sunday Magazine», dal 24 marzo al 21 luglio 1912, quindi tra l’aprile e il novembre del medesimo anno sullo «Strand», e nell’ottobre in volume (London, Hodder & Stoughton). 51 In diciassette puntate, con il titolo Un mondo perduto. La prima puntata risale al n. 32, 10-17 agosto 1913. In due puntate compare invece nel 1920, sui nn. 2 e 3 del «Romanzo Mensile». 52 La prima edizione del 1866, in tre volumi, è per i tipi di Lacroix & Verboeckhoven, a Bruxelles. 53 In origine, sul «Magasin d’éducation et de récréation. Semaine des enfants réunis. Journal de toute la famille», dal 20 marzo 1869 al 20 giugno 1870 (nn. 121-151), e raccolto in due volumi s.d. venduti

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separatamente (Paris, Hetzel, Première partie [1869] e Deuxième partie [1870]). 54 Jules Verne, La foresta misteriosa, «La Domenica del Corriere», nn. 3144, 1901. In lingua originale, il romanzo compare per la prima volta con il titolo La Grande Forêt, sul «Magasin d’éducation et de récreation. Semaine des enfants réunis. Journal de toute la famille», dal 1° gennaio al 15 giugno 1901 (nn. 145-156), e in volume nel medesimo anno, con il titolo definitivo (Le Village aérien, Paris, Hetzel, s.d.). 55 Id., Il castello dei Carpazi, «Corriere della Sera», 8/9 ottobre – 8/9 novembre 1897. Originariamente, sul «Magasin d’éducation et de récreation. Semaine des enfants réunis. Journal de toute la famille», dal 1° gennaio al 15 dicembre 1892 (nn. 649-672), e in volume nello stesso anno (Paris, Hetzel, s.d.). 56 Luigi Meneghello, Opere scelte, cit., pp. 1018-1019. 57 Cfr. Fabrizio Foni, Alla fiera dei mostri, cit., passim, ma in particolare le pp. 34-60, e Id. (a cura di), Il gran ballo dei tavolini. Sette racconti fantastici da «La Domenica del Corriere», Cuneo, Nerosubianco, 2008. 58 Luigi Meneghello, Opere scelte, cit., p. 1024. Il passo riportato è presente in un articolo precedentemente apparso su «La Stampa» (24 marzo 1978), con il titolo Certi modelli (in volume, poi: Al di là delle tenebre). 59 Originariamente su «Le Matin» nel 1916 (dal 18 agosto al 18 dicembre),

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e in volume nel 1921 (Paris, Ferenczi). Per ulteriori informazioni sulla figura e l’opera di quest’autore, segnalo il numero monografico dedicatogli da «Les Cahiers de l’Imaginaire» (n. 13, 1984, a cura di Daniel Compère) e Matthieu Letourneux, Répétition, variation… et autoplagiat. Les pratiques d’ écriture de Jean de La Hire et la question des stéréotypes dans les genres populaires, «Loxias», n. 17, 2007, reperibile all’indirizzo revel.unice.fr/loxias/document.html?id=1699 (ultima visita: 22 settembre 2009). 60 In Francia, Les Trois Boy-Scouts era stato pubblicato dall’editrice parigina Ferenczi tra il 1913 e il 1914 (43 fascicoli); una nuova serie comparve al termine della guerra, tra il 1919 e il 1921 (108 fascicoli). In Italia, con il sottotitolo «Avventure meravigliose», la Sonzogno fece tradurre 150 fascicoli, che uscirono tra il 1920 e il 1923. Ai tre giovani protagonisti furono assegnati nomi e nazionalità italiani. I tre boy-scouts furono in seguito ristampati negli anni 1928-’34 e 1937’40. Una terza ristampa iniziò nel 1942, una quarta ed ultima ebbe luogo tra il 1953 e il 1956. Les Trois Boy-Scouts rientrano nel mare magnum di quelle dispense popolari che, a partire dal 1908, si affermarono nel gusto dei lettori italiani (ed europei, fino alla Russia) e venivano importate e tradotte alla bell’e meglio, soprattutto dalla Germania e dagli Stati Uniti: Nick Carter, Nat Pinkerton, Petrosino, Lord Lister e moltissimi altri, dalle copertine sempre avvincenti e sgargianti. Un’industria culturale votata alla produzione incessante di storie di detective, ladri, avventurieri e quant’altro potesse alimentare l’immaginario collettivo. Una forma d’intrattenimento narrativo che ricorreva assai di frequente all’effetto granguignolesco e all’impiego del soprannaturale (vero o presunto). Su questo tipo di narrativa a fascicoli, la cosiddetta dime press, cfr. per esempio Franco Cristofori

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– Alberto Menarini, Eroi del racconto popolare prima del fumetto, 2 voll., Bologna, Edison, 1986-1987 e Philippe Mellot, Les maîtres du mystère de Nick Carter à Sherlock Holmes 1907-1914, Paris, Michèle Trinckvel, 1997; Id., Les maîtres de l’aventure sur terre, sur mer et dans les airs 1907-1959, Paris, Michèle Trinckvel, 1997; Id., Les maîtres du fantastique et de la science fiction 1907-1959, Paris, Michèle Trinckvel, 1997. 61 Jean de La Hire, Al di là delle tenebre, «La Domenica del Corriere», nn. 22-44, 1917. Sul «Romanzo Mensile»: n. 12, 1922 e n. 1, 1923. 62 Luigi Meneghello, Il dispatrio, Milano, Rizzoli, 1993. 63 Cito dall’edizione Milano, Rizzoli, 2000, p. 30. 64 Ivi, pp. 204-205. 65 Ernestina Pellegrini, Luigi Meneghello, Fiesole (Firenze), Cadmo, 2002, p. 118. 66 Il breve ma ancor oggi fondamentale studio di Sigmund Freud, Das Unheimliche, solitamente tradotto in italiano come Il perturbante, compare per la prima volta sulla rivista «Imago», n. 5-6, 1919, pp. 297-324. 67 Ernestina Pellegrini, op. cit., p. 119. 68 Gianni Celati, Finzioni occidentali, in Id., Finzioni occidentali. Fabulazione, comicità e scrittura, terza edizione riveduta, Torino, Einaudi,

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2001, pp. 5-6. Il saggio cui si fa ricorso compare per la prima volta nel 1972, su rivista (estremi non reperiti), mentre la prima edizione del volume eponimo è del 1975, sempre per Einaudi. 69 Ivi, p. 6. 70 Ibidem. 71 Ivi, p. 7. 72 Ivi, pp. 7-8. 73 Ivi, p. 15. 74 Ivi, p. 14. 75 Ivi, p. 15. 76 Ivi, p. 18. Come sorta di “antefatto” storico alla narrativa di consumo otto-novecentesca, si veda Alberto Natale, Gli specchi della paura. Il sensazionale e il prodigioso nella letteratura di consumo (secoli XVIIXVIII), Roma, Carocci, 2008. Il saggio si occupa di quegli «opuscoli di poche carte, che costituirono una parte rilevante della produzione letteraria popolareggiante destinata ad un pubblico ancora in gran parte analfabeta, già a partire dalla seconda metà del Cinquecento, e che continuò a essere stampata senza particolari variazioni e innovazioni fin oltre i primi decenni dell’Ottocento» (ivi, p. 8). Su un piano tematico, quindi, ci si interessa di «notizie riguardanti gesta criminali, esecuzioni capitali, apparizioni di mostri, avvenimenti prodigiosi,

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devastanti terremoti, desolanti inondazioni e altre calamità naturali esposte in forma di cronache, con una forte coloritura letteraria (non di rado, oltre che in prosa, […] composte in versi)» (ibidem). In sintesi, si tratta di una ricerca che si arresta, cronologicamente, alle soglie di quel sentire da cui nasce la narrativa gotica e del fantastico. In tale ottica, pertanto, al di là delle ovvie divergenze (contestuali, formali, ecc.), gli opuscoli presi in esame si profilano per molti aspetti come la fucina dei vari generi e sottogeneri della letteratura popolare e appendicistica dei secoli XIX e XX (fondamentale, perciò, quel tardo Settecento che funge da “traghettatore”); una «letteratura anonima» – come viene definita dall’autore sin dal titolo del primo capitolo (ivi, pp. 15-49) – i cui stampatori sembrano a tratti anticipare gli editori come Sonzogno, Salani, Nerbini, e le loro testate e collane eclatanti, scabrose, ma pure moralistiche, frutto spesso di traduzioni arruffate, plagi spudorati, riciclaggi e assemblamenti frettolosi: «anche le illustrazioni» infatti, precisa Natale, «erano partecipi di quel processo di manipolazione dei testi che ne rendeva evidente la natura di opere di collazione e di montaggio, al limite del bricolage. Nonostante la povertà del prodotto, la reiterazione dei modelli e lo scarso o nullo spirito innovativo che lo caratterizzavano (anzi, probabilmente proprio per questo motivo) il “mercato” di genere letterario sensazionalistico restò […] florido (almeno in Italia) fino almeno alla metà del Settecento» (ivi, p. 35). Un’occhiata a un’antologia come La mala Italia. Storie nere di fine secolo (a cura di Ernesto Ferrero, prefazione di Leonardo Sciascia, Milano, Rizzoli, 1973), potrà mostrare come un’analoga produzione – in parte sempre in fogli volanti – fosse tutt’altro che estinta nel tardo Ottocento e oltre: meno concentrata, certo, sul soprannaturale, senz’altro epigonica però sul piano dell’atrocità (e del voyeurismo). Nella letteratura presa in esame da Gli specchi della paura

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è già presente, come linguaggio e stile, quel «codice della paura trascelto nelle sue istanze più forti, intese a colpire, a scuotere e a fissare nell’immaginario del pubblico un repertorio lessicale che promett[e] “orrore”, “spavento”, “stupore” e “maraviglia”, fornendo resoconti di episodi “tremendi” e “orribili” che gronda[no] “terrore”, “tremore” e “raccapriccio”» (Alberto Natale, op. cit., p. 26), enfasi del linguaggio e dello stile che è poi caratteristica primaria del feuilleton. 77 Cfr. Tzvetan Todorov, La letteratura fantastica, Milano, Garzanti, 1991, pp. 82-83. 78 Secondo Todorov, l’esitazione del lettore è il fulcro del fantastico: «Colui che percepisce l’avvenimento [soprannaturale] deve optare per una delle due soluzioni possibili: o si tratta di un’illusione dei sensi, di un prodotto dell’immaginazione, e in tal caso le leggi del mondo rimangono quelle che sono, oppure l’avvenimento è realmente accaduto, è parte integrante della realtà, ma allora questa realtà è governata da leggi a noi ignote. […] Il fantastico occupa il lasso di tempo di questa incertezza; non appena si è scelta l’una o l’altra risposta, si abbandona la sfera del fantastico per entrare in quella di un genere simile, lo strano o il meraviglioso. Il fantastico, è l’esitazione provata da un essere il quale conosce soltanto le leggi naturali, di fronte a un avvenimento apparentemente soprannaturale». E poi: «Il fantastico dura soltanto il tempo di un’esitazione: esitazione comune al lettore e al personaggio, i quali debbono decidere se ciò che percepiscono fa parte o meno del campo della “realtà” quale essa esiste per l’opinione comune. Alla fine della storia, il lettore, se non il personaggio, prende comunque una decisione, opta per l’una o l’altra soluzione e quindi, in tal modo, evade dal fantastico. Se decide che le leggi

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della realtà rimangono intatte e permettono di spiegare i fenomeni descritti, diciamo che l’opera appartiene a un altro genere: lo strano. Se invece decide che si debbono ammettere nuove leggi di natura, in virtù delle quali il fenomeno può essere spiegato, entriamo nel genere del meraviglioso» (ivi, pp. 28 e 45). Nell’originale francese: «Celui qui perçoit l’événement [surnaturel] doit opter pour l’une des deux solutions possibles: ou bien il s’agit d’une illusion des sens, d’un produit de l’imagination et les lois du monde restent alors ce qu’elles sont; ou bien l’événement a véritablement eu lieu, il est partie intégrante de la réalité, mais alors cette réalité est régie par des lois inconnues de nous. […] Le fantastique occupe le temps de cette incertitude; dès qu’on choisit l’une ou l’autre réponse, on quitte le fantastique pour entrer dans un genre voisin, l’étrange ou le merveilleux. Le fantastique, c’est l’hésitation éprouvée par un être qui ne connaît que les lois naturelles, face à un événement en apparence surnaturel»; «Le fantastique […] ne dure que le temps d’une hésitation: hésitation commune au lecteur et au personnage, qui doivent décider si ce qu’ils perçoivent relève ou non de la “realité”, telle qu’elle existe pour l’opinion commune. A la fin de l’histoire, le lecteur, sinon le personnage, prend toutefois une décision, il opte pour l’une ou l’autre solution, et par là même sort du fantastique. S’il décide que les lois de la réalité demeurent intactes et permettent d’expliquer les phénomènes décrits, nous disons que l’œuvre relève d’un autre genre: l’étrange. Si, au contraire, il décide qu’on doit admettre de nouvelles lois de la nature, par lesquelles le phénomène peut être expliqué, nous entrons dans le genre du merveilleux» (dall’edizione Paris, Éditions du Seuil, 1976, pp. 29 e 46). 79 Italo Calvino, Il fantastico nella letteratura italiana, cit., p. 1674.

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80 «Giornale per la gioventù e per le famiglie» era la dicitura che completava il titolo di «Viaggi e avventure di terra e di mare», uscito dal 7 aprile 1904 per l’editore milanese Giacomo Gussoni, come emulo di «Per terra e per mare», sotto la direzione di Antonio Garibaldo Quattrini (1880-1937). 81 Nel sottotitolo impiegato dal «Giornale dei viaggi», a partire dal n. 53 del 4 ottobre 1906. Il periodico aveva iniziato le pubblicazioni il 2 ottobre 1905, per i tipi della comasca Casa Editrice Roma, alla cui guida si trovavano il menzionato Antonio Quattrini e il fratello Attilio (1883-1938). 82 Si vedano, a titolo esemplificativo, Claudio Carabba, Corrierino, Corrierona. La politica illustrata del Corriere della Sera, Rimini-Firenze, Guaraldi, 1976 (poi Milano, Baldini & Castoldi, 1998) e il ricordato catalogo di Giovanna Ginex (a cura di), La Domenica del Corriere. Il Novecento illustrato, cit. 83 Con l’eccezione di Franca Mariani Ciampicacigli, «Realtà romanzesca» nella «Domenica del Corriere» (1922-1941) cit. che però si limita, come si è già indicato, all’analisi di una specifica rubrica.

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2. Incipit Vita Nova: c’è posto per Tutti?

