Nanorazzismo. Il corpo notturno della democrazia 9788858136812

Il nanorazzismo è il razzismo fatto cultura e respiro, nella sua capacità d’infiltrarsi nei pori e nelle vene della soci

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Nanorazzismo. Il corpo notturno della democrazia
 9788858136812

Table of contents :
Indice......Page 4
Frontespizio......Page 2
Introduzione. La prova del mondo......Page 7
1. Capovolgimento, inversione e accelerazione......Page 17
2. Il corpo notturno della democrazia......Page 24
3. Mitologiche......Page 29
4. Il consumo del divino......Page 37
5. Necropolitica e relazione senza desiderio......Page 43
1. L’oggetto che spaventa......Page 56
2. Il nemico, quest’Altro che sono io......Page 62
3. I dannati della fede......Page 67
4. Stato d’insicurezza......Page 69
5. Nanorazzismo e narcoterapia......Page 72
3. La farmacia di Fanon......Page 83
1. Il principio di distruzione......Page 84
2. Società di oggetti e metafisica della distruzione......Page 96
3. Paure razziste......Page 101
4. Decolonizzazione radicale e festa dell’immaginazione......Page 106
5. La relazione di cura......Page 109
6. Il doppio inaudito......Page 113
7. La vita che se ne va......Page 120
4. Questo mezzogiorno asfissiante......Page 127
1. Le strade senza sbocco dell’umanesimo......Page 128
2. L’Altro dell’umano e genealogie dell’oggetto......Page 130
3. Il mondo zero......Page 134
4. Antimuseo......Page 138
5. Autofagia......Page 140
6. Capitalismo e animismo......Page 145
7. Emancipazione del vivente......Page 148
Conclusioni. L’etica del passante......Page 154

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Tempi Nuovi Achille Mbembe

Nanorazzismo Il corpo notturno della democrazia

Editori Laterza

Titolo dell'edizione originale: Politiques de l’inimitié (Éditions La Découverte, Paris, 2016) ©, 2016, Éditions La Découverte

Edizione digitale: marzo 2019 www.laterza.it Proprietà letteraria riservata Gius. Laterza & Figli Spa, Bari-Roma Realizzato da Graphiservice s.r.l. - Bari (Italy) per conto della Gius. Laterza & Figli Spa ISBN 9788858136812 È vietata la riproduzione, anche parziale, con qualsiasi mezzo effettuata

Indice

Introduzione. La prova del mondo 1. L’uscita dalla democrazia 1. Capovolgimento, inversione e accelerazione 2. Il corpo notturno della democrazia 3. Mitologiche 4. Il consumo del divino 5. Necropolitica e relazione senza desiderio

2. La società dell’inimicizia 1. L’oggetto che spaventa 2. Il nemico, quest’Altro che sono io 3. I dannati della fede 4. Stato d’insicurezza 5. Nanorazzismo e narcoterapia

3. La farmacia di Fanon 1. Il principio di distruzione 2. Società di oggetti e metafisica della distruzione 3. Paure razziste 4. Decolonizzazione radicale e festa dell’immaginazione 5. La relazione di cura 6. Il doppio inaudito 7. La vita che se ne va

4. Questo mezzogiorno asfissiante 1. Le strade senza sbocco dell’umanesimo 2. L’Altro dell’umano e genealogie dell’oggetto 3. Il mondo zero 4. Antimuseo 5. Autofagia 6. Capitalismo e animismo 7. Emancipazione del vivente

Conclusioni. L’etica del passante

a Fabien Éboussi Boulaga, Jean-François Bayart e Peter L. Geschiere

Introduzione.

La prova del mondo

Non basta tenere in mano un libro per sapersene servire. All’inizio avrei voluto scriverne uno che non fosse affatto contornato dal mistero. Alla fine mi ritrovo con un breve saggio fatto di qualche schizzo, capitoli paralleli, linee più o meno discontinue, punti da unire come in un disegno, tratti vivi e rapidi e perfino lievi arretramenti seguiti da brusche inversioni. È vero che un assolo di violino non si sarebbe assolutamente prestato alla scabrosità dell’argomento. Basterà quindi suggerire la presenza, all’interno dell’elemento, di un osso, di un cranio o di uno scheletro. Quest’osso, questo cranio, questo scheletro hanno dei nomi: il ripopolamento della Terra, l’uscita dalla democrazia, la società dell’inimicizia, la relazione senza desiderio, la voce del sangue, il terrore e il contro-terrore, medicina e veleno della nostra epoca (capitoli 1 e 2). Il mezzo migliore per accedere a questi diversi materiali ossei sarebbe la produzione di una forma non flaccida, ma tesa e carica di energia. Comunque sia, ecco un testo sulla cui superficie il lettore può scorrere liberamente, senza nessun controllo e nessun visto d’ingresso. Può soffermarcisi quanto vuole, muoversi a piacere, entrare e uscire in qualsiasi momento e da qualsiasi accesso. Può indirizzarsi in qualsiasi direzione, pur conservando, riguardo ad ogni parola e ad ogni affermazione, un’uguale distanza critica e, nel caso, una punta di scetticismo. Si presume, infatti, che ogni gesto di scrittura debba suscitare una forza o, anche, un contrasto: quello che qui io definisco un elemento. In questo caso si trattava di un elemento bruto e di una forza rigida, una forza che separa, non una che intensifica il legame: una forza di scissione e di reale isolamento, volta esclusivamente su se stessa, che cerca di

escludersi dal resto del mondo pur pretendendo di assumerne il governo supremo. La riflessione che segue si basa infatti sul riportare su scala planetaria la relazione di inimicizia e le sue molteplici riconfigurazioni nelle condizioni dell’oggi. Il cardine è costituito dal concetto platonico di pharmakon, l’idea di una medicina che opera sia come rimedio, sia come veleno. Ispirandosi in parte all’opera politica e psichiatrica di Frantz Fanon, si mostra come, sulla scia dei conflitti della decolonizzazione, la guerra (nelle forme della conquista e dell’occupazione, del terrore e della contro-insurrezione) sia diventata alla fine del ventesimo secolo il sacramento della nostra epoca. Tale trasformazione, di converso, ha liberato movimenti passionali che, a poco a poco, spingono le democrazie liberali a indossare i panni dell’eccezione, a cominciare ad intraprendere azioni incondizionate e a cercare di esercitare la dittatura contro se stesse e contro i propri avversari. Ci si interroga, tra l’altro, sulle conseguenze di tale inversione e sui nuovi termini nei quali si colloca a questo punto la questione dei rapporti tra la violenza e la legge, la norma e l’eccezione, lo stato di guerra, lo stato di sicurezza e lo stato di libertà. Nel contesto del restringimento del mondo e del ripopolamento della Terra sulla scia dei nuovi cicli di circolazione delle popolazioni, questo saggio non vuole solo aprire nuove strade per una critica dei nazionalismi atavici, ma s’interroga anche, in modo indiretto, su quali potrebbero essere le basi di una genealogia comune e quindi di una politica del vivente oltre l’umanesimo. Il saggio tratta infatti di quel tipo di disposizione verso il mondo – oppure di uso del mondo – che in questo inizio secolo consiste nel non dare nessun valore a tutto quello che non è il proprio io. Tale processo ha una genealogia e un nome: corsa verso la separazione e la disunione, la quale si attua su una base di un’angoscia di annientamento. Sono in molti, infatti, coloro che oggi sono in preda alla paura. Temono di essere stati invasi e di essere sul punto di sparire. Popoli interi hanno l’impressione di essere giunti al termine, di avere esaurito le risorse necessarie per continuare ad assumere la propria identità. Ritengono che non ci sia più un esterno e che per proteggersi dalla minaccia e dal pericolo sia necessario moltiplicare i recinti. Poiché non vogliono ricordarsi più di niente e, soprattutto, dei propri crimini e delle proprie

malefatte, fabbricano oggetti malvagi che finiscono effettivamente per perseguitarli, e cercano di disfarsene con la violenza. Posseduti dai geni malvagi frutto delle loro continue invenzioni, che oggi, con uno spettacolare contrappasso, li accerchiano, si pongono a questo punto interrogativi che non molto tempo fa hanno dovuto affrontare numerose società non occidentali prese nelle reti delle forze assai più devastanti della colonizzazione e dell’imperialismo1. Con tutto quello che succede, è possibile considerare l’Altro ancora mio simile? Estremizzando, com’è il nostro caso qui e ora, su che cosa si basa la mia umanità e quella altrui? Dato che il peso dell’Altro è diventato così schiacciante, non sarebbe meglio se la mia vita non fosse più legata alla sua presenza, e nemmeno la sua alla mia? Per quale motivo, contro ogni ragione, io devo nonostante tutto preoccuparmi di un altro, perfino della sua vita, se in cambio costui ha come unico scopo la mia rovina? In definitiva, se l’umanità esiste solo in quanto è al mondo e del mondo, come si può fondare una relazione con gli altri basata sul riconoscimento reciproco della nostra vulnerabilità e della nostra finitezza? Palesemente non si tratta più di allargare il cerchio ma di rendere le frontiere forme primitive che tengano a distanza i nemici, gli intrusi, gli stranieri, tutti quelli che non sono dei nostri. In un mondo più che mai caratterizzato da una distribuzione ineguale delle capacità di movimento, ove per molti spostarsi e circolare rappresenta l’unica possibilità di sopravvivenza, un aspetto fondamentale del nostro tempo è ormai la brutalità delle frontiere. Le frontiere non sono più luoghi che si varcano, ma linee di separazione. In questi spazi più o meno ristretti e militarizzati, si vorrebbe che tutto resti immobile. Sono molti coloro, uomini e donne, che ormai v’incontrano la fine, o vengono deportati quando non muoiono semplicemente in un naufragio o per una scarica elettrica. Il principio di uguaglianza è demolito sia dalla legge dell’origine e della stirpe comuni, sia dal frazionamento della cittadinanza e dalla sua declinazione in cittadinanza “pura” (quella degli autoctoni) e cittadinanza in prestito (la quale è resa precaria fin dall’inizio e non è mai al riparo da una revoca). Di fronte alle situazioni di pericolo, tanto caratteristiche di quest’epoca, la questione, almeno in apparenza, non è più quella di riuscire a conciliare l’esercizio della vita e della libertà con la

conoscenza della verità e la sollecitudine verso altri da sé. Si tratta invece, a questo punto, di far scaturire, per così dire, un’attualizzazione della volontà di potenza servendosi di strumenti per metà crudeli e per metà virtuosi. Per questo la guerra si pone come fine e come necessità non solo nella democrazia, ma anche nel politico e nella cultura. È diventata rimedio e veleno – il nostro pharmakon. La trasformazione della guerra in pharmakon, in cambio, ha liberato passioni funeste le quali spingono, poco a poco, le nostre società a uscire dalla democrazia e a trasformarsi in società dell’inimicizia, come era accaduto nella colonizzazione. Tale riconduzione planetaria della relazione coloniale e delle sue molteplici riconfigurazioni alle condizioni della contemporaneità non risparmia affatto le società del Nord. La guerra al terrore e l’instaurazione di uno “stato d’eccezione” su scala mondiale non fanno che amplificarla. Ora, chi potrebbe oggi parlare davvero della guerra in quanto pharmakon della nostra epoca senza fare riferimento a Frantz Fanon, alla cui ombra è stato scritto questo saggio? La guerra coloniale – perché di questa soprattutto parla Fanon – è, in fondo, se non la matrice in ultima istanza del nomos della Terra, quanto meno uno dei mezzi privilegiati della sua istituzionalizzazione. Le guerre coloniali, guerre di conquista e di occupazione, e per molti aspetti guerre di sterminio, furono nello stesso tempo guerre di assedio, nonché guerre straniere e guerre razziali. Ma come dimenticare che avevano anche caratteristiche di guerre civili, di guerre di difesa, quando le guerre di liberazione provocavano per reazione guerre dette “antinsurrezionali”? In realtà l’incastro di guerre incatenate tra loro, cause ed effetti l’una dell’altra, è la ragione per cui esse hanno provocato tanto terrore e tante atrocità. È anche la ragione per cui produssero, per quelli e quelle che le subirono o vi presero parte, ora la fede in un’illusoria onnipotenza, ora il terrore e la scomparsa pura e semplice del senso dell’esistenza. Come la maggior parte delle guerre contemporanee – comprese quelle contro il terrore e le diverse forme di occupazione – le guerre coloniali furono guerre di sfruttamento e di predazione. Da entrambe le parti, da quella dei vinti come da quella dei vincitori, provocarono invariabilmente qualche cosa di indicibile, quasi senza nome, tanto è difficile da pronunciare: come riconosciamo, sul volto del nemico che

stiamo cercando di uccidere, ma del quale potremmo anche curare le ferite, un altro volto, quello dell’uomo nella sua piena umanità e quindi simile al nostro (capitolo 3)? Tali guerre liberarono forze passionali che a loro volta decuplicarono la facoltà degli uomini di dividersi e spinsero alcuni a confessare più apertamente di prima i propri desideri più repressi e a comunicare più direttamente di prima con i propri miti più oscuri. Ad altri queste guerre offrirono la possibilità di uscire dal proprio letargo abissale e di provare forse per la prima e unica volta la potenza di essere nel mondo che li circondava e, in quel frangente, di sopportare le proprie vulnerabilità e limitazioni. Altri ancora, brutalmente esposti alla sofferenza di sconosciuti, se ne lasciarono toccare e commuovere. All’appello di quegli innumerevoli corpi di dolore, uscirono immediatamente dal cerchio dell’indifferenza al cui interno si erano rinchiusi fino a quel momento. Di fronte al potere coloniale e alla guerra coloniale, Fanon aveva capito che l’unico soggetto era quello vivente (capitolo 3). In quanto tale, il soggetto era immediatamente aperto al mondo. Attraverso la comprensione dell’esistenza degli altri viventi e dei non-viventi, egli comprendeva la propria, capiva di esistere egli stesso come forma vivente e di poter correggere da quel momento l’asimmetria della relazione, introducendovi una dimensione di reciprocità e prendendosi cura dell’umanità. Fanon, d’altra parte, considerava il gesto della cura una pratica di risimbolizzazione nella quale si giocava qualsiasi occasione di reciprocità e di mutualità (l’incontro autentico con altri). Al colonizzato che rifiutava di essere castrato consigliò di voltare le spalle all’Europa, di cominciare da se stesso, di restare dritto in piedi fuori dalle categorie che lo volevano chino. La difficoltà non consisteva solo nell’essere assegnato a una razza, ma anche nell’aver interiorizzato tale assegnazione, nell’essere arrivato a desiderare la castrazione facendosene complice. Tutto o quasi tutto, infatti, induceva il colonizzato ad abitare, come propria pelle e propria verità, la finzione di lui che aveva elaborato l’Altro. All’oppresso che cercava di sbarazzarsi del fardello della razza Fanon propose perciò un lungo percorso terapeutico, che cominciava con il linguaggio, nel linguaggio e nella percezione, e passava per la conoscenza di questa realtà fondamentale: diventare uomo nel mondo significava

accettare di esporsi all’Altro. La cura proseguiva con un enorme lavoro su di sé mediante nuove esperienze del corpo, del movimento, dell’essere-insieme (perfino della comunione) inteso come quel fondo comune che l’uomo ha di più vivo e di più vulnerabile, ed eventualmente mediante l’esercizio della violenza. Tale violenza era diretta contro il sistema coloniale, una particolarità del quale era la produzione di una gamma di sofferenze che non sollecitavano a reagire né con un’assunzione di responsabilità, né con sollecitudine né con simpatia, spesso nemmeno con pietà. Al contrario, il sistema funzionava in modo da ottundere in chiunque la capacità di soffrire a causa della sofferenza degli indigeni, di esserne influenzato. Non basta: la violenza coloniale aveva la funzione di intercettare la forza del desiderio del soggetto passivo e di dirottarla verso investimenti improduttivi. Nel fingere di volere il bene dell’indigeno al suo posto, l’apparato coloniale non cercava solo di bloccare il suo desiderio di vita, ma mirava a colpire e ridurre le sue capacità di autostima in quanto agente morale. Proprio a quest’ordine si oppose risolutamente la pratica politica e clinica di Fanon. Più di altri egli aveva messo il dito su una delle principali contraddizioni ereditate dall’era moderna ma che la sua epoca stentava a risolvere. L’ampio movimento di ripopolamento del mondo avviatosi alle soglie dell’età moderna si era coniugato con un gigantesco prelievo di terre (la colonizzazione), di dimensioni mai viste prima e grazie a tecniche anch’esse senza precedenti nella storia umana. Lungi dal portare a una globalizzazione della democrazia, la corsa verso nuove terre aveva prodotto un nuovo diritto (nomos) della Terra, la cui principale caratteristica era di rendere la guerra e la razza i due sacramenti privilegiati della storia. Questa sacralizzazione della guerra e della razza negli altiforni del colonialismo fece di esse l’antidoto e nello stesso tempo il veleno della modernità, il suo duplice pharmakon. In queste condizioni, pensava Fanon, la decolonizzazione in quanto fatto politico costituente non poteva assolutamente fare a meno della violenza. La quale, attiva forza primordiale, preesisteva comunque al suo avvento. La decolonizzazione consisteva nella messa in moto di un corpo animato, in grado di spiegarsi esaustivamente in uno scontro totale con tutto ciò di precedente e di esterno che gli impedisse di arrivare alla sua concezione. Tuttavia la violenza pura e illimitata, per quanto fosse

creatrice come doveva essere, non era mai al riparo da un possibile accecamento. Bloccata in una sterile ripetizione, poteva degenerare in qualsiasi momento e la sua energia poteva essere messa al servizio della distruzione per la distruzione. Da parte sua, il gesto terapeutico non aveva come funzione principale l’estirpazione assoluta della malattia o l’eliminazione della morte e l’avvento dell’immortalità. L’uomo malato era l’uomo senza famiglia, senza amore, senza relazioni umane e senza comunione con una comunità. Era l’uomo privato della possibilità di un incontro autentico con altri uomini con i quali non condivideva, a priori, legami di discendenza o di origine (capitolo 3). Questo mondo degli uomini senza legami (uomini che aspirano solo a congedarsi dagli altri) è ancora con noi, seppure in configurazioni che mutano continuamente. È con noi nei meandri della rinnovata giudaicofobia e del suo contraltare mimetico, l’islamofobia. È con noi nella forma di desiderio di apartheid e di endogamia che tormenta la nostra epoca e che ci fa precipitare in un sogno allucinatorio, quello della “comunità senza stranieri”. Quasi dappertutto riemergono la legge del sangue, la legge del taglione e l’imperativo razziale, i due corollari costitutivi del nazionalismo atavico. Torna a galla la violenza, finora più o meno nascosta, delle democrazie, e traccia un cerchio letale che serra l’immaginazione e dal quale è sempre più difficile uscire. Quasi in ogni luogo l’ordine politico si ricostituisce come forma di organizzazione per la morte. Pian piano un terrore essenzialmente molecolare e che intende proporsi come difensivo cerca di legittimarsi rimescolando i rapporti tra la violenza, l’assassinio e la legge, la fede, il comandamento e l’obbedienza, la norma e l’eccezione, o ancora tra la libertà, la caccia all’uomo e la sicurezza. Non si tratta più di escludere l’omicidio, mediante il diritto e la giustizia, dai conti della vita in comune. Si tratta di rischiare in ogni occasione la mossa estrema. Né l’uomo del terrore né l’uomo terrorizzato, i due nuovi sostituti del cittadino, rinnegano l’omicidio. Anzi, dato che semplicemente non credono alla morte (data o subita), la considerano la garanzia ultima di una storia temprata nel ferro e nell’acciaio, la storia dell’essere. L’irriducibilità del legame umano, la non-separabilità dall’umano e dagli altri viventi, la vulnerabilità dell’uomo in generale e in particolare

dell’uomo malato di guerra o, ancora, la cura indispensabile per scrivere il vivente nella durata: Fanon inserì queste problematiche da un capo all’altro del suo pensiero come della sua pratica. Sono questi gli interrogativi di cui si discute, in modo trasversale e con mutevoli figure, nei capitoli che seguono. Poiché Fanon aveva mostrato una particolare attenzione per l’Africa e aveva definitivamente legato il proprio destino a quello del continente, era normale che l’Africa occupasse un posto di rilievo in questa riflessione (capitolo 4). Ci sono nomi che in realtà, pur non rimandando affatto alla cosa, le passano sopra o accanto. Svolgono una funzione di sfregio e di travestimento. Per questa ragione la cosa, quella vera, tende a resistere sia al nome sia a qualunque traduzione. Non perché sarebbe rivestita da una maschera, ma perché la sua forza di proliferazione è tale che ogni qualifica diventa immediatamente superflua. Per Fanon questo era il caso dell’Africa e della sua maschera, il Negro. Un’entità buona per tutti gli usi, vischiosa, senza peso né rilievo storico, a proposito della quale chiunque potrebbe dire quasi qualunque cosa, senza offrire il destro a nessuna conseguenza? Oppure una forza specifica e nello stesso tempo un progetto capace, grazie alle proprie riserve vitali, di arrivare al proprio concetto e di scriversi in questa nuova era planetaria? Per dare conto dei mondi del vivente senza cadere nella ripetizione, Fanon fu molto attento all’esperienza che le persone avevano delle superfici e delle profondità, del mondo delle luci e dei riflessi come del mondo delle ombre. Poiché si trattava dei significati ultimi, sapeva che li si dovevano cercare sia sul versante delle strutture sia su quello tenebroso della vita. Di qui la straordinaria attenzione che riservò al linguaggio, alla parola, alla musica, al teatro, alla danza, alle scene, all’arredo e a ogni genere di oggetti tecnici e di strutture psichiche. Per il resto, in questo saggio non si tratta di inneggiare ai morti ma di ricordare in modo frammentario un grande pensatore della trasfigurazione. A tale scopo non ho trovato niente di più appropriato di una scrittura figurale, che oscilla tra la vertigine, la dissoluzione e la dispersione. È una scrittura fatta di anelli intrecciati, con margini e linee che si ricongiungono ogni volta al loro punto di fuga. Si sarà capito: in questa scrittura la lingua ha la funzione di riportare in vita ciò che era stato abbandonato alla potenza della morte, di riaprire l’accesso ai giacimenti

del futuro, in primo luogo del futuro di coloro dei quali, non molto tempo fa, non era facile dire quale fosse la parte dell’umano e quale fosse quella dell’animale, dell’oggetto, della cosa o della merce (capitolo 4). Johannesburg, 24 gennaio 2016 1

Chinua Achebe, Le monde s’effondre, Présence africaine, Paris 1973.

Questo saggio è stato scritto nel corso del mio lungo soggiorno al Witwatersrand Institute for Social and Economic Research (WISER) dell’università di Witwatersrand (Johannesburg, Repubblica Sudafricana). Nel corso di quegli anni molto giovamento mi è venuto dai costanti scambi di idee con i miei colleghi Sarah Nuttall, Keith Breckenridge, Pamila Gupta, Sara Duff, Jonathan Klaaren, Cath Burns e, più di recente, Hlonipa Mokoena e Shireen Hassim. Mi hanno prodigato tanti e continui incoraggiamenti Adam Habib, Tawana Kupe, Zeblon Vilakazi, Ruksana Osman e Isabel Hofmeyr. Il seminario post-doc da me animato al WISER con la mia collega Sue van Zyl e al quale avrebbero contribuito regolarmente Charne Lavery, Claudia Gastrow, Joshua Walker, Sarah Duff, Kirk Side e Timoteo Wright è stato un preziosissimo spazio d’indagine e di creatività. Paul Gilroy, David Theo Goldberg, Jean Comaroff, John Comaroff, Françoise Vergès, Éric Fassin, Laurent Dubois, Srinivas Aravamudan, Elsa Dorlin, Grégoire Chamayou, Ackbar Abbas, Dilip Gaonkar, Nadia Yala Kisukidi, Eyal Weizman, Judith Butler, Ghassan Hage, Ato Quayson, Souleymane Bachir Diagne, Adi Ophir, Célestin Monga, Siba Grovogui, Susan van Zyl, Henry Louis Gates e Xolela Mangcu sono stati fonti feconde d’ispirazione e, spesso inconsapevolmente, interlocutori di primo piano. Ringrazio i miei colleghi del Johannesburg Workshop in Theory and Criticism (JWTC), Leigh-Ann Naidoo, Zen Marie e Kelly Gillespie, per essermi stati compagni tanto fedeli, e anche Najibha Deshmukh e Adila Deshmukh per la loro profonda amicizia. Il mio editore Hugues Jallon e la sua équipe, Pascale Iltis, Thomas Deltombe e Delphine Ribouchon, hanno offerto come sempre un supporto ineccepibile. Il saggio è dedicato a un uomo straordinario, Fabien Éboussi Boulaga e a due amici fedeli, Jean-François Bayart e Peter L. Geschiere.

1. L’uscita dalla democrazia

Questo libro ha l’intento di contribuire, partendo dall’Africa dove vivo e lavoro (ma anche dal resto del mondo, per il quale non ho mai smesso di vagare), a una critica del tempo che è il nostro: il tempo del ripopolamento e della globalizzazione del mondo sotto l’egida del militarismo e del capitale e, come ultima conseguenza, il tempo dell’uscita dalla democrazia (o del suo rovesciamento). Per portare a buon fine il progetto procederemo in modo trasversale, attenti ai tre temi dell’apertura, della traversata e della circolazione. È un procedimento che si rivela utile solo se lascia spazio a una lettura a ritroso del nostro presente. Il procedimento parte dal presupposto che qualunque decostruzione autentica del nostro tempo debba partire dal pieno riconoscimento del ruolo inevitabilmente provinciale dei nostri discorsi e del carattere necessariamente regionale dei nostri concetti, e pertanto da una critica di qualsiasi forma di universalismo astratto. Così facendo, il procedimento si sforza di rompere con l’atmosfera dominante della nostra epoca, che, come si sa, è improntata alla chiusura e alle demarcazioni di ogni sorta, la frontiera tra qui e laggiù, vicino e lontano, dentro e fuori, linea Maginot per gran parte di quello che oggi passa per “pensiero globale”. Ma il “pensiero globale” può essere solo quello che, dando le spalle alla segregazione teorica, si fonda di fatto sugli archivi di ciò che Édouard Glissant chiamava il “Tutto-mondo”. 1. Capovolgimento, inversione e accelerazione Per le esigenze della riflessione che qui cerchiamo di delineare, meritano di essere messi in rilievo quattro tratti caratteristici del tempo

che viviamo. Il primo è il restringimento del mondo e il ripopolamento della Terra con il manifestarsi di uno squilibrio demografico a vantaggio dei mondi del Sud. Lo sradicamento geografico e culturale, e poi il trasferimento volontario o l’insediamento forzato di intere popolazioni su vasti territori in precedenza abitati esclusivamente da popolazioni autoctone furono eventi decisivi del nostro avvento alla modernità1. Sul versante atlantico del pianeta scandirono quel processo di redistribuzione planetaria delle popolazioni due momenti significativi, legati all’espansione del capitalismo industriale. Si tratta della colonizzazione (avviata all’inizio del Cinquecento con la conquista delle Americhe) e della tratta degli schiavi negri. Sia il commercio negriero sia la colonizzazione coincisero in gran parte con la formazione del pensiero mercantilista in Occidente, quando non ne furono puramente e semplicemente all’origine2. Il commercio negriero era funzionale all’emorragia e al prelievo delle braccia più utili e delle energie più vitali delle società fornitrici di schiavi. Nelle Americhe fu messa al lavoro la manodopera servile di origine africana, nel contesto di un vasto progetto di controllo dell’ambiente ai fini di una sua valorizzazione razionale e proficua. Il sistema della piantagione fu prima di tutto, da molti punti di vista, il governo delle foreste e degli alberi da tagliare e bruciare regolarmente; del cotone e della canna da zucchero che dovevano rimpiazzare la flora preesistente, degli antichi paesaggi che occorreva rimodellare, delle precedenti formazioni vegetali che si dovevano distruggere e di un ecosistema che doveva essere sostituito da un agrosistema3. La piantagione, tuttavia, non era soltanto un dispositivo economico. Per gli schiavi trapiantati nel Nuovo Mondo, era anche la scena in cui si svolgeva un nuovo inizio. Qui cominciava un’esistenza ormai vissuta secondo un principio essenzialmente razziale. Ma la razza così intesa, lungi dall’essere un puro e semplice significante biologico, rimandava a un corpo senza mondo e fuori territorio, un corpo di energia combustibile, una specie di doppio della natura, che mediante il lavoro era possibile trasformare in stock o fondi disponibili4. La colonizzazione, per parte sua, era funzionale all’escrezione di uomini e donne che per numerose ragioni erano giudicati superflui, in eccesso, nell’ambito delle nazioni colonizzatrici. Era questo il caso, in

particolare, dei poveri a carico della società, dei vagabondi e dei delinquenti che si ritenevano nocivi per la nazione. La colonizzazione era una tecnica di regolazione dei movimenti migratori. All’epoca molti pensavano che questa forma di migrazione sarebbe stata vantaggiosa, in ultima analisi, per i paesi di partenza. «Non solo numerosi uomini che qui vivono ora nell’ozio e rappresentano un fardello, un peso, e nulla apportano a questo regno, saranno messi in tal modo al lavoro, ma anche i loro figli di dodici o quattordici anni o anche meno saranno distolti dall’ozio, facendo mille cose di poco valore che potrebbero essere buone mercanzie per questo paese», scriveva, per esempio, Antoine de Montchrestien nel suo Traité d’économie politique all’inizio del Seicento. Inoltre, aggiungeva, «le nostre donne inattive [...] saranno impiegate per strappare, tingere e separare le piume, per tirare, battere e lavorare la canapa, per raccogliere il cotone, e per varie cose nella tintura». Gli uomini, per parte loro, concludeva l’economista francese, potranno «impegnarsi nell’estrazione di minerali, nell’aratura e persino nella caccia alle balene [...] oltre alla pesca del merluzzo, del salmone, dell’aringa e nel taglio di alberi»5. Dal secolo sedicesimo al diciannovesimo queste due forme di ripopolamento del pianeta tramite la predazione umana, l’estrazione delle ricchezze e la messa al lavoro di gruppi sociali subalterni rappresentarono le principali sfide economiche, politiche e, da molti punti di vista, filosofiche6. La teoria economica e quella della democrazia furono in parte elaborate partendo dalla difesa o dalla critica di una o dell’altra di queste due forme di redistribuzione geografica delle popolazioni7. Queste, di converso, furono all’origine di molteplici conflitti e guerre per la ripartizione e l’appropriazione. L’esito di questo movimento di dimensioni planetarie fu una nuova spartizione della Terra con al centro le potenze occidentali e, all’esterno o ai margini, periferie dove dominava la lotta a oltranza, destinate all’occupazione e al saccheggio. È anche necessario prendere in considerazione la distinzione che si fa solitamente tra la colonizzazione commerciale – ovvero quella che puntava sulla strutturazione di empori – e la colonizzazione attuata con insediamenti veri e propri. Certo, in entrambi i casi si riteneva che l’arricchimento della colonia – di qualsiasi colonia – avesse senso solo se

contribuiva ad arricchire anche la metropoli. La differenza, però, stava nel fatto che la colonia d’insediamento era concepita come un’estensione della nazione, mentre quella degli empori o di sfruttamento era solo un mezzo per arricchire la metropoli mediante un commercio asimmetrico e iniquo, quasi in assenza di investimenti rilevanti in loco. D’altra parte, il dominio sulle colonie di sfruttamento era teoricamente destinato a finire e la presenza degli Europei in quei luoghi era del tutto temporanea. Nel caso delle colonie di insediamento, lo scopo della politica migratoria era di mantenere nell’ambito della nazione le persone che si sarebbero perse se fossero rimaste in patria. La colonia fungeva da valvola di sfogo per gli indesiderabili, appartenenti alle categorie della popolazione «i cui crimini e le cui dissolutezze» potevano diventare «in poco tempo devastanti», i cui bisogni li avrebbero spinti in prigione o costretti a mendicare, rendendoli così inutili per il paese. Questa divisione dell’umanità in popolazioni “utili” e “inutili” – “eccedenti” o “superflue” – è rimasta la regola, poiché l’utilità si misura sostanzialmente in base alla possibilità di sfruttare la forza lavoro. Peraltro il ripopolamento della Terra all’inizio dell’era moderna non passa solo attraverso la colonizzazione. Migrazioni e mobilità si spiegano anche con fattori religiosi. Negli anni tra il 1685 e il 1730, all’indomani della revoca dell’editto di Nantes, fuggirono dalla Francia circa 170.000180.000 ugonotti. L’emigrazione religiosa tocca anche molte altre comunità. In realtà s’intrecciano forme diverse di circolazione tra le nazioni: ad esempio gli ebrei portoghesi, le cui reti commerciali si articolano intorno ai grandi porti europei di Amburgo, Amsterdam, Londra o Bordeaux; gli Italiani che invadono il mondo della finanza, del commercio o dei mestieri altamente specializzati del vetro e dei prodotti di lusso; per non parlare dei soldati, dei mercenari e degli ingegneri che, grazie ai molteplici conflitti di quegli anni, passano allegramente da un mercato della violenza all’altro8. All’alba del ventunesimo secolo la tratta degli schiavi e la colonizzazione di regioni remote non sono più i mezzi con i quali si attua il ripopolamento della Terra. Il lavoro, nella sua tradizionale accezione, non è più il mezzo privilegiato di formazione del valore. È tuttavia una fase di incertezze, di grandi e piccoli spostamenti e trasferimenti, in sintesi di nuove figure dell’esodo9. Le nuove dinamiche

della circolazione e la formazione di comunità sparse si esplicano in gran parte con le attività commerciali e di scambio, le guerre, i disastri ecologici e le catastrofi ambientali, e i trasferimenti culturali di ogni genere. L’invecchiamento accelerato dei gruppi umani delle nazioni ricche del mondo, da questo punto di vista, è un fatto di notevole rilevanza. È il contrario dei surplus demografici tipici del diciannovesimo secolo appena ricordati. La distanza geografica in quanto tale non costituisce più un ostacolo alla mobilità. Le grandi rotte migratorie si diversificano, e si attivano dispositivi sempre più sofisticati di aggiramento delle frontiere. Se i flussi migratori centripeti si orientano simultaneamente in più direzioni, l’Europa e gli Stati Uniti in particolare restano ancora i principali punti di insediamento delle moltitudini in movimento, specialmente di quelle che provengono dalle zone di maggior povertà del pianeta. Sorgono qui nuovi agglomerati e si costruiscono, nonostante tutto, nuove metropoli multinazionali. Sull’onda delle nuove circolazioni internazionali compaiono, a poco a poco e in tutto il pianeta, diversi insiemi di territori-mosaico. Questa nuova sciamatura, che si aggiunge alle precedenti ondate migratorie provenienti dal Sud, rende più vaghi i criteri di appartenenza nazionale. L’appartenenza a una nazione non è più solo una questione di origine, ma anche una scelta. Una massa sempre più vasta di persone è ormai partecipe di diversi tipi di nazionalità (di origine, di residenza, di scelta) e di appartenenze identitarie. In certi casi viene loro intimato di scegliere, di fondersi con la popolazione locale ponendo fine alle duplici fedeltà, oppure, nel caso di un reato che mette in pericolo “l’esistenza della nazione”, corrono il rischio di essere privati della nazionalità di accoglienza10. Per di più, al centro del ripopolamento della Terra che è in corso non si trovano solo gli umani. Gli occupanti del pianeta non si limitano più ai soli esseri umani, ma comprendono, ora più che mai, numerosi manufatti e tutte le specie viventi, organiche e vegetali. La schiera dei nuovi abitanti della Terra arriva fino a comprendere le forze geologiche, geomorfologiche e climatologiche11. Certo, non si tratta di esseri o di gruppi e famiglie di esseri che esistono in quanto tali. Al limite, non si tratta né dell’ambiente né della natura. Sono agenti e spazi di vita –

l’acqua, l’aria, la polvere, i microbi, le termiti, le api, gli insetti –, di operatori di relazioni specifiche. Siamo così passati dalla condizione umana alla condizione terrestre. Il secondo tratto caratteristico del nostro tempo si riferisce alla ridefinizione, che è in corso, dell’umano nel quadro di un’ecologia generale e di una geografia ora estesa, sferica, irreversibilmente planetaria. Di fatto il mondo non è più considerato solo un manufatto fabbricato dall’uomo. Uscito dall’età della pietra e dell’argento, del ferro e dell’oro, oggi l’uomo tende a diventare plastico. L’avvento dell’uomo plastico e del suo corollario, il soggetto digitale, si scontra direttamente con una serie di convinzioni fino a tempi recenti considerate verità immutabili. È il caso del convincimento secondo il quale esisterebbe uno “specifico dell’uomo”, un “uomo generico” che sarebbe separabile dal mondo animale e da quello vegetale; o, ancora, la credenza secondo cui la Terra che egli abita ed esplora sarebbe soltanto un oggetto passivo dei suoi interventi. Lo stesso vale per l’idea che, tra tutte le specie viventi, il “genere umano” sarebbe l’unico ad essersi in parte affrancato dalla propria animalità. Dopo aver spezzato le catene della necessità biologica si sarebbe elevato all’altezza del divino. A smentita di questi e di molti altri articoli di fede, si ammette ormai che in seno all’universo il genere umano è solo una parte di un insieme più vasto di soggetti viventi, che comprende gli animali, i vegetali e altre specie. Se ci si attiene alla biologia e all’ingegneria genetica, non ci sarebbe in senso proprio nessuna “essenza dell’uomo” da salvaguardare e nessuna “natura dell’uomo” da proteggere. Stando così le cose, non esisterebbe quasi nessun limite alla modifica della struttura biologica e genetica dell’umanità. In fondo, impegnandosi nelle manipolazioni genetiche e degli embrioni, si ritiene che sarebbe possibile “aumentare” (enhance) l’essere umano, ma anche, con un atto spettacolare di autocreazione, produrre il vivente mediante la tecnomedicina. Il terzo tratto costitutivo dell’epoca riguarda l’introduzione generalizzata di strumenti e di macchine calcolatrici e computazionali in tutti gli aspetti della vita sociale. Grazie alla forza e all’ubiquità del fenomeno digitale non esiste più una separazione netta tra lo schermo e la vita. La vita si svolge ormai sullo schermo e questo è diventato la

forma plastica e simulata del vivente, il quale, peraltro, può ormai essere individuato con un codice. Inoltre «il soggetto non si misura più confrontandosi con il ritratto o con la figura del doppio che gli presenta lo specchio, ma mediante la costruzione di una forma di presenza più prossima al calco e alla proiezione dell’ombra»12. Rimane improvvisamente inibita una parte di quel lavoro di soggettivizzazione e individuazione con il quale, fino a poco tempo fa, ogni essere umano diventava una persona dotata di un’identità più o meno indicizzabile. Che lo si voglia o no, la nostra sarebbe quindi l’epoca della plasticità, dell’impollinazione e degli innesti di ogni genere: plasticità del cervello, impollinazione dell’artificiale e dell’organico, manipolazioni genetiche e innesti informatici, protesi che collegano sempre più strettamente l’umano alla macchina. Tutte queste mutazioni non solo danno libero corso al sogno di una vita realmente senza limiti, ma rendono a questo punto il potere sul vivente – oppure la capacità di alterare volontariamente la specie umana – probabilmente la forma assoluta del potere. L’articolazione tra la capacità di alterare volontariamente la specie umana – e perfino altre specie viventi e altri materiali apparentemente inerti – e la potenza del capitale è la quarta principale caratteristica del mondo contemporaneo. La potenza del capitale – nel contempo forza viva e creatrice (quando si tratta di estendere i mercati e di accumulare profitti) e processo efferato di divoramento (quando si tratta di distruggere senza ritorno la vita degli esseri e delle specie) – si è moltiplicata da quando i mercati finanziari hanno deciso di basarsi sulle intelligenze artificiali per ottimizzare il movimento delle liquidità. Poiché la gran parte degli operatori più attivi, per elaborare la massa delle informazioni scambiate sui mercati borsistici, utilizza algoritmi estremamente raffinati, questi funzionano su scale microtemporali inaccessibili all’essere umano. Oggi il tempo di trasferimento dell’informazione tra la Borsa e l’operatore si calcola in millisecondi. Sommata ad altri fattori, questa straordinaria compressione del tempo ha portato a un paradosso che presenta, da un lato, lo spettacolare aumento della fragilità e dell’instabilità dei mercati e, dall’altro, il loro potere quasi illimitato di distruzione. La domanda che si pone a questo punto è se sia ancora possibile

impedire alle forme di sfruttamento del pianeta di precipitare verso la distruzione assoluta. Questo interrogativo è tanto più attuale in quanto la simmetria tra il mercato e la guerra non è mai stata così evidente come oggi. La guerra può ben essere stata, nei secoli precedenti, la matrice dello sviluppo tecnologico. L’apparato militare continua a svolgere un ruolo anche oggi, aggiungendosi a un mercato che, a sua volta, funziona più che mai secondo le modalità della guerra13 – ma una guerra che vede una contrapposizione tra specie, e la natura contrapposta agli esseri umani. Questo stretto intreccio tra capitale, tecnologie digitali, natura e guerra e le nuove costellazioni di potere rese possibili proprio da tale intreccio rappresenta, senza dubbio, la minaccia più diretta all’idea del politico che finora fungeva da base a quella forma di governo che è la democrazia. 2. Il corpo notturno della democrazia L’idea era relativamente semplice: non esiste alcun fondamento (o base immutabile) della comunità umana escluso in via di principio dalla discussione. La comunità è politica nella misura in cui, consapevole della contingenza dei propri fondamenti e della loro latente violenza, è disposta a rimettere sempre in gioco le proprie origini. Essa è democratica in quanto, una volta garantita questa apertura permanente ad ampio raggio, la vita dello Stato acquista un carattere pubblico; i poteri sono sotto il controllo dei cittadini; e questi ultimi sono liberi di cercare e affermare, costantemente e ogni volta che sia necessario, la verità, la ragione, la giustizia e il bene comune. All’ideale della forza, alle situazioni di fatto (l’arbitrio della politica) e al gusto del segreto si contrappongono a questo punto i concetti di uguaglianza, di Stato di diritto e di sfera pubblica. Di fatto, nelle società contemporanee, non basta più evocare i miti originari per legittimare l’ordine democratico. A ben vedere, se la forza delle moderne democrazie è sempre stata dovuta alla loro capacità di reinventarsi e di inventare continuamente non solo la loro forma, ma anche la loro idea o il loro concetto, ciò è avvenuto spesso a costo della dissimulazione o dell’occultamento delle proprie origini violente. La storia di questo lavoro che è insieme di invenzione e di reinvenzione, di dissimulazione e di occultamento è

quanto mai paradossale e perfino caotica. Essa dimostra, in ogni caso, fino a che punto l’ordine democratico, nella varietà dei suoi percorsi, sia palesemente ambiguo. Secondo la versione ufficiale, le società democratiche sarebbero società pacificate. Questo le distinguerebbe dalle società di guerrieri. La brutalità e la violenza fisica vi sarebbero, se non bandite, quanto meno governate. A causa del monopolio della forza attribuito allo Stato e dell’interiorizzazione delle costrizioni da parte degli individui, il combattimento corpo a corpo con cui si esprimeva la violenza fisica nella società medievale, fino al Rinascimento, avrebbe lasciato il posto all’autocontrollo, alla moderazione, alla civiltà. La nuova forma di governo dei corpi, dei comportamenti e dei sentimenti avrebbe portato alla pacificazione degli spazi sociali. Alla violenza dei corpi si sarebbe sostituita la forza delle forme. La regolazione dei comportamenti, il governo della condotta, la prevenzione del disordine e della violenza si sarebbero attuati, da quel momento in poi, per mezzo di rituali accettati da tutti14. Imponendo una distanza tra gli individui, le forme e i rituali contribuirebbero a una civilizzazione dei costumi attraverso i costumi. Quindi le società democratiche non si sarebbero più basate, come i regimi monarchici o tirannici, sul principio dell’obbedienza a un uomo forte, l’unico capace di offrire alla società la possibilità di disciplinarsi. In larga misura, la forza delle democrazie si sarebbe fondata sulla forza delle loro forme15. L’idea che la vita in democrazia sarebbe fondamentalmente pacifica, educata e priva di violenza (anche nelle sue manifestazioni di guerra e devastazione) non regge alla prova. È vero che la nascita e il consolidamento della democrazia sono andati di pari passo con molti tentativi di controllare, regolare, ridurre e persino eliminare le manifestazioni di violenza più vistose e abiette, a forza di disapprovazioni morali o di sanzioni di legge. Ma la brutalità nelle democrazie è sempre stata, nel migliore dei casi, solo attenuata. Fin dall’inizio, le democrazie moderne si sono sempre dimostrate tolleranti verso una certa violenza politica, anche verso la violenza illecita. Hanno assorbito nella propria cultura forme di brutalità sostenute da una serie di istituzioni private agenti al di sopra dello Stato: corpi franchi, milizie o altre formazioni paramilitari o corporative.

