Mithra, il dio dei misterii
 9788899668244

Table of contents :
Indice......Page 269
Frontespizio......Page 3
Libro ed Autore......Page 2
Simbolo di Mithra......Page 6
Prefazione Per una rilettura di “Ce Dieu Mystérieux”......Page 7
Le caverne mitriache......Page 8
Il potere dei Magi......Page 12
Il potere delle immagini......Page 14
Il potere del nome......Page 27
Mitografie......Page 28
Bipolarità creatrice......Page 31
L’esoterismo dei misteri......Page 39
Il volto del dio......Page 45
La tauroctonia poliedrica......Page 46
I Magi ellenizzati......Page 50
Genealogia dei misteri......Page 55
Corrispondenze mistiche......Page 57
Roma, il Ponto, l’Egitto e l’Iran......Page 61
Origini indo-iraniche......Page 67
Osservazioni calendariali......Page 69
Il sacrificio indo-iranico......Page 71
La dimensione bio-cosmica......Page 76
Religiosità individuale......Page 78
Epilogo......Page 82
Cenni biografici......Page 89
Introduzione......Page 91
CAPITOLO I Mithra in Iran e in India......Page 95
CAPITOLO II Zoroastro e i Magi......Page 100
CAPITOLO III Mithra in Europa......Page 107
CAPITOLO IV Gli Adepti di Mithra......Page 110
CAPITOLO V Metodi di propaganda......Page 114
CAPITOLO VI Aspetto di un tempio di Mithra......Page 116
Il Mitreo vicino alla chiesa di Santa Prisca sull’Aventino a Roma......Page 124
Il Mitreo vicino a Walbrook nella città di Londra......Page 130
Scoperte magnifiche in un santuario a Merida in Spagna......Page 132
Templi di Mithra a Deutsch-Altenburg vicino a Vienna......Page 134
Un santuario di Mithra a Sarmizegetusa in Romania......Page 137
CAPITOLO VIII La più gloriosa impresa di Mithra......Page 141
CAPITOLO IX L’entourage del Dio......Page 144
CAPITOLO X La leggenda di Mithra, la nascita miracolosa......Page 148
La lotta di Mithra con il toro......Page 154
Il miracolo dell’acqua......Page 158
La caccia di Mithra......Page 161
Sole e Mithra......Page 166
Il banchetto e l’ascensione......Page 169
CAPITOLO XI Divinità che attorniano la figura di Mithra......Page 177
CAPITOLO XII Il Dio del tempo infinito......Page 189
Kronos-Saturno......Page 191
Le concezioni siriane......Page 193
Le concezioni orfiche......Page 194
Influenze egiziane......Page 195
Altre speculazioni relative a Aion......Page 197
CAPITOLO XIII Iniziazione ai Misteri......Page 199
CAPITOLO XIV I sette gradi dell’iniziazione......Page 206
Corax, corvo......Page 208
Nymphus, sposo......Page 209
Miles, soldato......Page 211
Leo, leone......Page 212
Perses, Persiano......Page 216
Heliodromos, Messaggero del sole......Page 217
Pater, Padre......Page 218
CAPITOLO XV Costellazioni ed elementi......Page 220
CAPITOLO XVI Il problema della donna......Page 230
CAPITOLO XVII Il culto di Mithra e i sacrifici umani......Page 233
CAPITOLO XVIII Canti sacri......Page 235
CAPITOLO XIX I testi recenti di Santa Prisca a Roma......Page 238
CAPITOLO XX Le offerte e gli artisti Mithra nell’arte......Page 244
CAPITOLO XXI Mithra sconfitto......Page 251
Bibliografia relative alla Prefazione......Page 255
Titoli particolari......Page 259
Il sacrificio del toro......Page 260
Figure......Page 261

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In Oriente, in Persia, nell’India, scritti poco espliciti attestano l’importanza di Mithra nel corso di quasi due millenni, a fianco del grande dio del cielo Ahura-Mazda, ma non forniscono alcun dettaglio particolare sulla sua dottrina né sulla sua personalità esplicita. A questa fonte se ne aggiunge un’altra che si compone quasi esclusivamente di monumenti archeologici, edifici, raffigurazioni, iscrizioni, e che si limita a Roma e all’Impero romano, dalla Siria alla Germania e alla Gran Bretagna, in un periodo limitato tra il I e il V secolo d.C. Questa seconda documentazione, priva di commentario storico o letterario o di esposizione dottrinale, è un libro d’immagini. Nel presente libro scopriremo invece un dio nuovo, salvatore dell’umanità, centro di una dottrina filosofica e religiosa. Traduzione dal francese a cura di Barbara De Munari. MAARTEN JOZEF VERMASEREN (nato il 7 aprile 1918 a Nimègue, morto il 9 settembre 1985 ad Amsterdam) è stato uno storico olandese delle religioni. Dopo il Collège Canisius di Nimègue, frequentò l’Università cattolica di Nimègue (Studi classici e Archeologia); gli studi furono interrotti dalla sua deportazione in Germania. Tra il 1956 e il 1960 pubblicò un corpus di tutti i monumenti conosciuti del mitraismo, dal titolo “Corpus inscriptionum et monumentorum religionis mithriacae”. Dal 1968 al 1979 fu professore di storia religiosa dell’ellenismo alla Facoltà di Teologia dell’Università di Utrecht. Numerose sono le sue pubblicazioni sulla storia delle religioni e il mitraismo. Fu membro dell’istituto Archeologico Germanico, dell’Accademia Austriaca delle Scienze e della Pontificia Accademia di Archeologia olandese.

Maarten J. Vermaseren

Mithra il dio dei Misteri Traduzione a cura di Barbara de Munari Prefazione di Giancarlo Mantovani

Edizioni Ester

Collana: Altra Conoscenza Ia Edizione francese ©1960, Copyright Éditions Sequoia, Paris-Bruxelles Titolo: Mithra il dio dei Misteri Titolo originale: MITHRA, ce dieu mystérieux Autore: Maarten J. Vermaseren Traduzione dall’olandese: Monique Léman e Louise Gilbert Ia Edizione italiana: novembre 2017 In copertina: “Corvo di Mithra”, dipinto di Antonella Catalano, tratto da un rilievo di Ptuj (Yugoslavia). Traduzione dal francese a cura di Barbara de Munari Consulenza editoriale: Barbara de Munari [email protected] http://www.eticaedizioni.it Layout di copertina: Dario Pasqualini [email protected] Questo testo è stato stampato presso Universalbook S.r.L., Rende - CS per conto di Edizioni Ester Via Traforo 32, 10053, Bussoleno, Torino Tel. 340 8511512 [email protected] www.edizioniester.com © Copyright 2018 Edizioni Ester Tutti i diritti riservati sono dell’Editore. Ogni riproduzione, anche parziale e con qualsiasi mezzo, deve essere preventivamente autorizzata dall’autore. Nell’eventualità che testi o illustrazioni altrui siano riprodotti in questa pubblicazione, l’autore è a disposizione degli aventi diritto che non si siano potuti reperire. L’autore porrà rimedio, dietro segnalazione, ad eventuali non volute omissioni e/o errori nei relativi riferimenti.

Simbolo di Mithra: stella (sole), corvo (messaggero), arco, berretto frigio, pugnale. Da un rilievo di Ptuj (Yugoslavia)

Prefazione Per una rilettura di “Ce Dieu Mystérieux”

Nella ricerca di un passaggio verso Occidente, la configurazione mitologica del Mithra indo-iranico mutò più volte il suo orientamento cosmico, per poi essere integrata nel contesto romano. Le feste di capodanno nelle quali si rinnovava il sacrificio del toro erano pubbliche in tutto il Vicino Oriente, mentre la forma iniziatica del culto romano era segreta. Il germe della teoria dei misteri deve farsi risalire a una doppia fonte: la dottrina dei Magi e l’astrologia ellenistica. Ciò che chiamiamo magia persiana è nella tarda antichità soprattutto una cosmologia applicata, organizzata per polarità strutturate. Qui l’antica lotta dell’eroe che combatte i mostri divenne una relazione diretta dell’individuo con il mondo astrale, un’ascesa attraverso le stazioni zodiacali, verso uno stato di armonia superiore. Il rapporto con l’opera di Franz Cumont ebbe, da parte di Vermaseren, un ruolo importante nella rivisitazione dei problemi connessi all’eredità iranica e alla struttura misterica assunta dal culto di Mithras a Roma. Rispetto al paradigma cumontiano e alla svolta cognitivista di fine secolo, la prospettiva dell’archeologo olandese va distinta per una decisa presa di distanza tanto dalla documentazione neoplatonica, quanto da quella avestica e pahlavica. La prima posizione, privilegiando la chiave astronomica ed astrologica, intende offrire una lettura dell’esperienza misterica basata esclusivamente sul viaggio dell’anima, guidata dalle immagini stellari dei mitrei. La posizione classica vede nel culto mitriaco la centralità del mito e una narrazione contigua e alternativa a quella del mistero cristiano. In tal modo, il mitraismo si presenta come una variazione romana dei Magi ellenizzati, cioè dell’esoterismo zoroastriano identificato con il dio del tempo infinito delle correnti Zurvanite. L’Autore di “Ce Dieu mystérieux” (1960) si schiera dalla parte della documentazione archeologica ed epigrafica. Ma, dietro la dedizione delle iscrizioni e dei monumenti mitriaci (1956-60), l’archeologia figurata di Vermaseren continua a seguire un approccio comparativo, senza cadere in un pan-iranismo di maniera. Ogni trasmissione di idee è eversiva, implicando un processo costante di ricezione e ri-

contestualizzazione dei tratti originari. Il lungo viaggio che dall’India (non solo vedica, ma Kuṣana) conduce alle città italiche, dove si costituisce la forma iniziatica del culto, non prova la continuità dei misteri, ma evidenzia lo scambio creativo tra elementi orientali e occidentali. La trasmissione dei materiali mitologici indo-iranici va legata alla determinazione di sfogliare gli strati della tradizione e analizzarli per fasi successive. Suggerendo differenti ambienti e differenti periodi nel processo di costruzione della prassi misterica del Mithras occidentale. Se alcune soluzioni particolari restano aperte, le domande che si pongono debbono ancora trovare delle risposte soddisfacenti. Le caverne mitriache È spettacolo insolito riconoscere nelle forme immanenti all’architettura sotterranea del mitraismo romano una forma di vita capace di fornire un orientamento cognitivo sul mondo e un perfezionamento interiore ai suoi membri. Il mitreo era il luogo delle iniziazioni e la replica simbolica dell’universo. La sua struttura, che prende la forma di una caverna, si presenta con un campo visuale rettangolare, orientato da est verso ovest, nella cui nicchia finale, rivolta verso la nascita del sole, risalta la figura di Mithras. Vicino ad ogni mitreo (Tertulliano, De bapt. V,1), si trovava una fonte di acqua viva (CIMRM II 1533), mentre sette altari lasciavano brillare, nel fondo delle cripte, i fuochi dei cieli planetari. Un cosmo cubico, non sferico, che alludeva, nella sua forma rettangolare, alla terra circondata dalle acque, culminante nel cielo ovale delineato dai segni zodiacali sulla volta. L’asse verticale, che dall’ingresso conduce alla scena centrale della tauroctonia, ripartiva lo spazio in due file di banchi laterali, ognuna delle quali ospitava delle pitture, che condensavano una narrazione ordinata per sequenze rituali. Tale divisione consentiva di animare la composizione cosmica per mezzo di polarità interscambiabili: all’inizio dei praesepia con i due portatori di torcia ad indicare i solstizi (Vermaseren, Mithriaca IV: 23), ai quali seguivano le controparti dei due emisferi celesti, discendenti verso il cielo invernale e risalenti verso quello estivo (Mithriaca IV: 41). Il dio Mithra, posto simbolicamente al centro, costituiva il principio di mediazione e il punto di equilibrio dell’intera volta celeste. Un centro dinamico, dove le direzioni mutavano a secondo del movimento dei cieli e dove il dio, nelle sue dimore equinoziali, sapeva ricomporle in armonia. Il movimento circolare del cosmo, riprodotto dentro gli spelaea, spiega la diversa posizione assunta, a destra o a

sinistra, da Cautes e Cautopates e dagli stessi segni zodiacali (Mithraica III: 50-51). In egual modo, la “caverna” aveva la funzione di rispecchiare il cielo notturno, illuminato dalle stelle, mentre l’immagine del dio, sovrastata dagli altari del fuoco, rappresentava il corso del sole. In altri termini, il correlato oggettivo che rinnovava la liturgia celeste del “deus invictus”. E che, attraverso le mappe del cielo, conferiva un vantaggio esclusivo rispetto a quanti ne rimanevano estranei. I benefici riguardavano questa vita, non la sopravvivenza alla morte. Il problema del luogo conduceva a quello del tempo e alle sue secrete corrispondenze con la vicenda del cosmo. Il senso della struttura interna di ogni mitreo era infatti, per i suoi riferimenti iconografici, immediatamente percepibile. Allo sguardo che sapeva penetrare nel profondo dell’antro mitriaco appariva, all’inizio in forme fittamente velate, poi di nuovo in immagini spiegate e progressive, il senso di tutto ciò che nel corso della storia del mondo aveva condotto ad un tale essere. L’iniziato non si limitava alla semplice espressione dei simboli, ma considerava dapprima tutto il divenire del cielo, nella sequela possente, delle stelle fisse e dei pianeti, del ciclo quotidiano e annuale del Sole, ad indicare il mutare necessitante delle stagioni e dei venti, ovvero le direzioni dello spazio e il potere generativo del tempo. Si immedesimava poi con la storia del dio, che nasceva da una roccia, a rappresentare la volta celeste, dalla quale scaturiva quell’acqua di vita che, nel culto, si sarebbe trasformata in una bevanda vivificante, diretta a concedere il “refrigerium” e il “nettare” (che fa attraversare la morte: Lazzeroni: 74-75), per rendere immortali i viventi (Vermaseren 2018: 212; Mithriaca IV 1978: 30). L’immagine centrale della tauroctonia costituiva la premessa di ogni sorta di contemplazione retrospettiva e il modello di ogni atto trasformativo: in altri termini, l’intera storia del cosmo fissata in un istante. A differenza infatti degli altri templi pagani, lo spazio sacro dei mitrei era dato da una camera sotterranea, simile a quella dei centri oracolari. Dove non si incontrava una divinità ctonia e sofferente, come ad Eleusi, né si delimitava la dimora di un dio o tantomeno si definiva un ambito socialmente alternativo alla realtà circostante. Era invece un luogo dove si assisteva sia alla nascita del mondo che a quella degli iniziati. Un ambito dove si ricordava il dio dalla luce nascente, al quale allude un graffito dell’Aventino: “Natus prima luce”, riferibile sia alla mitologia del dio, che all’iniziato che lo ha inciso

(Vermaseren-Van Essen: 118). Mithras non salva dalla morte, è invece un dio “guardiano dei frutti”, capace di conservare la prosperità del cosmo e l’energia fisica degli adepti (Vermaseren: 282). Se i mitrei venivano orientati in direzione della nascita del sole, era perché si identificava la rinascita degli iniziati con il dio dell’aurora e del cielo mattutino (così connotato già nei testi indo-iranici). A segnare la differenza con gli altri culti di mistero è però la biografia del dio, il suo ruolo attivo e benefico, che lo rende protagonista e partecipe delle vicende cosmiche e umane. Il Mithras occidentale ha una iniziale vicenda terrena e un finale statuto celeste. La sua nascita dalla pietra pone fine a un primo e statico ciclo cosmogonico, per avviare un dinamico succedersi di imprese connesse con la circolazione della vita e il governo degli astri. Le pareti dei mitrei raffigurano questo processo creativo a due stadi, da cui emerge la funzione demiurgica di Mithras, che funge da intermediario tra la prima e la seconda creazione. E che, al tempo stesso, interviene a vari livelli di salvezza: con l’uccisione del toro, che porta la fecondità nel mondo; con l’atto di inaugurare la caccia e l’agricoltura, mentre combatte le forze negative (il cinghiale: Vermaseren: 217). Con il banchetto di comunione, dove conferma il patto di alleanza con i fedeli. La vittoria finale sopra il toro è celebrata con un banchetto rituale che ne ricorda l’uccisione e che viene ripetuto nell’antro sotterraneo dei mitrei, proprio davanti all’ingresso del regno dei morti, dove la caverna sembra alludere al luogo di nascita del sole infero. Rovesciando così i termini di un rito funerario (un “marzeah” vicino-orientale) in un’azione di positiva promozione della vita. D’altra parte, il sangue del toro immolato, possiede un valore di eternità rigenerante per i frutti della terra e per gli iniziati stessi (CIMRM 485: “Et nos servasti (a)eternali sanguine fuso”). In questi termini, l’epiteto di (a)eternalis si estende dalla vita di questo mondo al passaggio verso un ordine superiore, “conferendo immortalità a coloro che partecipavano al pasto sacro” (Vermaseren, Mithriaca IV: 46). Si riconosce cioè nel vino, legato al sangue del toro, unito al miracolo dell’acqua di vita (Vermaseren-Van Essen: 192), quella stessa bevanda di immortalità che era versata ai commensali durante la liturgia ordinaria. Proprio tra i simboli che illustrano l’uccisione del toro si trova indicato il rapporto che lega il sangue che sgorga dalla ferita, nell’atto di essere bevuto dal serpente e dal leone elementi rappresentativi della terra e del fuoco - con l’immagine di un

cratere, nel quale viene raccolto il sangue stesso. Tramutato nel vino utilizzato durante il banchetto cultuale dagli iniziati. Il potere sacramentale di trasmettere l’eternità ai viventi implicava il dono di un vedere estatico, che si attua qui e ora nella vita rituale del miste. Un’esperienza che, nell’ascensus articolato per gradi dell’iniziato, poteva, in alcuni casi, ricalcare il viaggio attraverso gli elementi cosmici (Apuleio, Metam. XI, 22, 25), ma più ancora richiamare l’opera del Saošyant, il salvatore futuro delle concezioni zoroastriane, che fa conoscere “i cammini del sole e delle stelle” (Yasna 44, 3, 3). Il sistema descritto da Porfirio nell’Antro delle ninfe (ed. L. Simonini 1986) risente invece di un’impronta platonizzante ed ha un minor peso rispetto alla documentazione archeologica presa nel suo insieme. La discesa e risalita delle anime dopo la morte non era la dottrina ufficiale dei misteri. Secondo Porfirio (de antro 6), l’universo mitriaco possedeva due porte, due punti di transito attraverso cui le anime entravano (nel segno del Cancro) e uscivano (nel segno del Capricorno, al solstizio d’inverno). Sia le Upanishad, che la Repubblica platonica ne fanno cenno. Vermaseren ha riconosciuto nel mitreo ostiense delle sette sfere (dove ci sono due piccole porte sui banconi laterali) un caso unico e una resa allegorica del sistema trascritto da Porfirio. Una proiezione di idee greche ideata dalla cerchia neopitagorica di Eubulos, la fonte di Porfirio (Mithriaca III: 56-57), che tuttavia poco ha a che fare con il mitraismo originario. Quello che Mithras offriva agli iniziati era un mito delle origini, effigiato nell’immagine cultuale della tauroctonia; un simbolo, dato dalla scala a sette porte, connesso ad una teoria musicale delle sfere (Origene, C. Celsum VI, 22); un’immagine (simulata) di resurrezione (Tertulliano, De Praescr. Haer., 40,2) e un modello di convivialità, rafforzato dal banchetto in comune. Il doppio livello, spaziale e temporale, evocato dalla caverna cosmica, entro la quale la liturgia riattualizzava il mito, finiva col tradurre le vicende del dio in un testo da leggere e interiorizzare, dove le immagini si lasciavano cogliere “come scene successive di un racconto continuato, quasi l’illustrazione grafica di un libro” (R. Pettazzoni, I Misteri: 249). Un’esperienza colta nel suo momento culminante e decisivo, rappresentata dalla vicenda di una divinità, che impersonava il dramma di creazione-rigenerazione della collettività umana.

Il potere dei Magi Tutto quello che si poteva scorgere negli antri dedicati a Mithra erano simboli privi di didascalia e immagini vincolate alla pratica cultuale. Le iscrizioni e gli scarsi rilievi epigrafici, quasi esclusivamente votivi, non alludevano a un sistema di dogmi, non facevano riferimento a un culto pubblico, ma a dei rituali meditativi, in cui riflettere i vari stati dell’essere, liberarsi dalla spazialità fisica e ritrovare la sintesi dei tempi. Il mitraismo rovescia il rapporto mito-rito che caratterizzava i misteri ellenistici. Vincolando la partecipazione rituale non a pratiche di tipo sacrificale, ma ad un insegnamento ed a una prassi iniziatica graduale. Creando spazi interiori in cui interpretare simbolicamente una mitologia di origine astrale, congiunta con un’altra di derivazione orientale. E questo perché i membri dei collegi mitriaci si consideravano gli eredi degli antichi Magi persiani. Che univano accanto a riti catartici, con una o più prove di coraggio fondamentali valori di giustizia e di lotta per il bene incarnati dal dio iranico, che sapevano trasformarsi in battesimi del fuoco ed estasi mentali. Di fatto, l’accesso al culto e alla vita comunitaria non prevedeva alcuna finalità emotiva, ma l’apprendimento delle vicende del dio e delle sue prerogative cosmico-astrali. Non un “pathein”, ma un “mathein”, che avrebbe accompagnato l’intero iter iniziatico. Tramite i fori praticati nelle volte dei mitrei, che lasciavano filtrare i raggi dell’alba o che venivano attivati in certi passaggi stagionali, il volto del dio si illuminava (Becatti 1954: 30; Vermaseren: 187; Mithriaca 1: 5), visualizzando negli adepti l’essenza ignea della mente, della stessa materia dei fuochi celesti (Vermaseren, Mithriaca III 1982: 8, 12, 21). L’avanzamento attraverso i gradi iniziatici avveniva, più che sulla mera ritualità o sull’empatia fra la divinità e i destini umani, mediante l’apprendimento di determinate tecniche meditative. Nel sacrificio del toro, i seicento e più esemplari conosciuti apparivano anzitutto inquadrati entro un’ambientazione cosmica, connessi all’eterna presa delle credenze astrologiche sulla mente umana, sempre in lotta per la comprensione del proprio destino. In pari modo, quelle immagini, in grado di stabilire un’affinità di essenza tra il macrocosmo e il destino dei fedeli, riuscivano a comunicare una nuova forma di scienza, una “Alien Wisdom” conforme alle concezioni di Magi e Caldei (A. Momigliano 1980). Una scienza del cielo, intesa quale unica religione universale, che trasmetteva una specifica

cosmogonia e una ritualità capace, come ricorda Diogene Laerzio (Proemio, 7), di “vedere gli éidola nell’etere”, di immergersi cioè in una visione preclusa ai sensi ordinari (W. Burkert, Da Omero ai Magi 1999:110). I Magi non avevano bisogno di templi, poiché gli astri e tutto quanto si estende sotto il cielo costituiva il principale contatto con il principio divino (Dione Crisostomo, Oratio XII,26). Il quale si serve di agenti viventi, che sotto forma di immagini animate (Posidonio, in Cicerone, De Divin. I,64) si introducono negli occhi dei chiaroveggenti (E. Dodds, Parapsicologia del mondo antico 1991: 17). Le pratiche teurgiche attestate nella raccolta degli Oracoli caldaici lavorano su questa seconda vista. Regolando i soffi corporei, che sono della stessa materia stellare, attraverso i quali si modifica la vita immaginativa. Questi “éidola”, commenta Porfirio, possiedono un corpo pneumatico “e fanno apparire in esso, come in uno specchio, il riflesso delle immagini che hanno formato, esercitando il loro influsso sulle nostre anime” (De Abstinentia 11,37). Siffatta membrana spirituale (lo pneuma psichico) permette anche l’elevazione dal mondo sensibile, dopo che si è riacquistato uno sguardo più trasparente e libero: “Perché allora non sarà più visibile la massa ricurva del cielo, né gli astri brillano più, ma… tutto si vede per folgori”, ovvero per lampi noetici (Oracoli Caldaici fr. 147 Majercick). L’insegnamento dei Magi muoveva dal presupposto, di matrice zoroastriana, di una doppia esistenza e di una doppia visione, con un correlato potere conoscitivo e trasmutativo, che consentiva di accedere ad altri livelli di realtà. Al mondo ideale dello stato “mēnōg”, racchiuso nel mondo delle immagini pre-esistenti e distinguibile solo grazie ad un’opera di discernimento e di purificazione interiore (R. C. Zaehner, Il Libro del consiglio di Zarathushtra 1976:21). Gli Oracoli caldaici alludono a delle tecniche legate all’uso rituale del fuoco (fr. 122 Majercik), che alleggeriscono l’anima tramite l’azione di un soffio caldo (fr. 123), consustanziale al fuoco noetico del pneuma, che va inspirato per rendere la vista libera di “vedere gli éidola nell’etere” (Diogene Laerzio, Pr. 7), quindi di ascendere alla luce (fr.124). Le stesse modalità catartiche ritornano nella Liturgia di Mithras (Mastrocinque 1998:108). E nel “soffio infuocato” usato dai Magi nei mitrei come lavanda purificatrice (CIMRM: l, 68). Ogni cosa allora sarà vista in modo unitario, “in forma di leone”, in corrispondenza cioè al segno zodiacale di Mithras (fr. 147). Su di un altro sfondo, i principi costitutivi di ciò che si chiamano “éidola” e “lampi noetici” vengono percepiti come vibrazioni sonore, pur restando inaccessibili ai sensi. Pertanto, in quanto mediatore cosmico, Mithras fungeva da legame

nell’eptacordo celeste, come accade nel mitreo di Felicissimo ad Ostia. Per tale motivo, nel “simbolo” del Contra Celsum (VI, 22), si istituisce un rapporto tra i sette cieli e le sette note musicali, dal quale scaturisce la possibilità, nell’ascesa mentale del miste, di un contatto o “systasis” con le sfere cosmiche, tramite “voces mysticae” e “nomina barbara”, ricorrenti sia nella “Liturgia di Mithra”, che nei coevi testi ermetici e gnostici. La presenza di una statuetta di Telesphoros all’interno del mitreo di S. Stefano Rotondo al Celio, rimandando a una dimensione onirocritica (Elio Aristide Hier. Log., XLVIII, 18; XLIX, 21), alla sua qualità di trasmettere in sogno precognizioni e forme di telepatia, suggerisce un ulteriore rapporto con le dottrine dei Magi (E. Lissi-Caronna, Il Mitreo dei ‘Castra Peregrinorum’, Leiden, 1986: 40). Nei rilievi mitologici è la figura del dio Saturno che, in stato sognante, trasmette i suoi ordini a Iupiter. Una pratica che si riflette nelle cerimonie di consacrazione da parte del Pater nei confronti dei gradi inferiori. Inoltre, un particolare del quadro centrale del mitreo di Osterburken mostra Cautopates, il simbolo del sole tramontante, con una capsula di papavero, ad evocare la forza di Hypnos, spesso congiunto con Telesphoros (Merkelbach: 427). Le pratiche incubatori erano di frequente associate ai culti di Iside e Serapide, come pure a quello Dolicheno, ma rientravano anche nel modo di insegnare dei teurgi. Gli Oracoli Caldaici suddividevano l’apprendimento rituale tra il sonno e la veglia (fr. 118 Mayercick; Sinesio, De Insomniis: 563; ed. Garzya) e condividevano con i mitraisti la circolazione delle idee nel mondo sotto forma di simboli (fr. 108), di corpi pneumatici e di lampi noetici, assieme al culto dei venti, trasportatori di anime (H. Lewy: 501). In molti mitrei si sono ritrovate statue della dea Hecate (Merkelbach: 277), che pure svolge un ruolo centrale nella teologia degli Oracoli Caldaici. Ed è noto che si costruivano statue di Hecate per ottenere le apparizioni notturne della dea e riceverne i suoi insegnamenti (frr. 219 e 222 Des Places). Tali pratiche oracolari venivano imitate anche nei riti segreti dei mitrei imperiali. Ora, la possibilità di accedere a questa doppia esistenza - sensibile e estatica -era mediata dal carattere fortemente evocativo dell’iconografia mitraica. La quale costituiva il mezzo principale per mettere in atto siffatta creatività estatica. Il potere delle immagini

Maarten J. Vermaseren, sulla scia di Fritz Saxl (1931) e di Ernest Will (1955), ha mostrato come gli artisti che hanno dato forma alla vicenda del dio invictus abbiano plasmato i loro temi sulla base dell’arte classica. Di uno stile che adatta un contenuto orientale ad una interpretatio romana. Che pure rendeva possibile l’assimilazione del gusto romano a motivi dell’arte grecopartica. Riconoscendo nelle convenzioni espressive un rapporto tra forma e funzione: ripetizione di stereotipi e creazione di nuove tipologie. La diffusione del rilevo cultuale a Roma, che ha per oggetto l’immagine di una divinità, unita alla narrazione della sua biografia, è di fatto un apporto dell’Oriente ellenistico (Mithriaca III:24). Nel nostro caso, l’esigenza di rappresentare il combattimento del dio Mithras con il toro ha determinato la scelta del rilievo cultuale, affiancato da scene secondarie che ne riproducevano il mito, cioè lo sviluppo per quadri successivi. Una tavola dell’Atlante di Mnemosyne, ideato da Aby Warburg, consente di chiarire le linee di simmetria entro le quali si organizzavano le memorie ideative degli ipogei mitriaci. Che mantenevano derivazioni classiche, per quanto in una trasposizione nuova e coerente. La nascita di Mithras e quella del Phanes orfico dall’uovo cosmico; le statue della Vittoria e di Mithras che sacrificano il toro; il mito di Fetonte nei dipinti della Domus Aurea confrontato con la lastra del mitreo di Dieburg; l’apoteosi degli imperatori e quella del dio; i mosaici con l’Aion, circondato dalle quattro stagioni, illustrati con le scene di iniziazione nelle pitture di S. Maria Capua Vetere; il culto siriano di Malachbel, trainato da quattro grifoni, e il cocchio solare dell’Hermes mitriaco (Warburg, Mnemosyne 2002: tavola 8 pg. 28). Si tratta di immagini polarizzate e in movimento, la cui disposizione visiva sottolinea lo slittamento dall’orizzonte classico verso una rilettura allegorica e un rovesciamento di significato. Con Fetonte che causa l’incendio del mondo e Mithras che lo salva. Il rilievo girevole di Dieburg (CIMRM II 1247) esemplifica questo uso didattico delle immagini, insegnando all’iniziato la paura insita nella caduta di Fetonte, contrapposta al trionfo di Mithra, che lo guida a diventare il vero conduttore della sua vita (Vermaseren: 305). Tale criterio associativo mostra, tramite uno sguardo d’insieme, il passaggio da un piano letterale (la memoria sociale dei miti) a un livello meditativo (il significato soggiacente), in cui le immagini vengono rielaborate entro un preciso percorso iniziatico. Suggerendo, per un altro verso, una trama di rapporti, sotto il profilo

iconografico e ideologico, tra narrazione mitriaca e presenze religiose contigue ad altri culti misterici (Hecate, Serapide, Attis, Iside, Dioniso). L’equivalenza dei segni è resa evidente quando si accostano i due dadofori, che compaiono al fianco di Mithras, con la notorietà dei dioscuri, oltre che con i castori del culto a Giove Dolicheno. Lo stesso accade per il trono Ludovisi, dove si vedono due giovinetti aiutare Venere a uscire dalla schiuma dei flutti, allo stesso modo degli aiutanti di Mithras che sollevano il dio ad uscire dalla roccia (Vermaseren: 199). Le medesime considerazioni valgono per le presenze cosmiche dei venti, delle stagioni e dei quattro elementi ricorrenti nei sarcofagi imperiali. Così come per il momento dell’apotheosis, presente non solo nella propaganda imperiale, ma nelle storie di Ercole e di Dioniso (Vermaseren, Liber in deum, Leiden 1976). Il motivo del cocchio solare guidato da Hermes (fig. 38) spiegherebbe poi, secondo Vermaseren (p. 229), la scelta operata dagli artisti cristiani di usare l’immagine di Elia che sale ai cieli su un carro di fuoco per illustrare il tragitto dell’anima verso il cielo. L’iconografia dei mitrei ha un movimento narrativo, che suole distinguere il piano rivelativo, raffigurato dalla tauroctonia, da quello esoterico, espresso mediante i simboli che circondano l’eroe in azione (cane, scorpione, serpente, corvo, leone, cratere, zodiaco). A questi due livelli si aggiungono le scene secondarie dei pannelli laterali, che rappresentano il piano biografico della vicenda, svolto secondo schemi ideologici tipici del periodo imperiale (Saxl: 28-42). Di particolare pertinenza è il confronto, istituito da Vermaseren (Mithriaca IV: 49ss), tra il frontone del tempio di Giove capitolino, ricostruito da Domiziano, dove i carri del sole e della luna si muovono ai lati del dio e i ricomposti bassorilievi mitriaci del Celio, con il volo degli astri che richiama l’alternanza del sole e della luna. Vermaseren notava come il motivo dell’eternità della triade capitolina si ripeta due volte nei monumenti del Celio (Mithriaca IV: 49). Le iscrizioni con dedica di un orientale (Modius Agatho è “coelo devotus et astris”), assegnano inoltre epiteti identici a Mithras e a “Coelus Aeternus Iupiter”, suggerendo egualmente l’identificazione di Jupiter con il Ba’al dolicheno. La plasticità delle idee messe in atto nei mitrei consiste proprio in questa capacità di convertire o invertire di segno le corrispondenze veicolate da concezioni diverse. Una trasposizione che può compiersi solo tramite la reciproca modificazione delle concezioni orientali e di quelle romane.

In forza della sua qualità solare, l’immagine del dio, che appare spesso irradiata (CIMRM l, 90, 318, 337, 690), si trova associata a figure divine caratterizzate dalla medesima tipologia. Nel mitreo delle terme di Caracalla, Zeus, Helios e Serapide si trovano riuniti con Mithras sotto lo stesso nome perché avvertiti come dèi sommi, legati tra loro secondo i parametri enoteistici dati dalla formula “Heis Theos” (F. Cumont, Mithra et l’Orphisme, RHR 1934: 63-64). Nel momento in cui il culto di Iside si trasformava in una divinità cosmica, che controllava il movimento del sole e della luna, e l’imperatore veniva assimilato al sole perché simile ad Apollo. La formula iconica del Sol invictus, che diventa nel Cristianesimo il Sol iustitiae non si esaurisce con l’antico, ma continuerà a trasferire l’imitatio imperatorum alle immagini del Cristo Pantocrator nel Medioevo e oltre. Anche il Mitraismo attinse al repertorio di idee messo in circolazione dalla rivoluzione augustea, senza che si debba dedurre una dipendenza di questa teologia da quella ufficiale del regime imperiale. Il tema dell’ascesa di Mithras sul carro solare non è solo una forma di sublimazione del trionfo romano o delle imprese di Alessandro Magno. Ricorre già nelle monete greco-battriane tra il 160 e il 110 a.C. e all’interno di un ciclo epico strutturato (A. Bivar, Mithraic Images of Bactria, in MM: 742). A rinforzo di ciò, dall’inno a Tistrya (Yaṣt 8: 38) può ricavarsi un parallelismo tra il miracolo dell’acqua compiuto da Mithras, la “via delle acque” percorsa dalla stella Sirio - che come una freccia pone fine alla siccità della prima creazione - e la risalita di Mithra sul monte Hara, il monte Meru della tradizione indoiranica. Una citazione che può guidare a ricostruire meglio il debito iranico del mitraismo occidentale. L’esigenza di situare la figuratività dei mitrei nel suo contesto culturale non deve far dimenticare il carattere “esoterico” dell’arte mitriaca. Il dio dei testi avestici, che ha due dimore, una terrena e l’altra celeste sul monte Hara (Yaṣt 10: XII, 50) - esattamente dove sono racchiuse le acque del cielo (Yaṣt 10: IV,14) - è chiamato nelle testimonianze greco-romane “dio ladro di buoi” (Scarpi 2002: 358-359 e 549). Un richiamo preciso al mito indo-iranico del demiurgo, che fece uscire le acque imprigionate da Vṛtra. Un rinvio a Mitra stesso, che rubò il toro, cioè ne liberò la sua semenza, dando origine alla prima coppia di bovini (Vermaseren: 214). Nel monumento di Commagene un regno ellenistico greco-iranico - la stretta di mano tra Antico I e Mithras ha la funzione di confermare il patto di protezione con il dio. Su un rilievo di

Poetovio, la scena di Mithras che serra la mano del Sole (Verrnaseren: 121), può essere letta come l’investitura del dio da parte di Mithras e come un esempio di iniziazione per il grado di Pater (Mithriaca III: 78) o in altri casi di Heliodromus. Il fatto di stringere la mano destra (dexiosis) rende gli iniziati dei “consacranei”, che imitando il gesto del dio interiorizzano la sua essenza di divinità del patto e dei giuramenti (Senofonte, Oecon. 4,24). Anche in questo caso può osservarsi la consonanza tra i valori romani della Concordia e della Fides con quelli che la tradizione iranica attribuiva solitamente a Mithra. Nella cosmografia indo-iranica, il cielo faceva parte della terra. La stessa storia del dio Mitra/Mithra, che inizia con la nascita del sole dalla roccia (pietra e cielo si esprimono, in antico iranico, tramite la stessa radice “asman-”), da una caverna che nascondeva l’embrione del mondo e che, dopo il primo sacrificio, ascendeva al cielo sul carro del sole, è stata confrontata con ampli materiali comparativi in uno dei primi articoli pubblicati da Vermaseren (The Miraculous Birth of Mithras, in Mnemosyne 1951: 285301; cf. Ilaria Neri, Mithra petrogenito, in Ostraka 2000: 227-245; J. A. Alvarez-Pedrosa, in Emerita 2016: 317-331). Il rinvenimento di una figura a tutto tondo di Sharnash petrogenito, nel nord della Siria, avrebbe fornito il modello iconico diretto, provando l’origine orientale della figura divina che emerge a metà dalla roccia (E. Will, Le relief cultual greco-romain. Paris 1955, 205-208). Motivo iconografico assente nell’iconografia classica e che rinvia, in ultima analisi, al mito indo-iranico della nascita dal cielo roccioso. Un discorso a parte riguarda l’arte funeraria dei sarcofagi che ebbero un ruolo specifico nella genesi delle composizioni mitriache (ad es. il mito di Fetonte). Vermaseren accosta questo stile a un rilievo sepolcrale del Museo Nazionale di Napoli, databile al II sec. d. C., in cui la storia di Eracle e della regina Onfale viene rappresentata su due pannelli laterali, ciascuno diviso in tre scene, entrambi circondati da una fascia con le dodici fatiche dell’eroe (Vermaseren, Mithriaca III: 25). I pannelli a rilievi multipli, che combinano scultura e statuaria, vengono introdotti a Roma proprio alla fine del I secolo (con gli archi di trionfo e le colonne narrative a prospettiva rotante) e avranno un forte impatto sia sull’arte mitriaca, che su quella greco-buddhista del Gandhara (basti pensare ai rilievi degli Stupa; cf. A. Soper, in Artibus Asiae, XII 1949: 260 ss). Da tali confronti, Vermaseren riesce a mostrare in che misura l’arte mitraica abbia avuto il suo centro di diffusione nella Roma

imperiale. Pur riconoscendo l’originalità degli artisti tedeschi, che sovrapponevano scene mitologiche greco romane a quelle mitraiche (Neuenheim), nelle quali Mithras compare ripetutamente a cavallo nel ruolo di cacciatore (Vermaseren: 214). Proprio in Germania, nel mitreo di Dieburg, Mithras in figura di cavaliere saettante è identificato con il “cavaliere tracio”, il cui culto era diffuso nei Balcani e in Anatolia (Vermaseren: 214; Pettazzoni 1955: 326). Quanto al racconto delle gesta del dio, viene notata - ed è un indizio prezioso -la mancanza di un ordine narrativo preciso. I pannelli a rilievo multiplo non seguono un ordine lineare, con la figura di Saturno, che sogna gli inizi della creazione, posta solo alla fine della sequenza che lega nascita di Mithra e scambio di poteri tra Satumus e Jupiter; motivo che funge da esempio per il patto tra Mithras e il Sole e tra l’iniziato e il dio (Mithraica III: 31). L’inversione delle scene è un esempio di condensazione e trasfigurazione onirica, che inducono ad una particolare tecnica di lettura. Ad un viaggio nella mente dell’iniziato, in cui le immagini servono ad attivare certe relazioni tra le vicende terrene del dio e le identificazioni del miste. La mnemotecnica iniziatica era qui diretta all’imitazione della vita del dio attraverso forme di meditazione che includevano un certo controllo sui sogni, modificati rispetto alle normali fluttuazioni. Nella cosmologia onirica di cui è protagonista Saturnus, la pastura reclinante del dio è stata interpretata come un segno della condizione melanconica che precede la creazione artistica (Klibansky, Panofsky, Saxl, Saturno e la melanconia, 2002). Il tipo iconografico del Saturnus velato, con gli occhi chiusi, è già rintracciabile, all’inizio della nostra era, nel monumento di Zoilo scoperto ad Afrodisia, la cui iscrizione reca il nome di Aion (A Alfoeldi, Aion in Mérida and Aphrodisias, 1979). Nel mito contenuto alla fine del “De facie in orbe lunae”, Zeus prima di dare forma alla creazione della terra visita la caverna della Notte per chiedere consiglio al padre Kronos. Questi, nella sua qualità di divinità oracolare, comunica in sogno i pensieri di Zeus ai demoni, che li trasmetteranno ai mortali (A P. Bos 1991: 77). Nei rilievi mitraici è Kronos sognante che assiste Zeus nella creazione mentale del mondo e che rappresenta per gli iniziati il modello di comunicazione con la sfera invisibile (Mithriaca III: 72). In termini zoroastriani, è “in sogno” che i due spiriti (mainyu) percepiscono la loro potenza creatrice di scelta e gli aṧavans apprendono i precetti della parola

divina (Yasna 30,3 e 11). È questo statuto sognante/meditativo che nelle Gatha, come nell’esperienza stessa del Profeta, designa la modalità rivelativa entro la quale viene vissuto l’apprendimento delle realtà religiose (M. Schwartz 2003: 15-16). Con molta verosimiglianza, la versione di Plutarco del sogno di Kronos (Esiodo, op. 169) è stata formulata dai teologi mitraisti sulla base della Storia fenicia di Filone di Biblo, dove Kronos occupa un posto teogonico importante. Lo stesso Filone di Biblo cita una “Raccolta sacra di cose persiane”, che circolava al tempo dell’imperatore Adriano sotto il nome di Zoroastro il Mago (Bidez-Cumont, Mages hell. 1: 101). Anche per questo Vermaseren esclude una dipendenza da fonti orfiche, mancando, nelle attestazioni mitraiche, qualsiasi connessione tra Kronos e il padre Ouranos (dove Kronos si addormenta e viene castrato: fr. 148-49 Kern). Che alcune cerimonie siano la ripetizione di eventi mitici è un dato assodato, come certo è che nei sogni rituali si ricevessero degli insegnamenti e non delle visioni istantanee. La questione del controllo dei sogni riposa su quella del controllo delle emozioni (il “pathein”). E tramite i sogni l’iniziato rendeva visibile, nel latte della notte, “gli éidola nell’etere”, le immagini ricevute, seguendo il rapporto, consueto nei misteri greci, tra insegnamento preparatorio ed epoptica. L’unico esempio di scultura mitraica di cui si possiede l’originale (al Paul Getty Museum del Pacifico) è la statua di Mithras dal volto apollineo firmata dall’ateniese Kriton (Vermaseren 1956-1960: 2). Sul piano delle reminiscenze letterarie si può egualmente richiamare la descrizione di Mithras nella cosiddetta liturgia tebana (PGM IV, 635ss), dove il dio dai capelli d’oro e di fuoco, con un mantello rosso e la tunica bianca, è evocato come l’Apollo dell’inno di Callimaco e dei versi di Ovidio (Vermaseren Mithriaca III: 64). Un espediente che ha il compito di far scoprire, nell’immagine del dio, la comune potenza emotiva (Saxl: “Pathosformel”), dalla quale l’una e l’altra figura sono scaturite. Gli ambiti di sopravvivenza sono quelli dello stile, del gesto e del simbolo. Un dinamo-gramma reso in immagine, che risulta incorporato nel respiro ardente che infiamma e purifica il grado del Leo durante il battesimo del fuoco. Tale simbolica unisce strettamente, nella preghiera di S. Prisca, “i leoni che bruciano incenso” a Mithras: il creatore della luce. Ma, anche al dio del Tempo, il cui volto leonino è raffigurato nei rilievi romani nell’atto di emanare un respiro

infiammato (CIMRM I p.166; M. Clauss 2001: 163). La forza purificatrice del fuoco è la forza espressiva che tiene insieme tutti gli elementi della scena (Vermaseren: 279). E che ha come fine la catarsi da ogni forma di paura e di agitazione emotiva. Un’iscrizione recita “Il soffio infuocato, anche per i Magi (funge) come lavanda purificatrice” (CIMRM: I, 68). Favoriti dalla meditazione sul fuoco sacro, che rimanda alla luce delle stelle e a quella interiore, i Magi zoroastriani illustravano le immagini in base ad un senso che le smaterializzava. Le forme divine del pensiero mitico sono creazioni di questo tipo: dei luoghi mentali, articolati per connessioni allegoriche, che creano mappe mnemoniche da applicare ai vissuti personali. Che orientano, rispettivamente, a un δεικνύμενον e a un λεγόμενον, ad una produzione di immagini e di discorsi. L’illustrazione delle scene mitologiche ha nel mitraismo un significato religioso e dunque un riflesso nella prassi cultuale. Il fedele di Mithras scopre nella gigantomachia (CIMRM I 42,3) la lotta del dio iranico della luce contro i demoni di Ahriman (Vermaseren: 235). Riesce a vedere, dinanzi alla lotta del dio con il toro, l’etica zoroastriana del combattimento interiore, accettando gli sforzi che essa richiede. Una spada truccata ritrovata in un mitreo ha permesso di chiarire il significato dell’affresco di S. Maria Capua Vetere (Vermaseren, Mithriaca I: planches XXV e XXVIII), dove si mette in scena un colpo di lama, che non uccide, ma lascia vivo l’iniziato sottoposto alla prova (cf. Scarpi: 384-385). Tutto questo riguarda l’imitazione eroica della divinità e la ritualizzazione delle emozioni. Quanto costituisce un sistema simbolico è un insieme di gesti ripetuti, immagini spiegate e imitazioni di pathemata. I riti in Grecia e a Roma non avevano una funzione catechetica o educativa evidente, a differenza dell’iniziazione mitraica, dove il modo discorsivo subordina a sé i simboli rituali. Dei sette gradi, solo gli ultimi tre (il persiano, l’eliodromo, il pater) partecipavano ai pieni segreti del dio. E a proposito di questa distinzione Origene (C. Cels. l, 12) ci informa che «fra i Persiani (=i mitraisti) vi sono riti di iniziazione che vengono interpretati “loghikôs” dagli eruditi, ma messi direttamente in atto da gente di livello semplice.» In base a questa distinzione, i primi quattro gradi riguardavano gli elementi cosmici, mentre gli ultimi (incluso il grado del Leo) vertevano sugli insegnamenti astrologici e gli ulteriori significati allegorici della cosmologia. Anche la divinità alata e circondata da spire serpentiformi, a volte

rappresentata con volto di leone, altre volte con le fattezze di un giovane imberbe, si spiega con moduli iconografici ispirati al Phanes orfico e allo stesso Serapide dei testi magici. Non si tratta di sincretismo, ma di un’inversione di senso produttiva. Una regola figurativa che mirava a far emergere una immagine dialettica, in cui combinare una memoria apollinea con una mostruosa e dionisiaca. Il serpente e lo zodiaco che connotano la statua vaticana del Leontocefalo (CIMRM I, p.213) sono simboli che evocano il percorso solare nell’eclittica. Le sette spire si riferiscono al moto dei pianeti, dominando le stagioni e i venti (significati dalle quattro ali del dio; Vermaseren: 248). Il che conferma l’identificazione della figura mostruosa con il tempo divinizzato, l’Aion della teologia caldea (H Lewy: 152), ovvero il Tempo infinito dei Magi zurvaniti, secondo la tesi classica di F. Cumont. Sia la relazione del Leontocefalo con il grado iniziatico del “Leone”, che quella tra Mithras e il Leontocefalo sono di per sé evidenti. Poiché il Sol Invictus Mithra era nell’astrologia dell’epoca localizzato nella costellazione del leone. La biblioteca di immagini cosmologiche custodita nei mitrei si alimenta di tre punti focali: Mithras dio cosmico, che sorge dalla roccia o da un uovo infiammato; Mithras tauroctono; Mithras che ascende sul carro del sole in direzione di Satumus-Oceanus. Al vertice degli dei planetari si pone invece la figura del Leontocefalo, l’aspetto oscuro del cosmo. Distinta e complementare da quella antropomorfa e splendente, con una maschera di leone scolpita sul petto, rinvenuta a Mérida e a Modena (Aion-Phanes, ovvero Mithras adolescente: cf. Vermaseren: 250). Espressioni rispettive di due tradizioni figurative ed ideologiche diverse. Le caratteristiche iconografiche della figura mostruosa rinviano infatti alla doppia natura ctonia e solare, animalesca ed alata, dei suoi attributi. Con la fredda spirale serpentiforrne che lo connette al mondo infero e il volto e le zampe leonine che lo riportano al segno zodiacale corrispondente. Le associazioni astrologiche lo legano inoltre al tempo planetario, al pianeta Saturno e al tempo-destino dei Magi, coinvolgendolo non solo per la ciclicità cosmica, ma anche quale meta del viaggio iniziatico degli adepti. Kronos-Saturnus infatti “con la sua sfera celeste è il primo dei pianeti che si oppongono ad Urano” (De Antro: 16), ma è pur vero che il Leontocefalo include le stelle fisse dello zodiaco, incastonate nel suo schema corporeo (CIMRM I p.245). Assorbendo la funzione di Ouranos, che nell’ordinamento astronomico dell’epoca

equivaleva al cielo delle stelle fisse. Nella disciplina astrologica, la fredda dimora del pianeta Saturno è assegnata tra le costellazioni del Capricorno e dell’acquario, poiché Saturnus era connesso alle acque oracolari. Ciò aiuta a spiegare l’attribuzione a Kronos-Saturnus del fuoco celeste (che lo trasmette con la sua folgore a Zeus), unitamente all’iconografia di Oceanus. La statuaria leontocefala dei mitrei riprende precisamente questo carattere ctonio del dio del tempo, tramite le spire serpentiformi che ne avvolgono il corpo. Anche le tradizioni orfiche concepiscono Chronos come un “δράκων ἐλικτός”, un drago serpentino, ovvero arrotolato su se stesso (Kern fr. 58,6). Si tratta di un modulo simbolico che è alla base del rapporto tra l’Aion mitriaco e il Chronos orfico, per la prima volta individuato da R. Eisler (Welenmantel II: 382-384 e 387) e approfondito da Saxl (cf. C. Wedepohl, Warburg, Saxl, Panofsky and Dürer’s” Melencolia 1”, in «Schifanoia», vol. 48-49, 2016: 2744). Quanto alla tipologia leonina, Atenagora (Kern fr. 57) attribuisce ad Orfeo un mito delle origini in cui un dragone leontocefalo sorge dall’Oceano primordiale, mentre nella teogonia di Ieronimo e Ellanico (fr. 54 Kern), Chronos, il “tempo senza vecchiaia” è reso come un serpente con la testa di toro e di leone, secondo uno schema semitico, che è ripreso dal profeta Ezechiele e che non ha nulla a che fare con l’iconografia mitriaca e gnostica (Brisson 1985: 38-41). Non è comunque necessario sovrapporre all’iconografia mitriaca la distinzione “orfica” tra Chronos e Kronos (come in Mastrocinque 2017: 256). La statua del Leontocefalo identifica in sé Chronos con Kronos, cioè con il Satumus romano, la cui traduzione astrologica era resa dal nome di Aion. Proprio su questo aspetto Vermaseren avanza delle osservazioni preziose, discutendo la tesi dell’erudito ottocentesco Zoega. Notando che sui monumenti mitriaci trovati vicino S. Maria Dominica due raffigurazioni dello stesso concetto occupino il registro superiore alla tauroctonia (Mithriaca IV: 52-53). A sinistra un personaggio senza ali e senza scettro, al centro una figura alata, avvolta da un serpente e con lo scettro: rispettivamente Saturnus e Mithras. Entrambi non hanno il volto di un leone, mentre, come nella statua antropomorfa di Mérida, Mithras è alato. Con Saturnus sempre posto alla Sinistra per il fatto che i pianeti risultano ordinati da destra a sinistra. Non si tratta semplicemente di distinguere tra il dio del Tempo e suo figlio Aiōn. Infatti, nelle cerimonie iniziatiche, il Pater porta i

segni della falx come Saturnus e il berretto frigio come Mithras (CIMRM I, 299). Nella polarità “Mithras-Saturnus” (Mitriaca III: 63) si trova invece espressa una identica figura divina, raffigurata in momenti diversi. Nello stesso gruppo di rilievi, Iupiter viene invocato come “Caelus aeternus” e Mithra come “Dominus invictus”. Mentre, nel mitreo Barberini la signoria sugli astri è veicolata dalla pittura del Leontocefalo, che si erge con il suo scettro sul globo terracqueo. L’immagine dell’Aiōn può dunque essere rappresentata ora come una figura anziana (Saturnus), ora come giovanile (Mithras), ora come infero-solare (Leontocefalo), alla stessa maniera del Gesù polimorfico dei testi gnostico-cristiani e del docetismo degli Atti apocrifi degli apostoli. Senza per questo attribuire al Mitraismo un duplice concetto di eternità, ovvero un tempo extra-cosmico e un tempo intracosmico. La trascendenza, direbbe Borges, è un’invenzione gnostica, non mitraica. La presenza del triplice Mithra, nella sua ricca valenza semantica e iconica, si interseca nei monumenti mitriaci con un triplice schema iconografico: dall’aspetto ferino, espresso in un corpo umano con testa leonina. In ogni caso, ben distinto dalla figura raffigurata secondo un aspetto interamente umano, del tipo Aion-Iuvenis, cinto da un nimbo radiato (CIMRM 777: Mérida), senza le spire o egualmente avvolto dal moto ciclico del serpente, ad indicare il cammino spiraliforme del sole (R. Merkelbach, Mitra 1984: 264-267; R. Bortolin, Il Leontocefalo dei misteri mitriaci 2012: 166-178). Il programma figurativo del mitraismo, anche in questo caso, si serve di moduli presi da altre tradizioni religiose per adattare le proprie concezioni. Alcune delle figure leonine si ergono sul globo terrestre, come in alcune immagini indicanti il potere degli imperatori, reggendo una chiave simile all’Ankh egizio o al dio Giano della tradizione romana. Anche l’iddio fenicio e punico del cielo, l’El-Kronos alato di Filone di Biblo, venne reso ora con Giano, ora con Saturno nell’interpretatio romana. Inoltre, nel gruppo dei cosiddetti vasi planetari, di area fiammingo-renana di età imperiale (Pettazzoni 1955: 297ss), sono riportati sette busti barbati e imberbi, tra i quali compare una figura tricefala, identificabile con Saturno (la divinità del sabato), oppure con il Sole onniveggente (il dio della domenica), in ogni caso concepito tanto in figura giovanile che anziana. Il fatto che il Tricefalo sia stato interpretato, all’interno della settimana planetaria, come dio solare, naturale garante dei patti, conferma la triplice modalità in cui si manifesta il

dio Mithras, posto al di sopra degli altri pianeti. Significati diversi, tutti assegnati all’eternità cosmica, espressa ora dall’esperienza dell’iniziato, ora dal dio cosmico che governa le stagioni e i pianeti, ora dal tempo primigenio, cioè Mithra stesso che vince e sovrasta il destino. Oggetto da parte di Pettazzoni di un libro mai pubblicato e riemerso attraverso le lettere inviate a F. Saxl, che annunciavano due capitoli di quello che avrebbe dovuto essere un libro su “Il tempo, l’Eternità”. E che invece si svolse altrimenti prendendo forma nella ricerca sull’Onniscienza di Dio (N. Spineto 1994: 132-134). L’eternità e il tempo si distinguono sul piano delle astrazioni teologiche, non su quello cultuale e religioso. Come la pluricefalia delle divinità si addice ad esprimere iconograficamente l’attributo dell’onniscienza, così la polimorfia di Mithras associa l’aspetto luminoso del sole nascente al sole notturno, rappresentato dal pianeta Saturno, il più lontano dalla terra. Ecco perché le feste dedicate a Saturno, terminavano a Roma il 24 dicembre. Il 25 dicembre Mithras nasceva dalla roccia e diveniva il successore di Saturno, assimilandone le prerogative (Vermaseren: 253; id. Mnemosyne 1951: 299). Siffatta funzione rammemorante delle vicende astrali diventava il punto di incontro tra le tendenze orientalizzanti e la cultura romano-imperiale. Con un linguaggio traducibile in “schemata” e diagrammi da interiorizzare. La mitologizzazione del cielo, che per Arato e Manilio era solo un espediente mnemonico-descrittivo, diventa nel mitraismo un sistema iniziatico entro cui visualizzare la forza siderea e l’ascesa mentale del miste. Vedere un’immagine, coglierne la memoria astrale, al pari della rete di rimandi che la costituisce, equivaleva a vedere il tempo. A comprendere l’identità tra il moto dei cieli e il proprio tempo interiore. Ne discendeva come il ruolo e la funzione di guida svolta dalle immagini, con le 12 parti dell’eclittica messe in rapporto ai 12 dei (rilievo di Osterburken, in Merkelbach: 429), servisse a sostenere quella tradizione speculativa, di ispirazione “caldea”, che aveva identificato il tempo con la fatale necessità del moto celeste, consegnando il destino individuale alle influenze degli astri. I dodici dei della religione romana erano ormai diventati i dodici segni dello Zodiaco e Mithras la loro guida. Lo spelaeum è un atlante della memoria. I tipi figurativi mitriaci sono “Pathosformeln” iniziatiche, capaci di produrre nuove inversioni energetiche,

in base a tecniche espressive, memorie e azioni, che combinavano discesa agli inferi e ascesa degli iniziati. Il sistema simbolico che veniva appreso nei misteri prendeva avvio da questo tipo di narrazioni in movimento, inclusivo, per dirla con Warburg, di parole e immagini, che orientavano all’azione ed a una personale esperienza di trasformazione. Attraverso un discorso demitizzante che rifletteva la lotta degli elementi fisici e delle disposizioni dell’anima. E questo perché i Caldei, commentava Sinesio, fanno del cosmo l’immagine dell’Aion, il quale serve da specchio agli avvenimenti che vi accadono (Nicephori Gregorae, Explicatio in Librum Synesii “De Insomiis” 1999: LVIII). L’iconografia mitraica opera come un’espressione a doppio segno, che tiene insieme forma ellenica e spirito orientale. Che trasmette un insegnamento e un percorso. Gli elementi della natura venivano divinizzati e così i segni zodiacali. Una visione sinottica con il potere di attrarre i più diversi contenuti tematici, eppure non estranea alle manifestazioni della realtà, avvertita nella sua forza vitale e connessa alla rigenerazione fisica e spirituale di ogni sorta di esistenza. In base a tale esperienza, più che di salvezza, si dovrebbe parlare di trasformazione individuale. Ci si rivolgeva a Mithras come guida e modello di vita eroica, che esigeva dai suoi fedeli un impegno morale. Uno stile di vita severo ed attivo, che culminava nell’atto di ricevere la corona solare e il beneficio della fortuna, allo stesso modo in cui sulle monete partiche i principi arsacidi ricevevano la corona dalle mani della “Tyche”. La “Fortuna Regia”, da privilegio dei principi, era divenuta possesso degli iniziati. Un atto catartico, non una escatologia individuale. Che comportava l’amicizia con il dio, realizzata tramite il pasto in comune e, sul piano delle pratiche iniziatiche, la conoscenza dei suoi poteri cosmici. In questo senso, la corona a sette raggi che accompagnava l’immagine dei sovrani e del fedele a Mithras, richiamava l’alone luminoso che contrassegnava le rappresentazioni iraniche e kushana di Mithra e alludeva al potere mistico del “Xwarnah” (Avesta: Yast 19). Il rituale misterico non era iranico, ma si rifaceva all’Iran, sottolineando la sua differenza religiosa attraverso espliciti riferimenti al grado iniziatico del “perses”, agli altari del fuoco e a un ethos zoroastriano filtrato da una connaturata riflessione teosofica. Così come sarebbe opportuno ammettere più tipi di mitraismo. Più strati di senso, sulla base dei livelli sociali degli adepti e delle reinterpretazioni neoplatoniche e teurgiche.