84 Sebbene si tratti di un’indagine lessicografica specificamente orientata sulla cultura francese del XVIII secolo, ho tratto notevoli spunti teorici, e suggestioni che meritano d’essere sviluppate in altra sede, da un saggio di Nicole Gueunier, Pour une définition du conte, in Roman et Lumières au XVIII siècle (Paris, Éditions Sociales, 1970, pp. 422-436), volume che costituisce gli Atti dell’omonimo «colloque» svoltosi sotto la presidenza di Werner Krauss, René Pomeau, Roger Garaudy, Jean Fabre, e promosso dal Centre d’Études et de Recherches Marxistes, dalla Société Française d’Étude du XVIII Siècle, e dalla rivista «Europe». L’autrice prende in esame, dettagliatamente, l’estrema polisemia del termine “conte”, le cui sfumature semantiche, in lingua francese, oscillano da una polarità all’opposta. Per quanto concerne l’italiano, considerando il lemma “racconto”, si noterà che la situazione non è affatto diversa. 85 Cfr. Ottavio Barié, Luigi Albertini, cit., p. 68. 86 Anonimo [pres. Luigi Albertini], s.t. [Presentazione], «La Domenica

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del Corriere», n. 1, 8 gennaio 1899, p. 2. D’ora in avanti si ometterà di segnalare in nota il titolo della rivista e l’anno per i riferimenti bibliografici concernenti il 1899. 87 Anonimo, s.t. [Sulla rotativa Hoe], ivi, p. 9. 88 Con tale espressione penso e rimando naturalmente a Walter Benjamin, Das Kunstwerk im Zeitalter seiner technischen Reproduzierbarkeit, in Id., Schriften, 2 voll., herausgegeben von Theodor W. Adorno und Gretel Adorno, unter Mitwirkung von Friedrich Podszus, Frankfurt am Main, Suhrkamp Verlag, 1955, vol. I, pp. 366-405 (trad. it. L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, Torino, Einaudi, 1966). Originariamente il saggio appare in lingua francese e in forma ridotta sulla rivista «Zeitschrift für Sozialforschung», a. V, fasc. 1, 1936, pp. 40-61. 89 Anonimo, «Piccola posta», n. 2, 15 gennaio, p. 9. La risposta era già stata citata per intero nel cap. I, ma giudicandola funzionale e significativa ho ritenuto opportuno riproporla. Trentotto numeri dopo, con un’anonima barzelletta, si ironizza sull’eccessiva volontà di partecipazione da parte del pubblico: «“Oh Dio! Presto, Giovanni vieni a vedere il bimbo: mi pare gli venga un attacco di nervi”. “Pare anche a me: dammi intanto la macchina fotografica”» (Anonimo, s.t. [Freddura su fotografia e nevrosi], n. 40, 8 ottobre, p. 11). 90 In risposta a M. I. (Milano): «A lei ed e [sic] tutti i frettolosi come lei rispondiamo: pazienza e lascino a noi il diritto di stabilire se e quando gli scritti rimessici si possano pubblicare» (Anonimo, «Piccola posta», n. 3, 22 gennaio, p. 9). Si legge quindi, indirizzato al Signor Tutti: «I

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manoscritti non si restituiscono. […] Si raccomanda una calligrafia almeno leggibile. Sia scritto da una parte sola del foglio» (Anonimo, «Piccola posta», n. 4, 29 gennaio, p. 10). 91 Si trova: «Potrebbe andare se accorciato della prima parte che nulla aggiunge alla narrazione del naufrago. Dobbiamo ridurlo e adattarlo? Attendiamo risposta» (Anonimo, «Piccola posta», n. 11, 19 marzo, p. 10). 92 Anonimo, «Piccola posta», n. 12, 26 marzo, p. 10. 93 «A. L., Vercelli. – Non è adatto perché troppo semplice ed [i] lettori hanno bisogno di sale, di droghe, di eccitanti» (Anonimo, «Piccola posta», n. 25, 25 giugno, p. 9). Anche in questo caso si è ritenuto utile ritrascriverla. 94 Anonimo, «Piccola posta», n. 48, 3 dicembre, pp. 12-13 (entrambe le citazioni provengono da p. 13). 95 Si legge in risposta a tale G. P. di Novara, che presumibilmente si era proposto con un articolo: «La scienza ci arriverà un giorno, probabilmente, ma per ora non sono che fantasie» (ivi, p. 13). Oppure: «F. A., Salerno. – Dal momento che la fine del mondo non è avvenuta….» (Anonimo, «Piccola posta», n. 49, 10 dicembre, p. 13). 96 Per intero: «Selenio O. K., Bazzano. – Ci trattiene dal pubblicarlo la sua grande stranezza, ma anche la forma prolissa ed un po’ trascurata» (Anonimo, «Piccola posta», n. 47, 26 novembre, p. 13).

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97 Anonimo, s.t. [Migliorie apportate alla rivista e alle illustrazioni], n. 23, 11 giugno, p. 2. 98 «Stiamo ristampando il N. 7 perché completamente esaurito. I nuovi abbonati e tutti coloro che lo hanno richiesto per completare la raccolta abbiano dunque pazienza, e presto saremo in grado di accontentarli» (Anonimo, s.t. [Annuncio della ristampa del n. 7], n. 29, 23 luglio, p. 9). 99 «Angelo P., Torino. – Tutte osservazioni buone e giuste, ma Ella pensi che è già un miracolo poter dare un giornale a colori, con venti, trenta illustrazioni tutte originali ed eseguite apposta, per due soldi: dieci centesimi, badi, che si riducono a poco più della metà, vale a dire meno di mezzo centesimo alla pagina. Confronti la Domenica con gli altri giornali consimili e ci dica se si può anche pretendere una carta satinata, lucida, consistente!» (Anonimo, «Piccola posta», n. 49, 10 dicembre, p. 13). 100 «Gruppo di lettori, Madonna dell’Arco. – Nel prossimo mese comincieremo [sic] a pubblicare un nuovo ed originale romanzo di cui appena oggi abbiamo ottenuto il permesso di traduzione. La numerazione delle pagine non è possibile in causa della edizione speciale che facciamo per l’America; quanto all’indice probabilmente lo faremo. Per ragioni che sarebbe troppo lungo spiegare non si può raccogliere tutte le inserzioni a pagamento in 4 pagine formanti un solo foglio da staccare. I grandi giornali illustrati inglesi non fanno diversamente da noi» (Anonimo, «Piccola posta», n. 47, 26 novembre, p. 13).

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101 Anonimo, s.t. [Aumento del numero delle pagine a sedici], n. 37, 17 settembre, p. 2. 102 «I lettori rileveranno facilmente che anche questo numero della Domenica è di 16 anziché di 12 pagine. Non possiamo ancora prendere impegno assoluto di seguitare sempre così: l’aumento di quattro pagine ci costa denari e cure parecchie, fedeli come vogliamo essere al nostro programma di pubblicare sempre incisioni e testo originali. Dipende ad ogni modo dal pubblico il far sì che l’aumento diventi definitivo. Intanto giova far sapere che questo, come i precedenti numeri della Domenica, non costa, malgrado l’aumento di pagine, che 10 cent. È severamente proibito ai rivenditori di chiedere di più» (Anonimo, s.t. [Pressoché confermate le sedici pagine], n. 39, 1° ottobre, p. 2). 103 Anonimo, «Piccola posta», n. 46, 19 novembre, pp. 12-13 (la citazione proviene da p. 13). 104 Si legge, infatti: «Corrado P., Bari; A. C. C., [La] Spezia. – Hanno ragione; il tempo è lungo, ma vi sono abbonati e lettori in Francia, in Germania, in Inghilterra, in Svizzera i quali meritano pure qualche riguardo!» (Anonimo, «Piccola posta», n. 47, 26 novembre, p. 13). A proposito dell’America si rimanda alla precedente nota 100. 105 Abbastanza esemplificativa la seguente risposta: «F. C., Arezzo. – Con centinaia di lettere che giungono ogni giorno non si potrà certo pretendere che rispondiamo a tutti personalmente! La fotografia giunse ma non venne riprodotta perché il soggetto, per quanto grazioso, è vecchio come il mondo» (ibidem).

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106 La risposta, per intero: «E. N. d. P., Venezia. – Siamo convinti anche noi che è difficile accontentare tutti, quando questi sommano a 200.000. Ci basta soddisfare la maggioranza alternando un genere all’altro. Quanto alla borsa ci penseremo» (Anonimo, «Piccola posta», n. 48, 3 dicembre, pp. 12-13 – la citazione è da p. 13). 107 Anonimo [Luigi Albertini o Attilio Centelli], Ai lettori della Domenica del Corriere, n. 50, 17 dicembre, p. 2. 108 Si veda la nota 38. 109 Ernesto v. Wildenbruch [Ernst von Wildenbruch], Incubo, n. 50, 1899 – n. 12, 1900. Originariamente: Das wandernde Licht, Stuttgart, Verlag von J. Engelhorn, 1893. È un romanzo dalle atmosfere gotiche e misteriose, anche se privo di elementi soprannaturali, che ebbe una trasposizione cinematografica omonima, nel 1916, per la regia di Robert Wiene (1873-1938), il futuro direttore del Gabinetto del dottor Caligari (Das Cabinet des Dr. Caligari, 1920). Per l’adattamento cinematografico del romanzo di Wildenbruch cfr. Uli Jung –Walter Schatzberg, Robert Wiene. Der Caligari Regisseur, Berlin, Henschel Verlag, 1995 (trad. ingl. Beyond Caligari: The films of Robert Wiene, New York-Oxford, Berghahn Books, 1999, pp. 33-34). 110 Alla frontiera di Jules Claretie, al secolo Arsène Arnaud Claretie (1840-1913), appare sui nn. 10-16, 1899 (edizione originale: La frontière, Paris, E. Dentu, 1894). A proposito di Conan Doyle si veda la nota successiva.

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111 Sui nn. 18-44, 1899, e sono, in ordine di pubblicazione sul settimanale (tra parentesi i dettagli dell’edizione originaria, avvenuta su «The Strand Magazine»): La lega dei capelli rossi (nn. 18 e 19 – The RedHeaded League, agosto 1891); L’uomo dal labbro spaccato (nn. 20-22 – The Man with the Twisted Lip, dicembre 1891); Il mistero della Valle Boscombe (nn. 23 e 24 – The Boscombe Valley Mystery, ottobre 1891); I cinque semi d’arancio (nn. 25 e 26 – The Five Orange Pips, novembre 1891); Uno scandalo in Boemia (nn. 27-29 – A Scandal in Bohemia, luglio 1891); Il carbonchio azzurro (nn. 30 e 31 – The Adventure of the Blue Carbuncle, gennaio 1892); La testa rossa (nn. 32-34 – The Adventure of the Speckled Band, febbraio 1892); Il pollice dell’ ingegnere (nn. 35 e 36 – The Adventure of the Engineer’s Thumb, marzo 1892); Un caso d’ identità (nn. 37 e 38 – A Case of Identity, settembre 1891); La treccia rivelatrice (nn. 39 e 40 – The Adventure of the Copper Beeches, giugno 1892); Nozze illustri (nn. 41 e 42 – The Adventure of the Noble Bachelor, aprile 1892); Il diadema di smeraldi (nn. 43 e 44 – The Adventure of the Beryl Coronet, maggio 1892). 112 A.[Arthur] Conan Doyle, Le avventure di Sherlock Holmes. Romanzo illustrato, Milano, Tipografia Editrice Verri, s.d. [ma 1895], volume della collana «Biblioteca Azzurra», digitalizzato e reso disponibile, in formato .pdf, al seguente indirizzo: www.braidense.it/dire/sherlock.pdf (ultima visita: 27 settembre 2009). Delle 160 pagine di cui si compone il volume, le tre storie di Sherlock Holmes occupano le prime 104. Le restanti presentano quattro racconti firmati da altri autori. 113 Originariamente in «The Strand Magazine», dicembre 1892.

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114 Anonimo [Luigi Albertini o Attilio Centelli], Ai lettori della Domenica del Corriere, cit. 115 Circa il panorama ottocentesco italiano, è Ghidetti ad asserire: «rare esplorazioni lungo le rive del fangoso torrente dell’occultismo, che attraversa impetuosamente la cultura europea, saranno tentate solo più tardi dai decadenti dell’inizio del secolo». Cito da Enrico Ghidetti, Prefazione, in Id. (a cura di), Notturno italiano, cit., p. XII. 116 Il termine “metapsichica” traduce il francese métapsychique, proposto dal fisiologo Charles Richet (1850-1935) a partire dal 1894, per indicare «lo studio delle proprietà della mente che oltrepassa il campo d’osservazione ristretto della psicofisiologia ancora universalmente ammessa e insegnata», e cioè «lo studio dei fenomeni meccanici o psicologici dovuti a forze che appaiono intelligenti o a poteri sconosciuti latenti nell’intelligenza umana». Riguardo alle indagini sui fenomeni paranormali, in Francia e in Italia divenne comune l’uso di “metapsichica”, mentre in Gran Bretagna e negli Stati Uniti era per lo più invalsa la definizione di psychical research (ricerca psichica), dal nome della società britannica fondata da Henry Sidgwick (1838-1900) nel 1882 (tre anni dopo, a Boston, sarebbe nata l’American Society for Psychical Research). Nel 1889, sul periodico tedesco «Sphinx», lo studente Max Dessoir (1867-1947), in seguito rinomato professore di filosofia, aveva coniato la voce Parapsychologie (parapsicologia) per qualificare «un’intera regione di confine ancora sconosciuta che separa gli stati psicologici normali da quelli patologici». Quest’ultima parola, tuttora molto diffusa, finirà per imporsi grazie agli esperimenti di Joseph Banks Rhine (1895-1980), condotti per conto della Duke University di Durham (North Carolina) a partire dal 1927, con la supervisione

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di William McDougall (1871-1938), direttore del Dipartimento di Psicologia. Nel 1935 i risultati ottenuti da Rhine portarono alla creazione di un Parapsychology Laboratory, un “laboratorio di parapsicologia” universitario. A Rhine si deve anche la fortunata sigla ESP, ossia extra sensory perception (percezione extrasensoriale), per condensare in un’unica denominazione i fenomeni della telepatia (la facoltà di trasmettere o percepire informazioni comunicando solo mentalmente), della chiaroveggenza (la visione a distanza di fatti, oggetti e persone) e della precognizione (la previsione di eventi futuri). Un’altra sigla, PK, sta invece per psychokinesis (psicocinesi), un vocabolo ideato nel 1914 dallo scrittore ed editore Henry Holt (1840-1926), amico di Rhine, per designare la capacità del pensiero di agire direttamente sulla materia (in particolare, spostando oggetti). Analogo è il termine telekinesis (telecinesi), abbreviato solitamente con la sigla TK, creato nel 1890 dal poeta e saggista Frederic William Henry Myers (1843-1901), uno dei membri fondatori della Society for Psychical Research. Myers è inoltre l’inventore del sostantivo telepathy (telepatia). 117 Maurice Maeterlinck, Onirologie, «La Revue générale», giugno 1889, pp. 771-787, poi raccolto nel volume Deux Contes (Paris, Georges Crès, 1918, pp. 35-85). Recentemente riproposto nell’antologia Littératures fantastiques. Belgique, terre de l’ étrange. Tome II: 1887-1914, contes réunis et présentés par Éric Lysøe, Bruxelles, Labor, 2003, pp. 25-57 e in Maurice Maeterlinck, Onirologie. Le miracle des mères. Joyzelle. La princesse Isabelle. Les fiançailles. Tome II, textes réunis par Paul Gorceix, Paris, Eurédit, 2006, pp. 7-24. Alcuni rimandi bibliografici essenziali: Georges Hermans, Onirologie. Conte de Maurice Maeterlinck, «Le Livre et l’Estampe», n. 35, 1963, pp. 241-247; Ana Gonzalez Salvador, La pièce qui fait défaut. Lecture d’Onirologie de