Per molto tempo gli Stati Uniti furono uno Stato e una democrazia schiavista. W.E.B. Du Bois ricorda, nel suo Black Reconstruction, il paradosso al centro di questa nazione che, fin dalla nascita, proclama l’uguaglianza tra gli uomini; il cui governo dovrebbe fondarsi sul consenso dei governati, ma che, con la pratica della schiavitù, si adatta a un’assoluta dissociazione morale16. All’inizio del terzo decennio dell’Ottocento, infatti, negli Stati Uniti si contano circa due milioni di Negri. I quali, nel 1900, rappresentano l’11,6 per cento della popolazione. La loro sorte si lega strettamente a quella dei Bianchi, senza che si confondano le condizioni rispettive degli uni e degli altri e, ancor meno, il loro futuro. Come hanno osservato molti storici, per entrambi i gruppi il separarsi completamente è difficile quanto l’unirsi. Per la legge, gli schiavi sono nella condizione di uno straniero nell’ambito di una società di simili. Essere nati negli Stati Uniti (com’è il caso del 90 per cento di loro nel 1869) o avere una discendenza mista (come il 13 per cento degli schiavi nello stesso periodo) non cambia niente riguardo allo stato infimo nel quale versano né all’ignominia che li colpisce e che viene trasmessa da una generazione all’altra, nella forma di un’eredità avvelenata. La democrazia schiavista si caratterizza così per la sua doppiezza. Al suo interno coesistono due ordini: una comunità di simili governata, almeno teoricamente, dalla legge dell’uguaglianza, e una categoria di non-simili, di esclusi, anch’essa istituita per legge. Gli esclusi non hanno a priori nessun diritto di avere dei diritti. Sono governati dalla legge della disuguaglianza. Questa disuguaglianza e la legge che la istituisce e ne è alla base si basano sul pregiudizio razziale. Questo e la legge che lo fonda permettono di mantenere una distanza quasi invalicabile tra la comunità dei simili e gli altri. In quanto comunità, la democrazia schiavista può solo essere una comunità di separazione. In quasi tutti gli Stati in cui è abolita la schiavitù – osserva nel 1848 Alexis de Tocqueville –, si concedono al Negro diritti elettorali, ma se si presenta a votare, rischia la vita. Se viene oppresso può rivolgersi al tribunale, ma trova solo Bianchi tra i suoi giudici. La legge gli apre il banco dei giurati, ma il pregiudizio lo respinge. I suoi figli sono esclusi dalle scuole dove vanno a istruirsi i discendenti degli Europei. Nei teatri egli non può, anche a prezzo d’oro, sperare di sedersi accanto a colui che fu il suo padrone; negli ospedali giace a parte. Al Nero si permette di invocare lo stesso Dio dei Bianchi, ma non di pregarlo allo stesso altare; egli ha i suoi sacerdoti e i suoi templi. Non gli si chiude la porta del cielo: l’ineguaglianza si chiude appena alla soglia

dell’altro mondo. Quando il Negro non c’è più, si getta il suo corpo da parte e la differenza della condizione si trova anche nell’uguale destino della morte17.

Nella democrazia schiavista i non-simili non possono rivendicare «il possesso di un solo pezzo di terra»18. Del resto l’ossessione di tutte le democrazie schiaviste non è solo quella di tenere gli schiavi ben separati, ma soprattutto quella di capire come liberarsi di loro, farli allontanare volontariamente dal paese o, se occorre, deportarli in massa19. E, se il caso consente di sollevarli di tanto in tanto al nostro livello o addirittura di mischiarli tra noi, è proprio per poterli poi «rigettare nella polvere»20, nello stato naturale delle razze degradate. Lo schiavo, infatti, non è un soggetto di diritto, ma una merce come tutte le altre. La scena più drammatica di questo rigetto nella polvere è quella del linciaggio, che rappresenta una forma spettacolare, grottesca ed esibizionistica di crudeltà razzista: non avviene dietro i muri di cinta di una prigione, ma nello spazio pubblico21. Mediante le esecuzioni pubbliche la democrazia razzista mette in scena un’insostenibile brutalità e accende le emozioni del patibolo. In quanto tecnica del potere razzista, il rito dell’esecuzione ha lo scopo di spargere il terrore negli animi delle sue vittime e di ravvivare le pulsioni mortifere che stanno alla base della supremazia bianca22. Thomas Jefferson, grande proprietario di schiavi, era particolarmente consapevole del dilemma posto dal regime della piantagione e dallo status di schiavo in una società che si dichiarava libera. Non smise mai di compiangere «la funesta influenza che questa istituzione [la schiavitù] esercita sui comportamenti del nostro popolo». Ai suoi occhi, infatti, la pratica schiavista era l’equivalente della licenza assoluta e spingeva all’esercizio continuo delle passioni meno governabili. Parte maledetta della democrazia americana, lo schiavismo era la manifestazione del dispotismo corrotto e pervicace che si basava sull’abietta umiliazione di coloro che erano stati asserviti23. La piantagione è, infatti, un luogo terzo nel quale hanno libero corso le forme più vistose della crudeltà, che si tratti di aggressioni fisiche, delle torture o delle esecuzioni sommarie. Grazie al denaro accumulato dai proprietari delle piantagioni delle Indie occidentali, l’Inghilterra del Settecento poté finanziare la cultura nascente del gusto, le gallerie d’arte e i caffè, luoghi privilegiati di apprendimento delle buone maniere. Baroni coloniali come William

Beckford, ricchi proprietari di piantagioni come Joseph Addison, Richard Steele o Christopher Carrington garantiscono il patrocinio delle istituzioni culturali. Commissionano opere agli artisti, agli architetti, ai compositori. Mentre procedono di pari passo la civiltà e il consumo di prodotti di lusso, il caffè, lo zucchero e le spezie diventano ingredienti indispensabili all’esistenza dell’uomo colto e civile. Intanto i baroni delle colonie e i nababbi indiani riciclano fortune mal guadagnate allo scopo di rifarsi un’identità aristocratica24. Insomma, la “civiltà delle buone maniere” è resa possibile grazie alle nuove forme di arricchimento e di consumo fatte nascere dalle avventure coloniali. A partire dal Seicento, infatti, il commercio estero è considerato il mezzo privilegiato per assicurare la ricchezza degli Stati. Mentre il controllo delle correnti di scambio passa decisamente dal dominio sui mari, la capacità di creare relazioni commerciali squilibrate diventa un elemento decisivo del potere. Se l’oro e l’argento d’oltremare sono ambiti da tutti gli Stati e dalle varie corti d’Europa, lo stesso vale anche per il pepe, la cannella, i chiodi di garofano, la noce moscata e altre spezie, ma anche per il cotone, la seta, l’indaco, il caffè, il tabacco, lo zucchero, i profumi, i liquori di ogni tipo, la gomma e le piante medicinali, tutte merci acquistate in luoghi lontani a prezzi irrisori e vendute a prezzi esorbitanti sui mercati europei. Per pacificare i costumi è così importante possedere colonie, fondare compagnie concessionarie e consumare sempre più prodotti provenienti da località remote del globo. La pace civile in Occidente dipende dunque in gran parte da violenze distanti, da focolai di atrocità che vengono accesi, da conflitti feudali e altri massacri che accompagnano la realizzazione di piazzeforti e di empori ai quattro angoli del pianeta. È una pace che dipende dall’approvvigionamento di tela per le vele delle navi, di alberi, legname da costruzione, pece, lino e cordami, ma anche di beni di lusso come la seta grezza, i cotoni dipinti e stampati, il sale per la conservazione del pesce, il cloruro di potassio e i coloranti per l’industria tessile, per non parlare dello zucchero25. In altri termini il desiderio, l’amore per il lusso e altre passioni non sono più bersagli di intempestivi anatemi. Ma la soddisfazione di questi nuovi desideri dipende dall’istituzionalizzazione di un regime di disuguaglianza su scala planetaria. La colonizzazione è l’ingranaggio principale di tale regime26.

A questo proposito lo storico Romain Bertrand è dell’idea che lo Stato coloniale resti sempre «uno Stato sul piede di guerra»27. Dicendo questo Bertrand non si riferisce solo alle violenze perpetrate nel corso delle guerre di conquista e nemmeno all’esercizio di una crudele giustizia privata o alla feroce repressione dei movimenti nazionalisti, ma individua quella che si può ben definire la “politica coloniale del terrore”, ovvero il superamento deliberato di un limite di violenza e di crudeltà a danno di coloro che in precedenza sono stati privati di ogni diritto. Il desiderio di annientarli si traduce nella generalizzazione di pratiche che comprendono l’incendio di villaggi e di risaie, l’esecuzione di semplici contadini per dare l’esempio, il saccheggio delle scorte collettive di alimenti e dei granai, le retate condotte con estrema brutalità tra la popolazione civile e l’uso sistematico della tortura. Il sistema coloniale e il sistema schiavista in tal modo rappresentano l’amaro deposito della democrazia, proprio quello che, secondo un’intuizione jeffersoniana, corrompe il corpo della libertà e ne provoca inevitabilmente la decomposizione. Sostenendosi a vicenda, questi tre ordini – l’ordine della piantagione, quello della colonia e quello della democrazia – non si separano mai, come George Washington e il suo schiavo e compagno William Lee o Thomas Jefferson e il suo schiavo Jupiter. Uno emana la propria aura sull’altro, in uno stretto rapporto fatto di apparente distanza e di prossimità e intimità rimosse. 3. Mitologiche La critica della violenza delle democrazie, di per sé, non è una novità. È possibile leggerla nelle argomentazioni e nelle pratiche che ne accompagnano la nascita e poi il trionfo nel diciannovesimo secolo: per esempio nelle diverse varianti del socialismo, l’altra idea nuova di quel secolo, o, ancora, nel movimento anarchico della fine dell’Ottocento e nelle tradizioni del sindacalismo rivoluzionario francese prima della prima guerra mondiale e all’indomani della crisi del 1929. Uno degli interrogativi fondamentali che si pongono all’epoca è di capire se la politica possa essere qualcosa di diverso da un’attività riferita allo Stato e nella quale lo Stato è utilizzato per garantire i privilegi di una minoranza. L’altro interrogativo riguarda le condizioni con le quali le

forze radicali che ambiscono ad accelerare la comparsa della società dell’avvenire possano avvalersi del diritto di ricorrere alla violenza per assicurare la realizzazione delle proprie utopie. Sul piano filosofico ci si chiede se l’umanità sia capace di arrivare da sola, senza nessun ricorso alla trascendenza, a uno sviluppo delle proprie capacità, a una crescita del proprio potere d’azione, unico mezzo della storia umana per autoprodursi. Verso la fine dell’Ottocento compare l’idea di azione diretta, che è concepita come un’azione violenta condotta indipendentemente da qualsiasi mediazione dello Stato. Il suo scopo è di liberarsi dai vincoli che impediscono agli umani di comunicare con le proprie riserve di energia e, così facendo, di autoprodursi. L’esempio più significativo è quello della rivoluzione: modo per eliminare violentemente qualsiasi forza contraria che si opponga oggettivamente a un cambiamento delle basi della società, essa si propone di abolire gli antagonismi di classe e di affermare una società ugualitaria. Un altro esempio è quello dello sciopero generale espropriatore, che mira a istituire un altro modo di produzione. Questa forma di conflittualità senza mediazioni esclude per definizione il compromesso. Rifiuta anche qualsiasi conciliazione. La rivoluzione, si pensa, è un fatto violento, di una violenza pianificata. Nel corso di eventi rivoluzionari, essa può avere come obiettivo persone che incarnano l’ordine che si vuole rovesciare. Sebbene sia inevitabile, deve avere dei limiti ed essere rivolta contro le strutture e le istituzioni. La violenza rivoluzionaria è in effetti qualche cosa di irriducibile. Vuole la distruzione e la liquidazione di un ordine stabilito – una liquidazione che non può realizzarsi pacificamente. Colpisce l’ordine delle cose più che quello delle persone28. Nelle sue varie espressioni l’anarchismo si presenta come un superamento della democrazia, in particolare della democrazia parlamentare29. Le principali correnti anarchiche cercano di pensare la politica oltre il dominio borghese. Il loro progetto è di porre fine a ogni dominio politico – di cui la democrazia parlamentare rappresenta una delle modalità. Per Bakunin, per esempio, il superamento della democrazia borghese passa dal superamento dello Stato, un’istituzione che ha come scopo specifico la propria conservazione e quella delle classi

che se ne sono impadronite e che lo colonizzano. Il superamento dello Stato prelude all’avvento della “Comune”, figura precipua dell’autorganizzazione del sociale più ancora che semplice entità economica e politica. L’altra critica della brutalità delle democrazie è quella portata dai sindacalisti rivoluzionari, per i quali non si tratta tanto di agire sul sistema esistente, ma di distruggerlo con la violenza. La violenza si distingue dalla forza che, come scrive Georges Sorel, «ha lo scopo di imporre l’organizzazione di un certo ordine sociale nel quale è una minoranza a governare». Essa cerca di «realizzare un’obbedienza automatica». Invece la violenza «tende alla distruzione di quell’ordine» e a «spezzare quell’autorità»30. Dal 1919 fino ai primi anni trenta in Francia molte manifestazioni operaie hanno dichiaratamente questo obiettivo. Nella maggior parte dei casi ci sono morti, occupazione di piazze, erezione di barricate. Il ciclo provocazione-repressione-mobilitazione contribuisce all’affermazione di un’identità di classe, come negli scioperi prolungati e nei successivi scontri con le forze dell’ordine. L’idea è che la violenza proletaria sia moralmente giusta, mentre quella dell’apparato statale sia reazionaria. Circa un ventennio dopo la repressione della Comune e lo scioglimento della Prima Internazionale nel 1876, il movimento anarchico conosce il suo rilancio in Francia. La distruzione della proprietà e l’esproprio dei possidenti sono uno dei suoi espliciti obiettivi, il terrorismo praticato dagli oppressi una delle sue armi. Nell’ultimo decennio del secolo questo terrorismo si manifesta in azioni eclatanti nell’ambito di un’economia del sacrificio – sacrificio per la causa proletaria31. Tali critiche della democrazia – articolate dal punto di vista delle classi sociali che in origine ne avevano subito la brutalità anche in Occidente – sono relativamente note. Invece non si è insistito abbastanza sulle loro molteplici origini e sul loro intreccio. Si è fatto come se la storia delle democrazie moderne si riducesse a una storia interna delle società occidentali e come se queste, chiuse su loro stesse e sul mondo, fossero contenute nei limiti stessi del’ambiente che le circondava. Invece non è mai stato così. Il trionfo della democrazia moderna in Occidente coincide con il periodo storico nel quale quest’area del mondo era impegnata in un duplice movimento di

consolidamento interno e di espansione oltremare. La storia della democrazia moderna, a ben vedere, è una storia a due facce o addirittura a due corpi: il corpo solare da una parte e il corpo notturno dall’altra. L’impero coloniale e lo Stato schiavista – e più precisamente la piantagione e il bagno penale – rappresentano i principali emblemi di questo corpo notturno. In particolare, il bagno penale è un luogo nel quale si scontano le pene di esclusione, che mirano sia ad allontanare sia a eliminare chi le subisce. In origine era questo il caso degli oppositori politici, dei condannati ai lavori forzati per reati comuni, nonché dei delinquenti recidivi32. In Francia la legge del 26 agosto 1792 istituì di fatto la deportazione politica. Tra il 1852 e il 1854 i penitenziari coloniali conobbero un forte impulso. Nel corso del diciannovesimo secolo ci furono deportazioni di massa, in particolare nella Guyana, dove condanne al carcere talora leggere venivano trasformate in pene perpetue33. Da molti punti di vista il penitenziario coloniale prefigura la massificazione della reclusione tipica dell’età contemporanea, quella della coercizione estrema e generalizzata e dell’isolamento34. Il trattamento violento verso i prigionieri e le forme di privazione che erano loro imposte sono la somma di due logiche, quella della neutralizzazione e quella dell’esilio35. A ben vedere, la democrazia moderna ha avuto bisogno fin dalle origini, per dissimulare la contingenza dei propri fondamenti e la violenza che costituisce la sua base, di avvolgersi in una struttura quasi mitologica. Come abbiamo appena ricordato, l’ordine democratico, l’ordine della piantagione e l’ordine coloniale hanno intrattenuto a lungo relazioni di gemellaggio. Relazioni che furono tutt’altro che accidentali. La democrazia, la piantagione e l’impero coloniale fanno oggettivamente parte di una stessa matrice storica. Questo fatto originario e strutturante è al centro di ogni comprensione storica della violenza dell’ordine mondiale contemporaneo. Per cogliere bene la natura dei rapporti tra l’ordine democratico da una parte e l’ordine imperiale-coloniale dall’altra, come anche il modo in cui questa relazione determina la violenza delle democrazie, è importante prendere in considerazione svariati fattori (politici, tecnologici, demografici, epidemiologici e perfino botanici)36. Fra tutti

gli strumenti tecnici che dal diciottesimo secolo hanno contribuito alla formazione degli imperi coloniali, i più decisivi furono sicuramente le tecniche militari, la medicina e i mezzi di locomozione. Non era sufficiente, però, acquisire imperi, talora a prezzo d’occasione, come attestano la limitatezza delle risorse e degli effettivi impegnati nelle conquiste. Era anche necessario ripopolare le nuove terre e sfruttarle efficacemente. È quello che fecero, per esempio, approfittando della decadenza dell’impero Moghul, del regno di Giava e del beilicato ottomano, la Gran Bretagna, l’Olanda e la Francia in India, in Indonesia e in Algeria, in certi casi ricorrendo a tecniche preindustriali37. Non si sottolineerà mai abbastanza l’incidenza che ebbe il chinino sulla presa di possesso del mondo da parte dell’Occidente. L’impiego diffuso della corteccia di china, la sua coltivazione nelle piantagioni dell’India e di Giava o la sua raccolta nelle montagne andine fecero fare un deciso progresso alle capacità di acclimatazione dell’uomo bianco ai tropici. Allo stesso modo non si sottolineerà mai abbastanza il carattere illegittimo delle guerre coloniali condotte dalle democrazie fuori dell’Europa. Per l’Africa in particolare, la spinta coloniale coincise con una delle prime rivoluzioni militari dell’epoca industriale. Dalla metà dell’Ottocento la tecnica degli armamenti e la velocità dei proiettili cominciarono a trasformare lo scontro militare, rendendolo «un processo realmente disumano»38. Ai cannoni, agli archibugi, alle fortificazioni bastionate, alle navi da guerra dei conflitti precedenti si aggiungono, elencando alla rinfusa, l’artiglieria a parabola di lunga gittata, le armi a tiro rapido di sostegno alla fanteria sull’esempio della mitragliatrice, e perfino gli autoveicoli e gli aeroplani. È questa anche l’epoca in cui le democrazie cercano bene o male di trasferire i principi della produzione di serie nell’arte della guerra e di metterli al servizio della distruzione di massa. Grazie ai nuovi armamenti industriali, alcuni dei quali furono sperimentati nel corso della guerra di Secessione americana (1861-1865) e in occasione del conflitto russogiapponese del 1904-1905, si afferma l’idea di moltiplicare la potenza di fuoco, fondandosi sull’accettazione più o meno fatalista della morte e della sottomissione alla tecnica. Da questo punto di vista le conquiste coloniali rappresentarono un campo privilegiato di sperimentazione e favorirono l’emergere di un pensiero della potenza e della tecnica che,

spinto alle estreme conseguenze, aprì la strada ai campi di concentramento e alle moderne ideologie del genocidio39. Nel corso delle guerre coloniali si assiste a un’accelerazione del confronto tra l’uomo e la macchina, premessa della “guerra industriale” e della macelleria che avrà come emblema la guerra del 1914-1918. Sempre in occasione delle guerre coloniali si diffonde l’assuefazione alle perdite umane elevate, soprattutto tra le truppe nemiche. Del resto le guerre di conquista sono dall’inizio alla fine guerre razziali asimmetriche40. In un secolo e mezzo di conflitti coloniali, le perdite umane degli eserciti coloniali furono limitate. Alcuni storici le stimano tra i 280.000 e i 300.000 uomini, cifre relativamente scarse se si tiene conto che la sola guerra di Crimea provocò quasi 250.000 morti. Nel corso di tre delle principali “sporche guerre” della decolonizzazione (Indocina, Algeria, Angola e Mozambico) si contano 75.000 caduti da parte coloniale e 850.000 da parte indigena41. La tradizione delle “sporche guerre” ha le sue origini nei conflitti coloniali, che si chiudono in genere con perdite molto consistenti tra le popolazioni autoctone e profonde mutazioni dell’ecologia patologica delle regioni così devastate. Condotte da regimi che si proclamano legittimati, le guerre coloniali, soprattutto all’atto della conquista propriamente detta, non sono per la maggior parte guerre di autodifesa. Non lo sono nemmeno se hanno lo scopo di recuperare i propri beni o di ristabilire un qualsiasi diritto laddove sia stato violato. All’inizio non c’è nessun delitto del quale si possa misurare oggettivamente la gravità. La violenza scatenata da questi conflitti non ubbidisce a nessuna regola di proporzionalità. Praticamente non c’è nessun limite formale alla devastazione che colpisce le entità dichiarate nemiche. Molti innocenti finiscono uccisi, in maggioranza non in seguito a colpe dimostrate, ma per colpe future. Per questo la guerra di conquista non è un’affermazione di un diritto. Se criminalizza il nemico, non lo fa perché vuole ristabilire una qualunque giustizia. Che sia o no armato, il nemico che vuole punire è un nemico in sé, un nemico per natura. In sintesi la conquista coloniale apre la via alla sfera della guerra senza regole, la guerra extra legem condotta dalla democrazia che, in tal modo, esternalizza la violenza verso un terzo luogo, retto da convenzioni e costumi fuori norma. Paradossalmente, questa sfera della guerra fuorilegge prospera

proprio nel momento in cui si fanno in Occidente molti tentativi per trasformare sia lo ius in bello (il diritto in guerra) sia lo ius ad bellum (il diritto di fare la guerra). Tali tentativi, cominciati nel Seicento e nel Settecento, si fondano fra l’altro sulla natura del confitto (che tipo di guerra si pratica?), sulla qualifica del nemico (con che genere di nemico si ha a che fare, contro chi si combatte e come?), sul modo di condurre la guerra, sulle regole generali da osservare in funzione del ruolo dei combattenti, dei non-combattenti e di tutti coloro che sono esposti alla violenza e alla devastazione. Le basi di un diritto internazionale umanitario vedono la luce solo alla fine dell’Ottocento. Tale diritto mira, fra l’altro, a “umanizzare” la guerra. Proprio allora la “guerra di brutalizzazione” raggiunge il culmine in Africa. Le leggi di guerra moderne sono formulate per la prima volta in occasione delle conferenze di Bruxelles nel 1874 e dell’Aia nel 1899 e nel 1907. Ma lo sviluppo dei principi internazionali in materia non modifica necessariamente il comportamento delle potenze europee sul campo. Era così ieri, è lo stesso oggi. In breve tempo la violenza delle democrazie viene esternalizzata nelle colonie, dove assume la forma di atti brutali di oppressione. Infatti, poiché non è autorizzato da nessuna precedente legittimità, nella colonia il potere cerca di imporsi come se fosse voluto dal destino. Nell’immaginazione come nella pratica, la vita degli indigeni viene rappresentata come una sequenza di eventi preordinati. Quella vita, si pensa, è condannata a svolgersi così e la violenza praticata dallo Stato assume ogni volta il carattere di una misura non solo necessaria, ma anche esente da colpa. Questo perché il potere coloniale difficilmente si struttura sulla contrapposizione tra legale e illegale. Il diritto coloniale è incondizionatamente soggetto agli imperativi politici. Una simile concezione dell’assoluta strumentalità della legge ha l’effetto di svincolare i detentori del potere da ogni obbligo concreto, nella pratica della guerra, della criminalizzazione dei resistenti, come nel governo di ogni giorno. Il suo momento costitutivo era quello della forza vuota di contenuti, perché incondizionata. La guerra coloniale, quasi sempre ossessionata dal desiderio di sterminio (eliminazionismo), è di per sé, per definizione, una guerra fuori delle frontiere, fuori-legge42. Anche a occupazione compiuta, la

popolazione sottomessa non è mai completamente al riparo da un massacro43. Non sorprende, d’altra parte, che i principali genocidi coloniali siano avvenuti nelle colonie di popolamento nelle quali, in effetti, si afferma un gioco a somma zero. Per giustificare l’occupazione europea c’è la pretesa di negare in anticipo qualsiasi presenza autoctona e di cancellarne le tracce. Accanto ai più gravi fatti di sangue, imperversa una violenza molecolare, raramente trattenuta – una forza attiva e primitiva, di natura quasi sedimentaria e miniaturizzata, che satura l’intero campo sociale44. La legge applicata ai nativi non è mai la stessa applicata ai coloni. I reati commessi dagli indigeni sono puniti in un quadro normativo nel quale essi difficilmente appaiono in quanto soggetti giuridici di pieno diritto. Invece, a ogni colono accusato di aver commesso un reato contro un aborigeno (compreso l’omicidio), basta invocare l’autodifesa o parlare di rappresaglia per sottrarsi alla condanna45. Molti storici hanno fatto notare come l’impero coloniale fosse tutt’altro che un sistema dotato di un’assoluta coerenza. Improvvisazione, reazioni ad hoc davanti a situazioni impreviste e, molto spesso, informalità e scarsa istituzionalizzazione erano la regola46. Tuttavia, invece di attenuare la brutalità e le atrocità, questa porosità e questa segmentazione le rendevano ancor più deleterie. Dove il velo pesante della segretezza riusciva a coprire le prevaricazioni, il ricorso all’imperativo della sicurezza era sufficiente per estendere al di là del ragionevole le zone di immunità; l’impenetrabilità creava meccanismi quasi naturali d’inerzia47. Poco importava che il mondo creato dalle rappresentazioni non coincidesse esattamente con il mondo fenomenico. Bastava richiamarsi al segreto e alla sicurezza. Il mondo coloniale, progenie della democrazia, non era l’antitesi dell’ordine democratico. È sempre stato il suo doppio o il suo volto notturno. La democrazia non esiste senza il suo doppio, la sua colonia, comunque si chiami o sia strutturata. Non è esterna alla democrazia, non è necessariamente collocata oltre le sue mura. La democrazia reca nel proprio seno la colonia, spesso con i tratti della maschera. Come rilevava Frantz Fanon, questo volto notturno cela in effetti un vuoto primordiale e fondante: la legge che trae la sua origine nel nondiritto e che si costituisce in quanto legge fuori-legge. A questo vuoto

fondante se ne somma un altro, un vuoto di conservazione. I due vuoti sono intimamente intrecciati tra loro. L’ordine politico democratico della metropoli ha paradossalmente bisogno di questo duplice vuoto, in primo luogo per far credere all’esistenza di un contrasto irriducibile tra sé e i suoi apparenti contrari, poi per alimentare le proprie risorse mitologiche e meglio nascondere le proprie parti intime sia all’interno sia all’esterno. In altri termini le logiche mitologiche necessarie per far funzionare e sopravvivere le democrazie moderne si pagano al prezzo dell’esternalizzazione della loro violenza originaria nei luoghi terzi, quei non-luoghi le cui figure emblematiche sono la piantagione, la colonia e, oggi, il campo di concentramento e la prigione. Tale violenza, seppure esternalizzata, nelle colonie in particolare, rimane anche, latente, nella metropoli. Una parte del lavoro delle democrazie consiste nell’ottundere al massimo la coscienza di questa presenza latente, nel rendere quasi impossibile qualsiasi autentico interrogarsi sui suoi fondamenti, sulle sue basi e mitologie senza i quali di colpo vacilla l’ordine che assicura la loro riproduzione. La grande paura delle democrazie è che questa violenza latente all’interno ed esternalizzata nelle colonie e in altri luoghi terzi riemerga improvvisamente e minacci l’idea che l’ordine politico si era fatto di se stesso (ovvero essere stato istituito di colpo e una volta per tutte) e che era bene o male riuscito a far passare per senso comune. 4. Il consumo del divino Per il resto, le disposizioni paranoiche dell’epoca si cristallizzano intorno a grandi narrazioni, quella del nuovo inizio e quella della fine – l’Apocalisse. Pochissime cose sembrano distinguere il tempo del nuovo inizio e quello della fine, in quanto ciò che rende possibile l’uno e l’altra è la distruzione, la catastrofe, la devastazione. In quest’ottica il dominio si esercita con la modulazione delle soglie della catastrofe. Se alcune forme di controllo si attuano con la segregazione e il soffocamento, altre operano mediante l’indifferenza e il puro e semplice abbandono. In ogni caso, si può notare come nell’eredità greco-giudaica della filosofia che ha tanto segnato le scienze umane europee esista un rapporto strutturale tra

il futuro del mondo e il destino dell’essere da un lato e, dall’altro, la catastrofe come categoria sia politica sia teologica. Si pensa che l’essere, per raggiungere il proprio apogeo, debba attraversare una fase di purificazione tra le fiamme. Questo singolare evento prefigura l’ultimo atto, nel corso del quale, secondo i termini di Heidegger, la Terra si plasticizzerà. Questa autoplasticizzazione rappresenta, ai suoi occhi, la «realizzazione suprema» della tecnica, una parola che nel filosofo tedesco rimanda tanto alla scienza quanto al capitale. Quando la Terra si plasticizzerà, l’«umanità attuale» sparirà con lei, ritiene Heidegger. Ma per una parte della tradizione giudaicocristiana, la scomparsa dell’«umanità attuale» non costituisce affatto una perdita irrimediabile, quella che ha come esito il vuoto. È solo la fine del primo inizio e, potenzialmente, il primo passo di un “altro inizio” e di “un’altra storia”, la storia di un’altra umanità e di un altro mondo. Non è sicuro, però, che l’umanità nel suo insieme assegni un posto simile alla storia dell’essere nel suo rapporto con la teologia della catastrofe. Nelle antiche tradizioni africane, per esempio, il punto di partenza dell’interrogativo sull’esistenza umana non è la questione dell’essere, ma quella della relazione, della reciproca implicazione, ovvero della scoperta e del riconoscimento di un’altra carne che non è la mia. È la questione di capire come spostarmi ogni volta in luoghi lontani, diversi dal mio e insieme implicati in esso. In tale prospettiva l’identità è una questione non di sostanza ma di plasticità; di composizione condivisa, di apertura sull’altrove di un’altra carne, di reciprocità tra molteplici carni e i loro molteplici nomi e luoghi. Da questo punto di vista produrre la storia consiste nel dipanare e riallacciare nodi e potenziali di situazioni. La storia è una sequenza di situazioni paradossali che vedono trasformazioni senza rottura, trasformazioni nella continuità, assimilazione reciproca di molteplici segmenti del vivente. Di qui l’importanza attribuita all’opera di messa in relazione dei contrari, di inghiottimento e assemblaggio delle singolarità. Tali tradizioni danno scarsissima importanza all’idea di una fine del mondo o a quella di un’altra umanità. Questa ossessione, dunque, potrebbe essere in definitiva peculiare della metafisica occidentale. Per molte culture umane il mondo non finisce affatto; l’idea di una ricapitolazione dei tempi non corrisponde a niente di preciso. Il che non

vuol dire che tutto sia eterno, che tutto sia ripetizione o sia ciclico. Molto semplicemente vuol dire che il mondo, per definizione, è apertura e che il tempo esiste solo nel e grazie all’inatteso, l’imprevisto. Allora l’evento è proprio ciò che nessuno sa prevedere, misurare o calcolare con esattezza. In questo modo la caratteristica propria dell’uomo è di trovarsi costantemente in uno stato di veglia, disposto ad accogliere l’ignoto e ad abbracciare l’inatteso, perché la sorpresa è all’origine di quei procedimenti d’incantesimo senza i quali il mondo non è affatto mondo. A un livello diverso e per gran parte dell’umanità la fine del mondo è già avvenuta. Non si tratta più di saper vivere nell’attesa, ma di come vivere all’indomani della fine, cioè convivere con la perdita, nella separazione. Come rifare mondo dopo la distruzione del mondo? Per questa parte dell’umanità la perdita del mondo impone di disfarsi di quello che in precedenza aveva costituito l’essenziale degli investimenti materiali, psichici e simbolici, di sviluppare un’etica della rinuncia riguardo a ciò che ieri c’era e oggi è scomparso e che occorre dimenticare perché, ad ogni modo, c’è sempre una vita dopo la fine. La fine non coincide affatto con il limite estremo della vita. Nel principio della vita c’è qualche cosa che sfida qualunque idea di fine. La perdita e il suo corollario, la separazione, rappresentano invece un passaggio decisivo. Ma se ogni separazione è in qualche modo una perdita, non ogni perdita equivale necessariamente a una fine del mondo. Ci sono perdite che liberano, perché rappresentano un’apertura ad altri registri della vita e della relazione. Perdite che partecipano della necessità, in quanto garantiscono la sopravvivenza. Ci sono oggetti e investimenti dai quali bisogna separarsi, proprio per assicurarne la perennità. Allo stesso modo, l’attaccamento a certi oggetti e a certi investimenti, a conti fatti, può concludersi con la distruzione dell’io e degli oggetti in questione. Ciò detto, l’epoca che viviamo presenta decisamente un doppio movimento: l’entusiasmo per le origini e il nuovo inizio da una parte, e dall’altra l’uscita dal mondo, la fine dei tempi, il mettere termine all’esistente e l’avvento di un altro mondo. Queste due forme di entusiasmo assumono naturalmente figure particolari a seconda dei luoghi. Nel mondo postcoloniale, dove imperversa una forma particolare di potere la cui caratteristica consiste nel legare dominanti e

dominati in uno stesso fascio del desiderio, l’entusiasmo per la fine si esprime spesso nel linguaggio del religioso. Una ragione sta nel fatto che la postcolonia è una forma relativamente particolare di circonvenzione e di castrazione del desiderio di rivolta e della volontà di lotta. Le energie della società vengono reinvestite non necessariamente nel lavoro, nella ricerca di profitto o nella ricapitolazione del mondo e nel suo rinnovamento, ma in una specie di godimento senza mediazione, immediato, che è nello stesso tempo vuoto di godimento e predazione di tipo libidico – tutte cose che spiegano sia l’assenza di trasformazione rivoluzionaria sia la mancanza di egemonia dei regimi stabiliti. L’entusiasmo per le origini è alimentato da un sentimento di paura provocato dall’incontro con l’altro – non sempre materiale, di fatto sempre fantasmatico e in generale traumatico. Tanti, in realtà, ritengono di aver preferito a lungo gli altri a se stessi. Non è più il caso, pensano, di preferire gli altri a sé, si tratta a questo punto di preferire se stessi agli altri che, in ogni modo, non valgono affatto quanto noi, di scegliere infine oggetti che tendono ad assomigliarci. Siamo dunque di fronte a un’epoca di violenti accessi di narcisismo. In tale contesto la fissazione immaginaria sullo straniero, il musulmano, la donna velata, il rifugiato, l’ebreo o il Negro svolge funzioni di difesa. Non si vuole ammettere che in realtà il nostro io si è sempre costituito per opposizione all’altro – un Negro, un ebreo, un Arabo, uno straniero che abbiamo interiorizzato, ma con una modalità regressiva – che in fondo noi siamo fatti di diversi prestiti da soggetti stranieri e che per questo siamo sempre stati esseri di frontiera: proprio quello che oggi molti non vogliono ammettere. D’altra parte la generalizzazione del sentimento di timore e la democratizzazione della paura si affermano su uno sfondo di profonde mutazioni, a cominciare dai regimi di credenza e quindi dalle storie che ci si racconta, storie che non hanno bisogno di avere un fondamento di verità. A questo punto vero non è quello che è realmente avvenuto o capitato, ma ciò che è creduto. Storie di minacce. Uomini con la testa di serpente, metà vacche e metà tori. Nemici che ce l’hanno con noi e che cercano di darci la morte in modo gratuito, di sorpresa. Uomini-delterrore la cui forza sta nell’aver vinto l’istinto di sopravvivenza e che possono così morire, preferibilmente uccidendo gli altri. Di fatto sarebbe già stata scatenata una guerra di nuovo genere su tutto il pianeta. Tale

guerra si svolgerebbe su tutti i fronti, ci sarebbe completamente imposta dall’esterno. Noi non saremmo affatto responsabili né delle cause, né del suo svolgimento né delle situazioni che genera lontano da casa nostra. Il suo costo in ricchezza, in sangue e corpi reali sarebbe incalcolabile. Questa guerra, poiché non la si può soffocare e non si riescono ad annientare i nemici, porterebbe inesorabilmente alla morte delle idee che, ancora per poco, consideriamo non sacrificabili. Dato che ci troviamo nell’esatta posizione di chi subisce un’aggressione esterna, avremmo il diritto di reagire e la nostra reazione, in definitiva, sarebbe solo una forma onorevole di legittima difesa. Se nel corso di questa reazione i nostri nemici o i popoli e gli Stati che offrono a loro un rifugio sono devastati, si tratterebbe solo di una giusta replica. Non sono proprio loro, in fondo, i portatori della loro stessa distruzione? Tutte queste storie hanno un filo comune: è diventato normale vivere con le armi in mano. Anche nelle democrazie la lotta politica consiste sempre più in una gara per sapere chi sarà capace di gestire le misure più repressive davanti alla minaccia nemica. Nell’itinerario che ha portato alla guerra contemporanea non c’è ancora stato qualcuno che non abbia cambiato faccia. Nel corso di operazioni speciali eseguite da forze armate ufficiali, non si è esitato a eliminare a freddo nemici sospetti, a distanza ravvicinata, senza preavviso, senza scampo e senza rischio di ritorsioni. L’assassinio non offre soltanto l’occasione di una passeggera scarica liberatoria, ma segna anche il ritorno a un meccanismo di modalità arcaica nel quale non esiste più distinzione tra le pulsioni libidiche propriamente dette e le pulsioni di morte in quanto tali. Perché abbia luogo l’incontro senza ritorno dell’Es con la mortalità, è infatti necessario che l’altro esca irrevocabilmente dalla mia vita48. Uccidere civili innocenti servendosi di un drone o nel corso di attacchi aerei sia pure mirati è forse un atto meno cieco, più morale o più terapeutico di uno sgozzamento o di una decapitazione? L’uomo-del-terrore uccide i suoi nemici per ciò che sono e solo per questo? Nega loro il diritto di vivere per ciò che pensano? Ci tiene davvero a sapere quello che dicono e che fanno, o gli basta che siano lì, nel momento sbagliato e nel luogo sbagliato, non importa se armati o disarmati, musulmani o empi, originari del posto o no? La generalizzazione della paura si alimenta anche dell’idea secondo la

quale sarebbe vicina la fine dell’uomo – e quindi del mondo. Ma in realtà la fine dell’uomo non implica necessariamente la fine del mondo. La storia dell’uomo e la storia del mondo, seppure intrecciate, non avranno necessariamente una fine simultanea. Se la fine dell’uomo non implica necessariamente quella del mondo, la fine del mondo materiale, invece, comporterà verosimilmente quella dell’umanità. La fine dell’uomo inaugurerà un’altra sequenza della vita, forse una “vita senza storia”, nonostante che il concetto di storia sia stato inseparabile da quello di uomo, fino a far pensare che non avrebbe potuto esistere altra storia oltre a quella dell’uomo. Evidentemente non è più così. Potrebbe darsi che la fine dell’umanità apra semplicemente la strada a una storia del mondo senza esseri umani: una storia dopo gli uomini ma con altri viventi, con tutte le tracce che l’uomo ha lasciato dietro di sé, ma a tutti gli effetti una storia in sua assenza. A rigor di termini, l’umanità potrà anche estinguersi per fame, ma la fine dell’uomo non significherà la fine di ogni fine immaginabile. L’età dell’uomo non copre interamente l’età del mondo, che è più vecchio dell’uomo: non si può confondere l’una con l’altra. Non ci sarà uomo senza mondo, ma è ben possibile che una certa immagine del mondo sopravviva all’uomo: il mondo senza esseri umani. Ma se questo mondo senza uomini sarà inaugurato da un angelo poderoso sceso dal cielo, avvolto in una nuvola, con un arcobaleno intorno al capo, un volto simile al sole, piedi come colonne di fuoco, nessuno lo può dire. Poserà il suo piede destro sul mare, il sinistro sulla terra? Nessuno lo sa. Ritto in piedi sul mare e sulla terra, solleverà la mano verso il cielo e giurerà su Colui che vive nei secoli dei secoli? Molti lo credono. Sono infatti convinti che il tempo non esisterà più, ma che nel giorno in cui squillerà la tromba del settimo angelo il mistero di Dio si compirà. Intravedono una fine che equivarrà a un’interruzione definitiva del tempo o anche al ritorno a un nuovo regime di storicità caratterizzato dal consumo del divino. Dio smetterà di essere un mistero. Sarà a quel punto possibile accedere alla sua verità, senza mediazione, nella più assoluta trasparenza. Compiutezza, finitezza e rivelazione, tanto a lungo separate, saranno finalmente riunite. Un tempo che per natura deve finire finirà, proprio perché sia possibile accedere a un altro tempo, quello che non finisce. Sarà finalmente possibile passare dall’altra parte, si

potrà finalmente abbandonare, da questa parte, il tempo dell’imperfezione e della mortalità. L’idea che esista una forza fondamentalmente liberatrice che scaturirà quasi dal nulla una volta che la fine si sarà veramente compiuta è al centro della violenza politica dai tratti tecno-teologici del nostro tempo49. 5. Necropolitica e relazione senza desiderio D’altra parte, qualunque cosa sia ciò che così si etichetta, il terrorismo non è una finzione letteraria, come non lo sono le guerre di occupazione, il contro-terrore e i conflitti contro-insurrezionali che si vuole ne rappresentino la risposta. Terrore e contro-terrore sono le due facce di una stessa realtà, la relazione senza desiderio. L’attivismo terrorista e la mobilitazione antiterrorista hanno più di una cosa in comune. L’uno e l’altra si richiamano al diritto e ai diritti. Per un verso il progetto terrorista vuole portare al crollo della società di diritto, della quale minaccia oggettivamente le fondamenta più profonde. Per un altro, la mobilitazione contro il terrorismo si basa sull’idea che solo misure eccezionali possano venire a capo di nemici sui quali dovrebbe potersi abbattere la violenza senza limiti dello Stato. In tale contesto la sospensione dei diritti e la rimozione delle garanzie che tutelano gli individui sono presentate come condizioni per la permanenza di quegli stessi diritti. Proteggere lo Stato di diritto contro il terrore imporrebbe di fare violenza al diritto stesso o anche di rendere costituzionale ciò che prima si presentava come eccezione o semplicemente come negazione del diritto. Con il rischio che i mezzi diventino un fine in sé, qualunque attività di difesa dello Stato di diritto e del nostro stile di vita comporterebbe allora un uso assoluto della sovranità. Ma da quale punto in poi la “legittima difesa” (o la reazione) finisce per trasformarsi, in via di principio e in pratica, in una volgare replica dell’istituzione e della meccanica del terrorismo? Non siamo forse in presenza di tutt’altro regime politico quando la sospensione del diritto e delle libertà non è più un’eccezione, benché non sia nemmeno la regola? Dove finisce la giustizia e dove comincia la vendetta quando leggi, decreti, perquisizioni, controlli, tribunali speciali e altri dispositivi

d’emergenza mirano soprattutto a produrre una categoria di sospetti a priori? L’ingiunzione all’abiura (in questo caso dell’islam) non fa che amplificare la portata di questa domanda. Come si può pretendere che musulmani normali e innocenti rendano conto del proprio operato a nome di coloro che in nessun modo si curano della loro vita e, al limite, vogliono la loro morte? Nell’era della grande brutalità, mentre tutti uccidono e massacrano, dobbiamo continuare a prendercela con chi si sottrae dalla morte perché cerca rifugio nei nostri paesi invece di accettare stoicamente di morire dov’è nato? Non esiste nessuna risposta credibile a questi interrogativi se non si parte dell’apparente generalizzazione di forme di potere e di manifestazioni di sovranità che abbiano tra le loro caratteristiche quella di produrre morti su vasta scala. Questa produzione si effettua in base a un calcolo puramente strumentale della vita e del politico. È vero, noi abbiamo vissuto sempre in un mondo profondamente segnato da diverse forme di terrore, cioè di sperpero della vita umana. Vivere nel terrore e quindi sotto il regime dello sperpero non è una novità. Storicamente una delle strategie degli Stati dominanti è sempre consistita nel definire lo spazio del terrore e nello scaricarlo confinandone le manifestazioni più estreme in un luogo terzo razzialmente stigmatizzato: la piantagione sotto lo schiavismo, la colonia, il campo di lavoro, il compound sotto l’apartheid, il ghetto o, come negli Stati Uniti contemporanei, la prigione. A volte queste forme di reclusione e di occupazione e questo potere di segmentazione e distruzione sono stati esercitati da autorità private, spesso senza controllo – cosa che ha portato all’emergere di forme di dominio senza responsabilità: è ciò che avviene quando il capitale avoca a sé il diritto di vita e di morte sui propri sottoposti. L’esempio che si può citare è quello delle compagnie concessionarie all’inizio del periodo coloniale. In molte aree del mondo postcoloniale, la svolta che ci sarebbe stata con la generalizzazione di un rapporto improntato alla guerra sarebbe stata una conseguenza estrema del corso autoritario seguito da vari regimi politici che dovevano fare i conti con accese proteste. In Africa, in particolare, il terrore ha assunto forme diverse. La prima sarebbe stata quella del terrorismo di Stato, soprattutto quando si trattava di contenere la spinta della protesta, se necessario con una repressione a volte subdola,

a volte sbrigativa, brutale e senza ritegno (reclusione, fucilazioni, misure di emergenza, varie forme di coercizione economica). Per facilitare la repressione i regimi al potere hanno cercato di spoliticizzare la protesta sociale; in certi casi si sono impegnati per dare un profilo etnico al conflitto, in altri intere regioni sono state messe sotto una doppia amministrazione, civile e militare. Dove si sono sentiti più minacciati, i regimi hanno spinto all’estremo la logica della radicalizzazione, promuovendo o sostenendo la formazione di bande o di milizie controllate sia da propri scagnozzi o da altri imprenditori della violenza sia da responsabili militari o politici detentori di posizioni di potere all’interno delle strutture ufficiali di Stato. In certi casi le milizie hanno aumentato progressivamente il loro grado di autonomia e si sono trasformate in vere e proprie formazioni armate all’interno di strutture di comando parallele a quelle delle forze armate regolari. In altri casi ancora le strutture militari formali sono servite da copertura per attività illegali, con la proliferazione dei traffici che procedeva di pari passo con la repressione politica propriamente detta. Una seconda forma di terrore si è affermata dove è avvenuta una frammentazione del monopolio della forza seguita da una redistribuzione squilibrata dei mezzi del terrore all’interno della società. In tali contesti c’è stata un’accelerazione delle crisi delle istituzioni e della precarizzazione. Si è verificata una nuova divisione sociale che ha separato coloro che sono protetti (perché armati) da quelli che non lo sono. Infine, le lotte politiche hanno avuto la tendenza, più che in passato, ad essere combattute con la forza e la circolazione delle armi all’interno della società è diventata uno dei principali fattori di divisione e un elemento centrale nelle dinamiche dell’insicurezza, della protezione dell’esistenza e dell’accesso alla proprietà. La perdita progressiva del monopolio della violenza da parte dello Stato si è coniugata a un suo graduale trasferimento a molteplici istanze che operano fuori o dentro lo Stato, ma in relativa autonomia. La disgregazione di questo monopolio sancisce anche la comparsa di operatori privati, alcuni dei quali hanno pian piano acquisito le possibilità di far proprie e riutilizzare le risorse della violenza a fini economici e perfino le capacità di intraprendere delle guerre vere e proprie. Su un altro piano le forme di appropriazione violenta delle risorse si