Grazie ai lavori di Vermaseren è apparso chiaro come la mitologia mitraica sia stata narrata sotto forme diverse a Roma, nei paesi renani o in quelli danubiani (Vermaseren, Il culto di Mithra in Germania, in Atti dei Convegni Lincei 1976: 135-144). Invece, solo nel III secolo, si imposero due culti di Stato del Sole invincibile (con Eliogabalo e Aureliano) che, pur assorbiti in una “pietas” solare, erano culti di origine siriaca e restarono distinti dal culto iniziatico al dio iranico. Il mitraismo del tardo IV secolo rappresentò una delle molte componenti della restaurazione pagana, ma la sua teologia non può essere ricostruita sulla base di quella presente nel discorso “A Helios re” dell’imperatore Giuliano. Il potere del nome Questa storia del dio è strettamente connessa con la preistoria del mitraismo romano. Il nome compare la prima volta nel trattato di pace tra gli Ittiti e i Mitanni del sec. XIV a.C, in relazione alla coppia degli dei sovrani Mitra-Varuṇa (G. Dumezil, Jupiter, Mars, Quirinus 1955: 40). Quindi negli inni vedici, sotto il composto duale “Mitravarunau”, compenetrazione del cielo diurno e notturno (Mitra: nome del dio; mitràm: amicizia, dalla radice indoeuropea *Mey- “unire”; cf. Bonfante, in Etudes Mithriaques: 47). Nell’Avesta recente, Mithra è titolare di due inni dove è chiamato “A hura misterioso”, inafferrabile (Yašt 10 VII, 25: ahurem gufrem amavañtem): esattamente come suggerisce il titolo scelto da Vermaseren per il suo primo libro (Mithra. Questo dio misterioso 1960). Egli resta il dio che è “nascosto”, come nascosto nelle acque sono le sorgenti della vita che Mitra sparge in Varuna (Šatapatha Brahmana II, 4,4,9). Anche il “ṛtà” di Varuna è misterioso, in quanto difficile da comprendersi per ogni uomo. Nelle lingue iraniche antiche, invece, il sostantivo “mithra” significa contratto, con riferimento alla divinità dei patti e dei giuramenti, ma nel suo etimo resta insita la nozione di misura e di medietà (dalla radice *ma-, da cui il tedesco “mond”, l’inglese “moon”). Tale evidenza conduce ad una ulteriore considerazione. L’ipostasi divina esercita nell’Avesta, come pure nella tradizione armena e in Plutarco (De Iside: 46: qualifica di “mesìtes”), una funzione arbitrale, quale mediatrice tra la buona religione e i suoi aderenti. Egli è il dio giudice che veglia sui giuramenti (Belardi, Studi Mithraici 1977:33). In virtù della sua posizione intermedia, Mithra è pertanto identificato con gli equinozi e, nell’ordine caldeo dei pianeti, con il Sole, al centro delle rotazioni celesti. Un valore

analogo esprime la figura dell’angelo Metatron nella letteratura hekhalotica e nelle coppe magiche di ambito babilonese, dove è il “misuratore” per eccellenza: un alter ego di Mithra. Nelle monete battriane del periodo Kuşana il nome MIIRO è forma locale del partico Mihryazd (Images of Mithra, Oxford 2017: 106-127), mentre nei testi partici e sogdiano-manichei Mihr è il dio solare che nasce dalla terza evocazione, ovvero il Tertius Legatus di S. Agostino, concordando in ciò con il dato Kuşana (Sundermann in MM: 777ss). Diversamente, nei testi medio-persiani, Mithra rappresenta lo Spiritus Vivens, ossia il demiurgo del mondo. I manichei dell’Asia centrale chiamarono Maitreya - il Bodhisattva misericordioso - con l’epiteto di MitriBurkhan, cioè Mitra-Buddha (Mirecki-BeDuhn eds., Emerging from Darkness. Studies in the Recovery of Manichaean Sources: 94). Invece, come Mithras, al nominativo singolare, compare nelle iscrizioni in greco, nel regno di Commagene, così come nei Papiri Magici Greci (VII, 482). In latino, il vocativo Mithra è un calco del greco. Assegnare al nome del dio il compito di scoprire il nocciolo della sua “essenza”, l’originario nucleo emotivo da cui sarebbe scaturita la sua storia, non significa ridurre le sue funzioni al valore semantico dell’etimo, tantomeno ricondurne la rappresentazione ad un’univoca funzione sociale. Già in ambito vedico la regalità cosmica del dio si combina con il suo ruolo di figura misericordiosa, attenta alle esigenze dei singoli individui, abbracciando inoltre una complessità di aspetti. È un fatto come nell’inno avestico (Mihr Yašt), molti dei tratti caratterizzanti la figura del dio trovino un riscontro nel culto di età imperiale: Mithra è il dio combattente adorato dai guerrieri, il demiurgo che fa cadere la pioggia e crescere le piante. Mille orecchie e diecimila occhi sono i suoi attributi nell’Avesta (Yašt 10.7, 24, 82, 141). Ed è per questo che si conoscono le azioni degli uomini (Yašt 10. 107). Identificato con la prima luce del mattino, che rende visibile le cose, viene prima del sole, da cui ne resta distinto (Mihr Yašt: 13, 51, 90, 95, 118, 145), Lucente come la luna, è in relazione con le acque che risiedono in cielo. E per tali riferimenti possiede l’acqua di luce, che dona l’energia solare (Xvar) e la fortuna ai giusti e ai sovrani (G. Patti, L’inno a Mithra, Messina 1965). Mitografie Il livello narrativo e rituale dell’iconografia mitriaca mostra anch’esso

delle modalità di pensiero connesse alla tradizione indo-iranica. La cosmogonia raffigurata nei mitrei era infatti solidale con l’idea di una “creatio continua”, di atti fecondanti in successione (come nelle cosmogonie indo-mediterranee), che fissavano un inizio e una fine, e, allo stesso modo, ripetevano annualmente una vicenda esemplare. Osservando i rilievi a tre registri, il gruppo di scene afferente alla tauroctonia è sempre collocato in posizione centrale. Nel registro superiore invece si scorge, tra il busto del Sole e della Luna, il dio del Tempo, rappresentato da un vecchio Saturno, sognante l’ordine venturo del cosmo (spesso raffigurato, al di sopra delle onde marine, con le fattezze del dio Oceano), il quale è sdraiato presso un vaso da cui fuoriescono le acque dolci. Qui, Saturno-Oceano riunisce l’immutabilità dell’essere (l’essenza ignea) con il principio del divenire, cioè dell’oceano celeste, da cui sgorga la via lattea. Accanto a Oceano, un altro elemento cosmico compare con il velo arcuato, individuabile nella figura di “Caelus”, personificazione, in questo caso, della volta celeste. Anche nel mosaico di Mérida (casa del mitreo), la personificazione del tempo cosmico è distinta da quella di Caelum e da quella barbata in posizione di divinità somma. Da Kronos-Saturnus procedono il cielo e la terra, colti sotto l’aspetto di Atlante e della madre Tellus. Il dio Tempo passa lo scettro (il fulmine) a Iupiter-Caelus, che sconfigge i giganti, i demoni arimanici che avevano dato l’assalto al cielo e avevano reso sterile la terra. In relazione a tali sequenze, deve notarsi l’assenza di qualsiasi contrasto tra Kronos e Zeus (Iupiter), come invece accade nella successione dei regni delle teogonie greche. Al potere della folgore di Zeus spetterà ora la messa in atto della creazione materiale (lo stato gētig dei trattati zoroastriani), mentre a Kronos-Saturnus pertiene quella spirituale (lo stato mēnōg). L’elaborata cosmologia mitriaca parrebbe infatti esemplificata sulla doppia creazione - mentale e vitale (corporea) della tradizione iranica. È a questo punto del mito che ha inizio una nuova epoca, con la nascita di Mithra-fanciullo dalla pietra del cielo, unita all’impresa del dio stesso che fa sgorgare con la sua freccia l’acqua dalla roccia, riportando in tal modo la vita nel cosmo. E la “Fons concluse petris qui geminos aluisti nectare fratres” ricordata nel graffito del mitreo di S. Prisca (Vermaseren: 212; VermaserenVan Essen: 193-200). Compiendo il prodigio dell’acqua, Mithra, che “nutre di nettare i due fratelli”, cioè le porte solstiziali di Cautes e Cautopates,

concede, tramite essi, la bevanda di immortalità all’umanità. Nel mitreo di Palazzo Barberini, la freccia che si dirige verso la roccia da cui uscirà l’acqua di vita stabilisce una forte rassomiglianza tra la roccia e le nuvole, ad indicare l’equivalenza con la volta celeste (Vermaseren: 211). Il motivo dell’arciere che rivolge la freccia contro una roccia è caratteristico dell’Avesta ed è rappresentato in rapporto della stella Sirio, il cui levarsi eliaco è posto in relazione con il ciclo di liberazione delle acque (Yašt 8,37). Nel Tistar yašt è Ahura Mazda-Mithra (nella forma duale) che aiuta l’astro a sconfiggere la siccità (Yaṡt 8,7 e 8,38; A. Panaino, Tiṡtrya e Mithra, in Acme 1988: 230231). Dopo le scene di caccia, da leggere come scene di combattimento contro le forze del male, le fatiche del dio sono rivolte a catturare l’animale detentore della sostanza vitale. Da Saturno, Mithra-Eracle, riceve l’incarico di immobilizzare il toro primigenio e spingerlo in una grotta, dove un corvo, seguendo il raggio lucente del dio Sole, gli porta il messaggio con l’ordine di sacrificarlo. Una volta colpito, il toro si trasforma nell’astro lunare, completando la creazione celeste. Dopo il miracolo dell’acqua, l’atto sacrificale del dio fa scaturire il sangue, che nutrirà le specie vegetali, come testimonia la spiga che nasce dalla coda del toro. Infine, il seme dell’animale è raccolto in un vaso rituale e da lì, ricevuto nel grembo di Tellus, darà origine alla prima coppia animale. Da notare infine come i pannelli che sovrastano la scena della tauroctonia siano decorati da busti planetari, dal sole, dalla luna e dai segni zodiacali. Mentre, l’epifania del dio risulta spesso accompagnata dai dadofori, dalle figure di Oceanus e di Caelus (Iupiter) e dal volto mostruoso del Leontocefalo (Vermaseren, Mithras in der Römerzeit, in Die Orientalischen Religionen, Leiden 1981: 98-102). Nel registro inferiore, l’impresa è sigillata dalla “dexiosis” e dal pasto in comune con Apollo-Sole, modello del banchetto sacramentale celebrato nell’antro dagli iniziati al culto. I “consacranaei”, che tra loro si chiamano “fratres”, vengono ad identificarsi con l’azione di Mithra e quindi con il toro stesso, dalla cui morte scaturisce la vita. Mithra infine salirà sulla quadriga del dio Sole, verso non già gli spazi celesti, ma in direzione del corpo velato del dio Oceano (Vermaseren: 228). Figura avvolta, specie nelle rappresentazioni danubiane, dalle spirali di un serpente, ad indicare il carattere solare del l’eternità cosmica. Quel movimento senza fine che presiede al rinnovarsi della vita, che circonda il cosmo con le sue spire e che

per questo è rappresentato come il dio Oceano. La cooperazione dell’acqua e del fuoco, dell’umidità e del calore che preserva le creature contraddistingue la cosmologia mitraica. A differenza delle mitologie classiche, il ciclo narrativo mitraico è dunque orientato a conservare l’intera creazione ed è finalizzato all’azione diretta nel mondo di Mithra. La dimensione cosmologica del mito assume però una rilevanza più vasta. Le imprese del dio, prime fra tutte l’uccisione del toro, con le sue prove e la lotta che richiedeva, servivano da rito di passaggio e da modello per l’impegno morale richiesto ai partecipanti del culto. Per questa ragione, le immagini del banchetto tra il Sole e Mithra avevano luogo tra gli stessi fedeli (Vermaseren: 223). Bipolarità creatrice L’immagine della tauroctonia non è compatibile con altri modelli sacrificati greco-romani. Né tantomeno il ciclo mitologico in cui venne inserita. L’idea del divenire, delle sue metamorfosi cosmiche, si lascia invece riconoscere nella figura del dio-amico, dal nome indo-iranico, in cui si accentravano tutte le funzioni soccorritrici e compassionevoli riguardo all’umanità e al mondo. In cui tutte le antitesi della realtà risultavano mediate. Nel senso di una medietà, insieme, cosmologica, astrale e soterica. Una serie di omologie con i miti vedici può essere di aiuto nel ricostruire la struttura e le trasformazioni di questa storia. Nelle imprese di Mithras era possibile cogliere, secondo la più semplice delle interpretazioni, la soluzione del conflitto cosmico, espresso dal motivo della vittoria di un ordine superiore sull’elemento informe e primordiale. Nello strato più recente del Ṛg Veda, la sconfitta e l’uccisione del mostro Vṛtra, da parte di Indra (grazie al vajra), equivaleva ad un atto fecondante, affinché le acque trattenute dal dragone mitico potessero fluire e liberare il principio solare contenuto nelle acque stesse (W. Norman Brown, The Creation Myth of the Rig Veda, in JAOS, 1942: 85-98). A questo livello redazionale del testo, è Indra che assorbe le funzioni demiurgiche del Mitra vedico, la cui valenza originaria - indicata dalla capacità vitale (vaja/ vajara) era connessa al momento in cui il sole e le acque erano racchiuse nella roccia celeste, imprigionate come in una caverna (P. Thieme, The ‘Aryan’ Gods of the Mitanni Treaties, JAOS 1960: 301-17).

La funzione di sconfiggere il demone della siccità (Apaoṧa) spetta invece nell’Avesta a Sirio (Tiṧtrya), che affronta il demone in tre scontri successivi sulle acque del lago Vourukaṧa (Yaṡt 8, 27ss). Tiṧtrya è una funzione di Mithra, così come Verethragna (l’uccisore di Vrtra) opera come una sorta di satellite di Mithra, del quale impersona i tratti guerrieri (Yaṡt 10,70). Va osservato come il ciclo mitico della liberazione delle acque e del combattimento con il dragone della morte sia di matrice semitica (la mitologia vedica si forma dopo). Mentre, alla specifica visione indo-iranica appartiene una logica polarizzata che attrae gli opposti per fonderli e reintegrarli su un altro piano. Nell’India vedica Mitra e Varuna sono opposti come lo sono la luna calante e la luna crescente, il latte (per l’offerta a Mitra) e il soma (per Varuna). Quando il mondo uscì dal caos fu Mitra a creare il giorno e Varuna la notte (G. Dumezil, Mithra-Varuna, 1948: 84). Le piante e “gli ampi pascoli” sono di Mithra, le acque sono di Varuna. Questi richiede l’immolazione degli animali, quello il rifiuto dei sacrifici cruenti. Inoltre, Mithra ha in sé il riferimento al fuoco solare, mentre Varuna è connesso alle acque della mantica e del sogno (come “Saturnus-Oceanus” nell’iconografia dei misteri romani). Non si tratta di dualismo, ma di una complementarietà di forze. Come non c’è conflitto tra Mithra e Ahura Mazda nell’Avesta, non c’è antitesi tra Mithras e il toro sacrificato effigiato nei mitrei. Secondo un’altra configurazione, dietro la formula vedica “mitrāvarunā” (Pettazzoni 1955: 171) si nasconde un dio senza nome, figlio delle acque e del fuoco originario, al quale i Veda dedicano due inni (I,143 e II,35). Nell’Avesta, tale principio è l’equivalente di uno stato di potenzialità embrionale definito “splendore senza luce” (axvaretam xvareno), perché nascosto nelle acque (G. Gnoli, in AION 1963: 297). Siffatta logica polare è a fondamento dell’azione del dio, che nei misteri romani, come in India, coincide con la prima comparsa della luce e della vita sulla terra e che per questo contiene in sé il calore solare e l’umidità lunare: valori complementari per incrementare la creazione. La coppia Mithra-Toro partecipa di siffatta energia polarizzata. E in quanto connessa alla bevanda di immortalità suscita, come il Soma, la conoscenza mistica. I poeti vedici possiedono un occhio interiore (caksas) che consente la visione (dhiyam) intesa come iniziazione ai segreti divini (Rg Veda VIII 6,8). Una visione interiore, congiunta con

l’intelletto (Rg Veda V, 81), come il tuono alla pioggia, cioè al Soma. La valenza seminale del Mitra indiano, che media tra l’oscurità del caos e la luce germinale da cui scaturiscono le diverse forme viventi, darà luogo anch’essa alle successive identificazioni con le acque del cielo, con Surya-Agni, il ciclo lunare del Soma e il senso cosmico del sacrificio (Scialpi MM: 837-39). La figura vedica di Mitra, segnata dall’identità di Spirito-luce-fluido seminate, include l’intero schema delle interconnessioni tra il mondo umano e quello naturale. Il punto di incontro era l’altare del sacrificio e dei suoi indispensabili elementi: il fuoco e l’offerta del Soma, anch’essi mediatori tra cielo e terra. È in tale spazio cosmogonico, dal fecondarsi del fuoco (Agni) e delle acque lunari (Soma), che si genera la successiva creazione del mondo. Il Mitra vedico, in coppia con Varuna, è simbolo di questa unità nella dualità: si trasforma nel fuoco e nelle acque fecondanti ed è, come il fuoco, duplice, nascosto e manifesto. Per questo, il vedico Agni, l’elemento igneo, ma nato dalle acque celesti da cui scaturisce il fulmine (cf. RgV. I, 59.2 Yašt 19,52), è androgino, come le acque sono per definizione luminose. Agni, il seme nascosto nelle acque è allora il fecondatore delle acque primeve come lo è Mitra. Ecco perché, nell’Avesta recente, Apam Napat (il germe delle acque) appare la controparte di Mithra stesso, così come nei Veda Varuna - il dio delle acque primordiali -lo era di Mitra (M. Boyce, On Varuna’s Part in Zoroastrianism, in Mélanges E. Benveniste 1975: 57-66). Tali corrispondenze presuppongono la traslazione del vedico Varuna, il sommo “àsura”, in Ahura Mazda, l’“ahura” di Zarathustra. Su questo sfondo, la creazione indo-iranica appare costituita di acqua e di luce e questa stessa dualità contrassegna la natura e il potere del Xwarnah di cui è portatore il Mithra pan-iranico e kushana. Evento ierogamico, lo Xwarnah (Yaṡt 19) - l’elemento irradiante che si trova dentro le acque e la potenza generativa dell’uomo - veniva interpretato nella cosmogonia mazdea come l’unione e l’incontro della sostanza ignea e di quella acquea, come cioè il segreto della nascita della vita. E come contraltare dell’Haoma (una variante dell’ambrosia) esso entrava a far parte delle cerimonie di capodanno legate al “mihrgan” e al ciclo mitico delle acque ri-disciplinate (S. Cristoforetti, Il natale delle luci 2002: 315ss). I sacerdoti di area indoaria non potevano interpretare il sistema delle coppie se non con altre coppie concettualmente affini. Come la luna riflette la luce solare, così il Mitra indiano è in rapporto con il toro fecondo. Che possiede un carattere androgino, essendo il toro/vacca ṚgVeda:10,5,7)

espressione del dio lunare Soma, nel cui seme è racchiuso l’intero cosmo: il germe d’oro (il sole), che emerge dalle acque. Per una stessa omologia, il Mitra vedico era associato al sacrificio del dio Soma, a sua volta assimilato al toro primigenio ṚgVeda: 3,59,4). Anche nella tradizione iranica, la vita è organizzata a partire da coppie di contrari, entro un universo polarizzato e sessualizzato, dove ogni astrazione divina si fonde nell’altra. Erodoto I, 131 identifica Mithra con l’Astarte semitica; Firmico Materno (L’errore delle religioni 2006: V,1) attribuisce ai misteri di Mithra una teoria del doppio fuoco: maschile e femminile. Più articolata ad esprimere il pensiero dei Magi ellenizzati è la notizia proveniente dallo pseudo Ippolito (Refutatio, I, 2, 13; A. Magris, Confutazione di tutte le eresie 2012: 66), che attribuisce ad Aristosseno il musico l’incontro tra Pitagora e Zaratas il caldeo (una variante di Zoroastro. Cf. G. Gnoli, 2000: 102-103). Il fatto che tutte le cose che “promuovono il divenire sulla terra” derivino dall’acqua e dal fuoco e che “nessuno dei due distrugga e insudici l’anima” contraddice lo Zoroastrismo dell’Avesta, fondato sulla contrapposizione tra un principio positivo e un principio negativo. Rinvia invece alla particolare versione religiosa adottata dai Magi di età partica. Non è necessario far risalire la dialettica degli elementi (acqua/fuoco) e dei principi ad un influsso stoico. La teoria del doppio fuoco, nascosto tra le nubi e nelle acque, l’identificazione della dea dei fiumi Anahita con l’elemento igneo, che diventa il doppio femminile di Mithra, evocano un contesto iranico e confermano le notizie dello ps. Ippolito e di Firmico Materno (Turcan, 1975: 100-101). Tali riferimenti sono un tratto caratteristico di ambienti greco-iranici che, a cavallo della nostra era, svolsero un ruolo centrale tanto nei regni di frontiera, a ridosso del dominio romano, quanto nella visione interreligiosa dell’impero Kushana, formatosi tra Oxus e Gange. Magi ellenizzati e Magi induizzati convergono nel leggere il mondo in termini di dualità cosmogoniche e di coppie divine. Sia pure con modulazioni diverse, una speculazione simile ricollega l’Oriente mediterraneo con l’India Kushana, fornendo le basi per l’equivalenza di MIORO (Mithra) con Helios, di MAO (la luna) con la greca Selene, diventata maschile come MAO, e di MIORO (Mithra) con il disco lunare di MAO (Bussagli 1984: 127). Nella monetazione kushana del II secolo compaiono tipi figurativi e formulazioni bilingui non compresi nelle monete grecobattriane precedenti. Che, in termini innovativi, identificavano nomi di divinità greche con denominazioni iraniche e indiane. La rappresentazione

del dio lunare Mao -in coppia con Mithra - è identica a quella del dio lunare di Palmira (Aglibol), delineato in costume militare come MIORO. Dove pure compare l’immagine della dea ARDOXSO con la cornucopia (la fortuna dei sovrani), ma con il nome di MIORO su alcune monete e con il nome di MAO su alcune altre. La funzione regale di ARDOXSO svolge la stessa funzione della tuche/fortuna nel mitraismo romano ed è per questo motivo che è raffigurata in coppia con PHARRO (partico farn), la gloria regale dei sovrani. Latenza e splendore della luce sono aspetti del Xwarnah. E del Mithra avestico, che è chiamato “donatore di Xwarnah” e di regalità (Mihr Yast 16), dalla cui “fronte parte il fuoco fiammeggiante che è il forte Xwarnah regale” (Mihr Yast 127, 9-10). Anche dal Buddha gandharico le fiamme fuoriescono dal busto, ad indicare la raggiunta illuminazione Come altre connessioni possono instaurarsi tra l’Ajita Maitreya, ossia l’invitto Bodhisattva messianico e il Sol Invictus (Bussagli 1984: 187). Nell’Avesta, il concetto di forza luminosa, consustanziale al Sole e alla Luna, è infatti collegato con la forza vitale racchiusa nelle acque ed è attributo della coppia Mithra-Anahita (Yt. 5,96), nel modo in cui la liturgia più antica associava le offerte del fuoco e dell’acqua nel rituale dell’Haoma (P. Gignoux, L’eau et le feudans le zoroastrisme, in L’Eau et le Feu, Paris 2004: 280). Una caratteristica essenziale della cosmologia dei Magi, affine al sistema di corrispondenze brahmanico, era di vedere il carattere di fecondazione reciproca degli opposti e insieme la loro unità: accedendo al mondo, quale campo di lotta necessaria tra elementi contrari, sia in prospettiva generativa (l’acqua di luce del Xwarnah), che sul piano della realizzazione conoscitiva. Il dono di Mithra è inseparabile dal dono del Xwarnah, ad un tempo potenza generativa e spermatica del creato e strumento salvifico che concede l’illuminazione della mente. Rispetto al clero zoroastriano (che adorava esclusivamente Ahura Mazda), i “Magusei’’ (corrispondente aramaico dei Magi caldei) continuavano a seguire gli antichi dei del pantheon indo-iranico, conservando il nucleo originale di una cosmogonia, che si accordava con altre evidenze indo-mesopotamiche, in base alla quale era Mithra l’autore del sacrificio con il quale si apre il presente stadio del mondo, emerso per un atto di liberazione delle acque e dei prototipi che avrebbero poi dato vita alla creazione. Trasponendo alle feste di Mithra (i famosi “mihrgan” o “mithrakana”) e al sacrificio annuale del toro, l’omologia del Soma con il Toro prototipico, il cui seme corrisponde alla

pioggia lunare, che presiede alla crescita delle piante, per trasformarsi nella semenza e nel latte fecondo degli esseri viventi (Vermaseren: 212; Scialpi: MM, 825). In questo caso, è il rito a proiettarsi nel mito. E la bevanda estatica dell’Haoma, derivata dal rituale del Soma, a costituire il nucleo originario - il lato esoterico - di quello che sarà poi il mitraismo dei misteri, con il “sacrificio” del toro cosmico posto al centro della cosmogonia. E il sangue che sgorga dal toro a conferire la vita, sulla terra e il dono della visione spirituale agli iniziati. E il Xwarnah - contenuto nell’Haoma - ciò che rende illuminante la bevanda di immortalità (Vermaseren: 245; Gnoli 1962: 102). Un dinamismo bio-cosmico, fulcro di molteplici cosmogonie politeiste, che, nel “misticismo ario” (la formula è di Kuiper), congiungeva l’aurora solare (Mithra) alla rugiada della Luna (la semenza del toro celeste) e al rinnovarsi della vita sulla terra. In questa direzione, la scena della tauroctonia romana viene contrassegnata da una serie di opposizioni cosmiche che ne mostravano l’interazione. Mithra e il toro primevo giungevano a rappresentare l’unione degli opposti, l’alternanza del sole e della luna, del fuoco e dell’acqua, nel ciclo dei giorni. Il Mithras della tradizione occidentale conserva dunque la stessa natura bipolare della coppia indo-iranica rappresentata da Mitra e Varuna. La bipolarità, intesa come fonte di trasformazione e promozione della vita, agiva sia sul piano delle origini cosmiche, che su quello del rituale “sacrificale” e iniziatico messe in atto dal dio dei mitrei. Su questa base, i “Patres” dei misteri avevano ordinato il cosmo in un sistema di opposti e di relazioni, in cui ogni figura divina veniva ritrascritta in termini di polarità. Porfirio, trattando degli antri di Mithras, intesi come immagine del cosmo, parafrasa un frammento di Eraclito per dire come tutto ciò che si vede sia “armonia e tensione dei contrari” (L’antro delle ninfe, 1986: 76-77), per il fatto stesso di collocarsi tra il nascosto e il manifesto. La “sympatheia” stoica che domina l’universo viene nella mitologia mitraica combinata con quella iranica: non in termini di dualismo delle potenze del bene avversarie del male, ma in chiave di unità degli opposti, in un quadro cioè volto a trascendere le antitesi ricorrenti nell’apparire del mondo. Porfirio ricorda che l’iniziato venisse purificato con il miele, “con un liquido adatto al fuoco” (L’antro delle ninfe: 15). E che in ogni mitreo fossero presenti dei crateri rituali. Con una doppia valenza: segno di acqua, ma pieni

di miele (fuoco). Lo splendore del Xwarnah, nascosto nell’elemento liquido, assumeva già nello Yaṡt 19 la valenza escatologica del rinnovatore vittorioso, che alla fine dei tempi renderà l’umanità immune dalla morte. Ai Magi era infatti noto che il fuoco nasca dall’ acqua, dal fulmine delle nubi (Yaṡt 19, 52), e che l’intera cosmologia zoroastriana inizi con la creazione per mezzo delle acque e termini con la creazione per mezzo del fuoco da parte del Saoṡhyant. Dovendo l’umanità intera attraversare un torrente di fuoco per purificarsi (Zadspram cp. 34, 50; 35, 50-51). Per questo motivo ogni cosa esistente nello stato “gētig” possiede una sua controparte nello stato spirituale “Mēnōg”, così come il seme della luce primigenia è all’origine di ogni vita terrena. Queste due fasi della creazione, esplicitate nello Zand Avesta, si sviluppano intrecciando lo stato mentale e germinale del “Mēnōg” con lo stato “gētig”. Quando nel III libro del Denkart (cp. 146) si afferma che il “Mēnōg” è la radice del “gētig”, si intende precisare come il secondo livello di esistenza, quello della vita concreta in questo mondo, non abbia alcuna connotazione negativa. Poiché il mondo stesso costituisce il vero campo di battaglia dove realizzare l’impegno etico dell’umanità. Poiché il fedele a Mithras ha il compito di entrare in relazione, tramite specifici esercizi catartici, con la trama mentale della creazione. Anche Mithras insegna agli iniziati del suo culto a vedere la luce nelle tenebre. E in ciò sta il senso di una caverna scelta come dimora di un dio solare. Si tratta di poli contrari, non in conflitto. Anche la bevanda del Soma è come il miele, perché fuoco allo stato liquido. E nei riti mitriaci, l’acqua e il miele condividono lo stesso riferimento al vaso rituale, associato al grado del leone. Da siffatta angolatura, le pitture romane alternano l’immagine di Oceanus-Saturnus (p.es. nei rilievi di S. Prisca; CIMRM:1475, 1974, 2338) con quella di Kronos-Saturnus, il dio del fuoco e dell’ultima sfera celeste, ma assimilato ad Oceanus e alla elargizione delle acque. Rendendo presente in tal modo l’antica cosmografia indo-iranica, che pone al di sopra della volta celeste personificata da Coelus - un cielo di pietra, avvolgente le acque germinali del tutto. Come nei Veda (Rg V 7. 88. 2), in cui il Sole e le Vacche erano inizialmente chiuse in una caverna rocciosa. A suggerire come la cosmologia, nel suo stato iniziale, equivalga ad una embriologia. Mentre, con gli interventi di Mithras, la creazione iniziale passerà da una condizione di virtualità (lo stato mēnōg del lessico avestico) alla condizione vitale attuale (gētig), dove la luce e le acque fluiranno per ogni parte.

La morte del toro, corrispondente al sacrificio del “Soma” vedico, era egualmente unita alla vita della terra, avendo il toro mitico generato le piante salutari dal suo corpo: il grano dal midollo, la vite dal sangue e infine dal seme, raccolto e purificato nella Luna, tutti gli altri animali. Mithras richiama anche in questo contesto l’esigenza di un elemento mediatore degli opposti, alludendo costantemente, con le fiaccole di Cautes e Cautopates, all’incremento e all’indebolirsi della vita. Pertanto, l’intera cosmogenesi del mitraismo romano si situa in un contesto di “creatio et renovatio continua”, risultante dal continuo congiungersi di poli opposti, da ricollegarsi direttamente alla mito-genesi indo-iranica (C. Pensa, Considerazioni sul tema della bipolarità nelle religioni indiane, in Studi in onore di G. Tucci 1974: 396). Per un altro aspetto, invece, la mitologia mitraica implicava la concezione iranica della meta-storia, scandita in base a una sequenza tripartita. Agli inizi esisteva il mondo in potenza, successivamente visualizzato nelle stelle dello zodiaco e strettamente legato al tempo e allo spazio del cielo (Kronos), con Mithras che inaugura il flusso della vita nel cosmo. Nel presente, è in atto l’energia vitale del dio, a proteggere e assicurare i giusti che lo seguono nel combattimento quotidiano. Alla fine, con la sua ascesa, il dio garantirà il ritorno e la conservazione dell’umanità all’età d’oro di Kronos-Saturno. A riprova di ciò, un frammento del neo-pitagorico romano Nigidio Figulo attribuisce ai Magi la dottrina delle quattro età del mondo, della durata di tre millenni ciascuna Nel primo periodo Ohrmazd opera una fondazione (bundahiṧn) puramente eidetica ed embrionale. Nel secondo e terzo momento avviene la contro-creazione dei demoni. L’ultimo periodo è segnato dall’avvento dei tre salvatori mitici, in cui il mondo verrà purificato dal male (H.S. Nyberg, Die Religionen des Alten Iran 1938: 392). In Nigidio, al primo regno di Saturno seguono quelli di Iupiter, di Nettuno e di Plutone, per chiudersi con il regno di Apollo, cioè di Mithras (A. De Jonge, Traditions of the Magi 1997: 329-330). Entro tali idee, circolanti a Roma già al tempo di Cicerone, Mithras viene identificato con il Salvatore futuro, peraltro già annunciato da Zarathustra nelle Gatha, portatore di un eschaton irrevocabile. Con il mitraismo dei misteri invece la salvezza finale viene resa immanente e già realizzata nell’azione di Mithras. Che trasforma la storia in un eterno ritorno, non più connessa ad un’intuizione lineare del tempo. Quello di Mithras è un atto di rigenerazione del cosmo, grazie al quale si ottiene qui e

ora una visione di sé e della mito-storia. Nella mitologia dei monumenti romani il ruolo centrale del dio si evince allora nella funzione di mediatore tra gli elementi pre-cosmici e quelli cosmici, tra la creazione onirica di Saturno e quella dell’esistenza materiale, tra l’archè e il telos del ciclo cosmico, in modo conforme alla ricezione ellenizzata di mitologemi iranici. Anche le antitesi cosmiche, accessibili intuitivamente a chi entrasse nella penombra dei mitrei, con le polarità dialettiche del sole e della luna e dei due emisferi, estivo ed invernale, andavano risolte entro uno sguardo progressivamente depurato. Armonizzando e unificando le polarità. L’esoterismo dei misteri Agli occhi di Porfirio (L’antro delle ninfe 6; ed. Simonini: 44-45), i misteri di Mithras erano stati fondati, cioè ispirati, da Zoroastro. Agli occhi della critica storica e di noi moderni sono piuttosto gli pseudo-epigrafi zoroastriani, del periodo tardo-partico, ad essere stati composti in greco dai Magi della diaspora e, in seguito, dagli stessi teologi mitraisti (M. Boyce, A History of Zoroastianism vol. 3 1991: 548-553). Opere astrologiche e magiche, apocalissi e profezie, non connesse direttamente alla tradizione avestica, ma formatesi nell’ambito di quella realtà culturale interscambiabile, mediatrice tra fondo partico-aramaico e apporti ellenistici, particolarmente attiva all’inizio della nostra era. Saranno gli pseudo-epigrafi attribuiti a Zoroastro a guidare in gran parte la formazione della teologia mitraica. A tale riguardo, si coglie da un lato la diversità tra i testi avestici e l’immagine dello zoroastrismo contenuta nelle testimonianze greco-romane, dall’altro si constata la persistenza di una tradizione iranica, centrata sulla figura di Mithra e presente tra le regioni dell’Armenia e del Kurdistan, che sopravvivrà, nella ritualità folklorica, fin nelle sette gnostico-islamiche (Ph. Kreyenbroek, The Yezidi and Yarsan Traditions, in Stausberg-Vevaina 2015: 499). Lo Zoroastrismo era solo una delle opzioni socio-religiose che contrassegnavano la storia dell’Iran tardo-antico. Lo prova la testimonianza di Plutarco (Wikander 1952: 66; Turcan 1975: 18-21), il quale assegna al dio dei persiani il nome di “Mesoromàsdes”. Un’espressione che trascrive la più antica forma duale “Mithra-Ahuramazda”. Il nome di Mithra, posto prima di Ahura Mazda, dimostra l’arcaicità della formula, che risale a un’iscrizione di

Artaserse III. Che lascia una traccia nel duale “Mithra-Ahura” (Yaṡt 10,113), dove il testo mette sullo stesso piano il potere di Mithra e di Ahura Mazda. Suggerendo la sopravvivenza, in Plutarco, di una forma non zoroastriana di religione, centrata sulla doppia divinità di Ahura Mithra e di Ahura Mazda, modellata a sua volta sul calco della divinità duale “Mitrà-Varuṇa” dei Veda (Kuiper, Indo-Iranian Journal III: 215). Dalla trascrizione greca di “Mesoromàsdes” Plutarco o la sua fonte trassero la definizione di Mithras come mediatore (gr. mésos, mesites). Un dato che rinvia alla funzione svolta da Mithra nell’Avesta quale dio giudice e arbitro che veglia sui giuramenti (cf. Senofonte, Cyrop. 7, 5, 53; Plutarco, Alex. 30,8). Diventato intermediario demiurgico in virtù del sacrificio cosmico del toro. Ma, l’affermazione di un Mithra mediatore si ritrova già nell’identificazione di Apollon-MithrasHelios-Hermes dell’iscrizione sepolcrale di Antioco I, re della Commagene (70-35 a.C.). Nella quale Mithras viene identificato con Apollo, a cui si aggiungono i due attributi della luce (Helios) e della “tyche regia”, cioè Hermes (Cf. H Waldmann 1991:122-124). L’equazione diviene più evidente se si considera come sia il Sole che Hermes posseggano un aspetto infero. Il primo in relazione al suo viaggio notturno, il secondo in funzione di psicopompo. Tale identificazione trova un riscontro nel mondo religioso iranico, dove Mithra funge da accompagnatore delle anime dei giusti verso il ponte “Cinvat” (Videvdat XIX, 28) ed è strettamente associato all’astro Tiṧtrya (Mercurio), allorché guida la sua freccia per riportare la vita sulla terra arida (Yaṡt 8,37). Come pure è nota l’associazione di Mithras con Hermes nei misteri romani. Inoltre, sul Nemrud Dagh, nel rilievo stellato del leone, quattro pianeti si trovano in congiunzione nella costellazione del leone. E Mercurio è la stella posta in relazione ad Apollon-Mithras (R. Beck 2006: 228). Lo stesso glifo astrologico del Mercurio (con riferimento al sole e alla luna) è un segno connesso con la regalità e con il dono del Xwarnah, ricorrendo nei coni di Gondhofares e dei sovrani kushana (cf. la discussione delle tesi di M. Bussagli in Gnoli 1996: 689-693). La componente astrale associata al dio Mithras suppone tutta una elaborazione precedente al regno di Antioco, che comprende l’ellenizzazione del mondo partico e il ruolo dei Magi caldeizzati. Questo linguaggio astromantico venne quindi trasmesso a Roma dal circolo di Posidonio. Piuttosto dunque che porsi come lo sviluppo di tendenze esoteriche dello zoroastrismo pre-sassanide, i misteri del periodo imperiale trovarono il loro impulso a contatto con ambienti intellettuali greco-iranici del limes orientale. Non certo a motivo dei pirati “cilici” delle

regioni anatoliche, come suggerisce Plutarco nella biografia del generale Pompeo. Per quanto le restrizioni all’insegnamento della dottrina zoroastriana fossero insite nella sua cosmologia escatologica e favorissero un insegnamento riservato, come sarebbe avvenuto per lo gnosticismo cristiano. L’esegesi esoterica del culto di Mithras doveva includere una lettura astrologica già nei regni greco-iranici. Nell’iconografia dei misteri, Mithras è accompagnato dai due portatori di torcia, personificazioni della sua natura solare. Cautes tiene la fiaccola sollevata in alto, Cautopates la capovolge verso terra (CIMRM, l, 123-124). Nel decimo inno avestico, Sraosa e Rasnu configurano il corso diurno e notturno del sole che accompagna il carro di Mithra. Davanti ad esso corre Atar, il fuoco infiammato, identificato con il “Xwarnah dei re”, che fa tremare Angra Mainyu, il dio delle tenebre (Yaṡt 10: 31, 126 e 127). Un’allusione ai tre aspetti del Mithras tardo-antico, alla sua posizione rispetto alla salita e discesa del sole, a partire dai punti equinoziali, e al rapporto dei dadofori con i gradi iniziatici. Con fondate ragioni Vermaseren rigetta l’identificazione con Ahriman, il dio del male, proposta per la statuaria dalle sembianze terribili, che soleva essere rappresentata come un Leontocefalo (Vermaseren: 245). Questo perché Vermaseren, nel libro del 1960, prendeva implicitamente le distanze dalla tesi di l. Gerschevitch (The Avestan Hyrnn to Mithra 1959: 63), che riconduceva i misteri di Mithras a degli adoratori di “daeva”, non zoroastriani, formatisi nella diaspora. Intendendo per “daeva” le realtà mentali dei demoni. Gerschevitch si basava soprattutto sulle menzioni del deus arimanius nelle iscrizioni romane, riferite già da Zaehner al Leontocefalo (Zaehner, Zurvnn 1955: 72-77). L’altorilievo di York è infatti corredato da una dedica: “D(eo) … / Vol(usii) Ire(naeus, et) / Arimani(us posuerunt)” (CIMRM 1: 834). La lettura proposta da Vermaseren esclude che l’iscrizione votiva sia rivolta al dio zoroastriano del male Ahrirnan, ma vada tradotta come una dedica di Volusius Ireneaus e di Arimanius al dio Mithras. Negando in tal modo che la denominazione del Leontocefalo corrispondesse alla versione misterica dell’Ahriman iranico, in questo caso non più inteso come negativo, bensì concepito quale personificazione del destino planetario, che lega l’uomo al ciclo della vita e della morte. Il vero nome del Leontocefalo è Aion, il dio del tempo. “Il personaggio con la testa di leone non è dunque altro che Zervan-Akarana, il tempo infinito della cosmologia

avestica, che i greci assimilarono a Kronos, mentre presso i romani divenne Saturno” (Vermaseren: 246). Che il dio sommo sembri dissimularsi dietro la molteplicità di nomi e di equivalenze, nelle quali poter raffigurare la divinità del tempo “archè” e mediano, che sarebbe insieme un dio cosmico e al di là del mondo visibile e che infine riunisca in sé funzioni ed entità diverse, alla stregua di una figura “pantea”, che accomuna tradizioni religiose differenti, conferma il particolare modo di concepire la sfera divina da parte di quei Magi ellenizzati che ispirarono i teologi mitraisti. Vermaseren nella sintesi del 1960 accettò la derivazione iranica da Zurwan del Leontocefalo mitraico, solo per escluderne l’identificazione con il dio iranico del male. Dipendendo, in molte delle sue argomentazioni, dalle critiche che M. Boyce aveva rivolto a Zaehner e a Duchesne-Guillemin circa la tavola votiva di York (BSOAS 1957: 315). Soprattutto, non erano le tesi di Cumont, ma quelle di Festugiére e Pettazoni a suggerirgli l’identificazione con il tipo iconografico egizio dell’Aion solare. E proprio sulla scorta dei papiri magici, Vermaseren ebbe modo di sviluppare l’identificazione del Leontocefalo con il dio solare del tempo infinito (A Magical Time God, in Hinnels ed. Mithraic Studies II, Manchester 1975: 446-456). Al vertice del pantheon mitriaco si celava dunque il tempo divinizzato, trasposto nelle figure di Saturno e di Oceano, di cui Mithra è l’inviato. Dietro questo sistema di energie personificate, che ritrascriveva il corso naturale del mondo, può riconoscersi una ulteriore tendenza all’interazione creatrice del motivo bipolare messa a punto da Mircea Eliade (La nostalgia delle origini 1972: 184-187). Siffatta dinamica giunge a spiegare il simbolismo centrale della tauroctonia in termini di polarità tra il sole e la luna. Una alleanza, quella tra Mithra e il toro, non un dualismo di principi contrapposti, che trova ampia conferma nei rilievi romani. Con le due figure, che recano delle torce accese, rispettivamente verso l’alto e verso terra, a indicare la luce nascente e tramontante, sia del sole, sia del suo riflesso lunare (Vermaseren: 193). Con il toro delle pitture e della statuaria romana invariabilmente bianco, come la luce della rugiada lunare e come l’Haoma e il toro escatologico della mitologia persiana tarda. Anche nella testimonianza del neoplatonico Porfirio (De Antro: 6), il toro si identifica con la luna e con il simbolismo lunare, che veglia sulla discesa e la risalita delle anime. Ecco perché il Mithra tauroctono assume i poteri del fuoco solare e dell’umidità lunare, le due matrici che in simbiosi salvaguardano e perpetuano la vita.

Tutte questi motivi di opposizione e identificazione erano già stati sottolineati da Franz Cumont. Con Mithra al centro della scena (il sole al suo zenit) e Cautes e Cautopates ad indicare l’alba e il declino; ovvero la primavera e l’autunno o anche i due solstizi, quando il sole incomincia a indebolirsi o rafforzarsi. A tale proposito, nota Vermaseren, come a volte Cautes sia posto a sinistra e Cautopates a destra, cambiando il rapporto con il viaggio del sole (Mithriaca III: 51). Un’inversione, ricorrente anche nello Yt. 10 (31, 126), che nega il principio degli opposti, ri-congiungendoli, per affermare come la vita fisica fosse identica a quella spirituale e che alla morte seguisse la vita. Così come nel gesto di Mithra che afferra il toro per le corna si riconosce la falce lunare, in cui dopo l’uccisione il toro stesso è trasformato. (Cumont, Textes et Monuments figurés, vol. I 1899: 208-212). La polarità che si trasforma in unità è operante non solo a livello di coppie divine, ma a livello conoscitivo. Essendo il Soma vedico anche la bevanda sacrificale che ispira il “rşi”, il poeta veggente, il quale sa vedere l’armonia nascosta nei contrasti del mondo (Jan Gonda, The Vision of the Vedic Poets, The Hague 1963: 83). I soldati di Mithras non cercano l’immortalità, ma la conoscenza. Il raggiungimento di un livello di esistenza che accolga dentro di sé la sapienza nascosta del cosmo. Negli inni estatici delle Gatha, chi prende parte al sacrificio acquista egualmente il potere della visione e questo spiega, nella tradizione successiva, il rapporto tra l’Haoma, la bevanda dell’illuminazione consumata durante il sacrificio, e il Xwarnah. Per la dottrina di Zarathustra tutti i membri che celebrano la liturgia, partecipando della sapienza di Ahura Mazda, diventano già durante questa vita “artavan” (lett. colui che ha acquisito l’“arta”): ottengono cioè la conoscenza dell’ordine celato del cosmo. Chi entra a far parte dei misteri romani consegue il medesimo statuto. Come è noto, i Veda hanno conservato l’antica idea aria che il ṛtà di Varuna fosse riposto nel mondo infero e che gli individui potessero entrare nel regno del ṛtà solo dopo la morte. Soltanto i veggenti, tra i viventi, erano detti “ṛtàvan” (Rg Veda IX 9,9). Combinato con il ṛtà, il verbo “medhà-” si riferisce alla conoscenza del profondo, analogo in ciò alla facoltà del vedere spirituale (dhiḥ). Per questo, il poeta estatico degli inni vedici, che ha ricevuto la rivelazione di Varuna, chiama se stesso “médhira” (VII, 87,4) ereditando il dono di vedere la verità e di conoscere la struttura del mondo invisibile (VIII, 6, 10). Una visione interiore, attivata dalla luce di Agni (lat. ignis), che

penetra nella mente e permette di entrare da vivi nei segreti del cosmo. Un potere che nell’Avesta contraddistingue lo stato di “maga”, ottenuto durante il sacrificio dai sacerdoti (Yasna 51,16). Già nella mistica indo-iranica, il culto di Mitra-Varuna designava una relazione personale al ṛtà. E la conseguente meditazione sulla presenza di Agni nell’oscurità. Un’identica esperienza doveva accompagnare i fedeli a Mithras, che la trasformarono incorporandola nella loro struttura iniziatica. Riservata ai riti segreti dei mitrei. Al culto del dio si attribuisce ora il potere di donare la conoscenza delle leggi cosmiche. Un complesso di dottrine che riguardavano la cosmogonia e la connessa dialettica iranica dello stato “mēnōg” e “gētig”, come pure l’apocalittica, l’oniromanzia, la demonologia e la capacità di vedere le cause occulte del mondo. Proprio muovendo dalle argomentazioni di J. Gonda e di F. B. J. Kuiper, è possibile individuare una stretta continuità che lega l’esoterismo indo-iranico alla genesi dei misteri romani. Un processo deduttivo che, come in uno “stemma codicum”, deve utilizzare una serie di elementi politetici, rinvenibili nelle tradizioni indiane, iraniche e grecoromane, per stabilire divergenze ed affinità funzionali. I mitraisti praticavano il battesimo del fuoco (Bidez-Cumont: II 155). Dove la conoscenza era paragonata ad una vista interiore e a un “soffio infuocato”, volto a purificarsi dalle concezioni antropomorfe del divino e a saper cogliere la non fisicità del reale (l’equivalente dello stato “mēnōg”). Secondo le sculture mitriache, la figura del Leontocefalo alato presentava la testa e la bocca forata, con lo scopo di emettere fuoco. Non si intendeva simulare un rito terrifico, bensì una catarsi, che liberasse i residui fisici – emotivi - dalla visione che l’adepto doveva perseguire, al fine di realizzare un livello successivo. Nella tradizione indiana, il vedere con gli occhi dello spirito (proprio del ṛsi, del veggente), è collegato con la teoria del “karman”, all’estinzione del deposito negativo accumulato dalle azioni passate. L’iniziato, come nel mitraismo, deve consumare gli elementi corporei che lo legano allo sguardo fisico delle cose, per accedere a una visione diversa. Già ora in questa vita, tramite un vedere meditativo (vedico: “médhira”), che coincide con il diventare un liberato in vita o un “artavan”. Si spiegherebbero allora i riferimenti delle fonti neoplatoniche alla presenza nei mitrei di una dottrina della metempsicosi. “Infatti un dogma di tutti i membri della prima casta dei Magi è che ci sia la metempsicosi, che si manifesta simbolicamente nei misteri di Mithra” (Porfirio, Sull’astensione del consumo delle carni IV,

16). Senza purificare lo sguardo dalla spazialità del mondo non era possibile avvicinarsi al culto e interiorizzare l’autentico significato delle immagini che effigiavano le gesta del dio. Alla stessa stregua, gli iniziati romani dovevano consumarsi nel fuoco mistico, raggiungendo il grado di “Leones”. Decifrando e interiorizzando i valori trasformativi della scena che avevano di fronte. Trasmutandosi in essa. In questo senso, il quarto grado iniziatico, quello del “Leo”, rinviava alla falce di Saturno, cioè al nume tutelare del settimo grado - quello di “Pater” il quale a sua volta aveva come suo segno distintivo il berretto frigio di Mithra. Non si trattava, per gli iniziati, di uscire dalla dimensione cosmica e nemmeno da questo mondo, ma di sottoporsi a una catarsi e a una rinascita, che li assimilasse all’essenza ignea o spirituale dell’universo. Poiché: “L’uomo resta mortale in quanto non riesce ad unire l’inizio con la fine” (Alcmeone, DK 24 B 2). Il volto del dio Accentuando il complesso solidale di più registri, insito nella scena della tauroctonia, Vermaseren ebbe a notare come lo sguardo frontale del dio, quasi distaccato dall’atto che porta all’uccisione, non incontrasse gli occhi dei fedeli, ma andasse oltre. Verso gli effetti salutari del sangue sparso dal toro, a suggerire l’idea di un sacrificio cosmico, di un modo di dare nutrimento e benessere al mondo. Non per questo il culto rimandava ad una ripetizione rituale, che poteva trovare un riscontro tra le pareti dei templi sotterranei. Il pane e il vino sostituiscono infatti la carne e il sangue del toro (Vermaseren: 171). Non si sacrifica un animale al dio, ma si partecipa alla nascita della vita rinnovata; ad una salvezza in questo mondo, non nell’al di là. Sotto questo profilo, restano valide le parole di Pettazzoni: “Non l’assimilazione al dio, ma la Sua protezione… era l’ideale coltivato nei misteri” (1924: 261). Su di un altro registro, tuttavia, il volto del dio esprimeva sofferenza e fatica, per la lotta condotta nella cattura del toro, a ricordare agli adepti il combattimento interiore, lo sforzo che debbono mettere in atto per conquistare se stessi ed essere simili all’eroe divino. Tale sguardo non si riduceva soltanto a convenzioni stilistiche di maniera, esprimeva soprattutto un atteggiamento meditativo, teso verso quel livello di Aeternitas (in greco:

Aiōn), che lo identificava con il supremo dio del tempo, il Satumo dei romani, ovvero lo Zurwān iranico (Vermaseren: 203). Su molti monumenti, Mithras è ritratto con il braccio alzato, nell’atto di colpire il toro. Proprio l’Inno a Mithra (Yaṡt 10: 31, 124, 1), per esprimere il gesto vittorioso del dio, utilizza un aggettivo composto - un hapax nell’Avesta – che lo rappresenta con “il braccio levato verso la longevità”. Cioè verso una vita garantita dalla sua protezione. Infine, Mithra compariva nella nicchia centrale, come il sovrano che metteva in moto le costellazioni zodiacali, il che spiega il suo livello intermedio, equinoziale, coincidente cioè con l’entrata del Sole nella casa del toro primaverile. Ne derivava come il Mithra tauroctono svolgesse un ruolo mediatore tra la sfera terrena e la fascia ignea che avvolgeva il cosmo visibile, quello stato iper-cosmico che poteva manifestarsi solo al pensiero (Vermaseren: 219). Un triplice sistema di interpretazione si celava al fondo della scena del toro: la rivelazione di un mito cosmogonico delle origini; la mappa celeste, visibile nel cielo notturno durante il corso dell’anno; l’avvento finale di una nuova età dell’oro. Oggetto per questo di attualizzazione liturgica, di catechesi e comunione attraverso il pasto in comune. Su di un altro sfondo, l’eone fiammeggiante dal volto mostruoso, che creava attorno a sé il silenzio e la meta della contemplazione. La tauroctonia poliedrica La caverna dove Mithras conduce il toro è uno spazio inabitato, segnato da una alterità sostanziale rispetto agli usi alimentari e rituali della vita quotidiana. Nonostante la diffusione dei mitrei durante il periodo imperiale, per gli interpreti moderni l’icona della tauroctonia resta un enigma. Il registro centrale occupato dal “sacrificio” del toro mostra soltanto l’azione del dio che ferisce l’animale, senza suggerire alcuna forma tradizionale di immolazione, comparabile con gli usi greco-romani. Il toro non muore, ma si trasforma (Ch. Faraone, The Amuletic Design of the Mithraic Bull-Wounding Scene, in Journal of Roman Studies 2013:96-116). L’impresa del toro, come narra Ctesia, era celebrata nelle feste del culto di Mithra (Mithrakana), diffuse anche fuori dalla Persia. In riferimento a tali consuetudini, gli artefici

dell’immagine misterica, evidenziando la presenza del cane e dello scorpione nella scena del ferimento del toro, avrebbero voluto suggerire un significato agrario, connesso al ciclo vitale della natura. Il toro ha una valenza creativa. Con lo scorpione che punge i testicoli per spargere il seme e il ciuffo di spighe che fuoriesce dalla coda, in funzione fecondante e generativa. L’incremento della vita naturale costituiva il senso primario del sacrificio mitriaco e la genesi ultima della sua religiosità, “da cui sogliono svolgersi i misteri” (Pettazzoni 1924: 254). Un secondo approccio nega l’accezione sacrificale e individua nella scena un significato cosmogonico: il mondo riceve la sua esistenza da un sacrificio primordiale, prototipo di tutti i sacrifici, come avveniva nei poemi mesopotamici (il cosmo creato dal corpo del mostro Tiamat ad opera del dio Marduk) o negli inni cosmologici del Rg Veda. Identificato con la spremitura del Soma, nel cui liquido è racchiuso l’intero cosmo vivente. Il toro di Mithra è il toro cosmico, che morendo genera dal suo seme ogni sorta di vita. Non essendo concepibile una creazione dal nulla, l’atto rituale viene presentato anche qui come l’atto creativo per eccellenza. La coincidenza tra l’atto della creazione e la conoscenza del rito cosmogonico equivale a non temere più la morte (Rg Veda VIII, 48,3) e ciò rivelerebbe un legame stretto tra il Mitra indiano e quello romano (Eliade, Trattato di storia delle religioni: 108). Il gesto di Mithras non ha solo il significato di dar vita al mondo. Possiede una dimensione cosmica, in quanto vi partecipano tutte le costellazioni zodiacali e una dimensione iniziatica, connessa al “sangue eterno” sparso dal toro, ricordata nel verso del mitreo di S. Prisca. Tenendo presente il rapporto tra il sacrificio vedico del dio Soma e quello iranico dell’Haoma, G. Gnoli (Sol Persice Mithra, in MM: 725ss) ha suggerito una terza possibilità. Il confronto della tauroctonia romana con analoghi modelli iranici ha infatti un termine evidente nella concezione del Salvatore futuro, la funzione escatologica che vincerà le tenebre e che, con il suo sguardo, renderà il vigore all’esistenza corporea (Yaṡt 19: 94). Il potere meditativo, connesso alla qualità dell’onniscienza, richiama in questo passo un attributo del Mithra giudice e arbitro delle azioni umane: “dai diecimila occhi”. Sarà proprio il Saoṧyant, alla fine dei tempi, a sacrificare il toro bianco (il gav i Hatayos), con il cui grasso, misto ad Haoma bianco, sarà preparata la bevanda di immortalità dei viventi (Bundahiṡn: 226). Nel Mithras dei misteri romani la prospettiva messianica viene però cancellata e

resa già presente nella vita degli iniziati al culto. Simile in ciò ad un modo salvifico gnostico, che rende immanente l’eschaton e che trova la sua matrice ultima in analoghe esegesi brahmaniche. I sostenitori della tesi astrale hanno visto, a loro volta, nello scorpione e nel toro un riferimento ai segni dello zodiaco e in Mithra un cacciatore celeste che, come nel mito di Orione, è iscritto in uno scenario astronomico. Di fatto, l’icona mitriaca disegna una biografia del dio combattente, che agisce nel tempo mitico e che guida i destini del mondo, ponendosi come mediatore tra le sfere celesti e le ombre della caverna. La mappa del cielo che incornicia il sacrificio del toro nei mitrei commemorerebbe allora un momento unico nella vicenda cosmica, in ragione della precessione degli equinozi scoperta intorno al 125 a.C. dall’astronomo Ipparco di Nicea. Posidonio a Rodi l’avrebbe divulgata tra i romani. I creatori della forma misterica avrebbero quindi trascritto il passaggio dal segno zodiacale del Toro a quello dell’Ariete in termini mitici. L’eroe che uccide il Toro, simbolicamente indicato dalla costellazione di Perseo, esprimerebbe la forza cosmica che ha spostato l’equinozio di Primavera dalla costellazione del toro a quella attuale dell’Ariete (Ulansey 2001: 92). È la tesi di Ulansey, che, come aveva già notato A. Bausani, si ingegna a collegare lo spostamento dell’asse terrestre lungo lo Zodiaco con il passaggio delle costellazioni equinoziali del Toro/Scorpione a quelle dell’Ariete/Bilancia. Le linee deduttive ricalcano astrattamente la traccia neoplatonica di Porfirio (Ulansey 2001: 68). Invece, la figurazione che appare in ogni mitreo ha di certo a che fare con gli inizi della primavera, quando la costellazione del Toro cessa di essere visibile (verso il 15 aprile), fino al suo levarsi eliaco, intorno al solstizio estivo (F. Boll, Fixsteme, in PaulyWissowa VI,2: 2430). La vita nascente è legata cioè alla sparizione del Toro in primavera per mano di Mithras. Anche Zarathustra è associato alla stella Sirio, “custode di tutte le stelle” (Tiṡtar Yaṡt: 44; Plutarco, De Iside 47), mentre lo storico bizantino Malala associa Zoroastro alla costellazione di Orione e alla stella Sirio (Canis maioris), il benefico apportatore delle acque. In pieno accordo con le attese del tempo, anche il Rex Magnus degli Oracoli di Istaspe, come il “Phostèr” dell’Apocalisse di Adamo di Nag Hammadi, si presentano con il carattere di “Kosmokràtor”, uniti a marcate affinità con Mithras: operatore di un rinnovamento non solo politico, ma cosmico.

Un criterio unico diretto a spiegare la densa stratificazione del Mithra tauroctono non è concesso (Vermaseren: 187-190). Mentre, proprio le scene aggiuntive che affiancano il sacrificio del toro in dicano chiaramente la presenza di distinti piani di lettura, volti da un lato a rammentare la cosmogonia, dall’altro ad essere rievocate nella liturgia del banchetto mistico, per essere infine sperimentate nei percorsi iniziatici. Quanto al contesto ultimo di ideazione, l’archeologo olandese ha sempre mantenuto la lettura proposta da H. Lommel (1949), che vede nella tauroctonia dei misteri romani la trasposizione del sacrificio vedico del “soma”, la pianta sacra associata a Mitra e al toro lunare, dal cui succo si estrae l’ambrosia, l’elixir di immortalità. Sulla linea di Cumont (Les Mystères de Mithra 1913: 137-138), Vermaseren ha spesso sottolineato come la matrice di senso del sacrificio del toro nei misteri romani non debba procedere da un’esigenza astronomica, considerata primaria dagli studiosi odierni, (Speidel, Beck, Ulansey, Gordon), ma dal più complesso significato cosmogonico della coppia luni-solare, rappresentata dal toro e dal dio. Ovvero, dall’evidenza di un sacrificio cosmico che funga da modello iniziatico. Chi infatti conosceva il valore del sacrificio primigenio diventava simile agli dei e questo rendeva possibile il passaggio tra i diversi piani cosmici. Le testimonianze iraniche vanno nella stessa direzione. Filostrato racconta, nella Vita di Apollonia di Tiana (1,31), che alla corte del re partico si offriva un cavallo bianco a Mithra in sostituzione del toro lunare. La commemorazione della cosmogonia, sia nel regno partico, che in Armenia (Strabone:11,14) e in Frigia (CIMRM 22: iscrizione di Amorium, I d.C), rivestiva un ruolo egualmente fondante nelle feste pubbliche di inizio anno. Furono però i sovrani arsacidi a stabilire due capodanni: quello di Nowruz all’equinozio di autunno e il Mihragan - la festa di Mithra - connesso all’equinozio primaverile. Il primo celebrava l’inizio della vita nel mondo, il secondo la sua resurrezione (M. Boyce, HZ, Iranians Festivals: 801). È in questo ambito mitico-rituale, che la festa del nuovo anno assume un significato escatologico, di ritorno all’età dell’oro, quando il mondo verrà trasfigurato dal Saoṧyant (Widengren, Les Religions de l’Iran 1968:129). Un’ulteriore conferma di come potrebbe risalire ad epoca partica il passaggio del grande Bundahisn in pahlavico (cp.30,5; ed. Anklesaria: 226) in cui si narra che nel tempo finale il Saoṧyant immolerà un toro con il cui grasso,

misto al bianco Haoma ricolmo di Xwarnah, sarà preparata la bevanda di immortalità dei viventi, cioè dei giusti risuscitati (Pettazzoni 1924:257). Sul primo significato, di rinnovamento annuale, dovettero dunque stratificarsene altri, di tipo astrologico ed escatologico, in conseguenza dei differenti livelli di rielaborazione subiti dal Mithra indo-iranico-kuṣāṇa, poi da quello ellenistico e romano, anche se tutti questi momenti si mostravano costantemente rivolti alla lontananza di un mito allusivo degli inizi e degli esiti ultimi della creazione, come lo sono i simboli della morte e della nascita, del compimento e della fine, che ritornano sistematicamente sullo sfondo di ogni mitreo imperiale. Una traiettoria come quella di Mithra, in origine divinità del cielo mattutino, diventato in seguito ierofania solare -in corrispondenza con il dio babilonese Shamash - e poi Soter - un dio attivo che salva -si spiega con la funzione demiurgica e seminale di organizzatore del mondo, ripresa nella tauroctonia dei misteri con il sangue e le spighe che fuoriescono dall’animale prototipico. Individuandosi, per tutte queste variazioni, la regola implicita che grandezze diverse possono crescere e diminuire senza perdere per questo la loro forma, adattandosi e riplasmandosi in contesti diversi. I Magi ellenizzati Esistono diverse teorie intorno alla qualità dei significati soggiacenti all’iconografia dei misteri. Alla fine del XIX secolo, Franz Cumont diede la prima esegesi sistematica del quadro sacrificale mitriaco. La sua interpretazione, espressa in opere che restano classiche nel campo degli studi storico-religiosi, era fondata su un postulato e su una conseguenza, entrambe relative alla struttura e alle origini dei misteri greco-romani. Sotto il profilo tematico si instaurava un raffronto tra le sequenze centrali dell’iconografia mitriaca e gli schemi narrativi iranici, pur sempre influenzati da elementi caldaici. Mentre, in ordine alla formazione del quadro storico, si situava il culto di Mithra, alla confluenza delle dinamiche culturali che avrebbero coinvolto, in un destino comune, iranismo ed ellenismo, i Magi ellenizzati e la spiritualità dei misteri greci. La teoria di F. Cumont (TMMM 1:240) si incardinava essenzialmente sull’idea di una organica continuità tra le concezioni orientali, più precisamente zoroastriane, e le fonti che

includevano la documentazione archeologica occidentale, privilegiando tuttavia le testimonianze greco-romane riferite alle tradizioni iraniche, che avrebbero avuto il loro esito nella monumentale raccolta del 1938 (BidezCumont, Les mages hellénisés). Una tipologia questa che, a sua volta, venne articolandosi nel confronto con i presupposti ideologici della scuola storico-religiosa tedesca (F. Cumont fu allievo di H. Usener a Bonn, che lo introdusse allo studio delle religioni greco-romane in chiave comparativa: cfr. C. Bonnet, Le “grand atelier de la science” Roma 2005, Vol. I). Tale indirizzo di studi, fortemente innovativo, poneva non solo la questione di una religiosità “mistica” opposta ai politeismi politici, ma anche la derivazione del “mistero” cristiano da matrici non greche ed in pari tempo lontano da ambienti “semitici” (connotati ideologicamente in termini negativi). Tutto questo sulla base di una serie di modelli evolutivi volti all’individuazione di un “mistero iranico di redenzione”. Dall’antica profezia del Salvatore futuro (Yašt 19,89), annunciato da Zarathustra, si sarebbero infatti sviluppate le tarde escatologie giudaiche, così come la fede messianica nel Figlio dell’Uomo. Su questa scia, il Mithras romano venne assimilato con l’ultimo dei Saoshyant. Tutte queste figure messianiche non sono però riconducibili all’escatologia zoroastriana, se non per una comune temporalizzazione della storia della salvezza. Certo è che, nel I libro di Enoch (XVII, 90), il compimento delle profezie messianiche è reso con l’immagine di un bue bianco dalle grandi coma, assunto quale simbolo del Messia atteso. Analogo al toro che alla fine dei tempi verrà sacrificato dal Salvatore della tradizione zoroastriana. Alle soglie della nostra era, siffatta apocalittica prende, come è noto, un significato politico anti-romano, per ritrovarsi a Qumran, con la dottrina dei due Messia (D. Flusser, Hystaspes and John, Irano-Judaica 1982:12-75). Nel Mitraismo dei misteri romani siffatte forme di resistenza all’ellenizzazione perdono invece ogni connotazione politica. Anche dietro le profezie degli Oracoli di Istaspe si è voluto vedere la proiezione di Mithra, il Re-Salvatore della fine dei tempi, che sarebbe venuto a riportare il mondo alla sua condizione di felicità originaria (cf. G. Widengren, Les Religions de l’Iran: 236). Ma, per il quadro astrologico e lo stretto rapporto con il pianeta Jupiter (Lattanzio, Div. Instit: VII 17, 9-11), il “Rex Magnus” vaticinato da Istaspe risulta essenzialmente differente e non può essere considerato una ipotiposi del Saoshyant, quale appare dai testi

zoroastriani tardi. La profezia politica di Istaspe risulta invece collocabile nell’ambiente dei Magi anatolici al tempo di Seluco IV (187-175 a.C.), ripresa sotto il re del Ponto Mithridate (120-63 a.C.). In questo senso, l’escatologia dei Magi va definita come un portato delle resistenze nazionali all’Ellenismo e a Roma. A sua volta, l’ambito culturale partico (solo in parte coincidente con il dominio arsacide) è da considerarsi una forma competitiva di “iranismo ellenizzato” (C. Colpe: 826). Proprio in questo periodo si diffonde la letteratura ps. zoroastriana attribuita ad Istaspe e ad Ostane, dove trova espressione un particolare tipo di mazdeismo, non riconducibile ai Magi ellenizzati di Senofonte e Teopompo. Un nuovo tipo di iranismo, in cui si recuperano e si ricombinano tradizioni folkloriche diverse, tra le quali quelle connesse al culto di Mithra (Antioco I a Nemrud Dagh) o al culto cilicio di “Omanos-Vohu Manah” (Strabone: XI 8,4; XV 3, 13-17). Una teologia e una escatologia, che includevano l’esigenza di completare la rivelazione zoroastriana connessa ai salvatori venturi e che si inquadrava con le esegesi zurvanite - raffigurate nella personificazione del tempo-destino - rispetto alle quali il culto di Mithras permetteva di dare delle risposte salvifiche. La linea comparativa con i mondi iranici, avviata da Cumont, permane intatta nelle argomentazioni addotte dal Vermaseren, rafforzata in ciò dalla profonda diversità del Mitraismo romano rispetto al modello greco dei misteri. Furono queste idee, veicolate dai “Magi ellenizzati” a creare le premesse per la diffusione dei misteri di Mithras (Vermaseren: 138). Riprendendo il metodo del Corpus cumontiano, Vermaseren ricostruisce la narrazione del mitraismo privilegiando la base esclusiva della documentazione iconografica, con i rituali e la religiosità ricavati dalle epigrafi e dalla documentazione diretta. Come Cumont, A. Dietrich e A.D. Nock, egli fa implicito riferimento al quadro teoretico di W. James e di H. Bergson per capire cosa distinguesse la psicologia religiosa che motivava l’adesione volontaria e la creazione di misteri privati. Affinché si costituisse una comunità mitraica era necessario infatti che un maestro spirituale la fondasse, dando vita a un cenacolo dove far conoscere quelle nuove dottrine. Dove non si accedeva per scelta, ma superando delle prove iniziatiche. Tutto questo in un quadro di declino dei culti tradizionali e in reazione alle politiche imperiali, che stavano marginalizzando le élites sociali, ormai divenute scettiche rispetto all’uso politico dei culti pubblici. L’antro mitriaco si sostituiva al tempio.