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M. Maeterlinck, «Textyles», n. 10, 1993, pp. 59-71; Éric Lysøe, Les Kermesses de l’ Étrange ou Le Conte fantastique en Belgique du romantisme au symbolisme, Paris, Librairie A. G. Nizet, 1993, in particolare le pp. 140, 170, 209-218, 247, 326-331; Jeannine Pâque, Onirologie ou délire contrôlé; une thématique simboliste, «Itinéraires et contacts de cultures», n. 20, 1995, pp. 25-32; Bernard Dieterle, L’abyme du rêve. À propos d’Onirologie de Maurice Maeterlinck, «Travaux de Littérature», n. 10, 1997, pp. 295-309; Ana Gonzalez Salvador, Du Massacre à L’Anneau: encore Onirologie, in Présence/Absence de Maurice Maeterlinck. Colloque de Cerisy. 2-9 septembre 2000, actes publiés sous la direction de Marc Quaghebeur, Bruxelles, A.M.L. Éditions – Labor, 2002, pp. 9-25; Paul Gorceix, Maeterlinck. L’arpenteur de l’ invisibile, Bruxelles, Le Cri – Académie royale de Langue et de Littérature françaises de Belgique, 2005, pp. 241-246; Id., De la mystique médiévale à la psychologie des profondeurs: Maurice Maeterlinck, Onirologie (1889), «La Revue Générale», n. 8-9, 2006, pp. 51-59; Id., Maurice Maeterlinck du mysticisme à la pensée ésotérique. Essai. Tome I, Paris, Eurédit, 2006. 118 Eloquenti i due seguenti articoli: Guglielmo Bilancioni, La memoria ereditata, «La Domenica del Corriere», n. 16, 20 aprile 1902, pp. 3-4, e Theo (Teodoro Rovito), I sogni aviti, «La Domenica del Corriere», n. 26, 1° luglio 1906, p. 4, riproposto ne Il gran ballo dei tavolini, cit., pp. 113-115. In questa prospettiva, è altrettanto “sintomatica” una novella di Italo Toscani, La mano di sangue («La Domenica del Corriere», nn. 25 e 26, 24 giugno e 1° luglio 1906, rispettivamente pp. 1112 e 11-12, con soprattitolo «I racconti straordinari»). Di quest’ultima ho cercato di fornire un’analisi in Fabrizio Foni, Alla fiera dei mostri cit., pp. 62-75. Il testo di Toscani è inserito nell’antologia Ottocento nero italiano. Narrativa fantastica e crudele, cit., pp. 449-463. Sui

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legami tra positivismo e paranormale cfr. Giacomo Scarpelli, Il cranio di cristallo. Evoluzione della specie e spiritualismo e Germana Pareti, La tentazione dell’occulto. Scienza ed esoterismo nell’età vittoriana (entrambi Torino, Bollati Boringhieri, rispettivamente 1993 e 1990). Nel 1872 anche Charles Darwin (1809-1882), alla pari di altri uomini di scienza, fu incuriosito dallo spiritismo, ma quando prese parte a una seduta, in casa del fratello, «trovò la cosa così indecente e snervante che se ne andò – come scrisse […] – “prima che avvenissero tutti quei sorprendenti miracoli, o quei giochi di prestigio”». Cito da Randal Keynes, Annie’s Box: Charles Darwin, His Daughter and Human Evolution, London, Fourth Estate, 2001 (trad. it. Casa Darwin. Il male, il bene e l’evoluzione dell’uomo, Torino, Einaudi, 2007, p. 286). 119 Maurice Maeterlinck, Introduction à une psychologie des songes, «L’Indépendance Belge» (supplemento letterario), 11 dicembre 1892, p. 1. Raccolto in Id., Introduction à une psychologie des songes et autres écrits. 1886-1896, textes réunis et commentés par Stefan Gross, Bruxelles, Labor, 1985, pp. 88-91 e in Id., Œuvres I. Le Réveil de l’ âme. Poésie et essais, édition établie et présentée par Paul Gorceix, Bruxelles, Complexe, 1999, pp. 469-473. 120 Edgar Morin, L’ homme et la mort, Paris, Corrêa, 1951 (trad. it. L’uomo e la morte, Roma, Meltemi, 2002, p. 172). Nell’originale francese: «l’expérience de Joséphine dont il [Maeterlinck] a été témoin. Endormie par le colonel de Rochas, ladite Joséphine remonte son passé, jusqu’au ventre de sa mère. Sommeil, silence. A ce moment surgit de la bouche de Joséphine une voix de vieillard bourru, mort à 70 ans, qui a eu l’idée de se réincarner en s’introduisant dans la mère de Joséphine. On remonte encore plus haut. Le vieillard redevient bébé.

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Resommeil, resilence. C’est alors la voix d’une vieille très méchante, qui s’était incarnée dans cet enfant» (dall’edizione rivista e ampliata Paris, Éditions du Seuil, 2002, pp. 180-181). Albert de Rochas (18371914), amministratore della prestigiosa École Polytechnique di Parigi, si dedicò a lungo allo studio della metapsichica, attribuendo la realizzazione delle comunicazioni spiritiche a un particolare fluido che sarebbe stato emesso ogni volta dai medium. Espresse tale teoria ne L’extériorisation de la motricité. Recueil d’expériences et d’observations (Paris, Chamuel, 1896). Rochas aveva precedentemente pubblicato L’extériorisation de la sensibilité. Étude expérimentale et historique (Paris, Chamuel, 1895), Le fluide des magnétiseurs. Précis des expériences du baron de Reichenbach sur ses propriétés physiques et physiologiques classées et annotées (Paris, G. Carré, 1891), Les forces non définies. Recherches historiques et expérimentales (Paris, G. Masson, 1887). Dà inoltre alle stampe Les états superficiels de l’ hypnose (Paris, Chamuel, 1893) e Les états profonds de l’ hypnose (Paris, Chamuel, 1896). Il 22 giugno 1898, durante il Congresso Internazionale dello Spiritismo a Londra, Rochas pronunciò un discorso successivamente stampato come Frontières de la physique, (Nîmes, Chastanier, s.d.). 121 La traduzione del passo è mia. Nell’originale francese: «superflues […] les découvertes assez puériles du télégraphe et du téléphone. Je veux parler de la communion des esprits ou de l’introspection réciproque de toutes les intelligences et de ce qu’on pourrait appeler la “Télépsychie”, qui permettra à toute âme, à un moment donné, de communiquer avec telle autre qu’elle voudra, située n’importe où dans l’espace ou le temps, après qu’on aura retrouvé les liens qui nous unissent les uns aux autres et dont le magnétisme et la télépathie rattachent actuellement les premiers fils épars» (da Maurice Maeterlinck, Onirologie,

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in Littératures fantastiques. Belgique, terre de l’ étrange. Tome II: 18871914, cit., p. 44). 122 George Du Maurier, Trilby, «Corriere della Sera», 21/22 luglio – 10/11 settembre 1898, per un totale di cinquanta puntate (edizione originale: Trilby, 3 voll., London, Osgood, McIlvaine & Co., 1894). 123 Alessandra Violi, Il teatro dei nervi. Fantasmi del moderno da Mesmer a Charcot, Bruno Mondadori, Milano 2004, p. 170 (il volume è un’estensione del precedente e pressoché omonimo Il teatro dei nervi. L’ immaginario nevrosico nella cultura dell’Ottocento, Bergamo University Press, Bergamo, 2002). Numerose le trasposizioni cinematografiche e omonime di Trilby: la prima, danese, nel 1908, ad opera di Viggo Larsen (1880-1957); quindi nel 1912, austro-ungarica, per la regia di Jacob (1881-1953) e Luise Fleck (1873-1950); nel 1914, britannica, di Harold M. Shaw (1877-1926); nel 1915, negli Stati Uniti, di Maurice Tourneur (1873-1961); nel 1923, di James Young (1872-1948), anche questa una produzione statunitense. È però con il titolo Svengali, nome del sinistro ipnotizzatore di cui Trilby è vittima, che sarà girato l’adattamento oggi più conosciuto del romanzo di Du Maurier, diretto nel 1931 da Archie Mayo (1891-1968) per la Warner Bros. Tuttavia, già nel 1914, i sopra menzionati Jacob e Luise Fleck avevano realizzato un’altra pellicola intitolata Svengali, e nel 1927, con lo stesso titolo, era uscita una produzione tedesca, di cui era regista l’italiano Gennaro Righelli (1886-1949). Nel 1954 sarà la volta dello Svengali (UK) di Noel Langley (1911-1980), e nel 1978 un’ulteriore versione di Al Adamson (1929-1995) e Paul Aratow, intitolata Doctor Dracula (USA). Sulla genesi e la fortuna del testo di Du Maurier cfr. Daniel Pick, Svengali’s Web: The Alien Enchanter in

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Modern Culture, New Haven-London, Yale University Press, 2000. Sull’impatto del mesmerismo nel Regno Unito cfr. Alison Winter, Mesmerized. Powers of Mind in Victorian Britain, Chicago-London, The University of Chicago Press, 1998. 124 Cfr. Anonimo, Le nostre illustrazioni, n. 16, 23 aprile, p. 2, con titoletto «Gli esperimenti del telegrafo senza fili attraverso la Manica», che commenta il «disegno» di Achille Beltrame, a p. 12, accompagnato da un’omonima didascalia. 125 Ing. Giuseppe Erede, L’ illusione Marconi. Un grande avvenimento che non è altro che un’ illusione. Un bel caso per i frenologi. Una lezione per gli spiritisti, «La Domenica del Corriere», n. 5, 2 febbraio 1902, pp. 3-4 (la citazione proviene da p. 4). In edizione recente, l’articolo è reperibile in appendice a Il gran ballo dei tavolini, cit., pp. 98-103. 126 Cfr. Anonimo, Le conquiste della scienza. Il ripetitore Guarini pel telegrafo senza fili, «La Domenica del Corriere», n. 26, 1° luglio 1900, p. 2. 127 Ibidem. 128 Raffaele Pirro, Miraggio e telepatia, «La Domenica del Corriere», n. 46, 18 novembre 1900, p. 2; Id., Come si spiegherà la telepatia, «La Domenica del Corriere», n. 15, 14 aprile 1901, p. 10; Id., Le scoperte del… dimani. L’antropotelegrafia, «La Domenica del Corriere», n. 30, 28 luglio 1901, pp. 10-11. 129 Id., Le scoperte del… dimani. L’antropotelegrafia, cit., p. 10.

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130 Ivi, p. 11. 131 Luigi Capuana, Lettera aperta a Luigi Pirandello: a proposito di un fantasma. Credenti e miscredenti dello spiritismo, in Id., Mondo Occulto, a cura di Simona Cigliana, Catania, Edizioni del Prisma, 1995, pp. 239-240. Originariamente sulla torinese «Gazzetta del Popolo» del 2 gennaio 1906. Prima, introducendo le sue Cronache letterarie (Catania, Giannotta, 1899), lo scrittore siciliano annunciava entusiasta: «S’intravedono facoltà incredibili, si scorgono bagliori di forze prima ignorate o trascurate. L’invisibile diventa visibile, l’occulto si manifesta; […] Ormai nessuno può dubitare di quella forza che il nostro imperfetto linguaggio si rassegna a chiamare psichica, perché la scienza non sa a chi addebitarla, né come contrassegnarla. […] Questo nostro pensiero che finora si è manifestato servendosi della materia, marmo, tavolozza, suono, parola scritta, pare abbia tanta potenza creativa in se stesso, da poter fare a meno di questi mezzi che non riescono a renderlo in tutte le sue sfumature. […] Sappiamo che è possibile spostare gli oggetti con la sola concentrazione della volontà. […] Immagina dunque […] cosa potrà essere l’opera d’arte quando il pensiero non incontrerà più ostacoli nel marmo, nella tela, nei colori, nei suoni, nella parola; quando l’opera d’arte si formerà, si esplicherà con la stessa rapidità e la stessa nettezza dell’idea, cioè quando il pensiero diventerà visibile, tangibile […] quando insomma le creazioni dell’intelletto immaginativo vivranno, sia pure per qualche istante, realmente fuori di noi, quasi proiettate da un cinematografo infinitamente superiore a quello inventato dai fratelli Lumière…» (ivi, pp. XXIX-XXXI). 132 Vittorio Roda, I fantasmi della ragione. Fantastico, scienza e fantascienza nella letteratura italiana fra Otto e Novecento, Napoli, Liguori,

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1996, pp. 153-154. Il capitolo da cui proviene la citazione (Tra scienza e fantascienza: il cervello umano in alcuni scrittori postunitari, pp. 125160) figura originariamente in «Otto/Novecento», settembre/ottobre 1995, pp. 35-64. Sugli aspetti e le “propaggini” più popolari cfr. Clara Gallini, La sonnambula meravigliosa. Magnetismo e ipnotismo nell’Ottocento italiano, Milano, Feltrinelli, 1983, ma anche Stefano Ferrari, Gli studi sull’ ipnotismo e la suggestione tra scienza e misticismo, in Paolo Rossi (a cura di) L’età del positivismo, Il Mulino, Bologna, 1986, pp. 121-152. 133 La traduzione del passo è mia. Nell’originale francese: «je supplie tous ceux qui seraient à même de donner quelque indice à ce sujet, et en général au sujet de tous les desiderata de cet éclaircissement, de vouloir, au nom de tout ce qu’ils ont aimé un jour, adresser leurs renseignements à M. Balfour Stuwart, president of the Society of psychical inquiries, 75, Catherine street, Strand, London, qui se chargera de me les transmettre» (da Maurice Maeterlinck, Onirologie, in Littératures fantastiques. Belgique, terre de l’ étrange. Tome II: 1887-1914, cit., pp. 56-57). 134 Sullo scrittore e il suo interesse per l’aldilà mi limito qui a segnalare l’antologia Fogazzaro e il soprannaturale. Pagine di narrativa fra spiritismo e spiritualismo, a cura di Gilberto Finzi, Cinisello Balsamo (Milano), San Paolo, 1996. 135 Maurice Maeterlinck, L’uccellino azzurro, «Corriere dei Piccoli», nn. 32-42, 1915 (edizione originale: L’oiseau bleu. Féerie en six actes et douze tableaux, Paris, Fasquelle, 1909). In verità, con il medesimo titolo, un estratto dell’opera compare sul «Corriere dei Piccoli» già cinque

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anni prima (n. 2, 9 gennaio 1910, p. 3). A riprova di una certa fortuna dell’opera in un contesto di massa, il cinema dell’epoca (mezzo di comunicazione popolare per eccellenza) ne darà due versioni: The Blue Bird (UK, 1910), di cui non si conosce il regista, prodotta dalla succursale britannica della francese Gaumont, e l’omonima pellicola statunitense del 1918, diretta da Maurice Tourneur per la Famous Players – Lasky Corporation.