sono fatte più complesse e sono apparsi legami tra le forze armate, la polizia, le strutture giudiziarie e gli ambienti criminali. Dove si formano collegamenti tra le strutture deputate alla repressione e i traffici di qualsiasi genere, si assiste a una configurazione politico-culturale che presenta per chiunque ampie possibilità di finire ucciso da chiunque altro per qualunque pretesto. Poiché si stabilisce un rapporto di parità relativa tra la capacità di uccidere e il suo corollario (la possibilità di essere ucciso) – una parità relativa che può essere negata solo dal possesso o dal non possesso delle armi –, questa configurazione accentua il carattere funzionale del terrore e rende possibile la distruzione di ogni legame sociale che non sia quello dell’inimicizia. È questo legame di ostilità che giustifica il rapporto attivo di dissociazione del quale la guerra è una traduzione violenta. È lo stesso legame che permette di affermare e normalizzare l’idea secondo la quale il potere si potrebbe acquisire ed esercitare solo al costo della vita altrui. Nel governo del terrore non si tratta più tanto di reprimere e disciplinare, quanto di ammazzare, ora in massa ora a piccole dosi. La guerra non contrappone più necessariamente solo un esercito a un altro o Stati sovrani ad altri. Gli attori della guerra sono Stati propriamente costituiti, oppure formazioni armate operanti o meno dietro la maschera di uno Stato, o ancora eserciti senza Stato che controllano territori ben distinti, o Stati senza esercito, corporations o compagnie concessionarie incaricate dell’estrazione di risorse naturali, ma che si sono anche arrogate il diritto di far guerra. Le popolazioni subiscono regole belliche che di per sé consistono sempre di più in processi di appropriazione delle risorse economiche. In contesti del genere l’intreccio tra guerra, terrorismo ed economia è tale che non si può più parlare solo di un’economia di guerra. Con la creazione di nuovi mercati militari, guerra e terrore si sono trasformati in modi di produzione come altri. Il terrore e le atrocità trovano giustificazione nella volontà di sradicare la corruzione di cui sarebbero colpevoli le tirannie esistenti e appartengono, a quanto pare, a un’immensa liturgia terapeutica nella quale si mischiano il desiderio di sacrificio, escatologie messianiche, frammenti di sapere collegati sia a fantasie autoctone dell’occulto sia ai discorsi moderni dell’utilitarismo, del materialismo e del consumismo. Quali che siano i fondamenti di questi discorsi, la loro traduzione

politica è rappresentata da guerre estenuanti, nel corso delle quali ci sono massacri con migliaia o perfino centinaia di migliaia di vittime, e centinaia di migliaia di profughi sono trasferiti, confinati o internati in campi. In tali condizioni il potere è infinitamente più brutale che nel periodo autoritario. Più fisico, più materiale, più pesante. Non punta più ad addomesticare le popolazioni. Se conserva ancora una stretta ripartizione territoriale dei corpi (o la loro agglomerazione all’interno dei perimetri che controlla), non è tanto per disciplinarli quanto per estrarne il massimo del vantaggio e, a volte, di piacere (come nel caso particolare della schiavitù sessuale). Gli stessi modi di ammazzare sono di diverso tipo. In particolare nel caso dei massacri, i cadaveri, spogliati dell’essere, sono rapidamente ridotti allo stato di meri scheletri, semplici reliquie di un dolore insepolto; fisicità svuotate e insignificanti; strani scarti immersi in un crudele sbalordimento50. Spesso la cosa che più colpisce è la tensione tra la pietrificazione e l’inquietante freddezza delle ossa da un lato, e dall’altro la loro ostinazione a voler significare qualcosa a qualsiasi costo. In altre situazioni, sembra che non ci sia serenità in questi pezzi d’osso segnati dall’impassibilità: solo il rifiuto illusorio di una morte già avvenuta. In altri casi in cui l’amputazione fisica sostituisce la morte diretta, la rimozione di alcuni arti apre la strada alla pratica di tecniche di incisione, ablazione ed escissione che hanno anch’esse le ossa come obiettivo privilegiato. Le tracce di questa chirurgia demiurgica persistono a lungo dopo il fatto, nella forma di figure umane vive sì, ma nelle quali il corpo integro è stato sostituito da pezzi, frammenti, rughe, persino enormi piaghe e cicatrici che hanno la funzione di mettere continuamente sotto lo sguardo della vittima e di chi gli sta vicino lo spettacolo morboso della sua vivisezione. Per il resto va detto, pur evitando di cadere nel naturalismo geografico o climatico, che le forme che presenta il terrore nell’età dell’Antropocene dipendono necessariamente dai contesti climatici e dai modi di vita propri dei diversi ambienti ecologici. Questo è particolarmente vero nello spazio africano del Sahel e del Sahara, dove le dinamiche della violenza tendono a coniugarsi con quelle della mobilità spaziale e della circolazione tipiche dei mondi nomadi desertici o semidesertici. Qui, mentre la strategia degli Stati fin dai tempi coloniali

si è basata sul controllo dei territori, quella delle varie formazioni della violenza (comprese quelle terroriste) si fonda sul controllo dei movimenti e delle reti sociali e commerciali. Una delle caratteristiche del deserto è di essere fluttuante. Se il deserto fluttua, fluttuano anche i suoi margini, che cambiano a seconda degli eventi climatici. Un altro elemento tipico degli spazi del deserto sahariano riguarda l’importanza dei mercati e delle piste che collegano le aree boscose del Sud con le città del Maghreb. Il terrorismo qui è di natura stratificata, nell’interfaccia tra i regimi carovanieri, nomadi, e quelli sedentari. Questo perché lo spazio e le persone sono in costante movimento. Lo spazio non è solo attraversato dal movimento, è esso stesso in movimento. Secondo Denis Retaillé e Olivier Walther, «questa capacità di movimento dei luoghi è resa possibile dal fatto che gli spazi non sono determinati a priori dall’esistenza di infrastrutture rigide»51. Ciò che emerge di più, aggiungono, è «una forma più raffinata di organizzazione rispetto al modello zonale basato su una suddivisione dello spazio in diversi ambiti bioclimatici»52. La capacità di spostarsi su distanze considerevoli, di intrattenere alleanze variabili, di privilegiare i flussi a scapito dei territori e di negoziare l’incertezza è parte delle risorse necessarie per incidere realmente sui mercati regionali del terrore. In queste forme più o meno mobili e segmentate di amministrazione del terrore, la sovranità consiste nel potere di fabbricare un’intera massa di persone che sopravvive ai margini o ai limiti estremi della vita – persone per le quali vivere significa dialogare in permanenza con la morte, in condizioni in cui la morte stessa tende sempre più a diventare qualcosa di spettrale sia per come è vissuta sia per il modo in cui viene data. Vita superflua, quindi, una vita il cui prezzo è così basso da non avere un’equivalenza commerciale, e ancor meno vita umana, personale; quella specie di vita il cui valore è extraeconomico e il cui unico equivalente è il tipo di morte che è possibile infliggerle. Di norma, è una morte della quale nessuno si sente obbligato a rispondere. Nessuno avverte, riguardo a questo tipo di vita o a questo tipo di morte, un qualunque senso di responsabilità o giustizia. Il potere necropolitico opera mediante una sorta di inversione tra la vita e la morte, come se la vita fosse solo il medium della morte. Cerca sempre di annullare la distinzione tra i mezzi e i fini. Per questo è indifferente ai

segni oggettivi della crudeltà. Ai suoi occhi il crimine costituisce una parte fondamentale della rivelazione, e la morte dei suoi nemici è in linea di principio priva di qualsiasi significato simbolico. Una morte così non ha niente di tragico. Ecco perché il potere necropolitico può moltiplicarla all’infinito, sia a piccole dosi (in forma cellulare o molecolare), sia con impulsi spasmodici – la strategia dei “piccoli massacri” a breve scadenza, secondo una logica inesorabile di separazione, soffocamento e vivisezione, come vediamo in tutti i teatri contemporanei del terrore e del contro-terrore53. In larga misura, il razzismo è la forza trainante del principio necropolitico in quanto questo è il nome della distruzione organizzata, il nome di un’economia sacrificale il cui funzionamento richiede una riduzione generalizzata del prezzo della vita da un lato e, dall’altro, l’assuefazione alla perdita. Questo principio è all’opera nel processo con il quale, oggi, la simulazione permanente dello stato di emergenza giustifica la “guerra contro il terrore” – una guerra di sradicamento, indefinita, assoluta, che rivendica il diritto alla crudeltà, alla tortura e alla detenzione illimitata – e quindi una guerra che attinge le proprie armi dal “male” che pretende di sradicare, in un contesto in cui il diritto e la giustizia sono esercitati nella forma di infinite rappresaglie, della vendetta e della ritorsione. Forse l’epoca che viviamo, più che essere caratterizzata dalla differenza, è quindi segnata dalla fantasia di separazione, perfino di sterminio. Da ciò che non si mette insieme, che non si riunisce, da ciò che non si è disposti a condividere. Alla proposta dell’uguaglianza universale, che non molto tempo fa permetteva di contestare le ingiustizie sostanziali, si è gradualmente sostituita la proiezione spesso violenta di un “mondo senza” – il “mondo del grande sgombero”, lo sgombero dei musulmani che intasano il centro città, dei Negri e di altri stranieri che bisogna deportare, dei terroristi (o presunti tali) che si torturano in modo diretto o per procura, degli ebrei che dispiace siano sfuggiti in tanti alle camere a gas, dei migranti che arrivano da ogni dove, della massa dei profughi e di tutti i naufraghi, questi relitti i cui corpi sono incredibilmente simili a mucchi di spazzatura, carogna umana con la sua muffa, il suo puzzo e la sua putrefazione, che occorre smaltire. Per giunta è in gran parte sfumata la classica distinzione tra carnefici e

vittime – che una volta serviva da fondamento alla giustizia più elementare. Oggi vittima, domani carnefice, poi di nuovo vittima: il ciclo dell’odio è in continuo movimento ed estende dappertutto i suoi nodi problematici. Poche sventure, ormai, sono considerate ingiuste. Non ci sono sensi di colpa, rimorsi né riparazioni. Non ci sono nemmeno ingiustizie cui dobbiamo porre riparo o tragedie che possiamo evitare. Per riunire è necessario dividere e ogni volta che diciamo “noi” ci tocca escludere a qualsiasi costo qualcuno, spogliarlo di qualcosa, procedere a una confisca. Con una strana tramutazione le vittime, oltre a subire il danno, sono ora chiamate ad assumersi la colpa che dovrebbero sentire i loro carnefici. Devono espiare al posto dei loro torturatori, dispensati da qualsiasi rimorso e sollevati dalla necessità di riparare alle proprie malefatte. A loro volta, le ex vittime, gli scampati e i sopravvissuti non esitano a trasformarsi in carnefici e a riversare su chi è più debole di loro il terrore che hanno subito, riproducendo all’estremo, quando possono, le logiche che hanno portato al loro sterminio. Peraltro incombono dovunque la tentazione della singolarità e il suo corollario, l’immunità. Come si può limitare la democrazia o addirittura congedarsi da lei, in modo tale che sia possibile far propria la straripante violenza sociale, economica e simbolica, confiscarla se necessario, in ogni caso istituzionalizzarla e dirigerla contro un “grande nemico” – uno qualsiasi, poco importa – che dobbiamo annientare a qualunque costo? Mentre la fusione tra capitalismo e animismo non è più in dubbio, mentre l’intreccio fra tragico e politico tende a diventare la regola, questo è l’interrogativo che la nostra epoca continua a sollevare, quello dell’inversione della democrazia54. Più o meno dappertutto, quindi, il tema è quello della sospensione, della limitazione o addirittura della revoca o dell’abolizione pura e semplice – della Costituzione, della legge, dei diritti, delle libertà civili, della nazionalità, di tutti i tipi di tutele e garanzie che fino a poco tempo fa si consideravano acquisite. La maggior parte delle guerre contemporanee così come delle forme di terrore a queste associate non mirano al riconoscimento, ma alla costituzione di un mondo che prescinda dalla relazione. Che li si considerino o meno provvisori, il processo di uscita dalla democrazia e il movimento di sospensione dei diritti, delle

Costituzioni o delle libertà sono paradossalmente giustificati dalla necessità di tutelare proprio queste stesse leggi, libertà e Costituzioni. E insieme all’uscita e alla sospensione arriva il recinto – tutti i tipi di muri, il filo spinato, i campi e i tunnel, le porte chiuse, come se, in realtà, avessimo finito per sempre con un certo ordine delle cose, un certo sistema di vita, un certo immaginario della condivisione nella città futura. Sotto molti aspetti, la domanda che ci era stata posta ieri è esattamente quella che occorre rifare oggi. Si tratta di capire se sia mai stato, se è e se sarà mai possibile per noi incontrare un altro vedendolo in modo diverso da un oggetto semplicemente dato, qui, a portata di mano. C’è qualcosa che possa legarci ad altri insieme ai quali possiamo affermare di esistere? Quali forme potrebbe assumere questa sollecitudine? È possibile un’altra politica del mondo, che non si fondi più necessariamente sulla differenza o l’alterità, ma su una certa idea del simile e del condiviso? Non siamo forse condannati a vivere esposti l’uno all’altro, a volte nello stesso spazio? A causa di questa prossimità strutturale non c’è più un “fuori” che si potrebbe opporre a un “dentro”, un “altrove” da opporre a un “qui”, un “vicino” e un “lontano”. Non si potrà fare della propria casa un santuario mentre si fomentano a distanza il caos e la morte in casa d’altri. Presto o tardi si raccoglierà a casa propria quello che si è seminato altrove. Il santuario potrà esserci solo nella reciprocità. Per arrivare a questo occorrerà pertanto pensare la democrazia al di là della giustapposizione delle singolarità e dell’ideologia semplicistica dell’integrazione. D’altra parte, la futura democrazia sarà costruita sulla base di una chiara distinzione tra l’“universale” e il “condiviso”. L’universale implica l’inclusione in qualche cosa o in qualche entità precostituita. Il condiviso presuppone un rapporto di co-appartenenza e di avere qualcosa in comune – l’idea di un mondo che è il solo che abbiamo e che, per durare, deve essere condiviso da tutti quelli che ne hanno diritto, da tutte le specie messe insieme. Perché tale condivisione divenga possibile e perché si giunga all’instaurazione di questa democrazia planetaria, la democrazia delle specie, è ineludibile dare risposta all’esigenza di giustizia e di riparazione55. Quando pensiamo a queste mutazioni di grande ampiezza, è

necessario comprendere che esse incidono profondamente sulle relazioni tra la democrazia, la memoria e l’idea di un futuro che potrebbe essere condiviso dall’umanità nel suo insieme. Ora, se ci riflettiamo, dobbiamo convenire sul fatto che oggi “l’umanità nel suo insieme”, nella sua dispersione, è simile a una maschera mortuaria – un qualcosa, un resto, tutto tranne che una figura, un volto e un corpo perfettamente riconoscibili, in questa era in cui tutto brulica, prolifera e s’innesta su quasi tutto. In effetti qualcosa non c’è più. Ma quel “qualcosa”, questa mezza carogna semigiacente è mai stata davvero presente davanti a noi, se non nella forma di un sontuoso cadavere – nel migliore dei casi una lotta insieme elementare, originaria e senza riserve per sottrarsi alla polvere?56 Il nostro tempo, infatti, non è certo quello della ragione, e non è sicuro che tornerà ad esserlo, almeno a breve termine. Grazie al bisogno di misteri e al ritorno dello spirito di crociata, è piuttosto favorevole alle disposizioni paranoiche, alla violenza isterica, ai processi di annientamento di tutti coloro che la democrazia avrà bollato come nemici dello Stato57. 1

Paul Gilroy, The Black Atlantic. Modernity and Double-Consciousness, Verso Books, London 1993 [trad. it., The Black Atlantic. L’identità nera tra modernità e doppia coscienza, Meltemi, Roma 2003]. 2 Per una panoramica generale, vedi Parakunnel Joseph Thomas, Mercantilism and East India Trade, Frank Cass, London 1963; William J. Barber, British Economic Thought and India, 16901858, Clarendon Press, Oxford 1975. 3 Vedi Walter Johnson, River of Dark Dreams. Slavery and Empire in the Cotton Kingdom, The Belknap Press of Harvard University Press, Cambridge (MA) 2013. 4 Un’analisi comparata di questa istituzione si trova in Richard S. Dunn, A Tale of Two Plantations. Slave Life and Labor in Jamaica and Virginia, Harvard University Press, Cambridge (MA) 2014. 5 Antoine de Montchrestien, Traité d’économie politique, Droz, Genève 1999 [1615], p. 187. 6 Vedi, per esempio, Josiah Child, A New Discourse of Trade, J. Hodges, London 1690, p. 197; Charles Davenant, Discourses on the public revenue and on the trade, in Id., The Political and Commercial Works. Collected and Revised by Sir Charles Whitworth, R. Horsfield, London 1967 [1711], p. 3. 7 Si leggano Christophe Salvat, Formation et diffusion de la pensée économique libérale française. André Morellet et l’économie politique du XVIIe siècle, tesi, Lyon 2000; Daniel Diatkine (a cura di), Le libéralisme à l’épreuve: de l’empire aux nations (Adam Smith et l’économie coloniale), in «Cahiers d’économie politique», n. 27-28, 1996. 8 Vedi Jean-Pierre Bardet, Jacques Dupâquier (a cura di), Histoire des populations de l’Europe. I. Des origines aux prémices de la révolution démographique, Fayard, Paris 1998. 9 Sull’ampiezza di queste nuove forme di circolazione, vedi World Bank, Development Goals in an Era of Demographic Change. Global Monitoring Report 2015/2016, 2016 (disponibile sul sito www.worldbank.org). 10 Vedi Seyla Benhabib, Judith Resnik (a cura di), Migrations and Mobilities. Citizenship,

Borders, and Gender, New York University Press, New York 2009; e Seyla Benhabib, The Rights of Others. Aliens, Residents, and Citizens, Cambridge University Press, Cambridge 2004. 11 Il termine “nuovi abitanti” non vuol dire che queste cose non fossero già state presenti prima. “Nuovo” va inteso nel senso del loro mutato ruolo nei nostri dispositivi di rappresentazione. Su tali questioni si veda Bruno Latour, Face à Gaïa. Huit conférences sur le nouveau régime climatique, La Découverte, Paris 2015. 12 Claire Larsonneur (a cura di), Le sujet digital, Les Presses du Réel, Paris 2015, p. 3. 13 Pierre Caye, Critique de la destruction créatrice, Les Belles Lettres, Paris 2015, p. 20. 14 Norbert Elias, Die höfische Gesellschaft, Suhrkamp, Frankfurt a.M. 1969 [trad. it., La società di corte, il Mulino, Bologna 2010]; Id., Über den Prozess der Zivilisation, vol. I, Francke, BernMünchen 1969 [trad. it., Il processo di civilizzazione, il Mulino, Bologna 2009]. 15 Erving Goffman, Interaction Ritual: Essays on Face to Face Behavior, Pantheon Books, New York 2003 [1967] [trad. it., Il rituale dell’interazione, il Mulino, Bologna 1988]. 16 William Edward Burghardt Du Bois, Black Reconstruction in America, 1860-1880, Free Press Edition, New York 1998 [1935]. 17 Alexis de Tocqueville, De la démocratie en Amérique, vol. I, GF Flammarion, Paris 1981, p. 457 [trad. it., La democrazia in America, a cura di Giorgio Candeloro, Rizzoli Libri, Milano 2005, pp. 339-340]. 18 Ivi, p. 457 [trad. it., cit., p. 348]. 19 Kenneth C. Barnes, Journey of Hope. The Back to Africa Movement in Arkansas in the Late 1800s, The University of North Carolina Press, Chapel Hill 2004. 20 Ivi, p. 257. 21 Circa nello stesso periodo, per esempio, in Francia si delinea una tendenza opposta. La democrazia cerca, se non di ottenere l’obbedienza senza ricorrere necessariamente alla violenza diretta, almeno di regolarne le manifestazioni più disumane in spazi sempre meno visibili. Vedi Emmanuel Taieb, La guillotine au secret. Les exécutions publiques en France, 1870-1939, Belin, Paris 2011. 22 Si leggano Ida B. Wells-Barnett, On Lynchings, Arno Press, New York 1969; Robyn Wiegman, The anatomy of lynching, in «Journal of the History of Sexuality», vol. 3, n. 3, 1993, pp. 445-467; David Garland, Penal excess and surplus meaning. Public torture lynchings in twentieth-century America, in «Law and Society Review», vol. 39, n. 4, 2005, pp. 793-834; e Dora Apel, On Looking. Lynching photographs and legacies of lynching after 9/11, in «American Quarterly», vol. 55, n. 3, 2003, pp. 457-478. 23 Thomas Jefferson, Notes on the State of Virginia, Penguin Classics, London 1999 [1775] [trad. it., Note sullo stato della Virginia, a cura di Pierangelo Castagneto, Ed. Città del silenzio, Novi Ligure 2014]. 24 Simon Gikandi, Slavery and the Culture of Taste, Princeton University Press, Princeton 2015, p. 149. 25 Vedi Sidney W. Mintz, Sweetness and Power. The Place of Sugar in Modern History, Penguin Books, New York 1986; Kirti N. Chaudhuri, The Trading World of Asia and the English East India Company, 1660-1760, Cambridge University Press, Cambridge 1978. 26 Vedi Klaus Knorr, British Colonial Theories, 1570-1850, Toronto University Press, Toronto 1944, p. 54; e Joyce Oldham Appleby, Economic Thought and Ideology in the Seventeenth-Century England, Princeton University Press, Princeton 1978; William Letwin, The Origin of Scientific Economics. The English Economic Thought 1660-1776, Methuen, London 1963. 27 Romain Bertrand, Norbert Elias et la question des violences impériales. Jalons pour une histoire de la “mauvaise conscience” occidentale, in «Vingtième Siècle», n. 106, 2010, pp. 127-140. 28 Michail Bakunin, Fédéralisme, socialisme et antithéologisme, in Id., Œuvres, vol. I, Stock, Paris

1980; e vol. VIII. 29 Per una critica di destra vedi Carl Schmitt, Die geistesgeschichtliche Lage des heutigen Parlamentarismus, Duncker & Humblot, München 1926 [trad. it. in Parlamentarismo e democrazia e altri scritti di dottrina dello Stato, Marco, Lungro di Cosenza 1999]. 30 Georges Sorel, Réflexions sur la violence, Marcel Rivière, Paris 1921, pp. 257 e 263 [trad. it. in Scritti politici. Riflessioni sulla violenza. Le illusioni del progresso. La decomposizione del marxismo, a cura di Roberto Vivarelli, UTET, Torino 2006]. 31 Vedi Romain Ducoulombier, Ni Dieu, ni maitre, ni organisation? Contribution à l’histoire des réseaux sous la Troisième République (1880-1914), Presses Universitaires de Rennes, Rennes 2009; e Miguel Chueca (a cura di), Déposséder les possédants. La grève générale aux «temps héroïques» du syndicalisme révolutionnaire (1895-1906), Agone, Marseille 2008. 32 Odile Krakovitch, Les Femmes bagnardes, O. Orban, Paris 1990. 33 Odile Krakovitch scrive che il numero dei deportati dal 1852 al 1938 sarebbe stato di 102.100, ivi, p. 260. Vedi anche Danielle Donet-Vincent, Les «bagnes» des Indochinois en Guyane (1931-1963), in criminocorpus.revues.org, gennaio 2006. 34 Ruth Gilmore, Golden Gulag. Prisons, Surplus, Crisis, and Opposition in Globalizing California, University of California Press, Berkeley 2007. 35 Su questo dibattito cfr. Marie Gottschalk, The Prison and the Gallows. The Politics of Mass Incarceration in America, Cambridge University Press, Cambridge 2006; Michelle Alexander, The New Jim Crow. Mass Incarceration in the Age of Colorblindedness, New York University Press, New York 2010 e Lorna A. Rhodes, Total Confinement. Madness and Reason in the Maximum Security Prison, University of California Press, Berkeley 2004. 36 Daniel R. Headrick, The Tools of Empire. Technology and European Imperialism in the Nineteenth-Century, Oxford University Press, New York 1981; Philip D. Curtin, Disease and Empire. The Health of European Troops in the Conquest of Africa, Cambridge University Press, Cambridge 1998; e Marie-Noëlle Bourguet, Christophe Bonneuil (a cura di), De l’inventaire du monde à la mise en valeur du globe. Botanique et colonisation (fin XVIIe siècle-début XXe siècle), in «Revue française d’histoire d’outre-mer», vol. 86, n. 322-323, 1999. 37 Bouda Etemad, La possession du monde. Poids et mesure de la colonisation, Complexe, Bruxelles 2000. 38 Laurent Henninger, Industrialisation et mécanisation de la guerre, sources majeures du totalitarisme (XIXe-XXe siècles), in «Astérion», n. 2, 2004, p. 1. 39 Iain R. Smith, Andreas Stucki, The colonial development of concentration camps (1868- 1902), in «The Journal of Imperial and Commonwealth History», vol. 39, n. 3, 2011, pp. 417-437. 40 Olivier Le Cour Grandmaison, Coloniser, exterminer. Sur la guerre et l’État colonial, Fayard, Paris 2005. 41 Per il Camerun, vedi Thomas Deltombe, Manuel Domergue, Jacob Tatsitsa, Kamerun! Une guerre cachée aux origines de la Françafrique (1948-1971), La Découverte, Paris 2011. 42 Vedi, per esempio, Kevin Kenny, Peaceable Kingdom Lost. The Paxton Boys and the Destruction of William Penn’s Holy Experiment, Oxford University Press, New York 2009. 43 A. Dirk Moses (a cura di), Empire, Colony, Genocide. Conquest, Occupation, and Subaltern Resistance in World History, Berghahn, New York 2008; Martin Shaw, Britain and genocide. Historical and contemporary parameters of national responsibility, in «Review of International Studies», vol. 37, n. 5, 2011, pp. 2417-2438. 44 Vedi i dettagli in Elizabeth Kolsky, Colonial Justice in British India. White Violence and the Rule of Law, Cambridge University Press, Cambridge 2010. 45 Lisa Ford, Settler Sovereignty. Jurisdiction and Indigenous People in America and Australia, 17881836, Harvard University Press, Cambridge (MA) 2010.

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Vedi, in particolare, Martin Thomas, Intelligence providers and the fabric of the late colonial state, in Josh Dulfer, Marc Frey, Elites and Decolonization in the Twentieth Century, Palgrave Macmillan, Basingstoke 2011, pp. 11-35. 47 Priya Satia, Spies in Arabia. The Great War and the Cultural Foundations of Britain’s Covert Empire in the Middle East, Oxford University Press, Oxford 2008; e Martin Thomas, Empires of Intelligence. Security Services and Colonial Disorder after 1914, University of California Press, Berkeley 2008. 48 Vedi Simon Frankel Pratt, Crossing off names. The logic of military assassination, in «Small Wars & Insurgencies», vol. 26, n. 1, 2015, pp. 3-24; e, più in generale, Nils Melzer, Targeted Killing in International Law, Oxford University Press, New York 2008; e Grégoire Chamayou, Théorie du drone, La Fabrique, Paris 2013. 49 Arthur Kroker, Michael A. Weinstein, Maidan, caliphate, and code. Theorizing power and resistance in the 21st century, in www.ctheory.net, 3 marzo 2015. 50 Thomas Gregory, Dismembering the dead. Violence, vulnerability and the body in war, in «European Journal of International Relations», vol. 21, n. 4, dicembre 2015. 51 Denis Retaillé, Olivier Walther, Terrorisme au Sahel. De quoi parleton?, in «L’Information géographique», vol. 75, n. 3, 2011, p. 4. 52 Ibid. 53 Achille Mbembe, Necropolitics, in «Public Culture», vol. 15, n. 1, 2003, pp. 11-40. 54 Wendy Brown, Undoing the Demos. Neoliberalism’s Stealth Revolution, Zone Books, New York 2015. 55 Épilogue. Il n’y a qu’un seul monde, in Achille Mbembe, Critique de la raison nègre, La Découverte, Paris 2013 [trad. it., Critica della ragione negra, Ibis, Como 2018]. 56 Aimé Césaire, Discours sur le colonialisme, Présence africaine, Paris 1955 [trad. it., Discorso sul colonialismo, seguito dal discorso sulla negritudine, a cura di Miguel Mellino, Ombre corte, Verona 2014]; Frantz Fanon, Les Damnés de la terre, in Id., Œuvres, La Découverte, Paris 2011 [trad. it., I dannati della terra, Einaudi, Torino 2007]. 57 Frédéric Lordon, Imperium. Structures et affects des corps politiques, La Fabrique, Paris 2015, p. 16.

2. La società dell’inimicizia

Forse è sempre stato così1. Forse le democrazie sono sempre state comunità di simili e quindi – come si è affermato nel capitolo precedente – cerchie della separazione. Può darsi che ci siano sempre stati schiavi, un insieme di persone sempre percepite, in un modo o nell’altro, come appartenenti a un mondo straniero, a popolazioni in eccesso, indesiderabili, delle quali ci si sogna di sbarazzarsi e per questo totalmente o parzialmente prive di diritti2. È possibile. È anche possibile che della “democrazia universale dell’umanità” non esista “niente sulla terra”: che siccome la Terra è divisa in Stati, sia all’interno di questi che si tenta di realizzare la democrazia, ovvero, in ultima analisi, una politica di Stato che, distinguendo chiaramente i propri cittadini (quelli che appartengono alla cerchia dei simili) dalle altre persone, tenga nettamente distinti tutti i dissimili3. Per il momento basti ribadire questo: l’epoca che viviamo è decisamente improntata a separazione, movimenti d’odio, ostilità e, soprattutto, lotta contro il nemico, per cui le democrazie liberali, già molto scolorite dalle forze del capitale, della tecnologia e del militarismo, sono risucchiate in un ampio processo di inversione4. 1. L’oggetto che spaventa La parola “movimento” fa necessariamente pensare alla messa in moto di una pulsione se non pura, quanto meno caratterizzata da un’energia primaria. Tale energia viene arruolata, più o meno consciamente, quando si cerca di soddisfare un desiderio, preferibilmente un desiderio-padrone. Quest’ultimo, che è insieme un campo di immanenza e una forza fatta di molteplicità, si fissa su uno o

più oggetti. Ieri quegli oggetti avevano come nomi privilegiati quelli del Negro e dell’ebreo. Oggi Negri ed ebrei assumono altre denominazioni – per citarne qualcuna, l’islam, il musulmano, l’Arabo, lo straniero, l’immigrato, il rifugiato, l’intruso. Padrone o no, il desiderio è anche il movimento con il quale il soggetto, completamente avviluppato da una particolare fantasia (poco importa che sia di onnipotenza, di ablazione, di distruzione, di persecuzione), tenta ora di ripiegarsi su se stesso nella speranza di garantirsi la sicurezza davanti al pericolo esterno, ora di uscire da sé e affrontare i mulini a vento della sua immaginazione, che oramai lo assediano. Infatti eccolo strappato dalla sua struttura, lanciato alla conquista dell’oggetto che spaventa. Dato che in realtà quell’oggetto non è mai esistito, non esiste e non esisterà mai, egli continua a inventarlo. L’invenzione, però, non lo fa diventare più reale, se non nella modalità di un luogo vuoto ma stregato, un circolo allucinatorio, al tempo stesso incantato e malefico, che egli vive ormai come un sortilegio. Il desiderio di un nemico, il desiderio di apartheid (separazione e isolamento) e la fantasia di sterminio occupano oggi lo spazio di questo cerchio incantato. In molti casi, per esprimere tutto ciò basta un muro5. Esistono diversi tipi di muro e non tutti hanno le stesse funzioni6. Il muro di separazione, si suppone, risolverebbe l’eccesso di presenze che si crede sia la causa di situazioni insopportabili di sofferenza. Il recupero del senso dell’esistenza dipende allora dalla rottura con colui la cui assenza, e perfino la scomparsa pura e semplice, non sarà affatto vissuta secondo la modalità della perdita. Significa anche ammettere che tra lui e noi non c’è nulla in comune. Dunque l’angoscia di annientamento è al centro dei progetti contemporanei di separazione. L’erezione di muri di cemento, di steccati e di altre “barriere di sicurezza” è dovunque in pieno fiorire e accanto ai muri appaiono altri dispositivi di sicurezza: posti di blocco, palizzate, torri di avvistamento, trincee, tutti i tipi di demarcazioni che, in molti casi, hanno la funzione di intensificare l’isolamento senza riuscire a tenere a distanza una volta per tutte quelli che sono considerati portatori di minacce. È questo il caso, per esempio, degli agglomerati palestinesi letteralmente circondati da zone sotto il controllo israeliano7. Del resto, l’occupazione israeliana dei Territori palestinesi funge da

laboratorio per una serie di tecniche di controllo, sorveglianza e separazione che oggi vengono diffuse in molti altri luoghi del pianeta. Queste tecniche vanno dalle ripetute forme di accerchiamento alla limitazione del numero di accessi dei Palestinesi in Israele e nelle colonie; dall’imposizione reiterata del coprifuoco all’interno delle enclave palestinesi e dei controlli dei movimenti all’oggettiva incarcerazione di intere città8. Checkpoints permanenti o volanti, blocchi di cemento e cumuli di terra per interrompere le strade, controllo dello spazio aereo e marittimo, del flusso d’importazioni ed esportazioni di prodotti di ogni genere, frequenti incursioni militari, demolizioni di case, profanazione di cimiteri, sradicamento di uliveti, infrastrutture eliminate e ridotte in polvere, bombardamenti da alta e media quota, uccisioni mirate, tecniche antinsurrezionali, schedature fisiche e psicologiche, continue molestie, frammentazione territoriale, violenza cellulare e molecolare, disciplinamento generalizzato, tutto è fatto per imporre un regime di separazione, il cui funzionamento dipende, paradossalmente, dall’intimità della prossimità9. Misure del genere, da molti punti di vista, ricordano il modello obbrobrioso dell’apartheid, con i suoi Bantustans, vasti serbatoi di manodopera a basso costo, le sue zone bianche, le molteplici giurisdizioni e la sua violenza brutale e amorfa. La metafora dell’apartheid, tuttavia, non basta a definire il modello israeliano di separazione. Prima di tutto, questo progetto poggia su una base metafisica ed esistenziale assai peculiare. Le risorse apocalittiche e catastrofiste che la sottendono sono assai più complesse e radicate da più tempo rispetto a quelle rese possibili dal calvinismo sudafricano10. In secondo luogo, a causa del suo carattere tecnologicamente avanzato, il progetto israeliano ha sul corpo palestinese effetti molto più impressionanti rispetto alle operazioni relativamente primitive condotte dal regime dell’apartheid in Sudafrica tra il 1948 e i primi anni Ottanta. È questo il caso della miniaturizzazione della violenza, della sua riduzione in cellule e molecole, delle tecniche di annientamento sia materiale sia simbolico11. È il caso anche delle procedure e delle tecniche di demolizione quasi totale – infrastrutture, case, strade, paesaggi – e della dinamica delle distruzioni forsennate condotte allo scopo di

trasformare la vita dei Palestinesi in un ammasso di macerie e un cumulo di rifiuti destinati allo smaltimento12. In Sudafrica i cumuli di rovine non avevano mai raggiunto tali dimensioni. Se ogni forma di inclusione provocava necessariamente un contrasto, è anche vero che la separazione poteva solo essere parziale. Una separazione netta avrebbe messo a rischio la sopravvivenza stessa dell’oppressore. Non avendo sterminato fin dalle origini le popolazioni autoctone, era diventato impossibile per la minoranza bianca praticare in seguito una sistematica pulizia etnica e razziale sul modello delle altre colonie di popolamento. Le espulsioni in massa e le deportazioni non rappresentavano un’opzione percorribile. Essendo il groviglio dei diversi segmenti razziali diventato la regola, la dialettica della prossimità, della distanza e del controllo non avrebbe mai potuto raggiungere i livelli parossistici osservati nel caso della Palestina. Nei Territori occupati la prossimità è particolarmente visibile nel controllo che Israele continua a esercitare sulla gestione dell’anagrafe e nel monopolio dell’emissione delle carte d’identità palestinesi. Lo stesso vale per quasi tutti gli altri aspetti dell’esistenza quotidiana, dal rilascio dei diversi permessi al controllo fiscale. L’aspetto tipico di questo genere di separazione non è solo quello di adattarsi bene all’occupazione e, se occorre, all’abbandono13. Essa può anche trasformarsi in qualsiasi istante in uno strangolamento. L’occupazione, da ogni punto di vista, è un combattimento corpo a corpo dentro una galleria. Del desiderio di apartheid e della fantasia di sterminio in particolare è bene rilevare che non si tratta di novità e che hanno assunto forme sempre diverse e mutevoli nel corso della storia, soprattutto nelle antiche colonie di popolamento. Cinesi, Mongoli, Africani e Arabi, talora molto prima degli Europei, erano stati all’origine della conquista di immense entità territoriali e avevano costituito complesse reti commerciali a lunga distanza, al di là di oceani e di deserti. Ma fu l’Europa che forse per prima nella storia moderna diede il via a una nuova epoca di ripopolamento su scala planetaria14. Il ripopolamento del mondo tra il sedicesimo e il diciannovesimo secolo presenta una duplice caratteristica. È nello stesso tempo un processo di escrezione sociale (per gli emigranti che lasciano l’Europa andando a costituire colonie oltremare) e di

transizione e accelerazione storica. Per i popoli colonizzati il prezzo da pagare consiste in nuovi asservimenti. Nel corso di questo lungo periodo il ripopolamento del mondo assume spesso i tratti di innumerevoli atrocità e stragi, di esperienze mai viste di “pulizia etnica”, espulsioni, trasferimenti e deportazione di intere popolazioni in campi di concentramento e perfino di genocidi15. L’impresa coloniale, misto di sadismo e masochismo spesso applicato in modo casuale, a seconda di situazioni generalmente impreviste, tendeva a demolire tutte le forze che ostacolavano tali pulsioni oppure cercavano di frenarne la corsa verso piaceri perversi di ogni sorta. I limiti di quello che essa considerava “normale” venivano continuamente spostati, ed erano pochi i desideri fatti oggetto di una diretta rimozione, di imbarazzo o di disgusto. Il mondo coloniale era un mondo che aveva una tendenza allucinante ad adattarsi alla distruzione dei propri oggetti – compresi gli indigeni. Qualunque oggetto andasse perduto poteva essere facilmente sostituito da un altro: questo si credeva. Inoltre, all’inizio dell’impresa coloniale stava il principio di separazione. In larga misura la colonizzazione consisteva in un’opera costante di separazione – da una parte il mio corpo vivente e dell’altra tutti quei corpi-cose che gli stanno intorno; da una parte la mia carne d’uomo per la quale esistono per me tutte quelle altre carni-cose e carni da macello; da una parte me, struttura senza paragoni e punto zero di orientamento del mondo, e dall’altra gli altri, con i quali non posso mai fondermi completamente, che posso ricondurre a me, ma con i quali non potrò mai avere veramente rapporti di reciprocità e di mutuo coinvolgimento. Nel contesto coloniale il lavoro costante di separazione – e quindi di differenziazione – era in parte l’effetto dell’angoscia di annientamento provata dai coloni. In uno stato d’inferiorità numerica ma dotati di potenti mezzi di distruzione, essi vivevano nella paura di essere circondati, da tutte le parti, da oggetti cattivi che minacciavano la loro sopravvivenza e che potevano in ogni istante rubare la loro esistenza – gli indigeni, le bestie feroci, i rettili, i microbi, le zanzare, la natura, il clima, le malattie, perfino gli stregoni. Il sistema dell’apartheid in Sudafrica e, in modo parossistico e in un contesto diverso, la distruzione degli ebrei d’Europa hanno costituito

due manifestazioni emblematiche di questa fantasia di separazione. In particolare l’apartheid negava apertamente la possibilità di uno stesso corpo per più di uno: presupponeva l’esistenza di soggetti originari distinti, precostituiti, ciascuno fatto di una carne-di-razza, di un sanguedi-razza, capaci di evolversi al proprio ritmo preciso. Si pensava che bastasse assegnarli a spazi territoriali specifici per ricostituire in modo naturale la loro reciproca estraneità. Quei soggetti originari e distinti erano chiamati ad agire come se il loro passato non fosse mai stato un passato di “prostituzione”, di paradossali dipendenze e di intrighi di ogni sorta: la fantasia della purezza16. L’insuccesso dell’apartheid storico, che non riuscì a fissare una volta per tutte frontiere invalicabili tra una pluralità di carni, mostra a posteriori i limiti del progetto coloniale di separazione. Senza lo sterminio, l’Altro non è più esterno a noi. È in noi, nella duplice figura dell’altro Io e dell’Io altro, ciascuno mortalmente esposto all’altro e a se stesso. L’impresa coloniale traeva gran parte della propria sostanza e dell’eccesso di energia che la contraddistingueva dal suo legame con i flussi pulsionali di ogni genere, desideri più o meno confessati, la maggior parte dei quali si collocava al di qua dell’io conscio degli attori coinvolti. I coloni, per esercitare una presa durevole sugli autoctoni assoggettati, dai quali volevano differenziarsi a qualsiasi costo, dovevano assolutamente costituirli in oggetti psichici di ogni sorta. Infatti il gioco delle rappresentazioni in una situazione coloniale consisteva tutto nel crearsi una serie di immagini stereotipe degli indigeni. Queste immagini corrispondevano più o meno ai resti delle loro autentiche biografie, del loro status originario, quello di prima dell’incontro. Grazie al materiale immaginario così prodotto, sullo status originario di esseri umani autentici si innestava un secondo status del tutto artificiale, quello di oggetti psichici. Per gli indigeni il dilemma consisteva nel capire come, nella pratica quotidiana, distinguere tra l’oggetto psichico che ognuno era chiamato a interiorizzare e spesso obbligato ad accollarsi come proprio e l’essere umano a pieno titolo che era stato, quello che era nonostante tutto, ma che, nelle circostanze coloniali, era ormai costretto a dimenticare. Ne risulta che in quelle circostanze questi motivi psichici diventavano costitutivi dell’io coloniale. La loro posizione di esteriorità

rispetto all’io coloniale diventava molto relativa. L’investimento in tali oggetti sosteneva la continuità del funzionamento psicologico dell’ordine coloniale. Senza quegli oggetti e quei motivi, la vita affettiva, emotiva e psichica nella colonia perdeva il suo tenore e la sua coerenza. Essa gravitava intorno a quei motivi, dipendeva, per la propria vitalità, dal contatto costante con quegli oggetti e si dimostrava particolarmente vulnerabile in caso di separazione da loro. In situazioni coloniali o paracoloniali, l’oggetto cattivo – quello sopravvissuto a un’iniziale distruzione – non è mai pensabile come del tutto esterno da me. Finisce subito sdoppiato: insieme oggetto e soggetto. Poiché è portato da me e nello stesso tempo mi porta, non posso disfarmene semplicemente con la persecuzione e l’accanimento. In fondo, posso sì distruggere tutto quello che aborro, ma questo non mi svincola dal legame che avevo con il terzo distrutto, o con il terzo da cui mi sono separato. È così perché l’oggetto cattivo ed io non siamo mai del tutto separati. Nello stesso tempo, non siamo mai completamente insieme. 2. Il nemico, quest’Altro che sono io Insopprimibili, il desiderio di avere un nemico, il desiderio di apartheid e la fantasia di sterminio formano la linea del fuoco, la prova decisiva dell’inizio di questo secolo. Vettori principali della decerebrazione contemporanea, costringono i regimi democratici, in ogni luogo, ad avere l’alito pesante e a vivere, in un astioso delirio, esistenze da ubriachi. Sono strutture psicologiche diffuse e allo stesso tempo forze generiche e animate da passioni, che segnano con la loro impronta il tono dominante dei sentimenti del nostro tempo e inaspriscono molte lotte e mobilitazioni contemporanee. Lotte e mobilitazioni che si nutrono di una visione minacciosa e ansiogena del mondo, che assegna la priorità alle logiche del sospetto, a tutto ciò che è segreto e che rientra nell’ambito del complotto e dell’occulto17. Spinte fino alle estreme conseguenze, esse sfociano quasi inesorabilmente nel desiderio di distruggere – il sangue versato, il sangue fatto legge, in un’esplicita continuità con la lex talionis (la legge del taglione) dell’Antico Testamento. In questo periodo depressivo della vita psicologica delle nazioni il

bisogno di un nemico, ovvero la pulsione a trovarsi un nemico, non è più soltanto un bisogno sociale. È l’equivalente di un bisogno quasi anale di ontologia. Nel contesto di rivalità mimetica esacerbata dalla “guerra contro il terrore”, disporre del proprio nemico – preferibilmente in modo spettacolarizzato – è diventato il passaggio obbligato nella costituzione del soggetto e per l’accesso all’ordine simbolico del nostro tempo. Del resto il tutto avviene come se la negazione di un nemico fosse vissuta in sé come una profonda ferita narcisistica. Essere privato del nemico – o non aver subito attentati o altre azioni sanguinose fomentate da chi odia noi e il nostro stile di vita – equivale a essere privati di quel genere di relazione di odio che autorizza la possibilità di esprimere tutti quei desideri che sarebbero altrimenti interdetti. Significa essere privati del demone senza il quale non tutto è permesso, proprio quando l’epoca sembra chiamare con urgenza alla licenza assoluta, allo sfogo e alla disinibizione generalizzati. Significa anche vivere la frustrazione rispetto alla compulsione di farsi paura, alla propria facoltà di demonizzare, al tipo di piacere e di soddisfazione che si vivono quando il presunto nemico viene eliminato da forze speciali o quando, catturato vivo, viene sottoposto a interminabili interrogatori e torture in qualcuno dei luoghi di segregazione che contaminano il nostro pianeta18. Siamo dunque in un’epoca eminentemente politica, perché l’elemento essenziale del politico, almeno se dobbiamo dare retta a Carl Schmitt, sarebbe la discriminazione tra l’amico e il nemico19. Nel mondo di Schmitt, diventato il nostro, il concetto di nemico dovrebbe essere inteso nella sua accezione concreta ed esistenziale e non come una metafora o un’astrazione vuota e priva di vita. Il nemico di cui parla Schmitt non è né un semplice concorrente o un avversario, né un rivale privato che si possa odiare o per il quale si provi antipatia. Rimanda a un antagonismo estremo. È, nel corpo e nella carne, colui del quale è possibile provocare la morte fisica perché nega, in modo esistenziale, il nostro essere. Discriminare l’amico dal nemico, certo, ma è anche necessario che il nemico sia identificato con sicurezza. Questa sconcertante figura dell’ubiquità è ora tanto più pericolosa in quanto si trova dappertutto: senza volto, senza nome e senza luogo. O se un volto ce l’ha, può essere solo un volto velato, un simulacro di volto. E se possiede un nome, non