Sottolineando le necessità emotive e individuali della religiosità misterica di età ellenistica, Cumont aveva però sopravvalutato il carattere escatologico e morale di quelle “religioni orientali”, ormai diffuse sotto l’impero, che inevitabilmente finivano per accreditarsi come una sorta di “praeparatio evangelica” (Bonnet:2006). Il desiderio di legare la ritualità mitraica al cristianesimo delle origini era a volte evidente in opere come “Les Religions Orientales dans le paganisme romain”. Tuttavia, le critiche portate all’opera di Cumont non hanno mai del tutto convinto Vermaseren. Basta leggere alcune pagine della monografia cumontiana per convenire con lo studioso olandese. “Quando l’iniziato entrava la sera in un mitreo, le stelle che brillavano sulla volta, l’acqua della fonte, la terra e gli altri elementi che deificavano la realtà visibile … gli provocavano una forte emozione mistica” (Cumont 1913: 149-151). La convinzione di appartenere ad una milizia sacra, che lottava per la giustizia finale in questo mondo, lontana da speranze oltretombali, era l’oggetto di tale fede panteista che, come già Erodoto a proposito dei Magi iranici, “divinizzava gli elementi” e interpretava il moto degli astri come segno di un rinnovamento futuro. Pur essendo stato integrato nel sistema dei valori romani e ricevendo dal misticismo astrale la struttura iniziatica dei sette gradi ascendenti, il Mitraismo di Cumont mantenne la sua irriducibile specificità rispetto al contesto greco-romano. Il libro di Maarten Jozef Vermaseren (edizione olandese 1959; edizione francese 1960), pur non seguendo alla lettera l’interpretazione di Cumont, ne riprese l’organicità del metodo, costantemente rivolta alla ricerca delle origini e della formazione del culto occidentale. Assumendo uno sviluppo per strati successivi, che comprendeva i Magi zurvaniti siro-mesopotamici dei regni ellenistici, le società segrete del I secolo a.C., che nel regno di Commagene (163 a.C.-72 d.C.) e quindi in Cilicia, in particolar modo a Tarso, fecero conoscere ai soldati di Pompeo il carattere salvifico del Mithra astrale (Plutarco, Pomp. 24,7); fino all’arrivo dei Magi a Roma, con l’imperatore Nerone che si fece iniziare al culto e alle cene dei Magi (Vermaseren: 140). Seguendo questa traiettoria, lo studioso olandese sottolineava come proprio a Roma, alla fine del I secolo, il culto di Mithra si trasformasse in un culto di mistero, adottando, come in un libro di immagini, il ciclo mitologico e figurativo greco-romano. Sotto il profilo organizzativo, modellandosi sugli aspetti cultuali dei “collegia” romani (CIMRM: 331, 730, 1722), il mitraismo mantenne una sua

unicità, dando origine a piccole comunità fortemente gerarchizzate per gradi iniziatici. Associazioni volontarie che si autofinanziavano, guidati da un Pater, che non aveva uno statuto sacerdotale. Anche i mitrei (che contenevano dai 20 ai 30 adepti), per le loro dimensioni ristrette, venivano edificati su terreni ad uso privato. O, semplicemente, addossati a strutture pubbliche. A differenza del culto isiaco e metroaco, il mitraismo non prevedeva cerimonie e atti sacrificali pubblici, ma banchetti in comune, insegnamenti riservati, azioni ritualizzate e un giuramento di fedeltà al proprio nume. Non c’erano donne, perché la divinità del culto non aveva né madre, né sposa. Soprattutto, i mitrei si articolavano per sodalizi professionali (come nel caso degli “stuppatores” di Ostia), vincolati dal senso dell’amicizia e favoriti dai rapporti tra Patronus e Libertus (A. De Marchi, Il culto privato di Roma antica, 2003 II: 92). Anche sotto questo profilo, il mitraismo offriva una nuova famiglia e una forma di fratellanza a soldati di carriera, commercianti e funzionari dell’amministrazione statale. Il fatto che gran parte dei mitrei romani fossero collegati con degli edifici a carattere pubblico (il mitreo di S. Stefano Rotondo sul Celio apparteneva alla polizia segreta dell’imperatore) e che le iscrizioni più antiche provenissero dalla cerchia imperiale non significa che il culto fosse espressione di una volontà statale, di una strategia politica volta ad assicurare lealtà allo stato romano (Merkelbach 1988: 186; Mastrocinque, in Potere e religione 2009: 179). Non è mai esistita una chiesa mitraista, anche se Roma costituì il centro unificante delle forme e dei moduli iconografici (Cumont, Rapport sur une mission a Rome, CRAI 1945: 386). Del resto, Mithra non compare mai nella monetazione ufficiale e solo a Trapezunte, in Asia minore, si conosce un rarissimo esempio di moneta, che mostra su un lato Traiano e sull’altro il dio con il berretto persiano (Merkelbach: 58,178; Cumont, Trajan Kosmokrator, in Mel. Radet 1940). Quando Vermaseren parla di un “Mitreo di Stato” (p. 172), per il santuario di S. Prisca, alludendo al legame che si pone tra il dipinto e il sacrificio dei “suovetaurilia” - che è un tipo di cerimonia pubblica - lo intende in relazione al restauro dei templi sull’Aventino. Aggiungendo che il mitreo di S. Prisca era stato costruito sotto una residenza privata, anche se appartenente alla cerchia imperiale dei Severi. E che l’attuale S. Prisca era un luogo frequentato da mitraisti siriaci, i cui nomi ricorrevano nel vicino santuario di Giove Dolicheno (Vermaseren-Van Essen:118). La dedica “Invictus Pro Salute et Incolumitate imperatoris” si

sarebbe diffusa dopo Commodo, ma ideologia imperiale e mitraismo avrebbero continuato a formare due grandezze diverse. Il Mitraismo restava un culto privato, che non dipendeva dal favore imperiale, né si confondeva con l’immagine solare della monetazione e con la ricorrente personificazione dell’“Aeternitas Augusti”. L’esigenza religiosa che aveva plasmato la specifica struttura misterica del culto non può dunque essere letta come una semplice funzione della vita socio-politica delle élites al potere. Essa mantiene una sua autonomia. In questo senso, il Mitraismo romano è da accostare alla stessa radice che ha creato altri “misteri privati”, come la “Basilica neopitagorica” di Roma studiata da Carcopino. In questa direzione è possibile percepire il segno delle profonde trasformazioni che intercorsero tra diaspore orientali e Stato romano, a partire dall’età dei Flavi. Lo stile di vita promosso dai misteri mitriaci sottolineava una differenza e una sincronia tra passato e presente, il che fa pensare non a una origine persiana, ma a “persiani di adozione”, a quell’ambiente di Magi itineranti, ormai distaccati dal contesto etnico e nazionale e per questo capaci di assimilare e rileggere elementi mitologici di altre tradizioni (A. D. Nock, La Conversione 1974:36; cfr. la recensione al Corpus di Vermaseren, in Gnomon 1958: 291-295). L’esito fu una profonda combinazione di elementi tradizionali (non solo indiani e iranici), uniti all’allegorismo di antiquari e teologi, pur reinterpretato alla luce delle estasi mentali dei Magi. Nel mitreo del Circo Massimo un graffito (CIMRM: 454) riporta l’espressione “magicas inbiti fas” (È lecito penetrare nelle arti magiche). Da intendersi come un invito ad entrare nelle pratiche iniziatiche. Il carattere straniero ed esoterico del culto restava in primo piano. Genealogia dei misteri Alla fine dell’800, già F. Cumont aveva reagito all’idea di una ellenizzazione dell’Oriente, giustificata dall’egemonia politica della cultura greca. Riprendendo l’ultimo Droysen, lo studioso belga proponeva di intendere l’età ellenistica non tanto come una mistione di popoli e religioni, bensì la trasformazione creativa di una nuova civiltà (M. Mazza in Mediterraneo antico 1998: 146; P. Payen, Les religions orientales 1: Droysen, in Archive f. Relig. 2006). Lo stesso Vermaseren apprese dai suoi maestri a riconsiderare la storia greco-romana come un momento particolare di quella

storia comune, che si era costituita nel rapporto dinamico e costante con altrettanti mondi orientali. Dato questo sfondo, la linea interpretativa inaugurata dallo studioso olandese risulta oltremodo originale per una ricostruzione complessiva del culto mediterraneo di Mithras. Con un’origine ellenistico-orientale, marcata com’è dalla componente astrale e da una mitologia cosmica di derivazione indo-iranica. Non un singolo mitraismo viene attestato nel quadro delle tradizioni zoroastriane. Bensì un mosaico di culti greco-iranici diffusi tra Siria, Frigia e Armenia. Accanto alle linee di continuità risaltano gli elementi di discontinuità. Il mitraismo delle camere sotterranee nasce a Roma ed è una creazione artistica e organizzativa della composita società romana, che non risulta direttamente importata dall’Oriente, senza apparire, per questo, un adattamento di derivazione greco-ellenistica, come nel caso dei precedenti “culti orientali”. Per taluni aspetti, la posizione di Vermaseren è in comunanza con quella di Cumont: il mitraismo non è uno svolgimento dello Zoroastrismo, ma è un portato dei libri e della teologia dei Magi ellenizzati (Textes et Monuments 1: 11). Per un altro verso, il libro di Vermaseren mostra di dipendere da Pettazzoni circa la tesi dei due tipi di religiosità presenti nella storia dell’Iran antico: una con al centro il monoteismo etico di Zarathustra, l’altra con Mithra quale dio sommo. Una prospettiva segnata dal magismo asianico, incentrata sulla mitologizzazione degli elementi naturali, sul sacrificio del toro e il culto dell’Haoma (R. Pettazzoni, La religione di Zarathustra 1920: 162-167; tesi ripresa da Widengren, in “Numen” 1955). Un terzo orientamento concorreva a rendere più articolata la lettura della genesi del mitraismo, nel quale riconoscere motivi di ascendenza diversa. Ellenistici sono i tipi figurati delle divinità e dei segni astrologici rappresentati nei monumenti mitriaci. Romani sono i nomi delle divinità menzionati nelle iscrizioni. Iranici, a cominciare da Mithra stesso, sono i nomi che connotano le figure coessenziali al dio (Cautes, Cautopates, Atar), che lo definiscono come “Nabarzes” (Invictus), il forte, il rinnovatore. E zoroastriana è la formula “deo Areimanio” (a Osterburken, assimilato a Plutone). Tale è la forma di un culto composito, adattato al genio romano, che per Vermaseren (p. 243) rivelava la volontà di un progetto interreligioso, non di un amalgama sincretistico. La presenza di Serapide e di Attis all’interno del culto mitriaco, la struttura iniziatica a carattere astrale, il segno egizio della

vita, dell’“ankh” sulla statua del Leontocefalo, gli dei della tradizione romana uniti agli echi della religiosità kuṣana, concorrevano ad oltrepassare barriere etniche e nazionali. Il culto mitraico va oltre i singoli culti e mostra, con il suo approccio esegetico alle più svariate mitologie, i caratteri di una “religione universale”, in ciò affine all’interpretazione che in quegli anni Gilles Quispel aveva dato della gnosi tardo-antica (Quispel, Gnosis als Weltreligion, Zurich 1951). A ben guardare, il culto mediterraneo di Mithra si diffondeva unitamente agli pseudo-epigrafi zoroastriani ascritti ai Magi: in particolar modo, a partire dall’ascesa e caduta di Mithridate VI Eupatore. In tale ambito si era andato costituendo il sogno di una nuova monarchia universale, che univa nel re del Ponto la doppia eredità di Alessandro e degli Achemenidi. È alla sua corte che si diffondono le profezie di Istaspe e si confeziona il III libro degli Oracoli sibillini, con l’idea del Re solare che farà regnare la pace sull’ecumene. Con ogni evidenza, l’ideologia solare della regalità si trasferisce a Roma, dopo la vittoria di Pompeo su Mitridate, contribuendo a determinare l’immagine imperiale, concepita come un Aiōn circondato dallo zodiaco. Anche Mithras viene identificato con l’Aiōn zodiacale. Tuttavia, i teologi mitraici riprendono questo schema direttamente da esempi ellenistici. Non un prestito della propaganda imperiale (Mastrocinque, Des Mystères de Mithra, Stuttgart 2009: 88). Al contrario, l’icona del Mithras romano è una citazione della stessa immagine di Mithridate, vista quale riflesso terreno di quel “Rex magnus” annunciato dagli Oracoli di Istaspe, frutto della propaganda anti-romana. I tetradracmi con l’effigie del re pontico assomigliano infatti al volto apollineo del Mithras tauroctono della statua di Ostia, alla copia firmata dall’artista greco Kritoon (R. Turcan, Recherches Mithriaques 1978: 399ss). L’icona della tauroctonia, situata come è in uno spazio cosmico e astrale, riprende modelli cilici, ovvero greco-iranici. Il processo di formazione dei misteri è pertanto legato alla stessa connotazione esoterica del suo culto. Che celava dietro il culto a Mithra di età imperiale la leggenda pontica. Corrispondenze mistiche Il nucleo centrale del mitraismo dei misteri, vale a dire il significato cosmico della tauroctonia, non si è conservato nell’Avesta zoroastriana, ma

compare all’interno dei testi vedici (Rg Veda: I, 19; IX 71,3; 74,3; 97,31) e in sanscrito (Satapatha Brahmana: II 4,4; IV l, 4, 8-10: Taittiriya Samhita VI, 4,8), premessa di quel sacrificio del “Soma”, la cui pozione è assimilata al latte del toro lunare che, come la pioggia, rende fertile la terra. E che se bevuto conferisce l’immortalità (Rg Veda: III 62, 15: VII 54,2; VIII 48, 411). In termini analoghi, il Mithras romano riassume il compimento della creazione sacrificando il toro celeste, stabilendo il circolo zodiacale dell’anno e donando ai suoi fedeli la bevanda di immortalità. Oltre ai tratti specifici di questa mistica sacramentale, un ulteriore fattore che ha contribuito a formare il carattere iniziatico dei misteri verte sulla particolare concezione del divino, osservato in base alle equivalenze greco-iraniche della iscrizione di Antioco I a Nemrud Dagh e a quelle attestate sulle monete dei re Kuṣāṇa, le quali usano sia leggende greche che in scrittura karosthi per spiegare il senso delle divinità raffigurate. Nel pantheon Kuṣāṇa Mithra (Miiro) è associato ora con Helios, ora con i nomi indigeni di Mao (la luna) e di Athsho (il fuoco), esito di quel sistema di pensiero sviluppato dai Magi, che vedeva l’esistenza cosmica e umana in termini di polarità, in cui un termine si riferiva all’altro, per essere ricompreso come un’unica realtà. Anche il Mithras romano opera su più piani cosmologici e antologici. Manifestandosi ora come Aiōn-Iuvenis, nascente dall’uovo cosmico, quindi come tauroctono, fino ad identificarsi con Kronos-Saturnus, l’originario dio del tempo. Tre sentieri infiniti che si incrociano e si dipanano sulla base di una idea di eternità lontana da un concetto di Essere che si svolga fuori dal corso del tempo. Tre modalità che dividevano lo spazio celeste in tre fasce parallele, collegate al cielo delle stelle fisse, della luna e del sole. Questa triplice natura del dio della luce, riflesso della dottrina iranica dei tre cieli (W. Bousset, ARW 1901:155), che regna, come fuoco luminoso nell’empireo (Leontocefalo); che fa girare la ruota zodiacale (Mithras tauroctono) e che rigenera il mondo terreno (l’Aiōn-Iuvenis del museo di Merida), esprimeva la fluidità del concetto stesso di divinità, secondo un tipo di pensiero il cui fine era quello di vedere, di là dai nomi, l’energia ignea che animava l’universo. Una cosmo-sofia, che a sua volta assumeva come propria la posizione, solo in apparenza sincretistica, dei Magi sugli dei, intesi come messaggeri e manifestazioni di quell’unica energia divina rivestita di fatalismo astrale. Tracce degli Amešā Spenta avestici sono infatti rinvenibili nelle allegorie mitriache, che incorporano, insieme al dio luna (Yt. 7), al vento (Yt.15), alle

acque (Yt. 5) e ad altri elementi divinizzati, il richiamo alla Pietas verso la terra (cioè Spenta Armaiti) e alla Virtus, ovvero alla giustizia di Aṡa (cfr. l’elenco plutarcheo in De Iside 47 e, nel libro di Dione di Prusa, l’allegoria della quadriga solare in rapporto agli elementi: testo in Bidez-Cumont II: 146-147). Entro tale orizzonte si specifica l’idea del triplice Mithra, anch’essa rappresentativa di un modo peculiare di concepire la forma divina. Un trimorfismo che inoltre ri-trascrive, rendendolo presente, il compimento escatologico zoroastriano, che annunciava il rinnovamento finale del cosmo ad opera dell’ultimo dei tre salvatori. Equivalente a quello del Gesù polimorfico dei testi gnostico-cristiani (Ap. Johannis BG: 22 4-6) e del docetismo degli Atti apocrifi (Acta Ioh. 88-89). Un’immagine, quella del Cristo-Aion, che compare a ciascun apostolo ora come un fanciullo, ora dalle fattezze giovanili, ora anziane: sintesi del tempo eonico, che riunisce passato presente e futuro (ps Ippolito Ref. VIII 9,3). Dove ad ogni livello cosmico o ad ogni epoca, l’essenza divina si manifesta in forme diverse (M. Bussagli, I Re Magi 1985: 96-100). Non una teologia, ma una pragmatica, che si estendeva dalle dottrine gnostiche a quelle teurgiche degli Oracoli caldaici, sin verso i Magi induizzati dell’impero Kuṣāṇa. La stessa visione dei tre corpi del Buddha, già presente nei rilievi gandharici, rivolti a costruire l’iconografia buddhica del Mahapuruṣa, si andava sviluppando sotto l’incidenza delle idee iranico-zurvanite (M. Bussagli, L’arte del Gandhāra, Torino 1984: 216). Per la dottrina dei Magi, infatti, l’Essere è tempo, riflesso del dio cosmico dai quattro volti. Un circolo infinito, che mettendo in moto i diversi livelli temporali del mondo, li ricomprendeva nel suo principio (U. Bianchi, Zamān ī Ōhrmazd, Torino 1955, che discute R. C. Zaehner, Zurvan, Oxford 1955; G. Widengren, Fenomenologia, pp. 140 ss.). Mithras appariva dunque a ciascun adepto in base alla propria capacità di visione, identificato come il Signore del tempo, l’Aiōn eterno e “Signore dei diademi di fuoco”, della cosiddetta liturgia mitriaca (Mastrocinque 1998: 107). Dietro questa ritualità può essere ricercata una corrispondenza con il fondo più arcaico del “misticismo ario” (Kuiper, IIJ 1964: 127-129). A partire dall’episodio del dio che nasce dalla “pietra genitrice” (CIMRM II 1743), ovvero dalla roccia del cielo. Come il veggente dei poemi vedici (il ṛtavan) vede il “sole nella roccia”, vale a dire la luce nelle tenebre, allo stesso modo chi percorre la scala dei gradi iniziatici comprenderà la vicenda del sole

nascente e calante effigiata dal triplice Mithra, interiorizzando il suo fuoco spirituale. Sappiamo con certezza dalle iscrizioni, che i Nymphi, al secondo posto della scala iniziatica, erano legati al dio da un matrimonio mistico (Vermaseren: 270). Nella cerimonia di passaggio essi portavano la torcia nuziale, uno specchio e una lampada, simbolo della “nuova luce” e segno della relazione stretta con il dio della luce (Vermaseren: 274). Il percorso successivo li avrebbe portati al grado di Pater, posto sotto la tutela di Saturno: il fuoco noetico. La tecnica meditativa che vi era sottesa richiama l’idea di una visione interiore, che partecipa al mondo spirituale già in questa vita, ricorrente nella esperienza religiosa mazdaica. Coloro che acquisivano tale condizione mentale diventavano “ašavan”, entrando in piena armonia con l’ordine cosmico, riconoscendo gli insegnamenti profondi del ṛta/aša, così come nascosto nelle profondità era l’“Ahura Mithra” (Yašt 10,25). Anche l’Agni vedico e il Xwarnah iranico suggerivano l’immagine della luce oscura, celata negli abissi delle acque primeve e paragonata a quella nascosta nella mente dei veggenti (Yašt 19,55). Anche gli iniziati dei misteri romani giungevano a possedere le qualità della luce interiore, aprendosi a una dimensione estatica, a quello stato di raccoglimento e di dono - l’equivalente del “maga-”, che ancora contraddistingue gli inni gathici di Zarathustra. Un potere che consentiva loro di vedere e di partecipare a una dimensione di perennità già in questa vita. Nel misticismo zoroastriano e più estesamente indo-iranico, la visione delle “solari dimore di Aša”, il più bello degli Amēša Spenta, individuava e definiva la condizione di ašavan (vedico: rtàvan), di vita buona del giusto, che riceve successo e forza, sia corporea che spirituale, già in questa esistenza (F. Kuiper, “The Bliss of Asha”, 1964; Gnoli, “Ašavan”, in G. Gnoli and A. V. Rossi, Iranica, Napoli 1979: 408). Il premio della lealtà a Mithra da parte dei soldati romani consisteva nel far cadere il velo delle tenebre e accedere all’unione con il dio-sposo; di sviluppare una nuova facoltà visiva, in cui scorgere la realtà del mondo. In analogia con le formule pahlaviche: di coincidere con lo stato “mēnōg” e con l’acquisizione futura di un “corpo immortale” (Gnoli 1979: 417). Il che riprende quella “conoscenza della morte”, quell’arte di entrare da vivi in un diverso stato dell’essere (Fedone 67), propria di chi ha realizzato tale stato di purificazione. Anche l’iniziato della “liturgia di Mithras”, guardando il gesto tauroctono del dio, si sentiva “innalzato da un potere e da una mano destra

indistruttibile” (Mastrocinque: 1998: 107), che lo spingeva a vedere l’Aion immortale. Diventare “arday” equivaleva a diventare simili al volto apollineo di Mithra, con la mano destra alzata, oltre la testa del toro, come appare nella statua marmorea, databile alla fine del I secolo, di Kritoon (CIMRM:230). In cui gli occhi sono colti nel momento dell’estasi, un attimo prima del gesto sacrificale. Roma, il Ponto, l’Egitto e l’Iran In Grecia e in Asia minore i mitrei sono pressoché assenti. Mentre essi sono attestati, a partire dalla fine del I sec. d. C., in Italia (Capua, Ostia), soprattutto a Roma, quindi in tutto l’Occidente latino, specie nelle province nordiche di confine - Mesia, Dacia, Pannonia, Germania, Britannia - dove il culto venne propagato da guarnigioni militari. Anche il mitreo di DuraEuropos in Siria proviene da un accampamento militare ed è stato più volte abbandonato e ricostruito. Il dato archeologico che emerge è che i più antichi mitrei sono italici. L’unica eccezione per l’Oriente mediterraneo è rappresentata dall’Egitto, dove non emergono iscrizioni in età imperiale, ma già in età tolemaica si registra un mitreo nell’oasi del Fayum (Papiro Gurob), oltre che diverse testimonianze sulla diaspora dei Magusei (Pettazzoni 1950: 10). Mentre, il documento più interessante resta il papiro magico della cosiddetta “Liturgia di Mithras” (dalla collezione magica di Tebe), insieme ad una figura fittile di Chronos-Aion rinvenuta ad Ossirinco. Di certo, l’iconografia del Leontocefalo mitriaco dovette molto ad artisti egizi. Le monete e i riferimenti a Mithras attestati sul litorale settentrionale del Mar Nero rappresentano invece una linea marginale, con ogni probabilità derivata dalle conquiste di Mithridate VI e mediata dai misteri di Attis. Proprio in conseguenza delle spedizioni di Silla, Lucullo e Pompeo contro il re del Ponto, una prima forma di interesse per Mithra dovette approdare in Italia. Si pensi all’emblema astrologico di Mithridate che compare nelle monete come una stella a otto raggi e che ritorna nel mitreo di Capua a indicare il cielo delle stelle fisse (Mithriaca I 1971), ma che nella leggenda del re era associata all’apparizione di una stella cometa al momento della sua nascita (M. Mazza, 1966: 431). Dopo la vittoria di Pompeo su Mithridate è la dinastia della Commagene che estende il suo controllo dall’Eufrate alla Siria per conto di Roma. Nello “Hierothesion” di Nemrud Dagh troviamo l’interpretatio romana del patto che il re Antioco stringe con Zeus-

Oromasdes, con Apollo-Mithras-Helios e con Herakles-Artagnes. Qui, ogni funzione divina viene rapportata ad un pianeta: Marte, Mercurio, Giove, cioè gli astri di Ercole, di Mithras e di Zeus. Il segno di Mercurio conferma il carattere mediale di Mithras, posto tra Marte e Giove. Come dio della fortuna, Hermes si accompagna alla fortuna regale e al Xwarnah concesso da Mithra. Non a caso, la coppia tutelare Hermes-Tyche appare riferita alla terra del regno di Cornrnagene ed è replicata nella coppia Pharro-Ardoxso delle monete kushana. Inoltre, nelle iscrizioni di Antioco I (A 83-84), troviamo una relazione al concetto zurvanita di χρόνος ἄπειρος, trascritto nel concetto greco di χρόνος αἰώνιος (A. Panaino, “Τύχη e χαρακτήρ del sovrano tra iranismo ed ellenismo nelle iscrizioni di Antioco I di Commagene”, in Tommaso Gnoli and Federicomaria Muccioli (eds), Incontri tra culture nell’Oriente ellenistico e romano (Ravenna, 11-12 marzo 2005), 2007: 117131). È stato ipotizzato come i misteri di Mithras abbiano tratto il loro impulso dalla dinastia di Commagene in esilio a Roma, vale a dire da un ambiente greco-iranico (R. Beck 2006: 254). Sia la linea egiziana, che quella pontica e siriana, contribuirono a determinare il prestigio del dio a Roma. Ma, furono soprattutto le versioni aramaiche, tradotte in greco, dei Magi zoroastriani a rappresentare la base teologica da cui prese avvio la formazione del culto di mistero. Plinio (H.N. XXX,4) ci dice come il filosofo Ermippo, nella biblioteca di Alessandria, avesse interpretato due milioni di versi ascritti a Zoroastro. Il saccheggio di Ctesifonte nel 116 d.C. contribuì alla ulteriore circolazione di questi testi nel mondo greco-romano. I cui contenuti non dovevano riguardare la liturgia avestica vera e propria, ma il suo commento, ovvero lo Zand Apastak: tutti quei trattati cosmologici e mitologici che sarebbero stati codificati solo nel Medioevo pahlavico. Dobbiamo però distinguere tra la disseminazione delle idee iraniche, ovvero delle cosmogonie ispirate alle “saggezze barbare”, e il mitraismo dei mitrei come istituto organizzato. A proposito dell’elogio di Mithras in Stazio (Thebais 1,719-720), Vermaseren affermava come: “Per quanto riguarda il mitraismo vorrei aggiungere subito che secondo la mia modesta opinione questo culto si basa più su concezioni ellenistiche che su un sostrato iranico, come credeva una volta il geniale Franz Cumont. Il famoso studioso belga era dell’opinione che tutti i tratti caratteristici del Mitraismo occidentale derivavano dalla religione iranica e che così anche il pantheon iranico era

rappresentato nelle divinità che riscontriamo nei Mitrei. Questa supposizione vale parzialmente per le iscrizioni di Mithradates Kallinikos e di suo figlio Antioco di Commagene, dove però il contenuto è ellenistico, ma non è vera per il Mitraismo come culto sviluppato con i misteri”. (Nuove indagini nell’area della basilica di S. Prisca in Roma, in Medelingen van het Nederlands Institutte Rome. Antiquity, 1975: 87-96; p. 93). Non riterrei utile distinguere nell’opera di Vermaseren un primo e un secondo periodo. Il libro del 1960 è già una discussione critica del paradigma cumontiano, condotto alla luce delle nuove indagini proposte da I. Gershevitsch per il Mithra avestico. E da A.J. Festugière (Le Dieu Cosmique 1949) e R. Pettazzoni (La figura mostruosa del tempo 1950) per la teologia cosmica del dio del tempo. Se la ricostruzione di F. Cumont non può più essere ammessa per certi aspetti particolari, “l’essenziale delle sue teorie sul ruolo attivo del Mithra tauroctono e sul culto dei suoi adepti non resta meno vero, cioè globalmente vero (Mithriaca IV 1978: 26). Uno dei punti fermi nella ricostruzione offerta dall’opera del 1960 (Mithra. Questo dio misterioso) è dato dal carattere evolutivo e cumulativo, riguardo alla genesi del mitraismo romano. L’ethos di fondo che soggiace al culto deve distinguere l’analisi costitutiva (la fondazione dei misteri romani) da un’analisi generativa (la dottrina dei Magi). Non considerando valido un metodo che spieghi la struttura dei misteri attraverso gli antecedenti del solo Mithra iranico, sottovalutando con ciò i tratti innovativi del mitraismo di età imperiale. Parimenti, viene rifiutata ogni tipo di lettura modellata sulla interpretazione platonizzante iniziata da Numenio, Celso e Porfirio. E altresì suggerito come i sette gradi iniziatici, associati ai sette pianeti, non siano stati una componente caratterizzante il mitraismo della prima metà del secondo secolo. Infatti, i pianeti non sono presenti nell’icona centrale della tauroctonia, la quale è contrassegnata dai simboli zodiacali del toro, dello scorpione etc, cioè dalle costellazioni fisse. Mentre le sette stelle ritratte sul mantello del dio starebbero a significare la sola volta celeste. Tali indizi indicherebbero come i sette gradi e le relative prove venissero associati alla scala planetaria solo successivamente. E che la relazione tra cerimonie iniziatiche, pianeti e viaggio di ascesa e discesa delle anime sia frutto di una sovrapposizione operata dagli interpreti platonici (e dai coevi gruppi gnostici). L’iniziazione mitriaca non riguardava l’ascesa e la sopravvivenza dell’anima oltre la morte, bensì la trasformazione dell’anima del toro, cioè

della sua semenza. Del resto, il distico che si legge nel mitreo di S. Prisca allude a una salvezza collettiva: “Et nos servasti sanguine fuso”. Allude alla perennità della vita assolta dal sangue e dal seme versato con il sacrificio del toro. Qui salvezza non significa immortalità individuale. E infatti non si sono trovati cimiteri o tombe riservate agli iniziati di Mithra (si ricordano degli adepti in CIMRM 511, 623-4). L’al di là non era una priorità. Di certo, l’iniziazione implicava delle prove e un viaggio mentale come quello raccontato da Apuleio (Met. Xl,23; commento con riferimenti ai miti egizi in J.G. Griffith: 295-308), i cui benefici si attendevano in questa vita. A riprova di ciò, Vermaseren (p. 291) sottolinea come il rituale mitriaco prevedesse il passaggio attraverso i quattro elementi dell’acqua (vaso), fuoco (leone), terra (serpente), aria (uccello), già oggetto di venerazione nella tradizione dei Magi. Ma, senza una relazione ascendente tra gradi mitriaci ed elementi. Inoltre, i gradi iniziatici venivano messi in corrispondenza con i pianeti secondo modi differenti (a S. Prisca, Mercurio protegge i persiani; nel mosaico ostiense di Felicissimo, Mercurio è connesso al “corax”). Del resto, i mitraisti, assumendo l’ordine caldeo dei pianeti, con il sole al centro, non potevano celebrare alcuna ascensione attraverso le sfere planetarie. Non in alto, ma verso il centro (I. Culianu, Esperienze dell’estasi 1989: 85). Occorre ricordare che per la Religionsgeschichtlische Schule, come per F. Cumont, furono i misteri di Mithra ad introdurre in Occidente il “klimax eptàpulos” dell’ascensione dell’anima attraverso le sette porte planetarie. Per W. Anz questo complesso di idee era una trasposizione metafisica della piramide babilonese, in cui ciascuna terrazza era consacrata ai differenti corpi siderali, con Isthar concepita come madre dei sette pianeti (Zur Frage nach dem Ursprung des Gnostizismus, Leipzig 1897: 84 e 92). Più acutamente, uno dei maggiori storici delle religioni antiche quale fu W. Bousset, criticando le tesi di W. Anz, riconosceva nello spazio originario dei mitrei la più antica dottrina iranica dei tre cieli, alla quale si sarebbe sovrapposta quella dei sette livelli celesti (Die Himmelreise der Seele, in ARW 1901:155169; 229-233). Del resto, anche l’ascesa al terzo cielo di S. Paolo in 2 Cor. 12, 1-10 riprende tale schema cosmologico, che egualmente struttura il cosmo teurgico degli Oracoli caldaici nel II secolo (W. Fauth, Helios Megistos, Leiden 1999: 1-33). Il triplice Mithra dei misteri conduce l’iniziato alla contemplazione dell’Aion cosmico, fin verso il fuoco eterno dell’empireo. Più precisamente, si dovrebbe dire che lo spirito non salga nello

spazio, ma abbandoni la spazialità sensibile. Nella religione zoroastriana chi otteneva la visione delle luci ed entrava nella “casa dei canti”, anticipando nell’esistenza terrena la visione finale, diveniva “arday”, cioè “salvato (Iscrizioni di Kirdir pg. 21, ed. Gignoux). La struttura iniziatica dei misteri mitriaci è una formulazione più articolata, che riprende questa dimensione estatica della tradizione iranica. Il mitraismo sostituiva ai templi gli antri sotterranei. Rifiutava i sacrifici cruenti e offriva una lettura simbolica di essi. Questa differenza religiosa con il sistema romano, in continuità con gli elementi orientali, era marcata dai nomi iranici dei due dadofori, affiancanti Mithras nella scena primaria. La struttura cosmico-astrale del sacrificio era qui indicata dai 12 altari di fuoco e dai 12 segni dello zodiaco che sormontavano l’uccisione del toro, con Cautes e Cautopates a rappresentare il doppio luni-solare del dio. Ricercando uno stesso spirito nel dio alato dal volto di leone, segno del fuoco che divora e purifica, visto come lo Zurwān dei Magi ellenistici, arbitro, come Mithra, dei destini del mondo (Vermaseren: 250). Lo studioso olandese insiste nel distinguere tra elaborazioni iranizzanti, con le quali la politica romana era venuta in contatto (tramite i regni di Armenia e di Commagene) e i moduli iconografici e ideologici atti ad esprimerli (Vermaseren: 254). Influenze egiziane, sulla scorta di Pettazzoni, venivano riconosciute dietro le fattezze della statua rinvenuta a Castel Gandolfo nel 1933. Quella testa leonina-figura personificata del tempo recante un doppio paio di ali sulle spalle che alludono alle quattro direzioni del vento (Vermaseren: 255), porta come suo attributo un cerbero tricefalo, che ha le stesse caratteristiche del dio egizio Bes panteo e del frugifero Serapide (Pettazzoni, In memoria di Franz Cumont, Accademia nazionale dei Lincei, 1950 Quad. n.15:13-15). L’assimilazione Aion-Helios, diventato un attributo di Serapide in età tolemaica, ritorna nelle gemme dei maghi con l’invocazione a “Zeus-HeliosSarapis-Aion” (L. Troye, Die Geburt des Aion, ARW 1924: 87-89), riformulata dai Patres mitraisti nell’identificazione di “Zeus-Helios-MithrasPhanes” (CIMRM 475). Il dio orfico della luce (Phanes indica il primo raggio di luce) è infatti qui assimilato all’iconografia di Aion-Iuvenis del rilievo di Modena, che, notifica l’iscrizione corrispondente, apparteneva a un iniziato mitriaco (Vermaseren: 251-253; H. Jackson, The Leontocephaline in Roman

Mithraism, Numen 1985:20). Anche Mithra nasce, come Phanes e la Fenice, da un uovo cosmico. E nasce il 25 dicembre come l’Aion solare nubicoegizio. Infatti, secondo una notizia di Epifanio, ogni anno nel Korèion di Alessandria, nella notte tra il 5 e il 6 gennaio, era inscenato il rito della nascita del divino Aion, non senza connessione con Osiride-Serapide. Esattamente quando, secondo il vecchio calendario tebano, il sole raggiungeva il punto del solstizio d’inverno (Per i Kronia del 25 dicembre, cf. Vermaseren: 253 e Pettazzoni, Kronos-Chronos in Egitto, in Hommages à J. Bidez et à F. Cumont 1949: 245-256). Nel mitraismo, la teologia solare dell’Aion è una eredità egiziana. La solarizzazione di Mithra avviene ora e spiega l’identità dell’Helios-Mithras del papiro magico di Parigi (l’influsso dello Shamash babilonese sul Mithra achemenide non portava ad una identificazione). L’iscrizione di Antioco di Commagene del I secolo attesta invece un sincretismo greco-iranico in cui Mithras ha come suoi attributi due pianeti: il sole e Mercurio-Hermes. E dove il re è partecipe della luminosità delle stelle come accade tra i coevi sovrani partici e kushana. S. Mazzarino ha giustamente confrontato queste concezioni orientali della regalità alla restaurazione imperiale romana del I secolo (L’impero romano I:36). Alcune monete coniate dagli Antonini nel II sec. d.C. effigieranno l’Aiōn in perenne trasformazione, circondato dall’Ouroboros e reggente l’uccello della Fenice (D. Levi, Aion, in Hesperia 1944: 294). Accanto a questo materiale (confluito nella raccolta di testi del BidezCumont 1938), Vermaseren aggiunse la raccolta di gemme magiche con motivi mitriaci (CIMRM 1956-1960). Dove, in molti casi, l’iconografia del culto mitriaco si associa a invocazioni apotropaiche e di magia astrale. E dove si ritrovano i nomi segreti delle zone planetarie, con le formule di passaggio, come nei sigilli talismanici gnostici (J. Alvar, Mithraism and Magic 2010: 536-37). E la mitologia mitriaca che ha influenzato gli amuleti e la ritualità dei “Papiri greci magici” e non viceversa. La stessa “liturgia d Mithra”, conservata nel grande papiro magico di Parigi, riporta delle tecniche di deificazione analoghe a quelle dell’ermetismo egizio (M. Zago, La ricetta di immortalità, 2010). Restano però valide le differenze di fondo, tracciate da Vermaseren, con il Mithra egizio. I misteri romani di Mithras escludono una immortalizzazione dell’iniziato, mentre propongono una salvezza collettiva già avvenuta. Questa ubiquità di Mithras nel mondo imperiale può spiegarsi

solo con il prestigio della tradizione dei Magi. Maarten Vermaseren aveva dunque appreso da Cumont - e dal suo maestro diretto A.J. Festugière - come solo con l’ellenismo, nel passaggio tra Grecia e Roma, si fosse affermata la visione di una religione cosmica universale, in cui Oriente e Occidente si incontravano. Dove tutto il movimento dei culti, con le loro reciproche assimilazioni, andava verso la creazione di un mondo religioso unificato. Origini indo-iraniche Invariabilmente, negli studi dei primi decenni del secolo (F. Cumont: 1903; R. Reitzenstein: 1910; A. Loisy: 1919; R. Pettazzoni: 1924), il prototipo del sacrificio mitriaco, veniva riferito alle tradizioni avestiche, le quali però erano state sottoposte a una revisione anti-manichea e antizurvanita in tarda età sassanide (G. Widengren, “Zervanitische Texte aus dem “Avesta””, in Festschrift W. Eilers, Wiesbaden 1967: 278-287). È fin troppo noto come la maggior parte delle fonti greco-romane su Mithra fossero state scritte durante il periodo partico, piuttosto che sotto l’ortodossia sassanide. Tuttavia, proprio gli ultimi lavori di Cumont avrebbero contribuito ad ampliare lo sguardo sulle concezioni dei Magi in età partica. Su tale linea, Ph. Kreyenbroek (“Mithra and Ahriman”, in J. Hinnells ed., Studies on Mithraism, Roma 1994: 175-182) ha postulato una doppia tradizione, un duplice processo di trasmissione che, dall’area armena a quella grecobattriana, ha fatto interagire cosmogonie non-zoroastriane e genesi del mitraismo occidentale. Accanto al Mithra della tradizione avestica viene infatti riconosciuta un’altra corrente di idee che conservava i tratti della più antica cosmologia indo-iranica. Ci sembra plausibile che la versione zoroastriana del mito della creazione, riportata nei due libri in pahlavico del Bundahišn e di Zadsparam (IX d.C.), sia la reinterpretazione di una precedente versione della cosmogonia iranica, in cui Mithra era il garante del patto tra Ohrmazd e Ahriman agli inizi del tempo e dove la festa del capodanno era ancora legata al ricordo del sacrificio del toro (Kreyenbroek, Cosmogony and Cosmology, in Encyclopaedia Iranica). In tal senso, il tema mitico del toro primordiale, equivalente alla creazione del mondo, proiettato sullo sfondo del tempo cosmico in cui si

inseriva la vicenda dell’esistenza storica, poté pervenire al mitraismo romano da quel vasto ambito religioso, che nei primi secoli della nostra era si estendeva dall’Iran nord-occidentale alla Mesopotamia, all’Armenia e all’Anatolia, e che si presentava fortemente contrassegnato, anche se non in termini culturali omogenei, da una componente iranica. Nel quadro di un siffatto ambiente intermedio, Geo Widengren fu tra i primi ad attirare l’attenzione su un rituale mesopotamico, che celebrava l’uccisione di un toro bianco (simbolo della falce lunare) al tempo della festa babilonese di capodanno (Iranisch-Semitische Kulturbegegnung, Köln 1960, p. 52). Il sacrificio era connesso con il consumo dell’Haoma, la bevanda inebriante, ricettacolo della forza luminosa e spermatica dello “Xwarnah” posseduto da Mithra. Il rituale dello Yasna, che si svolge all’alba, è, come è noto, posto sotto la protezione di Mithra, dio dell’aurora e dei primi raggi solari (come il Phanes orfico utilizzato dai mitraisti). Ma, è con il sacrificio del toro, durante la festa del capodanno, che il confronto tra il mito delle origini, il rinnovamento finale e le modalità del sacrificio nei testi vedici e nelle tradizioni iraniche viene ad interagire, risultando decisivo per intendere il dato romano. Ciò implica che operassero, in età partica, gruppi di Magi che si richiamavano a un mito delle origini non zoroastriano, trasmesso poi ai misteri romani. Svolgendo una intuizione di Gherardo Gnoli (Sol Persice Mithra, MM: 738), si può riconoscere come fosse centrale nel Mithra indo-iranico la consustanzialità di spirito-seme-luce, offerta dall’identità tra l’anima (il seme) del toro primigenio e l’atto salvifico del dio, compiuto all’alba del mondo. Troviamo qui il modello del Salvatore-Salvato dei testi gnosticocristiani, in cui il Salvatore è costituito dalla somma delle anime che dovranno essere salvate. Il toro è la matrice di vita che trasformato in luce lunare nutre la terra e l’umanità, essendone Mithra l’artefice. Nell’inno dedicato alla terra e al Xwarnah dei Kavi (Yast 19,35), Mithra è infatti il raccoglitore del Xwarnah, dello “splendore irradiante”, cioè del “semen luminis” perduto da Yima, il primo re. Risalta nell’inno (YT. 19, VII 47, 51 etc) l’aggettivo “misterioso” per definire il Xwarnah, come profondo e misterioso è chiamato Mithra nel decimo Yašt. Ma, l’inno al Xwarnah, che canta gli eroi invitti, svolge unicamente il racconto del Saošyant politico che rinnoverà il mondo (Yt. 19, XIV 89), tacendo del ruolo salvifico svolto da Mithra agli inizi della creazione (cfr. G. Gnoli, Ricerche sul Sistan antico

1967: 7-41). Non era certo Zarathustra a volere l’uccisione del toro. Ma, non si può negare che il Mithra avestico avesse connessioni con il sacrificio del toro, sebbene il sacrificio del toro bianco rappresenti un elemento essenziale della escatologia zoroastriana. Ciò comporta, come fa M. Boyce, non riconoscere a Mithra un ruolo salvifico (HZ 1991: 460-490) e quindi escludere ogni continuità tra il Mithra avestico e quello romano. Resta l’altra possibilità, che la comparazione con il trasfondo iranico non vada fatta solo con il dato avestico. Bensì con il sistema dottrinale dei Magi caldei e partici. Una puntuale analisi del rapporto tra l’Haoma delle tradizioni iraniche e il mitraismo romano è stata condotta proprio da Mary Boyce in “Haoma, Priest of the Sacrifice” (in Henning Memoria! Volume, London 1970:62-80). Non è difficile vedere come, nella liturgia zoroastriana, il doppio sacrificio eseguito da Haoma nel presente e dal Saošyant nel tempo finale sia stato trasferito a Roma nell’unica funzione di Mithra (Boyce 1970: 80). Il succo dell’Haoma è invocato per la vittoria e la forza contro i nemici, ha un legame con la crescita delle piante stesse, aiuta il giusto sulla via del paradiso, rende il vivente immortale e, quale bevanda di immortalità, contiene la forza luminosa del Xwarnah, il potere che permea gli esseri eletti. Mentre, sul piano “menok”, l’Haoma come “primo sacerdote” offre se stesso in bevanda agli yazata immortali, affiancandosi infine al sacrificio prototipico del toro. Questa duplice funzione di sacrificante e di sacrificato assolta dalla pianta eucaristica dell’Haoma è trasferita a Mithra, il cui sacrificio cosmico si trasforma in nutrimento e nettare immortale per i viventi. Precisamente, un SalvatoreSalvato. Osservazioni calendariali La tradizione precedente alla redazione sassanide doveva conoscere due tipi di salvatori futuri. Un salvatore di tipo politico e Mithra stesso, latore alla fine dei tempi di un altro sacrificio che trasfigurerà il mondo. Dove dovevano confluire tutta una serie di speculazioni e di narrazioni, sopravvissute in ambito medievale-persiano, come sta ad attestare l’associazione con il toro dell’eroe partico Frēdōn (neopersiano Farīdūn), che cavalca un toro bianco ogni anno, il giorno di Mihr (Mithra), a cui seguiva nella prassi rituale la sua immolazione. Anche nella tradizione dei kurdi yezidi, il sacrificio di un toro bianco, segno della bellezza e della forza vitale, costituiva il momento

culminante della grande festa autunnale di capodanno: festa equinoziale, corrispondente al Mehragān iranico (Bausani, in MM: 506; Kreyenbroek, cit.). Occorre ricordare ancora che sia la Boyce che S. Insler, hanno ipotizzato, a partire dal dominio partico, una data diversa (in primavera), per la festa del capodanno e dunque una doppia festa equinoziale. Che spiegherebbe la posizione dei misteri di Mithra a Roma. L’antica festa agraria indo-mediterranea, al modificarsi delle condizioni economiche e calendariali di partenza, restava quella equinoziale, ma trasferita dal momento autunnale a quello primaverile. Mentre, proprio Augusto quando realizzò la riforma del calendario in Egitto fissò, senza indugi, le feste di capodanno al 22 di giugno e al 29 di Agosto, con il periodo della massima piena del Nilo. L’idea che il toro astrale, quale segno zodiacale, inauguri il ciclo siderale dell’anno sembra infatti riecheggiare in un famoso verso dello Georgiche (I, 217-218): “Candidus auratis aperit cum cornibus annus taurus”. La riforma del calendario giuliano ordinava che il nuovo anno iniziasse quando si entrava nel segno del toro in aprile (il mese dell’apertura). Tuttavia, la tauroctonia mitraica, con la sua iconografia, non deve la sua genesi a siffatta ideologia politica (idea ribadita in Mastrocinque, The Mystery of Mithra, Tubinga 2017). Ancorchè nel I secolo fossero state adattate le profezie dei Magi, già veicolate dagli Oracoli di Istaspe, alle idee augustee di un ritorno all’età saturnia (IV ecloga virgiliana). Dove l’imperatore avrebbe assunto un valore messianico di pacificazione dell’Oikoumene. Ora, nei monumenti in cui lo zodiaco è rappresentato in semicerchio, sopra la tauroctonia, la serie dei segni inizia con l’Ariete (al momento dell’equinozio primaverile), ma nel punto più alto della traiettoria si incontrano il sesto e il settimo segno (Virgo e Libra)), ad indicare il secondo equinozio di fine settembre (Merkelbach: 171). Corrispondente al settimo mese del calendario zoroastriano. Plinio (HN 18,56) precisa che il tempo della semina, strettamente associato con il tramonto cosmico della costellazione del toro, costituisce un secondo inizio dell’anno. La scena dei mitrei unisce pertanto i due equinozi: primaverile ed autunnale. Così “Taurus”, il toro celeste, rappresenta sia l’apertura primaverile, che la sua morte feconda, con il seme e il sangue che ne bagnano la terra. L’idea astronomica del toro zodiacale, che segna l’avvento del nuovo anno in primavera e in autunno, il cui sacrificio apre e inaugura il mondo, è dunque certamente presente nel mitraismo romano. Errato sarebbe limitarne l’inizio

alla sola occasione del risveglio di primavera. Questa idea è stata corretta proprio dai lavori di Vermaseren, che hanno evidenziato la complessità del senso simbolico racchiuso nella scena. In particolare, debbono valere le osservazioni fatte sui mitrei di Ponza (Mithriaca II, 1974) e di Marino (Mithriaca III, 1982). Al centro del dipinto, nella località sui colli romani, c’è Mithras, con il Sole che lo illumina mentre uccide il toro; dall’altra parte c’è la Luna, che contempla assorta il sacrificio di se stessa. Sotto al Sole e alla Luna si vedono i due dadofori - i portatori di fiaccole: uno con la torcia alzata (Cautes), l’altro con la torcia abbassata (Cautopates). Cautes corrisponde all’arrivo della primavera, è dipinto in arancione e simboleggia l’aurora, mentre il blu di Cautopates, rappresentato vicino allo scorpione, indica l’avvento dell’autunno. L’intero scenario allude sia all’equinozio primaverile, che a quello autunnale. In altri termini, anche Mithra e il toro esprimono una simmetria luni-solare (Vermaseren: 194). Pure nello Zodiaco rotante di Ponza, che sovrasta la nicchia cultuale della tauroctonia, due dettagli indicano come le costellazioni di “Aries” e “Taurus” vengano associati, rispettivamente, con i due pianeti del Sole e della Luna (Mithriaca II: 26). Il Mithra romano, che governa il ciclo annuale dei solstizi e degli equinozi, non può non richiamare tratti più antichi, quando il dio era il garante del ṛta, dell’ordine cosmico. Ogni calcolo astronomico resta invece secondario per leggere la scena tauroctona di età imperiale e, dunque, capirla nella sua intenzione originaria. Lo stesso vale per i significati aggiuntivi della discesa e risalita delle anime. Il filosofo Porfirio, ricordava Vermaseren, scrive 150 anni dopo i mitrei restituiti ora all’indagine archeologica. Il sacrificio indo-iranico La questione metodologica posta da Vermaseren nel libro del 1960 è stata quella di conciliare immagini e testi, iconografia romana e spirito orientale, la cui tensione contrassegna l’adattamento “misterico” del culto di Mithras. La scuola olandese di indologia ebbe un certo peso (Gonda, Kuiper). L’idea indo-iranica di una sorta di iniziazione, volta ad acquisire la visione di aöa/ṛta e a promuovere una sintonia tra l’ordine cosmico e la tensione etica dei singoli, continuava a risuonare nello spazio dei mitrei romani. Del resto, il

nome e l’immagine nimbata di luce del dio, risultava popolare sia durante il periodo partico, che nell’area siro-anatolica coeva. Se poi non era possibile rinvenire un culto di Mithra associato a caverne o a luoghi sotterranei nell’Oriente ellenizzato, era invece sicuro il ruolo calendariale, di mediatore, svolto dalla funzione del dio nelle aree iranizzate (sull’incidenza del calendario babilonese, in relazione allo Shamash solare, cfr. G. Gnoli, “Politica religiosa e concezione della regalità sotto gli Achemenidi”, Napoli 1974: 30). Un secondo punto, che può illustrare il dilemma metodologico nell’opera di Vermaseren, riguarda la ricostruzione della cosmogonia mitriaca. Sappiamo come la posizione della Luna alla sinistra dell’Axis Mundi e del Sole alla sua destra era un dato costitutivo della tradizione indo-iranica. Allo stesso modo, gli affreschi romani pongono il Sole e la Luna a destra e a sinistra di Mithra (Vermaseren: 193). Una disposizione orizzontale alla quale corrispondeva l’equazione Agni = Sole/luce diurna = Mitra versus Soma = Luna/acque sotterranee = Varuṇa. Dallo stesso Varuṇa, associato alle acque abissali di Oceano, sorgeva la montagna primigenia, la roccia dalla quale era nato Mitra. Anche nella cosmografia egizia, il Sole sorge dalle profondità del mondo sotterraneo, per rinnovare il mondo ogni giorno e questo a mostrare la matrice camo-semitica del mito (F.B.J Kuiper, “Cosmogony and Conception. A Query”, in History of Religion 1970: 94-96 e 129). I Mitrei veicolavano altre immagini cosmogoniche, che conservavano tracce di tradizioni orientali. A destra, la quadriga di Mithra, che va verso la figura di Oceano, sdraiato presso un vaso da cui fuoriesce acqua (CIMRM II 2034). Riferimento a una divinità celeste connessa con le acque, che richiama il Varuna vedico. Ma, anche la nascita dalla roccia celeste e il miracolo dell’acqua che scaturisce dalla roccia; l’idea che il cielo facesse parte della terra, come le acque inferiori si ricollegavano alle acque superiori. La valenza seminale della vita, che scaturisce da un toro lunare (RgVeda I.19; X,71). La bevanda dell’immortalità (ibid. IX,4. 4). Sarebbe allora riduttivo esaminare il mitraismo romano prescindendo dalle sue origini asiatiche. Anche la prassi esoterico-iniziatica, che conferisce carattere misterico al culto occidentale, trova i suoi fondamenti e i suoi sviluppi, non solo nel mondo iranico, ma nell’unità religiosa indo-iranica. Seguendo tale impostazione comparativa, si è soliti richiamare i più

solenni riti agrari indo-iranici, che trovano un preciso riscontro nelle interdizioni di uccidere i bovini menzionate dalle Gāthā (Yasna 33, I-4; 44, 6; 50, 2; cf. M. Molè, Culte, mythe et cosmologie dans l’Iran ancien. Le problème zoroastrien et la tradition mazdéenne, Paris 1963:220 sgg.). E che più ancora rinviano ad una tematica indo-mediterranea, che ha poco a che vedere con una eredità indoeuropea. Infatti, nella parte centrale del Ṛg-Veda (II-VII), il mito delle origini del mondo dalle acque celesti, liberate da Indra, che smembrava il potere di resistenza dell’ostacolo (“Vṛtrà”), era un prodotto delle cosmogonie semitiche. Un tema, quello delle acque amniotiche, ricorrente in altre narrazioni riferite al tema del combattimento con il drago primordiale (provenienti dall’ambito babilonese e ugaritico). Di fatto, nella lotta contro i demoni, al Mithra avestico si accompagna lo yazata Verethraghna (Yasht X, 70, 80, l’equivalente dell’indiano Indra: E. Benveniste et L. Renou, Vrtra et Vrthragna, 1934: 91ss). In tutti questi casi si aveva a che fare con testi rituali, che servivano per le celebrazioni del nuovo anno e, su di un altro piano, erano utilizzati per risvegliare o fertilizzare gli strati embrionali della coscienza. Tale complesso di idee venne, solo in parte, ripreso da J. R. Hinnells (Mithraic Studies II, Manchester 1975, p. 290-312), il quale prendendo spunto da una serie di analogie, riscontrabili più direttamente nei meccanismi propri dell’azione rituale, osservate cioè attraverso l’aspetto più conservativo dell’esperienza religiosa, intese riproporre la corrispondenza funzionale tra cosmogonia, embriogenesi e rinnovamento del mondo, in modo da scoprirvi il modello di adattamenti e reinterpretazioni successivi. Il tipo dell’iconografia tauroctona romana si definiva, per Hinnells, secondo la norma caratteristica del sistema dei valori sacrificali indo-iranici, trovando specifiche risonanze nella cerimonia della festa autunnale del Mihragān, anticamente connessa al giorno delle Fravartikān (v. G. Gnoli,”Fravashis”, in M. Eliade ed., ER 1982): le anime degli spiriti guardiani preesistenti agli essere umani e ad essi sopravviventi, che partecipavano all’incremento fecondo del gruppo sociale (da qui, uno degli aspetti di Mithra conduttore di anime). Motivo ripreso da Kreyenbroek, che rinviene nello Yaṡt 13 alle Fravaṧis dei giusti (aṡavan) le tracce di una cosmogonia pre-zarathustrica circa l’uccisione da parte di Mithra del mostro che impedisce il fluire delle acque. Nei testi tardi in medio-persiano il sacrificio dell’Haoma era associato

all’uccisione di un bovino, prefigurante l’evento finale del sacrificio da parte del Saošyant, precisamente del toro escatologico, destinato a conferire immortalità agli uomini e a provocare una totale trasfigurazione del cosmo. A livello avestico, la cerimonia dell’Haoma non implicava un sacrificio animale, ma, nella pratica del culto, se ne conservò certamente il ricordo, poiché era prescritto che il succo della pianta dovesse versarsi attraverso un anello intrecciato con i capelli di un toro bianco: il toro escatologico della tradizione tarda. Mary Boyce, (in Mithraic Studies I. cit. p. 106-118; cf. “On the Kalendar of Zoroastrian feasts”, in BSOAS 33 1970 p. 517 sgg.), ha sottolineato come ancora oggi, in certi villaggi dell’Iran orientale, nel periodo corrispondente all’antica festa equinoziale del Mihragān, un cane dovesse essere il primo a ricevere la parte di un toro immolato e a portare la sua anima sulla luna (F. Cumont, Les Mystères de Mithra, Bruxelles 1903: 118-121); allo stesso modo in cui, nell’iconografia dei mitrei, la figura del cane lambisce il sangue della ferita del toro. Questo insieme di sopravvivenze e di riferimenti a una antica ideologia sacrificale iranica, manifesta un’organica serie di relazioni, che trova la sua propria coerenza interna e la sua possibilità di confronto nella prassi di una identica struttura rituale. Il toro ha, con la sua semenza, una funzione creatrice, perché Mithra ha una funzione demiurgica. Strutturalmente connessa al sacrificio del toro era la preparazione dell’Haoma, l’acqua di luce dello “Xwarnah”, a sua volta riflesso dell’acqua di vita del cielo, che conferiva il potere della visione e consentiva agli iniziati di sperimentare l’immortalità futura (Vermaseren: 212). Del resto, nella riforma zoroastriana, avvenne come l’ipostasi del Dio unico, il suo buon pensiero (Vohu Manah), avesse sostituito la funzione di Mithra (J. Ries in ANRW 11,18,4: 2746-47). Analogamente, nei testi medio-persiani, il Salvatore futuro (il Saošyant) si è appropriato dei tratti salvifici propri a Mithra: portatore dello “Xwarnah” (G. Gnoli, “Sol Persice Mithra”, in MM: 725-740; 738 n. 78). Sia in Iran che a Roma - con l’analogo dei misteri di Cibele - il sacrificio del toro (ritrascritto nei misteri mitriaci con il pasto mistico tra gli adepti) incrementava la vita dell’uomo e produceva le energie idonee al funzionamento del mondo terreno, esplicitamente legato ad un contesto cosmogonico, quale risultava dal senso della scena invariabilmente rappresentata nel microcosmo degli spelaia mitriaci.