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3. Panem et circenses: un po’ circo, un po’ Grand Guignol

136 Anonimo, s.t. [La grande macchina americana Hoe], n. 52, 31 dicembre, p. 2. L’illustrazione in questione è un «Disegno di A. Beltrame, dal vero», intitolato La nostra macchina americana Hoe con la quale viene stampata la “Domenica del Corriere”, e occupa l’intera p. 9. 137 A questo proposito, per vari esempi da «La Domenica del Corriere» e la stampa in genere cfr. Giancarlo Pretini, Il circo di carta, Reana del Rojale (Udine), Trapezio, 1988; sull’attualità si consideri pure la riflessione di Roberto Bianchin, Il Circo nei media. Un salto senza rete, in Alessandro Serena (a cura di), Il Circo. Un mondo in città, Viterbo, Stampa Alternativa/Nuovi Equilibri, 2006, pp. 39-51, corredata da illustrazioni tratte da vari periodici italiani, tra cui il supplemento settimanale del «Corriere». 138 Alberto Abruzzese – Davide Borrelli, L’ industria culturale. Tracce e immagini di un privilegio, Roma, Carocci, 2000, p. 106. 139 Ivi, p. 89 (dove ci si riferisce alle «grandi esposizioni universali»).

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140 Biagio, La lotta e i lottatori, n. 3, 22 gennaio, p. 9. 141 A. Fiaschi, Un caso curioso. A proposito d’un libro sul “Re della réclame”, n. 15, 16 aprile, p. 4. Il volume che offre lo spunto per la recensione è Jehan Soudan, Les Millions de Barnum. Amuseur des Peuples. Autobiographie adaptée de l’Américain, Paris, Hachette et Cie, 1899 (consultabile interamente all’indirizzo gallica2.bnf.fr/ark:/12148/bpt6k113001m.modeAffichageimage.f1.pagination – ultima visita: 1° ottobre 2009). L’autobiografia di Barnum, cui poi si allude con la data del 1850, è in realtà P. T. Barnum, The Life of P.T. Barnum, Written by Himself, New York, Redfield, 1855, la quale ebbe numerosissime edizioni nel Regno Unito, a Londra, sempre nel 1855, per i tipi di Clarke & Beeton, di Sampson Low, Son & Co., di Ward & Lock, di Willoughby & Co. Il citato «Lotte e trionfi» è invece Id., Struggles and Triumphs: or, Forty Years’ Recollections of P. T. Barnum. Written by Himself, Hartford, J.B. Burr, 1869, più volte ristampato con aggiunte; in Francia come Mémoires de Barnum, Limoges, E. Ardant, 1881, tradotto da Raoul Bordier (sic nel volume, ma in realtà Bourdier). In lingua francese, tuttavia, sul Catalogue collectif de France (CCFr) ho reperito una precedente edizione, Les Mémoires de Barnum par G. B., Strasbourg, G. Fischbach, 1877. 142 Anonimo, Parva favilla…, n. 1, 8 gennaio, p. 12. 143 Dacia Maraini, Isolina. La donna tagliata a pezzi, Milano, Arnoldo Mondadori, 1985 e, dal 1992, Rizzoli, con una prefazione di Rossana Rossanda. 144 Di seguito il testo che si accompagna alle illustrazioni: «L’interesse

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che il pubblico dimostra per le cause giudiziarie non è cosa nuova. In ogni epoca fu così, e basterebbe ricordare per tutti il famoso processo “della collana della regina” discussosi a Parigi nel 1785 durante il quale la Francia intera non viveva, si può dire, che per esso. Infatti un processo è assai spesso un romanzo, un emozionante romanzo vero, vissuto, raccontato in pubblico giorno per giorno in tutti i suoi episodi più minuti. Quale romanzo e quale dramma, ad esempio, più emozionanti della causa che da quasi tre settimane si discute davanti al tribunale di Verona? I fatti sono noti. Il 10 [sic] gennaio 1900 furono trovate nell’Adige delle membra umane ancora sanguinanti involte fra vesti e biancheria femminili. I medici dissero trattarsi d’un corpo di donna giovane, donde la certezza, anche per altri indizi, che fosse quello di certa Isolina Canuti scomparsa da qualche dì da casa sua. Ragazza di costumi leggeri, la Canuti era stata amante, fra altri, del tenente Trivulzio, donde i sospetti su lui, il suo arresto, il processo e il suo proscioglimento dalla grave accusa. Dopo molti mesi il deputato di Verona M. Todeschini, socialista e direttore di un giornaletto socialista, rimise in giro le prime accuse a carico del Trivulzio. L’ufficiale non poteva non querelarsi, ed ecco il processo contro il Todeschini, e che il pubblico segue con curiosità morbosa. Nella città di Giulietta tutti gli abitanti non parlano, non pensano, si può dire, che al processo; e il Trivulzio, il Todeschini, il padre Canuti e sua figlia Clelia, sorella dell’Isolina, l’attendente dell’ufficiale, Sitara, e certa Policante amica dell’uccisa e donna – secondo l’opinione generale – che sa tutto, sono diventate figure popolarissime. Il valente pittore Dall’Oca Bianca dal suo posto di curioso ha cercato di fissare per noi su la carta il ritratto morale, lo stato psicologico delle anime di codesti personaggi messi di fronte ai giudici, al pubblico, alla fatalità, e v’è riescito mirabilmente»

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(Anonimo, La donna tagliata a pezzi, a Verona, n. 48, 1° dicembre 1901, p. 3), nella rubrica «Le cause celebri». 145 Gabriele d’Annunzio, Francesca da Rimini, Milano, Treves, 1902 (si legge sul frontespizio, senza punteggiatura, senza accenti e tutto in stampatello: «Francesca / da Rimini / tragedia di Gabriele / d’Annunzio rappresentata / in Roma nell’anno MCMI / a dì IX del mese di decembre / impressa in Milano per i / Fratelli Treves nell’anno / MCMII a dì XX del mese / di marzo»). La vignetta del settimanale presenta uno stilizzato d’Annunzio che, ostentando compiacimento, simulando una forbice con l’indice e il medio della mano sinistra, dichiara: «Orrore! Io stesso, con queste mie mani, le prodigai tanti tagli che ormai non è più una Francesca da Rimini ma una Isolina da Verona!» (Anonimo [firma autografa del disegnatore illeggibile], Un’altra donna tagliata a pezzi!, «La Domenica del Corriere», n. 51, 22 dicembre 1901, p. 11, nella sezione «La nota umoristica»). L’illustrazione è stata recentemente riproposta in calce a Fabrizio Foni, Gli albori della mise en fiction tra pubblicità e satira. Il personaggio prima del personaggio su La Domenica del Corriere, in Luciano Curreri (a cura di), D’Annunzio come personaggio nell’ immaginario italiano ed europeo (1938-2008). Una mappa, Brussels, P.I.E. Peter Lang, 2008, pp. 243-255. 146 Anonimo, Jack. Lo sventratore di Donne. Racconto storico, Firenze, Adriano Salani, 1901, che così si apre: «Le rivelazioni della Gazzetta inglese sulle uccisioni di Londra, dovevano, necessariamente, ripercuotere un’eco dolorosa ovunque, nello scoprire colui che di quelle scene tremende di sangue, si rende tuttora colpevole, senza poter venire a capo di arrestarlo e punirlo. Il nome di Jack, detto lo Sventratore

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di Donne, è, e rimane tuttavia un mistero, e però registrandone i delitti tremendi, non possiamo fare a meno di sentirci l’animo inorridito, il cuore esacerbato, riflettendo fin dove giunga la voluttà del sangue, e la sitibonda frenesia del delitto» (pp. 3-4). Uno sguardo ai resoconti di un giornale come «Cronaca Vera», settimanale presente dal 1969, potrà facilmente dimostrare come, tuttora, il lessico e l’enfasi impiegati per la nera non siano poi così tanto cambiati. Il volume di Salani si rivela però un patchwork di testi legati dal tema orroroso della mutilazione, presentando, oltre al caso di Jack (pp. 3-47), un saggio su I mangiatori di carne umana nell’Africa (pp. 49-85), e un siparietto italiano su Vincenzo Verzeni. Strangolatore di donne (pp. 87110). Salani, a dire il vero, aveva già pubblicato nel 1888 un opuscolo (un instant book, diremmo oggi, considerato che i crimini erano stati commessi tra l’agosto e il novembre dello stesso anno) di sedici pagine, anonimo e quasi omonimo, intitolato Jack l’assassino di Londra detto lo sventratore di donne. Al di là di qualche (minima) variazione, la copertina e il testo sono gli stessi ripresi nel 1901. Uscito qualche anno dopo, segnalo un altro opuscolo anonimo, Jack lo sventratore di donne a Londra, coi ritratti delle assassinate, Codogno (Lodi, ma all’epoca provincia di Milano), Tip. Cairo, 1891, pure questo di sedici pagine. Meriterebbe un’indagine a parte l’interesse suscitato dal serial killer di Whitechapel nella stampa italiana, a partire dai giornali. 147 Anonimo, Una canzonettista fatta a pezzi, «La Domenica del Corriere», n. 32, 9-16 agosto 1908, p. 9, nella sezione «I delitti bestiali». L’articolo parla espressamente di «squartamento della disgraziata». A quanto pare, «il primo film a soggetto girato a Trieste», nel 1908, fu proprio ispirato al «truce assassinio»: Lo squartatore della canzonettista Lucienne Fabry di Salvatore Spina. L’anno seguente «il

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quotidiano polese di lingua tedesca “Polaer Tagblatt”» segnalava L’assassinio della cantante di varietà Lucienne Fabry (di cui non si conosce il regista), «precisando che “non è un film a soggetto”», il che potrebbe «indicare che si trattava di autentiche riprese documentarie». Cito da Carlo Ventura, Trieste nel cinema (1895-2006), Gorizia-Trieste, Istituto Giuliano di Storia, Cultura e Documentazione, 2008, pp. 21, 22 e 23. 148 Per alcune informazioni, aneddoti e testimonianze sugli imbonitori di casa nostra cfr. Giancarlo Pretini, Dalla fiera al luna park. Storie di mestieri e di giostre dal Medioevo ad oggi, Reana del Rojale (Udine), Trapezio, 1984 ed Emilio Vita – Chantal Rossati (a cura di), Viaggiatori della luna. Storia, arti e mestieri dalla Fiera al Luna Park, Milano, Ikon, 1997. 149 A proposito di questo e altri casi analoghi si veda Jan Bondeson, The Feejee Mermaid and Other Essays in Natural and Unnatural History, Ithaca-London, Cornell University Press, 1999, pp. 36-63 e Richard Ellis, Mostri del mare cit., pp. 96-139, in particolare pp. 100-107. Sul ruolo, la presenza e le forme della figura mitologica all’interno dell’immaginario collettivo cfr. Maurizio Bettini – Luigi Spina, Il mito delle sirene. Immagini e racconti dalla Grecia a oggi, Torino, Einaudi, 2007. Sui freak e il cosiddetto sideshow la bibliografia è a dir poco copiosa: segnalo qui Leslie Aaron Fiedler, Freaks: Myths and Images of the Secret Self, New York, Simon & Schuster, 1978 (trad. it. Freaks. Miti e immagini dell’ io segreto, Milano, Garzanti, 1981 e Il Saggiatore, 2009) e A.W. Stencell, Seeing is Believing: America’s Sideshows, Toronto, ECW Press, 2002. Alla lettera, sideshow si può tradurre con “spettacolo affiancato”, o “annesso”, e sta a indicare un intrattenimento secondario

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che si appoggia allo spettacolo principale, come ad esempio il circo. Nel mondo anglosassone, e soprattutto negli Stati Uniti, il termine è stato in breve impiegato per designare l’universo della fiera e dello spettacolo viaggiante in genere. 150 Il testo (La sirena di Brignogan, cit.), di Armand Dayot (1851-1934), si presenta come un resoconto ma, al di là dell’ambiguità formale, si tratta ovviamente di finzione narrativa. Sorge però il dubbio che una tale distinzione fosse assai meno ovvia per alcuni lettori del giornale, la cui interpretazione potrebbe anche essersi mantenuta ai limiti dell’incertezza, se non della credulità. 151 Anonimo, La sirena del golfo di Aden, «La Domenica del Corriere», n. 6, 11 febbraio 1906, p. 4, nella rubrica «Le curiosità della natura». 152 Cfr. Anonimo, La cronaca delle curiosità, n. 49, 10 dicembre, pp. 1213 (tra le cui notizie vi sono le «Strane piante che sembrano animali» e le «Galline che covano uova di pesce»), ma anche M.T.S., Nel regno animale. La tartaruga gigante, ivi, pp. 11-12. 153 Fonte: Edward e Patricia Shillingburg, James Llewellyn Hutchinson (settembre 2003), profilo biografico reperibile come pagina web all’indirizzo www.shelter-island.org/hutchinson.html (ultima visita: 1° ottobre 2009). La traduzione è mia. Nell’originale inglese: «The greatest assembly of curious human beings ever seen together on earth. Collected only after three years constant and persistent researches in almost every portion of the known world. Of incalculable benefit to scientists and naturalists, and a never ceasing source of wonderment to ladies, children, and the adult humanity of the country. Exhibited

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here in this city for the first time, and containing Burmese, Nubian Warriors, Australian Cannibals, Zulu Chiefs, Japanese, Chinese, Syrians, Patagonians, Buddhists, East Indians, Todas People, Aztecs, or ancient sun worshipers, Afgans, Hindoos, real Nantch Dancing Girls (first ever here), and Sioux Indians, Boomerang Casters and many others». 154 Simplex, I Fakiri Indiani, n. 33, 7 maggio, pp. 8-9. La citazione proviene da p. 8. 155 Gli articoli, scritti in Piemonte e in Liguria tra il 1912 e il 1913, uscirono dal 1914 sul quotidiano «La Stampa» e su altri giornali con date fittizie, e furono raccolti dopo la morte dell’autore con il titolo Verso la cuna del mondo. Lettere dall’India (1912-1913), Milano, Treves, 1917. Il volume è stato ristampato nel 1998 dalla torinese EDT, nella collana «Viaggi e Avventura», con una postfazione di Alessandro Monti. Più recente, con l’aggiunta di altre prose inerenti al viaggio indiano, cfr. Guido Gozzano, Nell’Oriente favoloso. Lettere dall’India, a cura di Epifanio Ajello, Napoli, Liguori, 2004. Vale la pena di segnalare come lo scrittore torinese figuri anche sul «Giornale illustrato dei viaggi», con Golconda la città morta (n. 30, 1914, p. 9) e Dopo il voto tragico (n. 36, 1914, pp. 5-6), apparsi in origine sulla «Stampa», rispettivamente il 12 giugno (come I tesori di Golconda) e il 30 gennaio del 1914 (come Un voto alla dea Tharata-Ku-Wha). Quest’ultimo è reperibile in Gianfranco de Turris (a cura di), Le Aeronavi dei Savoia. Protofantascienza italiana 1891-1952, con la collaborazione di Claudio Gallo, Milano, Editrice Nord, 2001, pp. 250-256. 156 Browning approdò al cinema solo dopo esser stato un pagliaccio,