può che essere uno pseudonimo – un nome falso la cui funzione principale è la dissimulazione. Mentre procede ora mascherato ora no, è in mezzo a noi, intorno a noi, perfino in noi, capace di spuntare in pieno giorno come a notte fonda, e ad ogni apparizione minaccia di annichilire il nostro stesso modo di esistere. Con Schmitt ieri come con noi oggi, il politico deve pertanto la sua carica vulcanica a questo fatto: poiché è strettamente legato a una volontà esistenziale di proiezione di potenza, si apre necessariamente e per definizione a quella possibilità estrema che consiste nel dispiegamento infinito di mezzi puri e senza fine: l’attuazione dell’omicidio. Sotteso dalla legge della spada, è l’antagonismo «in nome del quale si potrebbe chiedere a esseri umani di sacrificare la propria vita» (la morte per gli altri); quello nel cui nome lo Stato potrebbe «dare a qualcuno il potere di versare sangue e uccidere altri uomini» (dare la morte) a causa della loro reale o presunta appartenenza al campo nemico20. Da questo punto di vista il politico è una forma particolare di unione in vista di una battaglia tanto decisiva quanto profondamente oscura. Ma non è solo un affare di Stato e di morte data per delega, poiché sono parimenti in gioco non solo la possibilità del sacrificio di sé e del dono di sé, ma anche, e letteralmente, quella del suicidio. In fin dei conti, infatti, il suicidio interrompe brutalmente ogni dinamica di sudditanza e ogni possibilità di riconoscimento. Prendere volontariamente congedo dalla propria esistenza dandosi la morte non significa per forza sparire da sé. Significa mettere volontariamente fine al rischio di essere toccato dall’Altro e dal mondo, procedere a quella sorta di disinvestimento che costringe il nemico a guardare in faccia il proprio vuoto. Il suicida non desidera più comunicare, né con la parola né con un gesto violento, tranne forse nel momento in cui, mettendo fine alla propria vita, mette un termine anche a quella dei propri obiettivi. L’uccisore si uccide e uccide uccidendosi, o dopo avere ucciso. In ogni caso non cerca più di far parte del mondo così com’è. Si sbarazza di se stesso e nel contempo di qualche nemico. Così facendo, va in vacanza da quello che fu e si scarica dalle responsabilità che aveva da vivo21. Il suicida che uccide i propri nemici nell’atto con cui si uccide mostra fino a che punto, trattandosi del politico, la vera frattura oggi sia quella che contrappone quelli che restano aggrappati al loro corpo e che

identificano il corpo e la vita, a coloro per i quali il corpo, apre la via a un’esistenza felice solo se è purificato. Il destinato al martirio s’impegna nella ricerca di una vita gioiosa che egli crede risieda in Dio stesso. Tale vita nasce da una volontà di verità che è assimilata alla volontà di purezza. E non esiste un’autentica relazione con Dio se non attraverso la conversione, quell’atto grazie al quale si diventa diversi da se stessi e si fugge così dalla vita fittizia, vale a dire impura. Accettare il martirio significa fare voto di distruzione della vita corporale, la vita impura. Del corpo dello zelante fedele, infatti, spesso restano solo detriti in mezzo ad altri oggetti, tracce più o meno ricche (sangue) tra molte altre, impronte, insomma frammenti di un enigma (proiettili, armi, telefoni), a volte graffi e segni. Oggi, però, di rado esiste un suicida senza le sue apparecchiature, all’incrocio tra balistica ed elettronica – chip da dissaldare, componenti di memoria da interrogare. In senso stretto, mettere termine alla propria vita o abolire se stessi vuol dire attuare la dissoluzione di quell’entità in apparenza semplice che è il corpo. È spiegabile come l’odio per il nemico, la necessità di neutralizzarlo, così come il desiderio di evitare il rischio e il contagio di cui sarebbe portatore, costituiscano le ultime parole del politico nello spirito contemporaneo. Per un verso le società contemporanee, a forza di convincersi di essere di fronte a una minaccia costante, sono state più o meno costrette a vivere il proprio quotidiano nella forma di “piccoli traumi” a ripetizione – un attentato qui, un sequestro di ostaggi lì, più in là una sparatoria, e lo stato d’allarme permanente. L’impiego di nuovi strumenti tecnologici permette l’accesso alla vita privata degli individui. Tecniche insidiose di sorveglianza di massa, segrete e talora illecite, hanno come obiettivo i pensieri dei singoli, le loro opinioni, i loro spostamenti, perfino la loro intimità. Sull’onda della riproduzione amplificata del senso di timore, le democrazie liberali hanno fabbricato in continuazione spaventapasseri destinati a far loro paura – oggi la ragazza velata, domani l’aspirante terrorista rientrato dai campi di battaglia del Medio Oriente, e in generale lupi solitari o cellule dormienti insinuati negli interstizi della società che spiano, in attesa del momento propizio per entrare in azione. Che dire del “musulmano”, dello straniero o dell’immigrato, sui quali si sono continuamente intessute immagini che, al di là di ogni

procedimento ragionevole, si rimandano una all’altra per associazione? Poco importa se non esiste nessuna concordanza tra queste e la realtà: le fantasie primarie non conoscono dubbi né incertezze. Dice Freud: «La massa può venir eccitata solo da stimoli eccessivi. Chi desidera influenzarla non ha bisogno di rendere logiche le proprie argomentazioni, deve dipingere a fosche tinte, esagerare e ripetere sempre la stessa cosa»22. Quest’epoca vede il trionfo di una moralità di massa23. I regimi psichici contemporanei hanno portato al massimo livello di esasperazione l’esaltazione dei sentimenti e, paradossalmente, proprio in quest’epoca tecnotronica e digitale la voglia di mitologia e perfino la sete di mistero. L’espansione accelerata della ragione algoritmica (che com’è noto serve da sostegno decisivo alla finanziarizzazione dell’economia) procede di pari passo con la crescita di ragionamenti di tipo mitologicoreligioso24. Lo zelo della fede non è più considerato antitetico al sapere razionale, anzi, uno serve da supporto all’altro ed entrambi sono messi al servizio di esperienze viscerali, uno dei cui vertici è rappresentato dalla “comunione dei martiri”. Convinzioni e certezze intime, acquisite al termine di un lungo cammino “spirituale” scandito dalla rivolta e dalla conversione, non derivano da fragili fanatismi, da una barbara follia o dal delirio, ma “dall’esperienza interiore” che può essere condivisa solo da coloro che, confessando la stessa fede, obbediscono alla stessa legge, alle stesse autorità e agli stessi comandamenti. In larga misura appartengono alla stessa comunità, che è fatta di comunicandi, di “dannati della fede”, condannati a testimoniare con le parole e con gli atti, fino all’estremo se occorre, il carattere oltranzista della volontà divina stessa. Nella logica mitologico-religiosa tipica del nostro tempo, il divino (proprio come il mercato, il capitale o il politico) è quasi sempre percepito come una forza immanente e immediata, vitale, viscerale ed energetica. Si suppone che i cammini della fede conducano a stati o ad atti considerati scandalosi dal punto di vista della semplice ragione umana, oppure a rischi, a rotture apparentemente assurde, e perfino a sanguinosi irrigidimenti – il terrore e la catastrofe in nome di Dio. Uno degli effetti della fede e dello zelo è di suscitare un grande entusiasmo, che apre la porta alla grande decisione. Sono tanti, infatti, coloro che vivono ormai solo nell’attesa di questo

evento. Il martirio è uno dei mezzi utilizzati dai dannati della fede per mettere fine a tale attesa. Sono uomini di fede e uomini entusiasti quelli che oggi cercano di fare la storia mediante la grande decisione, cioè compiendo atti vertiginosi di natura immediata e sacrificale. Attraverso simili atti il dannato della fede affronta a occhi aperti la spesa e la perdita. Cerca, animato dalla volontà di totalità, di diventare un soggetto speciale immergendosi nelle fonti divisive, perfino demoniache, del sacro. Abbracciare la perdita consentita, quella che distrugge sia il linguaggio sia il soggetto del discorso, permette di inserire il divino nella carne di un mondo diventato dono e grazia. Allora non si tratta più di supplizio, ma di annullamento, di traversata che parte da se stessi e conduce a Dio. Il fine ultimo di questi atti sacrificali è di governare la vita non dall’esterno, ma dall’interno; di produrre una nuova morale e, alla svolta di una battaglia decisiva, se necessario cruenta e in ogni caso definitiva, di fare un giorno l’esperienza dell’esaltazione e dell’affermazione estatica e suprema. 3. I dannati della fede Il modo di ragionare mitologico-religioso non è esclusivo appannaggio dei gruppi di terroristi. Le democrazie liberali, nello sforzo di annientare le formazioni terroristiche trasformandosi in Stati sicuri, non esitano più a ricorrere a grandi quadri mitologici. Oggi non ne esiste nessuna che non faccia appello all’entusiasmo guerresco, spesso allo scopo di rattoppare la vecchia stoffa nazionalista. Ogni attentato che abbia provocato qualche morto suscita automaticamente un lutto a comando. Alla nazione viene ingiunto di versare in pubblico lacrime rancorose e di opporsi al nemico. Dal lutto alla lotta, ogni volta la strada è tracciata. Il militarismo, rivestito con gli orpelli del diritto internazionale, dei diritti umani, della democrazia o, semplicemente, della “civiltà”, non ha più bisogno di mettersi in maschera25. Per riportare in vita l’odio, i complici di ieri sono improvvisamente trasformati in “nemici di tutta l’umanità” e la violenza bruta diventa diritto. Infatti le democrazie liberali, proprio come un tempo avevano bisogno della divisione dell’umanità tra padroni e schiavi, oggi

dipendono per la loro sopravvivenza dalla separazione tra la cerchia dei simili e quella dei dissimili o anche tra gli amici e “alleati” della civiltà e i suoi nemici. Per le democrazie è difficile restare in piedi senza dei nemici. Poco importa se questi nemici esistano davvero o no: basta crearli, trovarli, smascherarli e metterli in evidenza. Questo lavoro è diventato sempre più faticoso da quando ci si è convinti che i nemici più feroci e più spavaldi si siano infiltrati nelle pieghe più intime della nazione e formino a questo punto una cisti che distrugge dall’interno le sue più feconde promesse. Com’è allora possibile separare la nazione da ciò che la erode senza attaccarne il corpo stesso, ovvero senza arrivare alla guerra civile? Indagini, perquisizioni, controlli vari, arresti domiciliari, disposizioni di tipo emergenziale inserite nella legislazione, proliferare di deroghe alla legge, ampi poteri conferiti alla polizia e all’intelligence e, se occorre, decadenza dalla nazionalità: tutto viene attuato per rispondere, con colpi ancora più duri di quelli che ci vengono assestati, non necessariamente a chi ci fa del male, ma a caso a chi gli assomiglia. In questo modo che cosa si fa, se non ripetere e perpetuare quello cui si afferma di opporsi? Auspicando la morte di tutto quello che non è incondizionatamente per noi, non operiamo per riprodurre continuamente la tragedia dell’uomo in preda all’odio e incapace di liberarsene? Proprio come ieri, la guerra contro i nemici esistenziali è nuovamente intesa in termini metafisici. Grande prova che coinvolge l’insieme dell’essere, la sua verità. I nemici con i quali non è possibile né auspicabile nessuna intesa appaiono in genere con i tratti delle caricature, dei cliché, degli stereotipi. Caricature, cliché, stereotipi che attribuiscono loro una presenza figurale, tale che, di converso, serve solo a confermare il tipo di minaccia (ontologica) che fanno pesare su di noi. Figura spettrale e presenza figurale, quindi, in quest’epoca di rinnovato entusiasmo per il suolo e il sangue nonché di crescente astrazione, mentre gli elementi culturali e quelli biologici dell’inimicizia si riannodano e finiscono per formare uno stesso e unico fascio. Con l’immaginazione sferzata dall’odio, le democrazie liberali continuano ad alimentare ossessioni di ogni genere riguardo all’autentica identità del nemico. Ma chi è veramente il nemico? È una nazione, una religione, una civiltà, una cultura o un’idea?

4. Stato d’insicurezza Messi insieme, i movimenti dell’odio, le formazioni impiegate nell’economia dell’ostilità, dell’inimicizia e delle multiformi lotte contro il nemico hanno contribuito, alla fine del ventesimo secolo, a una significativa crescita delle forme e dei livelli accettabili di violenza che si possono (o si dovrebbero) infliggere ai deboli, ai nemici, agli intrusi (tutti quelli e tutte quelle che non sono stati considerati appartenenti ai nostri), a una intensificazione dei rapporti di strumentalizzazione nella società; a profonde mutazioni nei regimi contemporanei del desiderio e dei sentimenti collettivi. Per giunta, hanno favorito l’emergere e il consolidarsi di una forma-Stato che è stata definita Stato di sicurezza e di sorveglianza. Lo Stato di sicurezza si alimenta di uno stato d’insicurezza che contribuisce a fomentare mentre pretende di esserne la risposta. Se lo Stato di sicurezza è una struttura, lo stato d’insicurezza è una passione o anche un sentimento, una condizione, perfino una forza di desiderio. In altre parole lo stato d’insicurezza è ciò che fa funzionare lo Stato di sicurezza in quanto quest’ultimo, in fondo, è una struttura che ha il compito di investire, organizzare e sviare le pulsioni costitutive dell’esistenza umana contemporanea. La guerra incaricata di vincere la paura non è né locale né nazionale né regionale. Ha una superficie planetaria e il suo campo d’azione privilegiato è la vita quotidiana. Poiché lo Stato di sicurezza presuppone che sia impossibile una “cessazione delle ostilità” tra chi minaccia il nostro modo di vivere e noi – e quindi postula l’esistenza di un nemico irriducibile in continua trasformazione –, questa guerra è ormai permanente. La risposta alle minacce interne – o venute dall’esterno e con collegamenti interni – richiede ormai la messa in moto di un insieme di attività extramilitari e di enormi risorse psichiche. Infine, lo Stato di sicurezza, apertamente animato da una mitologia della libertà che si collega in fondo a una metafisica della forza, si preoccupa meno di distribuire posti e prebende e più del progetto di disporre della vita degli esseri umani, siano essi suoi sudditi o coloro che ha designato come suoi nemici. Questa liberazione dell’energia psicogena si manifesta mediante un

surplus di attaccamento a quella che un tempo si chiamava illusione. Nel suo significato classico l’illusione era contrapposta alla realtà. Scambiando gli effetti per le cause, l’illusione sanciva il trionfo delle immagini e del mondo delle apparenze, dei riflessi e del simulacro. Era parte del mondo della fantasia, in opposizione al mondo reale sorto dall’intimo tessuto delle cose e della vita. La domanda di un surplus immaginario necessario alla vita quotidiana non si è solo intensificata: è diventata incontenibile. Il surplus immaginario non è percepito come un complemento a un’esistenza che sarebbe più “reale” perché presumibilmente più adeguata all’essere e alla sua essenza. Esso è vissuto da molti come il motore del reale, la condizione stessa della sua pienezza e del suo fulgore. Fatta propria in passato dalle religioni della salvazione, la produzione di questo surplus è oggi delegata sempre di più al capitale e a ogni genere di oggetti e di tecnologie. Tanto il mondo degli oggetti e delle macchine quanto lo stesso capitale si presentano sotto forma di una religione animista. Non c’è più nulla, nemmeno lo statuto della verità, che non sia rimesso in discussione. Certezze e convinzioni sono ritenute la verità. Non c’è nessun bisogno di ragionare. Basta credere e lasciarsi andare. Improvvisamente la pubblica decisione (uno dei tratti essenziali della democrazia) non consiste più nella discussione e nella ricerca comune, davanti agli occhi di tutti i cittadini, della verità e, in definitiva, della giustizia. A questo punto, poiché la grande contrapposizione non è più quella tra il vero e il falso, la cosa peggiore è il dubbio. Nella lotta concreta che oppone noi ai nostri nemici, infatti, il dubbio blocca la completa liberazione delle energie volontaristiche, emotive e vitali necessarie per ricorrere alla violenza e, se necessario, per far scorrere il sangue. Anche le riserve di credulità sono aumentate. Paradossalmente tale aumento è andato di pari passo con l’accelerazione esponenziale degli sviluppi tecnologici e delle innovazioni industriali, la digitalizzazione ininterrotta dei fatti e delle cose e la relativa generalizzazione di ciò che andrebbe definito la vita elettronica e il suo doppio, la vita roboticamente adattata26. In effetti, sta cominciando una fase senza precedenti nella storia dell’umanità, nella quale sarà sempre più difficile, se non impossibile, dissociare gli organismi umani e i flussi elettronici, la vita

degli umani e quella degli elaboratori. Questa fase è resa possibile grazie al know-how accumulato in materia di memorizzazione di una massa gigantesca di flussi, all’estrema potenza e velocità del loro trattamento, ai progressi realizzati nella composizione algoritmica. Il punto di approdo di tale svolta digitale-cognitiva dovrebbe essere l’inserimento generalizzato di chip all’interno dei tessuti biologici. L’accoppiamento uomo-macchina, già in corso, non ha solo prodotto nuove mitologie dell’oggetto tecnico, ma come conseguenza immediata ha rimesso in discussione lo statuto del soggetto moderno uscito dalla tradizione umanista. L’altro fattore decisivo nel processo di liberazione dell’energia psicogena è la sospensione delle inibizioni delle pulsioni (il ritorno della parte esclusa, le strutture di accoglienza del rimosso) e la moltiplicazione dei guadagni di piacere derivanti da tale sospensione e dal fatto che la coscienza morale viene congedata, se non messa semplicemente fuori uso. Che tipo di guadagni di piacere ha la possibilità di ottenere oggi chi sospende o sopprime le proprie inibizioni pulsionali o mette fuori uso la propria coscienza morale? Che cosa spiega l’attrazione attuale delle moltitudini per l’idea della potenza assoluta e irresponsabile? E la disposizione agli atti più estremi, la ricettività agli argomenti più semplici e più approssimativi? E la prontezza ad allinearsi agli altri o, per le potenze mondiali, a farsi spingere a compiere qualsiasi misfatto dalla semplice consapevolezza della propria forza? Per rispondere a queste domande è necessario dire una parola riguardo ai meccanismi fondamentali della vita affettiva nelle condizioni attuali27. L’interconnessione quasi integrale, attraverso le nuove tecnologie, non ha solo indotto nuove procedure di formazione delle masse. Di questi tempi fare massa non è molto diverso da fare orda. In realtà questa non è più l’epoca delle masse. È quella delle orde virtuali. Dove comunque sopravvive, la massa è «eccitata solo da stimoli eccessivi»28. «[La massa] rispetta la forza», dice Freud, «e soggiace solo moderatamente all’influsso della bontà, che ai suoi occhi rappresenta solo una sorta di debolezza. Ciò che essa richiede ai propri eroi è la forza o addirittura la brutalità. Vuole essere dominata e oppressa, vuole temere il proprio padrone»29. Quasi dappertutto, dunque, il campo tradizionale degli antagonismi

si è scompaginato. All’interno delle frontiere nazionali si è assistito allo sviluppo di nuove forme di aggregazione e di lotta, organizzate, più che sulla base di appartenenze di classe, in funzione di legami di parentela e quindi di sangue. Alla vecchia distinzione amico-nemico se ne sovrappone ora un’altra, tra parenti e non parenti, cioè tra quelli e quelle che sono legati dallo stesso sangue o dalla stessa “stirpe” e coloro che si ritiene discendano da un altro sangue, da un’altra cultura e da un’altra religione. Venuti da altrove, in fondo costoro non andrebbero considerati nostri concittadini; con loro non avremmo quasi niente in comune. Vivendo in mezzo a noi, ma non essendo veramente dei nostri, dovrebbero invece essere respinti, rimessi al loro posto o semplicemente ricondotti fuori delle nostre frontiere, nel quadro del nuovo stato di sicurezza che a questo punto segna le nostre esistenze. La pacificazione interna, la “guerra civile muta” o molecolare, le incarcerazioni di massa, il disaccoppiamento di nazionalità e cittadinanza, le esecuzioni extragiudiziali nel contesto della politica penale e criminale contribuiscono a offuscare la vecchia distinzione tra sicurezza interna e sicurezza esterna, sulla base dell’esacerbazione dei sentimenti razzisti. 5. Nanorazzismo e narcoterapia Si potrebbe dire che a prima vista la causa si è capita. La nostra epoca sembra avere scoperto finalmente la sua verità. Le mancava solo il coraggio di proclamarla30. Riconciliatasi con il suo vero volto, può finalmente permettersi di vagare nuda, libera da ogni inibizione, sbarazzatasi di tutte le vecchie maschere e di tutti i camuffamenti obbligati che le servivano da perizoma. Alla grande rimozione (supponendo che ci sia mai stata veramente) succede allora il grande sfogo – ma a che prezzo, per chi e fino a quando? In effetti, negli acquitrini salmastri di questo inizio secolo non c’è, in senso stretto, più niente da nascondere. Toccato il fondo, spezzati tutti i tabù sullo sfondo di un tentativo di mettere a morte il segreto e il proibito in quanto tali, tutto è ormai restituito alla sua trasparenza e quindi chiamato al suo esito estremo. La vasca è quasi piena e il

crepuscolo non potrà tardare. Che questo epilogo avvenga o no sotto un diluvio di fuoco, lo sapremo alla fine. Intanto la marea continua a crescere. Il razzismo – in Europa, in Sudafrica e in Brasile, negli Stati Uniti, nei Caraibi e nel resto del mondo – resterà nostro appannaggio per il prossimo futuro31. Non sarà così solo nella cultura di massa ma anche – e sarà bene non dimenticarlo – all’interno della buona società. Non sarà così soltanto nelle antiche colonie di popolamento, ma anche nelle altre zone del pianeta che gli ebrei hanno abbandonato da tempo e che il Negro e l’Arabo non hanno mai raggiunto. Del resto, a questo punto bisognerà accettarlo: ieri ci si svagava con giochi, circhi, intrighi, cabale e pettegolezzi. Su questa monotona lastra di ghiaccio che tende a diventare l’Europa, ma anche in altri luoghi, ci si divertirà con il nanorazzismo, questa forma di narcoterapia, civetta rattoppata dal forte becco arcuato e appuntito – la perfetta naftalina per i periodi di intorpidimento e di floscia paralisi, quando, persa completamente l’elasticità, tutto appare improvvisamente contratto. Contrattura e tetano – è di questo che effettivamente si parla, con tutti i crampi, gli spasmi, i contorcimenti dello spirito che si portano dietro –: il nanorazzismo è passato di qui. Ma che cosa si deve intendere per nanorazzismo, se non quella forma narcotica del pregiudizio di colore che si esprime nei gesti in apparenza neutri di ogni giorno, nello spazio di un nulla, di una frase in apparenza inconsapevole, di una battuta, di un’allusione o di un’insinuazione, di un lapsus, di una barzelletta, di un sottinteso e, bisogna pur dirlo, di una cattiveria voluta, di un intento malevolo, di uno sgambetto o di un placcaggio intenzionali, di un’oscura voglia di stigmatizzare e soprattutto di fare violenza, ferire e umiliare, di infangare chi non si considera dei nostri? Evidentemente, nell’epoca del nanorazzismo sfrenato, quando si pensa solo ai nostri, nessuno vuole più sentir parlare dell’altro, che sia con la “a” maiuscola o minuscola poco importa. Che se ne stiano a casa loro, si sente dire. O se si ostinano a vivere accanto a noi, dovranno farlo a culo nudo, con le braghe abbassate, allo scoperto. L’era del nanorazzismo, infatti, è quella del razzismo lercio, quello della fuliggine, il razzismo dello spettacolo dei porci che sguazzano nella mota.

La sua funzione è di trasformarci in sgherri dalla scorza dura e di mettere quelli e quelle che consideriamo indesiderabili in condizioni intollerabili, nell’accerchiarli nel quotidiano e infliggere loro a ripetizione un numero incalcolabile di colpi e di ferite razziste, spogliarli di ogni diritto acquisito, affumicare l’alveare e disonorarli fino a non lasciare loro altra scelta che non sia l’autodeportazione. E visto che parliamo di ferite razziste, bisogna anche sapere che si tratta in genere di tagli e lesioni avvertiti da un soggetto umano che ha subito uno o più colpi di un particolare genere – colpi dolorosi e difficili da dimenticare, perché restano sul corpo e sulla sua materialità ma anche sulla parte intangibile (dignità, stima di sé). I segni che lasciano sono il più delle volte invisibili e le cicatrici si chiudono con difficoltà. E visto che parliamo di lesioni e di tagli, bisogna anche sapere che su quella lastra di ghiaccio che tende a diventare l’Europa, in America, in Sudafrica e in Brasile, nei Caraibi e in altri luoghi si contano a centinaia di migliaia gli uomini e le donne che subiscono ogni giorno ferite razziste, che corrono continuamente il rischio di essere toccati sul vivo da qualcuno, un’istituzione, una voce, un’autorità pubblica o privata che chiede loro di spiegare chi sono, perché sono lì, da dove vengono, dove vanno, perché non ritornano a casa loro; una voce o un’autorità che cerca deliberatamente di causare loro un trauma grande o piccolo, di provocarli, di offenderli, di ingiuriarli, di farli uscire dai gangheri, proprio per trovare un pretesto necessario per far loro del male e, senza tante cerimonie, colpirli in quello che hanno di più privato, di più intimo e più vulnerabile. Dato che si tratta di violenza ripetuta, occorre anche aggiungere che il nanorazzismo non è appannaggio dei proletari bianchi, quei subalterni rosi dal risentimento e dal rancore, che odiano profondamente la propria condizione ma non arriverebbero mai a suicidarsi, e il cui incubo peggiore è di risvegliarsi un giorno nei panni del Negro o con la pelle scura dell’Arabo, e non laggiù, lontano, nelle colonie, come un tempo, ma – e questo sarebbe il colmo – proprio qui, a casa loro, nel proprio paese. Il nanorazzismo è diventato il complemento obbligato del razzismo idraulico, quello dei micro e macrodispositivi giuridico-burocratici e istituzionali, della macchina dello Stato che rimescola a tutto spiano

clandestini e illegali, che continua a smaltire la marmaglia ai margini delle città, come cumuli di roba sparsa, che moltiplica a palate i sans papiers, che pratica nello stesso tempo l’allontanamento dal territorio e le scariche elettriche alle frontiere, quando non si accontenta semplicemente dei naufragi in alto mare, che in ogni istante controlla le facce sugli autobus, nei terminal, sulla metropolitana, per la strada, che toglie il velo alle musulmane e ne scheda i familiari, che moltiplica i centri d’identificazione e di detenzione e i campi di transito, che investe senza badare a spese nelle tecniche di deportazione, che discrimina e pratica in piena luce la segregazione, giurando nello stesso tempo sulla neutralità e sull’imparzialità dello Stato laico repubblicano indifferente alla differenza, che invoca a torto o a ragione quella cosa in via di putrefazione a cielo aperto che non glielo fa più diventare duro, ma che si continua a chiamare, a dispetto del buonsenso, “i diritti dell’uomo e del cittadino”. Il nanorazzismo è il razzismo fatto cultura e respiro, nella sua banalità e nella sua capacità d’infiltrarsi nei pori e nelle vene della società, nell’ora del lavaggio generalizzato del cervello, della decerebrazione meccanica e dell’ammaliamento di massa. La paura più grande, viscerale, è la paura dei saturnali, quando i djinn, i folletti maligni di oggi, che possono confondersi con quelli di ieri, quello sterco, quei satiri, ovvero i Negri, gli Arabi, i musulmani – e, dato che non sono mai distanti, gli ebrei – avranno preso il posto dei padroni e trasformeranno la nazione in un immenso immondezzaio, l’immondezzaio di Maometto. Ma tra la fobia dell’immondezzaio e il campo la distanza è sempre stata brevissima. Campi di rifugiati, campi profughi, accampamenti di migranti, campi per stranieri, aree di sosta per persone in attesa, zone di transito, centri di identificazione e di detenzione, centri di accoglienza per richiedenti asilo, centri di accoglienza provvisoria, villaggi per profughi, villaggi di inserimento migranti, ghetti, giungle, alloggi, case per migranti: l’elenco si allunga senza sosta, osserva Michel Agier in uno studio recente32. Questo elenco interminabile rimanda a una realtà sempre presente anche se in gran parte invisibile, per non dire familiare e perfino scontata. Il campo, dovremmo ammetterlo, non è diventato solo un elemento strutturante della condizione planetaria. Non scandalizza più. Meglio: l’accampamento non è più solo il nostro presente, è il

nostro futuro, la nostra soluzione per «tenere a distanza tutto quello che dà fastidio, per contenere o respingere ciò che, umano, materia organica o rifiuto industriale, è di troppo»33, in poche parole, è una delle forme di governo del mondo. Per il resto, non riuscendo a guardare direttamente negli occhi qualcosa che non è più l’eccezione ma la regola (il fatto che le democrazie liberali sono anch’esse capaci di convivere con il crimine), ci troviamo sommersi da un traffico infinito di parole e di gesti, di simboli e linguaggi, a forza di scalciate e sgroppate una più brutale dell’altra, e anche a forza di mimetismi, il laicismo e la sua immagine speculare, il fondamentalismo. Il tutto al’interno di un perfetto cinismo, perché visto che tutti i nomi hanno perso il proprio cognome, non c’è più un nome per chiamare lo scandalo, una lingua per definire l’immondo, perché ormai quasi più niente resta dritto, tranne il moccio che cola dalle narici, vischioso e purulento, nel momento in cui non c’è più bisogno di starnutire, e eccetto l’appello al buonsenso, alla buona vecchia repubblica e alla sua vecchia schiena curva e cadente, l’appello al buon vecchio pavido umanesimo, l’appello a un certo femminismo avariato ai cui occhi uguaglianza fa ormai rima con il «dovere di far portare il tanga alla giovane musulmana velata, mentre il barbuto viene fatto depilare»34. Come nell’epoca coloniale, l’interpretazione che svalorizza il modo in cui il Negro e l’Arabo musulmano trattano “le loro donne” è in parte una miscela di voyeurismo e di desiderio, il desiderio di harem. La manipolazione delle questioni di genere a fini razzisti, attraverso una messa in evidenza del dominio maschile presso l’Altro, ha quasi sempre lo scopo di occultare la fallocrazia a casa propria. Il sovrainvestimento della virilità come risorsa simbolica e politica non è un’esclusiva dei “nuovi barbari”. È la linea maestra di ogni forma di potere, quella che gli conferisce la sua rapidità, anche nelle nostre democrazie. Il potere, dovunque, è sempre in qualche modo una modalità di confronto con la statua, mentre allo stesso tempo l’investimento nella femminilità e nella maternità colloca il godimento sessuale nella scia di una politica del rapimento, secolare o laica che sia. Del resto, per essere presi più o meno sul serio, a un certo momento bisogna proprio dimostrare di “avercelo”. Il fatto è che in questa cultura edonista si continua ad attribuire al padre il ruolo di primo piantatore. In questa cultura ossessionata della figura

del padre incestuoso preso dal desiderio di consumare con la sua vergine o con il suo ragazzino, è ormai scontato annettere la donna al proprio corpo allo scopo di servirsene come complemento alla statua guasta dell’uomo. Bisogna allora dimenticare tutto questo, tutte queste mitologie rifritte e a corto di muscoli, passare in fretta ad altro, ma a che cosa di preciso? Nonostante gli orrori della tratta dei Negri, del colonialismo, del fascismo, del nazismo, dell’Olocausto e di altri massacri e genocidi, i paesi occidentali in particolare, con gli intestini gonfi di ogni tipo di gas, continuano a tener vivo il razzismo mettendolo al servizio di storie di ogni genere, più o meno bislacche e più o meno letali – storie di forestieri e di orde di migranti cui bisogna sbattere la porta in faccia, di filo spinato da tirare in fretta per non essere travolti dalla marea dei selvaggi, storie di frontiere che vanno ripristinate come se non fossero mai scomparse, storie di cittadini come quelli delle vecchie colonie ai quali dobbiamo sempre affibbiare l’attributo di immigrati, di intrusi che devono essere cacciati, di nemici da sradicare, di terroristi che ce l’hanno con noi per come viviamo e che bisogna colpire dall’alto con velivoli telecomandati, storie di scudi umani trasformati in vittime collaterali dei nostri bombardamenti, storie di sangue, di sgozzamenti, di suolo, di patria, tradizioni, identità, di pseudociviltà assediate da orde di barbari, di sicurezza nazionale, logore storie con ogni sorta di etichette, storie per far paura e per spargere fumo, storie senza fine che sono continuamente riciclate nella speranza di abbindolare i più ingenui. È vero che avendo fomentato la miseria e la morte a distanza, lontano dagli sguardi dei propri cittadini, le nazioni occidentali ora temono il ritorno della spada, in uno di quegli atti di vendetta religiosa imposti dalla legge del taglione. Per premunirsi contro questi impulsi di vendetta, si servono del razzismo come di una lama ricurva, integratore velenoso di un nazionalismo pezzente, ridotto agli ultimi stracci nel momento della denazionalizzazione degli autentici centri decisionali, dell’offshoring delle ricchezze, dell’interclusione dei poteri reali, della massificazione del debito e della zonizzazione di territori e popoli diventati superflui. Ma se il razzismo è diventato tanto insidioso, è perché ora fa parte dei dispositivi pulsionali e della soggettività economica dei nostri tempi.

Non è solo divenuto un oggetto di consumo, alla pari di altri beni, oggetti e mercanzie. In questi tempi di volgarità è anche la risorsa senza la quale la “società dello spettacolo” descritta da Guy Debord non esisterebbe affatto. In molti casi ha acquisito uno statuto suntuario. Ce lo si concede non perché si tratti di una cosa insolita, ma come risposta all’appello generalizzato all’oscenità lanciato dal neoliberalismo. Dimenticato lo sciopero generale. Largo alla brutalità e alla sensualità. In quest’epoca dominata dalla passione del lucro, questa miscela di indecenza, brutalità e sensualità favorisce il processo di assimilazione del razzismo da parte della “società dello spettacolo” e la sua molecolarizzazione per mezzo dei dispositivi del consumo contemporaneo. Lo si pratica senza esserne consapevoli. Poi ci si stupisce quando l’altro ce lo fa notare o ci richiama all’ordine. Alimenta il nostro bisogno di divertimento e ci permette di sfuggire alla noia che ci circonda e alla monotonia. Si fa finta di credere che si tratti di atti inoffensivi che non hanno tutta l’importanza che viene loro attribuita. Si resta risentiti se una disciplina emanata da un altro ordine ci priva del diritto di ridere, del diritto a un umorismo che non è mai rivolto contro se stessi (autoironia) o contro i potenti (la satira in particolare) ma sempre contro chi è più debole – il diritto di ridere alle spese di chi si vuole stigmatizzare. Il nanorazzismo ilare e scapigliato, integralmente idiota, che si compiace di sguazzare nell’ignoranza e che rivendica il diritto alla stupidità e il diritto alla violenza fondata sulla stupidità: questo è lo spirito del tempo. C’è da temere che il ribaltamento ci sia già stato. Che sia troppo tardi. Che in fondo il sogno di una società decente sia solo un miraggio. C’è da temere un violento ritorno a un’epoca in cui il razzismo non era tra le “parti vergognose” delle nostre società, quelle parti che, invece di eliminarle, si cercava di tenere nascoste. Ormai il razzismo tracotante e gagliardo farà parte del nostro abbigliamento e a causa sua la ribellione contro la società diventerà sempre più aperta e sempre più veemente, almeno da parte degli esclusi. Resta intatta la questione dell’appartenenza. Chi è di qui e chi non lo è? Che ci fanno tra noi quelli e quelle che non dovrebbero stare qui? Come possiamo sbarazzarcene? Ma che significano “qui” e “là” nell’epoca dell’intreccio dei mondi, ma anche della loro nuova

balcanizzazione? Se una delle caratteristiche del nostro tempo è il desiderio di apartheid, l’Europa reale, per parte sua, non sarà mai più come prima, cioè monocolore. Non ci sarà più – se mai c’è stato – un centro unico del mondo. D’ora in poi il mondo sarà coniugato al plurale. Lo si vivrà al plurale e non si può fare assolutamente nulla per rovesciare questa nuova condizione, tanto irreversibile quanto irrevocabile. Una delle conseguenze di tale nuova condizione è la riattivazione, in molti, dalla fantasia di annichilimento. Questa fantasia è presente in ogni contesto nel quale le forze sociali tendono a concepire il politico come una lotta mortale contro nemici assoluti, una lotta per l’esistenza. Una lotta senza possibilità di un riconoscimento reciproco e tanto meno di una riconciliazione. Contrappone essenze distinte, ognuna dotata di una sostanza quasi impenetrabile o che è in possesso solo di coloro che appartengono alla stessa specie per la legge combinata di sangue e suolo. Ebbene, sia la storia politica sia quella del pensiero e della metafisica in Occidente sono saturate da questa problematica. Gli ebrei, come si sa, ne hanno pagato il prezzo nel cuore stesso dell’Europa. In precedenza i Negri e gli Indiani avevano inaugurato il cammino della croce, in particolare nel Nuovo Mondo. Questa concezione del politico è lo sbocco quasi naturale dell’ossessione che la metafisica occidentale ha a lungo coltivato da un lato per la questione dell’essere e della sua presunta verità, e dall’altro per l’ontologia della vita. Secondo questo mito la storia è l’esplicazione dell’essenza dell’essere. Nella terminologia heideggeriana, l’essere si oppone all’essente. L’Occidente sarebbe il luogo decisivo dell’essere, perché esso solo avrebbe sviluppato la capacità che consiste nel fare esperienza di un nuovo inizio. Il resto non è che essente. Solo l’Occidente avrebbe sviluppato tale capacità perché sarebbe il luogo decisivo dell’essere. Sarebbe questo a renderlo universale, essendo i suoi significati validi in modo assoluto, al di là di qualsiasi topografia, cioè in qualsiasi luogo, in qualsiasi tempo, indipendentemente da qualsiasi lingua, da qualsiasi storia e qualsiasi condizione. A proposito della storia dell’essere e della politica dell’essere, è possibile dire che l’Occidente non ha mai veramente pensato la propria finitezza, ha sempre posto il proprio orizzonte come inevitabile e assoluto e per questo si è sempre voluto per

definizione planetario e universale. L’universale di cui si parla qui non equivale necessariamente a ciò che sarebbe valido per ogni essere umano in quanto tale. Non è nemmeno sinonimo di un allargamento del mio orizzonte o di assunzione in carico delle condizioni della mia finitezza. L’universale qui è il nome che si dà alla violenza dei vincitori di guerre che sono evidentemente conflitti di predazione. Ma tali conflitti sono anche e prima di tutto conflitti onto-storici perché in loro è in gioco una storia dalla verità destinale. Spinta fino all’estremo, la fantasia di annichilimento o annientamento prevede non solo la plasticizzazione del pianeta, ma anche la scomparsa dell’uomo, la sua estinzione. Non è una questione di Apocalisse in quanto tale, se non altro perché l’Apocalisse, da qualche parte, presuppone l’esistenza di un sopravvissuto, di un testimone con il compito di raccontare ciò che avrà visto. È un annientamento concepito non come un disastro spaventoso, ma come una purificazione attraverso il fuoco. Ma la purificazione è la stessa cosa dell’annientamento dell’umanità attuale. Questo annientamento, si suppone, dovrebbe aprire la strada a un altro inizio, l’inizio di un’altra storia senza l’umanità attuale. Una fantasia di ablazione, pertanto. Nel momento ansiogeno che è nostro, sono presenti gli indizi di un ritorno alle tematiche della differenza ontologica. Beneficiando della “guerra contro il terrore” e al seguito dei bombardamenti aerei, delle esecuzioni extragiudiziali (preferibilmente con l’aiuto di droni), di massacri, attentati e altre forme di carneficina che ne segnano il ritmo, ritorna a galla l’idea che l’Occidente sia l’unica zona al mondo in grado di comprendere e di istituire l’universale. Avanza decisamente la scissione dell’umanità tra autoctoni e stranieri. Se ieri, con Schmitt o Heidegger, l’esigenza fondamentale era di trovare il nemico e metterlo in evidenza, oggi basta crearlo e quindi opporglisi, contrapporgli la prospettiva di un annichilimento e un annientamento totali. Sono infatti nemici con i quali la comunicazione non è possibile né auspicabile. Sono fuori dall’umanità, con loro nessuna intesa è realizzabile. Davvero si può fare atto di presenza nel mondo, abitarlo o attraversarlo, sulla base di un’impossibile condivisione, di una distanza incolmabile? Basta abbattere il nemico o sbarazzarsi dello straniero per fare a meno di lui o per destinarlo in eterno all’oblio? Un atteggiamento

del genere impone che sia cancellato mentre è in vita, con la prospettiva della morte o della relegazione, ciò che nel volto lo rendeva umano. Questo atto di deturpazione e cancellazione è quasi un prerequisito di qualsiasi esecuzione per tutte le logiche contemporanee dell’odio. Nelle società che continuano a moltiplicare i dispositivi di separazione e discriminazione, la relazione di cura è stata sostituita dalla relazione senza desiderio. Non è più indispensabile spiegare e comprendere, conoscere e riconoscere. Ospitalità e ostilità non sono mai state così antitetiche. Da qui l’interesse a tornare a quelle figure per le quali la miseria degli uomini e la sofferenza dei nemici non sono mai divenute «silenziosi resti della politica»35. Sono sempre state congiunte alla richiesta di riconoscimento, specialmente dove era normale l’esperienza di essere disconosciuti, umiliati, alienati e maltrattati. 1

La storia «non è in realtà altro che una lunga sequenza di uccisioni fra i popoli», affermava già nel 1915 Sigmund Freud (Considerazioni attuali sulla guerra e la morte, in Id., Opere, vol. VIII, Bollati Boringhieri, Torino 1989, p. 140). E Lacan rincara la dose negli anni Cinquanta: «Siamo già abbondantemente una generazione dell’odio» (Jacques Lacan, Séminaire-livre I, Seuil, Paris 1998, p. 306 [trad. it., Il seminario. Libro 1, a cura di Antonio Di Ciaccia, Einaudi, Torino 2014]). 2 Schmitt, Die geistesgeschichtliche Lage des heutigen Parlamentarismus, cit. 3 Ibid. 4 Wendy Brown parla a questo riguardo di “de-democratizzazione”, in Wendy Brown, Les habits neufs de la politique mondiale, Les Prairies ordinaires, Paris 2007. Vedi anche Jean-Luc Nancy, Vérité de la démocratie, Galilée, Paris 2008. 5 Wendy Brown, Walled States, Waning Sovereignty, Zone Books, New York 2010. 6 Eyal Weizman, Walking through walls. Soldiers as architects in the Israeli-Palestinian conflict, in «Radical Philosophy», n. 136, marzo-aprile 2006, pp. 8-22. 7 Eyal Weizman, Hollow Land. Israel’s Architecture of Occupation, Verso, London 2012. 8 Amira Hass, Israel closure policy. An ineffective strategy of containment and repression, in «Journal of Palestinian Studies», vol. 31, n. 3, 2002, pp. 5-20. 9 Cédric Parizot, Après le mur. Les représentations israéliennes de la séparation avec les Palestiniens, in «Cultures & Conflits», n. 73, 2009, pp. 53-72. 10 Idith Zertal, Israel’s Holocaust and the Politics of Nationhood, Cambridge University Press, Cambridge 2010; Jacqueline Rose, The Question of Zion, Princeton University Press, Princeton 2007; e Judith Butler, Parting Ways. Jewishness and the Critique of Zionism, Columbia University Press, New York 2012. 11 Vedi Saree Makdisi, The architecture of erasure, in «Critical Inquiry», vol. 6, n. 3, 2010, pp. 519-559. Vedi anche Mick Taussig, Two weeks in Palestine. My first visit [1], in http://criticalinquiry.uchicago.edu. 12 Vedi in particolare Ariella Azoulay, Civil Imagination. A Political Ontology of Photography, Verso, New York 2015, pp. 125-173. 13 Adi Ophir, Michal Givone, Sari Hanah (a cura di), Exclusion. Anatomy of Israeli Rule in the Occupied Palestinian Territories, Zone Books, New York 2009; e Neve Gordon, Israel’s Occupation, University of California Press, Berkeley 2008.