I rapporti con la proto-storia del Mitraismo occidentale non implicano il fatto che l’iconografia dei misteri romani debba riprodurre l’immagine molto più antica di un originario motivo indo-iranico. In genere, seguendo un’ottica di questo tipo, si rischia di andare incontro a singolari distorsioni. Alcune letture fenomenologiche si fondano sul fatto che sia sufficiente conoscere le condizioni della prima enunciazione di un tema mitico per stabilirne il senso esatto. Rinvenire le diverse circostanze che hanno fatto nascere un mito non significa rendere improvvisamente trasparente il lungo percorso della sua storia, dimenticando sviluppi secondari e motivazioni innovatrici che ne poterono sancire la fortuna in contesti differenti. Solo un approccio strutturale e storico-comparativo può permettere di capire un sistema di pensiero nella sua totalità. Ne dà prova Vermaseren, che ha mostrato sempre di accettare la tesi formulata da H. Lommel (“Mithra und das Stieropfer”, Paideuma 3, 1949, pp. 207-18). Per il quale il sistema mitologico, nel quale si colloca la genesi del mitraismo dei misteri, è quello delimitato da un mitologema agricolo, da interpretare alla luce di uno schema di tipo “dema”, in cui l’uccisione prototipica si riflette sul piano agrario. Tesi discussa da A. E. Jensen e inverata in un quadro comparativo, che, dall’Indonesia al sub-continente indiano, giungeva a comprendere le culture preistoriche mediterranee (A. E. Jensen, Come una cultura primitiva ha concepito il mondo, Torino 1952: 139144). Il punto di avvio di Lommel, che legge i testi vedici sulla base esegetica del Śatapatha Brāhmaṇa, è dato dall’analogia tra il Soma vedico, (il dio liquido, che spremuto diviene la bevanda rituale) e il sacrificio di un toro bianco (castrato, ovvero androgino), il cui sangue rende fertile la terra. Dal punto divista dell’organizzazione formale, al concatenarsi delle relazioni con il sacrificio del toro nell’area indo-iranica, il sacrificio del Soma (iranico: Haoma) integra, nella combinazione dei due insiemi culturali, rito sacrificale, rigenerazione cosmica e ritorno allo stato embrionale del seme, costituito dal sangue del toro luni-solare. Il Soma, in quanto principio divino, che personifica la rugiada lunare e il “semen luminis” della vita, rappresenta pertanto quella bevanda di immortalità, che anche gli iniziati romani ricevevano nel convito mistico dei mitrei (12-13; 84; sul carattere rigeneratore del toro, cfr. Vermaseren, Mithriaca IV, Leiden 1978: 32). La funzione di soccorritore e protettore dell’umanità corrispondeva ad un’altra eredità del Mitra vedico, quale personificazione dell’amicizia

(Scialpi, in MM: 830-840). D’altra parte, come divinità aurorale e seminale, connessa alla prosperità della vita, il nome di Mithra assicurava il rinnovamento annuale (sulla festa autunnale del Mithrakan e il motivo tauroctono, cfr. G. Gnoli, “Sol Persice Mithra”, in MM: 734-35). Infine, ed è importante sottolinearlo, quella simbologia agraria, che si esprime nella spiga di cereale e che nasce dal sangue del toro, ebbe fin dalle origini indiane (con la restituzione alla madre lunare, dopo la morte fisica, del seme donato dal Soma) una dimensione escatologica. La dimensione bio-cosmica Come nei misteri romani Mithras sacrifica con riluttanza il toro, allo stesso modo il Mitra vedico sacrifica con riluttanza il dio Soma. La scena della tauroctonia ci mette allora di fronte incontestabilmente ad un atto positivo, di promozione della vita in questo mondo, in cui il gesto passionale del dio si fa tutt’uno con il ritmo stesso della natura, colta nel mistero ricorrente del morire e del rifiorire, ancora una volta, della vita. Per simili ragioni non può più darsi, come aveva sostenuto F. Cumont, una interpretazione dualistica della scena raffigurante l’uccisione del toro, vista ed articolata in termini di opposti, con il toro e il leone quali segni positivi, e lo scorpione con il serpente definiti negativamente. Sulla scorta di Vermaseren, L.A. Campbell, W. Deonna e J.R. Hinnells hanno visto nell’atto dello scorpione, che assorbe e introietta la semenza del toro, un simbolo di fecondità e di rinnovamento. Cumont stesso, in uno studio pubblicato postumo nel 1975, intitolato “The Doura Mithraeum” (Vermaseren: 149), riconosceva come il serpente e il leone della pittura di Dura-Europos rappresentassero i fedeli compagni di Mithra e non le creature di Ahriman. Lo scorpione, quale segno zodiacale che si trova sulla linea della rivoluzione equinoziale in autunno, era un simbolo, nel mondo greco-romano, di prosperità e alludeva al tempo della semina, che preparava la nuova vegetazione: “Scorpius totus, in quo Libra est, naturam solis irnaginatur, qui hieme torpescit et transacta hac aculeum rursus erigit vi sua “(Macrobius, Saturnalia: I, 21, 25). Figurazione della natura del sole che d’inverno è in torpore, lo Scorpione, come altri segni della scena mitriaca, rappresentava il retaggio arcaico di una simbolica agraria e astrale, legata a riti di passaggio stagionali. Nel caso della tauroctonia romana, lo scorpione, segno astrale autunnale, allude alla festa autunnale del capodanno degli antichi iranici,

prima che gli influssi babilonesi si affermassero. A tale proposito, si pensi ai due bassorilievi provenienti da Hatra, che mostrano una figura solare accompagnata da animali tipicamente mitriaci, quali, fra altri elementi, lo scorpione e il serpente (cfr. G. Widengren, Iranisch-Semitische Kulturbegegnung, cit. p. 23). L’astrologia mitriaca non sembra pertanto caratterizzata da alcun coefficiente negativo, come invece accade nelle correnti gnostiche coeve, che legano il planisfero zodiacale all’Heimarmenē dell’ignaro demiurgo (E. Albrile, I Magi estatici, Torino 2014). Viceversa, pianeti e costellazioni sono solidali alla salvezza universale. Un tale motivo, che ci porta a risalire profondamente nel tempo, permette di riconoscere l’emergere di un complesso primario, che veniva ad esprimersi in chiave di vitalismo biocosmico, strettamente affine alla visione etica zoroastriana. Una prospettiva che si manifestava in una linea soteriologica intra-mondana, integrata nei misteri romani entro un più ampio sfondo di risonanze cosmosofiche e intellettuali (v. U. Bianchi, “La tipologia storica dei misteri di Mithra”, in ANRW II,17,4, 1986: 2123 sgg.; id., “Prolegomena II”, in Mysteria Mithrae, Roma-Leiden 1979 p. 31 sgg.). La vicenda dell’invitto Mithras è collegata infatti a una valutazione del cosmo più vasta e possente di quella espressa dalla ciclicità annuale della vegetazione, essendo la tematica naturistica connessa ad un quadro cosmicoplanetario, in cui Mithra garantisce, come invictus, il trionfo del giusto ordine nel mondo: alla stessa stregua del Mitra vedico che figurava, insieme con Varuṇa, quale custode del ṛta, vale a dire dell’ordine cosmico e sociale (Mitra e Varuṇa sono chiamati misericordiosi: mṛḍáyant, Ṛg-Veda 1.136.1). In questo senso la concezione del mondo mitriaca appare essenzialmente ottimistica, all’ opposto di una ispirazione anticosmica. Mostrando ancora suggestive e arcaiche connessioni con la vicenda della fecondità e della vita terrena nel corso dell’anno, che si pensava dovesse essere ritualmente ripetuta (v. J. Gonda, The Vedic God Mitra, Leiden, 1972): rievocazione ultima di quel drammatico complesso mitico-rituale, il cui significato costante consisteva, per chi entrava a far parte della milizia del dio, nel dover accettare di vivere ritualmente le tensioni molteplici e contraddittorie dell’esistenza nel mondo, per ricomporle in una superiore armonia. Una nota ulteriore andava evidenziata: il Mithra romano eredita, dall’ambito zoroastriano, l’aspetto essenziale del dio combattente. Una strofa del Mihr Yasht fa riferimento a

questa qualità eroica (Yasht 10, 47), ricorrendo l’uso di sacrificare al dio prima delle battaglie (Yasht 10, 8-11). Fu questo tratto specifico, che permette anche di comprendere la larga udienza e fortuna, tra i soldati romani, della secolare vicenda del dio (G. Gnoli, “Mithraism”, in M. Eliade ed., The Encyclopedia of Religion 9, N.Y. 1987). Religiosità individuale Occorre riconoscere l’importanza di numerosi altri caratteri, strettamente legati alla Pietas religiosa, che hanno concorso ad articolare e a definire il complesso dei misteri sacri a Mithra in età romana. È stato notato, a tale proposito, come nella consuetudine epigrafica, Mithra appaia come un dio “creatore”, invocato quale “Domine aeterne”, epiteto che nel II-III secolo risultava largamente adottato nel misticismo astrale dell’impero romano. In India e nell’Avesta, Mithra non è mai il creatore, ma un dio “arbiter” e “iudex” dalla natura mediale (W. Belardi, Studi Mithriaci e mazdei, Roma 1977: 32 sgg.), come ancora appare tratteggiato dal testo di Plutarco (De Iside: 46:). Al contrario, dalla sia pur insicura e frammentaria documentazione archeologica dei mitrei, si configura il passaggio e la corrispondenza di Mithras con il sentire di una religiosità intima e personale: un dio attivo che nella preghiera incisa su un’aureola marmorea, proveniente dal mitreo di S. Stefano Rotondo, è chiamato “creatore di cose buone”. Alle righe 9-17 si può leggere: “(Domine Aeterne) … Quomodo tu hibus criatoribus misertus es, rogat te, Aeterne, per terram et marem divinum, per quidquid boni creasti, per sal et seminata sacra…” (S. Pancera, in Mysteria Mithrae, p.97). Il testo contiene diverse sfumature: “(Signore infinito)… Quanta misericordia concedi nei confronti delle creature [e per questo] Ti si chiede, o Eterno, a Te che crei per mezzo di qualsiasi cosa buona, per mezzo della terra e del divino mare, attraverso ogni principio benefico, attraverso il sale [del mare] e il tuo santo seme…” La preghiera di Cascelia è semplicemente esemplare di una forma di

ethos, che risultava diversa dalla visione religiosa delle coeve correnti grecoromane, messe soprattutto in luce dai lavori di P. Boyancé (Etudes sur le Songe de Scipion, Paris 1936: 115 sgg.) e da A-J. Festugière (Le dieu cosmique, Paris 1949: 141-199 e 233 sgg.). Mithra non è semplicemente creatore, ma crea per il tramite delle cose buone che sostanziano la vita. In questo senso, l’atto sacrificale faceva di Mithra il responsabile del creato, un demiurgo di “cose buone” (tramite la semenza del toro); in pari tempo un dio misericordioso, sensibile alle umili necessità dei suoi fedeli e che da quelle fondamentali esigenze etiche era invocato a mobilitare le energie cosmiche, al fine di portare a compimento l’attesa di un’umanità che confidava nella presenza della sua giustizia. Così debbono e possono essere intesi i riferimenti alla “lex viva”, alla “pietas” del dio (S. Stefano Rotondo), al Theos dikaios (CIMRM; 1,18); forme trasparenti di un ethos che esprimeva, attraverso una religiosità personale, il dato di un’esperienza assolutamente nuova nella mistica pagana, dove il cosmo appariva quale luogo elettivo delle reciproche interferenze tra l’opera divina e i destini dell’umanità. Congiunta con la tematica della pietà è quella della sorte dell’iniziato. Tre versi nei graffiti di S. Prisca (linee 11-13) chiariscono più da vicino il sentire di questo esperire iniziatico: “Dulcia sunt ficata avium, sed cura [Mithras] gubernat Pie rebus renatum dulcibus atque creatum Nubila per ritum ducatis tempora cuncti”. “Dolci sono i fegati di selvaggina, ma, la protezione [di Mithra], guida teneramente chi è rinato e (ri)creato, mediante le dolci cause. Perché voi, tutti insieme [con il dio], dovete attraversare tempi oscuri, nel compimento dei riti.” La protezione e l’amicizia del dio sono qui garantite dal conforto efficace del rito, dalla partecipazione alle “cose dolci” contrapposte ai “nubila tempora” della linea seguente (Vermaseren - Van Essen, pp. 207-209; Vermaseren, “Les inscriptions sacrées du Mithraeum de Sainte Prisque sur l’Aventin”, in Religions de Salut, Bruxelles, 1962, pp. 69-70). Alla base del “ritus” e del “ministerium sacrum” ritornano due concetti determinanti, ordinati in una sequenza apparentemente inusitata, in cui il primo termine

“renatum”, precede l’altro “creatum”, entrambi allusivi al mistero della rinascita e della rigenerazione, seguita dopo la morte rituale. Entro tale complesso di parole, “dulcibus” ha un evidente significato iniziatico, riferibile alla bevanda sacramentale di latte e miele, consumata quale atto purificatorio alla fine del rito. Anch’essa complementare e propedeutica a ciò che si afferma come il fattore centrale del rituale, costituito dalla volontà del miste di partecipare al dramma di redenzione del mondo operato dal dio, autore, agli inizi del tempo, della morte che genera vita, della fine che ridiventa inizio. L’iniziato al culto di Mithras celebra in questo mondo la sua rinascita mistica, collocandosi su un piano di spiritualizzazione dei riti stessi, cioè di un sentire non lontano da quello del “mysterion” cristiano. Il nesso di rinascita e creazione/rigenerazione pone in risalto infatti le possibilità salvifiche del fedele; ed è significativo come il termine “recreatus” compaia sia alla fine del viaggio infero di Lucio (Met. XI, 18, 3; XXIII, 8 sgg.), che nel battesimo cristiano, designato con il termine di nuova creatura (Kainè ktisis: 2 Cor. V, 17; Gal. VI, 15). Non una conversione a nuovi cieli e nuove terre, ma neanche una semplice adesione a un cambiamento di stato. Resta il fatto, che Mitraismo e Cristianesimo rifiutarono i sacrifici cruenti e scelsero una forma di vita in grado di trasfigurare la vita interiore. Insieme a questo sfondo comune, che avvicina per tanti aspetti il mondo mitriaco e cristiano, sono note le testimonianze degli apologisti (Giustino, I Apol.: 66,4; Sanzi: 411) intorno alla presenza di consacrazioni sacramentali con pane e acqua nel culto di Mithra (simili a quelle degli encratiti giudeocristiani). Tertulliano parla di iniziazioni, in cui accanto a riti di purificazione, che evocavano una “visione della resurrezione” (et imaginem resurrectionis inducit Sanzi: 413-414), trova testimonianza una sorta di pontificato ascetico. Anche i sacerdoti mitriaci “avevano le loro vergini e i loro encratiti” (De Praescr. Haer: 40,5; Vermaseren: 226). Sotto tale profilo l’autore cristiano sembra mantenere un riserbo, asceticamente impegnato, verso i modi propri del culto mitriaco, a cui doveva corrispondere, nel concreto atteggiamento dei fedeli, una “dikaiopraxia”, una pratica della giustizia (cfr. Giustino, Dial. c. Tryph. 70, I; Vermaseren: 104; J. Ries, Il culto di Mithra, Milano 2013:323). Il contenuto di siffatto agire consisteva pertanto per il semplice “miles”

nell’imitare la vita eroica del dio, partecipando alla sua energia ultraterrena, nascendo e rinascendo per giungere infine alla totale consumazione nel fuoco mistico dei “santi leoni”, con cui si compiva la scala dei sette gradi iniziatici (Vermaseren-Van Essen, pp. 224 sgg.). La purificazione e la consacrazione del miste, per il tramite dei Leones, comprendeva la consacrazione mediante l’acqua, segno di fecondità, e il miele, liquido infuocato per definizione. Non a caso due crateri compaiono accanto alla figura di Oceano e del Leontocefalo, ad evocare l’unione del potere solare e dell’acqua fecondante. Una catarsi che non implicava lo slancio verso un livello antologico oltremondano, bensì un processo di potenziamento della mente, verso quello stato di “maga-” che avrebbe consentito di partecipare ad una visione senza immagini e senza idoli (Vermaseren-Van Essen, p. 231; id., p. 224: “Per quos thuradamus, per quos consumimur ipsi”; “Attraverso [questi Leones], noi offriamo l’incenso che consuma anche noi”) Il senso ultimo di simili esperienze non era l’annullante contemplazione della sfera divina, bensì una trasformazione, che doveva realizzarsi attraverso il battesimo dell’acqua e poi con il battesimo del fuoco (Vermaseren: 164), verso quel supremo livello di Aeternitas a cui presiedeva Saturnus-Aiōn e al quale si assimilava Mithra stesso. In ciò, la teologia mitriaca, che combinava insieme purificazione ascetica, ascesa della mente e consumazione mistica, svelava la sua più intima struttura soteriologica. L’atto redentiva, posto al centro di tutta la vicenda rituale, si riassumeva nell’unico atto esemplare del dio “invictus”, per il quale egli veniva qualificato, sia nelle iscrizioni rituali, che nell’esegesi filosofica di Porfirio, in rapporto all’attività demiurgica, mediatrice. Una salvezza che salvaguardava l’esistenza individuale su questa terra, che prometteva una sorta di immortalità e che garantiva la salvezza collettiva della vita cosmica. Questo infatti significa “amrtam”, immortalità, sia nei testi vedici, che in quelli dei misteri romani: la sicurezza di fronte al pericolo della morte, il vigore di una lunga vita, la chiarezza della luce. Uno stato in cui le azioni rituali e morali corrispondono ai processi cosmici (J. Gonda, Le religioni dell’India I: 106). La famosa formula liturgica proveniente da S. Prisca, “Et nos servasti aeternali sanguine fuso” (CIMRM I, 485), ponendo un chiaro riferimento al sangue del toro, unito con l’azione del “servasti”, rende in termini espliciti la tematica di una salvezza già avvenuta, espressa tramite la dinamica eroica di Mithra e l’immolazione del toro a lui misticamente congiunto. Un’altra

epigrafe di età imperiale riporta le parole “arcanis perfusionibus in aetemum renatus” (CIL VI, 736), attestando, anch’essa, un’autorevole corrispondenza tra la rinascita individuale e il privilegio salvifico ritualmente acquisito. L’espressione “aeternali sanguine fuso” non stava ad indicare soltanto l’elemento di mediazione attraverso cui, sin dalle origini, si produsse la vita nei suoi diversi livelli cosmici. Nella liturgia dei misteri, l’allusione al sangue del toro aveva il significato di rianimare costantemente il mondo animale e vegetale e, insieme, di promuovere una vita nuova per i misti. I quali prendendo parte al sacrificio, partecipavano egualmente della protezione divina. Il sangue del toro, tramite l’atto salvifico/trasformante di Mithra, si rendeva dunque mediatore della vita cosmica e portatore di una intima certezza: assicurava la salute terrena e preservava l’intera creato. In quell’immagine, contemplata innumerevoli volte sul fondo dei mitrei, era adombrato il tempo della salvezza, concepito come il bene più prezioso raggiungibile nel tempo limitato della vita umana e perpetuabile in eterno nel tempo cosmico di un’esistenza immortale. Non stupiscono le allusioni negative delle fonti cristiane al Mitraismo, né l’interesse manifestato dai filosofi neoplatonici. Epilogo A questo punto, si deve notare come, rispetto al modello sacrificate e alimentare dominante il mondo greco-romano, la dinamica rituale che procede dalla tauroctonia si delinei in forme estremamente singolari. I riti mitriaci si fondano sulla permeabilità dei rapporti con il mondo extra-umano e sulla commensalità tra i devoti iniziati e gli dèi. Una dinamica che determinava la ripetizione liturgica del pasto che il Sole e Mithras condividevano, dopo il quale Mithras stesso saliva al cielo sul carro del dio Sole (Vermaseren: 223). Da questa constatazione ne discendono altre. I fedeli dei misteri iranici mangiavano insieme agli dèi, non li nutrivano con offerte e sacrifici. Qui emerge la basilare differenza tra l’atto prototipico di Mithras e l’uso del sacrificio nel mondo greco-romano. Le modalità sono radicalmente diverse. La forma rituale infatti non è quella dell’omaggio agli dèi, ma di un sacrificio di comunione a cui partecipavano tutti gli iniziati e in cui si rinnovava l’amicizia e la solidarietà mistica tra il dio e il mondo umano. Un sacrificio di comunione che tendeva a consolidarsi, quasi a cristallizzarsi, negli eventi fondativi della vita del dio, posti sotto il segno della pietra, del

fuoco e dell’acqua, colti cioè nel momento della nascita dalla materia inerte, così come del fuoco e dell’acqua dalla roccia celeste. Siffatta tipologia rituale aveva una origine vicino-orientale, ravvisabile nel “marzeaḥ” semitico, attestato ad Ebla e Ugarit agli inizi del secondo millennio (G. Garbini, 2011: 117-119), la cui menzione ricorre nell’epigrafia aramaica palmirena e ad Hatra nel I sec. d.C. (E. Lipinski, Le repas sacré a Qumran et a Palmyre, in La Comparation en Histoire des religions, Paris 1997: 424ss). Un rito di comunione, associato con l’offerta delle primizie e con la morte; un pasto comunitario in cui si consacrava del vino novello ai trapassati, per entrare in contatto con essi. A Ugarit, un pasto funerario in cui si invocavano i defunti eroicizzati (i rephaim); a Qumran, una liturgia con la quale entrare in contatto con le schiere angeliche. Nelle associazioni religiose private delle città romane, un banchetto rituale di soli uomini, i cui partecipanti si nutrivano di un dio lunare che moriva e rinasceva negli elementi del cosmo. Tale ritualità per tanti aspetti era analoga al sacrificio del Soma/Haoma indo-iranico, la bevanda estatica consumata in occasione della festa sacrificale di capodanno. Che dispensa il potere della visione e che unisce la vista interiore con l’intelligenza del dio, ossia il mondo fenomenico con il suo significato intellegibile. Anche il soggiorno di Mithras sulla terra terminava con un pasto sacro in compagnia del dio Sole. Nei dipinti di S. Prisca le due divinità erano unite ai loro fedeli, come in un’ultima cena. Il motivo mitico svolge una funzione iniziatica, poiché, nel seguito della scena, il Padre della comunità e il Messaggero del Sole vengono rappresentati nella veste delle stesse figure divine. In altri mitrei, la scena che descrive l’investitura del Sole (identificato con il nimbus di luce), per mano di Mithras, funge da esplicito esempio per la consacrazione dell’Heliodromo da parte del Pater, rispettivamente il penultimo e l’ultimo grado della scala gerarchica (Mithriaca III: 78). Infine, nell’altare di Poetovio (CIMRM 11:1584), il dio Sole è raffigurato con gli attributi dell’Heliodromus stesso: la corona a sette raggi, il globo nella mano e la frusta per guidare la quadriga solare. Se i gradi iniziatici erano posti sotto la protezione dei sette pianeti, la meta ultima del viaggio dovevano essere le regioni oltre il cielo delle stelle fisse, fin verso i sentieri della Via lattea: l’oceano primordiale che si perdeva nel mare del tempo. Una visione cosmica implicante, già in questa vita, il passaggio dell’anima attraverso i cieli planetari. Che sarebbe stata resa visibile nel celebre bassorilievo dell’apoteosi

di Antonino il Pio e Faustina, portati in cielo dal genio del Tempo, con in mano la sfera celeste avvolta dalla cintura mobile dello zodiaco (F. Cumont, Lo Zodiaco 2012: 57). L’approccio analitico (e comparativo) di alla documentazione romana non dimentica ciò che il discorso apparente (e lacunoso) delle fonti si astiene dal dire. Nel corso dei suoi ultimi lavori (sul mitreo di Marino: Mithriaca III, Leiden 1982), lo studioso olandese ha tentato di colmare le scarne argomentazioni, lasciate da F. Cumont, rispondendo altresì ai fautori dell’orientamento astronomico (R. Gordon e R. Beck). I mitrei sono infatti degli spazi ritualizzati, che riflettono un cosmo dentro il cosmo, replicando come una sfera rotante i poli equinoziali e solstiziali. Ciò significa che l’icona tauroctona è collocata nel cerchio equinoziale tra il segno dell’Ariete (la nascita primaverile del mondo) e la Bilancia (portatrice di semina e fecondità), avendo alla sua destra le regioni settentrionali e alla sua sinistra quelle meridionali, proprio rispetto alla linea degli equinozi. Laddove, all’estremità opposta, i due dadofori posti dinanzi all’entrata rappresentano i momenti solstiziali, quando il sole inizia a risalire o a ri-discendere. L’associazione della tauroctonia con l’equinozio di primavera e il regno solare traduceva la dottrina dei Magi, come viene riferito da Nigidio Figulo nel I secolo a.C. (R. Turcan, Mithras Platonicus 1975: 56). La dottrina astrologica non faceva parte dell’insegnamento segreto, perché era parte della cultura pubblica del tempo. L’esegesi esoterica riguardava invece il rapporto tra i gradi iniziatici, i pianeti e i segni zodiacali. Nei mitrei di Felicissimo e di S. Prisca la serie iniziatica non coincideva con un viaggio attraverso i cieli planetari, ma, veniva realizzandosi entro un’assimilazione graduale alla luna, al sole e a Chronos-Saturno. Coincidendo con gli ultimi tre gradi del Perses, dell’Heliodromus e del Pater, secondo un percorso a ritroso nel tempo (Luna/lunedì; Sole/ domenica; Saturno/sabato). Dove Saturno esprime la sfericità del tempo e il fuoco ipercosmico. L’antica uranografia babilonese dei tre cieli collocava infatti la luna nel secondo cielo, tra le stelle e il sole, secondo un ordine di luminosità crescente. Anche lo Zoroastrismo dei testi canonici sosteneva come le anime buone giungessero al pleroma divino tramite le stelle, la luna e il sole (M.L. West, La filosofia greca arcaica e l’Oriente 1993:104). Poiché le stelle, la luna e il sole sono composti del medesimo fluido igneo dal quale proviene lo spirito umano. Per questa ragione si insegnava una progressione della luce in

rapporto al potere dell’intelletto e a particolari esperienze di visione interiore, al fine di rendere la propria “daena-” (il doppio animico) partecipe dell’ordine spirituale nascosto nel mondo (Yasna 46,3; cf. A. Piras, Hadoxt Nask 2, Roma 2000)). Attraversare la luna, andare oltre le porte del sole, significava risalire il fiume del tempo. Tali erano le procedure meditative che esprimevano il percorso dei sette gradi iniziatici. Un sentiero conforme all’ordine segnato da Aša - il terzo degli Amesha Spenta - secondo una via che si trovava sul cammino tracciato dalla mitologia iranica, in cui l’anima del toro sacrificato era condotta nel paradiso lunare e, attraverso il ponte Činvat, verso le dimore di luce. L’uranografia iranica precede quella grecoellenistica. Secondo Clemente Alessandrino (Stromata V 14, 103,4; testo in BidezCumont Il, 1938: 158-159), che riporta la dottrina di Zoroastro, le anime devono passare attraverso i 12 segni dello zodiaco, poiché si viene alla nascita e alla rinascita scendendo e risalendo per questa stessa via. Nei rilievi della tauroctonia mitriaca, le figure del cane e dello scorpione corrispondevano alle analoghe costellazioni del “Canis major” (con la stella Sirio) e di “Scorpio”. La sequenza continuava con il serpente (Hydra), il corvo (Corvus) e il Cratere, che precedono il toro (Taurus), da cui discende la “Spica” (la coda in cui termina la costellazione della vergine) e alla quale era associata la costellazione dei gemelli (Gemini), rappresentata da Cautes e Cautopates, con infine Mithras, identificabile nella figura zodiacale del leone (Leo), simbolo del fuoco e della luce. Il dio era connesso all’ultimo grado iniziatico del “Pater”, il cui attributo era la pala da forno, posto sotto la protezione di Kronos-Saturno: comunemente rivestito da una criniera leonina nella statuaria mitriaca (Vermaseren: 250). Le costellazioni del “Taurus” e del “Leo” erano quindi parte essenziale della mappa cosmica raffigurata nella scena della tauroctonia. Un motivo astrologico, quello del combattimento tra il leone e il toro (del sole e della luna), che trovava nell’iconografia mesopotamica e quindi achemenide, un riscontro antichissimo (A. Bausani, in MM 1979: 508). Conformemente a tale simbolismo, è probabile che il grado del leone subisse ora il battesimo del fuoco, che lo univa con Mithra nell’ascensione sul carro solare (Vermaseren: 279). La scena del carro significava innanzitutto che Mithras prendeva il posto del Sole, divenendo la vera luce e la vera guida del cosmo. Sul piano mitopoietico il rapporto tra i due dei dava

luogo a un ulteriore rito meditativo. Nella tarda testimonianza del papiro magico di Parigi, Helios-Mithras è menzionato come veste solare dell’Aiōn (H D. Betz, The “Mithras Liturgy”, Tubingen 2003). A sua volta, il risvolto iniziatico della veste implicava il marchio degli iniziati con il fuoco. Occorreva allora vedere nel vestito di luce un microcosmo, associato a profonde sinestesie, a cromatismi abbaglianti, a una visione di se stessi e a un rito di passaggio verso nuove forme di vita. In tal senso, ogni percezione religiosa, lungi dal ridursi a una esperienza alterata, equivale di fatto ad una intuizione globale, rivelativa di un complesso solidale di corrispondenze e di referenti reciproci, che non offuscano il dato, sovente opaco della vita, ma lo intensificano, rendendolo trasparente alla coscienza. Su questo sfondo, gli Oracoli Caldaici, che richiamavano la ritualità teurgica dei Magi (H. Lewy, The Chaldaean Oracles and Theurgy, 1978: 151), solevano distinguere due soli, uno visibile (come Helios), l’altro noetico e ipercosmico, equivalente alla funzione di Mithras (assimilato a Chronos-Saturno). Attraverso l’immagine della veste si acquisiva allora un diverso modo di vedere, di distinguere tra il velo e l’essenza. Nella sua estasi mentale, l’iniziato giungeva così ad assumere la veste solare dell’Aiōn, a riconoscere, di là dall’immagine, un altro Mithras. Due mondi, quelli del sensibile e dell’intellegibile, che comunicavano attraverso un sistema di specchi celesti. Come infatti ricordano gli Acta Archelai LXVIII (E. Sanzi, I culti orientali nell’impero romano 2003: 435) il nome di Mithra era considerato come la somma dei 365 giorni dell’anno e dei 365 cieli. Un’unità divina designata come Abraxas o Meithras (μ′ + ε′ + ι′ + ϑ ′ + ρ′ + α′ + ς′ = 365 (cf. W. Bousset, Hauptprobleme der Gnosis, Gottinga 1907: 329). In un tale sistema rituale, il bagaglio cosmologico, dispiegato nel ciclo mitologico delle pitture, fungeva da mappa astrale per le esperienze interiori del miste. Con le costellazioni zodiacali legate all’icona della tauroctonia e quest’ultima alla linea dell’equatore celeste. Il movimento circolare del cielo era poi suggerito dal mantello svolazzante di Mithra, che prendeva la forma di un globo, dalle cui pieghe, avvolte di stelle, si sprigionava la forza che faceva ruotare i segni zodiacali nel loro ciclo annuale (Vermaseren, Mithriaca III: 62). Vicino alla nicchia cultuale, Saturno indicava la fine dell’anno in inverno, mentre, la nascita di Mithra dalla roccia, segnava la nascita del nuovo anno. Nell’abside di fondo, retrostante l’uccisione del toro, la figura

del Leontocefalo appariva come il circolo infuocato del tempo che tutto governa. Da tale principio dipendevano i circoli planetari, che, come nel mitreo ostiense delle Sette Sfere (Vermaseren: 290), decorano il corridoio centrale, per congiungersi con la componente noetica, rappresentata dall’essenza ignea dell’Aiōn. Ad un altro livello, nel rilievo marmoreo vaticano (CIMRM 543), il globo celeste su cui poggia il Leontocefalo, è segnato da due strisce che si incrociano, ad indicare il piano dell’eclittica che si interseca con l’equatore celeste. Un’allusione ancora più esplicita proviene da Porfirio (De Antro 24,12). Che legge la fascia zodiacale della tauroctonia con l’immagine del “Thema Mundi”, ovvero la disposizione dei pianeti nello zodiaco all’inizio del mondo, della sua nascita, nonché del suo rinnovarsi alla fine di ogni ciclo. Un’immagine ancora più eloquente è quella osservata tra i segni zodiacali sovente affioranti fra una spira e l’altra del serpente che avvolge sia la statua del Leontocefalo, sia quella del Mithras fanciullo. Tutto il complesso pare indicare la derivazione del triplice Aion da un principio immoto che sta al centro dello spazio-tempo, oltre ogni immagine e ogni suono. Da quanto detto, si evince come la concezione dei sette ranghi iniziatici, posti sotto la tutela di uno dei sette pianeti, non appartenesse alla prassi originaria dei mitrei, risultandone uno sviluppo secondario (Vermaseren: 290). Alla stessa stregua, il mitraismo delle fonti filosofiche usate da Porfirio, rifletteva delle speculazioni estranee alla sua Pietas. La struttura spaziale dei mitrei insegnava questa scala ascendente e convergente verso il centro, essenzialmente per il tramite di diagrammi mnemonici, il cui schema doveva risalire a Metrodoro di Scepsi (I sec. a.C.), il consigliere del re Mithridate a Tarso, al quale Quintiliano attribuiva una mnemotecnica basata sui segni zodiacali e sul potere magico della memoria: una messa in forma delle tecniche proiettive dei Magi. La stessa iconografia del dio, avvolto dal circolo fiammeggiante dello zodiaco, ebbe il suo prototipo nell’idea di regalità del re pontico. L’immagine e la visione interiore erano gli strumenti principali per effettuare questa interiorizzazione dell’universo. Cosmo-grammi meditativi, che avrebbero trovato un’ampia utilizzazione nelle scuole gnostico-cristiane, così come tra i palazzi celesti della letteratura hekhalotica e nei mandala buddhisti tibetani (F. A. Yates, The Art of Memory, Londra 1966; Torino 2004. Cfr. I. Gómez de Liaño, El círculo de la sabiduría, I-II Madrid 1998).

Siffatto ritmo circolare del cosmo, osservato negli antri sotterranei, comunicava il mistero della realtà attraverso immagini e azioni performative, associate a una serie di “loci”, di stanze della memoria e di percorsi individualizzati, che il miste doveva attivare dentro di sé. L’inconscio religioso mostrava qui tutta la sua struttura topografica. Il mitraismo romano, ricostruito da Vermaseren, non andava interpretato come un costrutto erudito, una dottrina riducibile ad una koinè sincretistica, un culto composito senza una propria organicità, ma come una pragmatica performativa e una conseguente immaginazione attiva, capace di animare le mappe mentali della memoria più profonda. Insegnamenti, vissuti emotivi e immagini simboliche, che consentivano di vedere oltre le soglie della percezione ordinaria. Giancarlo Mantovani

Cenni biografici

Maarten Jozef Vermaseren (1918-1985) è stato uno dei successori spirituali di Franz Cumont, sia per i suoi lavori sul mitraismo, che per i contributi relativi alle religioni orientali dell’impero romano. Fu allievo del archeologo classico F. J. de Waele di Nijmegen, che lo avviò agli studi sul mitraismo. Dopo essere stato deportato, durante la guerra, nella Germania nazista, riprese gli studi presso l’Università olandese di Utrecht, addottorandosi nel 1951 con una tesi dal titolo “De Mithrasdienst in Rome” (Il culto di Mithra a Roma), che, rielaborata, divenne un libro di successo in Olanda: Mithras de geheimzinnige God (Amsterdam, 1959), presto tradotto in francese, inglese e giapponese. Il libro, pubblicato ora per le edizioni Ester, è la traduzione dall’edizione francese del 1960: Mithra, ce dieu mystérieux, Paris 1960. A partire dal 1952, fino al 1958, Vermaseren prese parte agli scavi del mitreo di S. Prisca a Roma, poi pubblicati a partire dal 1956 assieme all’archeologo Van Essen, preparando contemporaneamente il fondamentale catalogo illustrato dei monumenti mitriaci, il “Corpus Inscriptionum et Monumentorum Religionis Mithriacae”. Nel lavoro sul campo, si soffermò in particolare sui siti archeologici danubiani, renani e italiani, viaggiando in ogni parte d’Europa. Nel 1968 divenne Professore nella Facoltà di Teologia di Utrecht, dove insegnò fino al 1979, avendo come colleghi l’indologo Jan Gonda, lo storico delle idee Gilles Quispel, il neotestamentarista Cornelis Van Unnik. Dal 1977 al 1989 apparvero, nella collezione degli “Etudes préliminaires aux religions orientales dans l’Empire romain”, sette volumi del “Corpus Cultus Cybelae Attidisque”, che si affiancarono ad altrettanti studi ed edizioni relativi alla religiosità mitriaca. Nel 1978 e nel 1979, con Ugo Bianchi, organizzò a Roma due colloqui internazionali: il primo, in prospettiva comparativa, dedicato al culto di Mithra (Mysteria Mithrae); l’altro ai culti orientali di età imperiale (La soteriologia dei culti orientali nell’Impero romano). Inoltre, contribuì ad ideare il “Lexicon Iconographicum Mythologiae Classicae”, in base ad un nuovo modo di guardare l’archeologia figurata. Nella sua vita di studioso, riconobbe solo tre maestri: Franz Cumont, il fondatore degli studi moderni sul Mitraismo; il domenicano Andrè-Jean Festugière - l’esegeta del Dio cosmico nell’antichità pagana - e lo storico delle religioni Raffaele Pettazzoni. Non a caso, gli unici nomi ricordati nell’opera del 1960, accanto

ad altri colleghi olandesi. Le sue ceneri vennero disperse in un angolo dell’area archeologica di Ostia antica, nel campo della Magna Mater.

Introduzione

Le Edizioni Sequoia hanno avuto una felice ispirazione nel rivolgersi al dottor Vermaseren per ottenere uno scritto storico e un’esposizione succinta del mitraismo. Quest’autore, che ha pubblicato il Corpus delle iscrizioni e dei monumenti della religione mitraica, oltre ad un certo numero di saggi sul medesimo argomento, è attualmente il migliore specialista su questo argomento. È il vero successore del nostro compianto amico, Franz Cumont. Il presente libro non deve essere considerato come un’opera di volgarizzazione, ma piuttosto come un riassunto dello stato dell’arte, delle scoperte e degli studi più recenti relativi a Mithra e alla sua dottrina. E, bisogna dirlo, questo stato di avanzamento della scienza, partendo dalla grande opera di Cumont, Textes et monuments relatifs aux Mystères de Mithra, è per la maggior parte opera di M. Vermaseren. E non si tratta di un merito da poco, se si pensa al carattere paradossale della documentazione che ci è pervenuta. In Oriente, in Persia, in India, scritti poco espliciti attestano l’importanza di Mithra nel corso di quasi due millenni, a fianco del grande dio del cielo Ahura-Mazda, ma non ci forniscono alcun dettaglio sulla sua dottrina particolare, né su una personalità marcata di questo dio. A questa fonte, se ne aggiunge bruscamente un’altra, composta nella sua quasi totalità da monumenti archeologici, edifici, raffigurazioni, iscrizioni, la quale si limita a Roma e all’Impero romano, dalla Siria alla Germania ed alla Gran Bretagna, e copre un periodo limitato di tempo tra il I e il V secolo d.C. Questa seconda documentazione, senza alcun commento storico o letterario, e priva di qualsiasi considerazione dottrinale, è un libro d’immagini. Ci fa scoprire un Mithra nuovo, salvatore dell’umanità, fulcro di una dottrina filosofica e religiosa. Certamente il Mithra della Persia e dell’India appariva come un grande dio, ma mai come il centro di una religione specifica. Tra l’uno e l’altro si colloca l’opera di un insieme di sacerdoti, evidentemente i Magi. Noi vediamo ciò che essi hanno creato, ma non conosciamo nulla riguardo ai loro lavori. Sino al giorno in cui non saranno scoperti i loro scritti noi siano costretti a indovinare il loro lavoro, che si rivela frutto della cultura filosofica greco-iraniana. In un tempo storico che si colloca senza dubbio intorno all’epoca ellenistica, pochi secoli prima dell’era cristiana, i fondatori di questa nuova religione hanno saputo rispondere alle aspirazioni dei loro contemporanei. In tutte le religioni praticate in quei tempi si nota un desiderio

analogo di adattamento, ma nessuna di esse è riuscita a soddisfare altrettanto bene i desideri dei propri fedeli. Per avere un’idea di questo lavoro di elaborazione del mitraismo, dobbiamo chiarire lo stato del pensiero religioso dell’epoca. Ed è qui che attingiamo ai rapporti tra questa religione e il cristianesimo, poiché sono le medesime ragioni di ordine psicologico e morale ad avere permesso il successo di ambedue. Prima dell’apparizione di Gesù il pensiero umano era entrato in uno stato di ricettività che portò nel corso di tre secoli al trionfo irresistibile del cristianesimo. Si tratta di una pagina dell’Histoire Universelle che Bossuet ha ignorato, ed è un peccato, perché era la più interessante: i filosofi dell’India, della Persia, dell’Egitto e della Grecia hanno preparato le strade di Gesù Cristo più dei profeti di Israele. I Magi hanno portato alla mangiatoia di Gesù un dono che fu per il cristianesimo nascente più prezioso dell’oro: la loro dottrina filosofica. Le aspirazioni religiose alle quali facciamo riferimento vertevano essenzialmente su tre punti: una determinata idea di dio; il bisogno di un mediatore tra dio e l’uomo; la giustizia attraverso la salvezza. Precisiamo meglio qui di seguito. 1. Nel paganesimo tradizionale gli dei erano padroni potenti ed esigenti. Per l’uomo era importante soddisfarli. Si trattava di una concezione molto semplice e umana. A tante tirannie sulla Terra se ne aggiungeva una in più. Non era grave. Il Dio del pensiero nuovo, unico, eterno, concepito a dimensione dell’Universo, è il padrone dell’Infinito (aoulam). Il suo unico tratto umano è quello di essere Intelligenza: “All’inizio di ogni cosa, è un’Intelligenza (logos = verbum)” e questa Intelligenza è Dio. Ma questa forma di divinità è essa stessa molto differente dalla nostra facoltà sottomessa ai vortici incessanti della nostra immaginazione e della nostra sensibilità. Tutti i sacerdoti hanno avuto la pretesa di scoprire questo Dio unico nella loro dottrina tradizionale: lo si è nominato Zeus in Grecia, Serapide a Alexandria, Hadad in Siria, Bêl, in seguito Baal Shamîm a Palmira. I Magi l’hanno trovato nella figura di Ahura-Mazda dalla quale hanno elaborato Kronos, Padrone del Tempo. Zeus stesso, che combatte gli angeli cattivi, cioè i Giganti, sembra essere un suo servitore. Mithra è suo figlio e suo messaggero. Si ammette naturalmente che questo Dio unico possa essere

circondato da esseri soprannaturali che sono le sue emanazioni o le sue creature, e questo ha permesso ai membri di svariati cleri di salvare i loro antichi dei, passati a un rango inferiore. 2. Questo stato nuovo crea un immenso fossato tra Dio e l’uomo, e si percepisce la necessità di un essere intermediario che si avvicini a Dio per perfezione e potenza e all’uomo con una vita di virtù e di prove umane. Tutte le religioni all’epoca viventi e desiderose di vivere propongono allora il loro Intercessore, Orfeo o Dioniso in Grecia, Helios in Siria, Malakbel a Palmira, etc. Questo ruolo è a volte assegnato alle divinità femminili, come Iside o la Grande Madre. Un’unica religione pone l’Intermediario nell’immediato futuro: si tratta del giudaismo, con la figura del Messia che vi assume un ruolo sempre maggiore di giorno in giorno. Per i Magi, Mithra corrisponde perfettamente a questo ruolo. La sua vita sulla terra inizia con una nascita e termina con un’Ascensione al Cielo. Egli affronta in vita prove paragonabili alle nostre e fornisce un esempio di virtù. Per il bene dell’umanità egli è detentore della potenza divina. Poi, in Cielo, è l’Intercessore vivente dei suoi fedeli. 3. L’ultima domanda da soddisfare riguarda la salvezza. La credenza nella sopravvivenza dell’anima umana si perde nella notte della preistoria. Si è all’inizio creduto che l’anima sopravvivesse nella tomba o nei suoi dintorni, riposando nella stele funeraria, poi la sua presenza è stata cercata nella profondità della terra, e infine sotto la terra dei viventi, su quella faccia opposta che il sole illumina durante la notte. Questa terza concezione era conosciuta in Egitto all’epoca delle Piramidi e in Siria nel II millennio a.C. Per quanto l’idea di un giudizio dopo la morte fosse estremamente antica in Egitto, non era stabilito un legame netto tra i meriti o i demeriti dei viventi e la loro sorte nell’Aldilà. Le nuove concezioni esigeranno al contrario un completo ristabilimento della giustizia dopo la morte. Da un lato i Beati, ricompensati per i loro meriti, dimorano in Cielo; dall’altro lato i malvagi devono essere scagliati negli Inferi, che i Greci situano nella parte più bassa della sfera celeste. Tutte le religioni inizieranno a promettere ai loro fedeli - non si arriva a preoccuparsi dell’umanità intera - la salvezza secondo questa modalità. Il garante della giustizia divina è l’Intercessore. La maggior parte degli atti religiosi è allora compiuta “per la vita eterna”, o più brevemente “per la Vita”. Non conosciamo nulla del Paradiso mitraico, ma è verosimile che

Mithra promettesse la salvezza ai suoi fedeli e che questa fosse la ragione del suo immenso successo. Questo breve riassunto ci permette di concludere che il mitraismo e il cristianesimo sono stati il portato della medesima corrente di idee. Rispondevano a una fase dell’evoluzione dello spirito umano che rientra nel Piano della storia del Mondo. Come dicevamo all’inizio di questa introduzione, è in questo il segreto della storia universale così come immaginata da Bossuet. Si afferma attualmente che l’evoluzione della Natura sia la via normale della creazione divina degli esseri viventi. Non potremmo vedere, nell’evoluzione umana del pensiero, il grande piano dell’Intelligenza del Mondo? Conte di Mesnil du Buisson, 1960

CAPITOLO I Mithra in Iran e in India

Nel 1907 furono trovate a Boghazköy, capitale del regno ittita situato a Nord Ovest dell’Asia Minore, delle tavolette d’argilla sulle quali appare per la prima volta il nome di Mitra (scritto intalmodo). Il dio vi è invocato con il dio del cielo come divinità protettrice di un trattato tra i “Chatti” (Ittiti) e i Mitanni, loro vicini. È opinione generale il situare questo trattato intorno al XIV secolo a.C.; considerando che l’ultimo documento in cui è citato il Mithra d’Occidente risale al V secolo d.C., quanti secoli hanno dunque visto gli uomini pronunciare rispettosamente il nome di questo Dio! Il culto di Mithra non esiste più, ma il nome del dio rimane nei contesti scientifici. Diverse discipline scientifiche (archeologia, storia delle religioni, teologia, filologia) s’interessano alla personalità del dio e cercano di scoprire i misteri che lo circondano; perché ignorare questa divinità e la sua dottrina implica un’incomprensione dell’ambiente nel quale si è sviluppato il cristianesimo nascente. Lo studio del culto di Mithra si scontra tuttavia con grandi difficoltà: in Oriente noi disponiamo unicamente di fonti scritte mentre nell’Impero romano noi conosciamo il culto di Mithra solo attraverso i monumenti archeologici. Ci troviamo, come giustamente rilevato dal geniale Franz Cumont († 1947), nella medesima situazione di chi, volendo dedicarsi allo studio del cristianesimo, non disponesse di altro che dell’Antico Testamento e delle cattedrali del medio evo. Ne consegue che l’immagine che noi possiamo farci di Mithra è incompleta e deformata; ecco perché le scoperte che continuano ad essere fatte ancora regolarmente sono accolte e studiate con interesse. L’antico trattato tra Ittiti e Mitanni prova che i nostri antenati indoeuropei conoscevano già Mithra. Non è dunque sorprendente ritrovarlo sia tra gli abitanti dell’India sia tra le popolazioni dell’Iran. Nei testi sacri dell’India antica, i Veda, è nominato a più riprese con il termine “Mitra” ciò che significa “Trattato”. Nell’Avesta, i libri sacri dei Parsi, compare con il nome di Mithra e un’ode o yasht gli è consacrata. Nei Veda come nell’Avesta il suo nome è associato a Varuna e ad Ahura-Mazda, la divinità suprema. È importante tuttavia discernere i periodi successivi tra i due scritti in

questione; essi contengono, in effetti, a fianco di elementi molto antichi e arcaici, dei capitoli molto più recenti, da ciò ne consegue che la figura di Mithra non occupa sempre la medesima posizione e che le concezioni che si manifestano al suo riguardo variano a più riprese. Gli orientalisti sono concordi nell’affermare che durante il periodo arcaico il culto di Mithra rivaleggiava con quello della divinità celeste. Per una migliore comprensione della figura di Mithra non si deve perdere di vista il dualismo fondamentale della teologia iraniana; un gruppo di divinità è riunito attorno a Ahura-Mazda, il signore della saggezza, che governa sul regno della luce; a questo dio sono opposte le forze malefiche riunite attorno ad Ahriman, il dio delle tenebre. I due gruppi sono in lotta costante, ma verrà il tempo in cui le forze del Bene vinceranno il Male. In questo combattimento Mithra figura come uno “yazata” cioè come, un accolito; combatte nei ranghi del Bene e del Giusto. E, un dio della luce che con tutta evidenza era assimilato in India al Sole. Come Helios dell’epopea omerica, egli vede tutto e per tale motivo ripara ai torti e a tutto ciò che nuoce a un giusto ordine delle cose. Da una parte Mithra è il dio dell’elemento luce, e dall’altra parte è al servizio di Ahura-Mazda. Egli è dunque un’emanazione del dio supremo e procede da lui. Questo dio supremo è circondato da forze ausiliarie (Amesha Spentas) che partecipano in sostanza alla sua essenza; Mithra è circondato, così come in India, da divinità inferiori come Aryaman “protettore degli Ariani” e Bhaga la “sorte” che ripartisce i doni benefici. Queste due divinità unite si ritrovano sotto i nomi di Sraosa e Asi; esse costituiscono infatti due aspetti determinanti di Mithra, come lo saranno più tardi nei misteri, Cautes e Cautopates (vedi p. 82). La potenza di Mithra fu fortemente ridotta dalla personalità di Zoroastro. Questo profeta diffuse principalmente la sua dottrina nella Persia orientale; le opinioni sono tuttavia molto divise riguardo al periodo in cui visse. Questo periodo è compreso tra il 1000 e il 600 a.C.; si concorda attualmente in merito al fatto che la sua attività possa essere situata intorno al 600 a.C. Purtroppo la ricostruzione del personaggio può essere fatta solo attraverso le “Gatha”, canti sacri a lui attribuiti e redatti in un dialetto iraniano orientale la cui traduzione si rivela estremamente difficile. È in ogni caso incontestabile che Zoroastro fu un grande riformatore che si è sforzato di convertire il politeismo in un monoteismo di cui Ahura-Mazda sarebbe la sola e suprema divinità. Per fare ciò, si sentì obbligato a far passare la personalità di Mithra

in secondo piano e a opporsi alle concezioni liturgiche dei suoi contemporanei; i sacrifici di sangue, come l’immolazione dei tori, furono banditi così come l’uso dell’haoma, sostanza inebriante che provocava l’estasi. Quest’ultimo divieto recò un colpo molto forte al culto di Mithra, esso era, in effetti, legato al bovide e al sangue del toro sacrificato che, mescolato all’haoma, procurava a chi lo consumava una forza immortale. Dario e Serse, membri della dinastia degli Achernenidi, furono anch’essi adepti della dottrina di Zoroastro? Non affronteremo in questa sede l’argomento, ma pare chiaro che il profeta non sia riuscito a eliminare il troppo popolare dio Mithra, infatti già all’inizio della sua predicazione il profeta incontrò una fortissima opposizione e finì per essere assassinato in un tempio. Negli scritti successivi dell’Avesta, ai quali si collega la decima ode, ritroviamo Mithra nel pieno della sua maestà; lo yasht in questione respira l’autentico spirito della religione popolare e l’influenza del profeta è appena visibile, là dove il Signore della Saggezza parla a Spitama Zaratustra nel modo seguente: “Quando io ho creato Mithra, l’ho creato degno di ricevere sacrifici, degno di ricevere preghiere, tanto quanto me, Ahura-Mazda”. Citiamo ancora alcuni passaggi di questo secondo canto perché essi parlano da soli: “Tu proteggi le Nazioni devote a Mithra, Signore delle vaste terre; tu distruggi chi lo offende; che venga in nostro aiuto Mithra il temuto, il vittorioso, degno di preghiera e di sacrifici, luminoso padrone delle Nazioni”. “Voglio sacrificare a Mithra, il benevolo, il potente, il celeste, il supremo, che è pieno di misericordia; l’incomparabile abitante dei luoghi alti, il guerriero forte e vigoroso, il vincitore ben armato che veglia nelle tenebre e che non s’inganna. Egli è il più potente di tutti gli dei. Egli è il più intelligente. Egli è vittorioso e la gloria lo accompagna, egli ha mille orecchie, diecimila occhi, diecimila spie; egli è il dio potente che sa tutto e che non si può ingannare”. L’intero yasht narra della potenza di Mithra, della sua forza e della sua combattività. Questi tratti caratteriali lo fanno amare in modo assolutamente particolare e sono rimasti legati al suo culto. Questa forza straordinaria ha animato i suoi adepti, nei secoli successivi, durante la celebrazione dei misteri. Nei libri sacri dell’India antica, i Veda, divisi come l’Avesta in capitoli distinti, Mithra svolge il ruolo ausiliario della divinità celeste Varuna. Il suo personaggio è intimamente legato alla luce e al sole, che viene anche definito

come “l’Occhio di Mithra e di Varuna”. Si può affermare che nei Veda più che nell’Avesta appare chiaramente il legame tra Mithra e il toro, che diventerà più tardi il centro dei misteri di Mithra. È merito del prof. H. Lommel l’avere collezionato un certo numero di testi vedici che secondo lui rappresentano Mithra nell’atto di uccidere il toro. Il punto di partenza della tesi del prof. Lommel è il dio della Vita, Soma (da paragonare al termine haoma). Questo dio personifica la pioggia, che proviene dalla luna. Egli presiede alla crescita delle piante, procurando in tal modo nutrimento per gli esseri umani e per gli animali. Negli esseri di sesso maschile le linfe vegetali si trasformano in seme, negli esseri di sesso femminile si trasformano in latte. Alla morte, il principio vitale ritorna alla luna e, quando essa è crescente, Soma si congiunge a lei così come si congiunge una coppia. Soma rappresenta allora la bevanda dell’immortalità che gli dei bevono ogni mese. In questo mito Soma, in quanto pioggia rappresenta sia il seme del toro celeste che feconda la terra sia il latte della vacca celeste che nutre l’universo. Poiché gli dei desiderano avere il possesso della bevanda che dona l’immortalità, concepiscono il progetto di assassinare Soma. Il dio del vento Vayu si presta a questo progetto e anche Mithra è pregato di parteciparvi: “E gli dei dissero a Mithra (il dio il cui nome significa ‘amico’): noi vogliamo uccidere il re Soma”. Egli rispose: “Io non lo desidero assolutamente, perché sono amico di tutti”. Essi gli risposero: “Noi vogliamo ucciderlo nonostante tutto”. Mithra finì per partecipare all’assassinio, a condizione di ricevere una parte del sacrificio ma, a causa di ciò, rischia di perdere tutto il suo avere in bestiame perché i bovidi si allontanano da lui dicendo: “Malgrado egli sia amico (‘Mithra’), egli ha commesso un gesto orribile”. Anche Va runa partecipa all’assassinio di Soma. La messa a morte è compiuta come nella liturgia, quando si estrae la linfa della pianta Soma stritolandola fra due pietre. Soma conferisce l’energia; la bevanda è assunta dagli dei, dai sacerdoti e dai partecipanti al culto. Gli uomini ottengono in tal modo l’immortalità, ma solo dopo la loro morte fisica alla quale gli dei non sono soggetti. È interessante paragonare questi elementi estrapolati dai Veda a quelli dell’Avesta e più particolarmente con lo scritto del Bundahisn, nel quale il toro primigenio è ucciso dando così vita alle piante (vedi p. 77). Più tardi, nei misteri di Mithra, la divinità Soma-Haoma scomparirà, ma il principio del rinnovarsi della vita rimarrà legato alla messa a morte del toro. In tal modo si

conserverà il legame tra il culto di Mit(h)ra in India e in Persia e quello di Mithra uccisore del toro in Occidente.

CAPITOLO II Zoroastro e i Magi

Fonti recenti riportano che, quando fu assassinato nel tempio del fuoco a Balkh, Zoroastro o Zaratustra avrebbe detto al suo assassino: “Possa AhuraMazda perdonarvi così come faccio io”. Che sia vero o no, il testo in questione rende testimonianza di una grande ammirazione per il profeta. Non è d’altra parte l’unica volta in cui, in epoche successive, si paragonerà la personalità di Zaratustra a quella del Cristo (vedi p. 118). E se le sue dottrine non sono profondamente radicate in Persia, la sua influenza è nondimeno rimasta molto forte e il suo nome è menzionato in tutti i testi con rispetto. Si può anche affermare che è il suo nome a conferire prestigio e autorità agli scritti e a ispirare rispetto. Zaratustra era un mago. Il termine “Mago” non deve suscitare nel lettore l’idea di misteriose pratiche magiche delle quali alcuni, come Plinio, hanno accusato tutti i magi in generale. Il termine ‘Magu’ secondo l’iranista G. Messina S. J. definisce colui che partecipa ai ‘doni’ (maga), cioè alla dottrina religiosa di Ahura-Mazda. Il termine ‘Magu’ indica dunque all’origine unicamente un adoratore di AhuraMazda. Zoroastro è il primo mago, perché a lui il signore della saggezza ha insegnato la propria dottrina. Dione Crisostomo (Or. 36.40-41) riferisce che il profeta si sarebbe intrattenuto con Ahura-Mazda in cima a una montagna ardente e che là Ahura-Mazda gli avrebbe impartito il suo insegnamento. Zaratustra era dunque un sacerdote e un aedo divenuto profeta e riformatore. Gradualmente il termine ‘mago’ assunse un senso meno stretto e si caratterizzò con il significato più generale di ‘sacerdote’, senza che questo termine implicasse che un sacerdote fosse un Mazdeista di stretta osservanza. I magi erano dei saggi ed esercitavano una grande influenza sulle dinastie persiane. Generalmente, furono gli educatori dei principi ereditari; tutto ciò fu esagerato da Cicerone (De Div. 1.41-90) che arrivò ad affermare come presso i Persiani nessuno poteva accedere al titolo regale senza prima essere stato educato dai magi.

Figura 1 - Attività dei Magi su un rilievo trovato a Dascylium

Il loro rango elevato li condusse spesso a essere implicati in avventure come quella del falso Smerdis che Erodoto (III, 61) ci riferisce in maniera ricca e precisa. G. Messina ritiene che la rivoluzione di palazzo, a seguito della quale il cosiddetto Smerdis o Bardija occupò il trono durante l’assenza di Cambise, sia stata in realtà un tentativo dei magi per conquistare definitivamente il potere e diffondere più facilmente e più velocemente la dottrina di Zaratustra. Quanto a Erodoto (1, 101), egli considera invece i magi come una delle sei tribù del popolo medo. Il tentativo di presa di potere sarebbe, alla luce di questa ipotesi, un fatto puramente politico ed è alla luce di questa teoria che E. Benveniste spiega la terribile vendetta che il successore di Cambise, Dario, esercitò sui magi facendoli sterminare. Questa teoria spiegherebbe anche l’attenzione particolare che Dario rivolse a questo fatto nel petroglifo ufficiale di Behistun. In realtà, i sacerdoti sarebbero dunque stati eletti tra i membri della tribù dei magi, i quali non accedevano necessariamente tutti al sacerdozio. Da ciò discenderebbe la loro usanza di non seppellire i morti, ma di esporli alle belve e ai rapaci; questa sarebbe, in effetti, un’usanza tipica delle tribù dei Medi settentrionali. Malgrado questi fatti, il loro prestigio presso il popolo rimase grande. Secondo Erodoto (1, 132) nessun sacrificio può essere compiuto in assenza dei magi e sono loro che, durante il sacrificio, recitano cantando la teogonia cioè l’origine degli dei. Un rilievo trovato a Dascylium nell’ovest dell’Asia Minore e risalente al V secolo a.C. evoca per noi in maniera affascinante le loro attività (vedi Fig. 1).