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un illusionista, un acrobata, un presentatore di spettacoli itineranti e persino un fachiro che si faceva seppellire vivo per circa quarantott’ore, appunto per il numero dell’«Ipnotico Cadavere Vivente». Secondo la vulgata, un’esistenza tanto bizzarra avrebbe un’origine ancor più romanzesca: all’età di sedici anni, Browning sarebbe fuggito da Louisville, dove risiedeva, per seguire la Manhattan Fair & Carnival Company, essendosi follemente innamorato di una ballerina. Utilizzo come fonte David J. Skal, The Monster Show: A Cultural History of Horror, New York-London, Norton, 1993 (trad. it. The Monster Show. Storia e cultura dell’ horror, Milano, Baldini & Castoldi, 1998, p. 19). Sul cinema del regista cfr. David J. Skal – Elias Savada, Dark Carnival: The Secret World of Tod Browning. Hollywood’s Master of the Macabre, New York, Anchor Books, 1995; Leonardo Gandini, Tod Browning, Milano, Il castoro, 1996; Bernd Herzogenrath (edited by), The Films of Tod Browning, London, Black Dog Publishing, 2006; Id. (edited by), The Cinema of Tod Browning: Essays of the Macabre and Grotesque, Jefferson-London, McFarland, 2008. 157 Simplex, I Fakiri Indiani, cit., p. 8. 158 Anonimo, Gli orrori del fanatismo. La cerimonia dell’uncino, n. 42, 22 ottobre, pp. 8 e 10. L’articolo si riallaccia esplicitamente a quello precedentemente menzionato. Cito da p. 8, di cui riporto un passo più esteso: «Miniera inesauribile di strane e possenti sensazioni è sempre l’India; ma fra la serie di spettacoli ora magnifici, ora tristi e ributtanti offerti senza posa dalla natura e dal costume in un paese vasto quasi quanto mezza Europa e dove né il bello né il brutto conoscono misura, i più bizzarri ed insieme i più terribilmente emozionanti sono quelli che presenta la superstizione nelle innumeri sue

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forme: spettacoli pietosi per ogni animo sensibile e profondamente rattristanti agli occhi del pensatore. Già nel nostro numero 33, del 20 agosto, abbiamo riprodotto una serie di fotografie prese dal vero, le quali illustravano la vita e le gesta dei troppo famosi Fakiri indiani. Ma non è quella la sola né la più crudele manifestazione dell’incredibile fanatismo di quel popolo: chi ha assistito per esempio alla cosidetta [sic] “Cerimonia dell’uncino” afferma ch’essa sorpassa di molto, in barbarie, quanto si compie individualmente dai cosidetti [sic] illuminati». Il rituale, in sintesi: «È in certe feste celebrate in onore della dea Bhadra Kâli, nello Stato indigeno di Travancore (India meridional[e]) che ha luogo il più strano, il più crudele di tali orrendi sacrificî: la già accennata cerimonia dell’uncino. I devoti si configgono nelle carni del dorso un gancio di ferro mediante il quale vengono sollevati in aria alla presenza dell’immagine della dea, e l’orrore di tale feroce ed inaudita espressione di fanatismo è accresciuto dal fatto che ad essa prendono parte talora ragazzi e persino bambini» (ibidem). 159 Si veda Simplex, Il martirio di un uomo. Storia autentica, n. 8, 26 febbraio, pp. 2-3. 160 Anonimo, Il supplizio della ruota pei condannati ai lavori forzati, n. 43, 29 ottobre, p. 11. 161 Anonimo, Le nostre illustrazioni, n. 12, 26 marzo, p. 2, con titoletto «Tra i cannibali in bicicletta»; l’illustrazione – «L’apparizione della prima bicicletta fra i cannibali, in un villaggio dei Bangwa (Africa). / (Disegno di Frank Dadd da schizzi di A. Lloyd)» – si trova a p. 12.

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162 P. A. McCann, Catturato dai cannibali, n. 37, 17 settembre, pp. 10-12. 163 Ivi, p. 10. Il corsivo è mio. 164 In materia di incontri con bestie e animali singolari, cfr. pure Anonimo, Le nostre illustrazioni, n. 22, 4 giugno, p. 2 (con titoletto «La lotta di un principe con un orso»), con riferimento al disegno di copertina intitolato «La lotta del principe di Molfetta con un orso» (eseguito «dal vero» da Achille Beltrame), ed [Erberto Perkins], Afferrato dai polpi, cit., p. 7. 165 Anonimo, Un incendio nel riparto [sic] bestie feroci nel giardino zoologico di Berlino, n. 48, 3 dicembre, p. 16. Il breve articolo sottostà all’illustrazione di Achille Beltrame, realizzata a partire «da uno schizzo dal vero». Il testo: «All’alba d’un mattino del mese scorso l’incendio si appiccò all’edificio ove sono le gabbie delle bestie feroci nel giardino zoologico di Berlino, che è uno dei più importanti d’Europa. Mentre ardevano le travi del tetto, dei carboni accesi cominciarono a piovere nelle gabbie delle belve, le quali infuriate facevano forza contro i cancelli per fuggire. I guardiani ricorsero all’acqua per domare quelle furie e mantenere fresca la temperatura dei loro corpi. Morì un jaguaro e parecchi animali svennero. Un superbo leone somalo ed una leonessa vennero salvati a stento inondandoli addirittura». 166 Il Dottorissimo, Curiosità e novità della scienza. Il grande cannocchiale di Parigi – La luna ad un metro? – Una visita ai lavori – Le difficoltà – Cosa risponderanno le stelle?, n. 6, 12 febbraio, p. 2. 167 Un significativo estratto: «Le promesse entusiastiche dei giornali

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francesi si erano spinte fino ad affermare enfaticamente che il grande siderostato della prossima esposizione di Parigi ci avrebbe permesso di vedere la luna ad un metro! Confesso sinceramente che non ho creduto, e non ho avuto torto del tutto. Le promesse infatti si limitano ora ad affermare che il poderoso telescopio, questo nuovo Titano dell’astronomia, operando un ingrandimento di 10.000 diametri, ci permetterà di spingere il nostro occhio soltanto fino alla distanza d’un centinaio di chilometri dalla superficie della luna, – ciò che è già molto. Non vedremo certamente – che so io? – i begli occhi delle seleniti – supposto che le seleniti possano esistere nella luna come esistettero nella fantasia dei poeti; però potremo scorgere benissimo qualche cosa che avesse le dimensioni di uno dei nostri piroscafi transatlantici o seguire la marcia ed i movimenti tattici di un esercito di militi lunari» (ibidem). 168 Ritenuto il primo caso di cinema fantascientifico, Le voyage dans la Lune (Francia, 1902) fu realizzato dal factotum Méliès per la propria compagnia, la Star Film, con grande successo internazionale. Sul regista francese, artigiano geniale e padre degli effetti speciali, segnalo qui l’imprescindibile volume bilingue (italiano e inglese) a cura di Paolo Cherchi Usai, Lo schermo incantato. Georges Méliès (1861-1938) / A Trip to the Movies: George Méliès Filmmaker and Magician (18611938), Pordenone-Rochester, Le Giornate del Cinema Muto – International Museum of Photography at George Eastman House – Edizioni Biblioteca dell’Immagine, 1991. Il secondo titolo allude alla più diffusa traduzione anglofona del Voyage dans la Lune, e cioè A Trip to the Moon, e riprende quello della mostra (anch’essa a cura di Cherchi Usai) tenutasi presso la North Gallery della George Eastman House, dal 28 giugno all’8 settembre 1991.

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169 De la Terre à la Lune. Trajet direct en 97 heures viene in origine pubblicato sul «Journal des Débats Politiques et Littéraires», dal 14 settembre al 14 ottobre 1865, quindi su «L’Union bretonne. Moniteur de Nantes et des Départements de l’Ouest» (ottobre 1865), ed è raccolto nello stesso anno in volume (Paris, Hetzel, s.d.). The First Men in the Moon esce nel 1901 per i tipi dell’editore londinese George Newnes. Sulla figura e l’opera di Wells segnalo qui: Vincent Brome, H. G. Wells: A Biography, London, Longmans, Green & Co., 1951; Julij Kagarlickij, Gerbert Uells. Ocherk zhizni i tvorchestva, Moskwa, Goslitizdat, 1963 (trad. it. H. G. Wells. La vita e le opere, Milano, Mursia, 1974); Bruno Sabatini, H. G. Wells, un pioniere della fantascienza, Firenze, Cda libri, 1969; John R. Hammond, An H. G. Wells Companion: A Guide to the Novels, Romances, and Short Stories, London, Macmillan, 1979; Alessandro Monti, Invito alla lettura di Herbert George Wells, Milano, Mursia, 1982; John Batchelor, H. G. Wells, Cambridge-New York, Cambridge University Press, 1985; Michael Coren, The Invisible Man: The Life and Liberties of H. G. Wells, New York, Atheneum, 1993; Michael Foot, H. G.: The History of Mr. Wells, London, Doubleday, 1995; Patrick Parrinder, Shadows of the Future: H. G. Wells, Science Fiction and Prophecy, London-Liverpool, Liverpool University Press, 1995. 170 Fonte: Alberto Carli, Paolo Gorini e l’ombra della Scapigliatura, in Id. (a cura di), Storia di uno scienziato. La Collezione anatomica “Paolo Gorini”, Azzano San Paolo (Bergamo), Bolis, 2005, p. 23. La citazione proviene da Piera Andreoli, Cenni biografici ed attività scientifica di Paolo Gorini (1813-1881), Lodi, Biancardi, 1931, p. 10. Cfr. inoltre Alberto Carli, Anatomie scapigliate. L’estetica della morte tra letteratura, arte e scienza, prefazione di Giuseppe Langella, Novara, Interlinea, 2004, passim.

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171 Anonimo, Il monumento a Paolo Gorini dello scultore P. Giudici, n. 13, 2 aprile, p. 8. Il testo integrale: «Venerdì 24 marzo, in forma pressoché clandestina e senza che i lodigiani stessi lo sapessero, venne inaugurato a Lodi il monumento a Paolo Gorini. Nato a Pavia nel 1813, Gorini visse quasi sempre a Lodi dedicando il vivido ingegno agli studi positivi. Dentro e fuori d’Italia ebbero larga popolarità le sue opere e le sue scoperte sull’origine delle montagne, sulla formazione dei vulcani, sulla pietrificazione dei corpi umani, sulla conservazione delle sostanze alimentari, ecc. Paolo Gorini rammentava gli alchimisti di un tempo. Il popolino infatti lo chiamava “il mago”. I suoi volumi compongono una piccola biblioteca. Morì stoicamente seduto sovra una poltrona il 2 febbraio 1881, a Lodi. Il monumento testé inaugurato è una bella opera dello scultore Giudici». 172 Simplex, Un mago dei nostri giorni. Nikola Tesla e le sue invenzioni, n. 19, 14 maggio, pp. 4-5. Cfr. anche Ing. G., Del telegrafo senza fili. Marconi e Tesla, n. 29, 23 luglio, p. 2 (il cui autore, presumibilmente, è quell’«Ing.» Giuseppe Erede, già menzionato, futuro autore sulla «Domenica del Corriere» della clamorosa gaffe de L’ illusione Marconi, cit.). La rivista però concederà nel tempo più spazio a Edison, anch’egli ribattezzato “mago” e assurto a figura leggendaria: basti pensare a L’Ève Future (1886) di Villiers de l’Isle-Adam (1838-1889), il quale si servì dell’inventore come personaggio letterario, facendone il creatore di un perfetto automa dalle sembianze femminili, a metà strada tra opera di esoterismo e di scienza. Il romanzo si compone di sei parti, ciascuna chiamata «libro» (livre): originariamente, la prima compare con il titolo L’Ève Nouvelle su «Le Gaulois», dal 4 al 18 settembre 1880; quindi passa sulle pagine de «L’Étoile Française», dal 15 dicembre dello stesso anno al 4 febbraio del successivo, senza trovare

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compimento; infine, in versione integrale e con il titolo definitivo, il testo viene proposto da «La Vie Moderne» (18 luglio 1885 – 27 marzo 1886), ed è poi raccolto in volume (Paris, M. de Brunhoff , 1886). Un racconto chiaramente influenzato dall’Ève Future e ospitato dalla «Domenica» è Flora Mirabilis di Epifanio Mussi-Nielli (n. 37, 8-15 settembre 1907, pp. 11 e 14-15). Sempre sul settimanale, a proposito di Edison, cfr. la copertina del n. 14, 6 aprile 1902, illustrata da Achille Beltrame, con didascalia «I grandi inventori: Edison nel suo nuovo laboratorio a Lewelleyn [sic: la grafia corretta è Llewellyn, con due l] Park, Orange / (Da una fotografia eseguita per la Domenica da K. L. Dickson di Orange. – Vedere altre fotografie originali e l’intervista a pag. 8)». Sullo stesso numero infatti: H. Mildmay, Un’ intervista con T. A. Edison (pp. 8-10), con ben cinque fotografie, e così introdotta: «Un nostro collaboratore, il sig. H. Mildmay, trovandosi temporaneamente a New-York, lo abbiamo pregato di recarsi ad intervistare quel meraviglioso tipo di lavoratore e d’inventore che è Tomaso [sic] Alva Edison, e d’inviare alla Domenica delle fotografie originali del suo nuovo laboratorio a Lewellyn [sic] Park, dove Edison si è testé trasferito da Menlo Park. Pubblichiamo la lettera – giuntaci in ritardo causa un guasto all’elica del vapore che la trasportava – la quale ha uno speciale interesse perché ci fa conoscere l’opinione di Edison sul Marconi, e riproduciamo le superbe fotografie (una anche a colori) eseguite apposta per il nostro giornale da K. L. Dickson, di Orange» (ivi, p. 8). E poi: Id., La carrozza di tutti. La nuova scoperta di Edison, n. 32, 1902, p. 3 («Richiamiamo l’attenzione dei lettori sul seguente articolo scritto da chi, unico ancora o quasi unico in Italia, ha potuto vedere materialmente la nuova importantissima scoperta di Edison»). 173 Simplex, Un mago dei nostri giorni, cit., pp. 4-5.