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James Belich, Replenishing the Earth. The Settler Revolution and the Rise of the Angloworld, Oxford University Press, Oxford 2009. 15 Vedi in particolare Moses (a cura di), Empire, Colony, Genocide, cit.; Patrick Wolfe, Settler colonialism and the elimination of the native, in «Journal of Genocide Research», vol. 8, n. 4, 2006, pp. 387-409. 16 Cornelis W. De Kiewiet, A History of South Africa. Social and Economic, Oxford University Press, Oxford 1957; Nigel Penn, The Forgotten Frontier. Colonists and Khoisan on the Cape’s Northern Frontier in the 18th Century, Ohio University Press, Athens 2006. 17 Vedi Peter L. Geschiere, Sorcellerie et politique en Afrique. La viande des autres, Karthala, Paris 1995. 18 Vedi Mohamedou Ould Slahi, Les Carnets de Guantanamo, Michel Lafont, Paris 2015. 19 Carl Schmitt, Der Begriff des Politischen, Duncker & Humblot, Berlin 2018, p. 26 [trad. it. in Le categorie del ‘politico’, il Mulino, Bologna 1972]. 20 Ivi, p. 73. 21 Talal Asad, On Suicide Bombing, Columbia University Press, New York 2007. 22 Sigmund Freud, Psicologia delle masse e analisi dell’Io, in Id., Opere, vol. IX, Bollati Boringhieri, Torino 1989 [1921], p. 269. 23 Gustave Le Bon, Psychologie des foules, PUF, Paris 2013 [1895] [trad. it., Psicologia delle folle, Longanesi, Milano 1992]. 24 Vedi Jean Comaroff, The politics of conviction. Faith on the neo-liberal frontier, in «Social Analysis», vol. 53, n. 1, 2009, pp. 17-38. 25 Nicola Perugini, Neve Gordon, The Human Right to Dominate, Oxford University Press, Oxford 2015 [trad. it., Il diritto umano di dominare, Nottetempo, Roma 2016]. 26 A proposito di questi fenomeni vedi Éric Sadin, L’Humanité augmentée. L’administration numérique du monde, L’Échappée, Paris 2013. 27 Le osservazioni che seguono sono ispirate in gran parte dal saggio di Frédéric Lordon, Capitalisme, désir et servitude. Marx et Spinoza, La Fabrique, Paris 2010 [trad. it., Capitalismo, desiderio e servitù. Antropologia delle passioni nel lavoro contemporaneo, DeriveApprodi, Roma 2015]. 28 Freud, Psicologia delle masse e analisi dell’Io, cit., p. 269. 29 Ibid. 30 Le osservazioni che seguono riprendono in parte il mio testo Nanoracisme et puissance du vide, in Nicolas Bancel, Pascal Blanchard, Ahmed Boubeker (a cura di), Le Grand Repli, La Découverte, Paris 2015, pp. 5-11. 31 Vedi David Theo Goldberg, Susan Giroux, Sites of Race, Polity, London 2015. 32 Michel Agier (a cura di), Un monde de camps, La Découverte, Paris 2014. 33 Ivi, p. 11. 34 Nacira Guénif-Souilamas, Éric Macé, Les féministes et le garçon arabe, Éditions de L’Aube, Paris 2004; Joan Wallach Scott, The Politics of the Veil, Princeton University Press, Princeton 2009. 35 Michel Foucault, Face aux gouvernements, les droits de l’homme, in Id., Dits et écrits, vol. IV, Gallimard, Paris 1994, p. 708.

3. La farmacia di Fanon

I primi due capitoli hanno mostrato come l’inimicizia costituisca ormai il nerbo delle democrazie liberali e come l’odio sia ciò che dà loro l’impressione di fare esperienza di un presente puro, di una politica pura con mezzi altrettanto puri. Abbiamo anche sostenuto che dal punto di vista storico né la repubblica schiavista né il regime coloniale e imperiale sono stati corpi estranei alla democrazia, ma sono invece stati la materia fosforescente, proprio quella che permetteva alla democrazia di uscire da sé, di mettersi deliberatamente al servizio di altro rispetto a quello che proclamava in teoria e di esercitare quando occorreva la dittatura contro se stessa, contro i suoi nemici e i non-simili. I corpi di spedizione all’epoca delle conquiste coloniali e le campagne militari nel corso delle guerre antinsurrezionali della decolonizzazione furono gli emblemi più significativi di quella lunga fase repressiva. Al limite, dunque, non c’è democrazia liberale senza questo supporto del servile e del razziale, del coloniale e dell’imperiale. Questo sdoppiamento inaugurale è tipico della democrazia liberale. Il rischio e la minaccia che lo sdoppiamento fa pesare sulla democrazia non è tanto di annullarne il messaggio o addirittura di eliminarne il nome, quanto di rivoltarla contro se stessa, riportando all’interno quello che ci si ostina a scaricare verso l’esterno. Oggi, in quanto è quasi impossibile definire il limite fra interno ed esterno, il pericolo che terrorismo e controterrorismo fanno pesare sulle democrazie moderne è quello della guerra civile. Nel lungo capitolo che segue si affronta direttamente il tema della tensione fra il principio di distruzione – che funge da pietra angolare delle politiche contemporanee dell’inimicizia – e il principio di vita. Al centro di questa riflessione si farà ricorso in particolare a Frantz Fanon, le cui

considerazioni sulla distruzione e la violenza da una parte e sul processo di guarigione e il desiderio di una vita illimitata dall’altra costituiscono la base della sua teoria della decolonizzazione radicale. In Fanon, infatti, la decolonizzazione radicale è vista nell’ottica di un movimento e di un travaglio violento, un travaglio che ha lo scopo di portare al principio di vita, di rendere possibile la creazione del nuovo. Ma qualsiasi violenza è generatrice di qualcosa di nuovo? Che dire delle violenze che non fondano niente, sulle quali non si può costruire niente e che hanno la sola funzione di istituire il disordine, il caos e la perdita? 1. Il principio di distruzione Per cogliere l’importanza che Fanon attribuisce alla violenza creatrice e al suo potere di guarigione, è necessario ricordare due cose. L’opera di Fanon s’inserisce direttamente in tre dei dibattiti e delle controversie più determinanti del ventesimo secolo: il dibattito sui generi dell’umano (razzismo); quello sulla ripartizione del mondo e le condizioni del dominio planetario (imperialismo) e quello sullo statuto della macchina e il destino della guerra (il nostro rapporto con la distruzione e la morte). Queste tre questioni hanno assillato la coscienza europea a partire dal sedicesimo secolo e hanno aperto la strada, all’inizio del Novecento, a un profondo pessimismo culturale. Da molti punti di vista, il Novecento comincia davvero con la Grande Guerra, al cui proposito Freud dirà: «mai un fatto storico [ha] distrutto in tal misura il prezioso patrimonio comune dell’umanità»1. La causa, aggiunge, non sta solo nel perfezionamento delle armi offensive e difensive, che ha reso la guerra «più sanguinosa e rovinosa di ogni guerra del passato»; essa è «perlomeno tanto crudele, accanita e spietata quanto tutte le guerre che l’hanno preceduta. Essa infrange tutte le barriere riconosciute in tempo di pace e costituenti quello che è stato chiamato il diritto delle genti, disconosce le prerogative del ferito e del medico, non fa distinzione fra popolazione combattente e popolazione pacifica, viola il diritto di proprietà. Abbatte quanto trova sulla sua strada con una rabbia cieca, come se dopo di essa non dovesse più esservi avvenire e pace fra gli uomini»2. «La mia prima impressione, entrando nel reparto ospedaliero che era

interamente occupato da malati di nevrosi di guerra, fu di profondo stupore», racconta per parte sua Sándor Ferenczi. Vi erano ricoverati circa cinquanta pazienti e quasi tutti davano «l’impressione di essere molto sofferenti o addirittura invalidi». Certi erano «incapaci di muoversi», mentre in altri il minimo tentativo di spostarsi provocava «un tremito così violento delle ginocchia e dei piedi» che le loro voci «coprivano a fatica il rumore delle suole che battevano sul pavimento». Secondo lui era il comportamento di costoro che colpiva di più: dava l’impressione di una paresi spasmodica, mentre le diverse combinazioni di tremore, rigidità e astenia producevano «atteggiamenti del tutto particolari, che solo il cinematografo sarebbe stato capace di riprodurre»3. La Grande Guerra, una scena sulla quale moriva ogni linguaggio tranne la parola allo specchio, mandò in pezzi – o almeno rimise profondamente in discussione – diversi secoli di tentativi di definire un “diritto di guerra”, ovvero la legge fondamentale che, in un conflitto tra Europei, prescrivesse ciò che poteva essere permesso e non permesso. Quella legge era il prodotto di un lungo processo di maturazione, di innumerevoli tentativi e di intensi dibattiti sul tema della natura della guerra stessa, su quello che era e su quali fossero i suoi rapporti con il diritto naturale e la giustizia. Rispetto alla tematica che ci interessa qui, quella del terrore delle democrazie in situazione coloniale e postcoloniale in particolare, è utile ricordare che in origine il pensiero europeo distingueva diverse forme di diritto. Inteso come attributo dell’azione, il diritto era diviso in diritto di superiorità e diritto tra pari; in diritto naturale e diritto cosiddetto umano (che a sua volta comprendeva il diritto civile, il diritto delle genti), in diritto universale e diritto particolare. Il diritto si sforzava di regolare questioni molto complesse, come quella della distinzione tra la guerra cosiddetta solenne o pubblica e tutte le altre forme di conflitto, in particolare la guerra privata. Poiché, per definizione, ogni guerra comportava un forte rischio per lo Stato, la guerra pubblica poteva essere intrapresa solo per ordine di colui che deteneva il potere sovrano nello Stato4. Una guerra pubblica si riconosceva dal fatto che chi la praticava era investito di un potere sovrano e doveva seguire un certo numero di atti formali. Per il resto restava inteso che il sangue si pagava con il sangue, che l’impiego delle

armi non era mai esente dai pericoli e che la difesa era altra cosa dalla vendetta. Sul piano filosofico, i tentativi d’istituzione di un diritto di guerra culminarono nel diciassettesimo secolo con l’opera di Grozio, De iure belli ac pacis. Il pessimismo culturale che travolse l’Europa dopo la Grande Guerra produsse un connubio relativamente nuovo tra nazionalismo e militarismo5. In particolare in Germania la sconfitta fu considerata l’esito di un tradimento. La guerra era perduta, ma non era finita. Gli “ebrei traditori” erano i colpevoli della disfatta e la vendetta del paese sarebbe stata consumata solo nel giorno in cui sarebbero stati sterminati6. Il nuovo nazionalismo militare traeva ispirazione da un immaginario senza precedenti della devastazione e della catastrofe. Il soldato che tornava dall’inferno delle trincee ne era la figura emblematica. Aveva fatto l’insostenibile esperienza del fango, era stato testimone della riduzione in briciole di un mondo. Aveva vissuto da vicino la morte in tutte le sue forme. Gli attacchi con il gas avevano trasformato la stessa atmosfera in un’arma letale. Era diventato un pericolo respirare, perché l’aria stessa era stata avvelenata. Migliaia di bombole avevano scaricato migliaia di tonnellate di gas a base di cloro nelle trincee. Tanti soldati erano morti asfissiati e soffocati dai propri fluidi, sul fondo di una densa nuvola giallo-verde che si spargeva per chilometri sospinta dal vento7. Lo stesso soldato che aveva subito la minaccia quasi costante di un collasso nervoso, in preda al terrore, aveva udito le urla di morte dei suoi commilitoni ed era stato testimone del loro incomunicabile sgomento. Egli stesso a rischio di impazzire, si era sentito completamente esposto ai colpi del caso e della predestinazione8. La «grande disillusione» (Freud) provocata dalla guerra non dipendeva dalla persistenza del fatto bellico in quanto tale. All’epoca pochissimi credevano in una cessazione definitiva delle guerre o nell’utopia di una pace perpetua. Le guerre, affermava Freud, non cesseranno «fintanto che i popoli vivono in condizioni di esistenza così diverse, fintanto che il loro modo di valutare la vita individuale è così divergente e gli odi che li separano sono alimentati da forze motrici psichiche così potenti»9. La disillusione non dipendeva nemmeno dalla realtà di guerre «tra

popoli primitivi e popoli civilizzati, tra razze divise da differenze di colore, e persino con o tra singole popolazioni europee meno progredite o civilmente in regresso»10. Le «grandi nazioni di razza bianca [...] nelle cui mani è affidata la guida del genero umano»11 e che peraltro godevano di «una civile comunanza»12 avevano appena dato prova di comportamenti brutali di cui non si pensava fossero capaci, in quanto partecipi della «più progredita civiltà umana»13: questo era lo scandalo della Grande Guerra. In altre parole, l’uomo delle origini, l’uomo delle età antiche, quello abituato ad accettare la morte dell’altro, che non aveva nessuno scrupolo a provocarla, che praticava volutamente l’omicidio e ai cui occhi la morte del nemico significava solo l’annientamento di ciò che egli odiava, quest’uomo primitivo era ancora presente in ognuno di noi e la sua maniera di trattare la morte era ancora viva in ciascuno di noi, «ma [...] non appare alla nostra coscienza, giacché si trova nascosta nei recessi più profondi della nostra vita psichica»14. Il vasto rimescolamento della vita pulsionale che si credeva indotto dal processo di civilizzazione non aveva affatto cancellato le specifiche capacità di tornare indietro, di quella che Freud chiamava regressione. La rivelazione della Grande Guerra era pertanto, da una parte, che «gli stati primitivi possono sempre ristabilirsi: quel che vi è di primitivo nella psiche è imperituro, nel vero senso della parola»15. Dall’altra parte, se la pulsione di morte o di distruzione può essere rivolta in gran parte verso l’esterno o diretta sugli oggetti del mondo esteriore, molte altre parti di quella stessa pulsione riescono sempre a sottrarsi alla domesticazione (l’oggetto del processo di civilizzazione). Inoltre, la pulsione di distruzione (con tutto quello che comporta quanto a sadismo e masochismo) rivolta all’esterno o proiettata può nuovamente essere riorientata verso l’interno o introiettata. Essa comincia a prendere come bersaglio l’Altro interiore. Di qui l’imperativo di sterminio (Ausrottung) del popolo ebraico, particella di putrefazione che si suppone abiti il corpo del popolo tedesco. Ben presto, però, la pulsione investe il soggetto stesso come proprio oggetto. In questo caso la distruzione ritorna dal mondo esteriore al soggetto e spinge quest’ultimo ad «agire in modo dissennato e contro i propri interessi, deve distruggere le prospettive che gli si aprono nel mondo reale, ed eventualmente deve distruggere la propria reale esistenza»16.

Colonialismo, fascismo e razzismo costituiscono tre forme tanto estreme quanto patologiche di tale ritorno dal presunto mondo esterno verso il soggetto. Dopo la fine della guerra, soprattutto in Europa, comparvero partiti e movimenti fascisti. L’ascesa del fascismo e poi del nazismo si verificò parallelamente a quella del colonialismo e oggi è un fatto assodato che colonialismo, fascismo e nazismo hanno avuto rapporti non solo di circostanza17. Benché molto distinte, queste tre formazioni storiche condividevano uno stesso mito, quello dell’assoluta superiorità della cultura cosiddetta occidentale, intesa come cultura di una razza, la razza bianca. La sua essenza sarebbe quella dello spirito faustiano, riconoscibile fra l’altro nella sua potenza tecnica. Che si tratti del passato o del presente, tale potenza avrebbe permesso di elevare la cultura occidentale a un’altezza senza paragoni. Nel modo in cui la si intendeva all’epoca, la frase “cultura senza paragoni” aveva un duplice significato. In primo luogo rimandava a un’essenza. La cultura occidentale, così si sosteneva, non sarebbe una normale componente del gruppo delle culture dell’umanità. Nel concerto delle creazioni umane, essa avrebbe un ruolo preminente, che l’affrancherebbe da qualsiasi dipendenza dalle altre culture e che le conferirebbe un’immunità, in conseguenza della quale non potrebbe essere “toccata”. Sarebbe stata “intoccabile” perché si distingueva da tutte le altre. Era “intoccabile” anche perché essa sola aveva la capacità di ricondurre a sé tutte le altre. Non avrebbe mai potuto fondersi completamente nella rete delle altre culture del mondo, perché solo grazie a lei e solo in rapporto a lei tutte le altre esisterebbero. Così ipostatizzata e posta su un piedistallo, la cultura o la civiltà occidentale diventava il punto zero di orientamento di tutti gli esseri umani. Tale era, peraltro, il luogo e la materia che assegnava a se stessa, il suo “qui”, il suo punto metafisico, che la rendeva capace di fare astrazione dall’esistenza, dalla volontà e dai desideri di altri corpi e di altre carni, luoghi remoti, insieme diversi dal suo e implicati in lei, ma in una direzione da cui non poteva affatto riportarsi indietro. Nello spirito dell’epoca “cultura senza paragoni” significava anche l’unica che avesse superato simbolicamente la morte. L’addomesticamento della morte passava dal dominio sulla natura, dal culto dello spazio illimitato e dall’invenzione del concetto di forza. Non che quella cultura non fosse capace di contemplazione. Il suo progetto, tuttavia, era di dirigere il

mondo secondo la propria volontà. Un vasto programma prometeico: l’originalità dell’Occidente stava nell’avere strappato alla divinità il suo segreto e di avere fatto dell’uomo stesso un Dio. Colonialismo, fascismo e nazismo condividevano un secondo mito. Per ognuna di queste formazioni storiche, l’Occidente era un corpo naturale vivo, dotato di un midollo e di un’anima. «Le altre parti del mondo hanno avuto civiltà mirabili», proclamava Paul Valéry. «Ma nessuna parte del mondo ha posseduto questa singolare proprietà fisica: la più intensa potenza di emissione unita al più intenso potere di assorbimento. Tutto è andato all’Europa e tutto è venuto di lì»18. Tale singolare proprietà fisica, tale «intensa potenza di emissione» unita al «più intenso potere di assorbimento», aveva assunto una forma concreta nel momento della repressione delle guerre di resistenza contro il colonialismo: la forma-campo19. Per più di mezzo secolo l’interpretazione della forma-campo è stata dominata da quelle che si potrebbero definire le “politiche dell’estremo”, cioè, per riprendere l’espressione di Aimé Césaire, le politiche di decivilizzazione che, secondo meccanismi ora vistosi ora invisibili e più o meno sotterranei, sono state consustanziali alla condizione coloniale. Il campo, conseguenza della distruzione degli ebrei in Europa, sulla scia dell’Olocausto è stato considerato il luogo di una radicale disumanizzazione, lo spazio dove l’uomo fa esperienza del suo divenire animale nell’atto con il quale riduce allo stato di polvere altre esistenze umane. Il campo è stato anche interpretato come sintomatico del processo di espulsione delle sue vittime dalla comune umanità, la scena di un crimine tanto segreto quanto irrappresentabile e indicibile, indissolubilmente votato all’oblio, almeno tra quelli che lo perpetrarono, perché tutto cospirava fin dall’origine a cancellarne le tracce. È possibile che l’intensa potenza di emissione e di assorbimento di cui parlava Valéry sia stata all’origine non di un unico crimine che, riassumendo tutti gli altri, godrebbe comunque di un ruolo elettivo e sarebbe portatore di significati “extra-umani”, ma di una catena di crimini e di terrori sulle cui complesse genealogie è necessario riflettere. In effetti, sul versante diurno delle politiche di decivilizzazione (o dell’estremo, o del terrore) denunciate da Césaire si collocano i processi

coloniali, con il loro seguito di guerre di conquista, di guerre di occupazione e di sterminio, di genocidi e altri massacri, e il loro inevitabile corollario di guerre di liberazione e di guerre antinsurrezionali, la cui portata si comincia solo ora a valutare20. Sul versante notturno si pongono i processi di concentramento e di sterminio attestati da tanti superstiti, come Jean Améry, lettore di Fanon, nel quale trovò, più che un interlocutore, quasi un parente21. E come avevano ben visto Hannah Arendt e poi Michel Foucault, collegando i due versanti, c’è la razza o, per essere precisi, il razzismo22. Da un punto di vista strettamente storico, la forma-campo fa la sua comparsa alla svolta del ventesimo secolo (tra il 1896 e il 1907), nel contesto della guerra coloniale a Cuba, nelle Filippine, in Sudafrica e nell’Africa del Sud-Ovest allora controllata dalla Germania. Il campo nella sua accezione moderna è altra cosa rispetto alle politiche di trasferimento di popolazioni praticate dagli Inglesi in India nel corso del diciottesimo secolo, in Messico nel 1811 o negli Stati Uniti nel corso del diciannovesimo secolo. In quel contesto il campo è un dispositivo di guerra cui ricorre il governo coloniale, un mezzo di repressione di massa destinato alle popolazioni civili considerate ostili. Si tratta, in senso generale, di donne, bambini e vecchi esposti sistematicamente alla fame, alla tortura, ai lavori forzati e alle epidemie23. In Sudamerica le prime esperienze di reclusione in campi si fecero a Cuba, nel corso della guerra dei Dieci Anni (1868-1878). Più tardi, nel 1896, queste categorie della popolazione furono concentrate nelle province di Santiago e di Puerto Principe dal generale spagnolo Valeriano Weyler. Il tasso di mortalità raggiungeva il 38 per cento in certe regioni, come a Santa Clara24. Gli Americani, per parte loro, crearono numerosi campi di concentramento nelle Filippine tra il 1899 e il 1902, quando gli insorti nazionalisti filippini ricorsero alla guerriglia per affermare i propri diritti. I campi di concentramento nelle Filippine seguivano la falsariga della hard war, la “guerra sporca”, un termine le cui origini risalgono alla guerra civile americana. Fu adottata allora una quantità di misure punitive che rientravano nel quadro del codice Lieber del 1863. Tale codice indicava varie distinzioni tra le diverse categorie delle popolazioni contro le quali erano condotte le guerre antinsurrezionali, la più

importante delle quali la distinzione fra i cittadini leali e gli sleali o traditori. I cittadini sleali erano a loro volta divisi tra quelli dei quali era nota la simpatia per la ribellione senza però che le apportassero alcun aiuto oggettivo e quelli che, senza necessariamente impugnare le armi, concedevano un aiuto oggettivo al nemico ribelle senza essere costretti a farlo. Secondo il codice Lieber i comandanti delle forze armate potevano far gravare il peso della guerra sui cittadini sleali delle province ribelli. Era normale che i traditori subissero, nel caso, eccezionali misure punitive, dalle quali non erano nemmeno esentati i nemici noncombattenti, soprattutto in periodi di guerra regolare. Il governatore militare poteva decidere l’espulsione di questi cittadini, che, inoltre, potevano essere colpiti da trasferimenti, carcerazioni e pesanti ammende25. Tali misure furono in effetti applicate dal dicembre 1900 dal brigadier generale Arthur MacArthur e poi, a partire dal novembre 1911, dal brigadier generale J. Franklin Bell: riguardavano in gran parte la provincia di Batangas, dove la resistenza filippina era particolarmente attiva. Si effettuarono sgomberi in massa della popolazione nelle zone rurali. Si aprirono campi di concentramento e aumentarono le pratiche di tortura. Gli stessi metodi furono applicati nella provincia di Samar dal brigadier generale Jacob H. Smith. Alla serie di atrocità già perpetrate, costui aggiunse un’autentica politica di terra bruciata corredata da esecuzioni in massa26. La logica concentrazionaria esisteva dunque assai prima della sua sistematizzazione e radicalizzazione sotto il Terzo Reich. Nel caso sudafricano (dal 1889 al 1902), la Corona britannica doveva fronteggiare una logica di guerriglia. Tra il 1899 e il 1900 quella che contrapponeva i due nemici era una guerra in gran parte convenzionale. Sottoposti a un’insostenibile pressione da parte delle truppe inglesi, i Boeri modificarono presto la propria tattica e i loro comandi ricorsero sempre più spesso alla guerriglia. Invece di affrontare il nemico in campo aperto con un esercito costituito, i Boeri ripresero gli abiti civili e si reinserirono tra la popolazione locale. Dopo di che, furono in grado di sottoporre le truppe britanniche a uno stillicidio di azioni inaspettate

che, pur non assicurando vittorie decisive in campo militare, avevano comunque l’effetto di indebolirne notevolmente il morale. Sotto la guida di Horatio H. Kitchener la Corona britannica reagì intensificando la creazione di campi di concentramento. Legalizzati dal governo nel dicembre 1900, tali campi erano presentati come misure eccezionali con lo scopo di separare le popolazioni civili dai combattenti che le forze coloniali cercavano di isolare e sconfiggere. I civili, soprattutto donne e bambini, furono allora confinati in luoghi desolati, circondati da filo spinato, dove i tassi di mortalità si rivelarono eccezionalmente elevati. A questi modelli di origine coloniale il Terzo Reich aggiunse una dimensione cruciale, la pianificazione della morte di massa, che del resto era stata tentata dai Tedeschi nell’Africa del Sud-Ovest nel 1904, quando gli Herero fecero per primi l’esperienza del lavoro forzato in un sistema concentrazionario – il primo genocidio del ventesimo secolo. Al di fuori delle colonie, in territorio europeo, la logica del campo di concentramento non ha assunto solo forme naziste, ma è stata presente prima, durante e dopo la seconda guerra mondiale. Nel 1942, per esempio, la Francia contava quasi un centinaio di campi, in maggioranza nati negli ultimi anni della Terza Repubblica sotto Édouard Daladier, prima del regime di Vichy. Vi erano ospitati individui di ogni sorta, considerati «pericolosi per la difesa nazionale e la pubblica sicurezza»27, in maggioranza persone che erano fuggite dai propri paesi e si erano rifugiate in Francia (Tedeschi e Austriaci; ebrei dopo il 1933; poi Spagnoli, ex combattenti della causa repubblicana, dal 1939). Questi luoghi e altri apparsi sotto Vichy (Compiègne, Rivesaltes, Les Milles, Gurs, Pithiviers, Beaune, Drancy ecc.) funsero da laboratori in cui si praticava una certa radicalizzazione dei dispositivi di prevenzione, di repressione e di pena. Erano tempi che favorivano la creazione di molteplici figure di capro espiatorio. Molti stranieri erano visti, se non come nemici, quanto meno come “bocche inutili da sfamare” di cui bisognava sbarazzarsi28. Erano accusati di “rubare i posti di lavoro e le donne ai Francesi”. Sotto Vichy toccò il suo culmine il lento processo di offuscamento della figura dello straniero. Il quale era solo un elemento biologico corrotto, le cui tare e le cui patologie rappresentavano una minaccia diretta all’integrità del corpo

nazionale. Dall’autunno 1940 una nuova legge permise di rivedere tutte le naturalizzazioni concesse dal 1927. Tra il 1940 il 1944 circa 15.000 persone persero la nazionalità francese e furono «rese apolidi»29. Torniamo ai campi di concentramento coloniali per precisare che, a prima vista, non erano destinati allo sterminio propriamente detto. Per quanto riguarda in particolare il caso europeo, numerosi storici suggeriscono di fare una distinzione tra l’universo dei campi di raccolta, i campi di concentramento destinati alle popolazioni non ebree, e i campi di sterminio dove fu perpetrato il genocidio degli ebrei; i campi destinati a ricevere i nemici politici e i centri di messa a morte in quanto tale. In effetti non tutti i campi erano destinati alle esecuzioni programmate. Per questo è importante la distinzione tra il dispositivo concentrazionario nel senso stretto del termine e l’apparato di sterminio propriamente detto, anche se, peraltro, tutti i campi (compresi quelli delle colonie) erano spazi sui quali incombeva la sofferenza ed eventualmente la morte in diverse forme – la morte lenta per sfinimento, sul lavoro o per abbandono e indifferenza; oppure, come accadde proprio nel cuore dell’Europa, la pura e semplice eliminazione con il gas – e poi il fumo, la cenere e la polvere. In un caso come nell’altro, i campi ospitavano un’umanità dichiarata ora inutile, ora nociva, ora percepita come nemica e ad ogni modo parassita e superflua. È così che, nella filosofia moderna, il mondo dei campi è diventato inscindibile dal mondo di un singolare reato, perpetrato in apparente segreto: il crimine contro l’umanità. Uno dei casi moderni più evidenti relativi a tale problematica, ovvero un’umanità contro la quale viene perpetrato un crimine non riconosciuto come tale, è il luogo coloniale. Ancor oggi non è chiaro, agli occhi di tutti, che la schiavitù dei Negri e le atrocità coloniali appartengono alla memoria del mondo, ancor meno è chiaro che questa memoria, in quanto comune, non è proprietà dei soli popoli che ne sono stati vittime, ma dell’umanità nel suo insieme, oppure che, finché non saremo capaci di assumerci la memoria del “Tutto-mondo”, sarà impossibile immaginare un mondo davvero comune e un’umanità realmente universale. Certo, sotto la colonizzazione non tutti gli spazi carcerari appartenevano necessariamente al sistema concentrazionario o al dispositivo di sterminio. Ma il campo fu un dispositivo centrale delle

guerre coloniali e imperialiste. Per questo è necessario ricordare tali origini del campo – nel crogiolo delle guerre imperialiste e coloniali (guerre asimmetriche per definizione), più tardi nelle guerre civili con quello che ne seguì e, infine, nel panorama della guerra mondiale. Questa genealogia fa ritenere che all’origine del campo si trovi sempre un progetto di ripartizione degli esseri umani. Ripartizione e occupazione procedono di pari passo con l’espulsione e la deportazione e, spesso, con un programma più o meno confessato di eliminazione. Non per nulla, fra l’altro, la forma-campo accompagnerà quasi dovunque le logiche di popolamento-sradicamento. Di questa ripartizione degli esseri umani e di questo popolamentosradicamento fu testimone Frantz Fanon, che dedicò gran parte della sua breve vita a curare malati. Fu testimone di insondabili sofferenze, della follia, delle afflizioni umane e, soprattutto, della morte, senza ragione apparente, di tanti innocenti, cioè di quelli che ci si aspettava fossero risparmiati, anche in situazioni estreme. Ogni situazione di asservimento strutturale costituisce di fatto, almeno per quelli e quelle che la patiscono, una condizione potenzialmente estrema. Era questo il caso dell’esperienza coloniale. Dovunque fosse mossa dalla volontà di dominio, l’impresa coloniale lasciò dietro di sé solo avanzi della popolazione autoctona, che si affrettò fra l’altro a confinare in zone separate. Limitando le occasioni d’incontro e di contatto tra coloni e assoggettati, estese al massimo la distanza tra i due gruppi, che era la condizione prioritaria per provocare la banalizzazione dell’indifferenza. Per chi aveva il compito di attuarle, la conquista e l’occupazione delle colonie non richiedevano solo una straordinaria disposizione all’indifferenza, ma anche capacità fuori del comune di compiere atti assolutamente ripugnanti. Massacri, carneficine, repressione delle resistenze imponevano talvolta contatti corpo a corpo, il dispiego di forme orribili di crudeltà, perché l’aggressione ai corpi e alle proprietà doveva ogni volta esprimere il disprezzo con cui si consideravano le razze cosiddette inferiori. Dove serviva, alla demolizione terrestre si aggiungevano i bombardamenti aerei30. Decapitazioni, squartamenti, torture e altre sevizie sessuali completavano il quadro31. L’assuefazione al sadismo, l’implacabile volontà di ignorare tutto, di

non provare nessuna empatia verso le vittime, di convincersi della bassezza degli indigeni, di ritenerli responsabili delle atrocità che erano loro inflitte, delle estorsioni e dei danni pesanti che subivano: questa era la legge. Come spiega Fanon, ogni volta che si trattava di discolpare il colonialismo, non si esitava a ricorrere agli stessi sotterfugi: i crimini erano compiuti da individui isolati, persone in preda alla paura davanti al comportamento animalesco e agli atti di estrema barbarie delle loro vittime e davanti alla minaccia che i selvaggi facevano incombere sulla loro vita; gli orrori vissuti dai colonizzati non erano niente rispetto alle sofferenze che avrebbero dovuto sopportare se fossero stati abbandonati a loro stessi; ciò che era realizzato in nome della civiltà (sviluppo economico, progressi tecnici, scolarizzazione, sanità, cristianizzazione e assimilazione) controbilanciava gli effetti negativi – che venivano fatti passare per inevitabili – del progetto coloniale32. Così andarono le cose, in particolare in Algeria. Della guerra coloniale in generale, Fanon diceva che era generatrice di patologie di ogni genere e che costituiva un terreno favorevole allo sviluppo di disturbi mentali. Tali patologie da tempo di guerra propriamente dette si aggiungevano a ogni sorta di ferite che la colonizzazione aveva inflitto in precedenza ai colonizzati al momento della conquista e dell’occupazione. Il colonizzato che subiva la guerra coloniale oppure che vi era coinvolto in qualità di combattente portava su di sé, in sé, nel proprio intimo le cicatrici e altre tracce delle lesioni originarie. Della guerra d’Algeria in particolare, Fanon disse che aveva preso molto spesso l’andamento di un «autentico genocidio»33. In realtà il processo coloniale, nella sua struttura come nei suoi abbellimenti – soprattutto quando fa leva su presupposti razzisti e suprematisti –, si costruisce sempre intorno a una pulsione di genocidio. In numerosi casi la pulsione non si è mai materializzata, ma c’è sempre stata, in stato latente. Raggiungeva il punto massimo di incandescenza nel momento della guerra, sia di conquista e di occupazione che antinsurrezionale. La pulsione di genocidio operava in modo molecolare. Per la maggior parte del tempo sobbolliva e di quando in quando si cristallizzava intorno a fatti di sangue (uccisioni, massacri, repressioni) che poco a poco si reiteravano. La guerra ne era l’esito parossistico: metteva in esecuzione e portava alla luce la minaccia che ogni sistema coloniale è pronto ad

agitare quando è in gioco la sua sopravvivenza: spargere quanto più sangue possibile, mandare in frantumi i mondi dei colonizzati e trasformarli in un ammasso informe di rovine, di corpi dilaniati, di esistenze spezzate per sempre, un luogo inabitabile. Di quella guerra Fanon diceva che aveva immerso le persone, vittime e carnefici, combattenti e civili, in un’atmosfera cruenta. A livelli diversi minacciava di trasformare tutti in statue di odio e di svuotare chiunque di ogni sentimento umano, a cominciare dalla pietà, dalla disponibilità a lasciarsi toccare, dal ricordo della propria vulnerabilità riguardo alle disgrazie e alla sofferenza dell’Altro. Lo sradicamento di ogni sentimento di pietà, questo grado zero dello scambio tra simili, aveva spalancato la strada alla generalizzazione delle pratiche disumane, facendo nascere nelle persone l’impressione tenace di «assistere a un’autentica apocalisse»34. Contro questo lavoro di piccone e alla distruzione che ne era la conseguenza, Fanon ritenne che la violenza fosse necessaria. Tale violenza aveva un duplice obiettivo: il sistema coloniale in quanto tale e il sistema di inibizioni di ogni genere che mantenevano i colonizzati sotto il giogo della paura, delle superstizioni e di vari complessi di persecuzione e d’inferiorità. Facendo tabula rasa dell’ordine oppressivo, la violenza permetteva di aprire lo spazio necessario alla creazione del nuovo. Rendendo l’ordine coloniale labile e inoperante, fungeva da strumento di risurrezione. Nelle intenzioni di Fanon, non si trattava tanto di conquistare lo Stato, quanto di generare un’altra modalità di formazione della sovranità. La violenza rigeneratrice della decolonizzazione, momento privilegiato dell’emersione del nuovo, mirava a produrre altre forme di vita. Aveva una dimensione incalcolabile e, per questa ragione, era essenzialmente imprevedibile. Una volta scatenata, poteva diventare ingovernabile. Da questo punto di vista essa era un potenziale strumento sia di salvezza sia di propagazione del rischio. 2. Società di oggetti e metafisica della distruzione Le società coloniali erano entità abbandonate dal sentimento di pietà. Non immaginavano se stesse come società di simili, ma erano, in linea di

diritto come di fatto, comunità della separazione e dell’odio. Era l’odio, paradossalmente, che le teneva insieme. La crudeltà era a tal punto un fatto normale, il cinismo era così aggressivo e sprezzante, che i rapporti di ostilità erano stati interiorizzati in modo gradualmente irrevocabile. In effetti i rapporti di strumentalizzazione tra dominanti e dominati erano tali da rendere quasi impossibile distinguere in totale chiarezza la parte del nemico interno da quella del nemico esterno. Prima di tutto il razzismo era il motore di una simile società e nello stesso tempo il suo principio di distruzione. E, nella misura in cui non esisteva nessun Io senza un Altro – giacché l’Altro è semplicemente un altro Io, anche nella figura della negazione –, dare la morte a un Altro equivaleva a dare la morte a se stessi. Il razzismo, secondo Fanon, non era quasi mai casuale. Ogni razzismo, in particolare quello contro i Negri, era sostenuto da una struttura che, a sua volta, era al servizio di quello che Fanon definiva un lavoro gigantesco di asservimento economico e biologico. In altre parole, il razzismo doveva essere analizzato in relazione a una bioeconomia e, nello stesso tempo, a una ecobiologia. Per un verso l’atto razzista consisteva in una dichiarazione arbitraria e originale di superiorità, destinata a consacrare la supremazia di un gruppo, di una classe o di una specie umana sulle altre. Per un altro, era connaturato al razzismo il costante tentativo di non sclerotizzarsi. Per conservare la propria virulenza ed efficacia, doveva rinnovarsi ogni volta, cambiare fisionomia, operare una metamorfosi. Fanon distingueva in particolare due tipi di razzismo. Si trattava da un lato di un razzismo senza belletti, primitivo e semplice, che secondo lui corrisponde al «periodo di sfruttamento brutale delle braccia e delle gambe dell’uomo»35. Era il razzismo dell’epoca della comparazione dei crani; della quantità e della configurazione dei solchi cerebrali che si cercavano di identificare; della labilità delle emozioni del Negro di cui si vuole intuire la logica; dell’integrazione subcorticale dell’Arabo che si vuole definire; della colpevolezza generica dell’ebreo che si vuole stabilire; della dimensione delle vertebre che si misura e degli aspetti microscopici dell’epidermide che si è intenti a determinare. Benché volgare, questa modalità del razzismo voleva essere razionale, se non addirittura scientifica: cercava di assumere autorevolezza dalla scienza e in particolare dalla biologia e dalla psicologia.

Dall’altro lato imperversava una forma di razzismo che Fanon chiamava culturale, di fatto risultante da una mutazione del razzismo volgare. Non si basava su un’equazione di tipo morfologico, ma si riferiva a forme particolari di esistenza che il colonialismo in particolare tentava di liquidare. Non potendo distruggerle, cercava di svalutarle oppure di renderle oggetti esotici. Gli ambiti più esposti a questo genere di lavoro insidioso erano quelli dell’abbigliamento, del linguaggio, delle tecniche, dell’alimentazione, del modo di sedersi, di riposarsi, di divertirsi, di ridere e soprattutto il rapporto con la sessualità. Oltre a queste due forme di razzismo legate a una bioeconomia, Fanon continuò a insistere sulla natura delle ferite provocate dal razzismo: «Il razzismo riempe di lividi e sfigura il volto della cultura che lo pratica»36. In modo ancor più netto affermava che il razzismo soffriva in fondo di una forma elementare di nevrosi e comportava in tutti i casi un elemento di coinvolgimento affettivo simile a quello che si riscontra in certe psicosi. Era collegato ai deliri, soprattutto di carattere passionale. A questa triplice struttura nevrotica, psicotica e delirante, Fanon aggiungeva una dimensione rimasta relativamente inesplorata da parte dei critici: il razzismo era un modo con cui il soggetto deviava sull’Altro l’intima vergogna che aveva di se stesso, trasferendola su un capro espiatorio. Fanon definì transitivismo questo meccanismo di proiezione. Con questo termine intendeva non il modo in cui una cultura non nega o non sconfessa le proprie istanze deteriori e le proprie pulsioni, ma il meccanismo con cui le getta addosso a un genio malvagio (il Negro, l’ebreo, l’Arabo) che si è costruito e che fa apparire nei suoi momenti di panico o di crudeltà. Grazie a questo genio malvagio, quella cultura si crea un nemico interiore e, con accessi di nevrosi sociale, erode e distrugge dall’interno i valori che comunque reclama come propri. Al razzismo di superficie, rozzo e primitivo, si contrappone un’altra forma più insidiosa, che consiste nello scaricarsi costantemente da ogni senso di colpa. Per Fanon è così perché ogni espressione razzista è sempre, da qualche parte, abitata da una cattiva coscienza che cerca di soffocare. È questa una delle ragioni per cui, dice sempre Fanon, il razzista si nasconde o tenta di dissimularsi. Non è escluso che questa tendenza a nascondere e a dissimulare sia

legata a un aspetto fondamentale dei rapporti che il sentimento razzista intrattiene con la sessualità in generale. Infatti, dice Fanon, una società razzista è una società preoccupata dalla perdita della propria potenza sessuale. È anche una società abitata dalla «nostalgia irrazionale di epoche di straordinaria licenza sessuale, di scene orgiastiche, di stupri non sanzionati, di incesti non repressi»37. Orge, stupri e incesti non svolgono esattamente le stesse funzioni nella costituzione delle fantasie razziste. Per Fanon hanno però un tratto in comune: reagire all’istinto di vita. Il quale istinto ha un suo doppio – la paura del Negro, la cui presunta potenza genitale, libera dalla morale e dalle interdizioni, rappresenta un reale pericolo biologico. Veniamo ora alle forme di sofferenza provocate dal razzismo. A che genere di tormenti è esposto chi è bersaglio del razzismo nelle diverse forme che abbiamo enumerato? Come si caratterizzano le ferite che gli sono inflitte, le piaghe che lo tormentano, i traumi che subisce e la specie di follia che sperimenta? Per rispondere a queste domande è necessario esaminare da vicino il modo in cui il razzismo funziona e costituisce dall’interno il soggetto esposto alla sua furia. Prima di tutto, il soggetto razzializzato è il prodotto del desiderio di una forza esterna, che non è stata scelta ma che paradossalmente avvia e sostiene il tuo essere. Una grandissima parte della sofferenza descritta da Fanon è dovuta all’accoglienza che il soggetto riserva a questa forza esterna, che in tal modo si trasforma in momento costitutivo fin dall’inizio. Questa costituzione del soggetto nel desiderio di subordinazione è una delle modalità specifiche, interiorizzate, del dominio razziale. È di nuovo necessario prendere sul serio il processo con cui il soggetto coloniale si rivolge a se stesso e si affranca dalle condizioni del suo emergere nella sudditanza e per la sudditanza. La vita psichica è fortemente coinvolta in questo processo di affrancamento che, per Fanon, deriva in via naturale da una pratica assoluta della violenza e da uno strapparsi da sé, se occorre, ricorrendo all’insurrezione. Poi, essere ridotto alla stato di soggetto razziale significa essere immediatamente inserito nella posizione dell’Altro. L’Altro è chi deve dimostrare ogni volta di essere un essere umano, di meritare di essere considerato un simile; di essere, come spesso ripete Fanon, «un uomo uguale agli altri», «un uomo come gli altri», di essere come noi, di essere

noi, essere dei nostri. Essere l’Altro significa sentirsi sempre in una posizione instabile. La sua tragedia è che, a causa dell’instabilità, l’Altro è continuamente sul chi vive. Vive nell’attesa di un ripudio. Fa di tutto perché questo non succeda, pur sapendo che succederà necessariamente e in un momento che egli non ha modo di controllare. Di colpo ha paura di mostrarsi com’è realmente, preferendo all’autenticità il mascheramento e la simulazione, convinto che la sua esistenza sia stata coperta di vergogna. Il suo io è un nodo di conflitti. Scisso e incapace di fare fronte al mondo, come potrebbe avviarne la formazione? Come potrebbe cominciare ad abitarlo? «Volevo semplicemente essere un uomo tra altri uomini [...] Volevo essere uomo, nient’altro che questo»38. Ed ecco che «mi scoprivo oggetto in mezzo ad altri oggetti»39. Il desiderio di essere uomo tra altri uomini è contrastato dalla differenza stabilita per decreto. Dal soggetto razziale, cioè definito dalla differenza, il razzismo pretende un “comportamento da Negro”, ovvero da uomo a parte, perché il Negro rappresenta quella parte degli uomini che sono tenuti da parte – la parte da parte. Costoro costituiscono una specie di resto, comandato al disonore e all’ignominia. Corpo-oggetto, soggetto nell’oggetto, ma di che oggetto parliamo? Si tratta di un oggetto reale e materiale, come un mobile? Si tratta di immagini di oggetti – il Negro come una maschera? O si tratta di un oggetto spettrale e proprio dell’immaginario, al limite del desiderio e della paura – la fantasia del Negro che mi stupra, mi frusta e mi fa urlare senza che io sappia con precisione se l’urlo sia di piacere o di paura? Probabilmente si tratta di tutte queste cose insieme e ancor più di oggetti parziali, di membra disgiunte che, invece di formare un corpo, spuntano da chissà dove: «In quel bianco giorno invernale il mio corpo mi ritornava disteso, disgiunto, risistemato, gettato nel lutto»40. Lutto invernale in quel giorno bianco, bianco invernale in quel giorno di lutto, in un luogo vuoto, il tempo di un’asportazione e il sipario si chiude. La persona umana essenziale, testimone della propria dissoluzione nella cosa, è d’un tratto spogliata di ogni sostanzialità umana e rinchiusa in un’opprimente oggettività. Un altro mi ha «fissato», «nel senso in cui si fissa un preparato con un colorante»41. Con il «sangue rappreso» eccomi ormai prigioniero di una cerchia infernale42. Un’istanza rappresentativa del “Bianco” ha preso il mio posto e ha reso

la mia coscienza un suo oggetto. Adesso quell’istanza respira al mio posto, pensa al mio posto, parla al mio posto, mi sorveglia, agisce al mio posto. Nello stesso tempo quell’istanza-padrone ha paura di me. Io faccio emergere in lui tutti gli oscuri sentimenti nascosti nelle penombre della cultura: terrore e orrore, odio, disprezzo, insulto. L’istanza-padrone s’immagina che io possa farle subire ogni sorta di sevizie infamanti, non molto diverse da quelle che m’infligge. Io alimento in lei paura e ansia che non sono prodotte dal mio desiderio di vendetta e ancor meno dalla collera e dalla rabbia impotente che mi abitano, ma dallo statuto di oggetto fobogeno che mi ha affibbiato. Ha paura di me non a causa di quello che gli ho fatto o che gli ho fatto vedere, ma a causa di quello che lui ha fatto a me e che pensa potrei per rivalsa fare a lui. Le formazioni storiche razziste sono dunque per definizione produttrici e distributrici di follie miniaturizzate di ogni genere, che racchiudono al proprio interno nuclei incandescenti di una pazzia che si sforzano di liberare a piccole dosi con le modalità della nevrosi, della psicosi, del delirio e perfino dell’erotismo. Esse secernono nello stesso tempo situazioni oggettive di follia. Situazioni che avviluppano e strutturano l’esistenza sociale nel suo insieme. Poiché tutti sono presi nelle reti di questa violenza, nei suoi diversi specchi e nei suoi vari riflessi, tutti ne sono i superstiti. Essere da una parte o dall’altra non significa affatto tirarsi o trovarsi fuori dal gioco: tutt’altro. 3. Paure razziste Il razzista, dunque, non ha solo una tendenza alla dissimulazione. È anche abitato dalla paura: nel caso di cui ci occupiamo qui, dalla paura del Negro, l’Altro che è costretto a vivere la propria esistenza sotto il segno della duplicità, del bisogno e dell’antagonismo. In genere il bisogno è pensato nella lingua della natura e dei processi organici e biologici. Infatti il Negro respira, beve, mangia, dorme ed evacua. Il suo è un corpo naturale, un corpo di bisogni, un corpo fisiologico. Non soffre allo stesso modo di un corpo umano espressivo. In fondo non può ammalarsi, perché comunque sia il suo attributo è la precarietà. Non è mai stato un corpo sano. La vita negra è carente, quindi povera. In una situazione coloniale il razzista dispone della forza. Ma questo