Con un panno (pâdam) davanti alla bocca, per non sporcare il fuoco con il loro alito, e un fascio di verghe (baresman) in mano, essi sono in piedi davanti a una nicchia o un altare in cui pendono teste di montone e di toro. Un altro montone e un altro toro sono dietro una tramezza. In seguito all’espansione dell’Impero persiano i magi erano entrati in contatto con le caste sacerdotali locali ed in particolare con i Caldei. Un contatto più diretto si instaurò così tra questi magi e la cultura ellenica. Una tradizione riporta che sia stato il mago Ostanes a diffondere le dottrine persiane in Grecia. Si parte da questa tradizione per stabilire un legame tra i magi e la filosofia greca. Una teoria identifica la μαγεία con il culto degli dei, ϑεών ϑεραπεία (Platone, Alcib. l, 121), ma concezioni più popolari, che si ritrovano in Sofocle fanno del termine μάγος un sinonimo di γόης (stregone). Questa evoluzione del significato del termine mago dimostra quanto i rapporti tra i magi e i Caldei abbiano rafforzato l’influenza dell’astrologia, nella quale i sacerdoti caldei erano ritenuti maestri. Furono questi “Magi ellenizzati” a creare il culto dei misteri di Mithra e a fare del dio universalmente venerato e popolare il fulcro di un culto esoterico. I festeggiamenti dedicati al dio erano conosciuti in tutta l’Asia Minore. Vi avevano luogo sacrifici solenni; nel corso di questi Mithrakana o Mihragân, il re eseguiva le danze sacre e si dedicava a eccessi nel bere in onore della divinità; tutto ciò ci riporta Ctesia (intorno al 390 a.C.) ed è peraltro citato da diverse fonti; i festeggiamenti erano celebrati il giorno Mihr del mese di Mihr, il 2 ottobre, inizio dell’inverno. I magi ponevano Mithra in primo piano come divinità solare; secondo loro Zurvan era a capo delle due forze antagoniste, del Bene e del Male. Essi si trasmettevano il sacerdozio di padre in figlio secondo una tradizione consacrata. Dal punto di vista della loro propagazione un’iscrizione bilingue, in greco e in aramaico, è di grande interesse. L’iscrizione fu trovata in Cappadocia a Farasha o Rhodandos e cita: “Sagarios, figlio di Magapharnes (il nome è controverso), stratega di Ariaramneia, divenne mago di Mithra, o (secondo una migliore interpretazione) compì una cerimonia in onore di Mithra”. Tuttavia è un peccato che la data dell’iscrizione sia difficile da stabilire. Alcuni, in effetti, la collocano intorno al III secolo a.C., altri all’inizio dell’era cristiana. In ogni caso i magi esistettero per secoli in Asia Minore e Strabone (XV, 3, 14) che visse dal 66 a.C. al 23 d.C., ebbe ancora modo di conoscerli. La descrizione che ne fornisce è un’illustrazione del

rilievo di Dascylium (vedi Fig. l) che abbiamo già descritto in precedenza e che risale al V secolo a.C.: “Essi cantano a lungo tenendo in mano un mazzo di tamerici”. Vedremo che, nel I secolo a.C., i pirati della Cilicia erano iniziati ai misteri di Mithra ma che esisteva ancora, a fianco delle società segrete, un culto pubblico di Mithra. Pare, dunque, che l’epoca intorno alla quale il culto si trasformò in mistero debba essere fatta risalire ai due ultimi secoli precedenti la nostra era. Dopo le scoperte di Doura-Europos in Siria, non è più possibile contestare, come aveva fatto lo studioso svedese Wikander, l’influenza profonda dei magi dell’Asia Minore sulla formazione del culto di Mithra. Sulle facce laterali della nicchia rituale (vedi fotografia) di questo Mitreo di Doura-Europos sono rappresentati due magi nell’abbigliamento che era loro proprio. Essi siedono solennemente su un trono, vestiti di un costume composto di un mantello, un pantalone e un berretto frigio. Uno dei magi tiene nella mano destra uno scettro di legno e nella mano sinistra un libro. Egli guarda davanti a sé con severità; è il saggio che insegna i segreti dei misteri. Egemonio (prima dell’anno 350 a.C.) descrive il profeta e mago Mani (216-276 a.C.): “Egli era ritratto con un mantello bluastro, multicolore; in mano teneva una robusta canna d’ebano, sotto il braccio sinistro serrava un libro babilonese”. Il costume di Mani è simile a quello dei sacerdoti di Mithra. Nel Mitreo di Santa Prisca a Roma, il Padre, capo della comunità, è seduto su un trono come un saggio. E vestito di un abito rosso come quello di Mithra e indossa un berretto frigio rosso. Alla mano destra indossa un anello. Un mosaico di Ostia rappresenta lo scettro, il berretto e l’anello magistrale come attributi del Padre (vedi p. 173). Inoltre un’iscrizione di Doura menziona un certo Maximus come mago (Magus). In un dato periodo storico questi magi entreranno in territorio romano. Nel 66 d.C., Tiridate I, eletto re dell’Armenia, decide di farsi incoronare da Nerone; attraversò la Tracia, l’Illiria e il Piceno, senza bagnarsi, perché, nella sua qualità di mago, non voleva assolutamente sollevare l’elemento acqua. Arrivò a Napoli dopo un viaggio trionfale di nove mesi, per dirigersi subito verso Roma; il suo ingresso in questa città fu per i Romani un meraviglioso spettacolo dal fasto orientale. Tiridate era scortato da tremila cavalieri parti e al suo seguito erano i magi (Magos secum adduxerat). Durante la cerimonia dell’incoronazione, si rivolge a Nerone (Dio Cassio LXIII, 1, 7; Svetonio, Nero, 13, 30, Plinio, Nat. Hist., XXX, l, 6) in questi

termini: “Io sono sovrano, discendente di Arsakos, fratello dei re Vo logeses e Pakoros; ma sono vostro schiavo (vedi p. 202) e sono venuto a Voi, o Dio, per adorarvi come Mithra”. “E sarò ciò che voi deciderete io sia perché per me Voi siete Moira e Tiche”. A queste parole Nerone toglie la tiara dalla testa di Tiridate e lo incorona con un diadema. F. Cumont avvicina questa investitura al culto di Mithra, al quale Tiridate voleva iniziare Nerone. È a questa cerimonia che Plinio fa allusione quando dice: “Egli l’ha iniziato alla cena magica (magicisque cenis initiaverat) e questa cerimonia sarebbe dunque il pasto rituale dedicato a Mithra” (vedi p. 111). Se così avvenne, Nerone sarebbe stato il primo imperatore a entrare in contatto con il culto di Mithra. Nerone nutriva un pronunciato interesse per i fenomeni occulti e forse sperava di essere iniziato a essi dai magi. Inoltre Nerone desiderava particolarmente di essere adorato come un dio solare. Nella sua Casa Dorata (Domus Aurea) si comportava come un re sole e nei giardini era collocata una statua gigantesca (colossus) che lo rappresentava come un dio solare. Nel corso dei festeggiamenti in onore di Tiridate, fece distendere sul Teatro di Pompeo, situato sul Campo di Marte, un velo di porpora che lo rappresentava seduto sul carro solare e circondato di stelle d’oro. Comunque sia, è acquisito che una decina di anni più tardi il culto di Mithra aveva conquistato diritto di cittadinanza a Roma (vedi p. 33).

Figura 2 - Falso Mithra che monta un toro

Anche il cristianesimo mosse a quell’epoca i primi passi a Roma. Portava con sé la nuova dottrina di Gesù, il Salvatore e il Messia a lungo atteso, che

era disceso sulla terra e aveva preso forma umana. Alla sua nascita, dei magi guidati da una stella erano arrivati a Betlemme ove l’avevano adorato e gli avevano offerto oro, incenso e mirra (Matteo, II, 2). G. Messina e altri hanno dimostrato che gli Ebrei avevano tenuto in considerazione Zoroastro e l’avevano paragonato a Ezechiele, il discepolo di Elia. I Magi a loro volta s’interessarono alla religione ebraica. I cristiani, che sapevano molto bene che Zoroastro non era ebreo, lo considerarono come il profeta di cui Dio si sarebbe servito per annunciare il Messia. Ciò spiega perché una versione araba della Narrazione Evangelica cita: “Vedete, i Magi vennero da Oriente a Gerusalemme, come aveva predetto Zoroastro”. Se si deve credere agli autori cristiani, il Messia in questione era evidentemente Gesù. Ma dall’Avesta persiano sarà Saushyant che, dopo svariati millenni, alla fine dei tempi apparirà e farà trionfare la Verità e la Bontà sulle forze oscure. Egli è il Salvatore vittorioso che renderà l’esistenza luminosa quando i morti resusciteranno e i viventi raggiungeranno l’immortalità (Zamyad, yasht, 19, 89). Da un altro canto dell’Avesta, il Bahman yasht (III, 31), Mithra è il principale avversario delle forze del Male; Peshotanu distruggerà gli empi e Ahura-Mazda ordinerà alle sue forze ausiliarie di assisterlo in questo compito sino alla fine; Mithra è alla testa delle truppe; sarà l’avvento del nuovo regno del dio solare e, come dice il Bundahisn (XXX, 25): “Quando i morti saranno resuscitati, il Saushyant ucciderà un toro e dal suo grasso mescolato all’haoma farà una bevanda di immortalità per gli uomini”. Nei misteri di Occidente questo salvatore non era altri che Mithra, il dioSole. Per questo motivo un’iscrizione latina cita: “Salve al Saushyant (nama Sebesio)”. Uno scritto manicheo, ritrovato in Tu rkestan, aggiunge un elemento particolare: al vero Mithra si contrappone un falso Mithra che monta un toro (vedi Fig. 2 e p. 93) e che si fa passare per “Il vero figlio di Dio” ordinando agli esseri umani di adorarlo. Secondo il Bundahisn (XXX, 10) i Buoni saranno separati dagli empi; dopo il combattimento finale Mithra sarà uno dei tre giudici incaricati della sorte dell’anima che, secondo l’Avesta, vorrà imboccare il ponte del Cinvant. Alla fine dei tempi tuttavia, Mithra condurrà le anime attraverso un fiume di fuoco del quale solo gli empi subiranno gli effetti. Non ci si deve dunque stupire se i cristiani, dopo avere visto per lungo tempo nel messianismo dei magi una loro conferma e avere creduto che i magi adorassero il loro Salvatore, finissero, qualche secolo dopo, per

considerare Mithra come un anticristo.

CAPITOLO III Mithra in Europa

Le circostanze che, alcuni secoli più tardi, condussero in Europa il dio dell’Iran sono curiose. Secondo lo storico Plutarco (I sec. d.C.), i Romani fecero la conoscenza di Mithra attraverso i pirati della Cilicia, provincia dell’Asia Minore. La minaccia di questi pirati era tale che Pompeo dovette organizzare diverse spedizioni contro di essi (78-67 a.C.). Al loro riguardo, Plutarco scrisse nella biografia di Pompeo: “Essi facevano sul monte Olimpo in Licia degli strani sacrifici e vi celebravano in segreto dei misteri che sopravvivono ai nostri giorni nel culto di Mithra e che essi furono i primi a diffondere”. Secondo lo storico Appio (metà del II secolo d.C.) furono i sopravvissuti dell’armata vinta dal re Mitridate Eupator a iniziare i pirati ai misteri; quest’armata era composta da diverse popolazioni di Oriente. In Cilicia, patria montagnosa dei pirati, esistono ancora diversi monumenti dedicati a Mithra. A Anarzarbos si è scoperto recentemente un altare consacrato a Mithra da un certo M. Aurelio, sacerdote e padre di ZeusHelios-Mithra. Il dio fu anche venerato a Tarso, la capitale, come provato da reperti di monete dell’imperatore Gordiano III che recano l’effige del tauricida (vedi Fig. 3). Infatti, sotto il regno di Gordiano III ebbe luogo una grande spedizione militare contro i Persiani; la moneta aveva dunque un valore di propaganda, o, come scrisse Ernest Will: “L’omaggio reso da Roma al dio persiano, nel momento della campagna contro la sua patria primigenia, riveste un valore politico particolare”. Queste testimonianze del II e III secolo d.C. possono ancora confermare le affermazioni di Plutarco riguardo ai pirati della Cilicia? E, probabile. Sembra abbastanza chiaro che Mithra fu particolarmente venerato a Tarso perché l’effige di Mithra che uccide il toro compare sulla moneta di questa città che Gordiano III probabilmente attraversò per recarsi al campo di battaglia. Situata a un crocevia, Tarso deve avere conosciuto i misteri di Mithra da molto tempo. Plutarco racconta in seguito che i pirati che si erano stabiliti sull’Olimpo commisero diversi misfatti nei confronti degli dei di questo luogo. Adoratori degli dei d’Oriente, essi non provavano altro che disprezzo per le altre divinità.

Figura 3 - Moneta di Tarso con l’effige dell’Uccisore del Toro, coniata sotto Gordiano III

I pirati, ai quali si aggiungevano a volte personaggi importanti, veneravano Mithra in comunità. Solo gli uomini erano ammessi al suo culto. È dunque probabile che dopo la loro disfatta i pirati abbiano introdotto Mithra in Italia quando Pompeo ve li trasferì. Ciò ci permette di stabilire una data certa per la propagazione dei misteri di Mithra. Altre testimonianze del I secolo a.C. parlano solo del culto di Mithra, senza fare allusione all’esistenza dei misteri. Nel caso specifico si tratta di epitaffi ornati con fasto trovati, l’uno a Nemrud-Dagh e dedicato ad Antioco I di Commagenia, l’altro ad Arsame sull’Oronte e dedicato a suo padre Mitridate. Questi due sovrani hanno eretto, per gli dei del loro padre, statue gigantesche su immensi terrazzamenti. Gli dei figurano assisi su grandi troni e tra essi, rappresentato a Nemrud, siede il re Antioco (69-34 a.C.). Mithra figura nell’iscrizione insieme a Zeus-Ahura-Mazda, Hermes, Apollo-Helios ed Eracle-Verethragna. Questi due re presero dunque gli dei dell’Iran come divinità tutelari del loro casato. Inoltre, tanto Mitridate che suo figlio si sono fatti rappresentare su dei rilievi, nell’atto di stringere la mano a Mithra. Ogni anno avevano luogo servizi funebri destinati a commemorare l’anniversario dei sovrani deceduti; le iscrizioni non menzionano alcun culto segreto di Mithra, questo dio figura dunque solo tra le divinità nazionali riconosciute come tali. Qualunque sia l’interesse dei documenti forniti da Plutarco, è importante considerare che questo storico riferì della vita di Pompeo se non verso la fine del I secolo d.C. e che solo intorno a quest’epoca noi ritroviamo effettivamente a Roma la rappresentazione di Mithra che uccide il toro, aspetto caratteristico del culto esoterico e dei misteri del dio. E così, perlomeno, che il poeta Stazio descrisse Mithra intorno all’anno 80 d.C.: “Il

dio che, ritirato tra le rocce della grotta persiana, gira e rigira le sue corna recalcitranti”. Colpisce comunque il fatto che non si possa datare alcun monumento riguardante Mithra prima della fine del I secolo d.C.; gli scavi di Pompei, sepolta nel 79 d.C., non hanno sino a oggi rivelato alcuna immagine del dio. Vestigia certe del dio e risalenti a un periodo compreso tra il 67 a.C. e il 79 d.C. sono tuttora introvabili. Il più antico documento sicuramente collocabile nel tempo è una statua romana conservata al British Museum di Londra: l’iscrizione sulla statua menziona un certo ‘Alcimus’ che si nomina come schiavo di T. Claudio Liviano. Se il Liviano in questione può essere identificato con il capo della guardia pretoriana sotto Traiano, il monumento risale all’inizio del II secolo d.C. A quella data, la via è aperta al cultomistero di Mithra; è verso quest’epoca che il dio inizia la marcia trionfale che lo condurrà sino al Campidoglio e al colle Palatino.

CAPITOLO IV Gli Adepti di Mithra

In Iran, come abbiamo visto, Mithra era bellicoso di carattere, sempre pronto al combattimento e pronto ad assistere i suoi compagni nella lotta per il Bene e a condurli alla vittoria. Nei suoi misteri, uno dei gradi è miles (soldato); il suo culto è un servizio militare e la vita sulla terra una campagna al servizio di un dio vittorioso. Non vi è dunque da stupirsi se i legionari romani di ogni grado, sovente provenienti dal Levante, siano stati attirati da Mithra. A tutti coloro i quali militavano sotto le aquile romane, il dio poteva offrire il suo potente appoggio. Quest’aiuto sul campo di battaglia così come la disciplina che esigeva furono fattori importanti per la propagazione del culto di Mithra e per il suo riconoscimento ufficiale. Era sufficiente che le aquile romane fossero piantate in un castrum perché il culto di Mithra vi s’installasse rapidamente; ciò avvenne senza dubbio a partire dal II secolo d.C. Vediamo il caso di M. Valeria Massimiano; nativo di Petovio (PettauPtuj) nella provincia della Dalmazia (Yugoslavia nord-occidentale), nella quale sono stati ritrovati tre grandi templi di Mithra, M. Valerio Massimiano consacrò un altare in un Mitreo ad Apulo (Alba Julia in Dacia - Romania) durante il suo comando della tredicesima legione (Legio XIII Gemina); promosso comandante della terza legione (Legio III Augusta) tra gli anni 183-185 d.C., egli consacra altari a Lambesa in Numidia. Esiste d’altra parte un legame stretto tra le province danubiane, nelle quali il culto di Mithra si diffuse, e gli avamposti in Africa. La legione Herculia fu all’inizio acquartierata a Tresmi in Mesia, in seguito a Sitifis (Sétif) in Africa. Ora sappiamo che il culto di Mithra era diffuso nei due luoghi. M. Aurelio, nativo di Carnuntum (Deutsch-Altenburg) a est di Vienna (Vindobona), dove Mithra era particolarmente venerato, consacra in quanto comandante di legione un altare a Lambesa. L. Sesto Casto, centurione della sesta legione è molto probabilmente nativo dell’Africa, ma erige un altare a Mithra nella località di Rudchester. I soldati seguono la loro legione, la legione segue gli ordini dei suoi comandanti ma Mithra li segue sempre. Il modo in cui si poteva divenire Mitraista con il servizio militare è descritto in un’iscrizione trovata a Paleopoli nell’isola di Andros. Intorno all’anno 200 della nostra era e durante

un’occupazione di questa isola che deve essere messa in rapporto con i trasporti di truppe richiesti dalla spedizione nel Levante di Settimio Severo, M. Aurelio Rufino inaugurò una grotta dedicata a Mithra. Ru fino era membro straordinario (evocatus) della guardia pretoriana e ci è noto da una iscrizione a Siscia in Bulgaria, nella quale si dichiara essere nativo di Bizia in Tracia. Grazie ai monumenti sappiamo che il Mitraismo non è mai penetrato più a sud di questa regione, eccezion fatta per le città Bessapara e Filippopoli. Non è dunque in Tracia che Rufina avrebbe appreso a conoscere Mithra, bensì quando era già sotto le armi e, probabilmente, nelle regioni dove fu acquartierato prima di essere accorpato alle coorti pretoriane. La cavalleria (equites) dell’armata romana così come i suoi arcieri (sagittarii) sono adepti del dio orientale; essi hanno nel dio invincibile il loro protettore e signore. È lui, l’arciere divino, che fa zampillare l’acqua dalla roccia arida con le sue frecce. Già alla sua nascita, come ci mostra un monumento romano, egli aveva un arco. E non è lui, il divino cavaliere, che colpisce infallibilmente con le sue frecce la gazzella e il cinghiale? Nel loro santuario di DouraEuropos gli arcieri di Palmira potevano contemplarlo a cavallo su due quadri differenti (vedi Fig. 29) armato di arco e frecce. A volte si ritrovano parimenti in Germania (Dieburg-Rückingen) rappresentazioni del dio a caccia, circondato da molossi. Come un potente monarca, con un globo nella mano destra, egli cavalca in un rilievo di Neuenheim (vedi Fig. 28). Per quanto si sappia che il culto di Mithra era diffuso nelle città portuali, è opportuno rilevare che non furono i marinai a introdurre il culto del dio. E se Mithra gode di un favore riconoscente nell’ambito del commercio e della navigazione, ci sono note poche iscrizioni di adepti marinai. Per le legioni e il commercio i crocevia sono importanti, così come lo sono i fiumi; essi facilitano il trasporto delle truppe e delle mercanzie e i grandi fiumi costituiscono anche una cintura difensiva naturale. In queste zone gli accampamenti trincerati più o meno importanti (castra o castella) hanno sovente preceduto gli insediamenti civili. Si trova anche una cintura (limes) di roccaforti lungo l’Eufrate, in Africa, in Dacia, in Mesia lungo il Danubio, in Germania lungo i meandri del Reno e in Inghilterra tra il Solway e la Tyne. In Inghilterra, Adriano dovette anche erigere un vallum, sbarramento contro le invasioni dei Picti ostili. Si ritrova Mithra dappertutto, anche negli avamposti di frontiera più lontani dall’Impero (vedi Fig. 4). In Crimea, sul Mar Nero, vicino a un luogo essenziale per le vie di comunicazione, dei beneficiarii (cioè soldati forniti di privilegi) hanno fatto

sacrifici in onore del loro dio in un Mitreo che non è stato ancora scoperto. Nel corso degli ultimi anni sono stati scoperti dei Mitraei a Rudchester e a Carrawburgh. Il Mitreo di Londra, vicino a Walbrook presenta alcuni aspetti in comune con un santuario situato a Merida (Spagna) e con un altro a Roma sull’Aventino (Santa Prisca). E in tempi più vicini a noi, si nota che un adepto di Mithra, abitante il ghetto di Roma, a Trastevere, ha inciso il suo nome su un altare di Mithra a Ostia, dove aveva il suo luogo di lavoro. Non c’è da stupirsi che nei Mitrei di Dieburg e Stockstadt (Germania) si trovino raffigurazioni di Mercurio recante la borsa. Infatti in Oriente (Commagene) Mithra fu a volte invocato come Hermes - Mercurio. Qualunque sia la diversità dei caratteri e qualunque siano le differenze di rango e di situazione sociale in una comunità religiosa, gli uomini si sentono tutti uniti fra loro. Così, in diversi Mitrei si trovano manifestazioni della semplice credenza popolare a fianco di ricchi monumenti di personaggi di rango più elevato. Alcuni Mitraisti sono sconosciuti. Così un certo Jahribol, capo degli arcieri (στρατηγός τοξοτών) si è fatto rappresentare a Doura con due amici importanti, su un grande rilievo votivo rappresentante l’uccisione del toro; egli vi figura mentre pratica un sacrificio al dio (vedi p.130). Mareinos o Maréos che ornò il santuario di quadri, ha inciso il suo nome su una delle colonne; mise gratuitamente il suo pennello a disposizione del santuario o vi fu onorato? Nel Mitreo dell’Aventino adepti del dio si sono fatti rappresentare nell’atto di portare le loro offerte in processione. In tal caso si tratta, a leggere i nomi, di persone di origine orientale; essi hanno i capelli rasati e una barba giro collo. L’artista ha lasciato a ognuno la sua personalità senza utilizzare alcun cliché.

CAPITOLO V Metodi di propaganda

Abbiamo visto che soldati e mercanti portarono il Mitraismo sino agli estremi limiti dell’Impero. Poco a poco troveremo nelle iscrizioni un sempre maggior numero di nomi di ufficiali superiori e di alti funzionari, ferventi adepti di Mithra. A Petovio troviamo tutta una serie di alti funzionari delle dogane tra i suoi zelatori; comandanti in seconda (legati) e governatori di provincia (praesides) offrono altari votivi. Una statua di Mithra proveniente da Roma e conservata al British Museum reca il nome di un affrancato di Traiano. Intorno alla fine del I secolo d.C. possiamo costatare la penetrazione a Roma d’influenze orientali; da Ostia ci è pervenuto un busto di Traiano con il berretto frigio. Fu lui a condurre personalmente diverse campagne in Oriente. Un secolo più tardi, sotto il regno di Settimio Severo, che d’altra parte aveva sposato una Siriana, Julia Domina, un Mitreo imperiale sarà eretto sull’Aventino, nella villa privata dell’imperatore Traiano. Da questo momento la corte fu conquistata dal culto di Mithra e un sacerdote di Mithra vi officiò (sacerdos invicti Mithrae domus Augustanae). Anche l’imperatore Commodo, se si deve credere alle cronache, si fece iniziare ai misteri di Mithra. I figli di Settimio Severo, Caracalla e Geta, furono molto ben disposti nei confronti del culto del dio; nelle terme di Caracalla a Roma fu istallato un Mitreo; nella stessa epoca furono edificati diversi templi a Mithra a Roma (per esempio Santa Prisca) e nella patria di famiglia: l’Africa. Sono state scoperte vestigia del culto di Mithra anche sul colle Palatino, grandiosa residenza degli imperatori; il dio arriva sino ai piedi del Campidoglio e al Foro. Non sono tanto i misteri greci, bensì i misteri orientali di Cibele e di Iside ad aprire al dio la via per i palazzi del Palatino; l’influenza sempre crescente dell’astrologia fu determinante. In effetti, il sole è al centro di tutte le osservazioni riguardanti le costellazioni e la loro influenza. Mithra è considerato come il sovrano di queste costellazioni e come colui il quale conferisce il potere ai sovrani terreni. Il primo imperatore romano che parlò di queste teorie fu Nerone nella sua ‘Casa Dorata’, la Domus Aurea. Nerone fu il primo a farsi salutare come il nuovo Mithra nel corso dell’investitura di Tiridate di Armenia.

Nei giardini del suo palazzo, si fece rappresentare e venerare sotto le spoglie di Helios-Sole con una statua gigantesca (colossus). Dopo Severo e dopo il regno di Eliogabalo, la cui personalità fu molto discussa, troviamo verso la fine del III secolo l’imperatore Aureliano. Fu lui a fare del culto del Sol Invictus, il Sole invincibile, il culto ufficiale per eccellenza; egli fece edificare a Roma un grande tempio al Sole, situato nel luogo dell’attuale chiesa di San Silvestro. Pare, dunque, che le esitazioni di Traiano nell’ammettere questo culto solare orientale nel primo secolo della nostra era siano state ben presto superate; la teoria piaceva agli imperatori romani che condussero sempre più lo stile di vita dei despoti orientali. Questa evoluzione si riscontra chiaramente nelle monete. L’imperatore è lui stesso il rappresentante del dio-sole, è il dominus et deus, è invictus, è comes et conservator, e gli stessi appellativi di signore e dio, compagno e protettore erano propri da lungo tempo di Mithra, l’invincibile dio del Sole; l’astrologia trionfava peraltro nei suoi misteri. Quando il vecchio Diocleziano, Galerio e Licinio si riunirono nel 308 d.C. a Carnuntum, vicino a Vienna, il triumvirato così formato consacrò a Mithra un tempio e un altare a testimonianza dei loro mutui accordi; il nome di Mithra è scritto in lettere capitali magnifiche come il protettore della potenza imperiale (fautori imperii sui). Fu dunque l’interesse per lui portato dalla casa imperiale a costituire il fattore dell’enorme successo che conobbe il culto di Mithra, soprattutto tra il II e il III secolo. Solo a Roma si sono potute identificare tra le vestigia più di cento templi del dio, sparsi in tutta la città, sia fuori sia dentro il pomerium. Questi templi non furono eretti tutti contemporaneamente, tuttavia una grande quantità di essi risale alla stessa epoca. Notiamo peraltro che, pur se di dimensioni rispettabili, una grotta (spelaeum) mitriaca non può accogliere che un numero limitato di adepti; questa fu l’occasione per applicare la seguente tattica ingegnosa: s’inizierà a ingrandire il santuario via via che cresceva la ‘parrocchia’; ma si finirà presto o tardi per costituire una nuova comunità in un luogo diverso. Così si acquisirono nuovi punti d’appoggio e il culto guadagnò terreno.

CAPITOLO VI Aspetto di un tempio di Mithra

Conformemente a una regola ben precisa che ci trasmette Eubulo citato nel De antro Nympharum 5-6 di Porfirio, Mithra era venerato in una grotta naturale (αὐτοφνὲς σπήλαιον). Vicino alla grotta doveva zampillare una fonte d’acqua. Si sono trovate grotte simili in Francia (Bourg-St. Andéol), in Jugoslavia (Cavtat-Epidaurum, Nefertara vicino a Plevlje) e in Germania (Schwarzerden); l’effigie di Mitra tauricida è incisa sulla parete rocciosa. Un santuario scoperto a Tirgusor (Romania) nelle montagne a nord-ovest di Costanza, nel 1958, è particolarmente interessante; lo scultore Nicomede fece il rilievo principale e riferisce che la grotta era situata in un piccolo bosco sacro (ἄλσος) vicino all’Eufrate, piccolo corso d’acqua che reca lo stesso nome del grande Eufrate della Mesopotamia, culla dei misteri di Mithra (vedi p. 176). Poiché era materialmente impossibile procedere seguendo ‘le prescrizioni di Zaratustra’ scegliendo un sito naturale, si erigeva un Mitreo avendo cura che il santuario avesse l’aspetto di una grotta (spelaeum, specus, spelunca, crypta), (vedi Fig. 5, Serdica, Sofia). Dunque, quando possibile, i Mitraei erano collocati in un sotterraneo. Sovente membri di alto livello della comunità cedevano una parte delle loro dimore per costruirvi il santuario (Santa Prisca, San Clemente, San Martino).

Figura 5 - Interno del Mitreo di Serdica (Sofia)

La grotta simboleggia la volta celeste (εἰκών τοῦ κόσμου); per questa ragione il soffitto del Mitreo ha spesso la forma di volta ed è ornato di stelle. A Capua è stata inoltre rappresentata Luna sul suo carro trainato da buoi. Si cerca pertanto di mantenere l’oscurità all’interno dei santuari; le aperture o finestre sono quasi assenti. Tertulliano (De Corona 15) si meraviglia che si possa venerare un dio della luce in un santuario che è una vere castra tenebrarum, un vero rifugio delle tenebre. Lo stesso ragionamento si trova in Firmico Materno (IV secolo d.C.) nella sua opera sulle dottrine erronee delle religioni pagane: “Questo è il nome (del dio solare) che essi danno a Mithra, ma celebrano i suoi misteri in grotte talmente scure (obscuro tenebrarum squalore submersi) che, nascosti nell’inospitale oscurità, rifuggono il fascino della luce brillante”.

Mago. Pittura di Doura-Europos

La nicchia del culto nel Mitreo situato sotto la chiesa di Santa Prisca a Roma

Di solito il santuario propriamente detto è preceduto da un locale (pronaos) che funge a volte da apparatorium cioè da camera nella quale si conservano gli oggetti di culto e ci si abbiglia con i paramenti rituali. La suddivisione del santuario propriamente detto è stereotipata; si nota un corridoio centrale e due banchine laterali (praesepia: mangiatoie) (vedi Fig. 6 a Doura). Non sappiamo se questa suddivisione risponda o no a un’intenzione simbolica. A Ostia, il corridoio e le due banchine laterali sono spesso rivestiti da mosaici. Le cerimonie del culto avevano luogo nel corridoio centrale ed erano seguite dai fedeli seduti sulle banchine laterali provviste di cuscini (i fedeli erano seduti, non inginocchiati come alcuni disegni erronei potrebbero farci credere). I fedeli erano in particolare seduti durante i pasti. I servitori portavano i piatti e le bevande e le posavano su un davanzale davanti alla banchina. Al fondo del corridoio, nel muro posteriore, è posta una nicchia (vedi p. 158 e p. 133) ma capita che il rilievo rappresentante il dio sia fissato semplicemente al muro senza essere circondato da una nicchia.

Figura 6 - Mitreo a Doura

La rappresentazione più diffusa del dio è in marmo, a volte dipinta o, come a Santa Prisca, in stucco. Ma l’idea dominante è sempre quella di rappresentare il dio Mithra tauricida in una grotta. A questo scopo si riveste sovente l’interno della nicchia di uno strato in pietra pomice. Capita che la nicchia sia provvista di un velum, una tenda decorata artisticamente (deum in velo formatum) (Ostia). Esistono dunque multiple e leggere varianti secondo le circostanze e sovente secondo i desiderata di colui o di coloro i quali

avevano ordinato il lavoro. Spesso, e conformemente alla tradizione iraniana, la nicchia era preceduta da due altari ardenti. A volte anche una vasca è posta vicino all’entrata. Le offerte votive sono poste a sinistra e a destra nel santuario, senza una regola fissa per la loro distribuzione. In ogni tipo di Mitreo i muri sono ornati da decine di rilievi votivi sospesi (i santuari di Sarmizegetusa in Romania e di Pettau in Jugoslavia ne sono particolarmente ricchi). Le nicchie o piedistalli destinati alle statue che reggono le fiaccole sono di preferenza situati agli angoli delle banchine (e vengono generalmente nominati con il sostantivo moderno di ‘podia’). Agli stessi angoli si trovano uno o più gradini che permettono di accedere alle banchine. Fosse speciali sono spesso previste per accogliere le ossa degli animali sacrificati; queste fosse sono disposte all’esterno vicino al santuario. Salvo che a Roma e a Ostia, i santuari dipinti sono pochi. Nella maggior parte dei casi, i templi sono di dimensioni relativamente ridotte, ma capita che a essi siano aggiunti elementi costruttivi la cui destinazione d’uso non è facilmente individuabile. Davanti al santuario, propriamente detto ‘Mitreo delle pareti dipinte di Ostia’, si trova una piccola cucina. Esiste vicino a Santa Prisca un santuario particolare. Allo spazio riservato al culto sono addossate tre cappelle laterali. Questo Mitreo di Santa Prisca, già citato a più riprese, per quanto modeste possano essere le dimensioni dell’insieme, sembra quasi una ‘cattedrale’ se paragonato alle altre ‘chiese’ di Mithra. Il Mitreo fu eretto in una villa imperiale ed è, di fatto, il santuario principale dei Mitraisti a Roma. Vi si trova, a fianco della nicchia liturgica rituale, un piccolo spazio del quale uno dei muri recava una seconda immagine in stucco (purtroppo perduta). Diversi grandi vasi senza fondo (destinati alle libagioni?) sono disposti lungo il muro. In un angolo figurava forse una rappresentazione della nascita di Mithra. Nel 1954 si fece in questo luogo la celebre scoperta di due magnifiche teste in stucco rappresentanti rispettivamente Venere e Serapide (vedi Fig. 7). Le tre cappelle laterali sono occupate dalle banchine, esse sono basse nella sala centrale ma piuttosto alte nelle due cappelle, dove potrebbero essere state usate come sedili. È quasi certo che le tre camere siano state destinate a cerimonie distinte. La cappella centrale era fornita di una nicchia dipinta al centro della quale si trovava probabilmente una testa di Mithra in stucco; questa testa era circondata da un cerchio che recava i segni dello Zodiaco. Davanti alla

nicchia, era situata una pedana nella quale era posta una vasca in modo tale che una persona inginocchiata potesse abbassare la testa per ricevere una sorta di battesimo. In un angolo a sinistra si trova un vaso interrato raso suolo; in questo vaso era collocato un secondo vaso il cui fondo è forato e il cui bordo è decorato da graffiti molto difficili da decifrare. La loro interpretazione ha dato luogo a molte discussioni, essendo le opinioni al riguardo molto diverse fra loro. Il prof. C. W. Vollgraff di Utrecht vi legge le parole seguenti: “Te cauterio, i Saturne, i Atar, i Opi”, che si tradurrebbe con: “Io ti marchio con il fuoco, vieni Saturno, vieni Atar, vieni Opi”. Saturno e Opi costituiscono la coppia divina dell’età dell’oro, Atar è il dio iraniano del fuoco che s’invoca in occasione del battesimo del mistico con il fuoco. Da notare che in fondo al vaso giaceva una fiala di vetro della quale il prof. Vollgraff non spiega la presenza. Il prof. R. Egger di Vienna propone una spiegazione completamente differente, il testo secondo lui sarebbe: “M(arcus) Aur… (pa)t(er) Cauti dat l(ibenti) a(nimo)” cioè ‘Marco Aurelio (?) il Padre, offre con gioia questo a Cauzio’. Si tratterebbe in questo caso di un sacrificio a Cauzio, nel qual caso la fiala di vetro sarebbe servita per le libagioni. Personalmente mi astengo da un’opinione personale perché mi è impossibile convincermi in merito all’una o all’altra interpretazione dei graffiti. Oltre a molta terra argillo-calcarea niente fu trovato nella terza cappella, alla quale si accede solo dalla cappella centrale; la sua destinazione rimane sconosciuta. Se la tesi del prof. Vollgraff concernente la cappella di sinistra è giusta, la sala centrale sarebbe riservata al battesimo con l’acqua mentre il terzo locale sarebbe eventualmente servito a un rito purificatore con la terra, quanto al Mitreo propriamente detto esso sarebbe stato destinato al passaggio del vento attraverso i sette pianeti (vedi p. 180). Colui il quale ha partecipato a tutte queste cerimonie ha dunque attraversato la totalità degli elementi (vectus per omnia elementa) così come nei misteri di Iside. Per quali gradi d’iniziazione si compiva questo percorso dei quattro elementi? Sappiamo che il leone simboleggiava il fuoco (vedi p. 166), dunque possiamo pensare che i gradi inferiori simboleggiassero rispettivamente la terra, l’acqua e l’aria. Mentre il grado inferiore, il ‘Corvo’, era iniziato nel locale centrale, le iniziazioni dello ‘Sposo’, del ‘Soldato’ e del ‘Leone’ venivano effettuate nelle cappelle laterali. Ritorneremo su quest’argomento nel corso della descrizione dei sette gradi che dovevano salire gli iniziati per raggiungere

l’identificazione finale con Mithra.

CAPITOLO VII Santuari di Mithra celebri o importanti

Il Mitreo vicino alla chiesa di Santa Prisca sull’Aventino a Roma L’Aventino è uno dei colli più gradevoli di Roma; è ricco di splendori pittoreschi. La vista che si distende sul Tevere, un magnifico panorama sui palazzi del colle Palatino e uno scorcio notevole in direzione del porto di Ostia. E quali scorci imponenti nasconde sui suoi fianchi! Come oggi, l’Aventino dei Cesari era un quartiere lussuoso con ville signorili e acquedotti che fornivano acqua alle case private. Le vie respiravano una calma contrastante con la confusione e il rumore tipici di una città meridionale. Verso la fine del primo secolo della nostra era, il futuro imperatore Traiano vi fece edificare un palazzo a fianco di quello del suo amico L. Licinio Sura, spagnolo come lui. La lettura dei testi antichi ci aveva già svelato l’esistenza di questa sontuosa dimora sull’Aventino; ma è merito del dott. C.C. Van Essen, archeologo dell’Istituto storico olandese di Roma, l’avere dimostrato che questo palazzo era probabilmente situato sul luogo dove fu edificata all’inizio del V secolo d.C. la basilica di Santa Prisca. Il sito si trova su quello che comunemente è denominato grande Aventino, non lontano dalla magnifica basilica di Santa Sabina. I mattoni scoperti sotto la basilica di Santa Prisca recano sovente, come in altri edifici romani, il marchio di fabbrica di chi li fece. Questi marchi di fabbrica furono studiati e datati dall’americano H. Bloch. Il suo catalogo di mattoni presi dai monumenti conosciuti permette di datare le vestigia architettoniche la cui identità era sconosciuta. L’uso di questo procedimento ci ha permesso di attribuire a Traiano le vestigia del palazzo scoperte sotto Santa Prisca, così come si sono potute identificare le sue successive modifiche. E certo che dopo la morte di Traiano nel 117 d.C. l’edificio entrò in possesso dei suoi successori. Quando i Severi, di origine siriana, salirono al trono (II secolo d.C.) un tempio di Mithra fu eretto nel palazzo dell’Aventino. Conosciamo la data esatta di questa edificazione grazie all’iscrizione incisa su una delle pareti laterali della nicchia, dove è rappresentata la messa a morte del toro; il testo è il seguente: ‘natus prima luce duobus Augustis co(n) s(ulibus) Severo et Anton(ino) XII k(alendas) decem(bres) dies Saturni luna XVIII’, cioè: “Nato alla prima luce

dell’alba, sotto il consolato dei due imperatori, Severo e Antonino, il dodicesimo giorno precedente il primo dicembre, alla diciottesima luna, di sabato”. Nel calendario romano questa data corrisponde al 20 novembre 202 d.C., data nella quale Severo e suo figlio Caracalla assumevano il consolato. Uno sconosciuto che, cosa stupefacente, si rifiuta di dire il suo nome, ha dunque scritto di essere nato, cioè iniziato al culto in quel giorno. Per inciso, questa iniziazione ha avuto luogo due giorni dopo la celebrazione dell’anniversario del dio in Siria. Un’iscrizione che risale all’anno 322 d.C., redatta da un ufficiale di Salsovia nella Mesia inferiore, fissa al 18 novembre questo giorno memorabile, ed è possibile che l’autore dei graffiti del santuario dell’Aventino sia di origine siriana. Gli affreschi dei muri laterali recano, in effetti, dei nomi levantini. Comunque sia, è ormai acquisito che la nicchia del santuario fu aperta al culto nell’anno 202 della nostra era. Il Mitreo consisteva in una sala divisa secondo l’uso in un corridoio centrale e in due banchine laterali. I muri laterali erano ornati da affreschi piuttosto maldestri rappresentanti degli iniziati di alto rango (dei Leoni per la maggior parte). Oltre l’entrata, dove si aprivano le cappelle laterali, due nicchie erano destinate ad accogliere le effigi dei portatori di torce. Mithra era rappresentato nell’atto di uccidere il toro nella grande nicchia del muro di fondo. Sugli affreschi figurano i nomi di alcuni iniziati dell’epoca; si tratta a volte di Levantini che, dopo avere fatto fortuna con gli affari a Roma o a Ostia, si erano stabiliti sull’Aventino. Le cerimonie continuarono ad avere luogo in questo edificio relativamente piccolo per circa vent’anni intorno al 220 d.C.; forse sotto l’influenza del nuovo Padre della comunità, l’edificio fu ingrandito e migliorato: si chiamarono i migliori artisti, le vecchie pitture furono ricoperte da uno strato di stucco sul quale furono dipinti nuovi affreschi molto più belli; i motivi pittorici non cambiarono molto in generale e si rifece la processione dei Leoni che recano le loro offerte. Nondimeno alcuni elementi furono omessi e sostituiti da altri; i versetti più interessanti che comparivano sulle vecchie pitture furono omessi; la processione dei sette gradi degli iniziati fu mantenuta, così come, salvo qualche variante, la processione dei notabili. Un magnifico quadro rappresentante il pasto di Sole e Mithra fu aggiunto sul muro di sinistra. Mentre gli affreschi del 200 d.C. danno nettamente l’impressione di essere l’opera di più artisti, sembra che questa nuova decorazione sia stata affidata a un solo artista.

Altra innovazione: un’immagine in stucco di Oceano-Cielo che assiste, come in molte altre rappresentazioni di Mithra (vedi p. 119), al prodigio dell’uccisione del toro (vedi p. 47); il dio ha l’aria solenne; una lunga capigliatura riccia circonda la sua testa dorata coperta da un ‘velum’, è avvolto dalla testa ai piedi da un abito blu scuro. Il gruppo di Mithra fu parimenti arricchito, con l’aggiunta di Serapide (un dio egiziano della fertilità), Venere, Marte e, forse, altre divinità planetarie. Si nota che due artisti hanno lavorato a queste opere il cui livello artistico è incontestabilmente dei più elevati, trattando ognuno il disegno degli occhi in maniera personale. Furono aggiunte al santuario tre cappelle laterali destinate a riti d’iniziazione particolari, e s’ingrandì il Mitreo propriamente detto con l’incorporazione dell’anticamera. Nelle epoche seguenti, sino alla fine del IV secolo d.C., altre modifiche furono apportate al Mitreo, consistendo tuttavia solo in qualche dettaglio in più; si rinnovarono soprattutto i colori che ricoprivano i gruppi in stucco, ma per il resto il Mitreo conservò la sua forma originaria sino a quando i cristiani assunsero il potere. Fra l’altro sembra che una parte della villa sia stata acquistata da una certa Prisca che era cristiana e che aprì la sua casa ai suoi correligionari per consentire loro di celebrare i misteri cristiani. I successivi rivali celebravano dunque i rispettivi riti separati solamente dallo spessore delle mura. I Mitraisti elevarono in fretta un muro vicino a una delle entrate del santuario per evitare sguardi indiscreti. Lo zelo religioso di Prisca che avrebbe ricevuto il battesimo dalle mani dello stesso San Pietro, fece dunque avvicinare il tempio di Cristo a quello del Mithra iraniano. Il cristianesimo conquistò anche il palazzo imperiale, come aveva fatto prima il culto di Mithra. Pieni di sicurezza aggressiva i correligionari di Santa Prisca s’introdussero in seguito nel santuario di Mithra e distrussero tutte le opere d’arte. Nel loro furore iconoclasta, i cristiani distrussero tutto quanto poteva ricondurre al culto esecrato dei loro avversari. Furono soprattutto le opere in stucco a soffrirne così come la rappresentazione del pasto di Sole e Mithra; quanto agli affreschi e ai quadri, furono distrutti a colpi d’ascia. I Mitraisti cercarono di salvare qualche cosa come testimoniato dalla scoperta negli scavi di sedici lampade intatte, ma non poterono più riaprire il santuario al culto. I cristiani riempiono i locali sacri con carrettate intere di scavi provenienti da un vicino cimitero, aggredirono in seguito il corpo della costruzione e demolirono la maggior parte di quest’antica villa romana. Sulle rovine del Mitreo edificarono trionfalmente

la basilica di Santa Prisca, che gli antichi scritti non mancano di paragonare a Santa Maria Maggiore. Ecco in breve due fatti che, scavando, si sono scoperti: gli scavi furono, in effetti, iniziati dai Padri Agostiniani negli anni 1934-37 con lo scopo di ottenere maggiori informazioni su Santa Prisca, e fu così che fu scoperto il Mitreo. Seguirono gli scavi dell’Istituto olandese tra il 1953 e il 1958. Si scoprirono le vestigia dell’intero santuario, si praticarono lavori di sterramento e si completò lo studio con la costruzione di un piccolo museo che accoglieva i reperti trovati durante gli scavi. Perché questo santuario occupa il primo posto nello studio del culto di Mithra? Anzitutto a causa della scoperta di opere d’arte in stucco particolarmente belle ed estremamente rare. A metà agosto del 1956 si scoprirono in un piccolo spazio, a fianco della nicchia di Mithra, le teste di Serapide, Venere, Marte e una seconda testa di Mithra. Causa la fragilità della materia, le sculture in stucco ci sono pervenute in quantità scarsa. Erano necessarie diverse settimane per sterrare le teste perché, ogni volta che un reperto era scoperto, si doveva attendere che seccasse prima di poterlo estrarre. In seguito, il restauratore di antichità G. Sansone ebbe ancora mesi di lavoro per assicurare la loro conservazione con l’iniezione di polvere di marmo. L’opera più straordinaria è senza dubbio l’impressionante testa del dio egiziano Serapide, recante in testa un cesto di frutti, allusione al fatto che è lui stesso a crearli (vedi Fig. 7). La testa in questione sarebbe stata copiata da un’opera dello scultore greco Bryaxis: si tratta di una raffigurazione imperiosa, con i capelli molto inanellati e la barba abbondante, dall’aspetto severo ma buono. Il dio era a volte identificato con Saturno, ma la presenza nel culto di Mithra del dio egiziano, sovente nominato con Iside, prova che, nella loro tendenza alla supremazia, i Mitraisti l’avevano assimilato alloro culto.

Figura 7 - Il dio egiziano Serapide

Lo stesso fenomeno si riscontra in un’iscrizione greca della stessa epoca, trovata nella grande sala del Mitreo delle terme di Caracalla. L’iscrizione votiva è dedicata a Zeus-Helios, il grande Serapide, il salvatore e donatore di ricchezza, il benevolo e invincibile Mithra. Ma ciò che suscita maggiore interesse nel santuario dell’Aventino sono i due strati di affreschi sovrapposti; essi sono per noi una fonte unica di notizie sulle cerimonie del culto il cui rituale fu particolarmente protetto dal segreto. Diamo dunque alcuni dettagli su questi affreschi: sul muro di sinistra del santuario appare una processione di Leoni, tutti recanti un’offerta; il corteo è preceduto da un personaggio la cui posa è nettamente ieratica; nella mano destra reca un cero acceso, nell’altra mano tiene un mazzo di ceri; è seguito da un altro personaggio che reca un gallo. Si riconoscono anche i Leoni Foebus (lo splendente) e Gelasio (l’ilare); il primo reca tra le mani un contenitore in vetro contenente un pane o un dolce. Il secondo reca un’anfora. Queste offerte sono particolarmente interessanti; esse permettono di stabilire

immediatamente un rapporto con il pasto di Sole e Mithra, che costituisce lo scopo del corteo. Si pensi al pane e al vino che sostituiscono la carne e il sangue del toro (vedi p. 117). Il quadro che deve datare approssimativamente intorno all’anno 220 d.C., ci conferma ciò che sapevamo già riguardo all’oggetto del culto e del corteo nel quale figuravano gli iniziati dei sette diversi gradi, ognuno recante gli attributi del proprio rango. (vedi p. 157). Il quadro della parete destra dipinge in maniera vivace i ‘suovetaurilia’, il sacrificio rituale del toro, dell’ariete e del maiale. Il corteo è condotto da un iniziato che, come gli altri, porta il titolo di Leone. Ci resta qualche frammento di questa parte del quadro. Un personaggio conduce un toro bianco seguito da lontano da un ‘Leone’ che reca un gallo bianco; egli è vestito di una corta tunica e porta una barba giro collo (vedi p. 90). Il pittore l’ha immortalato secondo lo stile degli impressionisti; è l’unico personaggio che guarda nella sala ma l’artista ha dipinto gli occhi in modo tale che il suo sguardo sfugge continuamente allo spettatore. Tuttavia un osservatore attento non potrà non notare l’atteggiamento di questo iniziato che reca devotamente ma fieramente la sua offerta nel corteo. Sono il Leone Niceforo (portatore di vittoria) e il Leone Teodoro (il dono divino) a formare il corteo, portando rispettivamente un’anfora e un maiale. Questa rappresentazione pittorica del sacrificio dei suovetaurilia è l’unica conosciuta datante al III secolo della nostra era e riferentesi al culto di Mithra. È evidentemente d’interesse capitale per lo studio del culto. Il toro è bianco come il magnifico animale rappresentato ucciso da Mithra nel Mitreo di Capua. La presenza del gallo è anch’essa rimarchevole, e figura parimenti sul bordo inferiore degli affreschi e su quelli della parete sinistra. Il gallo è ‘l’uccello di Persia’ il cui canto scaccia i demoni malefici; per i mazdeisti è un animale sacro ed è specificatamente dedicato ad Ahura-Mazda e a Mithra. Queste concezioni si sono diffuse in Occidente, e in numerosi siti archeologici i reperti hanno fornito prove a questo riguardo. Si può ricordare che Ippolito prevede di impartire il battesimo ‘hora gallicinii’ all’ora del canto del gallo. Si attribuiva a questo canto il potere di scacciare Satana. Ciò ci riporta ai graffiti menzionanti il fatto che l’iniziazione si faceva ‘prima luce’. Niceforo stesso porta un’anfora di vino, sempre che il recipiente non debba servire a raccogliere il sangue del toro. Il sacrificio dei suovetaurilia era un sacrificio di Stato e riteniamo di potere dimostrare attraverso la rappresentazione di questo sacrificio nel santuario situato vicino

a Santa Prisca che si trattava di un Mitreo di Stato. Il sacrificio non figura sul bordo inferiore, ci si è limitati a rappresentare sul muro di sinistra un giovane toro e un maiale peloso. Pare dunque che il sacrificio sia stato celebrato nel corso di una cerimonia speciale, probabilmente in onore del rinnovamento del santuario intorno all’anno 220 d.C. Conosciamo molti altri esempi di sacrifici di suovetaurilia celebrati in occasione di un rinnovamento o di un ampliamento di un tempio o di un luogo consacrato. Le poche linee di testo che figurano sotto gli affreschi dello strato inferiore sono di un interesse straordinario. Queste iscrizioni saranno oggetto di un capitolo separato (vedi p. 197), così come le stesse rappresentazioni saranno ancora oggetto del nostro studio nella sezione finale dedicata al Mitreo di Santa Prisca. Quanti reperti splendidi furono scoperti in questo Mitreo! Reperti che provano ancora come ricchi e poveri facessero qui i loro sacrifici al dio; confrontiamo per esempio le teste delle due statue del dio solare, statue la cui collocazione nel santuario rimane a noi sconosciuta (vedi p. 129); vediamo anzitutto la testa un po’ grezza del Sole; essa è stata lavorata nel piombo e si sono previste aperture al posto degli occhi, della bocca e dei sette raggi affinché la luce di una lampada posta dietro la testa potesse splendere da questi orifizi. L’altra testa tuttavia è un’opera d’arte autentica in mosaico di marmo. Diverse specie di marmi preziosi sono state intagliate in minuscoli lucidi frammenti; si trattava di un lavoro di più settimane, ma il risultato fu una magnifica testa del dio: le guance hanno un colore vermiglio e una capigliatura di riccioli fiammeggianti circonda la testa. I Mitraisti hanno dunque posseduto sull’Aventino un santuario unico nel suo genere, che ci ha permesso di apprendere molto in merito alle scoperte fatte a Ostia e a Londra. Il Mitreo vicino a Walbrook nella città di Londra Qualche anno fa il prof. G. Becatti ha dedicato una monografia ai Mitraei del porto di Ostia. Quest’opera fa parte di una serie di libri nei quali sono gradualmente messe in luce tutte le scoperte fatte in questa città all’imboccatura del Tevere. Per quanto la città, il cui periodo di prosperità si colloca principalmente tra il II e il III secolo d.C., non sia ancora del tutto studiata, noi conosciamo già sedici Mitrei, per una popolazione stimata intorno alle 50.000 anime. Anche se questo numero di Mitrei ci sembra

relativamente ristretto, esso è tuttavia enorme se paragonato ai santuari di altri dei venerati a Ostia a margine del culto ufficiale. Le divinità orientali erano d’altra parte particolarmente venerate nei porti dove risiedevano molti Levantini (vedi p. 143 e p. 148). Non è dunque strano che nel porto di Londra sia stato scoperto un Mitreo nel 1954. Ci ricordiamo ancora le folle che si accalcavano quotidianamente attorno agli scavi. Essi furono eseguiti nel pieno centro della City, vicino a Mansion House. Il tempio era situato vicino a Walbrook, in prossimità di un corso d’acqua, come era usanza per un Mitreo. Ma il terreno a Londra come a Ostia non permetteva di costruire sotto terra. Durante il breve periodo che fu concesso agli archeologi per esaminare le vestigia, essi poterono costatare che si trattava di un Mitreo relativamente piccolo (18 × 7 metri) rivolto verso Oriente. La suddivisione in corridoio centrale e cappelle laterali così come la piccola abside dava al Mitreo l’aspetto di una piccola basilica (vedi Fig. 8). Il Mitreo fu costruito intorno all’anno 150 della nostra era e rimase in uso sino al IV secolo d.C. Svariate modifiche vi furono apportate in questo periodo, particolarmente al corridoio centrale che si trovava al livello del suolo dell’abside. La scoperta di questo tempio non suscitò sorpresa; nel 1889 lo stesso luogo aveva già rivelato numerose vestigia

Figura 8- Ricostruzione dell’esterno del Mitreo a Londra

molto importanti del culto iranico. Tra queste vestigia si trova un rilievo rappresentante la messa a morte del toro sul quale si distingue Mithra

tauroctono circondato dal cerchio dei segni dello zodiaco; nei quattro angoli del rilievo si notano i busti dei due dei così come Sole e Luna nel loro carro. Questo rilievo era stato consacrato da Ulpio Silvano, veterano della seconda legione, che proveniva da Grange, nel sud della Francia. Gli scavi attuali hanno portato alla luce una mano destra, appartenente probabilmente al tauricida, ma le proporzioni sono tali che non può essere appartenuta a una statua eretta nel santuario in questione. Per tale motivo si suppone che sia esistito a Londra, nello stesso quartiere, un secondo Mitreo più grande. Si vede inoltre la parte superiore di Oceano. Tuttavia la testa non è coperta da un velo (velum) come a Santa Prisca. È molto probabile che, come nel Mitreo dell’Aventino, questa raffigurazione giacente sia stata disposta davanti al rilievo rappresentante la messa a morte del toro. La posizione delle ultime scoperte nel santuario non è conosciuta; elenchiamo: una magnifica testa di Mithra in marmo, una testa di dea (Atena o forse Roma), una statuetta rappresentante Mercurio seduto, un bassorilievo rappresentante un portatore di fiaccola. Un gruppo vivace rappresentante Bacco in compagnia di un Satiro, di una Menade e di Sileno che cavalca un asino, è veramente rimarchevole. Una rappresentazione del divino cavaliere di Tracia, sembra indicare che alcuni membri della comunità di Mithra fossero forse originari dei Balcani. Il più bel reperto che produssero gli scavi è sicuramente una testa di Serapide in marmo, scoperta il 4 ottobre 1957, appena due mesi dopo la scoperta del Serapide di Santa Prisca, il che dimostra che il caso in materia di scavi permette a volte di fare scoperte concomitanti e complementari. Il confronto fra le due teste, una in stucco, l’altra in marmo, fornisce risultati estremamente interessanti; la stessa severità, lo stesso portamento solenne, la medesima bontà di espressione in ambedue i casi. Un inventario completo di tutte le scoperte fatte al Mitreo di Londra ci permette di costatare che il principale interesse di questo Mitreo risiede nel luogo dove fu scoperto. Si tratta, infatti, dell’unico che sia stato scoperto nel sud dell’Inghilterra. Gli altri templi di Mithra sono situati lungo linee fortificate a nord, dove si erano stabiliti gli accampamenti romani. Scoperte magnifiche in un santuario a Merida in Spagna Merida (Emerita Augusta) è una splendida città romana in Lusitania che

acquisì la sua fama alla nostra epoca per le diverse campagne di scavi che vi si condussero. Vi si può ammirare un teatro romano, un circo, un anfiteatro e alcuni templi. Nel 1902 e nel 1913 si scoprirono alcune belle sculture delle quali niente o quasi niente è purtroppo conosciuto. Se i pezzi scoperti sono descritti in questa sede, è a causa della loro stretta parentela con le scoperte di Londra e di Santa Prisca a Roma. Una iscrizione datata ci rende noto che nel 155 d.C. un certo Gaio Accio Hedicro era il Padre della comunità. Consacrò egli stesso due statue: prima una statua in marmo di Mercurio seduto su una roccia, parzialmente coperto da un velo; una lira che reca l’iscrizione è appoggiata contro la roccia; dopo, una statua di Oceano giacente, appoggiato su un delfino; la testa e le braccia sono purtroppo perdute, ma le tracce del corno dell’abbondanza sono nettamente visibili, lo zoccolo è ornato di linee ondulate che rappresentano l’acqua. Al tempo in cui Hedicro era ‘Pater’ di questo Mitreo, un certo Caio Curio Avita consacrò una statua molto originale del giovane Mithra, opera dello scultore Demetrio che la firmò in caratteri greci. La statua rappresenta un uomo in piedi, vestito di una tunica drappeggiata sulla quale ricade il pesante drappeggio di un mantello, vicino al piede destro della statua si nota un delfino. Nello stesso stile, esiste un secondo capolavoro del quale ignoriamo tuttavia se sia della mano di Demetrio; si tratta di un giovane dio in piedi, nudo, vicino a una corta clamide; a fianco del suo piede destro un ciocco d’albero e un leone seduto. È probabile che si trattasse di un’immagine di Mithra. Un’iscrizione che figura su un altare di marmo menziona come parimenti nel 155 d.C. un certo Marco Valeria Secondo, furiere della settima legione, consacrò un altare alla nascita del Mithra invincibile. Il nome attuale del sito del Mitreo è Plaza de Toros, ‘la piazza dei tori’, ma non si è trovata alcune rappresentazione del tauricida tra i reperti dissotterrati. Il tempio era in ogni caso ricchissimo di statue; sono state trovate due statue di Venere, una di Esculapio, una di Nettuno, due di donne in piedi vestite con una lunga tunica e infine una testa di Serapide dai tratti più scialbi rispetto a quelli delle teste trovate a Santa Prisca e a Londra. Due statue del dio del Tempo concludono la serie; una dà del dio l’usuale rappresentazione terrificante, l’altra è una raffigurazione piuttosto idealizzata; per tale motivo le si attribuiscono allo scultore greco Demetrio. Il dio è rappresentato giovane, con la figura umana e portante sul petto una maschera leonina, il che fa immediatamente pensare all’altra statua del giovane uomo trovata nel medesimo Mitreo con un leone

al suo fianco. Ritorneremo su questa statua assolutamente particolare (vedi p. 180) nel capitolo dedicato al dio del tempo (vedi p. 134). Si conosce un solo rilievo proveniente da questo tempio, che rappresenta una scena poco abituale: si tratta di tre personaggi sdraiati davanti a una tavola carica di vettovaglie (forse pane e carne); al loro fianco sono rappresentate figure vestite di un lungo mantello. Da sinistra si vede avvicinarsi un personaggio che reca una testa di toro su un vassoio. Ciò prova ancora che nel corso di un pasto sacro si consumava la carne del toro e non è un caso che la nascita di Mithra figurasse sul medesimo rilievo; è lui, in effetti, che ucciderà il toro e renderà possibile il pasto sacro. Templi di Mithra a Deutsch-Altenburg vicino a Vienna Deutsch-Altenburg è una località situata a est di Vienna (Vindobona) vicino alla frontiera ungherese. Ai nostri giorni questa piccola città è rinomata solo per le sue fonti termali. Tuttavia nel I secolo d.C. i Romani vi avevano edificato una grande città di nome Carnuntum. La città era situata su due vie di comunicazione molto importanti, il Danubio e la strada dell’ambra che collegava il Baltico alla penisola italiana. Carnuntum divenne la capitale della provincia di Pannonia e un punto di concentrazione di truppe destinate a respingere le minacce d’invasione da parte dei Marcomanni e dei Quadi. Marco Aurelio respinse le tribù ostili al nord del Danubio dopo violenti combattimenti e fu nel corso di questa campagna che morì a Vienna nel 180 d.C. Nel 193 d.C. Settimio Severo fu proclamato imperatore a Carnuntum e a lui si deve il nome di Colonia dato alla città costruita vicino all’accampamento fortificato. Nel 308 d.C. Diocleziano scelse Carnuntum per tenervi una conferenza con i suoi successori. Il vecchio imperatore aveva appena abdicato e viveva tranquillamente nel suo palazzo di Spalato in Jugoslavia. Tuttavia non lo si lasciò in pace, e le rivalità tra Augusto e Cesare non poterono essere frenate malgrado il suo intervento. Assistevano alla conferenza, che ebbe luogo in novembre: Galerio Massimiano, Augusto d’Oriente, Valeria Liciniano Licinio, chiamato Augusto di Occidente e Massimiano Herculio, che aveva anch’esso abdicato, ma approfittava dell’occasione per risorgere sulla scena politica. Nel corso di questa conferenza Diocleziano ottenne che Massimiano abbandonasse una seconda volta le sue pretese, il che permise ai due Augusti di amministrare l’Impero con l’assistenza del loro rispettivo Cesare. Pieni di riconoscenza, essi

consacrarono al dio un grande altare che si trova attualmente nell’interessante museo di Carnuntum. Il testo scritto sull’altare dice che per riconoscenza essi si rivolgono a Mithra l’Invincibile, dio del sole, propizio al loro potere, aggiungendo che essi hanno restaurato il santuario del dio. L’altare in questione ornava già il Mitreo prima della venuta degli imperatori; dopo la conferenza ci si affrettò a cancellare l’iscrizione originale e a incidere quella citata sopra. Il fatto che i sovrani redigessero questa dedica per Mithra e non per un dio qualsiasi non costituisce unicamente una concessione ai costumi di Carnuntum, città guarnigione dove alloggiava di stanza la quindicesima legione proveniente dal Levante; bensì prova anche che il culto del ‘Sol invictus’ legato al culto dell’imperatore occupava la centralità del culto ufficiale (Swoboda, Carnuntum, 64). Scavi intrapresi nel 1894, nel quartiere ovest della città, scoprirono questo Mitreo (vedi Fig. 9).

Figura 9 - Ricostruzione del Mitreo di Deutsch-Altenburg (Austria)

Si tratta del più importante fra i tre santuari di Mithra scoperti a oggi a Deutsch-Altenburg. Il tempio misura 23 metri di lunghezza per una larghezza di 8,50 metri. Il bassorilievo principale, del quale purtroppo furono ritrovati solo frammenti, doveva misurare quasi quattro metri di larghezza per tre di altezza. E opera di Tito Flavio Viator; il berretto frigio del tauricida mostra orifizi destinati ad accogliere dei raggi (vedi Fig. 10). Nel Mitreo era eretto un secondo altare di concezione assolutamente originale: è ornato da rappresentazioni delle quattro divinità del vento e delle quattro stagioni, identificabili dai loro attributi e dalle ali. Inoltre il dio Cielo, il dio del cielo che presiede ai venti e alle stagioni (vedi p. 184) figura rappresentato tra la Primavera e l’Estate. L’altare fu eretto a cura di un

cittadino romano di nome Magnus, che era di origine straniera come indicato dal suo soprannome, Héracla.