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174 Fonte: Massimo Teodorani, Tesla. Lampo di genio. La Storia e le Scoperte del più geniale inventore del ventesimo secolo, Diegaro di Cesena (Forlì-Cesena), Macro Edizioni, 2005, pp. 86 e 87. Nell’originale inglese, reperibile all’indirizzo www.tfcbooks.com/tesla/1908-04-21. htm (ultima visita: 2 ottobre 2009): «every ponderable atom is differentiated from a tenuous fluid, filling all space merely by spinning motion, as a whirl of water in a calm lake. By being set in movement this fluid, the ether, becomes gross matter. Its movement arrested, the primary substance reverts to its normal state. It appears, then, possible for man through harnessed energy of the medium and suitable agencies for starting and stopping ether whirls to cause matter to form and disappear. At his command, almost without effort on his part, old worlds would vanish and new ones would spring into being. He could alter the size of this planet, control its seasons, adjust its distance from the sun, guide it on its eternal journey along any path he might choose, through the depths of the universe. He could make planets collide and produce his suns and stars, his heat and light; he could originate life in all its infinite forms. To cause at will the birth and death of matter would be man’s grandest deed, which would give him the mastery of physical creation, make him fulfill his ultimate destiny». La lettera di Tesla, recante la data del 19 aprile 1908, fu pubblicata dal «New York Times» il 21 aprile, con titolo Mr. Tesla’s Vision: How the Electrician’s Lamp of Aladdin May Construct New Worlds. 175 Ettore Santi, L’esperienza di Donati, «La Domenica del Corriere», nn. 10 e 11, 11 e 18 marzo 1906, pp. 10-12 e 11-12. Il testo è stato riproposto in Gianfranco de Turris (a cura di), Le Aeronavi dei Savoia, cit., pp. 103-119. Non sono riuscito a stabilire se l’autore della novella

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corrisponde a quell’Ettore Santi, spoletino, onorevole del Partito Repubblicano, passato tristemente alla storia nel 1947 perché colto dalla polizia, vedovo e ormai sessantacinquenne, in possesso di cocaina e in compagnia di una prostituta. Sullo scandalo si sofferma Filippo Ceccarelli, Il letto e il potere. Storia sessuale d’Italia da Mussolini a Vallettopoli bis, seconda edizione aggiornata, Milano, Longanesi, 2007, pp. 34-50 (prima edizione: 1994), da cui la figura di Santi, nel complesso, emerge non solo umanamente simpatica, ma anche d’indiscutibile valore professionale: sempre secondo Ceccarelli, infatti, «[s]i deve anche a lui […] l’ideazione e soprattutto il supporto amministrativo che rese possibile il Festival dei due mondi» (ivi, p. 47). All’epoca del racconto, il futuro parlamentare avrebbe avuto all’incirca ventiquattro anni. Da alcune ricerche cortesemente svolte da Romanilda Tasca, responsabile del servizio bibliotecario del comune di Suzzara, non emergono tracce della presenza di Santi nel territorio. Al di là di quanto si dispone, ossia di nient’altro che un’omonimia, resta ugualmente suggestiva l’ipotesi dell’onorevole novelliere in gioventù, al quale il decantato teletrasporto sarebbe senz’altro stato utile per evitare la flagranza di reato. 176 Ettore Santi, L’esperienza di Donati, cit., n. 10, p. 11. 177 The Prestige (USA-UK, 2006), regia di Christopher Nolan, per la Touchstone Pictures. 178 La pubblicità si presenta sul n. 8 (26 febbraio), a p. 11; ricompare, identica, sul n. 10 (12 marzo), sempre a p. 11, e successivamente, con alcune varianti, sul n. 16 (23 aprile), a p. 10.

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179 Esemplare in quest’ottica il volume miscellaneo Guarire dalla cura. Italo Svevo e i medici, a cura di Riccardo Cepach, Trieste, Comune di Trieste, 2008, realizzato in occasione dell’omonima mostra, allestita nel capoluogo giuliano presso il Museo Sveviano (19 dicembre 2008 – 29 agosto 2009). 180 La réclame occupa l’intera p. 15 del n. 36, 9 settembre 1900. 181 Sul n. 39, 25 settembre 1904, p. 15. Va sottolineato come, un po’ alla pari del Tesla descritto da Simplex (si veda la precedente nota 172), e al contempo quasi a ricordare un novello Franz A. Mesmer (1734-1815), il dottor Maclaughlin venga ritratto con le mani che emettono benefiche scariche elettriche (rappresentate a mo’ di piccoli fulmini). La pubblicità sentenzia: «Noi abbiamo la guarigione [in grassetto, a caratteri molto più grandi]. Noi non possiamo comprendere come esistano dubbî circa la potenza dell’elettricità, come generatrice di vitalità, se si riflette un istante a ciò che questa elettricità può produrre sotto altre forme. È una forza motrice, il fatto è stabilito. Noi pretendiamo affermare ch’essa può applicarsi al corpo umano purché impiegata con giudizio, e noi appoggiamo le nostre asserzioni mostrando cinquantamila guarigioni ottenute durante i nostri venticinque anni d’esperienza. Il nostro modo d’impiegarla è il buono, lo dicono i nostri stessi malati che lo devono sapere, poiché da noi furono guariti». Una diversa pubblicità dell’Electro-Vigor, con l’annuncio «Io sono in perfetta salute. Potete voi dire altrettanto?», è presente sul n. 16, 16 aprile 1905, a p. 15; un’altra ancora sul n. 24 (11 giugno) del medesimo anno, ancora a p. 15: «Riconoscenza [in grassetto, a caratteri molto più grandi]. Ecco qual’è [sic] l’aspetto degli uomini che intrapresero la mia cura alla quale devono la

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guarigione. I loro cuori traboccano di riconoscenza. Io posso guarire tutti gli ammalati e deboli con l’Elettricità. Io già dissi che l’elettricità [in maiuscolo] è la vita [in maiuscolo], ed ora gli scienziati ed i medici approvano le mie affermazioni. Permettetemi di provarvelo. Lasciatemi dimostrarvi come il mio metodo d’applicazione di questa grande forza, abbia rivoluzionato le cure mediche! Migliaia d’ammalati ne tessono l’elogio per essere stati guariti da essa dopo che tutte le altre cure fallirono». Si riporta quindi, a testimonianza, la lettera d’un sacerdote di Jesi (Ancona), tale don Alessandro Pistelli, che assicura di essere stato meravigliosamente guarito dalla gotta. Il dottor Maclaughlin, o chi per lui, rivolge un avventato quanto sinistro invito ai lettori: «Non prendete più medicine [in grassetto, molto grande] poiché tutte le medicine del mondo non rendono il fuoco al vostro sangue, né l’elettricità ai vostri nervi. Voi non potete guarire medicando il vostro stomaco, poiché una cura simile non può ridare forza alcuna. […] L’uso del mio metodo v’assicurerà la felicità futura». 182 Sul n. 2, 14 gennaio 1906, p. 2. 183 La réclame si trova sul medesimo numero, a p. 15. 184 Per gli effetti spesso perturbanti della ricerca scientifica sui media e sull’immaginario collettivo cfr. Jon Turney, Frankenstein’s Footsteps: Science, Genetics and Popular Culture, New Haven-London, Yale University Press, 1998 (trad. it. Sulle tracce di Frankenstein. Scienza, genetica e cultura popolare, Torino, Edizioni di Comunità, 2000).

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185 A. Adler, Racconto… come nessun altro. La morte purpurea, n. 49, 10 dicembre, pp. 3-4 e 6-8. Non sono riuscito a rintracciare il titolo e gli estremi bibliografici originali, né a reperire notizie attendibili sull’autore. 186 Ivi, p. 3. 187 Ivi, p. 4. 188 Ivi, p. 6. 189 Ivi, pp. 7-8. 190 Ivi, p. 8. 191 Di Grifoni segnalo, tra narrativa e saggistica: Dalla terra alle stelle. Viaggio meraviglioso di due italiani ed un francese, Firenze, Tipografia Editrice di Luigi Niccolai, 1887 (dai cataloghi risulta una seconda edizione, per lo stesso editore e nel medesimo anno, e poi un’edizione del 1890, per i tipi del romano Edoardo Perino, con cui si arriva alla quinta ristampa); Aspasia. Scene della vita greca sotto Pericle, Roma, Edoardo Perino, 1891; Geografia astronomica e fisica, secondo i programmi degli istituti tecnici, Firenze, Le Monnier, 1896; Geografia elementare, per uso delle scuole ginnasiali, tecniche e normali, Firenze, Le Monnier, 1897; Magellano scoprì lo stretto che porta il suo nome?, Roma, Tip. L. Cecchini, 1901; Un romanzo d’amore a Rapallo, Genova, E. Weilenmann, 1907. Degno di particolare attenzione è il romanzo Dopo il trionfo del socialismo italiano. Sogno di un uomo di cuore (Genova, Libreria Editrice W. Frikart, 1907), «in risposta

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al volume di Eugenio Richter, deputato del Reichstag tedesco, che, con lo stesso titolo, aveva voluto dimostrare l’impossibilità dell’affermazione del movimento socialista, esagerandone i difetti». Cito da Claudio Gallo, «Bisogna l’ impossibile». Appunti su viaggi straordinari, società future, macchine mirabolanti, sperimentazioni meravigliose nella letteratura “popolare” tra Otto e Novecento, in Id. (a cura di), Viaggi straordinari tra spazio e tempo, S. Martino Buon Albergo (Verona), Grafiche AZ, 2001, p. 59. La prima edizione in lingua originale dell’opera distopica di Eugen Richter (1838-1906) mi risulta essere Sozialdemokratische Zukunftsbilder. Frei nach Bebel, Berlin, Verlag Fortschritt, 1891 (trad. it. Dopo la vittoria del socialismo, unica traduzione autorizzata sulla duecento venticinquesima edizione tedesca, con una prefazione di Francesco Saverio Nitti e Gaetano Negri, Milano, Treves, 1892). 192 Anonimo, Si può compiere il giro del mondo in trenta giorni?, n. 46, 19 novembre, p. 2. Originariamente Le Tour du monde en quatre-vingts jours di Verne appare a puntate nel 1872 su «Le Temps», dal n. 4225 del 6 novembre al n. 4271 del 22 dicembre. Viene quindi raccolto in volume nello stesso anno (Paris, Hetzel, s.d.). 193 Anonimo, Si può compiere il giro del mondo in trenta giorni?, cit., p. 2. 194 Ulisse Grifoni, Il giro del mondo in trenta giorni, Milano, Casa Editrice La Milano, 1899, poi ristampato nel 1903, sempre nel capoluogo lombardo, da Vallardi. 195 Anonimo, Si può compiere il giro del mondo in trenta giorni?, cit., p. 2.

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196 Simplex, Le conquiste della scienza. L’ultima meravigliosa invenzione, n. 41, 15 ottobre, pp. 2-3. 197 Anonimo, Il giro del mondo in 30 giorni e la meravigliosa scoperta di Sczepanick [sic], n. 52, 31 dicembre, p. 10. Il sodalizio tra Grifoni e «La Domenica del Corriere» procederà alla perfezione, e il romanzo verrà di nuovo e più espressamente pubblicizzato dalla rivista sul n. 3, 20 gennaio 1901, a p. 3, con il seguente anonimo trafiletto: «Per un patto speciale coll’editore, tutti i nostri associati, che lo desiderano, possono avere, inviando lire 2, anziché per lire 4, il romanzo / Il giro del mondo in 30 giorni [in grassetto maiuscolo, a caratteri più grandi] / del nostro collaboratore prof. Ulisse Grifoni. È un grosso volume, splendidamente illustrato, in carta di lusso, nel quale vengono descritte le meravigliose avventure di questo rapidissimo viaggio che è una continuazione del celebre viaggio di Giulio Verne [in maiuscolo]. / Quelli che dimorano fuori di Milano uniscano cent. 60 per il pacco postale». 198 Nicoletta, Mosaico, n. 5, 5 febbraio, p. 8. 199 Io Ciclo, Il “Polo-Bicicletta”, ivi, pp. 9-10, all’interno della rubrica «Sport». 200 C. N., Eccentricità velocipedistiche. Dal pietoso al grottesco, n. 34, 27 agosto, p. 8. 201 Anonimo, Gli eccentrici della vita. Un lord suonatore d’organetto, n. 7, 19 febbraio, p. 10.

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202 Rispettivamente: Anonimo, Una barba fenomenale, n. 13, 2 aprile, p. 8 (nella sezione «Curiosita [sic]») e Anonimo, La più vecchia donna del mondo, n. 26, 2 luglio, p. 4. Nel primo, si parla di un certo «sig. Tapley», un sessantottenne del Missouri, che possiede una barba lunga due metri e settantacinque centimetri. La stranezza però «ferma la gente sul suo passaggio fino ad inceppare la circolazione nelle vie rendendo necessario l’intervento della polizia, come avvenne recentemente a Chicago». L’articolo rende anche noto che «[d]i solito egli tiene la barba accuratamente arrotolata entro un sacco di seta introdotto nell’apertura della camicia; ogni mattina usa ungerla con olio finissimo e pettinarla. Parecchi proprietari di musei di curiosità gli fecero brillantissime proposte, che il signor Tapley si guardò bene dall’accettare». 203 Il Grand Guignol era un piccolo teatro parigino, aperto da Oscar Méténier (1859-1913) al 20/bis di rue Chaptal, nel quartiere di Montmartre. Le rappresentazioni che vi ebbero luogo, dal 1897 fino al 1962, dal crudo naturalismo di partenza si volsero in breve all’insegna del macabro e dell’orrore più raccapricciante: rappresentazioni paurose e sadiane fino all’eccesso, per cui la riuscita di una pièce era valutata in base al conto degli svenimenti in sala. Per tale peculiarità non tardò a divenire famoso, tanto da inaugurare una vera e propria moda. Sul suo palcoscenico erano all’ordine del giorno stupri, decapitazioni, supplizi, manifestazioni paranormali, aberranti esperimenti chirurgici. André de Lorde (1869-1942), uno dei più famosi sceneggiatori del Grand Guignol, si avvalse persino della collaborazione del grande psicologo Alfred Binet (1857-1911) per conferire un aspetto realistico alla follia dei suoi personaggi. Nel 1908 questo genere teatrale fu importato in Italia dalla Drammatica Compagnia Italiana