non basta per eliminare la paura. Infatti il razzista ha paura del Negro anche quando ne ha decretato l’inferiorità. Come si può avere paura di chi è stato svalutato, di qualcuno cui è stato in precedenza sottratto ogni attributo di forza e di potenza? Del resto, non si tratta solo di paura, ma di un miscuglio di paura, di odio e di amore rimosso. È questo infatti il tratto caratteristico del razzismo antinegro: davanti al Negro non si riesce a comportarsi e ad agire in modo “normale”. La cosa riguarda sia il Negro stesso, sia chi gli sta davanti. Riguardo alla fobia, Fanon osserva: «È una nevrosi caratterizzata dal timore ansioso di un oggetto (in senso lato qualsiasi cosa esterna all’individuo) o, per estensione, di una situazione»43. Il Negro è un oggetto che desta timore e disgusto. Il timore, l’angoscia, la paura del Negro come oggetto emanano da una struttura infantile. In altre parole, esiste una struttura infantile del razzismo legata a un incidente che provoca insicurezza e, in particolare negli uomini, all’assenza della madre. Fanon ritiene che la scelta dell’oggetto fobogeno sia determinata: «Questo oggetto non spunta dalla notte del Nulla»44. È successo un incidente. Questo incidente ha provocato un’emozione nel soggetto. «La fobia è la presenza di quell’emozione nel sostrato del mondo del soggetto». C’è «organizzazione, messa in forma». Perché, naturalmente, «l’oggetto non ha bisogno di esserci, basta che esista: è un possibile». È un oggetto «dotato di brutte intenzioni e di tutti gli attributi di una potenza malefica». Nell’uomo che ha paura c’è dunque qualche cosa del pensiero magico45. Chi odia il Nero, chi prova paura nei suoi confronti o chi è sopraffatto dall’angoscia nell’incontro reale o immaginario con il Nero, riproduce un trauma che provoca insicurezza. Non sta agendo in modo razionale né logico. Non pensa affatto. È mosso da un sentimento e ne segue le leggi. Nella maggior parte dei casi il Negro è un aggressore più o meno immaginario. Un oggetto spaventoso che risveglia il terrore. In seguito Fanon esamina il ruolo della sessualità in questa dinamica di paura razzista. Seguendo Angelo Hesnard, avanza l’ipotesi che il motivo della paura derivi dal timore che il Negro possa «farmi di tutto, non banali sevizie, ma sevizie sessuali, cioè immorali, infamanti»46. Nell’immaginario razzista il Negro, in quanto soggetto sessuale, è l’equivalente di un oggetto spaventoso e aggressivo, capace di infliggere

sevizie e traumi alla sua vittima. Poiché si suppone che in lui tutto passi dal piano genitale, le sevizie di cui potrebbe essere l’autore possono risultare particolarmente umilianti. Se arrivasse davvero a violentarci o semplicemente a frustarci, il disonore non nascerebbe solo dal nostro coinvolgimento forzato in un’esistenza divenuta vergogna; sarebbe anche l’esito dello stupro di un corpo considerato umano da parte di un corpo-oggetto. Eppure, che cosa c’è di più incantevole e più piacevole, in una prospettiva dionisiaca e sadomasochista, di un godimento attraverso l’oggetto invece del godimento attraverso un membro, quello di un altro soggetto? Si capisce allora il posto privilegiato occupato dalla sessualità dionisiaca e da quella sadomasochista nella fantasmagoria del razzismo. Nella sessualità dionisiaca, del genere baccanale, il Negro è fondamentalmente un membro – non uno qualunque: un membro sbalorditivo. Nella sessualità di tipo sadomasochista è uno stupratore. Il soggetto razzista, in questa prospettiva, è chi grida in continuazione: “Il Negro mi violenta! Il Negro mi frusta! Il Negro mi ha stuprato!”. Ma, come dice Fanon, si tratta in fondo di una fantasia infantile. Dire “Il Negro mi violenta” o “mi frusta” vuol dire “Fammi male” o “Il Negro mi fa male” vuol dire “Io mi faccio male come me lo farebbe il Negro se fosse davvero al mio posto; se ne avesse l’opportunità.” Al centro delle due forme di sessualità c’è il fallo, che non è solo un luogo astratto, un semplice significante o un segno di differenziazione – l’oggetto staccabile, resecabile, e offerto alla ritrascrizione simbolica di cui parlava Lacan. Certo, il fallo non si riduce al pene in quanto tale. Ma non è nemmeno l’organo senza corpo cui una certa tradizione psicoanalitica occidentale è così legata. Al contrario, nelle situazioni coloniali – e quindi razziste – rappresenta ciò che della vita si manifesta nel modo più puro come turgore, come spinta e come intrusione. È ben chiaro che non sarebbe possibile parlare di spinta, di turgore e intrusione senza restituire al fallo, se non la sua fisicità, almeno la sua carne viva, la sua capacità di attestare gli ambiti del sensibile, di provare sensazioni, vibrazioni e fremiti di ogni genere (un colore, un sentore, un tocco, un peso, un odore). Nei contesti di dominio razziale e quindi di svilimento sociale, il fallo negro è percepito prima di tutto come un’enorme

potenza di affermazione. È il nome di una forza totalmente affermativa e insieme trasgressiva, che non è limitata da nessun divieto. In quanto tale il fallo contraddice radicalmente il potere razziale che, oltre a definirsi in primo luogo come potere di vietare, si autorappresenta anch’esso dotato di un fallo che funge da suo emblema e ornamento, e proprio da dispositivo centrale della sua disciplina. Quel potere è un fallo e il fallo è il nome ultimo del divieto. In quanto tale, cioè al di là di ogni divieto, può allegramente trafiggere i suoi sottomessi. A questo titolo pretende di agire come sorgente di movimento e di energia, può operare come se ogni fatto esistesse nel fallo e per mezzo del fallo, come se, in realtà, il fallo fosse il fatto. La credenza per cui il potere, in fin dei conti, sarebbe lo sforzo che il phallos applica su di sé per diventare Figura sta alla base di ogni dominio coloniale. In realtà essa continua a funzionare come il non-detto, il sotterraneo, addirittura l’orizzonte della nostra modernità, anche se non ne vogliamo assolutamente sentir parlare. Lo stesso vale per la convinzione che il fallo sarebbe fallo solo nel movimento con il quale cerca di sottrarsi al corpo e di darsi una sua autonomia. E sono questo tentativo di distacco oppure questa spinta a produrre spasmi, poiché il potere in una situazione coloniale e razzista declina la propria identità proprio per mezzo di tali spinte spasmodiche. Gli spasmi dai quali si crede di riconoscere e identificare il potere e le sue vibrazioni non fanno che disegnare il volume cavo e appiattito di questo stesso potere. Per quanto il fallo si dilati, infatti, tale dilatazione è sempre seguita da una contrazione e da una dissipazione, da una detumescenza. Del resto, nelle condizioni coloniali e razziste, il potere che fa urlare il Negro e che gli strappa dal petto grida incessanti non può essere che un potere accoppiato alla sua bestia – al suo spirito-cane, al suo spirito-maiale, al suo spirito-canaglia. Può trattarsi soltanto di un potere dotato di materia corporea, di una carcassa il cui fallo è la manifestazione più lampante mentre invece la superficie è messa in ombra. Un potere che è phallos nel senso suggerito da Fanon non può presentarsi ai suoi sudditi che rivestito da un teschio. È quel teschio che li spinge a urlare così e che fa della vita del Negro una vita da negro, una semplice vita zoologica. Storicamente il linciaggio degli uomini neri nel Sud degli Stati Uniti

all’epoca dello schiavismo e dopo la proclamazione dell’emancipazione si origina in parte dal desiderio di castrarli. In preda all’ansia riguardo alla propria potenza sessuale, il “piccolo Bianco” razzista e il proprietario della piantagione sono presi dal terrore al pensiero del “gladio nero” del quale temono non solo l’ipotetico volume, ma anche l’essenza penetrante e prorompente. Lo scrittore Michel Cournot diceva più o meno la stessa cosa in termini più scurrili: «La spada del Nero è una spada. Quando ha trafitto tua moglie, lei ha sentito qualcosa» che appartiene alla categoria delle rivelazioni. Ma ha anche lasciato dietro di sé una voragine. E in quella voragine, commenta Cournot, «il tuo pendaglio è perduto». E segue il paragone della verga del Nero con la palma e con l’albero del pane, che non si ammoscerebbe per niente al mondo. In quell’atto osceno che è il linciaggio si cerca allora di proteggere la presunta purezza della donna bianca mantenendo il Nero all’altezza della sua morte. Si vuole portarlo a contemplare l’oscuramento e l’estinzione di quello che, nella fantasmagoria razzista, è considerato il suo “sole sublime”, il suo phallos. La lacerazione della sua mascolinità deve passare dalla riduzione a campo di rovine dei suoi organi genitali, la loro separazione dalle forze vitali. Questo perché, come afferma Fanon, in questa configurazione il Negro non esiste. O, meglio, il Negro è soprattutto un membro. Avere paura di colui al quale si è prima sottratto ogni attributo di forza non vuol dire, però, essere incapaci di fargli violenza. La violenza esercitata nei suoi confronti si fonda su una mitologia, quella che accompagna sempre la violenza dei dominanti. Essi, lo ricorda sempre Fanon, hanno con la propria violenza, quella di cui sono gli autori, un rapporto che passa in genere dalla mitizzazione, cioè dalla costruzione di un discorso staccato dalla realtà e dalla storia. La funzione del mito consiste così nel rendere le vittime responsabili della violenza di cui sono fatte oggetto. Alla base di questo mito non si trova solo una scissione originaria tra “loro” e “noi”. Il vero problema è questo: che loro non siano come noi, non va bene. Ma non va nemmeno bene che diventino come noi. Per chi domina, le due opzioni sono tanto assurde quanto insopportabili. Si crea così una serie di folli situazioni che per perpetuarsi richiedono

continuamente violenza, ma una violenza che ha una funzione mitica, in quanto è costantemente scissa dalla realtà. Il dominante non la riconosce e continua altresì a negarla o a definirla in modo eufemistico. La violenza esiste, ma quelli che la praticano restano invisibili e anonimi. Anche quando la sua esistenza è dimostrata, non ha un soggetto. Poiché il dominante non è assolutamente responsabile, può essere stata provocata solo dalle vittime stesse. Così, per esempio, se sono uccise, è in ragione di quello che sono. Per evitare di essere uccise, basta che non siano quello che sono. Oppure, se le si uccidono, può essere solo incidentalmente, per danni collaterali. Per evitare di essere uccise, basta che le vittime non si trovino proprio là dove stanno in quel preciso momento. O ancora, se finiscono uccise, è perché pretendono di essere come noi, il nostro doppio. E se uccidiamo il nostro doppio, ci assicuriamo la sopravvivenza. Basta allora che siano diverse da noi. Questo continuo rinnovarsi della suddivisione tra “loro” e “noi” è una delle condizioni della riproduzione su scala molecolare della violenza di tipo coloniale e razziale. Ma, come è possibile constatare ai nostri giorni, sopravvivere alle condizioni storiche della sua nascita è nella natura della violenza razziale. Fanon, riflettendo in particolare sulla violenza razziale, parte da una domanda in apparenza banale: che cosa succede al momento dell’incontro tra il Nero e il Bianco? Secondo lui, l’incontro avviene sotto il segno di un mito condiviso: il mito del Negro. In realtà, rileva Fanon, la cultura europea possiede una imago del Negro che i Negri stessi hanno interiorizzato e riprodotto fedelmente, anche nelle circostanze più banali della vita. In che cosa consiste questa imago? In questa economia immaginaria il Negro non è un uomo ma un oggetto. Più precisamente, è un oggetto fobico che in quanto tale provoca paura e orrore. Tale oggetto fobico lo si scopre subito attraverso lo sguardo. 4. Decolonizzazione radicale e festa dell’immaginazione Soffermiamoci quindi su questo momento fondante che, per Fanon, ha un nome: la decolonizzazione radicale. Nella sua opera essa si apparenta a una forza del rifiuto e si contrappone direttamente al senso di assuefazione. Il rifiuto costituisce il momento prioritario del politico e

del soggetto. Infatti il soggetto del politico – o il soggetto fanoniano in assoluto – nasce al mondo e a sé mediante quel gesto inaugurale che è la capacità di dire di no. Rifiuto di che cosa se non di sottomettersi, e di sottomettersi prima di tutto a una rappresentazione? Infatti nei contesti razzisti “rappresentare” equivale a “sfigurare”. La volontà di rappresentazione è fondamentalmente una volontà di distruzione. Si tratta di ridurre qualcosa a niente con la violenza. Il rappresentare consiste dunque sia in un gioco di ombre sia in una devastazione, anche se dopo la devastazione esiste ancora qualcosa che appartiene all’ordine precedente. In quanto operazione simbolica, la rappresentazione non apre necessariamente la strada alla possibilità di un riconoscimento reciproco. In primo luogo, nella coscienza del soggetto che rappresenta, il soggetto rappresentato corre sempre il rischio di essere trasformato in un oggetto o in un giocattolo. Facendosi rappresentare, si priva della capacità di creare, per il mondo e per se stesso, un’immagine di sé. È costretto a indossarne una contro la quale dovrà costantemente combattere. È l’uomo alle prese con un’immagine che gli è stata appiccicata addosso e dalla quale stenta a disfarsi, della quale non è l’autore e nella quale non si riconosce affatto. Poi, invece di essere «pienamente quello che è»47 nei limiti del possibile, è condannato a vivere la propria coscienza come una mancanza. Nella storia dell’incontro tra l’Occidente e i mondi remoti c’è un modo di rappresentare l’Altro svuotandolo di ogni sostanza e lasciandolo senza vita, «in un corpo a corpo con la morte, una morte prima della morte, una morte nella vita»48. È questa la teoria negativa della rappresentazione sottesa all’idea che Fanon si è fatto della violenza razziale, che non opera solo attraverso lo sguardo, ma sfrutta dispositivi di ogni genere, tra i quali, per esempio, la separazione e la segregazione spaziale, una divisione razzista del “lavoro sporco” (in seguito alla quale, a mo’ di esempio, i tirailleurs senegalesi devono reprimere nel sangue l’insurrezione malgascia), e tecnologie come la lingua, la radio, perfino la medicina, dotate alla bisogna di un potere letale. Alle spalle lascia tutta una serie di superstiti che sono, sostanzialmente, persone rinchiuse in un corpo a corpo con l’ombra nella quale sono state calate e che si agitano per squarciarla e raggiungere così la chiarezza di se stessi.

Se Fanon si sofferma tanto sul lato in ombra della vita in situazioni di follia (dato che il razzismo è considerato, in quest’ottica, un caso particolare di disturbo psichico), lo fa sempre per delineare un momento affermativo e quasi solare, quello del reciproco riconoscimento che annuncia l’avvento “dell’uomo come tutti gli altri”. L’uomo “come gli altri uomini” ha un corpo. Ha piedi, mani, un petto, un cuore. Non è un ammasso di organi. Respira. Cammina. Come non ci sono corpi se non animati e in movimento – corpi che respirano e che camminano –, così non esiste un corpo che non abbia un nome. Un nome è diverso da un soprannome o un nomignolo: se chi lui sia non ha grande importanza lo si chiamerà sistematicamente Mohammed o Mamadou. Il soprannome, dice Fanon, è il risultato della falsificazione di un nome originale e si basa su un’idea che sappiamo «ripugnante»49. Il nome si coniuga con la faccia. Non c’è riconoscimento reciproco se non si rivendica la faccia dell’Altro come simile o, almeno, non lontana dalla mia. Quest’atto di rivendicazione della faccia dell’Altro come volto del quale io sono a priori il guardiano si contrappone direttamente al gesto di cancellazione che è, per esempio, la caccia ai suoi tratti fisiognomici. Infine, l’Altro è tale in quando ha un posto tra di noi, in quanto trova un posto in mezzo a noi e noi gli facciamo posto tra di noi50. Il riconoscimento dell’umano che io sono nel viso dell’uomo o della donna che ho davanti è la condizione perché “l’uomo che è su questa terra” – questa terra in quanto casa di tutti – sia più di un ammasso di organi e più di un Mohammed. Se è vero che questa terra è la casa di tutti, non si può più pretendere che ognuno se ne torni a casa sua. Il paziente di Fanon non si riconosce soltanto dalla sua capacità di rifiuto. Si distingue anche dalla sua disponibilità alla lotta. Per dire lotta, Fanon ricorre a una serie di termini: la liberazione, la decolonizzazione, il disordine assoluto, cambiare l’ordine del mondo, l’insurrezione, l’uscita dalla grande notte, la venuta al mondo. La lotta non è spontanea. È organizzata e cosciente. È, secondo lui, il frutto di una «scelta radicale»51. Ha un ritmo suo. La lotta è opera di uomini nuovi, il suo attore privilegiato è il popolo, il soggetto collettivo per eccellenza. È all’origine di nuovi linguaggi. Punta a far emergere una nuova umanità. Coinvolge tutto: i muscoli, i

pugni nudi, l’intelligenza, le sofferenze che non si risparmiano, il sangue. È un gesto nuovo, suscita nuovi ritmi di respirazione. Il lottatore di Fanon è un uomo che respira in modo nuovo, mentre le tensioni muscolari si allentano e l’immaginazione fa festa. La festa dell’immaginazione prodotta dalla lotta: ecco il nome che Fanon dà alla cultura. La festa è scandita dalla trasmutazione delle figure picaresche e dal riaffiorare di narrazioni epiche, un lavoro immenso fatto sugli oggetti e sulle forme. È il caso del legno e soprattutto delle maschere che passano dalla prostrazione all’animazione dei volti. È anche il caso delle ceramiche (brocche, vasi, tinture, vassoi). Con la danza e il canto melodico, il colonizzato ristruttura la propria percezione. Il mondo perde il suo carattere insopportabile e si saldano le condizioni per l’inevitabile confronto. Per questo non c’è lotta che non comporti necessariamente lo scricchiolio delle vecchie sedimentazioni culturali. Tale lotta è un lavoro collettivo organizzato. Vuole chiaramente rovesciare la storia. Il paziente di Fanon cerca di ridiventare l’origine del futuro. 5. La relazione di cura Tra i diversi malati prodotti dalla società dell’inimicizia, Fanon si occupò in particolare di persone sofferenti per impotenza, di donne violentate, di vittime della tortura, di soggetti colpiti da ansia, stordimento e depressione, di tanti (anche bambini) che avevano ucciso o torturato, di molti che avevano perso i genitori, che soffrivano di fobie di ogni tipo, di combattenti e di civili, di Francesi e Algerini, di profughe affette da psicosi puerperale, di altri arrivati ai limiti della disperazione e che, non potendone più, avevano tentato il suicidio, di esseri profondamente disturbati, che avevano perso la voce, che si mettevano a urlare, che raccontavano come il proprio stato di agitazione potesse portare a comportamenti furiosi e al delirio (soprattutto di persecuzione). Ma non solo. Si occupava anche di uomini e donne di ogni età e di ogni professione, di pazienti che presentavano disturbi mentali gravi, disturbi del comportamento; di malati posseduti da idee deliranti di persecuzione, che emettevano grida roche e urla in qualsiasi momento e

in qualsiasi luogo; che erano colpiti da un’agitazione psicomotoria intermittente, diurna o notturna; di malati talora aggressivi e del tutto inconsapevoli della loro malattia; di pazienti stenici e reticenti; di pazzi che potevano anche essere razzisti; di soggetti, come qualche missionario, ritornati dall’Africa dove si erano distinti per un comportamento violento e sprezzante verso gli indigeni, soprattutto verso i bambini; di ipocondriaci; di esseri umani il cui ego e i cui rapporti con il resto del mondo avevano subito una tale alterazione da non permettere loro di trovare più il proprio «posto tra gli uomini»52. Ma si trattava soprattutto di esseri umani precipitati in stati depressivi quasi continui, eccitati, irritabili, in preda alla collera e talora alla rabbia, con crisi di pianto e lamenti, messi davanti a una sensazione di morte imminente, faccia a faccia con i boia (visibili o invisibili) che loro imploravano senza posa. Questo mondo dell’odio, della sofferenza e della guerra, intessuto di suppliche di pietà senza risposta, di appelli a risparmiare gli innocenti, è il mondo al quale Fanon prestò la propria attenzione e soprattutto diede ascolto. Di quel mondo s’impegnò pazientemente a ricostruire la narrazione e volle restituire la voce e il volto, lungi da ogni compiacimento pietista. Il malato, diceva Fanon, è «prima di tutto uno che soffre e chiede di essere soccorso»53. Poiché «la sofferenza suscita compassione e tenerezza», l’istituto ospedaliero, che è prima di tutto «un istituto di guarigione, un istituto terapeutico», non dovrebbe trasformarsi «in una caserma»54. La perdita di libertà, la perdita del senso del tempo, della capacità di vigilare su se stessi e di preoccuparsi di sé, la perdita di relazione e di mondo, per Fanon, costituivano il dramma autentico del malato e dell’individuo alienato. Era così perché «l’uomo sano è un uomo sociale»55. La malattia «lo sottrae» dagli altri esseri sociali e «lo isola da loro». Lo separa dal mondo, «lasciandolo impotente, solo, con un male che è rigorosamente suo»56. Il crollo totale o parziale dell’integrità biofisica, psichica e mentale del malato minaccia il sistema di relazioni senza il quale il paziente è respinto fuori dal mondo e incasermato. Infatti, dove un altro o, più precisamente, il mio “prossimo” o “simile” non si rivela più a me stesso e dove io mi rendo incapace di «incontrare il volto dell’altro», di «stare con altri uomini», miei simili, lì è la malattia57. Poiché la malattia mi pone in uno stato che non mi permette di

incontrare il mio prossimo, il mio simile, altri esseri umani, ogni atto di autentica guarigione presuppone la ricostruzione di quel legame e quindi di qualcosa che ci sia comune. La ricostituzione del comune comincia con lo scambio della parola e la rottura del silenzio: «È la lingua che rompe il silenzio e i silenzi. Allora è possibile comunicare o essere in comunione. Il prossimo, in senso cristiano, è sempre un complice [...]. Dal comune potranno partire le intenzioni creatrici»58. Se per il malato comunicare, essere in comunione e intrecciare complicità con i suoi simili sono tutti mezzi per mantenere il contatto con il mondo ed esserne partecipe, ricordarsi di se stessi e proiettarsi nel futuro sono altrettanto necessari per tornare alla vita e quindi essenziali in ogni avventura terapeutica. La relazione con il tempo che scorre – la data che va tenuta a mente, un calendario che permette di stabilire un programma, ieri, domani, i giorni che passano e non si assomigliano, la festa dell’Aid el Kebir, il suono dell’Angelus, le campane di Pasqua – è un punto chiave di ogni gesto di cura. Infatti, una volta ospedalizzati certi malati «sollevano tra loro e il mondo esterno uno schermo molto opaco dietro al quale s’immobilizzano»59. Vinti dall’inerzia, si abbandonano. Così, nell’atmosfera «pesante e irrespirabile» dell’ospedale, la vita del ricovero è fatta di interminabili dispute tra malati, che gli infermieri devono continuamente separare, «rischiando essi stessi di subire qualche colpo»60. Gli spazi esigui e la tendenza dei malati a «rovesciare il cibo sul tavolo e per terra, a piegare i piatti di ferro e a rompere i cucchiai» è tale che «le attività di pulizia assorbono una parte importante del lavoro del personale»61. Prevale la paura. L’infermiere teme il malato. Il barbiere esige che i pazienti siano legati per raderli. «Per paura del malato o per punirlo» lo si lascia «in una cella, talora senza camice, senza materasso e senza lenzuola», quando, a titolo di prevenzione, non è puramente e semplicemente «legato»62 al letto di contenzione. Accovacciato, allungato, sdraiato o seduto, il paziente non si lascia soltanto andare. I suoi punti di riferimento temporali sono scossi dal profondo. Quello che prima costituiva il suo mondo gli crolla addosso. All’appiattimento del tempo cronologico si aggiunge la degenerazione del linguaggio. Si accentua la scissione tra le funzioni espressive e quelle di significato. Il riferimento è neutralizzato e il significante è distrutto. Si

riduce la capacità di riallacciarsi alla realtà del mondo e di effettuare nuovamente l’incontro con l’altro attraverso il discorso. L’atto della parola non è più necessariamente il segno manifesto di un’attività cosciente. Il linguaggio, staccato dalla coscienza, è solo la statua reificata della malattia. Semidisteso, con gli occhi chiusi, il paziente penetra nella zona dell’inaccessibilità e dell’oblio, l’oblio del vasto mondo. In tali condizioni la relazione di cura consiste certamente nell’interrompere il corso inesorabile del decadimento, ma ha soprattutto lo scopo di ricondurre il malato al suo essere e alle sue relazioni con il mondo. Affinché la malattia ed eventualmente la morte non s’impadroniscano dell’avvenire e della vita nel suo insieme, la relazione di cura deve diventare riconoscimento del malato e accompagnamento del paziente nei suoi sforzi di rinascita al mondo. Deve impedirgli di morire prima del tempo, di pensare e di agire come se fosse già morto, come se non contasse più il tempo dell’esistenza quotidiana. Deve incitarlo a coltivare il suo interesse per la vita. Da qui, afferma Fanon, «l’attenzione costante per riportare ogni frase e ogni gesto, ogni espressione del volto» del paziente alla malattia che lo ha colpito63. Uno dei pazienti di Fanon, un poliziotto, pratica il suo mestiere – la tortura. È il suo lavoro e per questo lo pratica serenamente. La tortura stanca, è vero. Ma dopo tutto si tratta di una cosa normale, logica e razionale, fino al giorno in cui egli comincia a comportarsi a casa come fa sul lavoro. Mentre prima non era mai stato così, ecco che adesso lo è. In clinica incontra uno degli uomini che ha torturato. L’incontro è insopportabile per lui come per l’altro. Come può far capire, prima di tutto a se stesso, di non essere diventato matto? La violenza che è stato indotto a produrre lo rinchiude ormai nel personaggio del pazzo. Per uscirne dovrà forse dar fuoco al proprio corpo? L’altro paziente di Fanon è preso dalla collera e dalla furia. Ma non è posseduto dal complesso di immolazione nel fuoco. I suoi testicoli sono quasi bruciati durante una terribile seduta di tortura. Soffre d’impotenza e la sua virilità ne è colpita. Non sa che fare della violenza che è in lui a causa della violenza subita. Sua moglie è stata probabilmente violentata. Due casi di violenza, dunque – uno inflitto esteriormente ma che

produce l’altro, quello che abita il soggetto interiormente e provoca in lui rabbia, collera e talora disperazione. Questa rabbia e questa collera subite costituiscono forme primordiali di sofferenza. Ma la sofferenza va ben oltre. Si attacca alle immagini stesse della memoria. La forza del ricordo ne è erosa. La memoria funziona ormai solo in frammenti e residui, e in modalità patogena. Ammassi di desideri rimossi che vengono alla luce solo mascherati; tutto o quasi è diventato fraintendibile. Il soggetto è stretto in una catena di eventi traumatici che gli suscitano repulsione, risentimento, collera, odio e rabbia impotente. Per venirne fuori, suggerisce Fanon, occorre ripercorrere le tracce di chi è stato vinto e ricostruirsi una genealogia. Occorre uscire dal mito e scrivere la storia, viverla non in modo isterico ma in base al principio per il quale “il mio fondamento sono io”. 6. Il doppio inaudito Quel poliziotto non vuole più sentire urla. Non lo fanno dormire. Per liberarsi da quel clamore notturno deve chiudere ogni volta le imposte prima di mettersi a letto, sigillare le finestre anche nelle notti di calura estiva e riempirsi le orecchie di cotone. Quell’ispettore non smette più di fumare. Ha perso l’appetito e ha il sonno turbato da interminabili incubi. «Appena incontro un’opposizione mi viene voglia di picchiare. Anche fuori del lavoro. Ho voglia di lavorarmi i ragazzi che mi sbarrano la strada. Non ci vuole niente. Facciamo un esempio. Vado a prendere i giornali all’edicola. C’è molta gente. Tocca aspettare per forza. Allungo un braccio (il tipo dell’edicola è un amico) per prendere i giornali. Qualcuno nella coda mi fa, con una certa aria di sfida: “Aspetti il suo turno”. Be’ ho voglia di dargliele e dico tra me e me: “Vecchio mio, se ti avessi per un po’ tra le mani, poi non faresti tanto lo sbruffone”»64. In realtà è attanagliato dalla voglia di picchiare. Tutto. Tutti quanti. Dappertutto, anche a casa. Non gli scappa nessuno, né i figli né, ancor meno, la moglie che ha il torto di rivolgergli la parola e dare un nome al male che lo tormenta: «Davvero, sei diventato matto…»65. Per reazione «si è scagliato su di lei, l’ha colpita e l’ha legata a una sedia, dicendole: “T’insegnerò una volta per tutte che sono io il padrone di questa baracca”».

Una giovane francese di ventun anni si sente nauseata al funerale del padre. Ha sentito alcuni ufficiali dare di lui un ritratto che non corrispondeva all’immagine che ne aveva lei. Al compianto defunto venivano attribuite qualità morali fuori del comune (abnegazione, dedizione, amor patrio). Ne ha provato disgusto. Tutte le volte che si trovava in casa, infatti, restava sveglia per intere notti. Le arrivavano dal basso urla che la sconvolgevano: «in cantina e nei locali vuoti, torturavano Algerini per strappare informazioni»66. «Io mi domando come un essere umano possa sopportare [...] di sentire urla di sofferenza». «Per circa tre anni», scrive Fanon nella sua lettera di dimissioni indirizzata al ministro residente nel 1956, «mi sono messo completamente al servizio di questo paese e degli uomini che lo abitano». Ma, osserverà subito dopo, che valore hanno «le intenzioni se la loro concretizzazione è resa impossibile dalla mancanza di cuore, dalla sterilità d’animo, dall’odio degli autoctoni di questo paese?»67. I tre termini – mancanza di cuore, sterilità d’animo, odio degli autoctoni – definiscono in modo lapidario quello che ai suoi occhi caratterizza sempre il sistema coloniale. A più riprese e partendo sempre da fatti che aveva osservato personalmente, ne fa una descrizione dettagliata e multiforme. Quanto più ne fa un’esperienza diretta, tanto più gli appare come una lebbra che non risparmia il corpo di nessuno, colonizzati e coloni: «tutta questa lebbra sul tuo corpo»68. In effetti bisogna leggere la sua Lettera a un Francese insieme a quella che la precede, la Lettera al Ministro residente69. Che siano state scritte o no nello stesso momento, una spiega l’altra. Come una forma di lebbra, la colonizzazione aggredisce i corpi e li deforma. Ma soprattutto ha come bersaglio il cervello e, accessoriamente, il sistema nervoso. «Decerebrare» è il suo scopo. Il che consiste, se non in un’amputazione del cervello, almeno in una sua sterilizzazione. Questa operazione mira anche a rendere il soggetto «estraneo al suo ambiente». Il processo di «rottura organizzata con il reale» sfocia in molti casi nella follia, e questa spesso si manifesta nella modalità della menzogna. Una delle funzioni della menzogna coloniale consiste nell’alimentare il silenzio e nello spingere a comportamenti di

complicità, con il pretesto che «non c’è niente da fare» tranne, forse, andarsene. Perché andarsene? Da quale momento il colono comincia a coltivare l’idea che forse sarebbe meglio partire? Nel momento in cui si rende conto che le cose non vanno bene: «l’atmosfera si guasta», «il paese è pieno d’astio», le strade «non sono più sicure», i campi di grano si sono «trasformati in roghi», gli Arabi «si incattiviscono». Presto violenteranno le nostre donne. I nostri testicoli «saranno tagliati e ce li ficcheranno» tra i denti. Ma se le cose si guastano davvero, è perché la lebbra coloniale di diffonde dappertutto, e con lei, «questa enorme piaga» sepolta sotto un «sudario di silenzio», si diffonde il silenzio combinato di tutti, che si finge ignorante e che quindi si proclama innocente in base a una menzogna. Infatti, come può accadere che nessuno veda questo paese e le persone che lo abitano? Che nessuno voglia proprio capire quello che succede intorno a lui ogni giorno? Che si proclami a voce spiegata la propria preoccupazione per l’Uomo, «ma singolarmente non per l’Arabo», quotidianamente negato e ridotto «a scenario sahariano»? Com’è che non si è mai «stretta la mano a un Arabo», mai «bevuto un caffè insieme», mai «parlato con un Arabo del tempo che fa»? Perché, a conti fatti, non c’è un solo Europeo «che non si rivolti, non s’indigni, non si allarmi per tutto, tranne che per il destino toccato all’Arabo». Per Fanon, dunque, non esiste il diritto all’indifferenza o all’ignoranza. Del resto ribellarsi, indignarsi, allarmarsi per il destino toccato all’uomo dalla schiena curva e dalla «vita segnata», il cui volto porta i segni della disperazione, nel cui ventre si legge la rassegnazione, nel cui sangue si diagnostica «lo sfinimento e la prosternazione di tutta una vita», questo era per lui, al di là degli aspetti puramente tecnici, il compito del medico nel contesto coloniale. L’intervento medico aveva lo scopo di far emergere quello che egli chiamava un mondo valido. Il medico doveva saper rispondere alla domanda: «Che cosa gli sta succedendo?», «Che cosa gli è capitato?». Questa esigenza di dare risposte comportava un analogo dovere di vedere (rifiuto dell’autoaccecamento), di non ignorare, di non far passare sotto silenzio, di non dissimulare la realtà. Imponeva di mescolarsi a quelli che erano stati prosciugati, a questo mondo di esseri senza sogni, e

di raccontare con voce chiara e distinta ciò di cui si era stati insieme attori e testimoni. «Io voglio», affermava Fanon, «una voce brutale, non la voglio bella, non la voglio pura, non la voglio buona per tutte le dimensioni». Invece la voleva «completamente lacerata». «Voglio che si diverta perché, in fondo, io parlo dell’uomo e del suo rifiuto, della putrefazione quotidiana dell’uomo, della sua spaventosa rassegnazione». Infatti solo una voce «completamente lacerata» avrebbe potuto dare conto del carattere tragico, lacerante e paradossale dell’istituzione medica nella situazione coloniale. Se la finalità dell’atto medico è di far tacere il dolore combattendo la malattia, come mai il colonizzato percepisce «in una confusione quasi organica il medico, l’ingegnere, l’insegnante, il poliziotto, la guardia campestre»?70 «Ma la guerra continua. E noi dovremo curare ancora per tanti anni le tante ferite, talora indelebili, fatte ai nostri popoli dall’irruzione colonialista»71. Queste due frasi stabiliscono immediatamente un rapporto di causalità tra la colonizzazione e quei fatti che sono le ferite. Fanno anche pensare a quanto sia difficile una guarigione definitiva di tutte le vittime della colonizzazione. Una difficoltà che non si riferisce solo al tempo quasi interminabile che richiede lo sforzo della guarigione. In realtà certe piaghe, certe ferite e certe lesioni sono talmente profonde che non guariranno mai, le loro cicatrici non spariranno mai; le vittime ne porteranno sempre i segni. Quanto alla guerra coloniale, qui è esaminata dal punto di vista dei disturbi mentali che provoca sia negli agenti della potenza occupante, sia nella popolazione autoctona. È questo il caso di un giovane algerino di ventun anni. A prima vista soffre di emicranie insistenti e d’insonnia, ma in sostanza si tratta di impotenza sessuale. Dopo essere sfuggito a un arresto, ha abbandonato il taxi che utilizzava all’inizio per il trasporto dei volantini e dei responsabili politici, poi, a poco a poco, di commando algerini impegnati nella guerra di liberazione. Nel taxi si trovano due caricatori di mitragliatrice. Dopo essere entrato precipitosamente in clandestinità, resta senza notizie della moglie e della figlioletta per venti mesi, fino al giorno in cui lei gli fa arrivare un messaggio in cui gli chiede di dimenticarla. La richiesta è motivata dal fatto che la donna era stata vittima di una duplice violenza, prima da parte di un militare francese da solo, poi di un

altro sotto gli occhi di molti – bisogna dire testimoni? Un doppio disonore che pone direttamente il problema della vergogna e della colpa. Mentre il primo episodio di violenza si svolge quasi in privato, faccia a faccia tra la donna e il suo carnefice, il secondo prende l’aspetto di una seduta pubblica. Su questa scena di vergogna è all’opera un solo militare, ma sotto lo sguardo quasi pornografico di numerosi altri che la vivono nella modalità di un godimento per delega. Sulla scena aleggia una figura fisicamente assente ma la cui presenza spettrale induce il militare violento a intensificare la furia. È il marito. Mentre violenta la moglie, è il suo fallo che i militari francesi vogliono colpire e cercano simbolicamente di castrare. In questo conflitto tra uomini, la donna ha prima di tutto la funzione di sostituto e, accessoriamente, quella di oggetto di appagamento delle pulsioni sadiche dell’ufficiale. Per costui, forse, non si tratta nemmeno di godimento. Si tratta, da una parte, di umiliare profondamente la donna (e attraverso di lei suo marito), di mettere irrimediabilmente in discussione i loro rispettivi sentimenti di orgoglio e dignità, l’immagine che hanno di loro stessi e della loro relazione. Dall’altra parte si tratta di imporre attraverso la violenza qualcosa come un rapporto di odio. L’odio è tutto tranne che un rapporto di riconoscimento. Prima di tutto è un rapporto di esecrazione. Un fallo ne esecra un altro: «Se rivedi un giorno quel porco di tuo marito, non dimenticarti di raccontargli quello che ti abbiamo fatto»72. Peraltro, ricevuta l’ingiunzione, la sventurata ubbidisce. Chiedendo al marito di dimenticarla, la donna rivela il disgusto e l’umiliazione che deve aver provato. Il suo essere intimo e segreto è stato rivelato allo sguardo dell’altro, di quegli sconosciuti, dell’occupante. Il suo desiderio, il suo pudore e il suo piacere nascosto, così come la forma del suo corpo, tutto è stato profanato o almeno esposto, posseduto contro la sua volontà, offeso e reso volgare. Non potrà mai più mostrare tutto questo nella sua integrità. Poiché ogni cosa è avvenuta davanti a testimoni o, in ogni caso, davanti a voyeurs, da sola non può più nascondere alcunché. Può solo ammettere, confessare. E siccome non può proprio cancellare l’offesa, le resta solo una scelta, chiedere al marito di dimenticarla: un taglio netto. Essendo la donna fatta per l’uomo e non per il proprio piacere, l’offesa

all’onore dell’uomo è una macchia che si cancella necessariamente con un sacrificio: la perdita di quello stesso uomo. E l’uomo è colpito dall’impotenza. La sua dignità di marito è messa alla gogna. Non si basa forse sul principio del godimento esclusivo di sua moglie? La sua potenza fallica non è alimentata da quell’esclusiva? Il legame esclusivo è spezzato, poiché la sua donna, suo malgrado, ha «assaggiato il Francese», trascina ora una carne vissuta come una macchia che non può essere pulita, cancellata o espulsa. Egli ne esce profondamente scosso. Il trauma ormai lo possiede: «Prima di ogni tentativo sessuale pensa alla moglie». La moglie è quella ragazza che ha dovuto sposare, mentre amava un’altra, una cugina che, a causa di accordi familiari, ha sposato un altro. La moglie è la ragazza che ha finito per sposare perché i suoi genitori l’hanno proposta. La moglie era gentile, ma lui non l’amava veramente. Il fatto che sia stata violentata lo fa infuriare. La sua collera è rivolta contro «quei porci»73. Ma chissà, magari è rivolta anche contro la moglie. Pian piano alla collera succede il sollievo: «Oh, non è grave: non è stata uccisa. Potrà ricominciare la sua vita»74. Vivere nel disonore è meglio di non vivere affatto. Ma le cose si complicano. Non è lui, in fondo, il responsabile dello stupro della moglie? Non è stato egli stesso testimone, nei villaggi, di violenze sadiche, talvolta figlie della noia? E se sua moglie fosse stata violentata perché si rifiutava di «vendere suo marito»? E se lo stupro fosse dovuto alla scelta di sua moglie di «proteggere la rete»? «Ha subito violenza perché mi ricercavano. In realtà è per punirla del suo silenzio che l’hanno stuprata»75. Dunque è lui il responsabile dello stupro della moglie. A causa sua lei è stata disonorata. Essere “disonorata” significa essere “corrotta”. E tutto quello che viene da ciò che è corrotto può solo essere corrotto, anche la sua bambina di venti mesi, e per questo vuole strappare la foto prima di ogni atto sessuale. Riprendere la moglie dopo l’indipendenza significa vivere con la corruzione per il resto della vita. Infatti «questa cosa, la si può dimenticare?». In realtà non dimenticherà mai che sua moglie è stata stuprata. Allo stesso modo non ci sarà mai un momento nel quale non si farà questa domanda: «Era obbligata a mettermi al corrente di tutto questo?». Non dire niente, allora. Portare da sola il peso del disonore,

anche se questo è dovuto al desiderio di proteggere l’uomo con cui si è sposata. Il secondo caso riguarda pulsioni omicide indifferenziate di uno scampato a una strage collettiva, originario di un villaggio della provincia di Costantina. Ha visto con i suoi occhi morti e feriti. Non era, però, una di quelle persone che non sono più turbate dalla morte di un essere umano. La forma umana, nella sua morte, era ancora capace di commuoverlo. Qui, come nel caso precedente, all’origine si trova il rifiuto di tradire. C’era stata un’imboscata. Tutti gli abitanti del villaggio erano stati radunati e interrogati. Nessuno aveva risposto. Davanti al silenzio, un ufficiale aveva dato l’ordine di distruggere il villaggio, di bruciare le abitazioni, di radunare gli uomini rimasti, portarli in un uadi e massacrarli. Furono uccisi a bruciapelo ventinove uomini. Il paziente in questione era sopravvissuto con due pallottole in corpo e una frattura dell’omero. Un superstite, dunque. Ma un superstite quasi handicappato, che chiede in continuazione un fucile. Si rifiuta di «camminare davanti a qualcuno. Non vuole nessuno dietro di sé. Una notte s’impadronisce dell’arma di un combattente e spara maldestramente sui soldati addormentati»76. Viene brutalmente disarmato. Finisce con le mani legate. Si agita e urla. Vuole ammazzare tutti, indistintamente. Con un gesto mimetico e ripetitivo vuole compiere il suo piccolo massacro personale. Perché, come spiega, «nella vita bisogna uccidere per non essere uccisi». Per riuscire a uccidere, è necessario non avere ucciso se stessi in precedenza. La mia vita e la mia sopravvivenza sono possibili mediante l’assassinio di altri, soprattutto di chi sospetto sia un corpo estraneo che si è camuffato e si presenta con le sembianze del simile o del congenere: «Tra di noi ci sono alcuni Francesi. Si travestono da Arabi. Bisogna ammazzarli. Dammi un mitra. Tutti quei sedicenti Algerini sono francesi... e non mi lasciano tranquillo. Appena cerco di dormire entrano in camera mia. Ma ormai li conosco. Li ammazzerò tutti, senza eccezione. Taglierò la gola a tutti, uno dopo l’altro, e anche a te»77. Il superstite – o sopravvissuto – è dunque consumato da un violento desiderio di uccidere. Questo desiderio ignora ogni distinzione e tocca il mondo delle donne come quello dei bambini, il pollame e gli animali

domestici: «Volete eliminarmi, ma dovrete solo provarci. Non ci metto niente a spararvi. Piccoli, grandi, donne, bambini, cani, uccelli, asini... toccherà a tutti quanti... Poi, potrò dormire tranquillo...»78. Una volta appagato il desiderio di uccisione collettiva, il superstite potrà finalmente godere del sonno cui aspira. 7. La vita che se ne va Poi c’è quel giovane soldato dell’Esercito di liberazione nazionale, di diciannove anni, che ha effettivamente ucciso una donna ed è continuamente perseguitato dallo spettro di lei. Fanon annota i particolari dell’incontro. Si trova davanti a un malato «molto depresso, con le labbra secche, le mani costantemente umidicce»79. Lo interessa come respira, con una serie di «sospiri incessanti» che sollevano continuamente il suo petto. Ha già commesso un omicidio, ma non manifesta nessun desiderio di commetterne un altro. Invece stavolta ha attentato alla propria vita: darsi la morte dopo averla data in precedenza ad altri. Proprio come il superstite del caso precedente, è tormentato dall’insonnia. Fanon osserva il suo sguardo, il modo in cui si fissa «per qualche istante su un punto nello spazio mentre il volto si anima, e dà all’osservatore l’impressione che il malato stia assistendo a uno spettacolo»80. Poi si sofferma su quello che dice: «Il malato ci parla del suo sangue versato, delle arterie che si svuotano, del suo cuore che perde colpi. Ci supplica di fermare l’emorragia, di non permettere più che sia “vampirizzato” fino all’ospedale. Da un momento all’altro non riesce più a parlare e chiede una matita. Scrive: “Non ho più voce, tutta la mia vita se ne va”»81. Il malato è ancora dotato di un corpo, ma il suo corpo con tutto quello che porta con sé è assediato da forze attive che gli sottraggono le energie vitali. Attanagliato da una sofferenza insopportabile, quel corpo alla deriva non costituisce più un segno. Oppure, se ancora ne conserva tracce, si tratta di un segno che non esprime più un simbolo. Quello che avrebbe dovuto esserci all’interno, ormai sfugge, deborda e si sparpaglia. Il corpo del soggetto che soffre non è più una dimora. Se pure resta tale, non è affatto inviolabile. Non è più in grado di preservare alcunché. I

suoi organi si allentano, le sue sostanze sfuggono. A questo punto riuscirebbe solo a esprimersi sotto il segno del vuoto e del mutismo – la paura del crollo, la difficoltà di abitare nuovamente il linguaggio, di ritornare alla parola, di farsi voce e, per questo, vita. Il soggetto sofferente l’ha capito bene, ha tentato di suicidarsi, di farsi carico di persona della propria morte, di appropriarsene alla stregua di un’auto-offerta. Dietro al sentimento di esproprio del corpo c’è la storia di un omicidio. Il contesto è quello della guerra coloniale. Questa, come le altre forme di conflitto armato, si basa su un’economia funeraria – dare e avere la morte. Uomini, donne e bambini, mandrie e pollame, piante, animali, monti. Colline e vallate, fiumi e torrenti, tutti sono messi nell’atmosfera avvertita da chi ha visto la morte. Erano lì nel momento in cui era stata data ad altri. Erano testimoni dell’uccisione di persone presunte innocenti. Per reazione si sono uniti alla lotta. Una delle funzioni della lotta è di convertire l’economia dell’odio e il desiderio di vendetta in un’economia politica. Il fine della lotta di liberazione non è quello di eliminare la pulsione di morte, il desiderio di uccidere o la sete di vendetta, ma di piegare quella pulsione, quel desiderio, quella sete ai comandamenti di un super-io di natura politica, ovvero all’avvento di una nazione. La lotta consiste nel canalizzare quell’energia (la volontà di uccidere), che altrimenti è solo sterile ripetizione. Il gesto che consiste nell’uccidere, il corpo che si uccide (quello del nemico) o quello al quale è data la morte (quello del combattente o del martire) devono poter trovare un posto nell’ordine di questo significante. L’impulso a uccidere non deve essere ancorato alla forza primitiva degli istinti. Trasformato in un elemento che dà energia alla lotta politica, a quel punto deve essere strutturato simbolicamente. Nel caso di cui ci occupiamo, quello dell’uomo assillato dal vampiro e sotto la minaccia di perdere il suo sangue, la sua voce e la sua vita, questa costruzione è precaria. Sua madre è stata «uccisa con un colpo a bruciapelo da un soldato francese». Due sue sorelle sono state «portate via dai militari» e non sa che cosa sia stato di loro, ignora il trattamento che hanno subito in un contesto nel quale interrogatori, torture ed eventualmente carcere e violenze fanno parte della normalità. Poiché suo padre era «morto parecchi anni prima», era lui «l’unico uomo» della

famiglia e la sua «sola aspirazione» era di migliorare le condizioni della madre e delle sorelle. Il dramma della lotta raggiunge il punto culminante laddove una vicenda individuale si intreccia, a un dato momento, con un percorso politico. Dopo è difficoltoso scioglierne i fili. Tutto si confonde, come indica bene il racconto che segue. Un colono fortemente impegnato contro il movimento di liberazione ha effettivamente ucciso due civili algerini. Contro di lui si prepara un’operazione che si svolge di notte. «In casa c’era solo sua moglie. Vedendoci si mise a supplicare di non ucciderla [...]. Decidemmo di aspettare il marito. Ma io guardavo la donna e pensavo a mia madre. Era seduta su una poltrona e sembrava assente [agli occhi di lui non era più lì]. Mi chiedevo perché non la uccidevamo»82. Perché ucciderla? Prima, mentre supplicava, non ha forse fatto capire di aver chiesto a suo marito di non immischiarsi nella politica? E continuando a supplicare, non ha pregato di salvarle la vita in nome dei suoi figli? («Ve ne prego... non mi uccidete... Ho dei figli»). Ma né l’argomento della responsabilità né quello umanitario riescono a scuotere il suo interlocutore che, comunque, tace. Nelle sue opere Fanon mette continuamente l’accento su una delle principali caratteristiche delle relazioni tra padroni e sudditi nelle colonie, cioè la loro povertà. Da questo punto di vista la vita nel mondo delle colonie può essere assimilata alla vita animale. Il legame che i padroni nelle colonie intrattengono con i subordinati non arriva mai a creare una comunità viva di affetti. Non comporta mai la creazione di un comune focolare. Il padrone non si fa mai commuovere dalla parola del suddito. La povertà del rapporto che egli intrattiene con l’indigeno (il suo sottoposto dal punto di vista giuridico-legale e nello stesso tempo una cosa sua dal punto di vista razziale e ontologico) è qui riprodotta in modo rovesciato. In assenza del marito, il cerchio si è chiuso sulla donna, a quel punto messa davanti alla pulsione di chi presto diventerà il suo assassino: «Un momento dopo era morta». Aveva appena finito di supplicare. Nonostante l’estremo appello a un po’ di umanità e compassione, ai sentimenti che sembravano condivisi da tutti. Nessuna detonazione. Nemmeno nessuna distanza. Il gioco stretto della prossimità in un corpo a corpo, circuito chiuso, la relazione di un oggetto con un altro oggetto: «L’avevo uccisa con il mio coltello».