Figura 10 - Ricostruzione del rilievo di Mithra nel Mitreo di Deutsch-Altenburg (Austria)

Le effigi di Cautes e di Cautopates, erette all’entrata delle cappelle laterali, sono presenti in questo santuario (cfr. Santa Prisca); inoltre vi si trova una bellissima immagine del giovane Mithra che nasce da una pietra conica posta vicino a un grande albero. Una conchiglia in gres posta su di uno zoccolo serviva da vasca d’acqua. Ricordiamo infine un leone sdraiato che tiene tra le zampe una testa di toro. Conosciamo pochi dettagli degli altri Mithra di Carnuntum; si sa che ne esisteva uno, vicino al tempio di Giove Dolichenus siriano, un altro si trovava sulla riva nord del Danubio in prossimità di una cava. In quest’ultimo si trovavano inoltre l’effigia del tauricida, portatori di torce, un’illustrazione della nascita di Mithra e numerosi altari votivi. Il santuario fu utilizzato per molto tempo, infatti, una iscrizione riferisce del restauro dello spelaeum, la grotta che era crollata per vetustà. La nascita del dio è stata, in questo santuario, oggetto di un’attenzione del tutto particolare poiché il sacerdote Publio Elio Nigrino vi consacrò un altare alla ‘roccia creatrice’ mentre uno schiavo dal nome Adlecto vi consacrò un altare a Mithra ‘creatore della luce’. Un altare ornato da rappresentazioni di Cautes e Cautopates fu consacrato da Tito Flavio Verecondo, centurione della quattordicesima legione sdoppiata. Questo Tito Flavio Verecondo è originario di Savaria

(Szombathely, in Ungheria), città situata a sud di Carnuntum sulla grande strada per la Yugoslavia. Abbiamo menzionato la presenza nel grande Mitreo di un leone che tiene tra le zampe anteriori una testa di toro; questo motivo si ritrova a più riprese a Carnuntum tra gli altri presenti nel santuario. Ma qui la testa del leone è forata da un’apertura circolare. È interessante avvicinare questo dettaglio di storia al martirio dei ‘Quattro Coronati’ ai quali è stata dedicata a Roma una chiesa magnifica. Questa chiesa è dedicata a quattro soldati romani che rifiutarono di adorare Esculapio. Ma un’altra tradizione riferisce che i Coronati sarebbero stati degli scultori nativi della Pannonia, di cui Carnuntum era la capitale, e che furono martirizzati per il loro rifiuto assoluto di erigere una statua a Esculapio. La loro biografia menziona che gli scultori di Pannonia scolpivano statue di ‘leones fundentes aquam’, leoni dalle cui fauci zampilla l’acqua. Il leone di pietra era dunque probabilmente vicino a una fontana o a una sorgente. Ciò sembra riferirsi alla stessa simbologia di numerose rappresentazioni di Mithra su bassorilievi, nei quali si vede un leone minaccioso di fronte a un vaso (vedi Fig. 11). Gli elementi fuoco e acqua sono in lotta costante e vedremo che gli iniziati al grado di leone, simbolo del fuoco, si purificavano non con l’acqua ma con il miele; il carattere feroce del leone si manifesta dal fatto che il leone tiene una testa di toro tra le zampe. Ciò spiega il ruolo importante che questo gruppo rivestì nella simbologia funeraria, come dimostrato da F. de Ruyt.

Figura 11 - Frammento del bassorilievo mostrante un leone in atteggiamento minaccioso vicino a un vaso

Un santuario di Mithra a Sarmizegetusa in Romania

È soprattutto grazie a C. Daicoviciu, professore all’Università di Cluj, che gli abitanti della Romania da prima dell’epoca romana ci sono meglio noti, ed è impossibile non provare gratitudine per gli archeologi quando si sia avuta l’occasione di contemplare le potenti cittadelle dei Daci nelle montagne della Transilvania. Ma la nostra ammirazione ancora maggiore va a Traiano che, in due pesanti campagne sconfisse queste fortezze sparpagliate su decine di monti e forzò Decebalo, il re dei Daci, a inchinarsi di fronte a lui. La colonna traiana a Roma è il più grandioso monumento in onore di questo grande stratega, che riorganizzò la provincia Dacia. Nella valle dell’Hateg, a ovest delle fortificazioni dace, fondò la colonia Ulpia Tr aiana Augusta Dacica, alla quale Adriano darà più tardi il nome di Sarmizegetusa ispirata a quella dell’antica capitale dei Daci. L’imperatore obbediva a un vecchio costume politico romano. Per esempio, nel terzo secolo a.C., la città dei Falerii veteres (Civita Castellana) posta su un rilievo era stata sostituita dalla città dei Falerii novi posta in pianura. La città di Sarmizegetusa fu circondata da muraglie e conobbe una grande prosperità, come dimostrato ancora dal Foro, dall’Anfiteatro e da altri edifici importanti. All’inizio del III secolo le si diede anche il titolo di metropoli, città madre. Questo titolo appare su una colonna di marmo che due consiglieri municipali fecero erigere in un Mitreo. Questo santuario, scoperto e portato alla luce negli anni 1881-1883, è il più grande tempio di Mithra al mondo. Misura 26 metri di lunghezza e 12 metri di larghezza, e consiste in un’unica sala a volta che presenta l’usuale suddivisione in corridoio centrale e banchine laterali; non esistono altri locali annessi. Nessun Mitreo possiede le ricchezze che sono state trovate in questo tempio. Decine di bassorilievi erano agganciate ai muri ed erano stati eretti numerosi altari votivi che ci forniscono informazioni sui membri di questa comunità. Un certo Protas, che sostituiva l’intendente imperiale Ampliatus, consacra alla salute del suo padrone una colonna di marmo sovrastata da una testa di toro, da un toro al galoppo e da un uccello che serra nel proprio becco una foglia. Il nome Protas denota un’origine levantina: per tale motivo Protas qualifica il suo dio come Nabarze, parola persiana che significa “invincibile o invitto”. Un affrancato imperiale, Carpione, svolge funzione di tabularius, contabile; Valeriano è Augustalis membro del collegio presbiteriale del tempio destinato al culto imperiale· (fu dissotterrata infatti a Sarmizegetusa una Aedes Augustalium); Longus ricopre l’incarico di salarius, termine che non esige alcun chiarimento. Un certo Synethus era assistente del tabularius; Severo è un

affrancato imperiale. Tutti erano fraternamente uniti in questa comunità posta ai limiti dell’Impero romano. E ancora interessante notare che un augur o augure ha anch’egli eretto nel santuario un rilievo rappresentante la messa a morte del toro; Cornelius

Figura 12 - Mithra che uccide il toro

Cornelianus era un altro membro della comunità; sappiamo che fu defensor lecticariorum, protettore di coloro i quali recavano le portantine. Su un piccolo altare, già scoperto nel 1856, troviamo un’iscrizione votiva ‘Soli invicto Mithrae aniceto’. Il donatore Hermadio è evidentemente un Greco o un Levantino, perché insieme al vocabolo invictus utilizza il termine greco anicetus; i due vocaboli significano ‘invincibile’. A Caransebes, l’antica Tibiscum, località situata a sud di Sarmizegetusa sul Danubio, si trova parimenti un’iscrizione dedicata a Mithra; è della mano di un certo Hermadio, originario della Dacia. Costui potrebbe essere lo stesso Lucio Flavio Hermadio che commissionò a Roma una magnifica rappresentazione di Mithra che nasce da una roccia. Sullo zoccolo di quest’opera (attualmente a Dublino) si trova il nome di Hermadio, e al disopra di esso una corona di foglie verdi circonda la parola nama che significa ‘salute’ (vedi p. 203). Questi numerosi rilievi dei quali a volte non conosciamo che frammenti sono tipici della regione danubiana. La loro forma è a volte trapezoidale; a

volte bombata ed esiste anche qualche esempio di rilievo circolare. Questi rilievi sono ordinariamente in marmo grigio o bluastro proveniente dalla contrada. Essi riportano sempre con molti dettagli le avventure di Mithra; a questo scopo il rilievo è suddiviso in tre parti. La scena principale della morte del toro si trova in mezzo, al di sopra o al di sotto sono riportate altre scene. Alcuni rilievi sono traforati ed uno di questi, recante ancora tracce di pigmento rosso, attira la nostra attenzione (vedi Fig. 12). Vi si nota Mithra che uccide un toro, il suo corpo è ornato da un largo nastro, come se si trattasse di un animale sacrificale. Un serpente s’insinua tra il dio e la vittima e tende la testa verso la ferita. Portatori di fiaccole si trovano da una parte e dall’altra, ma è la figura di Cautopates, dietro il toro, a essere la più interessante, poiché tiene la coda del toro con la mano sinistra. Questa coda è la sede di un potere magico e il portatore di fiaccola desidera partecipare a questo potere. Si nota anche la testa del leone, che a volte è rappresentata su altri rilievi sopra un’anfora. Dietro Cautopates vediamo Mithra che reca il toro; dietro Cautes, che da destra tende in alto la torcia accesa, distinguiamo la nascita di Mithra che sorge dalla roccia. Sotto la scena della nascita del dio si trova un personaggio vestito all’orientale che si pone la mano destra sulla spalla sinistra. Il bordo della caverna è un archetto frondoso, allusione all’abbondanza vegetale provocata dalla morte del toro. Il bordo è decorato dai busti di Sole e Luna e dal corvo, messaggero di Mithra. Furono necessari molti artisti per esprimere in modo artistico la devozione dei membri di questa comunità.

CAPITOLO VIII La più gloriosa impresa di Mithra

Il muro di fondo di ogni Mitreo reca una rappresentazione dell’impresa più importante che Mithra abbia compiuto a beneficio dell’umanità; si tratta della messa a morte del toro. Spesso questa rappresentazione si trova in un’abside a questo scopo dedicata nel muro di fondo, in cui l’illuminazione è assicurata da lampade ad olio. Spesso il tempio era orientato verso Levante per permettere ai primi raggi del sole di penetrarvi da una finestra o da un’apertura praticata nella volta, colpendo direttamente l’effigie del dio. Di tutte le imprese che il dio abbia compiuto, l’uccisione del toro è il soggetto più rappresentato; la sua presenza è una regola praticamente in tutti i Mitrei. Nonostante l’esistenza di varianti, il motivo è sempre riprodotto seguendo uno schema uniforme: il dio, forte come Ercole e con tutta l’agilità della giovinezza, spinge l’animale a terra con un movimento del ginocchio, gli tira indietro la testa prendendolo per un corno o alle narici e gli trafigge il cuore con un pugnale. L’uccisione ha luogo in una grotta e si vede spirare il toro in un ultimo spasmo disperato. A Santa Prisca, la nicchia nella quale figura il rilievo ha un rivestimento di pietra pomice per creare l’effetto ottico di una caverna (vedi p. 47); i rilievi stessi presentano spesso una sommità ad arco. Gli artisti ottennero abilmente l’effetto di una grotta creando attorno al rilievo una cornice vegetale. La grotta (spelaeum) simboleggia in fatti la volta celeste e, pertanto, il cosmo, e sul suo bordo si vedranno dunque le immagini di Sole e Luna e tra esse le rappresentazioni delle divinità dei diversi pianeti. La rappresentazione di questi ultimi si fa anche, simbolicamente, con una fila di sette altari e di sette gladi alternati ai quali si aggiungono a volte degli alberi (Sarmizegetusa). Il decoro vegetale, a volte ridotto a un semplice bordo decorato, si unisce all’effetto meraviglioso dell’uccisione del toro. Mentre esso si contorce nello spasmo dell’agonia, il sangue che cola bagna e nutre il grano; dalla coda dell’animale, sede di virtù magiche, scaturiscono parimenti delle spighe. Un cane e un serpente alzano la testa verso la ferita e cercano di leccare il sangue che ne cola; uno scorpione serra tra le sue pinze gli organi genitali dell’animale morente. Qual è dunque il significato di tutta questa scena? La letteratura antica ci informa solo in merito a un unico passaggio, tutto il resto

deve essere dedotto dai reperti archeologici e dai monumenti. La grande lacuna tra la conoscenza per mezzo di documenti che noi abbiamo del culto iraniano e quella che noi abbiamo della personalità del dio a Roma ha condotto a numerosi errori d’interpretazione. Tra le interpretazioni che ci furono date, spesso fantasie, la più plausibile è quella di Franz Cumont e ogni tentativo di rifiuto si scontra con ostacoli insormontabili. È chiaro in ogni caso, e indiscutibile, che l’atto di Mithra deve essere visto come salutare e creatore; la morte del toro genera una vita nuova. Ed eccoci nel cuore stesso di tutti i misteri antichi; tutti s’incentrano attorno ai problemi cruciali della vita, della morte e della resurrezione così come la natura ci mostra, di anno in anno, in un ciclo che si ripete sempre. Il seme del grano è piantato in seno alla terra affinché presto sia tagliata la spiga dorata. Kore, Attis, Adone, tutti muoiono e resuscitano. Il toro personifica dunque Mithra stesso che si uccide per resuscitare? Una tale ipotesi non può essere esclusa, ma i dati di cui disponiamo non ci permettono di affermarlo. Esiste certamente una forma d’identità tra il mito dell’uccisione del toro e alcuni passaggi dei testi iraniani. In effetti, il Bundahisn e il libro apocalittico Ayātkār i Zāmāspik riferiscono che anche prima di creare il primo superuomo Gayōmart, AhuraMazda, la divinità suprema del Bene, creò un toro. Le forze del Male, desiderose di corrompere la creazione, s’impadronirono del toro, ma dal midollo spinale di quest’ultimo nacquero ‘molteplici varietà di specie’ come cita il poema apocalittico; lo stesso Bundahisn descrive più in dettaglio questa forma di generazione ed enumera 55 specie di graminacee e 12 specie di piante medicinali. Per quali strade si sia arrivati dal malvagio Ahriman a Mithra, purtroppo ci sfugge. Un successivo sviluppo del racconto della creazione avrà probabilmente messo l’accento sulle conseguenze benefiche della morte del toro. Mithra ha trasformato il male che Ahriman voleva perpetrare in un atto benefico per l’umanità e si è di fatto proposto come Salvatore (σωτήρ). È probabile che una traccia di questo mito, che voleva che Ahriman uccidesse un toro senza macchia, si sia mantenuta nella rappresentazione dello scorpione che serra tra le pinze i testicoli del toro. Nel Bundahisn citato sopra, lo scorpione è anche visto come un animale malefico, così come la lucertola, il serpente e il rospo. Questi animali sono gli emissari di Ahriman e si compie una buona azione uccidendoli. Lo scorpione, in particolare, tenta di

corrompere alla fonte lo sperma fecondo che, a credere ad altri scritti persiani, deve essere accompagnato verso la luna dove, purificato, creerà molteplici specie di animali. Ma quale ruolo giocano il cane e il serpente in questo dramma? Abbiamo appena visto che il serpente era considerato un animale malefico dai Persiani. Il cane, al contrario, a credere a Erodoto (I, 140) era talmente venerato da loro che, con l’uomo, era l’unico essere vivente a non potere essere ucciso dai Magi. Peraltro noi vediamo il cane e il serpente leccare insieme il sangue dell’animale e niente sembra mostrare che ci sia lotta o disaccordo tra loro. Come ci mostrano altre immagini, il cane è fedele compagno di caccia di Mithra ed è escluso che voglia nuocere all’atto creatore di Mithra macchiandosi del sangue del toro. Ne leccherà piuttosto il sangue per assimilarne le virtù benefiche. Lo stesso avviene per il serpente; non è la creatura pericolosa che appartiene ad Ahriman. In altri contesti compare sui monumenti di Mithra nell’accezione greca di simbolo ctonio. Leccando il sangue del toro, il serpente, cioè la terra, manifesta il suo desiderio di essere fecondato per il maggior bene dell’umanità. La personalità di Mithra nella scena dell’uccisione è dunque ben definita. Egli è il creatore che fa rinascere la natura, il salvatore che, con il suo intervento di ordine cosmico, assicura la prosperità e, come vedremo, il bene spirituale dei mortali. Non vi è dunque da stupirsi che, tra tutte le sue imprese, i suoi zelatori riservino un posto d’onore all’uccisione del toro e lo implorino di preferenza nella sua qualità di tauricida.

CAPITOLO IX L’entourage del Dio

In alcune rappresentazioni si vede a volte dietro Mithra un corvo appollaiato sul bordo a volta della grotta. Nella maggior parte degli altri casi l’uccello è rappresentato mentre vola verso il dio. Porta un messaggio al quale il dio presta orecchio. In certe rappresentazioni si vede chiaramente il dio mentre leva la testa verso di lui. Ricordiamo che nella letteratura classica il corvo (κόραξ) è il messaggero (κήρυξ) di Apollo e in questo caso quello del dio apollineo rappresentato nell’angolo superiore sinistro dei rilievi. Nei misteri l’appellativo di ‘corvo’ ricorda la messa a morte del toro; l’iniziato di questo grado porta una maschera di corvo (vedi Fig. 37 e p. 161). Svolge il ruolo di messaggero, come il corvo con Mithra. Il corvo, in effetti, fu incaricato dal Sole di trasmettere a Mithra l’ordine di uccidere il toro, e sui rilievi si vede Mithra eseguire l’ordine con un’espressione di dolore sul viso; dovere uccidere il magnifico toro sembra pesargli, ma esegue la missione come un soldato, sapendo che da questa morte sorgerà una nuova vita. In diverse rappresentazioni si vede un raggio, scaturente dal fascio di luce che copre la testa di Sole (έπτάκτις = a sette raggi) scintillare verso Mithra, stabilendo così tra lui e il suo mandante un legame diretto. E tuttavia, per quanto strano possa sembrare, dallo studio dei rapporti tra Sole e Mithra emerge in definitiva che Sole è subordinato a Mithra (vedi p. 108). D’altra parte Mithra stesso è considerato Sol Invictus. Non potrebbe Sole stesso essere un intermediario che, trasmettendo gli ordini per il toro, trasmette in realtà le volontà di Ahura-Mazda o di Zeus - Giove? Oppure Sole fu in origine superiore a Mithra e solo più tardi saranno riuniti in un’unica e potente personalità solare, quando Mithra e Sole saliranno insieme sul carro solare? Il problema è molto difficile e a tutt’oggi non è stata data alcuna soluzione chiara. Allo stesso titolo di Sole, la divinità della Luna partecipa all’atto creatore. La si rappresenta a volte nell’atto di sparire da un lato sul suo carro tirato da buoi, mentre dall’altro sorge Sole che conduce il suo tiro di destrieri ardenti, ma più spesso essa è rappresentata in un busto, adorna di un diadema, mentre dietro di lei sorge la mezzaluna. Da lei emana la forza purificatrice che essa dirige sul seme del toro, ed è lei che di notte esercita un’influenza benefica sul regno vegetale. Nella scena dell’uccisione del toro compaiono quasi sempre due personaggi abbigliati in foggia persiana come lo

stesso Mithra; si trovano da una parte e dall’altra del toro, le gambe incrociate e il loro atteggiamento indifferente dà l’impressione che non partecipino in alcun modo ai fatti; a volte uno di essi tiene la coda del toro, sia per rendersi partecipe del suo potere magico, sia per accelerare la crescita della spiga che si vede germogliare. In alcune rappresentazioni essi hanno l’aspetto di pastori e tengono in mano il bastone del pastore; i pastori, infatti, furono testimoni della nascita di Mithra (vedi Fig. 13); non sono pertanto assolutamente consimili di Attis. Uno reca una torcia accesa verso l’alto, l’altro una torcia abbassata verso terra, mettendo in tal modo in rilievo il sorgere e il tramontare di Sole e di Luna, la luce nascente e la luce morente o, altrimenti detto, la vita e la morte.

Chi porta la fiaccola destra è posto sotto l’effige di Luna mentre l’altro sotto quella di Sole. I loro nomi sono Cautes che simboleggia il sorgere del sole e dell’aurora, e Cautopates, che simboleggia il tramonto del sole e il crepuscolo. La spiegazione etimologica di questi due nomi è ancora da fare, ma il valore simbolico dei due personaggi, come si può dedurre dai monumenti, non lascia alcun dubbio. A volte ai piedi di Cautes si vede un gallo che canta; questo gallo, che i Greci chiamavano ‘uccello persiano’

scaccia i demoni malefici con il suo canto. Cautopates è rappresentato seduto nell’atto di tenere la testa appoggiata sulla mano e in un’attitudine che denota tristezza, la malinconia che cancella l’atteggiamento gioioso (hilaris) di Cautes. Lo stesso contrasto si ritrova simboleggiato dal colore delle nicchie dei due personaggi nel Mitreo di Santa Prisca. La nicchia di Cautes e del suo gallo è dipinta in arancione chiaro; quella di Cautopates è blu. Alcune iscrizioni danno loro la qualifica di dei (deus) e a buon diritto, infatti sappiamo dagli scritti dello pseudo Dionigi l’Areopagita (IV secolo d.C.) che i due portatori di fiaccole formavano con Mithra una trinità (Μάγοι τα μνημοσύνα τοῦ τριπλασίου Μίϑρου τελοῦσιν). Cautes rappresenta dunque il sole del mattino (oriens), Mithra al centro quello del mezzogiorno (μεσίτης), e Cautopates il tramonto (occidens). Se ne può dunque dedurre che Mithra era probabilmente venerato soprattutto a mezzogiorno; sappiamo in ogni modo che gli era particolarmente consacrato il sedicesimo giorno del mese. Il globo solare nascente, splendente a mezzogiorno e calante la sera personifica dunque Mithra, e l’azione e il suo potere sono dunque quotidianamente tangibili. L’influenza delle teorie astronomiche nella dottrina del Mitraismo è tale che si presta parimenti attenzione alla posizione del sole in rapporto alle costellazioni (vedi p. 175). Così si è rappresentato Cautes con una testa di toro tra le braccia quando il sole è nella costellazione del toro, che corrisponde alla venuta della primavera. La rappresentazione di uno scorpione vicino a Cautopates, simboleggia l’entrata del sole nella costellazione che reca il nome dell’animale e l’avvento dell’autunno. In un caso isolato le due divinità sono rappresentate vicino a un pino, l’albero sempre verde (Roma). Tre cipressi, alberi consacrati al sole, suggeriscono la trinità di Mithra (Pettau). Si ritrova la stessa idea in una rappresentazione di un albero a tre braccia ciascuna delle quali reca una testa con un berretto frigio (Dieburg, vedi Fig. 15). Queste ultime rappresentazioni sono legate a quelle dove Mithra solo, si nasconde tra le braccia di un albero (Dieburg-Heddernheim, vedi Fig. 16). Un’allusione alla stessa trinità si ritrova a Santa Prisca, dove notiamo la presenza di un grande triangolo di marmo il cui centro

forato contiene un globo. Riassumendo, si può concludere che l’importanza attribuita ai personaggi dei due portatori di fiaccola era tale che la loro immagine non manca in alcun santuario.

Figura 17- Mithra alla sua nascita, con in mano il globo

CAPITOLO X La leggenda di Mithra, la nascita miracolosa

Il 25 dicembre è giorno di festa al Mitreo; vi si celebrano l’avvento della nuova luce e la nascita del dio. Nascita miracolosa oltre ogni limite poiché il dio, spinto da una forza magica interiore, sorge da una roccia. È completamente nudo, ma porta il berretto frigio. Tiene nella mano levata il pugnale e la torcia. Egli è il creatore della luce (genitor luminis) nato dalla roccia (deus genitor rupe natus). Per la sua nascita (natura dei) è sassigeno (saxigenus) e proveniente da una roccia partoriente (petra genitrix). Appena nato è già pronto per le più grandi imprese: la spada gli servirà per uccidere il toro e l’arco e la faretra sono ai suoi fianchi, pronti per la caccia o per il prodigio dell’acqua. Come la grotta di Mithra simboleggiava il firmamento, la roccia rappresenta il cielo da cui la luce brillerà sulla terra. Capita, come a Doura, che si rappresentino delle fiamme che escono dalla roccia, a volte anche dal berretto; capita che a volte questo sia seminato di stelle, il che indica che, come nella caverna, lo si considerava come un simbolo del firmamento. Nel X yasht, canto dell’Avesta consacrato a Mithra, vediamo il dio persiano brillare in un alone dorato in cima allo Hara běrězaiti, l’Elbourz attuale, da dove si contempla l’insieme delle terre dei popoli ariani. La teoria secondo la quale Mithra sarebbe nato da un’unione tra la madre Terra e Ahura-Mazda non può essere sostenuta; Mithra rimane saxigenus e capita che lo si veda in alcune rappresentazioni, come in un monumento a Saint Aubin in Francia, uscire da una roccia a grandi passi. Poiché la roccia contiene la luce e il fuoco, il dio nato dalla roccia è ardente e luminoso. La credenza secondo la quale il dio della luce sarebbe nato da una roccia poggia su una tradizione molto antica ed è probabile che si colleghi alla scoperta stupefacente che fece l’uomo quando si accorse che fuoco e luce uscivano quando si sfregavano due pietre focaie l’una contro l’altra. La nascita di Mithra è un evento cosmico e già dalla sua nascita tiene il globo in una mano (vedi Fig. 17), mentre con l’altra tocca lo Zodiaco; egli governa l’universo intero (kosmokrator), il che spiega la rappresentazione delle divinità dei quattro venti e quella dei quattro elementi.

Figura 17 - Mithra alla sua nascita, con in mano il globo

In alcune rappresentazioni la nascita del dio avviene alla presenza di pastori (vedi Fig. 13), ma più sovente solo i due portatori di torce contemplano la scena con una stupefazione evidente. Un rilievo trovato a Pettau (Poetovio) li fa intervenire per dare assistenza (vedi Fig. 18). E come vediamo sul trono Ludovisi due giovani aiutanti vestite di abiti diafani aiutare Venere a uscire dalla schiuma dei flutti, così possiamo vedere sul rilievo in questione Cautes e Cautopates sollevare delicatamente il giovane Mithra per le braccia. La scena è sovrastata da un’immagine di Saturno che è incoronato da una Vittoria e vicino al dio si scorge un pugnale che egli consegnerà a Mithra. Il quadro di Doura ci mostra lo stesso dio che riposa su una nuvola o in cima a una montagna ricoperta da ciuffi di vegetazione; nella mano destra tiene un pugnale la cui punta è ricurva (harpè), la sua testa è sormontata da un ramo di ulivo che ha lo stesso valore simbolico della corona di lauro che gli dà la Vittoria nella rappresentazione trovata a Pettau. In un bassorilievo a Dieburg, vediamo Saturno seduto sulla roccia e immerso in una profonda meditazione; nella mano destra serra un coltello (vedi Fig. 42). Si distingue chiaramente l’harpè su un rilievo trovato a Nersae nell’Italia centrale; Saturno dà un pugnale a Mithra per uccidere il toro o meglio il dio riceve l’harpè nella sua qualità di mietitore divino. Tuttavia alcuni rilievi non rappresentano Saturno; è il dio dei flutti, Oceano o Nettuno che assiste alla nascita. È Nettuno, con i caratteristici corni

in fronte, che noi vediamo a fianco alla sua sposa Anfitrite, su un rilievo di Virunum (Austria). Rileviamo che alcune rappresentazioni della nascita erano collegate a una fonte; invece su un rilievo conservato a Firenze vediamo la presenza di Oceano. Al Mitreo II di Heddernheim, troviamo un monumento la cui facciata reca la scena della nascita di Mithra, mentre ai lati si trovano rispettivamente Oceano, Cautopates e Cielo in compagnia di Cautes, la loro

Mithra a Roma

Iniziato con il grado di Leone. Pittura del Mitreo situato sotto la Chiesa di Santa Prisca a Roma

Figura 18 - Pastori che prestano assistenza alla nascita di Mithra

identità è peraltro espressamente confermata da un’iscrizione sul monumento. Come spiegare la presenza di queste divinità? La risposta è che questi dei sono delle potenze elementari della creazione, che furono presenti alla nascita di Mithra, divinità creatrice (δημιουργός) e continueranno a prestargli i loro favori. Saturno porta d’altra parte il nome di Frugifer ed è Mithra che, con la morte del toro, darà anche lui i frutti della terra agli esseri umani. Ma Mithra farà anche zampillare l’acqua dalla roccia con l’aiuto del suo arco, creando così una fonte destinata a non prosciugarsi mai (fons perennis). Da qui la presenza di Saturno all’uccisione del toro come nel caso di Santa Prisca. È a Saturno piuttosto che a Nettuno che i sacerdoti di Mithra dedicarono la propria attenzione. In effetti, Saturno, chiamato anche Kronos, era identificato con il dio del tempo Cronos, lo Zurvan degli Iraniani, l’Aion dei Greci (vedi p. 134). Esistono rappresentazioni di Mithra come giovane dio del tempo che presiede allo scorrere dell’anno solare seguendo il calendario zodiacale. Insomma, Mithra è contemporaneamente Saturno e Oceano, padre della fecondità e creatore dell’acqua. Per tale motivo il capo della comunità, il Padre, rappresentante terrestre di Mithra, era posto sotto la protezione di Saturno (Santa Prisca). È parimenti per questa ragione che la falx figura tra

gli attributi del Padre e che l’iscrizione recante il suo nome è ornata dalla corona che Saturno ricevette dalle mani della Vittoria (vedi p. 173). La lotta di Mithra con il toro Le avventure di Mithra e del toro figurano quasi esclusivamente sui monumenti trovati nelle regioni del Reno e del Danubio; altrove, pare non si provi interesse per questi episodi o, almeno, non ci si è degnati di farne menzione. La messa a morte del toro costituisce, in effetti, il motivo principale del culto e coinvolge le imprese che la precedettero. Solo a Santa Prisca si trova, sulla parete destra della nicchia riservata al culto, una rappresentazione in stucco di Mithra, che serra la gola del toro fra le braccia. Un rilievo trovato in un Mitreo situato vicino al Foro Boario (mercato dei buoi) a Roma, ci mostra Mithra, che porta il toro sulle spalle e si dirige verso la grotta. Questa immagine illustra, se così si può dire, un poema di Commodiano (metà del secolo III d.C.) nel quale Mithra è paragonato al malfattore Cacus che rubò il bestiame di Ercole, mentre questo smaltiva la sbornia sulle rive del Tevere nei dintorni del Foro Boario. Commodiano scrisse una raccolta di ‘Instructiones’ (1, 13) delle quali W. Teuffel ha detto “che debordava di uno zelo nei confronti nel cristianesimo la cui esattezza per quanto riguardava il dogma non era sempre garantita”. In queste ‘Instructiones’ (I, 13), Commodiano stabilì un confronto per mezzo di un acrostico sul tema Invictus, invitto, che riportiamo qui e che dà, sia detto per inciso, un’idea di come si affrontavano i contendenti di religioni rivali: Che si tenga per vera la nascita da una roccia, di un dio invincibile, io non dirò parola; ma voi, vogliate spiegarmi questo fatto, se il dio nasce dalla pietra, è di questa che si deve trovare il creatore. E anche di lui come ladro, come lo dipingete secondo l’usanza, se la sua natura fosse di un dio, non ruberebbe. La sua natura è dunque terrestre e di una ben strana lega, perché come Cacus fece con il figlio di Vulcano, ruba nelle caverne il bestiame degli altri. Invictus de petra natus si deus habetur, Nunc ego reticeo, vos de istis date priorem. Vicit petra deum, quaerendus est petrae creator.

Insuper et furem adhunc depingitis esse, Cum, si deus esset, utique, non furto vivebat. Terrenus utique fuit et monstruosa natura, Vertebat boves alienos semper in antris Sicut et Cacus Vulcani filius ille. I rilievi che provengono dai paesi del Danubio e delle province del Reno sono inesauribili sul soggetto delle gesta del dio. Uno di questi rilievi è come un libro d’immagini alla gloria di Mithra e capita anche che diventi una sorta di arco di trionfo. È così che un rilievo di Neuenheim (Germania) ci illustra, in ordine, le imprese di Mithra e del toro. Vediamo all’inizio il toro brucare tranquillamente l’erba di un prato (vedi Fig. 19); Mithra sopraggiunge, lo cattura e se lo mette sulle spalle come farebbe un pastore con un montone (vedi Fig. 20).

Figura 19 e 20 - Frammento di rilievo mostrante il toro (a sinistra) e Mithra (a destra)

Il rilievo non ci dice nulla sul modo in cui il dio catturò l’animale, ma non è escluso che utilizzasse un lazo (taurobolium, significa nella sua accezione originale ‘cattura del toro’). Più lontano, vediamo la bestia furiosa liberarsi con forza, tuttavia il dio la ferma e si aggrappa al collo dell’animale che intraprende una folle corsa (vedi Fig. 21). Alla fine, il dio con un ultimo sforzo riesce ad atterrare l’animale; la resistenza della bestia è vinta, ma il dio ha mantenuto tutto il suo vigore; solleva la bestia per le zampe di dietro e la trascina verso la caverna (vedi Fig. 22). Alcune immagini ci mostrano il dio che cavalca fieramente il toro, conducendolo afferrandosi alle corna (vedi Fig. 2). Questo episodio ci ricorda un testo di Porfirio ‘De Antro Nympharum 24’ dove si dice: ‘Mithra cavalca

il toro di Afrodite, perché il toro è creatore e Mithra è il signore della creazione’. Nel testo greco si fa uso del termine δημιουργός, creatore, che d’altra parte vediamo attribuito a Mithra stesso. Sappiamo come Mithra creò vita nuova uccidendo il toro. Alcune teorie astronomiche affermano che il toro sarebbe la sede del pianeta Venere-Afrodite, ma il legame tra questa teoria e la scena dove Mithra cavalca il toro ci sfugge, così come ignoriamo, d’altra parte, se veramente esista un legame (vedi Fig. 21).

Figura 21 e 22 - Mithra che domina (a sinistra) e che conduce il toro (a destra)

Un grande rilievo a Dieburg aggiunge un episodio al combattimento, già così faticoso, che Mithra conduce contro il toro (vedi Fig. 23). Come su numerosi rilievi provenienti dalla regione del Danubio, il toro è rinchiuso all’interno di un edificio che ha la forma di un tempio il cui frontespizio triangolare è ornato dalle teste di tre divinità non identificabili. Mithra si trova su una sporgenza rocciosa e tiene nella mano destra un pugnale e un taglio di stoffa (rossa?). Nella mano sinistra alzata tiene una pietra che si appresta a gettare sul tetto dell’edificio per uccidere l’animale. Alcuni rilievi provenienti dalla regione del Danubio ci presentano il toro in una barca sopra l’edificio (vedi Fig. 24). Non è escluso che questa scena simboleggi la presenza del toro sulla luna; essa è, in effetti, rappresentata spesso sotto forma di una barca. Se si deve credere a Porfirio il toro si identificherebbe con la luna come ‘creatore delle nascite’. Questa teoria presenta forti somiglianze con la spiegazione, basata sui Veda, che Lommel dà dell’uccisione del toro (vedi p. 14).

Figura 23 - Rilievo di Dieburg rappresentante il combattimento di Mithra e del toro

Dopo, Mithra prende la bestia sfinita il cui muso si trascina sulla polvere (Mithra taurophorus). Gli avversari del Mitraismo interpretano questo episodio come un furto di bestiame; considerano Mithra come un ladro. Inconsciamente, si associano a Porfirio che nel ‘De Antro Nimpharum’, 18, sviluppa una teoria a proposito del dio ladro di bestiame. Poiché il toro s’identifica con la luna e la luna veglia sulla nascita della vita, Porfirio qualifica le anime che nascono come ‘nate dal toro’ e il dio ladro di bestiame è colui che, segretamente, sovraintende alla nascita. Seguendo questa ipotesi Mithra collabora effettivamente alla creazione, anche alla creazione delle anime. Si tratta evidentemente di un’interpretazione che rivela la conoscenza dell’episodio in cui Mithra porta via il toro. In effetti, alcune iscrizioni, e anche un rilievo di Pettau in Yugoslavia, qualificano la scena come transitus dei, passaggio del dio. E un verso che data intorno al 200 d.C., trovato nel Mitreo di Santa Prisca a Roma, allude al pesante fardello di colui ‘qui portavit umeris iuvencum’ che portò il giovane toro sulle spalle (vedi p. 202). Non è vero che Mithra, scoprendo il toro, non ebbe che da ucciderlo per compiere il grande prodigio. Esso costò a Mithra un combattimento accanito e pesanti sforzi per compiere la sua missione.

Figura 24 - Rilievo mostrante il toro in barca al di sopra dell’edificio che contiene un toro

Come Ercole combatté, su ordine di Euristeo, il cinghiale di Erimanto e, trionfante, se lo caricò sulle spalle, così Mithra porta il pesante fardello verso la grotta. Come soldati, i suoi discepoli desiderosi di condurre a buon fine la missione costituita dalla loro vita, devono fornire prova della stessa tenacia nel compiere il loro ‘passaggio’ (transitus) personale. La loro forza è costituita dall’esempio del dio. È molto probabile che l’episodio del toro nell’edificio si ricolleghi simbolicamente alla presenza del segno zodiacale del Toro nella costruzione solare. La presenza del sole nel segno del Toro significa l’avvento della primavera e per questo la morte del toro avrebbe avuto luogo in primavera, periodo durante il quale gli altri culti misterici commemorano anch’essi la resurrezione della vita. Il miracolo dell’acqua Un’opera romana conservata al Trinity College a Dublino ci mostra la nascita miracolosa di Mithra che esce da una roccia. L’episodio attribuisce al dio le seguenti parole: “Lucio Flavio Hermadio mi offre questo con gioia”. L’artista che creò quest’opera su richiesta di Hermadio rappresenta Mithra in un modo molto originale; è con un’espressione di estasi che il suo Mithra contempla la luce, cioè se stesso, che zampilla da una fiaccola che tiene in mano. La roccia da cui nasce ha un pugnale, un arco e una faretra, anche una freccia è rappresentata. L’arco e le frecce furono utilizzati dal dio per due notevoli prodigi: il miracolo dell’acqua e la caccia prodigiosa durante la quale nessuna delle frecce da lui lanciate mancò il bersaglio. A Roma si menziona un’unica rappresentazione del miracolo dell’acqua; si tratta di un pannello laterale del quadro ritrovato nel Mitreo scoperto vicino a Palazzo Barberini. Altrove, e in particolare nelle regioni del Reno e del Danubio, si rappresentano più sovente il miracolo dell’acqua e altre scene della vita di Mithra. Vi si vede il dio mirare con il suo arco una parete rocciosa davanti alla quale è prosternato un personaggio. Un altro personaggio è presente nella scena; lo si vede inginocchiato in un atteggiamento implorante davanti a Mithra; in altri casi, egli posa la mano sulla spalla destra del dio (vedi Fig. 25); si tratta di un rilievo di Apulum o

Alba Julia in Romania.

Figura 25 - Rappresentazione del miracolo dell’acqua

A Pettau in Yu goslavia, un altare reca su una delle sue facce laterali un’illustrazione particolarmente riuscita dell’episodio; vi si vede il dio, in un atteggiamento aggressivo, dirigere la sua arma verso la roccia da cui zampillerà l’acqua; davanti alla roccia un uomo si appresta a bere. Sull’altro lato dell’altare si può vedere un arco, una faretra e un pugnale come sul monumento di Dublino. È interessante notare che, come Mithra, i due personaggi di cui si parla sono vestiti all’orientale. Si tratta di Cautes e Cautopates presenti qui come alla nascita del dio? In un rilievo di Besigheim in Germania, sono conservati due quadri dedicati all’episodio in questione; sul primo, un personaggio raccoglie con due mani l’acqua che zampilla dalla roccia; Mithra estrae una freccia dalla sua faretra; il quadro successivo (vedi Fig. 26) evoca, ma con più dettagli, lo stesso avvenimento. Vediamo Mithra con l’arco in pugno, pronto a lanciare la sua freccia; uno degli altri personaggi s’inginocchia davanti al dio, mentre un altro cerca di raccogliere con le due mani l’acqua che sgorga dalla roccia.

Figura 26 - Mithra armato di arco e di frecce

Da notare anche, nei due casi, la forte rassomiglianza che esiste tra la roccia e una nuvola. Non ignoriamo che nel culto di Mithra la roccia rappresenta la volta celeste; se ne può concludere che la freccia di Mithra fece zampillare l’acqua dal cielo. La presenza del personaggio implorante indica che il miracolo fu compiuto in un periodo di siccità e che il dio salvò l’umanità da questa siccità. Il racconto evoca d’altra parte quello dell’Esodo 17: ‘E il Signore disse a Mosè: va’ davanti al popolo e prendi con te i più anziani di Israele e prendi con te il bastone con il quale tu perlustri il fiume e vai, davanti ai tuoi occhi io romperò la roccia di Horeb e tu romperai la roccia affinché ne esca l’acqua perché il popolo beva: Mosè fece come disse il Signore davanti agli occhi di Israele’. Un rilievo proveniente da Dieburg, intagliato in un gres tenero, occupa un posto tutto speciale in mezzo agli altri. Mithra si trova a fianco di un altare, vestito di un costume orientale; nella mano destra tiene una freccia, nella mano sinistra serra un arco (in gran parte scomparso). Vicino al suo piede destro vediamo un’anfora. Questa rappresentazione è l’unica illustrazione dedicata al solo miracolo dell’acqua; in tutti gli altri casi questo episodio costituisce generalmente una scena accessoria posta dietro l’illustrazione della nascita di Mithra. A Pettau, il prodigio dell’acqua è unito a una scena che illustra l’alleanza tra Sole e Mithra (vedi Fig. 34). E sotto quest’ultimo aspetto che l’altare eretto a fianco di Mithra in un rilievo di Dieburg suscita particolare interesse. Mithra ebbe dunque a trattare un’alleanza con Sole allo scopo di allontanare la siccità dalla terra e procurare agli esseri umani e alle

mandrie l’acqua dal cielo. A volte la roccia che narra la nascita di Mithra è bagnata da una fonte, questa fonte porta il nome di fons perennis, fonte eterna. Il significato di questa fonte ci è stato chiarito da un testo scoperto recentemente a Santa Prisca. Eccolo: ‘Fonte, rinchiusa nella roccia, che nutre di nettare i due fratelli’. In questo testo i due fratelli non possono essere altri che i due personaggi che compaiono sulle illustrazioni del miracolo dell’acqua. Mithra facendo questo miracolo li ha nutriti di nettare, la bevanda divina che conferisce l’immortalità. L’acqua che zampilla dalla roccia diviene dunque una bevanda vivificante della quale i due fratelli furono i primi a sperimentare il conforto (refrigerium) dando così l’esempio agli iniziati. Maggiori dettagli purtroppo ci sfuggono. E in ogni modo evidente che ci troviamo di fronte a un punto di contatto tra i Mitraisti e i cristiani; questi ultimi rappresentavano spesso sui loro sarcofagi il miracolo di Mosè, rappresentazione che evoca l’idea del conforto. La caccia di Mithra In questo film costituito dalla leggenda di Mithra, sarebbe interessante soffermarci su un grande rilievo di Osterburken; questo rilievo ci mostra il pasto di Mithra e di Sole, ma la scena è sovrastata da un quadro di grande interesse (vedi Fig. 27). Mithra vi figura a cavallo mentre scaglia una freccia; lo segue un paggio, vestito all’orientale e recante la faretra del dio sulla spalla destra; un leone li accompagna. L’artista non ci mostra la preda inseguita. Un rilievo che mostra lo stesso evento fu scoperto, ancora in Germania, vicino a un Mitreo a Neuenheim (vedi Fig. 28). Il dio galoppa in velocità attraverso un bosco di cipressi, il vento, nella corsa, solleva il suo mantello; nella mano destra tiene il globo celeste e con la sinistra tira su delle renne dalla sua cavalcatura. Un leone e un serpente accompagnano il dio.

Figura 27 - Mithra a cavallo, armato di arco e frecce

Gli stessi animali si trovano nella parte bassa di un rilievo proveniente dalla Romania, che illustra l’uccisione del toro. Il leone e il serpente simboleggiano gli elementi fuoco e terra, e qui figurano al seguito del dio Mithra, cavaliere solare. L’Oriente e, soprattutto, la Siria, come dimostrato da R. Dussaud, abbondano di rappresentazioni di Mithra come dio solare. Il cavaliere di Tracia, il cui culto era molto diffuso nei Balcani, fu identificato con la divinità solare Apollo. Il cammino quotidiano del sole è rappresentato non soltanto dal Sole sulla sua quadriga, ma anche dal Sole come cavaliere. Nelle epigrafi trovate in Asia Minore si fa allusione a Helios cavaliere (᾿Ηλιος ἔφιππος). Lo studio dei testi ci permette di concludere in merito alla sopravvivenza di questa tradizione sino all’epoca bizantina. È quasi certo che lo scultore abbia voluto rappresentare, nel rilievo di Neuenheim, Mithra come divinità solare e nello stesso tempo come sovrano del cosmo (kosmokrator), come indicato dalla sfera celeste che è suo attributo.

Figura 28 - Mithra a cavallo, che caccia in un bosco di cipressi

Si rileva nondimeno una differenza tra i rilievi di Neuenheim e di Osterburken. Su quest’ultimo il dio figura come arciere e si tratta di una scoperta fatta in Renania che contribuisce alla buona interpretazione del quadro; la parte anteriore del grande rilievo di Dieburg ci mostra, in effetti, il dio a cavallo e a caccia; un cipresso svetta nella campagna e si vede il dio cavalcare su un destriero ardente; la freccia che lancia mira a una lepre della quale si possono ancora vedere le lunghe orecchie. Tre grandi molassi si precipitano a fianco del dio e, da una parte e dall’altra di Mithra, si vedono i portatori di fiaccole in piedi, ciascuno su un’anfora. Il leone è assente dalla scena, ma la presenza dei due portatori di fiaccole allude alla luce e al fuoco; il serpente che personifica l’elemento terra è sostituito dall’anfora che simboleggia l’acqua. F. Behn, che per primo fu interpellato per interpretare la scena, vi vide un rapporto con la divinità germanica Wodan. Rilevando che le scene di caccia si trovano solo in Germania, arrivò a una fusione tra divinità persiane e germaniche. Questa tesi non doveva tardare a rivelarsi inesatta; gli scavi del Mitreo di Doura-Europos permisero infatti di portare alla luce del giorno due affreschi che figuravano sui muri laterali del santuario e che trattavano lo stesso soggetto di Mithra a caccia. Questa concezione della divinità fu dunque diffusa tanto a est quanto a ovest dell’Impero romano. A Doura tuttavia, la scena è trattata secondo il gusto e le tradizioni artistiche del Levante (vedi Fig. 29).

Figura 29 - Affresco di Doura-Europos che mostra Mithra a caccia

Alberi la cui cima si apre a ventaglio e piante schematizzate a tre rami formano il paesaggio. L’opera fu eseguita in tinte pastello da un artista che arrivava probabilmente dalla vicina Palmira. Vi vediamo Mithra di faccia che cavalca e tira con l’arco. Il cavallo, rappresentato a pieno galoppo, è splendidamente ornato, una cinghia dell’armatura trattiene la faretra del dio. Il costume del dio è riccamente ornato come anche i costumi degli ufficiali delle compagnie di arcieri di Palmira. Un leone e un serpente accompagnano il dio, come a Neuenheim. Le frecce colpiscono due daini dalle corna arcuate, due gazzelle e un cinghiale. Essi corrono disperatamente nonostante il sangue che cola da diverse ferite. Un altro quadro presenta una va:dante recata al soggetto dall’artista: il serpente e il cinghiale sono sostituiti da un grande e da un piccolo leone. Doura era un avamposto militare dove erano di stanza gli arcieri di Palmira; è chiaro che essi hanno voluto vedere il dio rappresentato come protettore della loro armata. Inoltre, il dio cerca di colpire nella sua caccia gli animali che gli sono ostili. Abbiamo già visto questo nell’Avesta; qui, il dio caccia il cinghiale che, come sappiamo, era spesso sacrificato in onore di Ahriman, il principio del Male. Le scene di caccia abbondano tra i rilievi funerari. Si è dimostrato che, nell’Antichità, la caccia era considerata come la scuola di formazione per eccellenza. I filosofi vedevano nella lotta contro gli animali selvaggi una vittoria del coraggio e dell’intelligenza sulla violenza brutale e selvaggia. La caccia aveva altrove un significato religioso e non si poteva ottenere la vittoria sugli animali pericolosi senza l’aiuto degli dei. Ogni caccia terminava con un sacrificio agli dei e a volte con un pasto di caccia rituale. Abbiamo

potuto vedere che la scena di caccia del rilievo di Osterburken era seguita dalla scena di un banchetto. A Serdica (Sofia), vediamo Mithra e Sole a tavola e vicino a loro un’anfora posata a terra; a destra della grotta dove si svolge il festino si distingue un leone, mentre a sinistra si vede il cane da caccia e il cinghiale. La combinazione caccia e pranzo di caccia si ritrova parimenti sui lati di due grandi rilievi trovati in Germania, più precisamente a Heddernheim e a Riickingen. Questi due rilievi hanno indiscutibilmente un legame di parentela e nei due casi il banchetto di Sole e Mithra è sormontato da una scena di caccia elaborata nei minimi dettagli. A Heddernheim, il centro del rilievo è occupato da un personaggio del quale non si distingue altro che la confusa siluette. Questo personaggio è circondato da quattro grandi cani da caccia. Sopra i cani da caccia a sinistra si nota un frammento di zampa di cavallo; ciò permette di concludere che un cavaliere doveva trovarsi nell’opera e che il personaggio centrale era forse il servitore. Il campo del rilievo è occupato da un toro e da un cinghiale tranquillamente accucciati; una pecora bruca un po’ più lontano. Si nota che i cani sembrano non preoccuparsi di questi animali ed è dunque impossibile capire se questi ultimi siano l’oggetto della caccia. Non si capisce assolutamente se il toro e il cinghiale siano stati colpiti dalle frecce. I tre animali, toro, cinghiale e pecora, che, ricordiamo, sono rappresentati nell’affresco dei suovetaurilia sulla parete laterale destra del Mitreo di Santa Prisca a Roma, sono qui posti sul bordo a volta della caverna dove ha luogo il banchetto. Nel 1950, si è scoperto a Rückingen un rilevo nel quale Mithra è rappresentato a cavallo. Nella mano sinistra alzata tiene un lazo (vedi Fig. 30), e attorno a lui si vedono diversi animali: un cane, un cinghiale, un cavallo, un puledro, ancora un cinghiale, un cervo e un bue. Questo circolo di animali avrebbe, secondo A. Alföldi, un significato particolare; sarebbe da mettere in rapporto con il periplo di una quadriga di un automedonte (vedi p. 193). Sembra tuttavia che gli elementi di cui disponiamo siano insufficienti per permetterei di stabilire un legame tra le scene di caccia che abbiamo descritto e il mito di un incendio universale. Ci sembra preferibile interpretare le scene di caccia come l’illustrazione del combattimento tra Mithra e le forze delle Tenebre (da notare la presenza del cinghiale). Gli altri animali inoffensivi, come la lepre (Dieburg), le gazzelle e i daini (Doura), non costituiscono altro che un adattamento dell’evento descritto alle circostanze locali; quanto al toro o al bue, sono stati

evidentemente aggiunti per illustrare in modo diverso la cattura di questi animali. Vediamo che a Rückingen questa cattura si fa con il lazo, il che dà significato al termine taurobolium (vedi p. 204). Le scene di caccia ci ricordano ancora ciò che Erodoto (I, 136) ci riferisce in merito all’educazione che i Persiani davano ai loro figli tra il quinto e il ventesimo anno di età.

Figura 30 - Mithra a cavallo che tiene un lazo nella mano

Questa educazione verteva su tre punti: l’equitazione, il tiro con l’arco e il culto della verità. Mithra, e più tardi i Mitraisti, potevano su questo punto servire da esempio ai giovani Persiani. Mithra, infatti, è il pilastro della verità e del diritto; come cavaliere e come arciere, dà la caccia al male e le sue frecce non mancano mai il loro bersaglio. Nella sua avventurosa battuta di caccia, è sempre lui che consegue i trofei e, nella lotta tra bene e male, è sempre lui a vincere. Dopo la caccia al toro, che si vede su un piccolo quadro di Doura legato su una pertica e condotto da due servitori, e dopo la vittoria sul male, segue il banchetto al quale saranno invitati coloro i quali furono alleati di Mithra. Sole e Mithra L’uomo antico non si sentiva assolutamente legato dai dogmi o da dottrine stabilite e non vedeva alcuna necessità di concordanza nell’ambito delle sue credenze religiose. È ciò che rileva ancora una volta M. Guthrie

nella sua opera sulle divinità greche, e che scaturisce in maniera visibile dallo studio che faremo sui rapporti tra Sole e Mithra. Non c’è modo, infatti, di ricostruire, dagli elementi di cui disponiamo, un sistema logico e coerente di regole che governino i rapporti tra queste due divinità e se un tale sistema è esistito, esso rimane incomprensibile per noi. Mithra stesso è invocato in svariate iscrizioni come deus Sol invictus, l’invincibile dio del sole. Con Cautes e Cautopates, personifica il sole all’alba, a mezzogiorno e alla sera e, pertato, si vede al suo fianco un dio del sole che attraversa lo spazio celeste sulla sua quadriga, sferzando l’ardente tiro di cavalli. Tra questo dio apollineo, quest’auriga portatore di luce e Mithra, è da fare una distinzione ben netta. Egli indossa generalmente solo un largo mantello e non il berretto frigio che porta Mithra. In alcune rappresentazioni della messa a morte del toro, un raggio parte dall’aureola fiammeggiante di Sole e va a colpire Mithra. Con ogni evidenza, è Sole che, per mezzo del corvo, ordina al dio dell’Iran di dare il colpo mortale al toro. Ne discende logicamente che Sole fa le veci di intermediario tra la suprema potenza del Bene (Ahura-Mazda) e Mithra, e che quest’ultimo diviene a sua volta, con l’uccisione del toro, l’intermediario (μεσίτης) tra l’uomo e Ahura-Mazda. Sole-Helios-Apollo è dunque indirettamente il mandante di Mithra e, a questo titolo, partecipa all’uccisione del toro. Pare dunque che il dio Sole sia superiore a Mithra e che abbia una potenza maggiore rispetto a quest’ultimo. Altre rappresentazioni, peraltro, soprattutto fuori Roma, mostrano il dio Sole prosternato o accovacciato davanti a Mithra ed è in particolare su alcuni rilievi provenienti dai Balcani che si può vedere Sole in quest’atteggiamento di sottomissione. Si vede inoltre Mithra posare la mano sinistra sulla testa di Sole; nella mano destra alzata Mithra tiene un oggetto la cui natura è purtroppo difficilmente decifrabile; in alcuni casi sembra che si tratti di un berretto frigio, in altri si direbbe un rythòn; spesso l’oggetto sembra un pezzo di carne, spalla o coscia. Nessun testo dà spiegazione di questa scena, ma si ha l’impressione che Mithra si appresti ad abbracciare il Sole (vedi Fig. 31); un piccolo rilievo di Bucarest ci mostra tuttavia chiaramente Mithra mentre pone sul capo di Sole il berretto frigio. Altri quadri confermano l’impressione che i due dei si apprestino a concludere un’alleanza. Su un rilievo di Nersae in Italia (vedi Fig. 32) Sole svestito mette il ginocchio a terra davanti a Mithra. Tra i due dei è presente un piccolo altare; nella mano destra abbassata Sole tiene un pugnale, mentre con la mano sinistra serra il polso di Mithra. Esso tiene un coltello nella mano

alzata. La scena fa pensare che gli dei sigillino la loro alleanza con il sangue. Un rilievo trovato a Roma rappresenta le due divinità ai due lati di un altare; si distingue chiaramente come Mithra prenda con la mano sinistra il polso del personaggio che si

Figura 31 e 32 - Mithra arma un cavaliere (a sinistra) e Sole e Mithra (a destra)

trova davanti a lui e si appresti a tagliarlo con il suo coltello per sigillare in questo modo l’alleanza di sangue. Su un rilievo di Virunum in Austria, Mithra serra fraternamente la mano di Sole (iunctio destrarum), mentre con la mano sinistra gli batte fraternamente sulla spalla (vedi Fig. 33). Sul grande rilievo di Heddernheim (Germania) Mithra accorre verso Sole e sembra aggiustargli l’aureola. Un quadro di Mithra vicino a Palazzo Barberini a Roma e un rilievo di Poetovio (Pettau) in Yugoslavia ci mostrano Mithra e Sole in piedi ai due lati di un altare. A Roma, tengono insieme uno spiedo corto sopra l’altare. A Pettau (vedi Fig. 34) gli dei si stringono la mano mentre si vede, sopra l’altare dove arde il fuoco, uno spiedo sul quale sono infilati pezzi di carne (uso ancora diffuso ai nostri giorni in Yugoslavia); si vede il corvo arrivare sbattendo le ali per beccare la carne. Su un quadro di Doura il corvo presenta, durante il banchetto, un piccolo spiedo guarnito di pezzetti di carne.

Figura 33 e 34 - Mithra corre verso il Sole (a sinistra) e Mithra e Sole presso un altare (a destra)

La scena del rilievo di Pettau non rappresenta peraltro una variante del pasto che Sole e Mithra condivideranno fraternamente come alleati; vediamo in effetti che a Villa Barberini quest’ultimo soggetto sarà trattato separatamente. La scena rappresenta dunque probabilmente una conferma dell’alleanza, un rito, che precede il pasto propriamente detto dopo il quale Mithra salirà al cielo sul carro di Sole. La rivalità che i due dei sembrano mostrare all’origine è dunque divenuta un’eterna amicizia. Come Mithra che, compiute le sue imprese, sale al cielo sul carro solare, l’iniziato non può che sperare in un ritorno alla luce. Il banchetto e l’ascensione Dopo la faticosa caccia al toro e il commovente prodigio della sua messa a morte, il soggiorno di Mithra sulla terra terminerà con un banchetto, dove la carne del toro sarà consumata in compagnia di Sole. Un quadro di Doura ci mostra due servitori, vestiti come i portatori di fiaccole, recanti sulle spalle una pertica alla quale è legato il cadavere del toro. Il banchetto ha luogo in una caverna; Mithra, vestito alla foggia persiana, e Sole sono seduti, a volte accucciati, davanti a una tavola; i loro rapporti sono amichevoli e alcuni quadri mostrano Mithra che passa il braccio attorno alla spalla del suo commensale. Ma più sovente la scena esprime il profondo sentimento religioso ispirato da un evento esaltante (quadro di DouraEuropos, vedi Fig. 35). Con la messa a morte del toro, il banchetto è l’episodio più spesso illustrato. Capita anche che i rilievi rechino davanti l’uccisione e sul retro il banchetto. In questo caso il rilievo era montato su

una barra ruotante, il che permetteva nel corso delle cerimonie del culto di celebrare al momento desiderato l’una o l’altra delle imprese divine. Il banchetto poteva avere luogo su un piano puramente divino, con Sole e Mithra come unici commensali. I fedeli imitavano durante il culto gli atti della loro divinità; da qui provengono alcune rappresentazioni a carattere misto nelle quali si vedono i fedeli fare le veci dei servitori degli dei; i pasti degli dei e quelli dei fedeli sono mischiati. Un’ultima categoria di rappresentazioni situa il banchetto tra gli stessi fedeli.

Figura 35 - Mithra e Sole durante un banchetto

Per avere una migliore idea del rituale che circondava il banchetto, s’impone una visita al magnifico affresco del Mitreo di Santa Prisca. Intorno al 220 d.C. si dipinse sul muro laterale, dietro la cappella sinistra, un quadro particolarmente bello di questo episodio; Sole e Mithra sono sdraiati alla maniera romana, in una caverna a volta immersa nella luce dorata dei ceri; davanti a loro è apparecchiata una piccola tavola. Sole è abbigliato con un lungo abito rosso con la cintura gialla; nella mano sinistra tiene un globo, mentre leva la mano destra in un gesto di sacro entusiasmo. Un fascio di raggi aureola e corona i suoi lunghi riccioli biondi; egli alza lo sguardo con un’aria estasiata. Mithra è sdraiato al suo fianco e indossa il berretto frigio, anch’esso rosso. Un servitore è al fianco di ognuno dei due; uno porta le bevande, l’altro le mette su un piatto ovale; quest’ultimo indossa una maschera di corvo, si tratta di iniziato al grado di corax. Altri otto giovani, dei Leoni (leones) a credere alle epigrafi, portano offerte. Alcuni portano un

pane o un’anfora, alcuni un gallo o un fascio di ceri. Non si trova da nessun’altra parte un’illustrazione così elaborata del banchetto. Le due divinità si sono unite ai loro fedeli che si affrettano a prestare ai loro ospiti gli onori conformi al loro rango. Sono ancora presenti quando i sacerdoti celebrano i misteri e seguono il loro esempio. I posti che occupavano Mithra e Sole sono occupati qui dal Padre e dal Messaggero del Sole che durante la cerimonia sono vestiti nello stesso modo e provvisti dei medesimi attributi di Mithra e Sole. Nel Mitreo di Santa Prisca, si è prevista per questi due personaggi una nicchia, dove prendevano fraternamente posto nel corso delle cerimonie. Gli iniziati di grado inferiore, il Corvo in particolare, servivano loro cibi e bevande. Quali cibi e quali bevande consumavano? Il grande rilievo di Heddernheim ci mostra nel retro Sole e Mithra sdraiati dietro le spoglie del toro (vedi Fig. 36); capita che gli dei o i loro discepoli siano sdraiati sulla pelle del toro, mettendo così l’accento sulla forza magica che essi desiderano assorbire. A Konijc, il Corvo e il Leone, ambedue mascherati, servono bevande e cibi a guisa di offerte (vedi Fig. 37). Sulla tavola si vedono pani, frutti, a volte anche pesce. Sul rilievo di Heddernheim, servi vestiti come portatori di fiaccole offrono cesti di pane e di frutta. Sole tende al suo commensale un grappolo d’uva che Mithra contempla con rispetto. Una coppa in terra sigillata trovata a Treviri e probabilmente usata durante i banchetti mostra un servitore che offre il pane. A Doura, gli dei ricevono uno spiedo con pezzi di carne; nel Mitreo dell’Aventino, un Leone porta un dolce sotto una campana di vetro. Gli scavi dei detriti

Figura 36 - Mithra e Sole insieme durante un banchetto

Figura 37 - Banchetto di Mitraisti

dei Mitraei hanno consegnato ossa di toro, di maiali, di montoni o di volatili. Si può concludere da tutto questo che si consumava la carne di toro e che si beveva il suo sangue; se non c’erano tori o se questi erano troppo costosi ci si contentava della carne di altri animali, di preferenza piccolo bestiame; capitava anche che si sostituisse la carne con il pane e il pesce e il sangue con il vino. Giustino, Padre della Chiesa, dice testualmente: “Che nei misteri i Mitraisti usino il Pane e l’acqua, tu lo sai o hai i mezzi per saperlo”. Notiamo che Giustino usa a proposito la parola ‘acqua’ e non ‘vino’, anche se sappiamo che l’uso del vino era certo e indiscutibile. I contenuti delle dispense della comunità sono scritti sui muri del Mitreo di DouraEuropos e possiamo costatare che in testa alla lista figurano il pane e il vino. Il grappolo di uva che vediamo tra le mani di Sole a Heddernheim ci fornisce un’analoga indicazione (vedi Fig. 36). Su un rilievo di Caetobriga in Portogallo, uno dei servitori vuota un vaso in una grande anfora mentre un altro ha lasciato cadere la sua fiaccola per presentare con le due mani un piatto di pani a Sole. Gli affreschi del Mitreo dell’Aventino rafforzano i dati che abbiamo illustrato in precedenza. In questo Mitreo gli affreschi che rappresentano il banchetto furono i più sfigurati dai cristiani intorno alla fine del IV secolo; è su queste scene che essi hanno principalmente esercitato lo zelo distruttore ispirato dalla loro fede; l’altro muro non fu toccato; la ragione di quest’odio è semplice da trovare; il banchetto del culto di Mithra è, come disse Tertulliano, “una diabolica parodia dell’Eucaristia” (De Praescr., 40). E l’apologo aggiunge che i Mitraisti mettevano parimenti in scena la resurrezione («Mithra» imaginem resurrectionis inducit). Si è creduto fermamente che il consumo della carne e del sangue del toro procurasse la nascita a nuova vita, così come nuova vita sorge dal sangue del toro. La carne e il sangue del toro conferiscono non solo la forza corporea; essi sono salutari per l’anima e benefici per la rinascita nella luce eterna. Alcuni autori, come Kristensen e Loisy hanno voluto dedurne che Mithra s’identifichi con il toro. Egli lo offre in sacrificio affinché i fedeli possano consumare il suo corpo e bere il suo sangue come nel caso dei misteri di Dioniso. Notiamo che nessun monumento, nessun testo ha confermato quest’opinione e che solo nuove scoperte potranno farci concludere in tal senso. Giustino riferisce che il pasto era accompagnato da alcune formule (μετ´ ἐπιλόγων τινῶν) delle quali non è escluso che abbiano presentato forti similitudini con quelle della Cena. Sotto quest’aspetto è molto interessante un

testo medioevale pubblicato da F. Cumont; la verità del Cristo è contrapposta alle parole di Zaratustra che parla come segue ai suoi discepoli: “Chi non mangerà il mio corpo e non berrà il mio sangue in modo da fondersi con me ed io con lui, non avrà la salvezza”, mentre Cristo disse ai suoi apostoli: “Chi mangia il mio corpo e beve il mio sangue, avrà la vita eterna”. Questo testo ci trasporta in pieno nella lotta tra Cristiani e Mitraisti e, per quanto di epoca tardiva, sarebbe di natura tale da confermare le affermazioni di Giustino. Compiuti i suoi prodigi, Mithra salirà in cielo sul carro solare. Alcuni rilievi lo mostrano mentre corre dietro il tiro dei cavalli di Sole-Helios, il dio solare (vedi Fig. 44). Quest’ultimo conduce il carro e trattiene i cavalli scalpitanti, mentre in altre rappresentazioni, li incita con la frusta. Di solito Sole è rappresentato coronato da raggi e nudo, a parte un corto mantello che ondeggia al vento. Capita che come su un rilievo di Virunum (vedi Fig. 38) l’artista mostri chiaramente il movimento ascendente del carro. HermesMercurio è alla guida, identificabile dalle ali che ha in testa e dal caduceo (caduceus).