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di Pietro Carlomagno, diretta da Alfredo Sainati (1868-1936). Alcuni riferimenti bibliografici: François Rivière – Gabrielle Wittkop, Grand Guignol, Paris, Henri Veyrier, 1979; Mel Gordon, The Grand Guignol: Theatre of Fear and Terror, New York, Amok Press, 1988; Agnès Pierron (édition établie par), Le Grand-Guignol. Le théâtre des peurs de la Belle Époque, Paris, Robert Laffont, 1995; Richard J. Hand – Michael Wilson, Grand-Guignol: The French Theatre of Horror, Exeter, University of Exeter Press, 2002; Agnès Pierron, Les nuits blanches du Grand-Guignol, Paris, Éditions du Seuil, 2002; Richard J. Hand – Michael Wilson, London’s Grand Guignol and the Theatre of Horror, Exeter, University of Exeter Press, 2007. In lingua italiana, o comunque tradotti, si vedano: Corrado Augias (a cura di), Teatro del Grand Guignol, Torino, Einaudi, 1972 (che oltre a raccogliere tredici drammi presenta una nota storica generale e alcuni dati sul Grand Guignol in Italia); Andrea G. Pinketts, Grand Guignol: il piccolo teatro degli orrori, «Almanacco della Paura», 1994, pp. 152-161; David J. Skal, The Monster Show. Storia e cultura dell’ horror, cit., pp. 45-50; Carla Arduini, Il paradosso del Grand Guignol in Italia. I primi tre anni (1908-1910), «Teatro e Storia», n. 23, 2001, pp. 311-344. 204 Anonimo, Le nostre illustrazioni, n. 7, 19 febbraio, p. 2, con riferimento alla «composizione» di Achille Beltrame, «La tragedia di Villa Bellocchi del 29 gennaio», in copertina dello stesso numero. 205 Il copione di questa pièce è reperibile in Agnès Pierron (édition établie par), Le Grand-Guignol. Le théâtre des peurs de la Belle Époque, cit., pp. 1201-1222. Il dramma sarà omaggiato di almeno due trasposizioni filmiche omonime, entrambe produzioni francesi: la prima, del 1921, diretta da Henry Krauss (1866-1935); la seconda, del 1929, per

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la regia di André Hugon (1886-1960), convenzionalmente considerata la prima pellicola sonora realizzata in Francia. Consultando l’Internet Movie Database (www.imdb.com), inoltre, mi sono imbattuto ne Le corso tragique (Francia, 1908), di Albert Capellani (1874-1931), di cui si segnala come titolo alternativo proprio Les trois masques. L’ambientazione in Corsica, che si evince dal titolo, e l’anno, sembrano confermare un immediato adattamento dell’opera teatrale per il grande schermo. 206 Rispettivamente: Richard Ambrose Kicks [sic ma Hicks], Sensazioni di un impiccato. Dai ricordi di un comico inglese, n. 9, 5 marzo, pp. 8-9 e Dott. Favari, La confessione di un cocainomane, n. 43, 29 ottobre, p. 2. Il resoconto è così introdotto: «Al celebre attore comico inglese R. A. Hicks occorse un dì, nella sua carriera, di venire quasi impiccato per errore, né egli tornò in vita che con grandi stenti. Così egli racconta le sensazioni provate in quel terribile momento». L’autore del secondo titolo, Pietro Favari, che riporta la confessione d’un collega, diverrà ben noto ai lettori della «Domenica del Corriere» come «Dott. Petrus», rispondendo in un’apposita e longeva rubrica alle questioni di natura medica. Pubblicò anche volumi quali La difesa sociale contro le malattie d’ infezione. Questione d’ igiene (Milano, Tip. Ditta BoniardiPogliani, 1895); Il medico di se stesso. Libro per tutti (Lodi, Tip. Edit. Enrico Wilmant, 1904), riproposto in varie edizioni fino al 1938; I consigli del dott. Petrus (Milano, Tip. Lit. Agraria, 1904); Il libro della salute. Nuovi consigli del dott. Petrus (1905) e un Manuale di medicina sacerdotale (1914), entrambi sempre per i tipi di Enrico Wilmant. 207 Anonimo, Le nostre illustrazioni, n. 11, 19 marzo, p. 2, con il titoletto «Il disastro ferroviario di Forest (Belgio)». In quarta di copertina, il

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«Disegno di A. Beltrame da fotografie rimesseci», dal titolo «Belgio: il disastro ferroviario di Forest». 208 Simplex, La ferrovia dell’avvenire. 240 chilometri all’ora!, n. 12, 26 marzo, p. 9. 209 Anonimo, Le nostre illustrazioni, n. 23, 11 giugno, p. 2: «La morte d’un bravo ufficiale», che spiega il «Disegno di A. Beltrame» in quarta di copertina (p. 12) dal titolo: «La morte del capitano Bellini aiutante di campo del generale Goiran, ad Udine». 210 Rispettivamente: L. H. Eisenmann, Alle prese coi lupi, sull’altare. Raccapricciante avventura d’un sacrestano, n. 24, 18 giugno, p. 3 e Carlo Dadone, Il Testamento del Naturalista, n. 25, 25 giugno, p. 2 (è specificata in calce la provenienza del racconto, Torino). Dadone si dedicò assiduamente alla narrativa “di genere”, dalla letteratura per l’infanzia all’avventura pura. La sua firma appare assai di frequente sulla «Domenica del Corriere», sul «Corriere dei Piccoli», e su «Cuor d’Oro», un giornale illustrato per ragazzi pubblicato dall’editore torinese Alberto Giani, dal 1922. Fu incaricato della direzione de «La Nuova Lettura», quindicinale stampato nel capoluogo piemontese da Renzo Streglio, a partire dal 1905, con la pretesa di offrire un’alternativa alla ben più potente «Lettura» del «Corriere della Sera». Tra i vari titoli in volume, parte dei quali ristampata più volte fino agli anni Cinquanta e Sessanta, si rammentano qui: Come presi moglie. Autobiografia di un ex ghiottone ed altri racconti, Torino, Renzo Streglio, 1902; La forbice di legno. Nuovi racconti, Torino, Renzo Streglio, 1904; Il tesoro del Re Negro, Milano, Treves, 1911; Ninetto Bardi l’avventuriero. Romanzo per ragazzi, Palermo,

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Remo Sandron, 1915; La piccola Giovanna, Torino, S.A.I.D. Buona Stampa, 1916; Il delitto del commendatore. Scene dal vero della vita torinese, Milano, Treves, 1920 (2 voll.); Ciccio Bomba. Storia di un ragazzo che picchiava sodo, Torino, S.E.I., 1922; Una piccola Robinson. Romanzo d’avventure, Torino, S.E.I., 1923; Le eroicomiche avventure di Biribi, Milano, Treves, 1924; Le nuove avventure di Biribi, poliziotto e portafortuna, Milano, Treves, 1924; Chisciottino in cerca di dispiaceri. Romanzo per ragazzi, Palermo, Remo Sandron, 1928. Assieme all’amico Giovanni Bertinetti (1872-1950) produsse Il viaggio di un balilla intorno al mondo, Torino, S.E.I., 1931. Due sue novelle di taglio “fantastico-spiritico”, apparse sulla «Domenica del Corriere», sono state recentemente riproposte in Fabrizio Foni (a cura di), Il gran ballo dei tavolini, cit., pp. 31-58 (si tratta, in ordine, de L’ invincibile, nn. 33 e 34, 17 e 24 agosto 1902, pp. 10-12 e 10-11 (con il soprattitolo «Racconti incredibili»), e di Chiaroveggenza?, nn. 40 e 41, 5 e 12 ottobre 1902, pp. 10-12 e 11-12). 211 Nicoletta, In casa e fuori. Noterelle utili specialmente alle signore, n. 44, 5 novembre, pp. 12-13. Si cita da p. 12. 212 Anonimo, Superstizioni e credenze. La danza dei serpenti ad [sic] Arizona, n. 47, 26 novembre, pp. 8 e 10. Il brano citato proviene da p. 8. 213 In proposito cfr. Joe Nickell, Peddling Snake Oil (dicembre 1998) e Id., Snake Oil: A Guide for Connoisseurs (settembre 2006), rispettivamente ai seguenti indirizzi: www.csicop.org/sb/show/peddling_snake_oil e www.csicop.org/sb/show/snake_oil_a_guide_for_connoisseurs (ultima visita: 6 ottobre 2009). Ma si vedano anche: William H. Helfand, Quack, Quack, Quack: The Sellers of Nostrums in Prints, Posters,

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Ephemera & Books, New York, Grolier Club, 2002; Ann Anderson, Snake Oil, Hustlers and Hambones: The American Medicine Show, foreword by Heinrich R. Falk, Jefferson, McFarland & Company, 2000; Gene Fowler (edited by), Mystic Healers & Medicine Shows: Blazing Trails to Wellness in the Old West and Beyond, Santa Fe, Ancient City Press, 1997; David and Elizabeth M. Armstrong, The Great American Medicine Show: Being an Illustrated History of Hucksters, Healers, Health Evangelists, and Heroes from Plymouth Rock to the Present, New York, Prentice Hall, 1991. 214 L. K., Il cappello di Nannina, n. 5, 5 febbraio, p. 3. 215 A. [Antonio] Fortina, Su l’aia, n. 35, 3 settembre, p. 2. Un altro passo suggestivo: «Alta, scheletrita, coi capelli che le scendono aggrovigliati e madidi di sudore sulle acute sporgenze degli zigomi, la Nencia dall’alto della trebbiatrice sembra una figura spettrale. Le sue braccia lunghe e scarne fendono l’aria con una misurata compostezza automatica per togliere il fastello dal tridente e passarlo alle compagne» (ibidem). Dell’autore si sono rintracciati i seguenti, assai eterogenei titoli: L’opera letteraria di Felice Cavallotti. Commemorazione pubblica tenuta nel Teatro Sociale di Arona l’11 aprile 1898, Arona (Novara), Stab. Tip. Cazzani, 1899; Ugo e Rambaldo. Leggenda medioevale in due atti, musica del maestro Alfredo Alessio, Arona, Cazzani, 1900; Il cicisbeismo, con riguardo speciale al Giorno di G. Parini e alla satira contemporanea al Parini, Arona, Stab. tipo-lit. Cesare Brusa, 1906; I lavoratori del campo, specialmente considerati nei tempi e nei luoghi del Codice Diplomatico Longobardo, Arona, Tip. S. Cazzani, 1906; I pirati. Operetta in tre atti, musica di Alfredo Alessio, Milano, Tip. Istituto Marchiondi, 1916; Storia d’Italia, per le Scuole Professionali

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di 1° Grado. Classe prima (Gli albori della libertà, 1815-1848), Torino, Lattes, 1916; I grandi generi letterari. Appunti preliminari allo svolgimento della letteratura (Patronato Scuola Serale di Commercio di Torino), Torino, G. Chiantore, 1927; Mariolle e altre storielle di nuovi e vecchi tempi, Torino, Montes, 1933. 216 A. B., Il club dei suicidi, n. 40, 8 ottobre, pp. 3-4 e 6-7. Non sono riuscito a identificare l’autore. Le nove illustrazioni presenti indicano come anno di realizzazione il 1896, e recano la firma di Frank Craig (1874-1918), collaboratore d’importanti riviste britanniche quali «The Graphic» e «Nash’s Magazine», e statunitensi come lo «Scribner’s Magazine», il «McClure’s» e l’«Harper’s». 217 Originariamente in «The London Magazine» (giugno – ottobre 1878) e poi raccolto in New Arabian Nights, 2 voll., London, Chatto & Windus, 1882. 218 A. B., Il club dei suicidi, cit., pp. 4 e 6 (la p. 5 è interamente riservata a un annuncio pubblicitario). 219 Ivi, pp. 3-4. Sulla ghigliottina e il suo fascino sull’immaginario segnalo Antonio Castronuovo, La vedova allegra. Storia della ghigliottina, Viterbo, Stampa Alternativa/Nuovi Equilibri, 2009; Robert Frederick Opie, Guillotine: The Timbers of Justice, Stroud, Sutton, 2003; Daniel Gerould, Guillotine: Its Legend and Lore, New York, Blast Books, 1992; Alberto Boatto, Della ghigliottina considerata una macchina celibe, Milano, Politi, 1988 e Scheiwiller, 2008; Daniel Arasse, La guillotine et l’ imaginaire de la Terreur, Paris, Flammarion, 1987 (trad. it. La ghigliottina e l’ immaginario del Terrore, Milano, Xenia, 1988);

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Alister Kershaw, A History of the Guillotine, London, John Calder, 1958 (trad. it. Storia della ghigliottina, Milano, Feltrinelli, 1960). 220 Le sottolineature sono presenti nell’originale. 221 Augusto Bissiri, “Sparrow-Club”. Racconto, «La Domenica del Corriere», nn. 1 e 2, 5 e 12 gennaio 1902, pp. 10-12 e 11-13. In calce, si specifica che il testo è stato spedito da Roma. Reperisco alcune informazioni biografiche sull’autore in un articolo di Giuseppe Deplano, Augusto Bissiri. L’ inventore della televisione, «Il Messaggero Sardo», giugno 1998, p. 19, nella rubrica «Personaggi». Nasce a Cagliari nel 1879. Nel 1900 inventa «uno speciale apparecchio per evitare lo scontro dei treni», che lo rende vincitore del «primo premio in un concorso d’idee, curato dalla fac.[oltà] d’ingegneria dell’Univ.[ersità] di Roma», il cui brevetto è «acquistato dalla società statunitense Westinghouse (nota produttrice di treni)». Nel 1905 viene convocato «da una società d’ingegneria americana» e si sposta a New York. Tra le numerose altre invenzioni di quest’avvocato (aveva conseguito la laurea in giurisprudenza, nel 1903), vanno ricordate la trasmissione telegrafica delle fotografie, che sperimenta con esiti positivi nel 1906, all’interno della redazione del «New York Herald». Quindi «[n]el 1909 chiam[a] a sé anche i familiari, compreso il fratello Attilio, futuro scienziato». Più avanti, nel 1917, «a questo primo successo ne segue un altro, ancor più stupefacente, quando riesce a teletrasmettere alcune fotografie dalla redazione londinese del London Daily Mail [sic, ma «Daily Mail»] alla sede newyorchese del New York Times», per cui sarà considerato un precursore della televisione. Muore nel 1968. 222 Alcuni cenni, funzionali al confronto: gli iscritti allo strano club