Ma chi ha ucciso? Quella donna che lo implora di risparmiarle la vita e che, alla fine, la perde? O la donna che, in fondo, è solo l’effigie di un’altra, il rispecchiamento di sua madre alla quale pensa nel momento stesso in cui guarda la sua eventuale vittima («Ma io guardavo la donna e pensavo a mia madre»)? Ricapitoliamo con una parafrasi: «Lei si mise a supplicarci di non ucciderla. Un istante dopo era morta. L’avevo uccisa con il mio coltello. Mi disarmarono. Dopo qualche giorno subii un interrogatorio. Credevo che mi avrebbero ucciso. Ma non m’importava». Era possibile aspettarsi che tutto finisse lì. Qualcuno ha versato il sangue di sua madre. Un soldato francese, il nome generico di un nemico senza un volto proprio, dai tanti volti. A quel sangue che grida vendetta egli risponde versando quello di un’altra donna che, invece, non ha fatto scorrere il sangue di nessuno, ma che si trova coinvolta indirettamente nel cerchio infernale della guerra contro la sua volontà, a causa del marito che invece è davvero responsabile dell’assassinio di due Algerini, il quale si sottrae al castigo ma perde comunque la moglie. Perdita di una madre da una parte come dall’altra e, per l’uomo assente nel momento dell’uccisione, perdita di una moglie. Da entrambe le parti orfani e, dalla parte dell’uomo assente ma che era originariamente la vittima predestinata, un vedovo. Le donne non pagano solo il prezzo di atti compiuti da uomini. Esse rappresentano anche la moneta di scambio di questa economia funeraria. A causa di questa presenza incombente della donna sia nella figura della madre sia in quelle della moglie o della sorella, non è più possibile capire in modo davvero chiaro a chi sia stata data la morte. Chi si suppone che l’abbia ricevuta? Come si può essere certi che accoltellando la donna non ci fosse l’intenzione di uccidere la madre? Il vampiro che minaccia di svuotare il nostro corpo di tutto il sangue, simbolo di un’interminabile emorragia, non è in fondo il nome di questo doppio sventramento, uno fantasmatico (quello di mia madre), l’altro reale (quello della moglie del mio nemico)? Il clamore di queste donne che, tutte, «hanno un foro spalancato nel ventre», le suppliche di tutte quelle donne «esangui, pallide e spaventosamente magre» che chiedono di essere risparmiate non avendo protezione – non è questo che ora sconvolge di terrore l’assassino, gli impedisce di dormire, lo obbliga a

vomitare dopo ogni pasto? Non è questa la ragione per cui, alla sera, appena si mette a letto, la sua stanza è «invasa da donne», tutte uguali, che esigono che il sangue versato sia loro restituito? «In quel momento», annota Fanon, «un rumore di un liquido che scorre riempie la stanza, si amplifica fino a ricordare il frastuono di una cascata, e il giovane paziente vede il pavimento coprirsi di sangue, del suo sangue, mentre le donne riprendono colore e la loro piaga comincia a richiudersi. Fradicio di sudore e terribilmente angosciato, il malato si sveglia e resta agitato fino all’alba». 1

Freud, Considerazioni attuali sulla guerra e la morte, cit., p. 123. Ivi, p. 126. 3 Sándor Ferenczi, Deux types de névrose de guerre (hystérie), in Sigmund Freud, Sándor Ferenczi, Karl Abraham, Sur les névroses de guerre, Payot, Paris 1965 [1916], p. 64. 4 Ugo Grozio, Il diritto della guerra e della pace. Prolegomeni e libro primo, a cura di Fausto Arici e Franco Todescan, introduzione di Guido Fassò, CEDAM, Padova 2010. 5 Ernst Jünger, In Stahlgewittern [1920] [trad. it., Nelle tempeste d’acciaio, Guanda, Milano 2007]. 6 Gerd Krumeich, La place de la guerre de 1914-1918 dans l’histoire culturelle de l’Allemagne, in «Vingtième Siècle», n. 41, gennaio-marzo 1994, pp. 9-17. 7 Vedi Sarah Everts, When chemicals became weapons of war, in http://chemicalweapons.cenmag.org, 23 febbraio 2015. 8 Modris Eksteins, Le Sacre du printemps. La Grande Guerre et la naissance de la modernité, Plon, Paris 1991. 9 Freud, Considerazioni attuali sulla guerra e la morte, cit., p. 124. 10 Ibid. 11 Ibid. 12 Ivi, p. 126. 13 Ivi, p. 128. 14 Ivi, p. 140. 15 Ivi, p. 133. 16 Sigmund Freud, Il problema economico del masochismo, in Id., Opere, vol. X, Bollati Boringhieri, Torino 1989 [1924], p. 15. 17 Hannah Arendt, The Origins of Totalitarianism, Schocken Books, New York 1951 [trad. it., Le origini del totalitarismo, Einaudi, Torino 2009]. 18 Paul Valéry, La Crise de l’esprit, in Id., Œuvres, vol. I, Gallimard, Paris 1962, p. 995 [trad. it. in La crisi del pensiero e altri saggi quasi politici, il Mulino, Bologna 1994]. 19 Vedi Federico Rahola, La forme-camp. Pour une généalogie des lieux de transit et d’internement du présent, in «Cultures & Conflits», n. 68, 2007, pp. 31-50. 20 Caroline Elkins, Imperial Reckoning. The Untold Story of Britain’s Gulag in Kenya, Henry Holt, New York 2005. 21 Paul Gilroy, Fanon and Améry. Theory, torture and the prospect of humanism, in «Theory, Culture & Society», vol. 27, n. 78, 2007, pp. 16-32. 22 Arendt, The Origins of Totalitarianism, cit.; Michel Foucault, «Il faut défendre la société», Cours au Collège de France, 1976, Seuil, Paris 1997 [trad. it., Bisogna difendere la società, a cura di Mauro Bertani e Alessandro Fontana, Feltrinelli, Milano 2009]. 23 Jonathan Hyslop, The invention of the concentration camp. Cuba, Southern Africa and the 2

Philippines, 1896-1907, in «South African Historical Journal», vol. 63, n. 2, 2011, pp. 251-276. 24 John Lawrence Tone, War and Genocide in Cuba, 1895-1898, University of North Carolina Press, Chapel Hill 2006. 25 Su questi particolari, vedi lo studio di Richard Shelley Hartigan, Lieber’s Code and the Law of War, Transaction Publishers, New York 1983. 26 Brian McAllister Linn, The Philippine War, 1899-1902, University of Kansas Press, Lawrence (KS) 2000. 27 Jean-François Bossy, La philosophie à l’épreuve d’Auschwitz. Les camps nazis, entre mémoire et histoire, Ellipses, Paris 2004, p. 32. 28 Vedi Ralph Schor, L’opinion française et les étrangers, 1919-1939, Publications de la Sorbonne, Paris 1985. 29 Vedi Bernard Laguerre, Les dénaturalisés de Vichy, 1940-1944, in «Vingtième Siècle», vol. 20, n. 1, 1988, pp. 3-15. Vedi anche Robert Paxton, La France de Vichy, 1940-1944, Seuil, Paris 1974, pp. 168-169. 30 Paul Armengaud, Quelques enseignements des campagnes du Rif en matière d’aviation, BergerLevrault, Paris 1928. 31 Claude Juin, Des soldats tortionnaires. Guerre d’Algérie: des jeunes gens ordinaires confrontés à l’intolérable, Robert Laffont, Paris 2012. 32 Joseph-Simon Gallieni, Rapport d’ensemble sur la pacification, l’organisation et la colonisation de Madagascar, Charles-Lavauzelle, Paris 1900; Hubert Lyautey, Du rôle colonial de l’armée, Armand Colin, Paris 1900. 33 Fanon, Les Damnés de la terre, cit., p. 627. 34 Ibid. 35 Frantz Fanon, Racisme et culture, in Id., Œuvres, cit., p. 719. 36 Ivi, p. 721. 37 Frantz Fanon, Peau noire, masques blancs, in Id., Œuvres, cit., pp. 196 sg. [trad. it., Pelle nera, maschere bianche, ETS, Pisa 2015]. 38 Ivi, p. 155. 39 Ivi, p. 154. 40 Ivi, p. 156. 41 Ivi, p. 164. 42 Ivi, p. 159. 43 Vedi Angelo Hesnard, L’Univers morbide de la faute, PUF, Paris 1949. 44 Fanon, Peau noire, masques blancs, cit., p. 189 (le citazioni che seguono provengono dalla stessa pagina). 45 Vedi Charles Odier, L’Angoisse et la pensée magique, Delachaux et Niestlé, Neuchâtel 1948. 46 Fanon, Peau noire, masques blancs, cit., p. 190. 47 Ivi, p. 172. 48 Frantz Fanon, Pour la révolution africaine, in Id., Œuvres, cit., p. 700 [trad. it., Scritti politici. Per la rivoluzione africana, DeriveApprodi, Roma 2006]. 49 Ivi, p. 702. 50 Ivi, p. 701. 51 Fanon, Les Damnés de la terre, cit., p. 459. 52 Frantz Fanon, Écrits sur l’aliénation et la liberté, La Découverte, Paris 2015, p. 187. 53 Ivi, p. 290. 54 Ivi, p. 291. 55 Ivi, p. 181. 56 Ivi, p. 322.

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Ivi, p. 181. Ivi, pp. 234-235. 59 Ivi, p. 267. 60 Ivi, p. 304. 61 Ivi, p. 301. 62 Ivi, p. 304. 63 Ivi, p. 236. 64 Ivi, p. 639. 65 Ibid. 66 Ivi, p. 646. 67 Fanon, Pour la révolution, cit., p. 734. 68 Ivi, p. 730. 69 Ivi, pp. 729-732 e 733-735. Tutte le citazioni che seguono sono tratte da questi due testi. 70 Frantz Fanon, L’An V de la révolution algérienne, in Id., Œuvres, cit., p. 355 [trad. it., Scritti politici. L’anno V della rivoluzione algerina, a cura di Miguel Mellino, DeriveApprodi, Roma 2007]. 71 Fanon, Les Damnés de la terre, cit., p. 625. 72 Ivi, p. 630. 73 Ivi, p. 631. 74 Ibid. 75 Ibid. 76 Ivi, p. 633. 77 Ivi, p. 634. 78 Ibid. 79 Ibid. 80 Ivi, p. 635. 81 Ibid. 82 Ivi, p. 636 (le citazioni che seguono provengono dalla stessa pagina). 58

4. Questo mezzogiorno asfissiante

Quando muore, Fanon ha lo sguardo fisso sull’Africa o, più precisamente, su quella che chiama «l’Africa che verrà». Nato in Martinica, passato per la Francia, ha legato il proprio destino a quello dell’Algeria. Con l’Algeria compie alla fine, in senso inverso, il giro del Triangolo commerciale del colonialismo. Scriverà: «Partecipare al movimento ordinato di un continente: era questo, in definitiva, il lavoro che avevo scelto»1. L’Africa che scopre all’indomani della decolonizzazione è un groviglio di contraddizioni. Il Congo ristagna. Ci sono ancora le grandi “cittadelle colonialiste” dell’Africa australe (Angola, Mozambico, Sudafrica, Rhodesia). Su tutto incombe lo spettro dell’Occidente. Le nuove borghesie nazionali hanno imboccato subito la strada delle predazioni. E se si ascolta «con l’orecchio incollato alla terra rossa, si sentono molto distintamente i rumori delle catene arrugginite, i sospiri di angoscia, e ti cascano le braccia tanto presente è sempre la carne lacerata in questo mezzogiorno asfissiante»2. Tagliare gli ormeggi, aprire nuovi fronti, mettere l’Africa in moto: questo è comunque il progetto. Questo nuovo mondo è indissociabile dall’avvento di un uomo nuovo. Lavoro difficile? «Per fortuna, da ogni lato braccia ci fanno segno, ci rispondono voci, mani ci stringono»3. La riflessione africana e della diaspora moderna sulla possibilità di un “nuovo mondo”, avviatasi nei suoi tratti essenziali alla metà del diciottesimo secolo, si è svolta in larga parte nel contesto del pensiero umanistico che avrebbe prevalso in Occidente nel corso dei tre secoli successivi. È rivelatore, da questo punto di vista, il fatto che tra i primissimi scritti di afroamericani figurino numerose autobiografie4. “Io” non è forse la prima parola di ogni discorso con il quale l’essere umano cerca di esistere come tale?

È d’altra parte significativo il ruolo che occupa l’elemento religioso nella narrazione e nell’interpretazione della loro storia. Nelle condizioni di terrore, di immiserimento e di morte sociale che furono quelle dello schiavismo, il ricorso al discorso teologico per dire di sé e del proprio passato dev’essere inteso, da parte di una comunità avvilita e segnata dal marchio dell’impurità, come un tentativo di reclamare un’identità morale5. Da allora, per successive diramazioni, quella riflessione ha continuato a interrogarsi sulle condizioni di formazione di un mondo propriamente umano che il soggetto si darebbe sulla base di un ideale dal quale la vita trarrebbe la sua resilienza6. 1. Le strade senza sbocco dell’umanesimo Questo sforzo di autospiegazione e di autocomprensione avrebbe messo in evidenza due cose. In primo luogo – e non è inutile ricordarlo – la storia dei Negri non è una storia a parte, ma un elemento integrante della storia del mondo. Della storia mondiale i Negri sono eredi a pari titolo del resto del genere umano7. D’altra parte, se rintracciare il filo delle loro origini remote porta quasi inevitabilmente in Africa, la loro permanenza nel mondo si è svolta invece nelle modalità dello spostamento, della circolazione e della dispersione8. Poiché il movimento e la mobilità sono stati fattori strutturanti della loro esperienza storica, essi sono ora sparsi sulla superficie terrestre. Per questo non c’è più un passato del mondo (o di una regione del mondo) che non debba rispondere nello stesso tempo del passato dei Negri, come non c’è più un passato dei Negri che non debba rendere conto della storia del mondo nel suo insieme. Così i Negri fanno parte del passato dell’Occidente, anche se la loro presenza nella coscienza occidentale si manifesta solo nelle forme dell’ossessione, della negazione e della cancellazione9. James Baldwin, parlando dell’America, afferma a questo proposito che i Negri non sono estranei alla storia del Nuovo Mondo, che hanno contribuito a formare accompagnandolo lungo tutto il suo percorso. Ne sono soggetti costituenti anche se nel Negro, figura dell’esterno assoluto, il Nuovo Mondo non riconosce affatto il suo «specifico»10. Basandosi su numerose ricerche storiche, Paul Gilroy, per parte sua, mette in luce il loro

coinvolgimento nell’emergere del mondo moderno che si struttura intorno all’Atlantico all’inizio del diciottesimo secolo11. Fianco a fianco con altri scarti dell’umanità (espulsi dalle enclosures, peones, criminali deportati, marinai costretti a bordo di mercantili e di navi da guerra, reprobi di sette religiose radicali, pirati e bucanieri, ribelli e disertori di ogni sorta), li ritroviamo lungo le nuove rotte commerciali, nei porti, sulle imbarcazioni, dovunque si debba disboscare, produrre tabacco, coltivare il cotone, tagliare la canna da zucchero, distillare rum, trasportare lingotti, pellicce, pesce, zucchero e altri prodotti manifatturieri12. Autentici “fochisti” della modernità, congiuntamente alla moltitudine di altri anonimi, gli schiavi africani sono al centro delle forze quasi cosmiche liberate dall’espansione coloniale europea all’alba del diciassettesimo secolo e dall’industrializzazione delle metropoli atlantiche all’inizio del diciannovesimo13. Se il loro inserimento nella fase moderna della storia umana avviene sotto il velo dell’anonimato e della cancellazione, conserva tuttavia una triplice dimensione planetaria, eteroclita e poliglotta che segnerà profondamente le loro produzioni culturali14. Per quanto la dimensione planetaria della realtà negra sia più o meno ammessa, il porre la “questione negra” nel contesto e nei termini del pensiero umanista occidentale continua a essere oggetto di numerose critiche, sia interne sia esterne. In Césaire come in Fanon la critica interna tende a mettere l’accento sulla pulsione di morte e sul desiderio di distruzione che operano all’interno del progetto umanista occidentale, in particolare quando è inserito nei meandri della passione colonialista e razzista15. In generale, in loro come in Senghor o in Glissant, non si tratta mai di ripudiare una volta per tutte l’idea dell’“uomo” in quanto tale. Spesso è il caso di mettere l’accento sulle strade senza sbocco del discorso occidentale riguardo all’“uomo”, con lo scopo di emendarlo16. L’intento è allora sia di insistere sul fatto che l’umano non è tanto un nome quanto una prassi e un divenire (Wynter)17, sia di appellarsi a una nuova umanità più “planetaria” (Gilroy), a una poetica della Terra e a un mondo fatto della carne di Tutti (Glissant) e al cui interno ogni soggetto umano

potrebbe essere nuovamente portatore della sua parola, del suo nome, dei suoi atti e del suo desiderio. Quanto alla critica esterna, essa si presenta in due versioni. La prima, afrocentrica, punta a demistificare le pretese universaliste dell’umanesimo occidentale e a porre le basi di un sapere che trarrebbe dall’Africa stessa le proprie categorie e i propri concetti. In quest’ottica, il concetto di umanesimo consisterebbe, in ultima analisi, solo in una struttura di cancellazione della profondità storica e dell’originalità negra. Avrebbe così la funzione di arrogarsi il potere di raccontare e definire, al posto degli altri, da dove questi vengano, chi siano e dove debbano andare. L’umanesimo sarebbe un mito che non vuole dire il proprio nome18. In quanto tale, sarebbe del tutto indifferente alla falsità dei propri contenuti. Di qui, secondo Cheikh Anta Diop, per esempio, la volontà di contrastare le mitologie europee con altre che si ritengono più veritiere e capaci di aprire la strada ad altre genealogie del mondo19. Ma se l’afrocentrismo formula la questione dell’umanesimo a partire dall’eventuale debito di civiltà che il mondo dovrebbe all’Africa, nondimeno preconizza quello che Diop chiama «il progresso generale dell’umanità», «il trionfo del concetto di specie umana» e lo «schiudersi di un’era di intesa universale»20. 2. L’Altro dell’umano e genealogie dell’oggetto La seconda obiezione – quella che attirerà particolarmente la nostra attenzione – viene dalla corrente chiamata afrofuturista. L’afrofuturismo è un movimento letterario, estetico e culturale che emerge nella diaspora nel corso della seconda metà del ventesimo secolo. Combina fantascienza, riflessioni sulla tecnologia nei suoi rapporti con le culture nere, realismo magico e cosmologie non-europee, con l’obiettivo di interrogare il passato dei popoli cosiddetti di colore e le loro condizioni in epoca attuale21. Il movimento respinge in partenza il postulato umanista, in quanto l’umanesimo può costituirsi solo relegando qualche altro soggetto o qualche altra entità (viva o inerte) nella posizione meccanica di un oggetto o di un accidente. L’afrofuturismo non si accontenta di denunciare le illusioni del “propriamente umano”. Ai suoi occhi è l’idea di specie umana che è

messa in scacco dall’esperienza negra. Il Negro, prodotto di una storia della predazione, è infatti l’essere umano che sarebbe stato costretto a vestirsi da cosa e a condividere il destino dell’oggetto e dell’utensile. In questo senso, porterebbe in sé la tomba dell’umano. Sarebbe il fantasma che infesta il delirio umanista occidentale. L’umanesimo occidentale sarebbe perciò una specie di caverna infestata dal fantasma di chi è stato costretto a condividere il destino dell’oggetto. Forte di questa rilettura, la corrente afrofuturista dichiara che l’umanesimo è ormai una categoria superata. Se si vuole dare un nome adeguato alla condizione contemporanea, suggeriscono i suoi portavoce, sarà necessario farlo partendo da tutti quegli insiemi di oggetti-umani e di umani-oggetti il cui prototipo o la cui prefigurazione, dall’avvento della modernità, è il Negro22. Infatti, dopo l’irruzione del Negro sulla scena del mondo moderno, non esiste più nulla di “umano” che non sia a priori parte del “non-umano”, del “più che umano”, dell’“al di là dell’umano” o dell’“altrove dall’umano”. In altri termini sarebbe possibile parlare dell’umano solo al futuro e sempre coniugandolo all’oggetto che è ormai il suo doppio o anche il suo sarcofago. Di quel futuro sarebbe la prefigurazione il Negro, in quanto rimanda, con la sua storia, a un potenziale di trasformazione e di plasticità quasi infinito23. Ricorrendo alla letteratura fantastica, alla fantascienza, alla tecnologia e alle arti performative, l’afrofuturismo tenta di ricreare l’esperienza negra del mondo in termini di metamorfosi più o meno continue, di inversioni multiple, di plasticità anche anatomica, di corporeità all’occorrenza meccanica24. La Terra da sola non può essere l’unico luogo di abitazione di questa futura forma vivente prefigurata dal Negro. In fondo la Terra nella sua configurazione storica è stata solo una vasta prigione per questo uomometallo, uomo-denaro, uomo-legno e uomo-liquido votato a un’infinita trasfigurazione. Un contenitore nel contempo metamorfico e plastico la cui dimora non può essere, in ultima analisi, che l’Universo tutto intero. Alla condizione terrestre si sostituirebbe così una condizione cosmica, scena della riconciliazione tra l’umano, l’animale, il vegetale, l’organico, il minerale e tutte le altre forze del vivente, solari, notturne o astrali che siano. Il ripudio afrofuturista dell’idea di “uomo” nata nella modernità non

può sorprendere. Quest’idea non rafforza forse le tradizioni di pensiero che hanno prosperato sulla base di un fragrante diniego dell’umanità negra? Significherebbe dimenticare che dall’avvento dell’età moderna noi siamo abitati dal sogno di diventare padroni e possessori di noi stessi e della natura. Per riuscirci dovevamo conoscere noi stessi, conoscere la natura e conoscere il mondo. Dalla fine del diciassettesimo secolo ci siamo messi a pensare che per conoscere noi stessi, la natura e il mondo era necessario unificare i campi del sapere e sviluppare una scienza dell’ordine, del calcolo e della misura che permettesse di tradurre i processi naturali e sociali in formule aritmetiche25. Con l’algebra, diventata il mezzo per modellare la natura e la vita, si è gradualmente imposta una modalità del sapere che consisteva essenzialmente nell’appiattire il mondo, cioè nell’omogeneizzare l’insieme dei viventi, nel rendere i suoi oggetti intercambiabili e manipolabili a piacere26. Appiattire il mondo: tale sarebbe stata, per diversi secoli, la tendenza che avrebbe governato gran parte del sapere e delle scienze moderne. Questa tendenza all’appiattimento avrebbe accompagnato, a diversi livelli e con conseguenze incalcolabili, l’altro processo storico tipico dell’età moderna, ovvero la costituzione degli spazi-mondo sotto l’egida del capitalismo. Fin dal quindicesimo secolo l’emisfero occidentale opera come motore privilegiato della nuova avventura planetaria, che è azionata dal sistema mercantilista schiavista. L’insieme del mondo atlantico si struttura sulla base del commercio triangolare; nascono o si consolidano i grandi imperi coloniali delle Americhe e comincia una nuova epoca della storia umana. Questo nuovo ciclo storico è segnato da due figure emblematiche: in primo luogo la figura in ombra, quella dello schiavo negro (nel periodo mercantilista che noi chiamiamo del “primo capitalismo”), poi la figura solare e rosseggiante dell’operaio e, per estensione, del proletario (nella fase industriale il cui inizio è databile tra il 1750 e il 1820). Si comincia appena adesso a rendersi conto dei metabolismi ecologici (materia, energia) implicati in queste “cacce all’uomo” senza le quali la tratta atlantica sarebbe stata impossibile27. Più precisamente, gli schiavi sono il prodotto di una dinamica predatoria nell’ambito di un’economia in cui la formazione del profitto

su una costa dell’Atlantico dipende strettamente da un sistema che combina razzie, guerre di cattura e diverse forme di “caccia all’uomo” sull’altra costa28. All’epoca della tratta dei Negri il capitalismo funziona sulla base del prelievo e del consumo di quello che si potrebbe chiamare un bio-stock insieme umano e vegetale. Gli sconvolgimenti ecologici provocati dal vasto sfruttamento umano con il suo seguito di violenze non sono stati finora oggetto di nessuno studio sistematico. Tuttavia le piantagioni del Nuovo Mondo non avrebbero potuto assolutamente operare senza l’utilizzazione massiccia di quei “soli ambulanti” che erano gli schiavi africani. Anche dopo la rivoluzione industriale, questi autentici fossili umani continuarono a svolgere la funzione del carbone per produrre l’energia e la dinamica indispensabili per la trasformazione economica del Sistema Terra29. Queste multiformi depredazioni esigevano naturalmente la mobilitazione e l’investimento di enormi capitali. In cambio i proprietari di schiavi potevano estrarre da questi lavoro a un costo relativamente ridotto, poiché si trattava di manodopera non retribuita. Potevano anche, se occorreva, rivenderli a terzi. Il carattere commerciabile e trasferibile rendeva lo schiavo un bene privato, oggetto di una valutazione monetaria e di uno scambio commerciale30. I mondi degli schiavi all’interno dell’economia atlantica si caratterizzano comunque per i loro innumerevoli paradossi. Per un verso, nonostante la loro utilità nel processo di produzione di proventi, gli schiavi, in ragione del loro scarso valore economico, sono oggetto di una profonda svalutazione simbolica e sociale. Costretti a condividere il destino dell’oggetto, rimangono tuttavia fondamentalmente esseri umani. Hanno un corpo. Respirano. Camminano. Parlano, cantano e pregano. Qualcuno impara, certe volte in segreto, a leggere e a scrivere31. Si ammalano e in mancanza di pratiche terapeutiche si impegnano a rifondare, nonostante le spinte di frammentazione, una comunità terapeutica32. Fanno esperienza della mancanza, del dolore, della tristezza. Si ribellano, quando non ne possono più, e l’insurrezione degli schiavi è un motivo di assoluto terrore per i loro padroni. D’altra parte, anche se sono profondamente disprezzati e stigmatizzati, questi esseri fondamentalmente umani rappresentano riserve di valore per i loro proprietari. Alla pari del denaro o di altre merci, fungono da mezzo di scambio in ogni genere di transazioni

economiche e sociali. Oggetti mobili e materia estesa, hanno il ruolo di ciò che circola, s’investe, si spende e si consuma33. Da questo punto di vista i mondi dello schiavismo sono quelli in cui la produzione di materia si effettua per mezzo della carne viva e del sudore dei giorni. Questa carne viva ha un valore economico che quando occorre può essere misurato e quantificato34. Le si può applicare un prezzo. La materia prodotta con il sudore degli schiavi trasforma la natura; converte energia in materia; è esso stesso una figura materiale ed energetica. In questa prospettiva gli schiavi sono più di semplici beni naturali di cui il padrone approfitta, da cui ricava un reddito e che può rivendere sul mercato senza limitazioni. Nello stesso tempo quello che li distingue da tutto il resto è il loro carattere innato di beni alienabili. La giustificazione di tale caratteristica innata va ricercata nel principio di razza35. 3. Il mondo zero La vita sotto il segno della razza è sempre stata paragonabile alla vita in uno zoo. In pratica, la costituzione di un giardino zoologico prevede due o tre procedimenti. In primo luogo la cattura e la messa in gabbia degli animali, che sono sottratti al loro habitat naturale da uomini che, dopo averli presi, non li uccidono ma li sistemano in un vasto recinto suddiviso se occorre in più miniecosistemi. In questo spazio chiuso gli animali sono privati di una parte importante delle risorse che offrivano alla loro esistenza le sue qualità naturali e la sua autenticità. Non possono più circolare liberamente. Per mangiare dipendono ormai completamente dagli incaricati del loro mantenimento quotidiano. In secondo luogo, gli animali così domati sono oggetto di un implicito divieto. Non possono essere uccisi se non in circostanze eccezionali e quasi mai allo scopo di un consumo diretto. Il loro corpo perde così gli attributi della carne da macello. Non per questo si trasforma, però, in pura carne umana. In terzo luogo, gli animali prigionieri non sono sottoposti a uno stretto regime di addomesticamento. Un leone allo zoo non è trattato come un gatto. Non entra nell’intimità degli uomini. Poiché lo zoo non rientra nella sfera domestica, la distanza tra uomini e animali rimane: una distanza che autorizza l’esibizione. Le messa in mostra ha infatti senso solo nella

separazione che esiste tra lo spettatore e l’oggetto esposto. Per il resto l’animale vive in uno stato di sospensione. Ormai non è più né carne né pesce. I Negri esibiti negli zoo umani in Occidente nel corso della storia non erano né animali né oggetti. Nel tempo dell’esibizione, la loro umanità era sospesa. Questa esistenza sospesa, tra l’animale e il suo mondo, tra il mondo degli uomini e il mondo degli oggetti è ancora, da molti punti di vista, la legge del nostro tempo, quella dell’economia. Si potrebbe dire che l’economia – ogni economia – si riduca in fondo a due soli gesti, la caccia e la raccolta, e che nonostante le apparenze non ne siamo mai veramente usciti. Nell’economia arcaica la caccia e la raccolta non erano solo due generi di attività che avevano lo scopo di soddisfare i bisogni degli esseri umani. Si trattava anche di due modalità di relazione con se stessi e con gli altri, e poi con la natura, gli oggetti e altre specie viventi e non. Così era, in particolare, per le relazioni con il mondo animale e quello vegetale, che erano percepiti come entità esterne soggette alla volontà degli uomini e di cui ci si appropriava in misura della loro disponibilità. Ci si veniva a patti, in caso di necessità, ma non si esitava a combatterli fino a distruggerli puramente e semplicemente. La distruzione non avveniva in un colpo solo: era una catena con più fasi. Nel caso degli animali presi in trappola o uccisi durante la caccia, alla cattura seguiva lo squartamento. Questa operazione era necessaria per trasformare l’animale in carne commestibile che si consumava cruda o all’uscita della prova del fuoco (cotta). Con il divorare, digerire, defecare si completava il processo di consumo. Il paradigma della caccia e della raccolta non è esclusivo dell’economia primitiva. Ogni economia – l’economia capitalista in particolare – ha sostanzialmente conservato un tratto di fondo primitivo che ne rappresenta la molla nascosta e, talora, manifesta. La distruzione o la liquidazione ne è peraltro il momento chiave, la condizione di possibilità, a pari titolo della creazione degli utensili, dell’invenzione di nuove tecniche e di nuovi sistemi di organizzazione, dei cicli di accumulazione. È l’ultimo anello alla fine della catena, prima che il ciclo, eventualmente, si riavvii. Sottolineavamo come nel regime arcaico della caccia e della raccolta,

allo stesso modo che nei sistemi economici moderni, la distruzione sia inevitabile, sia una condizione della riproduzione della vita sociale e biologica. Ma parlare di distruggere o eliminare significa prima di tutto accennare al confronto tra l’uomo e la materia: la materia fisica e organizzata, quella biologica, liquida e fluida, la materia umana e animale, fatta di carne, ossa e sangue, la materia vegetale e minerale. Significa anche pensare al confronto con la vita: la vita degli uomini, quella della natura, quella degli animali e la vita della macchina. Pensare al lavoro necessario alla produzione della vita, lavoro che comprende anche la produzione di simboli, di linguaggi e di significati. Ai processi mediante i quali gli esseri umani, catturati dalla macchina, sono trasformati in materia: la materia dell’uomo e l’uomo della materia. Anche alle condizioni del loro deperimento. Questo deperimento della vita e della materia non è equivalente alla morte. È un ripiegamento verso un fuori estremo che definiremo mondo zero. Nel mondo zero né la materia né la vita finiscono in quanto tali. Non ritornano al nulla. Si limitano a seguire un movimento di uscita verso altro, mentre la fine è rimandata ogni volta e l’interrogativo della finitezza resta sospeso. Il mondo zero è un mondo del quale è difficile immaginarsi il divenire, proprio perché il tempo che lo intesse non si lascia desumere con le categorie tradizionali del presente, del passato e del futuro. In questo mondo in frammenti e dal tono crepuscolare, il tempo oscilla continuamente tra i suoi diversi segmenti. Scambi di diverso tipo collegano termini che siamo abituati a contrapporre. Il passato è nel presente. Non ne è necessariamente una duplicazione, ma ora lo rispecchia, ora s’insinua nei suoi interstizi, quando non risale semplicemente alla superficie del tempo che aggredisce con il suo grigiore, che tenta di saturare, di rendere illeggibile. Il carnefice è nella vittima. L’immobile è nel movimento. La parola è nel silenzio. L’inizio è alla fine e la fine è nel mezzo. E tutto o quasi tutto è intreccio, incompiutezza, dilatazione e contrazione. È anche un mondo che reca nella sua carne e nelle sue vene i segni della macchina. Crepacci, voragini, gallerie. Laghi di crateri. Il colore della terra ora ocra, ora rosso mattone, ora ramato. Le sezioni, i terrazzamenti, il gioco delle profondità. L’azzurro acido delle acque immobili non sfiorate dalle onde, come fossero già morte. La strada che

sfiora il declivio in questo paesaggio lunare. Uomini-formica, uominitermite, uomini rosso mattone che scavano con il piccone sul pendio; che si ficcano in questi tunnel della morte; che, con un atto di autosepoltura, fanno tutt’uno con i sepolcri da cui estraggono il minerale. Vanno e vengono, come formiche e termiti, portando fardelli pesanti sulla testa o sulla schiena, i corpi e i piedi nel fango. E, in superficie, altiforni e ciminiere, poi tumuli che non si sa se siano piramidi, mausolei o le due cose insieme. Qualcosa, chiaramente, è stato estratto dal suolo e qui è stato triturato nelle viscere della macchina. Macchina dentata. Macchinaintestino crasso. Macchina-ano-che-ingoia-inghiotte-digerisce-laroccia, lasciando dietro di sé le tracce delle sue monumentali feci. Nello stesso tempo, un ammasso di ferro e acciaio. Mattoni rossi, capannoni abbandonati, smantellati pezzo per pezzo e messi a nudo da uominiformica, da uomini-termite. Officine ora in piedi, ornate della loro ferraglia e simili a un campo di scheletri. Enormi macchinari ciechi, arrugginiti dalle intemperie, testimoni fossili di un passato inerte, ormai impossibile da ripetere, ma che sembra anche impossibile da dimenticare. Ma la macchina è invecchiata, è diventata straccio, moncone, scheletro, statua, monumento, stele, persino spettro. Oggi è finito quel mondo della macchina che taglia, perfora ed estrae. Non c’è più, se non sotto il segno della vacuità. Eppure, nella sua verticalità, la macchina decrepita continua a dominare la scena, sovrastandola con la sua massa e il suo sigillo, con una potenza che è nello stesso tempo fallica, sciamanica e diabolica – l’arci-traccia nella sua pura fatticità. Per cogliere questa triplice potenza fallica, sciamanica e diabolica, l’artista porta sulla scena numerose figure dell’ombra, testimoni senza testimoni, figure-epitaffi di un’epoca che tarda a scomparire. In questo teatro dell’apparizione, uomini incatenati, prigionieri scalzi, forzati, portatori, persone seminude dallo sguardo stralunato emergono dalla notte delle carovane di schiavi e dei lavori forzati nelle colonie. Ci invitano a rivivere la scena traumatica, come se d’improvviso si ripetesse, si riproducesse nella realtà del presente l’incubo di ieri. A loro spetta di far parlare di nuovo e su questa scena abbandonata in

apparenza una lingua, una voce e una parola, mentre sembra che tutti si siano ridotti al silenzio, alla stregua della voce degli schiavi. 4. Antimuseo “Schiavo” va inteso come un termine generico che si riferisce a diverse situazioni e contesti ben descritti da storici e antropologi. Il complesso dello schiavismo atlantico, al centro del quale si trova il sistema della piantagione dei Caraibi, del Brasile o degli Stati Uniti, fu un anello evidente nella costituzione del capitalismo moderno. Questo complesso atlantico non produsse né lo stesso tipo di società né lo stesso tipo di schiavi del complesso islamico e trans-sahariano. Se c’è qualche cosa che distingue i regimi dello schiavismo transatlantico dalle forme autoctone delle società africane precoloniali, è proprio il fatto che queste non riuscirono mai a ricavare dai loro prigionieri un plusvalore comparabile a quello che si ricavava nel Nuovo Mondo. Per questo ci interessa in particolare lo schiavo del Nuovo Mondo, quello che aveva la particolarità di essere uno degli ingranaggi essenziali di un processo di accumulazione su scala planetaria. Stando così le cose, non è auspicabile che questa figura – al contempo concime e limo della storia – entri nel museo. D’altra parte non esiste nessun museo atto ad accoglierla. Fino a oggi la maggior parte dei tentativi che aspiravano a mettere in scena la storia della schiavitù transatlantica nei musei esistenti ha brillato per la sua vacuità. Nel migliore dei casi lo schiavo vi compare come appendice di una storia altra: una citazione a piè di una pagina dedicata a qualcun altro, ad altri luoghi, ad altre cose. Del resto, se lo schiavo vi entrasse davvero, il museo come esiste oggi smetterebbe automaticamente di essere un museo. Segnerebbe la propria fine e bisognerebbe, nel caso, trasformarlo in qualcosa d’altro, un altro luogo, un’altra scena, con altri allestimenti, altre indicazioni, perfino con un altro nome. Infatti, malgrado le apparenze, il museo non è mai stato storicamente un luogo che accogliesse senza condizioni molteplici volti dell’umanità considerata nella sua unità. Sarebbe invece stato, dall’età moderna in poi, un potente dispositivo di segregazione. L’esibizione di umanità assoggettate e umiliate ha sempre ubbidito ad alcune regole elementari

della lesione e della violazione. Prima di tutto quelle umanità non vi hanno mai avuto il diritto allo stesso trattamento e statuto e alla stessa dignità delle umanità conquistatrici. Saranno sempre assoggettate ad altre regole di classificazione e ad altre logiche di presentazione. Alla logica di separazione o di selezione, si è sempre aggiunta quella dell’assegnazione. La convinzione principale è che, siccome diverse forme di umanità avrebbero prodotto diversi oggetti e diverse forme di cultura, questi oggetti e queste forme dovrebbero essere ospitati ed esposti in luoghi distinti, dotati di ruoli simbolici differenti e disuguali. L’accesso degli schiavi in un tale museo sancirebbe doppiamente lo spirito di apartheid che sta all’origine di questo culto della differenza, della gerarchia e della disuguaglianza. D’altra parte, una delle funzioni del museo sarebbe anche stata la produzione di statue, di mummie e di feticci, oggetti privati del proprio soffio vitale e restituiti all’inerzia della materia. La trasformazione in statue, mummie e feticci segue direttamente la logica di segregazione appena ricordata. In generale non si tratta di offrire quando occorre pace e riposo al segno che ha per molto tempo ospitato la forma. Lo spirito che stava dietro alla forma è stato espulso in precedenza, come nel caso dei teschi raccolti nel corso delle guerre di conquista e di “pacificazione”. Per acquisire il suo diritto di cittadinanza nel museo così come esiste oggi, lo schiavo, alla pari di tutti gli oggetti primitivi che l’hanno preceduto, dovrebbe vedersi svuotato della propria forza e della propria energia primaria. La minaccia che questa figura-concime e questa figura-limo potrebbero rappresentare, come anche il loro potenziale di scandalo, sarebbe resa inoffensiva, quale condizione prioritaria per la loro esposizione. Da questo punto di vista il museo è uno spazio di neutralizzazione e di addomesticamento di forze che prima di finire in un museo erano vive, erano flussi di potenza. Rimane questo l’essenziale della sua funzione di culto, soprattutto nelle società scristianizzate dell’Occidente. È possibile che tale funzione (che è anche politica e culturale) sia necessaria per la sopravvivenza stessa della società, proprio come lo è la funzione dell’oblio nella memoria. Ma, appunto, si dovrebbe lasciare allo schiavo la forza di dare scandalo. Una forza che nasce paradossalmente dal fatto che si tratta di

uno scandalo che non si vuole riconoscere come tale. In questo rifiuto, è lo scandalo che offre a questa figura dell’umanità la sua forza insurrezionale. Per lasciare a tale scandalo il suo potere di scandalo, lo schiavo non dovrebbe entrare nel museo. La storia dello schiavismo atlantico, dunque, invita a questo: fondare quella nuova istituzione che sarebbe l’antimuseo. Lo schiavo deve continuare a infestare con la sua assenza il museo così come esiste oggi. Dovrebbe essere dappertutto e in nessun luogo, e le sue apparizioni dovrebbero avvenire sempre in forma di effrazione e mai di istituzione. Così verrà conservata allo schiavo la sua dimensione spettrale; così, inoltre, si impedirà di trarre facili conseguenze dall’evento abominevole che fu la tratta degli schiavi. L’antimuseo non è affatto un’istituzione, ma è la figura di un luogo altro, quello dell’ospitalità radicale. In quanto luogo di rifugio, l’antimuseo si concepisce anche come luogo di riposo e di asilo senza condizioni per tutti i rifiuti dell’umanità e i “dannati della terra”, i testimoni di quel sistema sacrificale che è stata la storia della nostra modernità, una storia che il concetto di archivio stenta a contenere. 5. Autofagia Ogni archivio, in quanto sempre legato al passato e avendo necessariamente a che fare con la memoria, ha in effetti una specie di fenditura. È nello stesso tempo scanalatura, apertura e separazione, incrinatura e spaccatura, screpolatura e distacco, crepa e fessurazione, perfino lacerazione. Ma l’archivio è soprattutto una materia sfaldabile, la cui caratteristica è, all’origine, di essere fatto di intagli. In effetti, non c’è archivio senza crepe. Vi si entra sempre come da una porta stretta, sperando di penetrare in profondità lo spessore dell’evento e le sue cavità. Penetrare il materiale d’archivio significa rivisitare delle tracce. Ma è soprattutto scavare direttamente il pendio. Impegno rischioso perché, nel nostro caso, si è trattato spesso di fare memoria fissando ostinatamente ombre più che fatti reali oppure fatti storici affondati nella forza dell’ombra. Abbiamo dovuto spesso disegnare, su tracce preesistenti, il nostro stesso profilo; cogliere i contorni dell’ombra e tentare di vedere noi stessi partendo dall’ombra, come ombra.