Figura 38 - Mithra sale al cielo sul carro solare

Sui rilievi della regione danubiana, Mithra sale con calma sul carro che non prende la direzione degli spazi celesti, ma quella dell’oceano, rappresentato con i tratti di un dio barbuto e sdraiato, la cui metà inferiore del corpo è avvolta in un mantello. A volte appoggia il gomito sinistro su una brocca d’acqua, altre volte l’acqua è rappresentata da una linea ondulata. A Dieburg, l’artista ha circondato Oceano di ninfe. L’immagine del dio figura, qui, sotto una rappresentazione del mito di Fetonte che chiede a Helios di prestargli il carro solare (vedi Fig. 67). Sopra la testa di Oceano, un velo sbatte al vento; il personaggio è dunque paragonato a quello del grande gigante che figura nella nicchia rituale del Mitreo di Santa Prisca (vedi p. 47), che porta un velum attorno alla testa. Sui rilievi trovati nella regione danubiana, un serpente avvolge il corpo di Oceano; tende la testa verso i cavalli con un’aria minacciosa. Il dio dei flutti riunisce dunque in sé i tratti del dio del tempo e del dio del cielo, fusione che risale senza dubbio all’epoca nella quale dio del cielo e dio dei flutti erano un’unica personificazione. Quando l’arte cristiana si trovò posta davanti al problema dell’illustrazione del tragitto dell’anima verso il cielo si rifece al Libro dei Re (Il, 2, 11), con Elia che sale ai cieli su un carro di fuoco tirato da destrieri ardenti. Non è probabilmente senza intenzione che l’elaborazione di

questo motivo fu fatta partendo dall’immagine dell’ascensione di Mithra sul carro solare. Il Giordano si sostituì a Oceano.

Figura 39 - Oceano circondato dalle ninfe

CAPITOLO XI Divinità che attorniano la figura di Mithra

La dottrina di Mithra oppone due forze principali. Ahura-Mazda regna sul reame supremo della Luce, Ahriman domina il regno delle Tenebre. Sopra le due divinità si pone Zurvan, il dio del Tempo al quale le due potenze sono sottomesse come alla Fatalità, il Fatum. Zurvan è a volte rappresentato come un dio giovane al pari di Mithra; con questo si vuole significare che Mithra il giovane è il nuovo dio del tempo, il nuovo Kronos-Saturno. D’altra parte Plutarco definisce Mithra l’intermediario (μεσίτης), egli occupa dunque una posizione intermedia tra i due mondi, della luce e delle tenebre, del bene e del male. Funzione identica a quella dello spirito (spiritus) secondo le concezioni di alcune sette gnostiche. Mithra, combattendo a fianco delle forze del bene, aiuterà a vincere il male; sino a quando non sarà raggiunta questa vittoria, egli è il legame tra la luce pura e l’uomo attaccato alla materia terrestre. Tutta questa teoria trova la sua origine nelle concezioni iraniche che i magi introdussero nei misteri. A fianco di queste divinità, si ritrovano alcuni personaggi tradizionali improntati alla mitologia greco-romana. In primo luogo troviamo diverse rappresentazioni di Kronos-Saturno che trasmette i suoi poteri divini al suo successore Giove (vedi Fig. 40). Gli tende le folgori e lo scettro. La scena avviene vicino a un altare, come se i due dei volessero sanzionare mutuamente questa trasmissione con un sacrificio. L’età dell’oro (aurea aetas) tanto cantata dai poeti ed esaltata in prosa, è finita, ritornerà un giorno dopo un certo numero di periodi determinati. Il regno di Saturno fu preceduto dal Chaos rappresentato, sembra, su un pannello del grande rilievo di Osterburken, al centro di un cerchio di fogliame. Durante il regno di Giove e mentre esso ricopriva con tutta evidenza le funzioni di Ahura-Mazda, la presenza di Saturno persiste nella leggenda di Mithra.

Con una certa solennità è dipinto a Doura (vedi Fig. 41) dove figura, una canna in mano e la testa coperta da un velo. È appoggiato su un gomito e tiene la folgore in mano (vedi Fig. 43), come mostrato da un rilievo di Neuenheim, mentre a Dieburg lo si vede seduto su un blocco di roccia, con un coltello in mano (vedi Fig. 42).

Figura 42 e 43 - Saturno seduto su un blocco di roccia con un coltello in mano (a sinistra). Saturno appoggiato su un gomito con la folgore in mano (a destra)

Il rapporto tra Saturno e Mithra appare chiaramente in alcune rappresentazioni del giovane dio della luce. A volte Saturno porge a Mithra un pugnale o una falce uncinata, altre volte si nota la presenza di Saturno all’uccisione del toro nel momento in cui si compie il prodigio della natura nascente. Non è dunque da stupirsi se il Padre dei misteri, chi sostituisce Mithra sulla terra, sia posto sotto la protezione del pianeta Saturno (vedi p. 173). Un rilievo scoperto a Ptuj in Yugoslavia si presta a numerose interpretazioni. (vedi Fig. 44). Vediamo un dio seduto su una roccia e il cui corpo è coperto solo parzialmente da un mantello. Nella mano sinistra tiene una lunga canna. Davanti a lui un giovane uomo in piedi porta timidamente la mano alla bocca. Non è escluso che si trattasse, in questo caso, del giovane dio Mithra davanti a Saturno, ma è anche possibile che si tratti del giovane Fetonte che si reca da suo padre Helios per chiedere di prestargli il carro solare. Ciò permetterebbe di fare un parallelo interessante con il grande rilievo di Dieburg (vedi Fig. 67). Durante il suo regno, Giove deve affrontare il pesante impegno di respingere i giganti insorti. Questa gigantomachia si ritrova a più riprese nelle rappresentazioni di Mithra.

Figura 44 - Rilievo che mostra probabilmente il giovane Mithra davanti a Saturno

Nella lotta che si rivela violenta, il Padre dell’umanità scaglia le sue folgori contro i giganti ribelli. Questi mostri orribili le cui gambe finiscono in serpente sollevano enormi massi di roccia che vogliono scagliare su Giove; ma vinti dalla forza di quest’ultimo ricadono sfiniti nel Tartaro; è così che un rilievo di Doura ci mostra l’episodio (vedi Fig. 44 e Fig. 45).

Figura 45 - Combattimento tra Giove e i giganti su un affresco di Doura

Nel Mitreo di Santa Prisca a Roma, si è trovata la statuetta di un gigante; il marmo è dipinto in violetto, il colore oscuro del regno delle tenebre. Il Mitraista vede evidentemente nella gigantomachia la lotta di Ahura-Mazda contro gli accoliti delle tenebre. Mithra stesso darà loro cacci, il che spiega il fatto che lo si menzioni in alcune iscrizioni insieme a Giove. Attraverso questo i Mitraisti cercavano un punto di contatto tra la mitologia classica e gli scritti dell’Iran. La gnosi e il manicheismo riprenderanno anch’essi il racconto della lotta tra le forze della luce e delle tenebre, così come narrato nel Bundahisn. Giove è anche il potente sovrano dell’Olimpo, il dio del cielo; ciò spiega il senso simbolico dell’emblema che figura su un rilievo di Heddemheim (Germania); si tratta di un globo ornato da sette stelle (i pianeti) e da due anelli dello Zodiaco; il tutto è sormontato da un’aquila che tende le ali e tiene le folgori nei suoi artigli.

Figura 46 - L’aquila sul globo, simbolo della potenza di Giove

Sono soprattutto i grandi rilievi della Germania che rappresentano Giove sul trono tra le altre divinità dell’Olimpo, riunite in due gruppi alla sua destra e alla sua sinistra. F. Cumont ha voluto vedere un rapporto tra ciascuna di queste divinità e una personalità corrispondente della mitologia iraniana. L’esistenza di un tale rapporto non è esclusa, ma si è nondimeno in diritto di

domandarsi se l’idea di un legame tra le divinità olimpiche e iraniche abbia così fortemente influenzato le concezioni dei Mitraisti; i dati che possediamo a questo riguardo attraverso lo studio dei santuari dedicati a Mithra sono insufficienti per stabilire nettamente l’esistenza, nello spirito dei fedeli, di un tale legame. Si pensa piuttosto che le divinità dell’Olimpo siano state annesse in blocco nel culto e ciò in virtù dell’adattamento alle idee contemporanee dell’ellenismo. Solo quando si costata la presenza di rappresentazioni o di statue isolate di diverse divinità, si può tentare di trovarne la ragione, Così per esempio non si è trovata da nessuna parte una rappresentazione separata di Giunone-Hera. Si può allora giustificare la presenza di Hera, sposa di Zeus, tra le altre divinità rappresentate identificandola con Spenta-Armaiti o con la terra? Si può spiegare con l’aiuto di considerazioni filosofiche basate sul gioco di parole Hera-Aer, aria? Per contro, la ragione per cui una personalità come Apollo ha un posto di rilievo nel culto di Mithra è evidente; non è Apollo musagete e protettore della musica che si venera; la fisionomia di Helios al quale Mithra è così strettamente legato nelle leggende, ha a volte un carattere nettamente apollineo. I legami tra Mithra e Apollo sono così potenti che nella Gallia del Sud, dove si metteva l’accento sulle virtù curative di Apollo, i Mitraisti attribuirono nel loro desiderio di adattamento, le medesime virtù curative a Mithra. Una statua del dio del tempo a Ostia porta gli emblemi di Vulcano, il martello e le tenaglie, confusione resa possibile dal fatto che Aion, come Vulcano, personifica l’elemento fuoco. Non vi è dunque bisogno di avvicinare Vulcano alla divinità iraniana Atar (vedi p. 163). Le divinità Diana (Artemide, Luna), Apollo (Helios, Sole), Marte, Mercurio, Giove, Venere, Saturno personificano i pianeti, sono anche i protettori dei sette gradi degli iniziati (vedi p. 173) e li troviamo come divinità tutelari dei sette giorni della settimana. E soprattutto in Germania e in Francia che troviamo statue isolate di Hermes-Mercurio nei Mitrei. Mercurio era molto onorato presso i Galli; per essi è il dio del commercio e della prosperità. È sovente paragonato a Mithra dagli iniziati che vogliono porre attenzione sulle proprietà identiche delle due divinità; ambedue svolgono il ruolo di guida per i viaggi e il cammino; ambedue mostrano la strada per l’ultimo ed eterno viaggio. Nel 155 d.C., il capo della comunità di Merida (Spagna), Hedicro fece

erigere una magnifica statua di Mercurio. Il dio porta ali ai piedi ed è seduto su una roccia che è drappeggiata di una stoffa sontuosa. La mano sinistra riposa su una lira, strumento di cui il dio fu l’inventore. In un Mitreo di Stock-stadt (Germania) si trovò una statua di Hermes-Mercurio che recava tra le braccia Dioniso bambino. L’opera ricorda molto la creazione del grande scultore greco Prassitele. Rileviamo a questo proposito che Dioniso o Bacco è il dio del vino, i cui misteri furono ampiamente diffusi in tutto l’universo greco-romano e il cui culto ha avuto una grandissima influenza nell’Impero romano. È così che il piede di un altare di Mithra in un Mitreo a Ptuj (Yugoslavia) reca un motivo dionisiaco, un’anfora, circondata di pampini e affiancata da una pantera che posa una zampa davanti sul bordo (vedi Fig. 47). Nel culto di Dioniso i fedeli si ubriacavano per raggiungere l’estasi e depersonalizzarsi; divenivano allora Baccanti o Menadi; credevano di appropriarsi del dio mangiando carne e bevendo il sangue di capre che, nella loro isteria collettiva, squarciavano da vive. I Mitraisti erano più severi e più riservati; i loro riti non corrispondevano a quelli dei discepoli di Dioniso tranne il fatto che tutti facevano uso rituale del vino come viatico per il tragitto verso l’Aldilà. Il Pantheon del Mitraismo contiene evidentemente anche gli dei appartenenti ai culti levantini, che sono apparentati per forza di cose. Così, per esempio, nel santuario di Königshofen si trova un’iscrizione votiva dedicata ad Attis, l’amante di Cibele. Capitava d’altra parte che il cul-

Figura 47 - Motivo dionisiaco al piede di un altare di Mithra

to di Mithra si stabilisse nelle vicinanze di un santuario della dea frigia il cui culto fu ufficialmente riconosciuto a Roma intorno al 204 a.C. Cibele proveniva infatti dal paese dei troiani; i discendenti del troiano Enea e di suo figlio Giulio furono i lontani antenati dei Romani e della gens Giulia in particolare. Si trovarono anche dei rilievi dedicati a Mithra nel tempio di Giove Dolicheno Siriano, situato sull’Aventino. Tra le rappresentazioni che illustrano le leggende di Mithra appare la strana figura di Atlante; raramente s’incontra la sua presenza. Così il rilievo di Osterburken (vedi Fig. 48) ce lo mostra su uno dei pannelli laterali; una figura femminile è sdraiata al suo fianco; si tratta probabilmente di Tellus, la Terra. A Neuenheim, Atlante inginocchiato reca il pesante fardello del cielo sulle spalle (vedi Fig. 49).

In alto a sinistra: Sole. Lastra in piombo nel Mitreo di Santa Prisca. A destra: Sole. Mosaico in marmo nel Mitreo di Santa Prisca. In basso: Mithra che uccide il toro in un bassorilievo a Doura-Europos

Nicchia del culto nel Mitreo a Doura-Europos

Una variante abbastanza particolare ci è offerta da un pannello del quadro del Mitreo Barberini a Roma. Qui, Atlante ha ancora un ginocchio a terra, ma con la mano sinistra si appoggia al suolo, mentre la destra alzata tocca la volta celeste. A sinistra e a destra compare un cipresso. In queste illustrazioni si ritrova l’Atlante greco poiché il dio porta il cielo; per il resto la differenza è notevole poiché il dio è vestito come Mithra e reca il berretto frigio. Si tratta, infatti, di Mithra stesso che porta il fardello (ὠμοφόρος) della volta celeste. Già alla sua nascita portava il globo nella sua qualità di Kosmokrator (sovrano del cosmo) mentre con l’altra mano sosteneva l’anello dello Zodiaco (rilievo di Treviri).

Figura 48 e 49 - Atlante con una sagoma femminile, probabilmente la Terra (a sinistra) e Atlante che porta il pesante fardello della volta celeste (a destra)

È dunque poco probabile che si possa legare l’Atlante del Mitraismo a quello del manicheismo, come ha voluto fare F. Cumont. Seguendo Sant’Agostino (Contra Faustum XV, 6), la dottrina di Mani descrive Atlante come ‘colui che porta il mondo sulle spalle, e lo sostiene con due braccia, mentre mette un ginocchio a terra’. Per il manicheismo Atlante è dunque il portatore della terra, mentre lo ‘Splenditenens’ sostiene lo spazio celeste pieno di luce. E dunque piuttosto dalla mitologia greca che il Mitraismo ha preso Atlante, perché era quello che meglio poteva esprimere il fardello che Mithra deve portare e di conseguenza la potenza che da quest’ultimo ne discende. Come si vede, il Mitraismo ha accolto una diversità di divinità; ciò si

spiega con la lunga storia di questo culto, ma anche con il fatto che i discepoli del dio hanno scientemente tentato di fare della loro religione una religione universale.

CAPITOLO XII Il Dio del tempo infinito

Nei diversi santuari consacrati a Mithra, si ritrova la rappresentazione di un essere mostruoso (secondo Girolamo, monstruosum portentum). L’essere ha un corpo umano attorno al quale si avvolge un serpente, ed è sormontato da una testa di leone. Nessuna di queste rappresentazioni reca un’iscrizione che permetta di identificare il personaggio. Alcune ipotesi recenti vogliono vedere in lui Ahriman, il dio del male. Il professar R. Zaehner di Oxford formulò per primo questa teoria che l’iranista belga Duchesne-Guillemin seguì con una certa esitazione. Si trovano, in effetti, iscrizioni votive dedicate ad Ahriman, ma esclusivamente sugli altari. Tre di queste iscrizioni sono conosciute; furono trovate a Roma, in Inghilterra e in Austria. Si tratta visibilmente d’invocazioni per placare le forze del male e sviare il loro potere malefico, e bisogna credere che i Mitraisti che le fecero dovessero essere ben provati per rivolgersi direttamente ad Ahriman piuttosto che affidarsi a Mithra, la cui vittoria finale sul male era certa e necessaria. Per noi, un altare dedicato al diavolo in una chiesa è impensabile, gli antichi pensavano diversamente e succedeva che si sacrificassero dei cinghiali per placare Ahriman. Diverse ragioni mi trattengono tuttavia dal dichiarare il mio accordo su questa nuova interpretazione. Citiamo solo un’obiezione: la teoria è in contraddizione con ciò che conosciamo della gnosi e delle sette ermetiche; in queste sette, così come sui papiri magici e sulle gemme, ci capita d’incontrare un dio di aspetto identico, al quale è dato il nome di Aion e che è il dio del tempo. Lo studio di questa figura enigmatica ci induce alla convinzione che la spiegazione, meno recente, di F. Cumont è esatta. Il personaggio con la testa di leone è dunque il dio del tempo, Aion negli scritti greci, Zurvan nella letteratura persiana. Nella letteratura persiana relativa al dio del tempo, è importante distinguere bene tre concezioni diverse al riguardo. La dottrina ortodossa di Zaratustra considera Zurvan come una creatura di Ahura-Mazda, il dio del bene. Un’altra teoria ammette l’esistenza di due princìpi originali, quello del Bene e quello del Male. Per un’altra setta dell’epoca dei Sassanidi,

diversamente, tutto trova la sua causa e la sua origine in Zurvan-Akarana, il tempo infinito. Ahura-Mazda e Ahriman provengono entrambi da lui e a lui sono sottomessi. Gli zelatori di questa setta recavano il nome di Zurvanisti. È Zurvan che, dopo avere subìto molteplici influenze straniere, fu ammesso nel panteon del Mitraismo. Il personaggio con la testa di leone non è dunque altri che Zurvan, che i Greci, con un gioco di parole assimilarono a Kronos (Tempo), mentre divenne Saturno presso i Romani. La rappresentazione di questo dio è sempre molto ieratica. Capita che sia rappresentato totalmente nudo, il che permette di distinguere che è di sesso maschile, più spesso tuttavia è coperto da un tessuto o dalle spire che fa attorno a lui il serpente, come se l’artista avesse voluto suggerire un dubbio riguardo al sesso del dio, o anche avesse voluto suggerire che la divinità in questione era ermafrodita e capace di partenogenesi (vedi Fig. 50). Tra le spire del serpente, che sono non a caso sette, si distinguono a volte i segni dello Zodiaco. Lo spaventoso personaggio è inoltre comunemente rivestito da una testa di leone dalla criniera possente e con la grande bocca aperta, che scopre canini minacciosi. L’immagine è ancora più impressionante quando la bocca è aperta e dipinta in rosso. Una statua del dio, proveniente da Saida in Africa presenta una cavità nella testa, probabilmente destinata a ricevere una torcia accesa, questo dispositivo permetteva di creare l’impressione che la testa schizzasse fiamme, il che aumentava il timore reverenziale dei fedeli. Conosciamo d’altra parte una rappresentazione del dio dove lui stesso tiene le fiamme e dove inoltre una lunga fiamma uscita dalla sua bocca va a confondersi con il fuoco che arde su un altare di fianco al dio. Un autore sconosciuto menziona peraltro in un trattato su Saturno che questi è rappresentato a volte con una bocca di leone spalancata a causa del calore torrido, altre volte come un serpente a causa del freddo glaciale. A volte il dio porta una chiave in ciascuna mano; è qui che si deve stabilire un rapporto tra lui e il dio Giano, quest’ultimo, in effetti, è il guardiano della ianua, la porta degli inferi, della quale egli ha le chiavi. Esistono anche dei rapporti tra Zurvan e Serapide, il dio egiziano dei morti; inoltre vediamo dei legami di parentela tra lui e le divinità siriane avviluppate da un serpente. In conclusione: l’identificazione con Kronos e Saturno denota influenze greche e romane; l’identificazione con Giano, guardiano delle chiavi, è romana; la divinità ha anche subìto influenze egiziane con l’assimilazione al

dio dei morti Serapide e altre divinità nilotiche; infine le similitudini con Atargatis sono d’ispirazione siriana. Il problema della personalità del dio diviene inestricabile se non si è assolutamente convinti che il Mitraista, alla pari dei suoi contemporanei, non aveva l’abitudine di pensare secondo un dogma stabilito, ma si contentava di mettere in luce alcuni aspetti della divinità, secondo la sua scelta e le circostanze del momento. È un po’ come alcuni concerti per piano o violino nei quali l’interpretazione di certi passaggi è lasciata alla libera scelta del solista che li arrangia secondo il suo gusto e le sue idee. E dunque assolutamente inutile tentare di mettere in concordanza o porre sotto un comune denominatore le diverse caratteristiche delle quali andremo a parlare. Kronos-Saturno Il dio è sempre avviluppato da un serpente; a volte i segni dello Zodiaco decorano il suo corpo che è sovente ornato da due paia d’ali delle quali una è rivolta verso l’alto, l’altra verso il basso (vedi Fig. 50). Il quadro del Mitreo Barberini ci presenta il dio in piedi su una sfera, come spesso si riscontra. La cosa particolare è che è circondato dai segni dello Zodiaco che decorano la volta della caverna dove ha luogo l’uccisione del toro. È cosa certa che le sette spire del serpente si riferiscono ai pianeti. Il corpo intero del serpente costituisce un’allusione al tragitto del sole che attraversa i diversi segni dello Zodiaco. Questa divinità assume dunque alcuni attributi del sole che, nella sua corsa, determina il tempo. È dunque lui che regna sullo Zodiaco e in questa qualità s’identifica con Kronos, il Tempo. Ma è anche lui che domina i venti (simboleggiati dalle quattro ali). Comanda dunque alle stagioni allo stesso titolo di Sole e Kronos. Ricorda Celus, il dio del cielo, la cui effige figura su un altare di Carnuntum tra le divinità dei venti e delle stagioni (vedi p. 184). È alla sua bocca divoratrice di leone che Arnobio fa allusione in uno scritto del 295 d.C., ‘Adversus nationes’ (VI, 10), nel quale dice: ‘Tra i vostri dei ne vediamo uno, ricoperto dalla testa di un leone furioso, che è copiosamente ricoperto di minio’.

Figura 50 - Zurvan avvolto da un serpente

Una statua trovata a Castel Gandolfo (vedi Fig. 51) reca teste di leone fin sull’addome e le ginocchia. Il leone simboleggia probabilmente il fuoco divorante, mentre i tre leoni rappresentano forse la tripla natura della divinità solare. Arnobio definisce il dio Frugifer, fruttifero, allusione probabile all’identificazione con il Kronos o Saturno romano. La testa di leone che figura sull’addome della statua di Castel Gandolfo ricorda quella trovata a Merida (vedi p. 180), dove il dio porta una testa di leone sul petto. Il suo aspetto su quest’ultima statua non è spaventoso come altrove; qui è un adolescente che personifica il dio. Vi è dunque sicuramente un’identificazione con Mithra, che un’altra statua di Merida (vedi p. 48) mostra in piedi, con un leone seduto ai suoi piedi.

Figura 51 - Statua del dio del Tempo trovata a Castel Gandolfo

È indiscutibilmente al personaggio di Zurvan-Kronos che si collega il simbolismo del fuoco che è proprio, nell’esercizio del culto, degli iniziati al grado di Leone il cui attributo era sempre il fuoco. Ricordiamo che una statua del dio del tempo trovata a Strasburgo mostra il fuoco. Si tratta di un’allusione al fatto che alla fine dei tempi tutto l’universo sarà consumato dal fuoco; il dio dalla testa di leone è il Tempo che tutto divora. A Hierapolis in Siria, si venerava la dea Atargatis; la si rappresentava come il dio del tempo, in una posa ieratica, avvolta come lui da un serpente. Le concezioni siriane Nello stesso spirito delle statue che conosciamo, s’iscrive una statua trovata a Roma in un santuario siriano del Gianicolo. Si tratta di una statua di bronzo, che ricorda una mummia per il suo aspetto, ma i cui tratti rivelano un’indiscutibile giovinezza e il cui corpo è avviluppato da un serpente che posa la testa su quella del dio. Questa statua fu trovata da Gauckler in un locale ottagonale la cui forma ha probabilmente un significato simbolico.

Gauckler riteneva la statua una rappresentazione di Atargatis, basandosi su un testo di Macrobio risalente al V secolo d.C. Si tratta dei Saturnalia (I, 17, 67), nei quali Macrobio descrive due statue che affiancavano il barbuto dio sole. Queste due statue si trovavano a Hierapolis in Siria e rappresentavano delle divinità femminili con il corpo avvolto da un serpente. Al loro proposito, Macrobio scrive che ‘l’immagine del serpente corrisponde alla traiettoria curva della stella’. Si tratta evidentemente del Sole. Pare, dunque, che Gauckler si sia sbagliato perché la statua del santuario di Roma è di sesso maschile. Le ultime interpretazioni vi vedono il Dioniso-Adone siriano che, come suo padre Hadad, aveva le caratteristiche di una divinità solare. Le concezioni orfiche Tra Kronos-Saturno e Mithra, esiste un legame nella rappresentazione della nascita del dio, trovata a Treviri: il dio compare con l’anello dello Zodiaco ed è circondato dai quattro venti. Vi si vede il giovane dio che nasce dalla roccia attorno alla quale si avvolge un serpente. La regola vuole che Mithra sia rappresentato con le gambe unite che si fondono con la roccia; un rilievo di Modena, rappresentante il dio del tempo, deroga a questa regola (vedi p. 129). Questa eccezione è stata oggetto di una spiegazione molto perspicace di F. Cumont. Il rilievo in questione fu originariamente dedicato da un certo Felix e da sua moglie Eufrosine; come vedremo, questo Felix apparteneva a una setta orfica. Più tardi, divenuto Padre nel culto di Mithra, riconsacrò il rilievo a quest’ultima divinità e fece, di conseguenza, cancellare il nome di sua moglie, che non poteva partecipare a questo culto essenzialmente maschile; tuttavia il nome di Eufrosine rimane decifrabile. Ci si può domandare come Felix potesse consacrare a Mithra un rilievo che prima aveva consacrato a Orfeo come orfico. Il rilievo in questione mostra un adolescente in piedi, nudo, le spalle con le ali. Nella mano destra tiene la folgore e nella mano sinistra una lunga canna; dietro di lui si distingue uno spicchio di luna. I piedi a forma di zoccolo poggiano su un cono di fiamme la cui metà superiore oltrepassa la testa; un serpente lo avviluppa e pone la testa sulla parte superiore del cono. Sul petto figura una testa di leone, affiancata da una testa di ariete e da una testa di capro. L’immagine, molto impressionante, è circondata da una fascia ellittica sulla quale figurano i dodici segni dello Zodiaco. Gli angoli del rilievo sono ornati dalle teste delle quattro divinità. Si vede immediatamente che quest’opera

presenta forti similitudini con la statua di Merida in Spagna (vedi p. 129); è la stessa figura giovane, con il serpente e la testa di leone sul petto. Notiamo tuttavia delle differenze, come gli zoccoli e il cono di fiamme. I piedi negli zoccoli ci fanno pensare al dio Pan, il cui nome significa ‘universo’ e conduce a una identificazione con ‘Phanes’, nome derivato dal vocabolo ‘raggio’. Il Phanes in questione fu assimilato a Mithra; è il giovane dio della luce nel culto orfico e nasce da un uovo. Le due metà del cono formano un uovo dal quale il dio appare. Quest’uovo è una creazione del Tempo, da qui la somiglianza tra il dio Kronos e suo figlio, che fu a sua volta rappresentato come dio del tempo. Da alcune descrizioni giunte a noi, Phanes aveva ali d’oro; portava la folgore e lo scettro come Zeus. Lo zodiaco e il serpente, suoi attributi, ricordano inoltre la corsa annuale del sole mentre il leone, l’ariete e il capro indicano le influenze dell’astrologia. È da notare che questa convergenza di Orfismo e di Mitraismo non fu limitata a Roma. A Housesteads (Borcovicium) in Inghilterra, si scoprì un Mitreo risalente alla metà del III secolo della nostra era; in questo Mitreo si trova un rilievo nel quale Mithra nasce da un uovo. Il motivo centrale di questo rilievo è circondato dai segni dello Zodiaco. Come Phanes, il Mithra di questo monumento trovato nel nord dell’Inghilterra, presenta i tratti di Kronos. Mentre a Sarmizegetusa portava il nome di ‘portatore della luce’ (genitor luminis), a Housesteads gli si diede il nome di saecularis (eterno), termine sinonimo di saeculum, Aion, Aevum, da cui deriva la parola secolo. Il giovane Mithra diviene dunque successore di Saturno. Le feste dedicate a Saturno finivano a Roma il 24 dicembre; il 25 dicembre il giovane Mithra, Saturno giovane, nasceva dalla roccia come dio della luce. Per questa ragione il Padre, rappresentante terrestre di Mithra, è posto sotto la protezione del pianeta Saturno. Influenze egiziane Ad Alessandria esisteva una divinità egiziana del tempo, chiamata con il nome greco Aion (Aevum). Questo dio era strettamente apparentato con la dea Kore come ci riporta Epifania (Adv. Haeres., II, 22, 8). Egli riferisce che ogni notte dal 5 al 6 dicembre, intorno al primo canto del gallo, i fedeli facevano uscire solennemente da un ridotto sotterraneo del santuario di Kore una statua di Aion che era fatta girare sette volte attorno al tempio, alla luce delle torce e al suono dei flauti e dei tamburi. Compiuta questa solennità, il

dio rientrava nel suo alloggiamento. Il senso di questa cerimonia, secondo Epifanio, era l’evocazione della nascita di Aion messo al mondo da Kore quella notte. Si può notare che questa concezione della nascita del dio del tempo si avvicina a quella espressa nel rilievo di Modena, di cui si è parlato prima. Peraltro la rappresentazione del dio egiziano era assolutamente differente; il dio era rappresentato seduto e completamente nudo; la testa, le mani e le ginocchia coperte da ‘sigilli’ dorati. Una statua trovata in Via Zanardelli, ai piedi dell’Aventino, a Roma, si avvicina a questa raffigurazione del dio egizio. La divinità si trova su uno zoccolo di marmo; indossa solo un piccolo abito ed è circondata da un serpente che posa la testa su quella del dio. Nelle due mani, tese lungo il corpo, tiene l’Ankh, simbolo della vita. La testa della statua è andata persa, ma dei nastri permettono di concludere che era ornata di un klaft. A fianco del dio si trova una dea di dimensione minore e vestita di un abito sul quale è gettato un mantello con frange. Nella mano sinistra portava probabilmente un sistro (sistrum), ricordando con ciò la dea Iside. Sino a qui tutto ricorda la mitologia egiziana, ma il culto di Mithra è evocato in una statua trovata nella residenza d’estate del papa a Castel Gandolfo, dove nell’antichità l’imperatore Domiziano si era fatto costruire una villa (vedi Fig. 51). Si tratta di un Kronos davanti alla testa di un leone, recante un doppio paio di ali alle spalle. Come l’Aion di Alessandria trovato in Via Zanardelli, indossa un abito corto; eccezionalmente ha quattro braccia, un occhio sul petto e teste minacciose di leoni sulle ginocchia e l’addome. Nessun serpente si arrotola attorno al suo corpo, contrariamente alle rappresentazioni abituali, ma si vedono due serpenti che si arrampicano alla sua destra e alla sua sinistra, uno lungo il tronco di un albero, l’altro lungo il bracciolo di una poltrona posta dietro il dio. Un cerbero tricefalo è seduto vicino al suo piede sinistro, mentre il tronco dell’albero reca un’idra e una testa di leone. Ritroviamo in questa statua diversi tratti dell’Aion come appare nel culto di Mithra, per esempio la testa di leone e l’occhio sul petto. Quanto all’idra e al leone essi simboleggiano probabilmente l’antagonismo tra l’acqua e il fuoco, mentre le quattro ali e le quattro braccia costituiscono un’allusione alle quattro direzioni del vento. Il professor R. Pettazzoni ha dimostrato che la presenza del cerbero tricefalo indica una parentela con il dio egiziano della fecondità e della morte, Serapide. Macrobio, autore dei Saturnalia (I, 20, 15), opera fortemente tinta di sincretismo, che scrisse verso la fine del IV secolo della nostra era, spiega

che le tre teste del cerbero costituiscono un’allusione al tempo. La testa del leone rappresenta il presente, la testa del lupo il passato, la testa del cane l’avvenire. Cerbero ha ordinariamente tre teste di cane, ma la statua di Castel Gandolfo ha tre teste diverse, identiche a quelle di cui parla Macrobio. La statua di Castel Gandolfo presenta delle affinità con il dio egiziano dalla testa di cane Anubi, identificato con Kronos. Presenta inoltre le stesse caratteristiche del dio egiziano Bes che ha teste di leone alle ginocchia, come Serapide e l’Aion di Alessandria. L’artista che fece l’opera di Castel Gandolfo subì una forte influenza egiziana e i Mitraisti accettarono la sua opera improntata a queste influenze. Altre speculazioni relative a Aion Una statua di Aion scoperta a Ostia e conservata in Vaticano esprime nettamente l’idea di volere dare al dio lo status di una divinità universale. Gli si conferiscono gli attributi più diversi. Il suo petto reca le folgori di Giove tra due chiavi; lo zoccolo reca il martello e le tenaglie di Vulcano, il caduceo di Mercurio, il gallo di Esculapio e la pigna di Attis. Le chiavi si riferiscono al dio romano Giano, custode del cielo del quale apre le porte all’alba per chiuderle al crepuscolo. A credere a M. Messala, console nel 53 a.C., Giano s’identificherebbe con Aion. Macrobio conferma questa dichiarazione e dice che Giano è colui il quale ha fatto l’universo e lo dirige. Il fatto che Giano abbia quattro facce esprimerebbe, secondo Macrobio, il suo impero sui quattro venti dell’universo. Recentemente R. P. Festugière ha inoltre dimostrato nella sua opera sull’ermetismo che le concezioni di Messala si accordano con quelle di Aristotele. Quest’ultimo ci conduce a esaminare la concezione che i filosofi greci avevano di Aion; essa significa fondamentalmente la vitalità, la forza vitale. L’essenza di Aion è costituita dal concetto di vita; da una parte s’identifica con il cielo o con il Cosmo, dall’altra è il creatore della natura dal carattere divino, assoluto ed eterno. È in questo senso che si deve interpretare l’iscrizione che fu incisa sullo zoccolo di una statua di Aion al tempo dell’imperatore Augusto: ‘Per la potenza dell’Impero e la continuazione dei misteri’; Aion è dunque un personaggio che, per la sua natura divina, rimane identico a sé stesso, non ha fine né inizio, non è sottomesso ad alcun cambiamento ed è l’autore della natura divina.

Le caratteristiche di Aion, la cui potenza è così grande da riunire in sé le forze delle altre divinità, sono tali che è lui che s’invoca negli scritti magici ed è la sua immagine che è riprodotta sulle gemme magiche. Si rappresenta a volte con i tratti di un dio dalla testa di leone che tiene nella mano sinistra un globo e una frusta e che è avviluppato da un serpente che si morde la coda. Il simbolismo qui è chiaro: il globo e la frusta rappresentano il concetto solare e il serpente l’eternità. Su un papiro conservato a Parigi, Aion è il dio della luce e del fuoco, identificandosi con Helios, il quale s’identifica con Mithra. Ma, afferma Festugière, anche nei papiri magici non si deve cercare di creare un accordo tra i diversi aspetti di Aion. Dal II secolo d.C. il grande dio dei pagani poteva essere il dio dell’universo o il dio al disopra dell’universo o il sole o il dio universale o anche una divinità sottomessa al dio supremo. Si deve ancora tenere conto della tesi di Festugière per capire la concezione che le comunità mitraiste si facevano di Aion.

CAPITOLO XIII Iniziazione ai Misteri

Molti aspetti delle cerimonie d’iniziazione al culto di Mithra che permettevano al mistico di fare parte della comunità religiosa, si ritrovano presso i popoli primitivi di Australia, Africa e America. Presso queste tribù selvagge l’iniziazione avviene comunemente all’età della pubertà. Essa richiede una preparazione pesante consistente in prove destinate a misurare il coraggio e la perseveranza del candidato che, dopo averle subìte è ammesso in una associazione segreta di carattere religioso o no. Senza pietà, si strappa il giovane recipiendario dalle cure della madre; egli dovrà da questo momento in poi agire di testa propria; in breve l’adolescente diviene un uomo, con i diritti ma anche con le responsabilità tanto grandi quanto il suo nuovo stato lo consente. Dopo questo ‘battesimo’, egli apparterrà al ‘club’ del quale sarà tenuto a mantenere religiosamente i segreti, che non potrà divulgare ai profani e tanto meno alle donne. Come membri di una grande famiglia, gli iniziati si presteranno mutuamente assistenza e potranno contare sulla protezione della loro divinità tutelare, tanto sulla terra quanto nell’Aldilà (ammesso che una credenza nell’Aldilà esista). Sembra certo che i candidati all’iniziazione del culto di Mithra dovessero seguire un periodo preliminare come novizi, un insegnamento che li preparava alla grande cerimonia successiva. Essi dovevano a questo scopo rivolgersi al capo della comunità (Tertulliano, Apol., 8: ‘Atquin volentibus initiari moris est, opinor, prius patrem illum sacrorum adire, quae preparanda sint descrivere’ e in Ad Nat., V, 7: ‘Sine dubio enim initiari volentibus mos est prius ad magistrum sacrorum vel patrem adire’). Ignoriamo tuttavia in cosa consistesse questo insegnamento; non sappiamo se erano spiegati loro i miti sull’origine del cosmo, della creazione della terra e dell’uomo, se dovevano imparare gli inni sacri o i canti sublimi o una lingua liturgica. Dato il segreto che circondava i misteri, è poco probabile che si siano insegnate molte cose a dei profani, ma non è nemmeno escluso, anzi è ammissibile, che princìpi elementari che potevano essere divulgati senza inconvenienti fossero spiegati in modo più o meno ufficiale al nuovo adepto. Il segreto era invece riservato alle cerimonie del culto. Il R. P. Nolan, al quale dobbiamo un esame approfondito degli scavi del santuario a Mithra sotto la chiesa di San Clemente a Roma, ha creduto di poter parlare

del caso di scuole mitraiste. Questo santuario, profondamente nascosto sotto la superficie del suolo, era posto in una zona di una casa romana d’importanti proporzioni. A fianco del vestibolo del santuario si trova un angolo di dimensioni ristrette le cui pareti alloggiano sette nicchie; vi si trovano parimenti alcuni affreschi e, dettaglio di grande importanza agli occhi dell’archeologo, pedane in pietra che corrono lungo tre pareti. Se si segue l’ipotesi del R. P. Nolan, le nicchie si riferirebbero al culto dei sette pianeti, mentre le pedane avrebbero avuto la funzione di banchi di scuola sui quali stavano i discepoli durante i corsi. Rileviamo anzitutto che gli affreschi non hanno alcun rapporto con il culto di Mithra; se si può ammettere che una porta conduceva al vestibolo del santuario, è nondimeno difficile e problematico attribuire al santuario la funzione sopra descritta. Tuttavia è possibile che sia servito a riunioni senza carattere didattico. Quindi è chiaro che né le fonti archeologiche né gli scritti hanno potuto informarci in merito a un insegnamento preparatorio all’iniziazione. Lo stesso si può affermare per l’iniziazione propriamente detta? Fortunatamente no, perché alcuni aspetti dell’iniziazione ci sono stati svelati. E così che alcuni dettagli ci sono noti dalla lettura di un papiro conservato a Firenze e la cui traduzione è la seguente: ‘Nel nome del dio che separò la terra dal cielo, la luce dalle tenebre, il giorno dalla notte, il mondo dal caos, la vita dalla morte e la nascita dalla corruzione, io giuro con assoluta certezza e in assoluta buona fede, di conservare il segreto dei misteri che mi saranno svelati dal pio sommo Padre Serapio e dal reverendissimo Heraut Ka al quale spetta questa rivelazione, e dai miei coiniziati e carissimi fratelli. Che la fedeltà al mio giuramento mi sia di buon auspicio, e che l’indiscrezione sia causa di ogni mio male’. Prima di questo voto quindi, l’iniziato deve fare giuramento solenne (sacramentum) di non tradire nulla di quanto gli sarà rivelato. Inoltre, il papiro ci informa che l’iniziazione sarà fatta da due alti dignitari che hanno rispettivamente il nome di Padre e di Heraut. Compiuta la cerimonia, sarà considerato come il fratello (frater) degli altri iniziati e come il figlio del Padre che potrà identificarlo dai sigilli - dice il testo - cioè i tatuaggi che saranno fatti sulle sue due mani. Tatuaggi appaiono tuttavia chiaramente sulla fronte in molti ritratti, anche su quelli di alcuni imperatori (cfr. Tertulliano, Praescr. Haer., 40). Ma prima che tutto ciò sia fatto, il candidato dovrà subire prove pesanti e alcuni frammenti di pitture, scoperti in una caverna di Capua, ci permettono

di rivivere il terrore del neofita. Vediamo un mistagogo, il capo dei mistici, vestito di una tunica bianca bordata di rosso, che spinge davanti a sé un neofita completamente nudo (vedi Fig. 52). Il neofita ha gli occhi bendati, il che significa che è ancora cieco, incapace di discernere il segreto dei misteri; egli avanza lentamente tastando con le mani lo spazio davanti a sé e ignorando dove lo vuole condurre la sua guida. Più oltre lo vediamo, sempre con gli occhi bendati, prosternato con le mani giunte davanti al mistagogo; egli può a malapena sentire avvicinarsi il sacerdote che reca una spada o un bastone. Ancora altrove il neofita mette un ginocchio a terra; al suo fianco giace una spada; il mistagogo è dietro di lui e pone le due mani sulla sua testa (vedi Fig. 53).

Figura 52 e 53 - Due rappresentazioni di scene d’iniziazione

Altri personaggi assistono al rituale, ma il loro ruolo nell’azione ci sfugge. Ve diamo ancora il neofita prostrato come un cadavere che sarà presto resuscitato a nuova vita. Un’altra cerimonia sembra consistere per il mistagogo nello spingere con forza il neofita alle spalle; quest’ultimo inizia una caduta; un terzo personaggio si precipita verso di lui con le braccia tese. In un altro episodio, il sacerdote stesso, identificabile dalla tunica rossa, compie un rito la cui spiegazione è difficile; tiene un bastone o una spada vicino a un oggetto rotondo (un pane o forse una corona) posto a terra davanti al neofita; costui è ancora in ginocchio e tiene le mani giunte sotto il mento, il mistagogo, dietro

di lui, poggia un piede sui suoi polpacci (vedi Fig. 54).

Figura 54 - Iniziazione ai misteri

Che cosa fa il Padre con la sua spada dietro il neofita? Un testo del IV secolo d.C. ci chiarisce questo punto. Dopo avere rimarcato che gli zelatori non si vergognano di avere gli occhi bendati, l’autore continua pieno d’indignazione: ‘ad alcuni si legano i polsi con budella di pollo, dopo di che li si dondola su fosse piene d’acqua; qualcuno si avvicina a loro e con un colpo di spada trancia i legacci; per questa ragione ha il nome di liberatore’ (alii autem ligatis manibus intestinis pullinis projiciuntur super foveas aqua plenas, accedente quodam eum gladio et inrumpente intestina supra dieta qui se liberatorem appellet). Oltre alle rappresentazioni trovate a Capua, altre fonti parlano delle prove d’iniziazione. Suidas, che scrisse un lessico nel IX secolo d.C., menziona alla vòce ‘Mithra’: ‘Nessuno vi può essere iniziato (ai misteri di Mithra) senza avere anzitutto provato, passando attraverso una serie di prove, che egli è santo (ὃσιος) e che si è mostrato insensibile alle prove’. Racconti terrificanti sono stati fatti a tale proposito sugli imperatori Commodo e Giuliano (vedi p. 190). In un discorso contro Giuliano, Gregorio Nazianzieno (IV secolo d.C.) rimprovera all’imperatore la sua ammirazione per τὰς ἐν Μίϑρου βασάνους καὶ καύσεις ἐνδίκους τὰς μυστικὰς cioè ‘per le prove del culto di Mithra e il marchio degli iniziati con il fuoco’. Un monaco di nome Nonnus si dilunga tra il VI e il VII secolo d.C. sulle

prove menzionate da Gregorio, ma con lui entriamo nel regno della fantasia pura: ‘I neofiti del culto di Mithra erano iniziati dopo una serie di prove. All’inizio subivano le più leggere, in seguito le più pesanti. Si lasciavano per esempio i neofiti soffrire la fame per cinquanta giorni, se riuscivano a resistere per così lungo tempo. In seguito subivano le prove più pesanti: erano a poco a poco scorticati vivi, dopo di che si lasciavano nella neve per venti giorni (o nell’acqua ghiacciata). Solo dopo avere subìto le prove più difficili essi erano iniziati ai misteri più profondi’. Il vescovo Cosma di Gerusalemme ci narra nell’VIII secolo d.C. di scene ancora più terrificanti. Secondo lui c’erano ottanta prove tra le quali, oltre le precitate, ‘nuotare per più giorni, gettarsi nel fuoco, vivere in solitudine e digiunare’. Alla lettura di questi autori, si capisce che essi hanno ben avuto sentore di qualcosa, ma che non hanno potuto interpretarlo giustamente. Lo Svedese Edsman ha dimostrato nella sua opera che è probabile che alcuni Mitraisti abbiano subìto una prova del fuoco, ma s’impone in generale una grande prudenza nell’interpretazione delle fonti. Il che non impedisce tuttavia che questa prova del fuoco debba essere messa in rapporto con un piccolo edificio in pietra trovato nel Mitreo di Carrawburgh (Inghilterra). Nel 1949, gli scavatori trovarono vicino all’entrata nella parte sud del santuario una fossa oblunga che presentava forti somiglianze con una tomba. Se si ammette che questa fossa potesse essere coperta all’occorrenza con pietre piatte, un uomo forzato a sdraiarvisi avrebbe potuto essere sottoposto alla prova del riscaldamento seguita da un brusco raffreddamento. A fianco della struttura si trova una panca stretta. La disposizione dei luoghi presenta similitudini con quella della cappella laterale del santuario vicino a Santa Prisca sull’Aventino (vedi p. 50); ma non potremmo interpretare la disposizione dei luoghi altro che alla luce dell’iscrizione che figura sul bordo della zona vicino allo scavo similare, ma più largo, capace di contenere una persona allungata. Nello stesso posto a Carrawburgh fu trovata una pala per il fuoco; ci si può dunque domandare se il posto in questione era destinato alla marchiatura degli iniziati con il fuoco. Notiamo di sfuggita che la pala per il fuoco è un attributo del Leone, che simboleggia il fuoco. La fossa serviva forse a un simulacro di morte e di sepoltura seguìto da una resurrezione o rinascita. Questa ipotesi spiegherebbe l’uomo prostrato sulle tavole di Capua e il testo dubbio che Lampridio consacra all’imperatore Commodo: ‘Egli infangò i misteri di Mithra con l’omicidio, perché era uso dire o imitare qualcosa solo allo scopo di ispirare terrore’ (sacra Mithraica homicidio vero polluit cum illic aliquid

ad speciem timoris vel dici vel fingi soleat). A Carrawburgh, il fossato conteneva ossa di montone o di capra, il che ricorda la disposizione del Mitreo (discutibile) ‘delle tre navate’ a Ostia, dove nel corridoio centrale si vede una costruzione ricordante una tomba e, di fianco, un mosaico che rappresenta un porco. È meglio dunque non formulare ipotesi in materia se non con estrema prudenza. I dati che ci forniscono gli scavi mancano di certezza e non ci si può affidare completamente ai testi. Ci si deve dunque limitare a ipotesi e a suggerimenti. Dopo diverse abluzioni rituali e dopo un periodo di digiuno e di astinenza giunge per il neofita la fine delle prove. Egli ha prestato giuramento, ricevuto i segni del fuoco sulle mani o sulla fronte e ha stretto la mano destra del Padre (iunctio dextrarum). Il fatto di stringere la mano destra del Padre (δεξίωσις) fa degli iniziati i συνδέξιοι del Padre; il giuramento (sacramentum) fa di loro dei sacrati o consacranei. Si deve citare a questo proposito un’iscrizione molto interessante scoperta a Roma sul Campo di Marte sotto la Cancelleria, la cancelleria pontificia; il santuario, i cui muri erano decorati di stelle e di piccoli spicchi di luna, serviva al culto intorno alla metà del III secolo d.C. Il suo fondatore fu un certo Proficenzio, pater sacrorum, che celebrò la fondazione con versi scritti da lui: Hic locus est felix, sanctus piusque benignus Quem monuit Mithra mentemque dedit Proficentio, patri sacrorum (raffigurazione di una palma) Utque sibi spelaeum faceret dedicaretque Et celeri instansque operi reddit munera grata. Quem bono auspicio suscepit anxia mente, Ut possint syndexi hilares celebrare vota per aevom Hos versiculos generavit Proficentius. Pater dignissimus Mithrae (un ramo di palma). Questo luogo è felice, santo, pio e benefico È Mithra che lo ispirò e lo consigliò A Proficenzio, padre dei misteri, Allo scopo che vi facesse e vi consacrasse una caverna Lavorando con zelo, egli assolse un compito gradevole. Un’impresa sotto auspici felici e benevoli Che i syndexi possano celebrare eternamente i loro voti Proficenzio fece questi versi

Questo degnissimo Padre di Mithra. Notiamo anzitutto che nell’iscrizione figurano due palme; confrontiamo questo con l’iscrizione votiva di un Padre che si trova nel Mitreo di San Clemente. Su questa figurano la ruota solare e la palma, rappresentazione simbolica del Sol invictus, il dio sole invincibile. Notiamo anche che è in sogno che Mithra ordinò a Proficenzio di costruire la caverna (ex visu). Ci si può domandare se nella frase ‘reddit munera grata’ il soggetto è Proficenzio che assolse un compito gradevole o Mithra che lo ricompensò con gratitudine. In questo caso ciò che ci interessa principalmente è il settimo verso: i syndexi sono i coiniziati. L’espressione ritorna a più riprese nel Mitreo di Doura-Europos, il che indica che era usata nel Levante come in Occidente. Ma si ritrova anche in una formula che ci trasmette Firmico Materno (metà del IV secolo d.C.): Μύστα βοκλοπίης συνδέξιε πατρὸς ἀγανοῦ, ‘Partecipante ai misteri del furto del toro, iniziato dal Padre Glorioso’. È Mithra che rubò il toro, è sempre lui che stringe un patto con il dio sole, stringendogli la mano destra. Colui il quale partecipa al mistero imita i gesti di Mithra che, tendendo la mano destra secondo l’uso persiano (Diodoro XVI, 43), conclude il patto e ratifica il suo giuramento. L’iscrizione della Cancelleria ricorda che gli ‘iniziati con la mano destra’ celebrano i loro voti con gioia. Questi voti valgono non solo sulla terra, ma in eterno e il loro effetto perdura nell’Aldilà.

CAPITOLO XIV I sette gradi dell’iniziazione

Una domanda s’impone dopo quanto precede: l’iniziato rimaneva per tutta la sua vita un semplice membro della comunità o gli era possibile accedere a funzioni superiori? È evidente che la metà dei fedeli non avrà conosciuto promozioni nella gerarchia del culto, perché o il fedele non mostrava sufficiente zelo per il servizio del suo dio o gli mancava la cultura necessaria o forse anche la ricchezza per salire i sette gradi che conducevano al grado supremo di ‘Padre dei Padri’. Ma chi era giunto ad assimilare un bagaglio teologico sufficiente e aveva inoltre acquisito gli elementi di conoscenze astronomiche e astrologiche richieste per il culto del dio, in breve colui il quale assolveva queste condizioni poteva accedere successivamente ai gradi di Corvo (Corax), di Sposo (Nimphus), di Soldato (Miles), di Leone (Leo), di Persiano (Perses), di Eliodromo (Heliodromos) e di Padre (Pater). Questi dati ci sono stati trasmessi dal Padre della chiesa, Gerolamo (IV-V secolo d.C.). Furono confermati da molteplici epigrafi e da importanti scoperte tanto in Oriente quanto in Occidente. Queste scoperte ci forniscono la prova che l’ordine dei sette gradi era lo stesso per tutto l’Impero romano. Ciò che colpisce sin dall’inizio, è l’uso principale del greco; tanto nella lingua del culto che nella denominazione dei sette gradi. Notiamo inoltre che il nome di ‘Persiano’ è un’allusione chiara all’origine straniera del culto di Mithra. Gli appellativi di Corvo e di Leone risalgono a costumi ancora più antichi che non si ritrovano né nell’Antichità né ai giorni nostri presso popolazioni primitive. Coloro i quali portano questi gradi hanno un travestimento nel quale si vedono sovente rappresentati. Lo pseudo-Agostino ce li descrive in modo vivace e pittoresco. Se vogliamo credervi: ‘alcuni di loro battono le ali come se fossero uccelli e imitano il gracchiare del corvo, mentre altri ruggiscono come leoni’. Due epigrafi di Roma menzionano anche il titolo di cryfii; la prima data al 358 d.C., la seconda al 362 d.C. Le due iscrizioni ci dicono che Nonio Vittore Olimpio e Aurelio Vittore Augenzio, nella loro qualità di patres hanno promosso alcuni membri della comunità a determinati gradi. Questi Padri secondo l’espressione latina: ‘ostenderunt cryfios’ e ‘tradiderunt Chryfios’. Questi testi sono degni di nota perché sono gli unici a menzionare i titoli in questione, che nessun’altra scoperta ha confermato. Il titolo di cryfii ha

suscitato svariati commentari che vanno da quelli che pretendono di vedervi un rango chiamato ‘avvoltoio’ (γρύφ) sino a quelli che lo traducono con ‘nascosto’ (κρυφίος, nimphus). La prima interpretazione è etimologicamente falsa, la seconda ha dalla sua parte il fatto che il titolare del rango di Nimphus è rappresentato su un quadro di Santa Prisca recante un velo (vedi p. 162), come una sposa che si unisse a Mithra in un matrimonio mistico. Un articolo recente scritto dal professar C. W. Vollgraff pone il problema sotto una luce nuova e stabilisce una distinzione netta e definitiva tra Nymphii e Chryfii. I Nymphii sono gli sposi di Mithra, i Chryfii sono i nascosti, che non significa i membri segreti del culto, ma gli adolescenti che, come i κρυπτοί di Sparta non fanno ancora parte ufficialmente del clan o del culto. Sono dei nascosti che non sono ancora ammessi al culto pubblico. Costituiscono gli ἐλπίδες, le ‘speranze’ della comunità (Doura-Europos). I Padri presentano questi giovani a Mithra nel corso di una cerimonia solenne (ostenderunt o tradiderunt). Iscrizioni della stessa epoca provano che questi Chryfii potevano essere molto giovani; ragazzi relativamente giovani erano ammessi al culto. Porfirio (III secolo d.C.) afferma che i tre ranghi inferiori erano considerati come ‘servitori’ (ὑπηρετοῦντες) mentre gli iniziati di rango superiore sarebbero stati i ‘partecipanti’ propriamente detti, espressione che con ogni evidenza indica quelli che potevano partecipare al pasto rituale, mentre i ranghi inferiori svolgevano il ruolo di servitori. Queste affermazioni di Porfirio non corrispondono ai dati che ci forniscono le scoperte archeologiche. Un altare di Pettau in Yugoslavia (vedi Fig. 34) ci mostra Mithra e Sole da una parte e dall’altra di un altare (vedi p. 222). Essi tengono uno spiedo sul quale sono infilati pezzi di carne; un corvo arriva in volo per beccare la carne. Poiché nei riti il corvo è rappresentato dal Corax, egli partecipa al pasto. Per contro, a Doura, vediamo in un quadro il corvo porgere uno spiedo guarnito da pezzi di carne a Mithra e Sole riuniti a banchetto. Il Corvo qui è dunque veramente un servitore, come su un rilievo di Konijc (vedi Fig. 37) e sugli affreschi di Santa Prisca che rappresentano il banchetto. Questi affreschi si trovano sul muro sinistro del Mitreo. Se ne può concludere che il Corvo è il servitore per eccellenza, ma che può anche essere partecipante. Il contrario è vero per i ‘partecipanti’. Gli affreschi di Santa Prisca ci mostrano, sulle zone superiori e inferiori, una processione composta quasi esclusivamente da Leoni che portano le offerte a Mithra. Essi fanno dunque ufficio di ‘servitori’, il che è ancora confermato da un’iscrizione

trovata in un santuario posto ai piedi dell’Aventino e consacrato al dio da un ἱερεὺς καί πατὴρ Βενοῦστος ούν τοῖς ὑτηρέταις Θεοῦ, cioè il sacerdote e Padre Venusto e i servitori del dio, tra i quali vi sono i Leoni come provato da un’altra iscrizione nel medesimo santuario. Così come il sacerdote nella chiesa cattolica ricopre a volte le funzioni di diacono o di sottodiacono, o come ogni battezzato è μετέχων a partire dai suoi sette anni. Le scoperte recenti ci hanno permesso di farci una migliore idea del culto. Sono soprattutto i Mitrei di Ostia e quello di Santa Prisca che ci hanno fornito le informazioni più preziose. A Ostia, troviamo infatti riprodotti in mosaico gli emblemi araldici di ciascun rango. A Santa Prisca, i dignitari dei diversi gradi sono rappresentati muniti dei loro attributi. Questi documenti sono da mettere in relazione con i rari dati scritti di cui siamo in possesso.

Figura 55

Corax, corvo Nel mito dell’uccisione il Corvo è un araldo; gioca il ruolo del messaggero che trasmette a Mithra il comandamento divino. Occupa dunque il posto di Mercurio, messaggero degli dei. Questo perché il suo emblema è il caduceo, il bastone magico di Hermes-Mercurio. Sul mosaico si nota la presenza di un bicchiere. Nel Mitreo di Santa Prisca, l’immagine del corvo nella rappresentazione del corteo dei sette gradi di dignitari è purtroppo perduta, ma l’angolo dove si trovava reca ancora in caratteri leggibili l’iscrizione: Nama Coracibus tutela Mercurii, Salute ai corvi, protetti di Mercurio. Il corvo simboleggia inoltre l’aria e gli iniziati di questo rango hanno dunque dovuto subire i riti d’iniziazione che si riferiscono a questo elemento. Questi riti hanno il nome di corvina o coracina sacra; la loro celebrazione fa del neofita un ἱεπός κόραξ, un corvo sacro; il qualificativo di sanctus si ritrova per gli altri gradi,

per il pater in particolare che è il capo della comunità. Nell’esercizio delle sue funzioni rituali il Corax porta una maschera di corvo (vedi Fig. 37).

Figura 56

Nymphus, sposo Il Nymphus porta nell’affresco di Santa Prisca un velo da sposa e il dipinto che sormonta il suo ritratto indica che è posto sotto la protezione del pianeta Venere. È purtroppo impossibile capire se la figura dipinta nel ‘Mitreo delle pareti dipinte’ di Ostia, che tiene uno specchio, rappresenti Afrodite o il Nymphus. Del Mitreo di Doura-Eropos conosciamo sedici nymphi. Questi sposi maschili (perché le donne non sono ammesse al culto) sono uniti dal Padre in un matrimonio con Mithra. Ma sembra che questo matrimonio mistico con il dio non escluda un matrimonio reale. Nell’iniziazione la δεξίωσις o iunctio dextrarum cioè il fatto di stringere la mano destra in pegno di fedeltà, giocava un ruolo importante (vedi p. 222). Questa cerimonia era in uso tanto presso i Persiani quanto presso i Romani e la ritroviamo rappresentata sovente sui sarcofagi romani. Un testo di Firmico Materno (Err. Prof Rel., XIX) è importante a questo riguardo: «´Αι»δε νύηφε, χαῖρε νυμφε, χαῖρε νέον φῶς. La prima parola è purtroppo difficile da leggere. Se leggiamo αἰδε il significato del testo sarà ‘canta Nymphus’, ma se la parola si legge come ἰδέ, la frase si legge come segue ‘vedi, Nymphus, salute Nymphus, salute nuova luce’. Quest’ultima interpretazione si giustificherebbe con il velum, il velo o, nei riti romani del matrimonio, il flammeum con cui era acconciata in Roma la sposa. Si suppone che questo velo fosse scostato a un dato momento per mostrare lo sposo alla comunità. A credere ad Apuleio, un cerimoniale del

genere, sarebbe stato in uso nei misteri di Iside: repente velis reductis, in aspectum populi errabat. Il termine αἰδε, canto, spiegherebbe anche che in questo caso il Nymphus avrebbe dovuto intonare un canto nuziale di circostanza. Il mosaico danneggiato di Ostia indica come emblemi del Nymphus la fiaccola e la lampada. La fiaccola è la torcia nuziale; la lampada simboleggia il νέον φῶς, la luce nuova, messa in relazione stretta con il dio del sole, Mithra. Non è escluso che dopo l’iniziazione del Nymphus si sia illuminato il Mitreo. Il fatto non può essere provato, ma io suppongo che in ragione della purificazione particolare alla quale doveva sottomettersi prima della cerimonia (vedi il quadro del museo del Vaticano intitolato ‘Nozze Aldobrandini’) il Nymphus rappresenti l’elemento acqua.