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che dà il titolo alla novella ricevono un ingente stipendio in denaro da uno sconosciuto milionario. Ogni mese, però, uno di loro viene estratto a sorte, e deve morire: ogni socio è stato infatti assicurato con una polizza sulla vita. I membri sono pertanto sempre pedinati e controllati da alcuni spettrali osservatori. Dal momento che sono assicurati pure sugli infortuni, molti si fanno appositamente investire e risarcire, benché al prezzo di lesioni inguaribili e orrende mutilazioni. Uno dei soci ha tuttavia ideato un astuto e singolare stratagemma per non essere sorteggiato. 223 Gino Chelazzi, Fra due cuori, n. 45, 12 novembre, p. 8. Un breve profilo dell’autore: nasce a San Casciano in Val di Pesa (Firenze) nel 1868. Dopo gli studi classici diviene funzionario di dogana, risiedendo quattordici anni a Venezia, per poi essere trasferito a Palermo, e in seguito a Oneglia (dal 1923 uno degli undici comuni costituenti Imperia), e a Manfredonia. Infine, raggiunta l’età della pensione, verso il 1933, si stabilisce a Livorno. Il suo esordio nel giornalismo avviene nel 1899, sull’«Italia del Popolo». Collabora ai due quotidiani labronici «Il Telegrafo» e la «Gazzetta Livornese», e fa il corrispondente per «La Nazione». Scrive pure sotto pseudonimo, ricorrendo ai nomi Libero Lari, Antonio Zanin e Gualberto Atanor. Come Pippo da Brozzi, pubblicò poesie in vernacolo fiorentino su «Il Lampione», rivista satirica fondata nel 1848 da Carlo Collodi (1826-1890). Dalla Salani di Firenze ha l’incarico di realizzare diciassette romanzi per la nota collana «Biblioteca dei Miei Ragazzi», tra cui Il romanzo d’un ragazzo (1933), Euro, ragazzo aviatore (1936) e il seguito Euro ritorna. La Freccia Azzurra (1939), Due ragazzi e una scimmia (1938), Piccolo Re (1941), Tonino l’ inventore (1941): una produzione che risente profondamente del clima fascista dell’epoca, e sulla quale vigila

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strettamente il Ministero della Cultura Popolare. Sempre per i tipi di Salani, ma per «I Libri della Festa», compaiono Cinque ragazzi garibaldini (1939), Un ragazzo alla Missione (1940) e Il mozzo dell’Etruria (1941). Nel 1949, per la fiorentina Nerbini, esce L’ isola delle perle. Avventura di terra e di mare, nella collana «Stella d’oro». Scompare nel 1956. 224 Gino Chelazzi, Fra due cuori, cit., p. 8. 225 Ibidem. 226 Questa e le precedenti citazioni: ibidem. 227 V. L., Come si è vendicato lo scultore Carati. Racconto, n. 46, 19 novembre, pp. 3-4 e 6-7. Non sono riuscito a identificare l’autore dietro le iniziali. A dispetto dell’ambientazione siciliana, però, le illustrazioni fanno pensare a uno scrittore britannico: siglate A. P., sembrano attribuibili ad Alfred Pearse (1856-1933), collaboratore di vari magazine, tra cui «The Strand», «The Captain», «The Harmsworth» e la testata per ragazzi «The Boy’s Own Paper». 228 Ivi, p. 6. 229 Huan Mee [Charles Herbert e Walter Edward Mansfield], Racconto incredibile. La statua nera (dall’inglese), n. 17, 30 aprile, pp. 2-4. Per la prima volta, il racconto appare in «The Harmsworth Magazine» (febbraio 1899). In lingua originale il testo è consultabile all’indirizzo www. amalgamatedspooks.com/blackstatue.htm (ultima visita: 6 ottobre 2009).

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230 Ivi, p. 3. Il dottor Hazard, inoltre, afferma: «Ho […] in serbo veramente qualche invenzione che stupirà il mondo. Per esempio l’illuminazione di questa stanza è un mio secreto: questa luce elettrica può bruciare per anni di seguito senza bisogno di rinnovarla. L’elettricità come è conosciuta finora non val niente; come la conosco io è un potere che governa il mondo: è capace di prolungare la vita oltre ogni più ardita aspirazione e di conservare, dopo morto, il corpo umano inalterabile per l’eternità» (ibidem). 231 E. C. [Erckmann-Chatrian], Il ragno della Guiana, n. 47, 26 novembre, pp. 3-4 e 6-7. Originariamente in Id., Contes fantastiques, Paris, Librairie Hachette, 1860, nella collana «Bibliothèque des chemins de fer». In traduzione italiana, il racconto è pure reperibile in Piero Pieroni (a cura di), Destinazione Universo. Racconti di fantascienza, Firenze, Vallecchi, 1957, pp. 105-118 (come Il ragno della Guinea) e in Erckmann-Chatrian, Le acque della morte. Storie dell’orrore, a cura di Stefania Papetti, Roma-Napoli, Theoria, 1994, pp. 15-45 (come Le acque della morte). 232 Un altro colpevole – questa volta umano – individuato ricorrendo all’ipnosi lo si ha, alcuni anni dopo, sempre sulla «Domenica», nella novella Il questore, il cui autore si firma con la sola iniziale R (n. 20, 19 maggio 1907, pp. 14-15). Il testo è riproposto in Fabrizio Foni (a cura di), Il gran ballo dei tavolini cit., pp. 81-87. 233 Them! (USA, 1954), regia di Gordon Douglas, per la Warner Bros; Tarantula (USA, 1955), regia di Jack Arnold, per la Universal International Pictures. 234 [Arthur] Conan Doyle, La storia del N. 24 (Lettera aperta all’ ispettore

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delle prigioni), n. 52, 31 dicembre, pp. 3-4 e 6-7. Originariamente apparsa su «The Strand Magazine» del marzo 1899 (con il titolo più esteso di quello successivamente adottato, cioè The Story of the B24 anziché B.24, da cui l’evidente calco della traduzione italiana). 235 Ivi, p. 7. 236 Vea, Fra le ombre, n. 8, 26 febbraio, p. 8. L’articolo è reperibile in versione integrale in appendice a Fabrizio Foni (a cura di), Il gran ballo dei tavolini, cit., pp. 91-93. 237 Ibidem. 238 Ibidem. 239 Sul n. 11, 19 marzo, p. 10. I riferimenti bibliografici, per esteso: Armando Pappalardo, La telepatia (Trasmissione del pensiero), Milano, Hoepli, 1899; Id., Spiritismo, Milano, Hoepli, 1898; Giulio Belfiore, Magnetismo ed ipnotismo, Milano, Hoepli, 1898. A testimonianza di quanta attenzione, ancora ai primi del Novecento, riscuotessero le manifestazioni paranormali, si veda il volume a cura di Gabriele Mina, Spiriti inquilini. Le case “ infestate” fra palcoscenici e tribunali (Nardò [Lecce], Besa, s.d. [ma 2008]) che, assieme a saggi di Cecilia Magnanensi, Massimo Biondi, Mauro Canova, Davide Manti e dello stesso Mina, propone degli eloquenti estratti da Francesco Zingaropoli, Case infestate dagli Spiriti. Realità [sic] dei fenomeni. Le case infestate di fronte al Diritto (Napoli, Società Editrice Partenopea, 1917) e da Cesare Lombroso, Ricerche sui fenomeni ipnotici e spiritici (Torino, Unione Tipografico-Editrice Torinese, 1909).

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240 Giuseppe Giordano, Teosofia, Milano, Hoepli, 1907. 241 Sul sito italiano della Società Teosofica, alla sezione Teosofia in Italia, Decio Calvari è presentato come «Segretario Generale del Parlamento» (www.teosofica.org/it/galleria-storica/teosofia-in-italia/,29 – ultima visita: 5 novembre 2009). Tale qualifica era stata dal sottoscritto presa per buona, e perciò segnalata in Alla fiera dei mostri cit., p. 133 e in «Tittologichi»!, postfazione al Gran ballo dei tavolini cit., p. 135. In seguito a una mia richiesta d’informazioni, Stefano Tabacchi (che ringrazio), Consigliere parlamentare alla Biblioteca della Camera dei deputati, mi scrive tramite e-mail che «nei repertori biografici e nei volumi sulla storia dell’amministrazione del Parlamento consultabili presso la Biblioteca non è stato possibile rintracciare informazioni relative a Decio Calvari. Anche presso l’Archivio storico della Camera (che peraltro per quel periodo presenta numerose lacune) non sono emersi documenti specifici su di lui. / Sembra da escludere in maniera assoluta che il Calvari sia stato segretario generale del Parlamento (un segretario generale unico per le due camere non esisteva e l’elenco dei segretari generali della Camera non comprende Calvari). Una tale definizione, che compare in talune opere interessate al Calvari nell’ambito della storia della teosofia, non appare dunque corrispondere alla realtà dei fatti. / Da una ricerca nei “Calendari generali del regno”, una pubblicazione che conteneva una sorta di organigramma dell’amministrazione italiana […], risulterebbe, più correttamente, che il Calvari abbia svolto funzioni di ragioniere e segretario (nel senso di impiegato di segreteria) nell’ambito dell’ufficio di Questura» (2 novembre 2009). Nello specifico, Tabacchi fa riferimento al Calendario Generale del Regno d’Italia pel 1905, anno XLIII, compilato a cura del Ministero dell’Interno, Roma, Tipografia Ditta L. Cecchini

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– Editrice, 1905, dove a p. 131, tra il «Personale degli uffizi amministrativi della Camera», si annovera, alla voce «Questura»: «Segret. rag., Calvari rag. Decio». 242 G. Cavalieri, Le curiosità del giorno. Un [sic] intervista col colonnello Olcott, «La Domenica del Corriere», n. 14, 8 aprile 1900, p. 3. Reperibile anche questa in appendice a Il gran ballo dei tavolini, cit., pp. 94-97. 243 Cfr. in particolare Allan Kardec, Le livre des esprits, contenant les principes de la doctrine spirite sur la nature des esprits, leur manifestation et leurs rapports avec les hommes, les lois morales, la vie présente, la vie future, et l’avenir de l’ humanité, Paris, E. Dentu, 1857 (trad. it. Il libro degli spiriti o I principj della dottrina spiritica. Su la immortalità dell’anima, la natura degli spiriti e i lor rapporti con gli uomini, le leggi morali, la vita presente, la vita futura e l’avvenire della umanità secondo l’ insegnamento dato dagli spiriti superiori per mezzo di diversi medj, Torino, Unione Tipografico-Editrice, 1894). 244 Pietro Crespi, Metempsicosi? Come e perché divenni erede, nn. 43 e 44, 29 ottobre e 5 novembre, pp. 12, 14 e 10-11. Pure questo testo è riproposto nel Gran ballo dei tavolini, cit., pp. 7-22. Nella seconda puntata, si indica in calce la località di provenienza e il periodo di stesura, in corsivo: «Milano, settembre ‘99». 245 E. [Edith] Nesbit, Fiaba pei piccoli e pei grandi. Una invasione di draghi, n. 36, 10 settembre, pp. 2-3 e Ead., Il libro delle bestie. Fiaba pei piccoli e pei grandi, con illustrazioni a penna di H. A. [sic, ma R.] Millar, n. 51, 24 dicembre, pp. 4 e 6-7. In origine, rispettivamente, le

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due narrazioni vengono pubblicate sullo «Strand Magazine» di maggio e marzo 1899, come The Deliverers of Their Country e The Book of Beasts, ed entrambe raccolte poi nel volume The Book of Dragons, London-New York, Harper & Bros., 1901 (in realtà 1900). L’illustratore è Harold Robert Millar (1869-1942): benché non sia segnalato sulla «Domenica», anche le illustrazioni per Una invasione di draghi sono sue. 246 Ead., Lo Zameda si diverte, «Corriere dei Piccoli», nn. 20-41, 1909. Originariamente: Five Children and It (London, T. Fisher Unwin, 1902), anche questo illustrato da Millar. Si tratta della raccolta e dell’ampliamento di alcune storie pubblicate sullo «Strand», sotto il titolo generale di The Psammead, or, The Gifts, dall’aprile al dicembre del 1902. 247 Egisto Roggero, Il folletto della rosa, n. 49, 10 dicembre, pp. 10-11. 248 Ivi, p. 10. 249 Questa e le precedenti citazioni: ibidem. 250 Ivi, p. 11. 251 Ibidem. 252 Egisto Roggero, Racconti meravigliosi, Milano, La Poligrafica Società Editrice, 1901. Gli altri testi pubblicati sulla «Domenica del Corriere» nell’anno 1900 sono: Il vecchio orologio (n. 4, 28 gennaio, p. 3); La grande seduta della “Patte Noire” (n. 7, 18 febbraio, p. 4); Il rubino (n.

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17, 29 aprile, pp. 12-13); Le ofrisie (n. 45, 11 novembre, pp. 11-12, recentemente riproposto nell’antologia Ottocento nero italiano, cit., pp. 357-366); Un caso difficile (n. 50, 16 dicembre, pp. 11-13). 253 Egisto Roggero, Romanzo in una goccia d’azzurro, La Spezia, Casa editrice dell’Iride, 1900. 254 Dal numero di giugno a quello di novembre. 255 Il romanzo fu poi pubblicato in volume dalla stessa casa editrice della rivista (Milano, 1904). Di Roggero inoltre si segnalano: Come si riesce con la pubblicità. L’arte nella pubblicità, Milano, Ulrico Hoepli, 1920; La giovinezza morale di Mazzini, prefazione di Francesco Ruffini, Bologna, Zanichelli, 1920; Io sorrido così. Novelle gaie, con una nota di Mario Ferrigni, Milano, Carlo Aliprandi, 1922; Per intendere le teorie di Einstein. La relatività, Milano, Carlo Aliprandi, 1922; Il mare nella scienza, nella vita, nella civiltà, Torino, Utet, 1928; Nao-Ne. Romanzo di mare, Milano, Treves, 1928; Enimmi della scienza moderna. Realtà di domani, Milano, Ulrico Hoepli, 1930. Per molti anni l’autore visse a Torino e, infine, si trasferì a Milano, dove morì nel 1930.

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Voglio per prima cosa ringraziare l’Université de Liège, soprattutto nella persona di Luciano Curreri, che mi ha dato la possibilità di portare avanti le mie ricerche con una borsa di post-dottorato, e Cristina Benussi dell’Università degli Studi di Trieste. Un sentito grazie va quindi a Luigi Bernardi e ad Antonio Paolacci, che hanno voluto trasformare il presente lavoro in un libro. Doveroso poi un ringraziamento alle seguenti persone, le quali, in un modo o nell’altro (e magari senza saperlo), mi hanno aiutato durante le ricerche o la stesura del testo: Alberto Abruzzese, Felice Italo Beneduce, Pietro Benzoni, Luca Bianchi, Alberto Brambilla, Dario Ceccherini, Riccardo Cepach, Isabella Cerioni, Luca Crovi, Donatella de Ferra, Valerio Evangelisti, Vittorio Frigerio, Paola I. Galli Mastrodonato, Claudio Gallo, Elvio Guagnini, Stefano Lazzarin, Giulio Leoni, Franco Levi, Cristian Lorenzutti, Andrea Lucchese, Gianfranco Manfredi, Marta Moretto, Giampaolo Neri, Ulrike Neumann, Lia Pacinotti, Patrizia Pagliano, Emilio Pasquini, Pierluigi Pellini, Vittorio Roda, Annamaria Santinelli, Luca Somigli, Stefano Tabacchi, Romanilda Tasca, Ernesto Vegetti (1943-2010), Alessandro Viti, e gli studenti del corso «Questions de littérature italienne moderne», anche solo per la loro presenza e per la loro pazienza. Tengo in chiusura, ma perché davvero speciali (last but not least!), i miei genitori, i miei nonni Esterina e Vittorio (1921-2010), Rita e Franco, e come sempre Irene, senza la quale tutto sarebbe assai più nero e bizzarro, e di certo non fantastico.

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