Spesso il risultato è stato sconcertante. Eccoci infatti in un quadro, sul punto di tirarci una pallottola in testa. Più in là, ci facciamo bambini etiopici all’apice della carestia che costò milioni di vite umane. Siamo sul punto di essere divorati da sciacalli che siamo noi stessi. Autofagia, si dovrebbe chiamare. E non è tutto. Negro nel Sud-Est degli Stati Uniti nell’epoca della segregazione razziale, la corda intorno al collo, eccoci appesi all’albero, soli, senza testimoni, alla mercé degli avvoltoi. Cerchiamo di mettere in scena una irrappresentabilità che vogliamo presentare come costitutiva, se non della nostra persona, almeno del nostro personaggio. Attraverso tutti questi gesti, scavalchiamo allegramente tempi e identità, pratichiamo escissioni di storia e ci sistemiamo stabilmente ai due lati dello specchio. Così facendo, non cerchiamo di cancellare le tracce precedenti, ma di assediare l’archivio attaccando sulle tracce del passato i nostri molteplici profili. Se è lasciato a se stesso, infatti, l’archivio non produce necessariamente visibilità. Quello che produce è un dispositivo speculare, fondamentalmente un’allucinazione generatrice di realtà. Ebbene, i due fantasmi originari creatori di realtà sono proprio la razza e il sesso. Nei processi che hanno portato alla nostra razzializzazione sono proprio questi ultimi ad essere in questione. Si tratta, in particolare, del corpo della Negra. Per coglierne il significato è forse importante ricordare che essere nera vuol dire essere collocata, per forza di cose, dalla parte di quelle che non si vedono, ma che comunque si è sempre autorizzati a rappresentare. I Negri, e soprattutto le Negre, non si vedono, perché l’idea è che non ci sia niente da vedere e che, in fondo, non abbiamo niente a che fare con loro. Non sono dei nostri. Raccontare storie che parlano di quelli e di quelle che non vediamo, disegnarli, rappresentarli o fotografarli, nel corso della storia è stato un atto di autorità suprema, la massima manifestazione della relazione senza desiderio. A differenza dei corpi negri presi nel ciclone del razzismo e resi invisibili, nauseabondi, sanguinanti e osceni dall’occhio coloniale, i nostri non subiscono nessun trucco. Sono pudichi senza esserlo. È il caso della poesia di Senghor. Corpi plastici e stilizzati brillano nella loro bellezza e per la grazia dei lineamenti. Non c’è bisogno di ricorrere alla metafora, nemmeno quando sono seminudi o quando sono messi in

scena sotto il segno della sensualità. Un po’ malizioso, il poeta cerca deliberatamente di cogliere l’istante nel quale chi si prende il rischio di guardarla non è più sul chi vive. Le immagini di corpi, di corpi negri, invitano infatti a un balletto alternato di sentimenti. Chi li guarda è spinto ora al gioco della seduzione, ora a una fondamentale ambiguità o addirittura al disgusto. La persona che si vede è esattamente la stessa e in ogni tipo di abbigliamento? La si guarda, ma la si vede davvero? Che significa quella pelle nera dalla superficie scivolosa e luccicante? Quel corpo messo sotto l’occhio degli altri, osservato dappertutto, che si è messo nel corpo degli altri, in quale istante passa dall’essere un io allo stato di oggetto? In che cosa quell’oggetto è il segno di un piacere vietato? D’altronde, a differenza delle tracce precedenti che esse si sforzano di abitare o addirittura di sviare, ci sono immagini di Negre che non ispirano affatto compassione. Incarnano, prima di tutto, una straordinaria bellezza, tale che, come suggeriva Lacan, si colloca al margine estremo di quella che egli chiamava «la zona interdetta». Una caratteristica tipica della bellezza è di esercitare effetti rassicuranti. Il dolore, in quelle immagini, appare secondario. In esse non c’è niente che spinga a distogliere lo sguardo. Sono ben diverse dalle immagini orrende, sanguinose e ripugnanti dei linciaggi storici. Niente bocche spalancate, niente facce contorte e contratte in una smorfia. È così perché quelle immagini si riferiscono a un movimento intimo, al lavoro del corpo su se stesso. Sono ora fotografie, ora immagini speculari, ora effigi e perfino riflessi. Soprattutto, però, si tratta di icone indicatrici, la cui relazione con il soggetto è nello stesso tempo fisica (nel senso che le immagini sono fedeli a quanto oggettivamente appare all’autore) e analogica (nel senso che sono tracce che indicano i parametri del soggetto). Sono fatte per catturare chi le guarda e per costringerlo a cedere le armi. Da questo punto di vista esse hanno una certa relazione con l’effetto pacificante che Lacan attribuiva alla pittura. Invece di disattivare il desiderio, lo esaltano neutralizzando e sconnettendo le resistenze di chi guarda e accendendone le fantasie. Dal corpo color della notte emana una bellezza originaria. È una bellezza vietata e, per questo, genera desideri manifesti. Ma anche ansie maschili. Una bellezza così può solo

castrare. Non può diventare oggetto di consumo. Può essere solo oggetto di un cortese e casto diletto. La forza delle immagini di corpi di Negre emerge dalla loro capacità di disinnescare l’archivio. Attraverso le immagini, le Negre accettano di vedersi Altre. Ma riescono davvero a emigrare da loro stesse? Fanno lavorare i loro corpi. Ma ogni corpo, comunque sia, non è mai determinato solo da sé: lo è sempre anche dall’Altro, da chi lo guarda, lo contempla, e dalle parti del corpo che sono osservate o che vengono offerte allo sguardo e alla contemplazione. Nello sguardo dell’Altro l’Io ritrova sempre il proprio desiderio, sebbene in una forma invertita. Quando facciamo affiorare così il desiderio, compreso il desiderio di sé, ma riferendolo a un piacere vietato, non sottraiamo forse a quelle immagini il loro potere di significazione storica? Ciò che inizialmente era destinato a decostruire la cosa e a creare un nuovo termine nell’ordine dell’archivio – e quindi del significante – non si trasforma così in semplice autocontemplazione, in un’iperbole dell’Io? Esponendoci in questo modo, ci guardiamo come ci guardano gli altri? E quando ci guardano, che cosa vedono? Come ci vediamo noi stessi? O in fondo fissano solo un miraggio? Fatte queste riflessioni, si capiscono meglio le premesse della critica afrofuturista. Oggi si tratta di capire se questa critica si può radicalizzare e se questa radicalizzazione presuppone necessariamente il ripudio di qualsiasi idea di umanità. Per Fanon questo ripudio non è necessario. L’umanità è costantemente in fase di creazione. Il suo fondamento comune è la vulnerabilità, a partire dai corpi esposti alla sofferenza e al decadimento. Ma la vulnerabilità è anche quella del soggetto esposto ad altre esistenze che potrebbero minacciare la sua. Senza un riconoscimento reciproco di questa vulnerabilità, non c’è spazio per la sollecitudine e ancor meno per la cura. Farsi commuovere da altri – o essere esposti senza armatura a un’altra esistenza – è il primo passo verso quella forma di riconoscimento che non si fa rinchiudere né nel paradigma del padrone e dello schiavo né nella dialettica dell’impotenza e dell’onnipotenza, o della battaglia, della vittoria e della sconfitta. Invece il tipo di relazione che ne deriva è una relazione di cura. Per questo, riconoscere e accettare la vulnerabilità – o anche ammettere che vivere significa essere sempre esposti, anche alla

morte – è il punto di partenza per qualsiasi elaborazione etica il cui oggetto, in ultima istanza, è l’umanità. Secondo Fanon, questa umanità in creazione è il prodotto dell’incontro con «il volto dell’Altro», quello che, fra l’altro, «mi rivela a me stesso»36. Essa comincia con quello che Fanon chiama «il gesto», ovvero «ciò che rende possibile una relazione»37. L’umanità, infatti, esiste solo dove è possibile il gesto – e quindi la relazione di cura –, là dove ci si lascia influenzare dal volto dell’Altro; là dove il gesto è riferito alla parola, a un linguaggio che rompe il silenzio. Ma non c’è niente che garantisca un accesso diretto alla parola. Al posto della parola è possibile in certi casi emettere solo grida roche e urla – l’allucinazione. È una caratteristica dello schiavismo e del colonialismo fabbricare esseri di dolore, persone la cui esistenza è costantemente aggredita da un gran numero di minacciosi Altri. Una parte dell’identità di questi esseri subisce la prova del restringimento, dell’essere continuamente soggetta al volere altrui. La loro parola, per la maggior parte del tempo, è una parola allucinata. È una parola che attribuisce un’importanza centrale al gioco e al mimo, una parola proliferante, che si dispiega come in un turbine. È una parola vertiginosa, veemente, che, nella sua aggressività come nella protesta, è «attraversata da ansie legate a frustrazioni infantili»38. Con il processo allucinatorio, spiega sempre Fanon, si assiste al crollo del mondo. «Il tempo e lo spazio dell’allucinazione non postulano nessuna pretesa di realtà», perché si tratta di un tempo e di uno spazio «in fuga perpetua»39. Lasciar parlare queste persone ferite è il modo per risuscitare le loro capacità debilitate. Nelle situazioni terapeutiche di cui parla Fanon, la risurrezione delle capacità debilitate passa, all’occorrenza, dall’annientamento40. Alle sedute di narcosi si sostituisce il confronto diretto con la parte del paziente a portata di mano, quella che, coperta da un velo, si infiltra negli interstizi della parola, del grido, dell’urlo. Il confronto aggressivo, al limite della violenza alla personalità, ha lo scopo di rompere le difese, di esporre nella sua radicale nudità la parte-scarto e la parte-scoria del soggetto scisso. Segue l’immersione in un sonno profondo, la via maestra verso lo stadio confusionale amnesico. Facendo precipitare il soggetto in questo

stadio di confusione amnesica, si cerca di riportarlo alle origini, al momento della sua venuta al mondo, all’inizio della coscienza. Sottoposto a elettroshock e a terapia insulinica, il paziente intraprende un cammino inverso, in direzione di una situazione primitiva, quella esperita da tutti gli esseri umani – il ritorno allo stato di vulnerabilità assoluta, del rapporto del figlio con la madre, le cure di pulizia, le poppate, le prime parole, i primi volti, i primi nomi, i primi passi e i primi oggetti. Intesa così, la risurrezione è un processo di “dissoluzionericostruzione” della personalità. Il suo fine ultimo è la riscoperta dell’io e del mondo. 6. Capitalismo e animismo Peraltro, è possibile approfondire la critica afrofuturista all’umanesimo solo associandola a una critica equivalente al capitalismo. Infatti, fin dalle sue origini il capitalismo è stato animato da pulsioni di tre tipi. La prima sarebbe quella che induce a fabbricare razze e specie (all’occorrenza Negri); la seconda cerca di calcolare tutto e convertire tutto in merce che si possa scambiare (legge dello scambio generalizzato); la terza cerca di esercitare il monopolio sulla fabbricazione del vivente in quanto tale. Il “processo di civilizzazione” consisterà nel temperare queste pulsioni e nel conservare, con esiti diversi, un certo numero di separazioni fondamentali senza le quali la “fine dell’umanità” diventerebbe una chiara possibilità – un soggetto non è un oggetto; non si può calcolare aritmeticamente, vendere e comprare tutto; non tutto è sfruttabile e sostituibile; è necessario sublimare un certo numero di fantasie perverse, se non si vuole che portino alla distruzione pura e semplice del sociale. Il neoliberalismo è l’epoca nella quale questi argini crollano, uno dopo l’altro. Non è più certo che la persona umana si distingua dall’oggetto, dall’animale o dalla macchina. Forse, in fondo aspira a diventare un oggetto41. Non è nemmeno più sicuro che sia un tabù la fabbricazione di specie e sottospecie nell’ambito dell’umanità. L’abolizione dei tabù e la liberazione più o meno totale di ogni tipo di pulsioni, la loro trasformazione in altrettanti materiali in un processo

senza fine di accumulazione e di astrazione sono ormai caratteristiche fondamentali della nostra epoca. Questi fatti e altri di uguale natura indicano chiaramente come la fusione tra il capitalismo e l’animismo sia sulla buona strada. Il che è tanto più vero in quanto i territori, le risorse naturali e gli esseri umani non sono più la materia prima dell’economia42. Certo, territori, risorse naturali ed esseri umani sono sempre indispensabili, ma l’ambiente naturale dell’economia è il mondo dei computer e degli organismi biologici e artificiali. È l’universo astrale degli schermi, degli scorrimenti fluidi, dei bagliori e dell’irradiazione. È anche il mondo dei cervelli umani e dei calcoli automatizzati, del lavoro con strumenti di dimensioni sempre più ridotte, sempre più miniaturizzati. In queste condizioni la produzione di Negri non consiste più esattamente nella fabbricazione di un legame sociale di subordinazione o di un corpo da sfruttare, ovvero un corpo completamente esposto alla volontà del padrone e dal quale ci si sforza di ottenere il massimo di redditività. D’altronde, se ieri il Negro era l’essere umano di origine africana segnato dal sole e dal colore della sua epidermide, oggi non è più così. Assistiamo ormai a una universalizzazione tendenziale della condizione che un tempo era riservata ai Negri, ma in modo rovesciato. Quella condizione consisteva nella riduzione dell’essere umano a cosa, a un oggetto, una merce che si poteva vendere, comprare e possedere. La produzione di “soggetti di razza” continua certamente, ma con nuove modalità. Oggi il Negro non è più solo la persona di origine africana, quella che è segnata dal sole con il suo colore (il “Negro di superficie”). Il “Negro di fondo” è oggi una categoria subordinata dell’umanità, un genere umano subalterno, la parte superflua e quasi eccedente, che non serve affatto al capitale e che sembra destinata alla segregazione e all’espulsione43. Questo “Negro di fondo”, questo genere di umanità, fa la sua comparsa sulla scena del mondo proprio quando il capitalismo si costituisce più che mai con le modalità di una religione animista, mentre l’uomo in carne e ossa di una volta lascia il posto a un nuovo uomoflusso, digitale, che è infiltrato dovunque da organi sintetici e da protesi artificiali di ogni sorta. Il “Negro di fondo” è l’Altro di questa umanità informatica, nuova figura della specie, così tipica della nuova epoca del

capitalismo, nella quale l’autoreificazione rappresenta la migliore opportunità di capitalizzazione dell’Io44. Infine, se lo sviluppo accelerato delle tecniche di sfruttamento massiccio delle risorse naturali faceva parte del vecchio progetto di riduzione del mondo a numeri, quello stesso progetto aveva in fondo un unico obiettivo, l’amministrazione del vivente che oggi tende a operare in una forma sostanzialmente digitale45. In epoca tecnotronica l’umano si presenta sempre più in forma di flusso, di codici sempre più astratti, di entità sempre più fungibili. Dato che l’idea è che ormai tutto possa essere fabbricato, compreso il vivente, si ritiene che l’esistenza sia un capitale che si gestisce e l’individuo una particella di un dispositivo oppure un’informazione che va tradotta in un codice collegato ad altri codici, secondo una logica di astrazione che cresce sempre più. In tale universo di megacalcoli sta sorgendo un nuovo regime di intellezione che si dovrebbe probabilmente chiamare antropomacchinismo. Stiamo così passando a una nuova condizione umana. L’umanità sta uscendo dalla grande suddivisione tra uomo, animale e macchina che tanto ha caratterizzato il discorso sulla modernità e l’umanesimo. Oggi l’umano è fermamente connesso al suo animale e alla sua macchina, a un insieme di cervelli artificiali, di duplicazioni e triplicazioni che formano la base della digitalizzazione estensiva della sua vita. Stando così le cose, a differenza di ieri i padroni di oggi non hanno più bisogno di schiavi. Poiché gli schiavi sono diventati un fardello troppo gravoso da portare, i padroni cercano di sbarazzarsene. Il grande paradosso del ventunesimo secolo è l’apparire di una classe in continuo aumento di schiavi senza padrone e di padroni senza schiavi. Certo, sia gli esseri umani sia le risorse naturali continuano a subire la pressione che mira all’aumento del profitto. Dopo tutto, questo ribaltamento è logico, perché il nuovo capitalismo è soprattutto speculare. I vecchi padroni che l’hanno capito cercano a questo punto di sbarazzarsi dei loro schiavi. Pensano che senza schiavi non dovrebbero esserci rivolte, che per stroncare all’origine le potenzialità insurrezionali basti liberarsi del potenziale mimetico degli asserviti. Finché i nuovi liberti si affanneranno per diventare i padroni che non saranno mai, le

cose non potranno mai essere diverse da quelle che sono. La regola, sempre e dovunque, sarà la ripetizione dell’identico. 7. Emancipazione del vivente Resta da riflettere sulle prospettive future del razzismo nell’ambito di questa configurazione. Storicamente, almeno nelle colonie di popolamento e negli Stati schiavisti, il razzismo è sempre servito da sussidio al capitale. Ieri era questa la sua funzione. Classe e razza si costituivano a vicenda. Si apparteneva in generale a una data classe in virtù della propria razza e l’appartenenza a una razza determinava di converso le possibilità di mobilità sociale e di accesso a un dato status sociale. La lotta di classe era inscindibile dalla lotta di razza, anche se le due forme di antagonismo erano animate da logiche talora autonome46. Il processo di formazione delle razze, infatti, passava inevitabilmente da pratiche di discriminazione. La razza permetteva di rendere naturali le differenze sociali e di contenere le persone sgradite entro limiti dai quali erano impossibilitate a uscire per legge o per forza. Oggi compaiono nuove varianti del razzismo che non hanno più bisogno di ricorrere alla biologia per legittimarsi. Basta, per esempio, incitare alla caccia allo straniero, proclamare l’incompatibilità tra “civiltà” diverse, sostenere che non apparteniamo alla stessa umanità, che le culture sono incommensurabili; o che ogni Dio che non è il dio della loro religione è un falso dio, un dio che provoca il sarcasmo e che per questo si può profanare senza riserve. Nelle condizioni attuali della crisi in Occidente, questo tipo di razzismo fa da integrazione al nazionalismo, nel momento in cui, d’altra parte, la globalizzazione neoliberale svuota il nazionalismo e perfino la stessa democrazia di ogni contenuto autentico e sposta lontano i veri centri decisionali. D’altra parte, i progressi recenti nei campi della genetica e delle biotecnologie confermano l’idea che il concetto di razza è privo di senso. Paradossalmente, invece di dare un nuovo impulso all’idea di un mondo senza razze, rilanciano in un modo del tutto inaspettato il vecchio progetto di differenziazione e di classificazione tipico dei secoli precedenti. È dunque in corso un progetto complesso di unificazione del mondo

nel contesto di un’espansione senza frontiere (benché ineguale) del capitalismo. Il processo va di pari passo con la reinvenzione delle differenze, una nuova balcanizzazione di questo stesso mondo con una ripartizione che segue una varietà di linee di separazione e di inclusioni disgiuntive. Tali linee sono nel contempo interne alle società e agli Stati, e verticali, in quanto tracciano nuove ripartizioni del dominio su scala planetaria. La globalizzazione dell’apartheid: questo sarebbe il futuro immediato del mondo, nel momento esatto in cui è viva come non mai la coscienza della finitezza della Terra ed evidente come mai prima l’intreccio tra la specie umana e le altre forme di vita. Come si può fare, allora, a porre in termini nuovi la questione della liberazione del potenziale di emancipazione degli asserviti nelle condizioni concrete del nostro tempo? Che cosa vuol dire costruirsi da sé, tracciare il proprio destino o darsi una propria forma nel momento in cui “l’uomo” è solo una forza tra molte altre entità dotate di capacità cognitive che forse presto supereranno le nostre? Significa allora che il corpo umano, scisso in più frammenti, debba fare i conti con un intrico di forze artificiali, organiche, sintetiche o addirittura geologiche? È sufficiente screditare il vecchio concetto di un umanesimo astratto e indifferenziato, incapace di vedere la propria violenza e i propri sentimenti razzisti? E quali sono i limiti dell’appello a una pretesa “specie umana” che non riscoprisse la relazione con se stessa perché esposta al rischio della propria estinzione? D’altronde, nelle condizioni attuali, come si può favorire l’emergere di un pensiero capace di contribuire al consolidamento di una politica democratica su scala mondiale, un pensiero di complementarietà invece che di differenza? In effetti stiamo attraversando un periodo strano della storia umana. Uno dei paradossi del capitalismo contemporaneo è quello di creare e insieme annullare il tempo. Il duplice processo di creazione, accelerazione e plastificizzazione del tempo ha effetti devastanti per la nostra capacità di “fare memoria”, ovvero, in fondo, di costruire spazi di decisione collettiva, di fare esperienza di una vita veramente democratica. Al posto della memoria noi abbiamo decuplicato le nostre capacità di raccontare storie di ogni genere. Ma si tratta sempre più di storie ossessive il cui scopo è di impedirci di prendere coscienza della nostra nuova condizione.

Che condizione è? La speranza di un’eventuale vittoria sul Padrone non si pone più. Non aspettiamo più la sua morte. Non crediamo più che sia mortale. Per questo ci rimane un’unica illusione: essere noi stessi dalla parte del Padrone. C’è ormai un unico desiderio che viviamo sugli schermi, a partire dagli schermi. La nuova scena è lo schermo. Lo schermo non cerca solo di eliminare la distanza tra finzione e realtà. È diventato generatore di realtà. È un elemento costitutivo delle condizioni del secolo. Quasi dappertutto, perfino nei paesi di antica tradizione che se ne vantano da tanto tempo, la democrazia è in crisi. Certo più di ieri essa incontra enormi difficoltà a riconoscere alla memoria e alla parola il loro pieno valore di fondamenti di un mondo umano che avremmo in condivisione, in comune, e del cui spazio pubblico ci si dovrebbe prendere cura. Ci riferiamo alla parola e al linguaggio non solo per il loro potere di rivelazione e la loro funzione simbolica, ma soprattutto in ragione della loro materialità. In ogni regime democratico, infatti, c’è una materialità della parola derivante dal fatto che in fondo noi abbiamo solo la parola e il linguaggio per dire noi stessi, per dire il mondo e agire su di esso. Ma parola e oggetto si sono fatti strumenti, nano-oggetti e tecnologie. Sono diventati utensili assorbiti in un ciclo di riproduzione infinita che continuano ad autoattrezzarsi. In seguito a ciò, i flussi incessanti di eventi che colpiscono le nostre coscienze non si inseriscono nelle nostre memorie come storia. Questo può avvenire solo in seguito a un lavoro particolare, tanto psichico quanto sociale, in una parola simbolico, e di questo lavoro, nelle condizioni tecnologiche, economiche e politiche della nostra civiltà, non si fa più carico la nostra democrazia. Questa crisi dei rapporti tra la democrazia e la memoria è aggravata dalla duplice ingiunzione che incombe sulle nostre esistenze – l’ingiunzione di riduzione del mondo ai numeri e l’ingiunzione di strumentalismo –, con la quale ci si fa credere che gli esseri umani che noi siamo siano in realtà unità numeriche e non esseri concreti, che il mondo sia in fondo un insieme di situazioni-problemi da risolvere, e che le soluzioni a tali situazioni-problemi dobbiamo trovarle rivolgendoci

agli specialisti dell’economia sperimentale e della teoria dei giochi, ai quali, anzi, dobbiamo lasciare il compito di decidere al nostro posto. Che dire infine della confluenza tra capitalismo e animismo? Come ricorda l’antropologo Philippe Descola, alla fine del diciannovesimo secolo l’animismo era considerato una credenza primitiva. Si pensava che i primitivi attribuissero a oggetti inanimati una forza e un potere quasi misteriosi. Credevano che le entità naturali e sovrannaturali non umane, per esempio animali, piante e oggetti, possedessero un’anima e intenzioni simili a quelle degli umani. Queste entità non umane erano dotate di uno spirito con il quale era possibile entrare in comunicazione e anche intrattenere rapporti molto stretti. In questo i primitivi erano diversi da noi, perché, a differenza di loro, noi eravamo consapevoli della differenza tra noi e gli animali. Quello che ci separava dagli animali e dalle piante era il fatto che in quanto soggetti noi avevamo un’interiorità, una capacità di autorappresentazione, e una volontà propria. La confluenza tra capitalismo e animismo si rende visibile nella riproposta contemporanea di un’ideologia neoliberale che fabbrica finzioni di ogni genere. Come quella di un uomo neuroeconomico, uno stratega, freddo, calcolatore, che interiorizza le regole del mercato e regola la propria condotta come in un gioco di economia sperimentale, fornendo a sé e agli altri degli strumenti per ottimizzare le parti dedicate al godimento, e le cui competenze emotive sarebbero geneticamente predeterminate. Nata al crocevia tra scienze economiche e neuroscienze, questa finzione porta alla liquidazione del soggetto tragico della psicoanalisi e della filosofia politica, un soggetto diviso, in conflitto con se stesso e con gli altri, e tuttavia autore del proprio destino attraverso la narrazione, la lotta e la storia. 1

Frantz Fanon, Cette Afrique à venir, in Id., Pour la révolution, cit., p. 860. Ivi, p. 861. 3 Ivi, p. 860. 4 Andrews William, To Tell a Free Story. The First Century of African American Autobiography, 1760-1865, University of Illinois Press, Urbana 1986. 5 John Ernest, Liberation Historiography. African American Writers and the Challenge of History, 1794-1861, University of North Carolina Press, Chapel Hill 2004. 6 Vedi, in quest’ottica, Alexander Crummell, Destiny and Race. Selected Writings, 1840-1898, The University of Massachusetts Press, Amherst 1992; Edward W. Blyden, Christianity, Islam and the Negro Race, Black Classic Press, Baltimore 1978 [1887]. Vedi anche Léopold Sédar Senghor, Liberté I. Négritude et humanisme, Seuil, Paris 1964 [trad. it., Libertà 1. Negritudine e umanesimo, Rizzoli, Milano 1974]; Paul Gilroy, Against Race. Imagining Political Culture Beyond the Color Line, 2

Harvard University Press, Cambridge (MA) 1998; Fabien Éboussi Boulaga, La crise du Muntu. Authenticité africaine et philosophie, Présence africaine, Paris 1981. 7 Fanon, Œuvres, cit. 8 Sul versante atlantico, vedi John Thornton, Africa and Africans in the Making of the Atlantic World, 1400-1680, Cambridge University Press, Cambridge 1992. 9 Ralph Ellison, Invisible Man, Random House, New York 1952 [trad. it., Uomo invisibile, Einaudi, Torino 1993]. 10 James Baldwin, The Fire Next Time, Vintage Books, New York 1963 [trad. it., La prossima volta il fuoco, Feltrinelli, Milano 1995]. 11 Gilroy, L’Atlantique noir, cit. 12 Vedi per esempio Mintz, Sweetness and Power, cit.; Seymour Shapiro, Capital and the Cotton Industry in the Industrial Revolution, Cornell University Press, Ithaca 1967; John Hebron Moore, The Emergence of the Cotton Kingdom in the Old Southwest. Mississippi, 1770-1860, University of Louisiana Press, Baton Rouge 1988. 13 Markus Rediker, Peter Linebaugh, The Many-Headed Hydra: Sailors, Slaves, Commoners, and the Hidden History of the Revolutionary Atlantic, Verso, London 2001 [trad. it., I ribelli dell’Atlantico. La storia perduta di un’utopia libertaria, Feltrinelli, Milano 2018]. 14 Vedi Peter Mark, “Portuguese” Style and Luso-African Identity. Precolonial Senegambia, Sixteenth-Nineteenth-Centuries, Indiana University Press, Bloomington 2002; J. Lorand Matory, Black Atlantic Religion. Tradition, Transnationalism, and Matriarchy in the Afro-Brazilian Candomble, Princeton University Press, Princeton 2005; e David Northrup, Africa’s Discovery of Europe, 1450-1850, Oxford University Press, Oxford 2009. 15 Césaire, Discours sur le colonialisme, cit. 16 Vedi da questo punto di vista Senghor, Liberté, cit.; Édouard Glissant, Traité du Tout-Monde, Gallimard, Paris 1997; e Gilroy, Against Race, cit. 17 David Scott, The re-enchantment of humanism. An interview with Sylvia Wynter, in «Small Axe», n. 8, settembre 2000, pp. 119-207; e Sylvia Wynter, Human being as noun? Or being human as praxis? Towards the autopoetic turn/overturn. A manifesto, 25 agosto 2007 (disponibile su http://fr.slideshare.net). 18 Cheikh Anta Diop, Nations nègres et culture, Présence africaine, Paris 1954. 19 Cheikh Anta Diop, Antériorité des civilisations nègres. Mythe ou vérité historique?, Présence africaine, Paris 1967. 20 Ibid.; vedi anche Id., Civilisation ou Barbarie, Présence africaine, Paris 1983. 21 Vedi, per esempio, la produzione fantastica di Samuel R. Delany e Octavia Butler. Vedi anche i quadri di Jean-Michel Basquiat, le fotografie di Renée Cox e si possono ascoltare le traduzioni musicali di miti extraterrestri nelle produzioni di Parliament-Funkadelic, Jonzun Crew e Sun Ra. Per un’introduzione generale, vedi Alondra Nelson (a cura di), Afrofuturism. A special issue, in «Social Text», n. 71, 2002. 22 Kodwo Eshun, More Brilliant than the Sun. Adventures in Sonic Fiction, Quartet Books, London 1999. 23 Vedi le opere di autori tanto diversi come Alexander Weheliye, Phonographies. Grooves in Sonic Afro-modernity, Duke University Press, Durham 2005; Fred Moten, In the Break. The Aesthetics of the Black Radical Tradition, University of Minnesota Press, Minneapolis 2003; Eshun, More Brilliant than the Sun, cit. 24 Vedi in particolare Nelson, Afrofuturism, cit.; Ytasha L. Womack, Afrofuturism. The World of Black Science Fiction and Fantasy Culture, Chicago Review Press, Chicago 2013; Bill Campbell, Edward Austin Hall, Mothership. Tales from Afrofuturism and Beyond, Rosarium Publishing,

Greenbelt 2013; Sheree R. Thomas, Dark Matter. A Century of Speculative Fiction from the African Diaspora, Warner Books, New York 2000. 25 Vedi Earl Gammon, Nature as adversary. The rise of modern conceptions of nature in economic thought, in «Economy & Society», vol. 38, n. 2, 2010, pp. 218-246. 26 Bourguet, Bonneuil (a cura di), De l’inventaire du monde à la mise en valeur du globe, cit. 27 Per il periodo coloniale vedi per esempio Richard H. Grove, Green Imperialism. Colonial Expansion, Tropical Island Edens and the Origins of Environmentalism, 1600-1860, Cambridge University Press, Cambridge 1995. 28 Vedi Randy J. Sparks, Where the Negroes Are Masters. An African Port in the Era of the Slave Trade, Harvard University Press, Cambridge (MA) 2014. 29 Richard H. Steckel, A peculiar population. The nutrition, health, and mortality of U.S. slaves from childhood to maturity, in «Journal of Economic History», vol. 46, n. 3, 1986, pp. 721-741. 30 Michael Tadman, Speculators and Slaves. Masters, Traders, and Slaves in the Old South, University of Wisconsin Press, Madison 1989; Laurence J. Kotlikoff, Quantitative description of the New Orleans slave market, in Robert William Fogel, Stanley L. Engerman (a cura di), Without Consent or Contract. The Rise and Fall of American Slavery, W.W. Norton & Co., New York 1989; inoltre Maurie McInnis, Slaves Waiting for Sale. Abolitionist Art and the American Slave Trade, Chicago University Press, Chicago 2011. 31 Christopher Hager, Word by Word. Emancipation and the Act of Writing, Harvard University Press, Cambridge (MA) 2013. 32 Sharla M. Fett, Working Cures. Healing, Health, and Power on Southern Slave Plantations, University of North Carolina Press, Chapel Hill 2002. 33 Edward E. Baptist, The Half Has Never Been Told. Slavery and the Making of American Capitalism, Basic Books, New York 2014. 34 Caroline Oudin-Bastide, Philippe Steiner, Calcul et morale. Coûts de l’esclavage et valeur de l’émancipation (XVIIIe-XIXe siècle), Albin Michel, Paris 2014. 35 Mbembe, Critique de la raison nègre, cit. 36 Fanon, Écrits sur l’aliénation et la liberté, cit., p. 181. 37 Ivi, p. 182. 38 Ivi, p. 373. 39 Ibid. 40 Vedi in particolare i due articoli Sur quelques cas traités par la méthode de Bini e Indications de la thérapeutique de Bini dans le cadre des thérapeutiques institutionnelles, ivi, pp. 238-249. 41 Hito Steyerl, A thing like you and me, in «e-flux», n. 15, 2010. 42 Joseph Vogl, Das Gespenst des Kapitals, Diaphanes, Zürich 2010. 43 Saskia Sassen, Expulsions. Brutality and Complexity in the Global Economy, Harvard University Press, Cambridge (MA) 2014. 44 Mbembe, Critique de la raison nègre, cit. 45 Sadin, L’Humanité augmentée, cit. 46 Cedric J. Robinson, Black Marxism. The Making of the Black Radical Tradition, University of North Carolina Press, Chapel Hill 1983.

Conclusioni.

L’etica del passante

Il ventunesimo secolo si apre con un’ammissione, quella dell’estrema fragilità di tutti. E del Tutto, a partire dall’idea del “Tutto-mondo” espressa recentemente in poesia da Édouard Glissant. La condizione terrestre non è mai stata l’unica possibilità per gli umani. Domani lo sarà ancora meno di ieri. D’ora in poi, la potenza potrà essere solo frammentata, divisa tra diversi nuclei. Questa fissione della potenza rappresenta un’opportunità per l’esperienza umana della libertà o ci porterà invece al limite della separazione? Davanti alla condizione di estrema vulnerabilità molti sono tentati di ripetere l’originario e altri sono attratti dal vuoto. Gli uni e gli altri credono che la rigenerazione passerà dalla radicalizzazione della differenza, che la salvezza verrà dalla forza della distruzione. Credono che preservare, conservare, salvaguardare sia a questo punto l’orizzonte, la condizione stessa dell’esistenza, nel momento in cui tutto è nuovamente governato dalla spada. Tutto, fino al politico stesso, rischia l’abolizione. Quanto alle democrazie, continuano a isterilirsi e a cambiare regime. Hanno ormai come oggetto soltanto fantasie e accidenti e questo le ha rese imprevedibili e paranoiche, potenze anarchiche senza simboli, senza significato né destino. Private di ciò che le giustificava, resta loro solo l’esteriorità ornamentale. A questo punto non c’è più niente di inviolabile, di inalienabile né di imprescrittibile. Tranne, forse, sempre la proprietà. In queste condizioni è possibile non essere cittadino di nessuno Stato in particolare. I paesi che ci hanno visto nascere li portiamo profondamente in noi, con i loro volti, i paesaggi, le caotiche molteplicità, i fiumi e i monti, le

foreste, le savane, le stagioni, il canto degli uccelli, gli insetti, l’aria, il sudore e l’umidità, il fango, il frastuono delle città, le risate, il disordine e l’indisciplina. E la stupidità. Più si cammina, però, più quei paesi ci diventano estranei e ormai riusciamo a osservarli solo in controluce. Eppure in certi giorni ci sorprendiamo a cantare in silenzio il loro nome, a desiderare di ripercorrere i sentieri della nostra infanzia, in quelle contrade che ci hanno visto nascere e dalle quali abbiamo finito per allontanarci una volta per tutte, senza che abbiano mai smesso di provocarsi tanti crucci. Come Fanon che, nel pieno della guerra d’Algeria, ricorda la Martinica, l’isola dov’era nato. Questo modo di ricordare che è nello stesso tempo presa di distanza, questa autospoliazione, sarebbe dunque il prezzo da pagare per vivere e pensare liberamente, facendolo cioè a partire da un certo denudamento, un certo distacco, nella posizione di chi non ha niente da perdere perché ha rinunciato in una certa misura fin dall’inizio a possedere qualcosa di suo o, anche, perché ha perso tutto o quasi tutto? Ma perché una relazione tanto stretta dovrebbe unire in questo modo la libertà, la capacità di pensare e la rinuncia a ogni forma di perdita – e quindi una certa idea del calcolo e della gratuità? Quanto a perdere tutto o quasi – meglio, quanto a staccarsi da tutto o a rinunciare a tutto o quasi – è questa la condizione per guadagnare in serenità in questo mondo e in questa età turbolenta in cui spesso quello che si ha non vale affatto quello che si è e quello che si guadagna non ha il minimo rapporto con quello che si perde? D’altra parte, staccarsi da tutto o quasi, rinunciare a tutto o quasi, significa che ormai non si sta da nessuna parte, che non si risponde più di niente e di nessun nome? E poi, che ne è della libertà se non si può davvero distaccarsi dal fatto di essere nati da qualche parte – il rapporto tra carne ed ossa, la doppia legge del suolo e del sangue? Come mai questo accidente segna in modo così irrevocabile chi siamo, come siamo percepiti e per chi ci prendono gli altri? Perché determina in modo così decisivo a che cosa abbiamo diritto, con quello che segue: la somma delle prove, dei documenti e delle giustificazioni che dobbiamo fornire ogni volta per sperare di avere qualsiasi cosa, a

partire dal diritto di esistere, il diritto di essere dove la vita alla fine ci conduce, passando per quello di circolare liberamente? Attraversare il mondo, prendere la misura dell’accidente che rappresenta il nostro luogo di nascita con il suo contrappeso di arbitrarietà e di costrizioni, assecondare il flusso irreversibile che è il tempo della vita e dell’esistenza, imparare a far proprio il nostro ruolo di passanti, in quanto è forse questa, in ultima istanza, la condizione della nostra umanità, il fondamento sul quale creiamo la cultura: tali sono in fondo le questioni più ardue della nostra epoca, quelle che ci avrebbe trasmesso Fanon nella sua farmacia, la farmacia del passante. Di fatto ci sono pochi termini pregni di significati quanto quello di “passante”. Prima di tutto questa parola ne richiama molte altre, a cominciare da pas – la negazione in francese (ciò che non esiste ancora o che esiste solo come assenza) – e passo, ritmo, cadenza, perfino velocità in una corsa o una marcia, uno spostamento, ciò che è (in) movimento. Poi c’è, volgendosi, “passato” – il passato non come traccia di quello che è già avvenuto, ma il passato che sta per avvenire, che si può cogliere nel momento della rottura, nell’atto stesso con cui avviene, nell’istante in cui, come spuntando dalla fessura, si sforza di nascere all’evento, di diventare evento. Poi c’è il “passante”, questa figura dell’“altrove”, perché il passante passa solo perché, arrivando da un altro luogo, è sulla strada verso altri cieli. È di “passaggio”, e quindi ci ingiunge di accoglierlo, almeno momentaneamente. Ma ci sono anche “passatore” e, ancor più, “passaggio” e “passeggero”. Così il passante sarebbe tutto questo insieme, il veicolo, il ponte o la passerella, il fasciame che copre i bagli di un’imbarcazione, chi ha altrove le proprie radici ed è di passaggio in un luogo dove risiede temporaneamente, per poi tornare a casa al momento dato? Che cosa succederebbe, però, se non tornasse affatto e se, per avventura, proseguisse il cammino andando di luogo in luogo, tornando sui suoi passi nel caso, ma sempre alla periferia del suo luogo natale, senza peraltro dichiararsi “rifugiato” o “migrante” o, ancor meno “cittadino” o autoctono, persona del posto? Se evochiamo, a proposito della nostra epoca, la figura del passante, il

carattere fuggitivo della vita, non facciamo l’elogio né dell’esilio, né del rifugio, né della fuga, né del nomadismo. Non celebriamo nemmeno un mondo zingaro e senza radici. Nelle condizioni attuali, un mondo così semplicemente non esiste. C’è invece il tentativo, che abbiamo provato a fare in questo saggio, di evocare la figura di un uomo che ha cercato di percorrere un sentiero ripido: che se ne è andato via, ha lasciato il suo paese, ha vissuto altrove, all’estero, in luoghi dove si è fatto una vera dimora, vincolando così il proprio destino a quello di chi lo ha accolto e ha riconosciuto nel suo volto il proprio, quello di un’umanità a venire. Diventare-uomo-nel-mondo non è una questione di nascita, né di origine o di razza. Si tratta di un tragitto, di circolazione e di trasfigurazione. Il progetto di trasfigurazione impone al soggetto di abbracciare consapevolmente la parte frazionata della propria esistenza; di costringersi a deviazioni e ad accostamenti talora improbabili; di agire negli interstizi se vuole dare un’espressione comune a cose che di solito noi dissociamo. Fanon si insinuò in ognuno di questi luoghi, non senza una presa di distanza e di meraviglia, allo scopo di fare completamente sua la cartografia instabile e mobile nella quale si trovava. Chiamava “luogo” ogni esperienza d’incontro con gli altri che aprisse la via alla presa di coscienza di sé, non necessariamente come singolo individuo, ma come scheggia feconda di un’umanità più ampia, alle prese con la fatalità di un tempo che non si ferma mai, la cui principale caratteristica è la capacità di scorrere – il passaggio nella sua massima espressione. È però impossibile abitare un luogo senza esserne abitato. Abitare un luogo, tuttavia, non è lo stesso che appartenervi. La nascita nel proprio paese di origine è un accidente che non esenta il soggetto da qualsiasi responsabilità. Del resto la nascita di per sé non nasconde nessun segreto. Tutto quello che offre è la favola di un mondo che è passato nonostante tutti i nostri tentativi di legarlo a tutto quello che veneriamo: i costumi, la cultura, la tradizione, i riti, l’insieme delle maschere assegnate a ognuno di noi. Non appartenere a nessun luogo specifico è al limite la caratteristica

propria dell’uomo, che è un composto di altri esseri viventi e di altre specie e per questo appartiene a tutti i luoghi insieme. Imparare a passare costantemente da un luogo all’altro: questo dovrebbe essere il suo progetto, perché tale è ad ogni modo il suo destino. Ma passare da un luogo all’altro significa anche intessere con ognuno di questi un duplice rapporto di solidarietà e di distacco. Questa esperienza di presenza e distanza, di solidarietà e di distacco la possiamo chiamare etica del passante. Quest’etica dice che solo allontanandosi da un luogo riusciamo meglio a dargli un nome e ad abitarlo. Poter risiedere e poter circolare liberamente non è forse la condizione sine qua non della condivisione del mondo o di quella che Édouard Glissant aveva chiamato la “relazione mondiale”? A che cosa si potrebbe assimilare la persona umana, al di là dell’accidente della nascita, della nazionalità e della cittadinanza? Avremmo voluto rispondere in modo esauriente a tutte queste domande. Ci basti osservare che il pensiero che viene sarà, inevitabilmente, un pensiero del passaggio, della traversata e della circolazione. Sarà un pensiero della vita che scorre, della vita che passa e che noi ci sforziamo di tradurre in evento. Sarà un pensiero non dell’eccesso ma dell’eccedente, di quello che, siccome non ha prezzo, deve sfuggire al sacrificio, al consumo e alla perdita. Per articolare un pensiero del genere sarà anche necessario ammettere che l’Europa, che ha dato tanto al mondo e che in cambio gli ha preso tanto, spesso con la forza o con l’astuzia, non è più il suo centro di gravità. Non è più il caso di andarvi a cercare le soluzioni agli interrogativi qui posti. Non è più la farmacia del mondo. Dire, però, che non è più il centro di gravità del mondo significa forse che l’archivio europeo è esaurito? Inoltre, questo archivio non è sempre stato solo il prodotto di una storia particolare? Dato che la storia dell’Europa è stata confusa per molti secoli con la storia del mondo e viceversa, non ne consegue che quell’archivio non appartiene solo all’Europa? Poiché il mondo non dispone più di un’unica farmacia, se si vuole sfuggire alla relazione senza desiderio e al pericolo della società

dell’inimicizia, si tratta di abitare davvero tutti i suoi faldoni. Partendo da una molteplicità di luoghi, si tratta poi di attraversarli in modo tanto responsabile quanto possibile, da individui che ne hanno diritto come noi siamo, ma in un rapporto di totale libertà e, dove occorre, di distacco. In questo processo che comporta una certa dose di traduzione, ma anche conflitti e fraintendimenti, certe questioni si risolveranno da sole. Allora emergeranno con relativa chiarezza le esigenze se non di una possibile universalità, almeno di un’idea della Terra come ciò che ci è comune, la nostra comune condizione. È questa una delle ragioni per cui è quasi impossibile uscire indenni dalla lettura di Frantz Fanon. È difficile leggerlo senza essere interpellati dalla sua voce, dalla sua scrittura, dal ritmo, dalla lingua, dalle sonorità e dalle risonanze vocali, dagli spasmi e dalle contrazioni e, soprattutto, dal suo respiro. Nell’era della Terra, avremo davvero bisogno di una lingua che perfori, punga e scavi come un trapano, che sappia farsi proiettile, una sorta di assoluta pienezza, di volontà che costantemente roda il reale. La sua funzione non sarà solo quella di far saltare le sue serrature, ma anche di salvare la vita dal disastro che incombe. Ciascuno dei frammenti di questa lingua terrestre sarà radicato nei paradossi del corpo, della carne, della pelle e dei nervi. Per sfuggire al pericolo di restare bloccate, rinchiuse e soffocate, e alla minaccia di dissociazione e di mutilazione, la lingua e la scrittura dovranno proiettarsi costantemente verso l’infinito dell’esterno, sollevarsi per allentare la morsa che minaccia di soffocare la persona soggiogata e il suo corpo fatto di muscoli, polmoni, cuore, collo, fegato e milza, il corpo disonorato fatto di più incisioni, corpo frantumabile, diviso, in lotta contro se stesso, fatto di diversi corpi che si scontrano in uno stesso – da un lato il corpo dell’odio, un terribile fardello, un falso corpo di abiezione schiacciato d’indegnità, e dall’altro il corpo originale ma trafugato da altri e poi sfigurato e spregiato, che si tratta letteralmente di risuscitare, in un atto di autentica genesi. Restituito alla vita e per questo diverso dal corpo decaduto dell’esistenza coloniale, questo nuovo corpo sarà invitato a farsi membro di una nuova comunità. Dispiegandosi secondo un proprio piano,

camminerà a questo punto con altri corpi e, così facendo, ricreerà il mondo. Per questo, con Fanon, noi ci rivolgeremo a lui con quest’ultima preghiera: O mio corpo, fai sempre di me un uomo che interroga!1 1 Fanon, Peau noire, masques blancs, cit., p. 251.