Figura 57

Miles, soldato Il dio Mithra è un deus invictus, dio invincibile, che, se si fa riferimento all’Avesta, dà la vittoria ai suoi discepoli sul campo di battaglia. Nella lotta per la vittoria finale sul Male, Mithra trionferà come assistente del dio del Bene. Infatti, ogni adepto attraverso la propria iniziazione entra nella milizia del dio (militia), ma l’iniziazione particolare al rango di miles e l’avere prestato giuramento militare (sacramentum) confermano definitivamente la sua entrata nei ranghi. I Mitraisti concepivano la cosa letteralmente: il soldato di Santa Prisca è rappresentato con un abito scuro e sulla spalla sinistra porta il sacco militare. Questo sacco compare con la lancia e l’elmo nel mosaico di Ostia, dove questi oggetti costituiscono l’emblema del miles. Quest’ultimo si trova, infatti, sotto la protezione di Marte, il bellicoso. Alcune iscrizioni lo qualificano come pius o εὐοεβής o anche integer, cioè pio, devoto o integro. Se il Corax e il Nymphus rappresentavano gli elementi aria e acqua, il Soldato sarebbe più particolarmente il rappresentante dell’elemento terra mentre il Leone rappresenterebbe il fuoco. Non disponiamo tuttavia di alcuna prova definitiva e ignoriamo se il miles subiva un battesimo con l’elemento terra. Per quanto riguarda la sua iniziazione dobbiamo contentarci di una breve relazione di Tertulliano, De Praescr., 40: (Mithra) signat illic in frontibus milites suos: ‘Mithra segna i suoi soldati in fronte’. Se ne può concludere che il segno dei Mitraisti era loro conferito nel corso dell’iniziazione a questo rango (vedi p. 260) a meno che Tertulliano non qualifichi come milites tutti i Mitraisti. Ancora, altrove, nel De Corona, 15 Tertulliano parla dell’iniziazione dei soldati, che ‘quando li si inizia nella

caverna, un vero campo di tenebre, si vedono offrire sulla punta di una spada una corona che viene loro posta sul capo. Essi devono allora rifiutare con la mano tesa questa corona e farla scivolare sulla loro spada dichiarando che Mithra è la loro unica corona. Dopo questo gesto non li si incorona più ed essi possono invocare questo gesto come prova, nel caso in cui gli si imponga il giuramento militare. Dopo che hanno rifiutato la corona e dichiarato che la loro corona è dio, essi sono considerati come soldati di Mithra’. Tutto avviene dunque come in un esercito, dove si può conferire la corona d’onore a un soldato quando egli ha salvato la vita di un concittadino o quando, nel corso di un assalto, egli ha per primo occupato una cittadella o una postazione nemica. La stessa distinzione è accordata al soldato di Mithra nel corso della sua iniziazione. Per quanto riguarda la presentazione della corona sulla punta della spada, essa era destinata a provare per l’ultima volta il coraggio dell’iniziato, perché Tertulliano qualifica questa presentazione come un simulacro del martirio. Può darsi che l’oggetto rappresentato al piede dell’iniziato su un affresco di Capua (vedi Fig. 53) sia la spada di cui parla Tertulliano. E certo tuttavia che il soldato rifiuta la corona con queste parole molto modeste: ‘Solo Mithra è la mia corona’, ‘La mia corona appartiene al mio dio’. Come Mithra, ha preso il suo giogo, il suo fardello sulle sue spalle; combatterà le forze nemiche nella più stretta disciplina. L’affresco di Santa Prisca rappresenta il soldato come portatore dello strascico di chi lo precede.

Figura 58

Leo, leone Il Leone porta un lungo mantello rosso vivo. Egli è, infatti, di natura

secca e ardente ‘Aridae et ardentis naturae’ come dice Tertulliano (Adv. Marc., I, 13). Il suo simbolo è la pala da forno ed è questa la ragione per la quale io ritengo che il personaggio che figura sul pavimento in mosaico del Mitreo degli animali vicino al santuario di Cibele a Ostia, sia un Leone. Nel Mitreo di Heddernheim e a Carrawburgh gli scavi hanno portato alla luce una pala da forno. Nel Mitreo di Felicissimo a Ostia, la pala da forno in mosaico rappresenta il suo emblema così come il sistro (sistrum), strumento dedicato al culto di Iside, e la folgore di Giove. Il Leone era infatti posto sotto la protezione particolare di Giove. Il simbolismo del fuoco che si collega al suo grado è particolarmente invocato nel corso della sua iniziazione. Porfirio (De Antro Nymph., 15) ci dice quanto segue: ‘Quando, nel corso dell’iniziazione del Leone, gli si versa del miele sulle mani invece dell’acqua, si vuole indicare con questo gesto che egli deve conservare le mani pure da ogni male, da ogni crimine o sozzura, come si conviene a un iniziato. Gli si lavano le mani con il miele perché il fuoco, che tutto purifica, è un elemento ostile all’acqua. Con il miele gli si lava anche la lingua da ogni peccato’. Conformemente a questo simbolismo, il Leone è sovente rappresentato sui rilievi in un atteggiamento ostile vicino o al disopra di un’anfora (vedi Fig. 59). Su un’iscrizione di Steklen in Bulgaria, si parla anche di un Leone chiamato Melicrisio (unto dal miele). Le sue relazioni con Mithra sono così strette che su certi rilievi si vede il Leone che accompagna, con il cane e il serpente, Mithra alla caccia. Nel Mitreo di Santa Prisca, si vedono due processioni di Leoni che portano delle offerte al dio (vedi p. 171) e un rilievo di Konjic in Yugoslavia (vedi Fig. 37) ci mostra un iniziato di questo rango abbigliato con una maschera di Leone. Il posto del Leone nei misteri è privilegiato, da qui i segni del tutto particolari di rispetto che gli testimoniano i miles nel corteo dei sette ranghi di iniziati a Santa Prisca. Altrove è dipinto in modo indimenticabile con gli occhi neri e un portamento fiero e altero; indossa un abito a strascico di un rosso vivo. È probabile che, conformemente al simbolismo del fuoco, il Leone subisca parimenti un battesimo del fuoco. Almeno si costata che un’epigrafe del Mitreo di Doura impiega la stessa espressione νίπτον del testo di Porfirio, πυρωτὸν ἆσϑμα τὸ καί μάγοις ᾒ νίπτον ὁσίω ,’Respiro ardente che deve essere un bagno di santità anche per i magi’. E interessante il fatto che il termine ἆσϑμα sia impiegato per Dio Crisostomo nel suo racconto su Fetonte per qualificare il fiato ardente di un cavallo esterno alla quadriga solare, che

infiamma gli altri quattro cavalli del carro. Dobbiamo dunque vedere nel rito del fuoco, di cui ignoriamo tutto, un’allusione all’ultimo incendio universale? Il fiume di fuoco che, alla fine dei tempi, sommergerà la terra toccherà solo i malvagi, risparmierà i giusti per i quali ci sarà solo un νίπτον, un bagno purificatore. Due versetti, che si trovano sul bordo inferiore degli affreschi di Santa Prisca, mettono in luce i rapporti tra il Leone, Mithra e il fuoco universale. In questi versi i fedeli pregano il Padre, cioè Mithra, di prendere con sé i ‘Leoni che bruciano l’incenso’. I Leoni per i quali noi stessi offriamo l’incenso che ci consuma (consumimur). La forza purificatrice del fuoco nelle cerimonie del culto rinnova il carattere del Leone e ne fa un essere santificato che, come Giove, abbatte i giganti con le sue folgori e caccia i malvagi con Mithra. Il fuoco unisce i leoni a Mithra e al Sole e, parimenti, al carro solare. Non è da stupirsi dunque se vediamo in un rilievo trovato a Roma il dio del tempo emanare un respiro infiammato, e la statua di Aion a Sidone (Africa) presentare nel retro una cavità destinata a ricevere il fuoco nel corso di alcune cerimonie. In alcuni Mitraei apparivano statue di Leoni che ricordavano molto i guardiani delle tombe. Come tutti gli altri ranghi, i Leoni hanno relazioni particolari con il dio ma anche con la luna, o almeno ciò appare chiaramente nei Perses.

Figura 59 - Leone su un cratere. Cautes

Figura 60

Figura 61 - Mithra, il divino mietitore

Perses, Persiano Sugli affreschi di Santa Prisca è vestito di una tunica grigia; la sua divinità tutelare è la Luna. Come per il Leone, è con il miele che si purificano le mani quando gli si conferisce il rango di Persica. Porfirio nota tuttavia una differenza: ‘Quando purificano con il miele le mani del Persiano, lo fanno nella sua qualità di guardiano dei frutti’ (ὡς φύλακι καρπῶν). Il simbolismo si rapporta qui al miele come elemento conservatore. Non dimentichiamo che, per gli antichi, il miele era usato al posto dello zucchero ed Erodoto (1, 98) fa allusione al suo potere conservatore. I Persiani pensavano che il miele venisse dalla luna o assomigliasse al seme del toro ucciso da Mithra per essere purificato e generare nuovi frutti e nuove vegetazioni. Per questa ragione la Luna è considerata come la guardiana dei frutti e il Persiano la simboleggia. D’altra parte, il Persiano intrattiene con Mithra rapporti particolari. Il suo attributo è la falx (falce). Gli affreschi di Santa Prisca lo presentano recante lunghi rami, forse spighe. Ma la falce è anche l’attributo di Saturno e, su un rilievo di Dieburg, Mithra è rappresentato come il nuovo Saturno, il falciatore divino (vedi Fig. 61) che ripone la mietitura uscita dal midollo e dal sangue del toro. Il Persiano è dunque sotto questo punto di vista

un fedele zelatore del suo dio.

Figura 62

Heliodromos, Messaggero del sole Il nome di Eliodromo indica già che questo dignitario fa, nel culto, ufficio di rappresentante sulla terra di Helios-Sole sotto la protezione del quale egli si trova. I suoi attributi a Ostia sono la sferza, l’aureola di raggi e la fiamma; a Santa Prisca il globo e l’aureola di raggi. Il personaggio, vestito alla foggia orientale, è rappresentato con un globo in mano in una nicchia del Mitreo delle terme di Caracalla, a Roma, è probabilmente anche lui un Eliodromo. Egli è il sole che percorre quotidianamente il cielo nella sua quadriga sferzando i suoi cavalli. Un giorno egli fece ordinare a Mithra l’uccisione del toro; il corvo gli servì da intermediario. È con Mithra che egli conclude questo patto ed è da Mithra che egli riceve l’abbraccio. È ancora con Mithra che egli assiste al banchetto prima di far ritorno in cielo. Non è escluso che alcune cerimonie celebrate nel Mitreo non siano altro che la ripetizione di tutti questi eventi. Tuttavia noi ne siamo certi solo per quanto riguarda la cerimonia dipinta nel santuario di Santa Prisca. Sul muro di destra di questo santuario, è rappresentato l’Eliodromo in seno alla comunità; egli è vestito di un abito rosso con la cintura gialla e serra una sfera blu; con la mano destra alzata saluta il Padre seduto sul suo trono con un costume e un berretto frigio, ambedue rossi. Sul muro sinistro vediamo Sole e Mithra consumare il pasto sacro; il costume del dio solare e i suoi attributi sono identici a quelli dell’Eliodromo. Nel Mitreo dalle pareti dipinte si vede, sul muro di destra, una rappresentazione meno solenne dell’Eliodromo. Su quest’affresco tiene un lungo e sottile bastone e la sua testa è circondata da un’aureola blu. Cammina

verso un albero frondoso vicino al quale si trova un personaggio nudo dal mantello disfatto. È probabile che cerchi di prendere dei frutti; in questo caso l’illustrazione rappresenterebbe un Persiano. Pater, Padre Il più alto dignitario del culto di Mithra è il rappresentante sulla terra del dio stesso, che per questa ragione è vestito come Mithra. E il Padre dei fedeli che si chiamano tra di loro fratres, fratelli; veglia sugli interessi della comunità (defensor). E anche magister sacrorum, il pedagogo che porta

Figura 63

come segno della sua saggezza l’anello e la canna (ῥάβδος); è il mago, il σοφιστής e il grande padre (summus pontifex), legalmente scelto dagli iniziati (consacranei; syndexi) come Padre (pater nominus, πατήρ νόμιμος τῶν τελετῶν τοῦ ϑεοῦ) dei misteri. Egli ha la responsabilità del reclutamento dei nuovi membri e dell’iniziazione ai diversi gradi. A Doura-Europos, costatiamo la presenza di un ἀντίπατρος, probabilmente un rango preparatorio a quello di Padre. A Roma troviamo il pater sacrorum, il Padre dei misteri e il pater patrum. Questo Padre dei Padri è il pastore supremo, infatti un’iscrizione menziona un ‘Padre dei Padri dei primi dieci’ (de decem primis pater patrum). Egli rappresenta la pietas, ed è dunque qualificato come pius, pientissimus o sanctus; egli raggiunge la dignità suprema (dignissimus). La sua competenza è parimenti grande in astrologia (studiosus astrologiae); il che non stupisce quando si pensa come tutta la dottrina sia impregnata di teorie astrologiche dalle quali provengono i sette ranghi d’iniziazione posti sotto la protezione dei sette pianeti. Il Padre è posto sotto la tutela di Saturno. Il suo ritratto a Santa Prisca è sormontato dalle parole:

‘Salute a voi Padri, dall’Oriente all’Occidente, protetti da Saturno’. A Ostia, i suoi attributi sono la falce di Saturno, il berretto frigio di Mithra, e la canna e l’anello che lo designano come Saggio.

CAPITOLO XV Costellazioni ed elementi

I canti più antichi dell’Avesta, le Gatha, che contengono la versione più pura della dottrina di Zaratustra non fanno alcuna allusione a dati astrologici. Se ne trovano invece in parti più recenti, nelle quali gli Amesha-Spentas, ausiliari di Ahura-Mazda, sono stati identificati con i sette pianeti. Fu principalmente per mezzo dei sacerdoti caldei che si diffuse l’influenza delle teorie astrologiche. E questa dottrina penetrò per tante vie diverse nel mondo ellenistico che se ne ritrovano necessariamente tracce nel culto di Mithra. Nell’Impero romano, l’astronomia era oggetto di studi seguiti nei circoli colti; per quanto riguarda l’astrologia qualificata da F. Cumont come ‘sorella naturale’ della prima, la sua influenza segnata di fatalismo si ritrovava in tutte le classi sociali. Due iscrizioni trovate a Roma e provenienti con ogni evidenza da studi di Mitraisti altolocati, testimoniano a sufficienza dell’influenza dell’astrologia sul culto. La prima di queste iscrizioni risale al 382 d.C., e fu scoperta a Piazza S. Silvestro, zona dove Aureliano aveva fatto edificare il suo gigantesco tempio del Sole. Il monumento in questione era suddiviso in sette nicchie delle quali quattro quadrate e tre a semicerchio. Il testo trovato era il seguente: Olim Vietar avus, caelo devotus et astris, Regalo sumptu Phoebeia tempia locavit. Hunc superat pietate nepos, cui nomen avitum est: Antra fecit, sumptusque tuos nec Roma requirit, Damna piis meliora lucro: quis ditior illo est Qui cum caelicolis parcus bona dividit heres. Un tempo Vittore, antenato dedito al cielo e alle stelle, Eresse con grandi spese un tempio a Febo. Suo nipote, che porta il nome dell’avo, lo superò in devozione: Egli fece edificare una grotta, ma alle tue spese Roma non s’interessa, La perdita di un tesoro, consacrato a uno scopo devoto onora il pio donatore: Chi è dunque più ricco di questo sobrio erede,

Che condivide i suoi beni con gli abitanti del cielo? Il monumento fu eretto a cura di Tamesio Augenzio, che fece restaurare la caverna a sue spese. Dopo il 382, un editto dell’imperatore Graziano aveva soppresso i sussidi per la costruzione e la gestione dei monumenti del culto ufficiale (vedi p. 215). Per questo Augenzio introdusse nel suo poema la frase ‘ma alle tue spese Roma non s’interessa’, che costituiva una forma di protesta contro l’editto in questione. Augenzio menziona inoltre il suo avo, Vittore. Si tratta di Nonio Vittore Olimpio che conosciamo da diverse iscrizioni votive risalenti agli anni 357-362. Egli era il Padre dei Padri e, sotto il suo pontificato, furono iniziati diversi dignitari. Il poema lo menziona come fondatore di un Mitreo e come ‘dedito al cielo e alle stelle’. Un’altra iscrizione risalente al 377 d.C., è della mano di Rufus Ceionio che rivestì le più alte cariche sacerdotali, fu pontefice (pontifex) ufficiale e sacerdote di Mithra. Il suo rango di pontefice gli permise di abitare la Regia sul Foro romano, vicino al tempio di Vesta. Ecco il poema: Antiqua generose domo, cui regia Vestae Pontificifelix sacrato milita igne, Idem augur, triplicis cultor venerande Dianae, Persidicique Mithrae antistes Babilonie templi Tauribolique simul magni dux mistice sacri. Nato da un’illustre e antica famiglia, pontefice Per il quale, così come il fuoco sacro di Vesta La Regia felice è destinata. Augure e venerabile adoratore di Diana dalle tre facce E sacerdote babilonese del tempio persiano di Mithra Capo mistico del grande mistero del taurobolio. Colpisce particolarmente vedere che Rufus mantiene le tradizioni babilonesi e ciò fin verso la fine del IV secolo d.C., che vide cancellarsi il culto di Mithra. È precisamente Babilonia, come abbiamo visto, che per mezzo dei Magi impose le sue concezioni al culto di Mithra. Ciò spiega come su un rilievo nei dintorni di Costanza noi si veda Nicomede alludere all’Eufrate (vedi p. 206). Un’iscrizione incisa sulla parete laterale della nicchia rituale del Mitreo di Santa Prisca, ci informa che un membro della comunità fu iniziato ‘alle prime

luci dell’alba, il 20 novembre, giorno di Saturno’; l’iscrizione assume la forma di un oroscopo (vedi p. 180). Il sole e la luna, oltre al ruolo che svolgono nella messa a morte del toro, hanno anche un compito da assolvere nell’ordine dei sette pianeti. Sul bordo di un rilievo di Bologna vediamo i sette pianeti con Giove al centro; nel caso specifico egli porta un cesto sulla testa: questo elemento lo identifica con Serapide. Simili identificazioni si ritrovano nel Mitreo delle terme di Caracalla a Roma, dove Zeus, Helios e Serapide si trovano riuniti sotto uno stesso nome. Il rilievo di Bologna rappresenta i sette pianeti nell’ordine dei giorni della settimana.

In alto: Mithra, bassorilievo in marmo scoperto in Romania nel 1958. In basso: Mithra, placca di bronzo, Budapest

A sinistra: Mithra come dio del tempo, rilievo di Modena. A destra: Mithra come dio del tempo, Statua di Menda, Spagna

È questo anche il caso del bordo inferiore di una magnifica piastra di bronzo recentemente scoperta a Brigezio in Ungheria (vedi p. 287), ma a Bologna la settimana inizia la domenica, giorno del sole, mentre a Brigezio è Saturno ad aprire la processione. Quando nel culto i pianeti sono considerati come protettori dei diversi ranghi, l’ordine è il seguente: Saturno, Sole, Luna, Giove, Marte, Venere, Mercurio, il che sembra indicare che il rapporto tra i gradi d’iniziazione e i pianeti fu stabilito solo in seguito. Seguendo una teoria di Celso, riportata dal suo avversario Origene, ogni pianeta è legato a un metallo (l’oro al sole, per esempio) e l’insieme dei pianeti forma una specie di una scala, dove a ciascun grado si apre una porta. Il tutto è sormontato da un’ottava porta che simboleggia l’Universo delle costellazioni fisse. Nel mosaico centrale del Mitreo delle sette sfere a Ostia, sette porte sono rappresentate sotto forma di semicerchi che riempiono tutto il corridoio centrale. Sul davanti dei sedili si vedono i pianeti, mentre i lati recano i segni dello Zodiaco. Nel Mitreo di Felicissimo, il sole in mosaico del corridoio centrale è diviso in sette porte che rappresentano i sette gradi. In un’ottava sezione compare un vaso circondato da ramoscelli. Per quanto riguarda la dottrina di Celso, è il Mitreo ‘delle sette porte’ a Ostia a offrire più interesse. Dietro l’entrata del santuario, una grande porta è riprodotta in mosaico bianco e nero sul pavimento centrale. Essa è sormontata da pinnacoli e affiancata su ogni lato da tre piccole porte più piccole. In ognuno di questi casi si tratta dunque di una scala di porte che l’anima affronta in un senso alla nascita e in un altro senso alla morte. Da ogni pianeta l’anima riceve una qualità che abbandonerà morendo. Il numero sette ebbe nel culto di Mithra un significato dominante. Alcuni rilievi delle regioni danubiane rappresentano sette cipressi (alberi solari) alternati con sette pugnali, coperti da un berretto frigio. A Doura, sette passi

Figura 64 - Mosaico delle sette porte a Ostia

danno accesso alla nicchia rituale (vedi p. 242). Un rilievo di fattura primitiva, conservato a Mannheim, presenta sette piccoli altari (vedi Fig. 65) disposti in fila. Al disopra figura una grande anfora posata a terra e verso la quale tende la testa un enorme serpente. A fianco si trova un altro piccolo altare davanti al quale si vede un sacerdote, forse un Padre che, tenendo un calice fa una libagione. Al suo fianco si vede un cane, il fedele compagno di Mithra. Sul pavimento in mosaico del Mitreo delle sette porte a Ostia, si vede parimenti un’anfora verso la quale si dirige un serpente uscito da una roccia. Dall’altro lato, un corvo o un’aquila appollaiata su un fulmine. Sovente si vede anche un leone minaccioso vicino a un’anfora; vicino a questa figura un serpente (vedi Fig. 59). Un rilievo che rappresenta la nascita di Mithra, trovato a Treviri, riunisce il vaso, il serpente, il leone, l’uccello e il lampo. Un vaso in terra sigillata sul quale figura il banchetto degli dei, mostra il leone, il vaso con il serpente, il corvo e il gallo. Questo insieme simboleggia probabilmente i quattro elementi, acqua (vaso), fuoco (leone), terra (serpente), aria (uccello). Elementi che, sappiamo, erano già oggetto di una grande venerazione presso i magi persiani, al punto tale che essi

Figura 65 - Sacerdote di Mithra davanti a un altare

vegliavano sempre accuratamente affinché non fossero sporcati (vedi p. 138). Un posto importante era riservato a questi elementi nel culto di Mithra. Non è escluso che gli adepti di Mithra siano simbolicamente passati attraverso questi elementi come attraverso le sette porte dei pianeti. All’origine, l’esistenza del mondo era divisa in sette grandi periodi, ognuno di questi periodi corrispondeva all’influenza preponderante di un ben determinato pianeta. Più tardi sotto l’influenza dei dodici segni dello Zodiaco si ammise l’esistenza di dodici epoche. Già a più riprese abbiamo incontrato rappresentazioni dello Zodiaco negli affreschi o nei rilievi che si riferivano a Mithra. Sull’esempio dei pianeti, i segni dello Zodiaco si trovano a volte riprodotti sui bordi della grotta dove ha luogo l’uccisione del toro; altre volte sono disposti in un grande cerchio sostenuto o no da Mithra. A volte si tratta di rappresentazioni della nascita di Mithra (Treviri, Londra). In altri casi, il cerchio circonda Mithra rappresentato come dio del tempo (Modena, vedi p. 287). La nicchia della cappella laterale centrale del Mitreo di Santa Prisca è ornata di un grande cerchio dipinto in blu, i segni dello Zodiaco erano dipinti in stucco. La traiettoria del sole lungo lo Zodiaco si trova anche nelle rappresentazioni del dio del tempo (vedi p. 248). Come per i pianeti, il loro ordine di successione non è sempre rispettato. Troviamo ancora un’allusione, peraltro non molto chiara, alle costellazioni sul bordo superiore di un rilievo di Apulum (Alba-Julia in Romania) dedicato a Mithra da un veterano della tredicesima legione. Vediamo su questo rilievo un toro in una barca; davanti, più piccolo, compare un toro in una casa. Si distinguono anche due arieti accucciati e uno stambecco che fa un balzo verso uno dei compagni di Mithra. Suo fratello, vestito come lui all’orientale, è davanti a un letto sul quale è sdraiato Saturno o Giove (vedi Fig. 66).

Figura 66 - Rilievo dedicato a Mithra e rappresentante Saturno o Giove su un divano

Su un magnifico rilievo di marmo trovato a Sidone (Saïda) in Siria, le quattro stagioni sono unite ai segni dello Zodiaco. Le stagioni sono rappresentate con l’aspetto di bambini. L’Inverno porta un berretto, il suo attributo è un’anatra, l’Autunno reca una corona di foglie e vicino a lui un cesto di frutta. La Primavera è rappresentata con un cesto di fiori e vicino all’Estate, coronata di spighe, si trova un fascio di grano. Sul rilievo di bronzo trovato a Brigezio, le stagioni sono rappresentate nei medaglioni di ciascun angolo: la primavera con i tratti di un adolescente, l’estate con i tratti di una donna, l’autunno con i tratti di un uomo maturo e l’inverno con quelli di una donna vestita. Oltre ai pianeti, le stelle figurano anche sul rilievo e sotto la scena dell’uccisione del toro si distinguono il leone, il serpente e il vaso (vedi Fig. 11). Su molti rilievi rappresentanti la morte del toro o la nascita di Mithra i quattro angoli sono ornati da immagini degli dei del vento. Essi hanno ali nella capigliatura e con le guance gonfie d’aria soffiano sul vento. Gli dei del vento e le Stagioni si trovano riuniti sul grande altare del Mitreo III di Carnuntum (vedi p. 179). La faccia anteriore mostra il dio del cielo Caelus, con la barba folta, accompagnato dalla Primavera e dall’Estate nella persona di due giovani che portano rispettivamente una corona di fiori e una di spighe. Il lato destro dell’altare rappresenta un uomo anziano barbuto, in piedi, vestito con un lungo mantello tirato sopra la testa; egli personifica l’Inverno. Al suo fianco, il dio del vento Auster soffia in un corno; è rappresentato con i tratti di un giovane uomo nudo con ali nella capigliatura. Il lato sinistro mostra l’Autunno, riconoscibile dai grappoli di uva che ornano la sua testa, accompagnato da Favonio, il vento favorevole. I due altri dei del vento, Euro e Settentrio, ornano la faccia posteriore dell’altare. Erodoto (I, 131) riferisce che nel V secolo a.C. i Persiani offrivano vivande ‘al sole, alla luna, alla terra, al fuoco, all’acqua e ai venti’. I fatti riportati furono confermati più tardi, da Strabone e sono esatti per quanto riguarda il culto di Mithra. I Mitraisti ammettevano infatti, nel quadro della loro dottrina del passaggio del vento attraverso i sette pianeti, che gli dei del vento avessero il potere di favorire o di impedire la trasmutazione. Per tale motivo gli dei del vento sono rappresentati a volte soffianti verso l’alto a volte soffianti verso il basso. Come si vede, le teorie astronomiche o altre

ancora furono soprattutto utilizzate nella dottrina relativa all’Aldilà.

CAPITOLO XVI Il problema della donna

Lo studio della dottrina di Mithra pone un problema per quanto riguarda le donne; le rappresentanti del sesso debole potevano essere iniziate? La domanda può sembrare strana a noi Occidentali, abituati a vedere la donna godere nella società dei medesimi diritti e prerogative dell’uomo. Siamo dunque tentati di vedere una grande ingiustizia nel fatto che una divinità accordi i suoi favori ai suoi adepti maschili ed escluda le donne. Notiamo subito che il caso non è assolutamente isolato e che, per contro, se i misteri di Eleusi, Iside, Cibele e Dioniso sono accessibili ai due sessi, si arriva in alcuni culti come quello della Bona Dea a escludere totalmente gli uomini. In un passaggio molto difficile da interpretare del suo ‘De Abstinentia’, Porfirio dice che gli iniziati che partecipano ai misteri (di Mithra) sono chiamati leoni e che le donne tuttavia portano il nome di iene. Notiamo subito che qui ci troviamo su un terreno assolutamente vago. A parte il fatto che il testo in questione reca evidenti tracce d’interpolazione e di modifiche, si deve notare che nessuna iscrizione ci parla dell’esistenza, tra i gradi d’iniziazione, del rango di Iena mentre è proprio sui gradi dell’iniziazione che i reperti archeologici hanno permesso di raccogliere la documentazione più completa. L’obiezione resta valida se la parola ‘hyaina’ è cambiata in ‘leaina’ (Leonessa). Questo titolo non si ritrova in nessuna enumerazione dei diversi gradi. È menzionato una sola volta e in circostanze del tutto particolari: nella località di Guigariche, sette chilometri a ovest di Tripoli, furono ritrovate due camere funerarie scavate, una a fianco all’altra, nella roccia. Le pareti di queste camere sono dipinte con gusto e provviste di una nicchia nella quale si trova la tomba propriamente detta. Si tratta con ogni evidenza del loculo d’inumazione di due sposi; gli epitaffi ci hanno permesso di sapere che si tratta di Aelia Arisuth e del suo sposo Aelius Magnus. Il coperchio del sarcofago ci rivela che uno era ‘leone’ e l’altra ‘leonessa’, il che è inoltre confermato dalla presenza di un leone e di una leonessa dipinti. Nel caso specifico si tratta della tomba di un fedele di Mithra con il rango di leone. Nessun reperto ci permette di concludere che il culto di Mithra sia esistito a Guigariche (l’antica Oea) e le tombe non ci permettono di concludere nulla in tal senso. Un indizio sarebbe al più fornito dalla presenza di un personaggio dipinto

vicino a graffiti che si riferiscono all’uomo che porta un candelabro correndo. Un simile personaggio si trova nella processione dei Leoni che si vede a Santa Prisca a Roma (vedi p. 172). Se l’uomo era un Leone di Mithra, potremmo ammettere senza rischio di errore che sua moglie avesse il grado di Leonessa. Ma si tratterebbe certamente di un caso assolutamente isolato e la comunità di Oea sarebbe in questo caso l’unica in Occidente ad avere ammesso le donne. In tutti gli altri documenti non si parla che di uomini. Se per caso un’iscrizione menziona una donna, al suo nome non è mai aggiunto un titolo. Se ne ricava l’impressione netta che il culto di Mithra s’indirizzasse di preferenza agli uomini. Il culto manteneva così in vita l’antica concezione del clan i cui segreti sono destinati solo ad alcune orecchie maschili e dove l’uomo in quanto capo del menage familiare rappresenta la famiglia. Questi uomini sono i viri sacrati, gli uomini sacri, tra cui l’arciprete, secondo Tertulliano (De Praescr. Haer., 40) poteva contrarre matrimonio una sola volta. Tutto ciò ricorda le caste chiuse dei magi e le direttive che l’Avesta dà particolarmente al ‘padrone di casa’. ‘Se i padroni di casa Gli (a Mithra) mentono, o il padrone di un castello, o il signore di una provincia, Mithra irritato e offeso fa a pezzi la casa, il castello, la provincia o il paese e con loro il padrone della casa, del castello, della provincia o del paese’ (Yasht X, 18). Da qui discende che sotto un altro aspetto Tertulliano (De Praescr. Haer., 40) attira particolarmente l’attenzione dei suoi lettori, cioè in merito al fatto che il culto di Mithra avrebbe anche conosciuto ‘virgines et continentes’, uomini e donne che, seguendo un uso molto diffuso, vivevano nella continenza e nell’astinenza da qualsiasi amore fisico. Anche le donne potevano consacrarsi al dio in questo modo, nondimeno non potevano essere ammesse ai misteri del dio propriamente detti. Questa particolarità ci è riportata solo da Tertulliano (circa 200 d.C.). Il professar C. W. Vollgraff si domanda a tal proposito se alcuni titolari di gradi come i Nymphi, che erano legati al dio da un matrimonio mistico, avevano ancora la libertà di celebrare un matrimonio terrestre. In caso negativo, quelli tra loro che non avessero potuto ottenere promozione sarebbero stati i continentes. Mi sembra che tale questione potrebbe essere, in una certa misura, risolta. A Doura, la maggior parte degli iniziati citati sono Nymphi; a Roma, a Santa Prisca, sono dei Leoni. Sarebbe stato assai particolare che tutti i Nymphi di Doura fossero stati dei continentes. Inoltre la promozione a un grado d’iniziazione superiore non comporta il decadimento

delle iniziazioni ricevute in precedenza. In quest’ordine d’idee colpiscono molto i documenti relativi alla famiglia di Kamenius. Due iscrizioni trovate a Roma nella zona di un tempio di Cibele in Vaticano, delle quali una data al 19 luglio 374 d.C., menziona la consacrazione di o da parte di un certo Altenia Ceionio Giuliano Kamenius. Tra gli altri sacerdoti costui ricopre le funzioni di pater, magister e hieroceryx nei misteri di Mithra. Stupisce che, nonostante sia il più alto dignitario, egli faccia ancora allusione alle sue funzioni di κήρυξ (araldo) che competono particolarmente al grado inferiore di corvo (κόραξ) (vedi p. 272). Del Kamenius in questione noi sappiamo ancora che fu ‘Padre dei Padri’ nel 358 d.C. e che morì, ancora in carica in questa funzione, ad Anzio. Sua moglie fece incidere sulla sua tomba un poema del quale segue qui un estratto: Te dulcis coniunx lacrimis noctesque diesque Cum parvis deflet natis, solacia vitae Amisisse dolens casto viduata cubili. La tua dolce sposa ti piange giorno e notte Con i bambini, triste di avere perso La consolazione dei suoi giorni, e come Un’orfana sola nel casto letto. Kamenius potrebbe essersi sposato durante l’esercizio delle sue funzioni di Nymphus nel corso della sua ascensione dal grado di Corvo a quello di Padre dei Padri. È certo che i continentes rimanevano volontariamente non sposati, anche se Tertulliano dice del summus pontifex, cioè del Padre, che Mithra aveva decretato che egli in unius nuptiis statuit, cioè che poteva contrarre matrimonio una volta sola.

CAPITOLO XVII Il culto di Mithra e i sacrifici umani

Secondo Erodoto (VII, 114), un costume persiano consisteva nel sotterrare uomini vivi, per rendere grazie al dio risiedente sotto terra. La sposa di Serse, Amestris, avrebbe così ucciso in due riprese sette adolescenti persiani di alto lignaggio. Ci si è domandato se questi orribili costumi, ammesso che siano realmente esistiti, non siano anch’essi stati in uso nel culto di Mithra. È un’opinione che alcuni passaggi della letteratura antica e alcune scoperte sembrano voler confermare. Così Lampridio, nella sua biografia dell’imperatore Commodo (180-192 d.C.) racconta che costui avrebbe infangato i misteri di Mithra con un assassinio (Sacra Mithriaca homicidio vero polluit cum illic aliquid ad speciem timoris vel dici vel fingi solebat). Due secoli più tardi lo storico della Chiesa, Socrate (IV-V secolo d.C.), riporta che ad Alessandria nel corso della celebrazione dei misteri di Mithra, i Greci ‘uccisero degli uomini’. Ciò che l’Antichità imputò all’imperatore Commodo, fu rinfacciato recentemente all’imperatore Giuliano dallo studioso ungherese M. Massalsky. Egli pubblicò un articolo in occasione dell’inventario che si fece delle antichità trovate in un tempio scoperto in Ungheria vicino al villaggio di Fertorakes, nei dintorni dell’antica carreggiata di Sopron a Petronell. Il santuario in questione era stato dedicato all’invincibile dio del sole di cui Giuliano era un fervente adoratore. Esso conteneva, oltre a diversi altari e rilievi votivi un sarcofago che rinchiudeva ossa umane. Da queste scoperte e da racconti fantastici, l’autore concluse che il giovane principe, di passaggio in quei luoghi, in occasione della sua campagna contro lo zio Costanzo, avrebbe celebrato un sacrificio umano, di cui le ossa avrebbero portato sino ai nostri giorni l’orribile testimonianza. Nel Mitreo di San Clemente a Roma, si scoprirono vicino all’entrata due vasche in muratura che presentavano l’aspetto di sarcofagi. Questa scoperta non può essere attendibile come quella fatta a Sarrebourg dove nel fondo del Mitreo, e sul rilievo spezzato di Mithra tauroctono, giaceva lo scheletro di un uomo di trenta-quarant’anni. Esso giaceva faccia a terra con i polsi legati per mezzo di una catena di ferro. Se si tratta in questo caso di una morte rituale, bisogna ammettere che ebbe luogo secoli dopo l’interdizione emanata dall’imperatore

Tiberio, che era mirata contro gli assassini di bambini nel culto di Saturno in Africa (Tertulliano, Apol., 9, 2). L’imperatore Adriano intervenne anche lui vigorosamente in materia, è ciò che apprendiamo da Pallas, conoscitore e adepto del culto di Mithra, che menziona specialmente questa interdizione, probabilmente con l’intento di combattere le accuse fatte contro il culto del dio persiano (Porph., De Abst., II, 56). In definitiva, l’interdizione fu ufficialmente ripresa nel codice delle leggi (Paolo, V, 23, 16). Per quanto riguarda Giuliano, è poco probabile che questo principe abbia calpestato i divieti che secondo Pallas concordavano totalmente con la sua profonda venerazione per il Sol Invictus. Per quanto riguarda Commodo, dobbiamo ammettere, per quanto la relazione non sempre veritiera di Lampridio possa essere esatta, che egli si rese colpevole di un tale misfatto perché ‘si aveva l’abitudine, nel culto di Mithra di dire o di simulare un atto tale (come un assassinio) allo scopo di ispirare un sacro terrore’. Questo costume, che gli affreschi di Capua sembrano confermare (vedi p. 261), era forse la reminiscenza di un sacrificio umano rituale, forse in uso in Oriente, ma che fu sicuramente soppresso quando il culto di Mithra si diffuse in Occidente. Non dimentichiamo che i Greci e i Romani consideravano i sacrifici umani orribili e indegni di loro. Non c’era d’altra parte mezzo migliore per disonorare una religione che quello di accusare i suoi adepti di praticare sacrifici umani. Quest’argomento era usato con forza tanto loro pareva definitivo. È la ragione per la quale i seguaci del paganesimo non esitarono a rivolgere le stesse accuse contro il cristianesimo. La presenza del sarcofago nel Mitreo di Fertörakes si spiega dunque ben più semplicemente con il fatto che il santuario, scavato nella roccia, costituiva un’eccellente necropoli per gli abitanti dei dintorni, dopo che l’uso per il culto vi fu definitivamente abbandonato. Le circostanze che circondano la scoperta di Sarrebourg dimostrano chiaramente che lo scheletro fu posto là dopo la distruzione del luogo dove si celebrava il culto pagano. L’uomo in questione fu probabilmente vittima di una vendetta e, conformemente alle vecchie concezioni persiane, il suo cadavere sporcò definitivamente il santuario e lo rese inutilizzabile, il che era certamente lo scopo degli avversari.

CAPITOLO XVIII Canti sacri

Erodoto, ‘il padre della Storia’ descrive così un sacrificio presso i Persiani (1, 132): ‘nel corso di un sacrificio, un Persiano non può domandare solo per sé stesso la benevolenza del dio, egli deve pregare per tutti i Persiani. Egli sgozza l’animale del sacrificio, fa una lettiera di erba verde e di trifoglio e vi depone sopra la carne. Tutto così disposto, un mago si avvicina e si mette a cantare la teogonia, che è la storia dell’origine degli dei’. Alcuni secoli più tardi, il geografo Strabone racconta come lui poté ancora udire i canti sacri dei magi nel corso dei sacrifici e l’archeologo Pausania vide in un tempio di Lidia come si offrivano sacrifici agli dei dell’Iran: ‘Proferendo invocazioni barbare incomprensibili ai Greci’. La menzione che Erodoto fa di una teogonia fa pensare a un canto dell’Avesta. Fu necessaria tuttavia una scoperta archeologica, perché si avesse la certezza che i misteri di Mithra avevano conservato l’inno cantato prima da Zaratustra e dai magi. Nel corso degli scavi del Mitreo di Dieburg (Germania) nel 1926, si trovò un rilievo votivo unico. Il rilievo in questione fu dedicato agli dei dai fratelli Silvestro Silvino e Silvestro Perpetuo e da Silvino Aurelio che era il nipote di uno dei due. A credere all’iscrizione, Perpetuo era calzolaio e Silvino scultore. È quest’ultimo che decorò le due facce del rilievo; il tutto poteva ruotare su un asse centrale in modo che, durante l’ufficio del culto, si potesse alternativamente mostrare una delle due facce. È il retro che qui ci interessa: ai quattro angoli figurano le teste dei quattro dei del vento. All’interno di una circonferenza che rappresenta la volta celeste, è rappresentato nei minimi particolari il mito di Fetonte (vedi Fig. 67). Il giovane uomo il cui nome significa il ‘luminoso’ ha chiesto a suo padre, Helios, il favore di potere condurre per un giorno il carro solare. Helios è assiso su un trono predisposto davanti all’entrata del suo palazzo. La richiesta di Fetonte è accolta favorevolmente e quattro adolescenti, veloci divinità del vento, conducono in quattro direzioni diverse l’attacco della quadriga di Helios. Attorno al trono si vedono anche quattro donne, personificanti senza dubbio le stagioni; la parte bassa del rilievo è occupata da Oceano, da una dea con una brocca (elemento acqua) e da una dea che tiene il corno dell’abbondanza (la terra) (vedi Fig. 39). Quale significato i

Mitraisti attribuivano a questo mito rappresentato non senza ragione nel palazzo solare di Nerone? F. Cumont risolve tale questione con molta perspicacia. A credere al poeta Nonnos (fine del IV secolo d.C.), Mithra era il ‘Fetonte assiro in Persia’, altrove peraltro il poeta nomina contemporaneamente Mithra e Fetonte. E non fu il primo, perché l’oratore Dio Crisostomo (XXXVI, 39) pubblicò il testo di un inno cantato dai magi ‘nei misteri segreti’. Questo inno presenta forti somiglianze con quello cantato in onore di Fetonte che Zeus fu obbligato a fulminare per risparmiare alla terra di essere bruciata. Ecco cosa apprese Dio dai suoi contatti con i magi nel corso delle peregrinazioni in Asia Minore intorno all’anno 100 della nostra era: ‘la divinità suprema conduce un carro tirato da quattro cavalli, questi cavalli simboleggiano gli elementi e si muovono perpetuamente in cerchio. Il cavallo esterno è il più veloce e simboleggia il fuoco; il secondo, più lento simboleggia l’aria; il terzo l’acqua; il quarto cavallo gira su sé stesso come la terra mentre gli altri cavalli girano attorno a lui. Questa circonvoluzione si esegue da tempo nella più perfetta armonia, ma viene un momento in cui il cavallo esterno dà velocità agli altri. La criniera del cavallo simboleggiante la terra (si tratta di vegetazione) è bruciata dalle fiamme: tutto il tiro (di cavalli) si consuma e si confonde alla fine con il cocchiere. È come se l’artista avesse plasmato il tiro in una cera molle che fa fondere per ricavarne una forma nuova’. L’episodio dove il cavallo che simboleggia il fuoco infiamma con il suo respiro ardente (ἆσϑμα ἰσχυρόν) il cavallo che rappresenta la terra, si avvicina di più alla sventura di Fetonte. Il cavallo che rappresenta l’acqua causa

Figura 67 - Fronte di un rilievo votivo con il mito di Fetonte

un’altra catastrofe; la sua traspirazione provoca il diluvio. Le due catastrofi illustrano la distruzione ultima dell’universo. I discepoli di Platone e gli stoici facevano di Fetonte e della sua inesperienza l’immagine del futuro e dell’incendio universale (conflagrazione, ἔκτυρώσις). Il termine ἆσϑμα impiegato da Diane per il cavallo che simboleggia il fuoco si ritrova nel Mitreo di Doura-Europos (vedi p. 267). E forse all’ultima conflagrazione durante la quale il tiro si confonde con il suo cocchiere, che si fa allusione nel Mitreo di Santa Prisca. Un versetto dice in particolare che i fedeli saranno consumati dai leoni che bruciano l’incenso in quanto simbolo del fuoco. Dal rilievo di Dieburg scaturisce che i Mitraisti hanno fatto del loro dio l’autore della conflagrazione universale; in ciò non facevano altro che seguire la dottrina dei magi dell’Asia Minore che avevano già identificato Mithra con Fetonte durante l’epoca ellenistica.

CAPITOLO XIX I testi recenti di Santa Prisca a Roma

Ricordiamo qui che i membri della comunità Mitraista dell’Aventino a Roma rimisero a nuovo e ingrandirono il loro santuario intorno al 220 d.C. Gli affreschi originali furono coperti da uno strato di stucco sul quale altri affreschi furono dipinti. Il santuario fu invaso dai cristiani intorno alla fine del IV secolo e gli affreschi furono parzialmente distrutti a colpi d’ascia. Le tracce dei colpi sono ancora ben visibili sulla parete di sinistra. Per uno strano ritorno delle cose, è grazie a quest’atto di vandalismo che apparvero diverse linee di testo, perché quando gli affreschi furono portati alla luce comparvero, sotto lo strato superiore di stucco e di colore, dei caratteri scritti appena decifrabili. Questi caratteri presto s’intrecciarono per formare delle parole e infine delle frasi quando lo strato che li copriva fu tolto con precauzione. I testi scritti sul bordo inferiore sono un reperto di estrema rarità perché tutte le opere dell’Antichità trattanti del Mitraismo e nelle quali figuravano forse insegnamenti sul rituale sono andati perduti. Noi ne daremo qui solo alcuni estratti accompagnati da un commento sommario; i dati raccolti saranno trattati in extenso in una successiva pubblicazione riguardante le scoperte olandesi nel santuario. Tutti i testi sono in versi, esametri o pentametri, e in un caso isolato in senario giambico; sono scritti con il pennello a distanze relativamente uguali ma in un modo un po’ disordinato, le linee non sono sempre orizzontali né i caratteri della stessa altezza. L’autore ha anche dimenticato una lettera e ha corretto la parola in seguito con un ritocco. In alcuni angoli due o tre linee sono scritte una sopra l’altra, senza che ci sia tra di esse, salvo forse un’eccezione, alcun rapporto. Queste linee sono forse dedicate a odi o a canti sacri che i fedeli conoscevano evidentemente a memoria. Non è nemmeno escluso che si trattasse ogni volta di un inizio, comunque sia è veramente impossibile determinarlo con certezza; è anche possibile che si trattasse di citazioni isolate o di testi redatti apposta per il santuario in questione. Alcuni testi ci danno delle regole di condotta generale, altri sono consacrati alla dottrina e alle vicende alte del dio. Così come nella dottrina della Stoa, l’insegnamento del Mitraismo era fortemente centrato sulle difficoltà della vita quotidiana. In effetti, quando l’uomo è alle prese con le difficoltà ricerca un appoggio, e il culto di Mithra è in grado di fornirglielo.

‘Nubila per ritum ducatis tempora cuncti’. ‘Voi dovete passare i tempi oscuri insieme e nel compimento dei riti’ cioè aiutarvi reciprocamente, provvedere ai bisogni reciproci, coltivare i princìpi di umanità come conviene tra fratelli del medesimo culto e ciò ‘per ritum’ nel compimento dei riti, con i loro simboli brillanti e svariati. La gravità dell’esistenza s’impone: ‘Dulcia sunt ficata avium sed cura gubernat’. ‘I fegati di selvaggina sono deliziosi, ma sono le preoccupazioni che predominano’. Ancora ai nostri giorni i fegati di selvaggina figurano sui menu dei ristoranti italiani. Sono considerati come una delizia e fanno il piacere di una tavola ben guarnita. Ma le preoccupazioni e il peso dell’esistenza si ritrovano anche in mezzo a questi piaceri: post equitem sedet atra cura ‘Il cavaliere ha in groppa le nere preoccupazioni’, come dice Orazio (Carm. III, I, 40). Lo stesso rituale è severo e spoglio, mai il santuario è degenerato in templi immensi, mai si decorò con un lusso pronunciato o una decorazione sontuosa. Il discepolo di Mithra, anche se fortunato, è vestito semplicemente per l’ufficio religioso e tende soprattutto a perfezionarsi come uomo e a prepararsi a una vita che non sarà più quella di questo mondo. ‘Primus et hic aries restrictius ordine currit’. ‘Qui, l’ariete di testa corre anche lui strettamente nei ranghi’. Il gregge condotto dall’ariete è l’immagine della comunità preceduta dal Padre ed egli corre strettamente nei ranghi. Il vocabolo ordo significa rango e l’espressione in ordine currere vuole dunque dire ‘marciare nei ranghi’. Si pensa immediatamente ai soldati (milites) condotti dai loro ufficiali. Nei riti, Mithra assume quindi il comando supremo. La parola currere significa infatti correre e restrictius vi si oppone nel senso di: con disciplina. La disciplina e l’autocontrollo sono le qualità del soldato di Mithra, che il suo grado sia elevato o no. Dopo queste massime, vengono alcuni versetti che danno nettamente l’impressione di essere stati presi da inni. ‘Fecunda tellus cuncta qua generat Pales ‘. ‘Terra feconda dove Pales tutto produce’. Qui siamo come per il sacrificio dei suovetaurilia (vedi p. 59) nel dominio del culto dello Stato romano. Pales è infatti una divinità romana arcaica il cui nome è messo in rapporto con quello del Palatino, colle che vide, come provato da scoperte archeologiche recenti, la nascita dell’urbs aeterna. Per questo motivo i Palilia o Parilia erano celebrati il 21 aprile e

questo giorno è ancora considerato come quello della fondazione di Roma. Nei suoi Fasti IV, 721-862, Ovidio descrive nei dettagli l’antico rituale ancora in onore ai suoi tempi. Dopo l’invocazione agli dei, il poeta descrive in primo luogo le usanze praticate nel corso della festa e parla dei processi di purificazione. La vigilia della festa si purificano le pecore e gli ovili, che si adornano di frasche e si fumigano per mezzo dello zolfo. Il giorno stesso l’immagine della divinità è aspersa di latte tiepido. Le si rivolge una preghiera nella quale la si invoca come nutrice e nella quale si comincia con l’implorare il suo perdono per tutte le colpe commesse; la si prega in seguito per ottenere la salute e la prosperità degli uomini e del bestiame: ‘Che la fame ostile possa non esistere affatto e possano le piante e la verdura crescere a profusione’. Questa invocazione deve essere pronunciata quattro volte, la faccia rivolta verso Oriente; dopo di che, si salta sopra una pira ardente e ci si purifica con l’acqua. Ovidio dà molteplici spiegazioni di quest’usanza: si riferisce a Fetonte (vedi p. 304) e Deucalione cioè al fuoco universale e al diluvio. Si vede dunque come il culto di Mithra poteva annettere i riti della dea della fecondità, Pales, come fece per i suovetaurilia. Pales dà infatti, come Mithra, la fecondità al mondo. La purificazione con l’acqua e il fuoco così come il riferimento a Fetonte hanno sicuramente facilitato quest’annessione della Pales romana per mezzo del culto di Mithra. Nei loro santuari i Mitraisti celebravano le feste di Pales a modo loro. Il versetto sopra commentato è il primo della serie e ci si può domandare se gli altri non seguano in un ordine prestabilito con lo scopo di descrivere l’evoluzione dell’universo dagli inizi alla fine. Infatti, i due ultimi versetti, a destra sullo stesso muro dicono quanto segue: ‘Accipe thuricremos, pater, accipe, sancte, leones’. ‘Ricevi, Padre sacro, ricevi i Leoni che bruciano l’incenso’. ‘Per quos thuradamus per quos consumimur ipsi’. ‘Attraverso i quali noi offriamo l’incenso che consuma anche noi’. Il Padre del santuario chiamato sanctus, il consacrato, è pregato di ‘accettare’ cioè ammettere all’ufficio del culto un gruppo di persone che si nominano Leoni. I Leoni sono degli iniziati di alto rango e giustamente a Santa Prisca vediamo l’immagine di diversi di questi iniziati. Essi simboleggiano l’elemento fuoco, essi bruciano l’incenso e portano a Mithra i sacrifici

ardenti. Ciò ci ricorda il rilievo di Erghili (Dascylium) sul quale vediamo due magi offrire un sacrificio ardente con una fascia sulla bocca per non soffiare sul fuoco (vedi p. 25 e Fig. 1). Ci si può domandare se il secondo versetto ha un legame con il primo; siccome la frase comincia con un pronome relativo si può dare una risposta affermativa malgrado il fatto che peraltro i due versetti non si completino a vicenda. L’ipotesi si fonda sul fatto che il secondo versetto riprende l’idea del primo: l’offerta d’incenso. I quos sarebbero allora i Leoni per intercessione dei quali noi, cioè gli altri membri della comunità, offriamo l’incenso attraverso il quale noi, cioè la comunità intera, siamo consumati nelle fiamme. Quando l’universo e noi stessi saremo consumati dal fuoco (vedi il mito di Fetonte) e attraverso ciò purificati, i giusti saranno riuniti alla luce eterna, la Lux Perpetua, il Sole e Mithra. Come l’incenso sale in profumo benefico, così noi ci consumeremo come l’incenso o i ceri (vedi p. 168) e acquisteremo un odore di santità. L’influenza della dottrina stoica che considera questo ritorno alla luce come la fine dei fardelli della vita è molto marcata e non c’è da stupirsi che i Mitraisti abbiano eretto ad Atene una statua allo stoico Crisippo. I fardelli della vita! Quale magnifica descrizione delle tribolazioni di Ercole, il R. P. Festugière ci dà nel suo libro ‘La Sainteté’. Zeus, ed Euristeo posto ai suoi ordini, non hanno risparmiato il virgulto degli dei; egli è ὁ πολλά τλᾶς, colui che molto sopportò. Come πολύτλας Ulisse, è ai propri sforzi, πόνοι, che egli deve il fatto di essere quello che è: un eroe indimenticabile, un esempio per l’umanità. Ercole riunisce in sé il πόνος e il λόγος. Ercole li simboleggia ambedue. ‘Ercole non è un saggio. Non si è istruito sui libri. Egli non ebbe per maestro altri che il dolore: τῷ παϑεῖ πάϑος. Ma egli ha conquistato se stesso, egli ha sormontato il suo destino. Egli lo domina, egli si domina; ecco l’eroe e il saggio (Festugière, p. 47). Portare i fardelli della vita, coltivare la virtù (ἀρετή): lo stoicismo e l’epicureismo ce lo dicono, questo è bene (καλός). Mithra condusse il toro verso la caverna e fece così un’azione benefica per l’umanità. ‘Et nos servasti eternali sanguine fuso’. ‘Tu così ci salvasti spandendo il sangue creatore di eternità’. Entrato nella milizia (militia) di Mithra dopo avere prestato giuramento (sacramentum), il soldato (miles) porta il pesante fardello (sarcina) sulle spalle durante la lunga marcia che è la vita. Egli fatica per imitare e servire il

suo dio; egli segue colui humeris portavit iuvencum, il quale portava il giovane toro sulle spalle. Ma questo sforzo lo conduce alla salvezza: ‘L’eroe è un giusto, e tuttavia soffre, ma questa prova porta frutti’ (Festugière, p. 68). Il termine militia, milizia, è usato nella terminologia dello stoicismo ed è comune a tutte le culture elleniche che praticano i misteri. Ci si rende volontariamente schiavo del Signore o della Dama. E alla chiamata della divinità che il fedele entra nelle coorti del dio o della dea. Nel racconto di Apuleio (XI, 15), il gran sacerdote che inizia Lucio ai misteri di Iside, e porta per coincidenza il nome di Mithra, parla come segue: ‘Tu ora sei accolto sotto la protezione di una Fortuna, che è chiaroveggente, e che rischiara anche gli altri dei dello splendore della sua luce. Assumi dunque un viso gioioso, in armonia con il candore del tuo abito, e unisciti, con un passo pieno di allegria, al corteo della dea caritatevole. Che gli empi vedano, che vedano e che riconoscano il loro errore. Ecco, liberato dalle sue antiche tribolazioni dalla provvidenza della grande Iside, ecco Lucio che, nella gioia, trionfa della sua Fortuna. Tuttavia per essere più sicuro e meglio garantito, impegnati in questa santa milizia, alla quale da poco tu hai chiesto di prestare giuramento, consacrati da ora all’osservanza della nostra religione e sottomettiti volontariamente al giogo del suo ministero. Perché quando tu sarai entrato al servizio della dea, è allora che sentirai veramente il beneficio della tua libertà’ (trad. di P. Valette). Lo stesso spirito si percepisce in questo versetto: ‘Atque perlata humeris tuli maxima divum’ ‘E sulle mie spalle io porterò sino alla fine i comandamenti degli dei’. L’iniziato Lucio, ispirato dai comandamenti miracolosi degli dei (mirificis imperiis deum: Apuleio, XI, 29) gusterà la gioia di contemplare il dio supremo Osiride, il maximorum regnator, il signore dei cieli in persona. Il discepolo di Mithra potrà, anche lui, contemplare la brillante luce del dio quando, come Ercole o Mithra stesso, avrà obbedito sino alla fine agli ordini del dio. Il Cristo portò con sofferenza la sua croce verso il calvario e disse: ‘Accettate il mio peso e prendete esempio da me, perché io sono pieno di mansuetudine e umile nel mio cuore, perché il mio giogo è dolce e il mio fardello è leggero’ (Matt., XI, 29-30). San Paolo riprende l’immagine nella sua epistola ai Romani (6, 19-23): ‘In verità, come voi avete messo i vostri membri al servizio dell’immoralità, quando voi eravate schiavi dell’impurità e dell’immoralità, così ora in quanto servitori della giustizia voi dovete

mettere i vostri membri al servizio della santità. Perché quando voi eravate schiavi del peccato, voi eravate liberi verso la giustizia. Quali frutti ne avete raccolto? Voi ve ne vergognate ora, perché il risultato è la morte. Ma ora che voi siete stati liberati dal peccato e siete divenuti servitori di Dio, coglietene dunque il frutto che è la santificazione, il risultato è la vita eterna. Perché il salario del peccato è la morte, ma la grazia di Dio è la vita eterna in Gesù Cristo, nostro Signore’. Parliamo ancora di alcune righe tratte dall’iniziazione dei Leoni e scritte sul muro di destra del santuario: ‘Nama Leonibus novis et multis annis’. ‘Salute ai Leoni per nuovi e lunghi anni’. Il vocabolo nama è di origine persiana e si ritrova in svariate iscrizioni rituali, ed equivale a ‘salve’. A prima vista, si potrebbe credere che si tratti di un augurio per il nuovo anno rivolto ai Leoni e ci si chiede allora come mai solo i Leoni godessero di questa formula di cortesia. Ma un’iscrizione che risale a circa il 165 d.C., trovata ad Atene, fornisce un’altra soluzione al problema. Questa iscrizione fu trovata in una grande sala divisa in tre navate da due ordini di colonne. Il lato est è provvisto di un’abside nella quale si trovarono degli altari e delle sculture. Le iscrizioni ci provano che si trattava di un luogo di riunione di una setta dionisiaca. Altre iscrizioni regolano il modo di elezione del gran sacerdote e l’instaurazione di nuovi statuti. Quando Rufus, che presiede la riunione, chiede ai fedeli di alzare la mano per dimostrare il loro accordo sulla validità dei nuovi statuti, la comunità esclama: ‘Possa l’eccellente gran sacerdote Erode svolgere il suo incarico per lunghi anni’. Questa formula si trova nelle cerimonie alla corte imperiale. È con essa che il nuovo imperatore è salutato dal Senato e dal popolo, perché se l’imperatore gode di una lunga vita, il popolo gioirà di un uguale periodo di prosperità. Progressivamente l’omaggio in questione fu reso anche al nuovo papa dopo la sua elezione. Il che dimostra che quest’augurio, ancora in uso ai nostri giorni nella Chiesa, era già utilizzato dai Mitraisti per l’investitura dei Leoni. Ciò ci riporta a una cerimonia che ebbe luogo nel Mitreo di Santa Prisca. Sul bordo inferiore del muro di destra, precisamente là dove si trova l’iscrizione, vediamo una processione di Leoni che portano la loro offerta, probabilmente per celebrare la loro investitura.

CAPITOLO XX Le offerte e gli artisti Mithra nell’arte

La diversità degli adepti si rimarca nella diversità dei templi e delle offerte fatte alla divinità tutelare. Nelle Alpi italiane, nel mezzogiorno della Francia, in Yugoslavia, troviamo alcuni santuari modesti, nascosti nella montagna. Il rilievo rituale è scolpito nella parete rocciosa. Nella montagna a trenta km a nord-ovest di Costanza sul Mar Nero, Mithra era venerato in una caverna; a fianco di altari molto primitivi, si vede uno splendido rilievo di mano dello scultore Nicomede e offerto da un alto funzionario del fisco (vedi p. 176). Lo scultore Critone di Atene scolpì a Ostia un magnifico gruppo di Mithra e del toro nel quale l’immagine del dio è presentata in elevazione, alla maniera greca. A Lepcis, in Tripolitania, lo scultore Aristo Antioco fece due statue in marmo di portatori di fiaccole. A Merida, in Spagna, Demetrio fece una creazione molto originale consistente in un Mithra in piedi con un delfino. A Koenigshofen vicino a Strasburgo, esisteva, nel II secolo d.C., tutta una scuola di artisti attirati lì dalla presenza di legioni e dal culto di Mithra. Questo gruppo non limitava le sue attività ai soli Mitrei di Koenigshofen e di Mackwiller, le loro opere si ritrovano in un raggio importante intorno a queste due località. Le scene dipinte si ritrovano principalmente nei Mitraei di Roma e di Ostia, ma anche a Doura sull’Eufrate. I Mitraei di Ostia sono principalmente conosciuti per i mosaici. Per mezzo di piccoli cubi di marmo bianco e nero i mosaicisti vi hanno rappresentato sul suolo e sui sedili diversi aspetti della dottrina di Mithra. Orafi (argentarii) hanno lavorato a Poetovio in Yugoslavia e a Stockstadt in Germania, dove troviamo piccole placche in argento cesellato che recano il motivo decorativo del tauricidio. Gli intagliatori di gemme ci hanno lasciato pietre preziose tagliate con l’effige di Mithra (vedi Fig. 68) mentre a Santa Prisca fu scoperta una testa del dio solare circondata da una corona di raggi fatta in piombo (vedi p. 155). Nello stesso Mitreo gli artisti lavorarono in diversi periodi all’ornamento della nicchia rituale per mezzo di effigi di Mithra e di altre opere in stucco. È soprattutto in Germania e in Austria che i vasai confezionano le celebri anfore con i serpenti. Recenti scoperte ci hanno permesso di costatare che nelle manifatture di vasi in terra sigillata, che si trovano a Lezoux in Gallia meridionale, un vasaio confezionò un’anfora sulla

quale compare la scena dell’uccisione del toro (vedi Fig. 69).

Figura 68 - Gemma rappresentante Mithra

Figura 69 - Vaso in terra sigillata con rappresentazione di Mithra

A Treviri, si scoprì una coppa in terra sigillata sulla quale era rappresentato il banchetto di Mithra. Un esame più approfondito di questi oggetti ci permette a volte di scoprire che l’artista aveva mal compreso l’oggetto dell’ordine o che, come per Critone a Ostia, egli l’aveva interpretato secondo le sue proprie concezioni. La profondità del simbolismo attribuito a un monumento dipende in gran parte dal grado d’istruzione dei membri della comunità o di quello dell’esecutore. Nella maggior parte dei casi, il Padre ha probabilmente avuto una voce determinante nel decidere la sistemazione generale del santuario. Le possibilità di sistemazione furono necessariamente molto limitate in alcune contrade ed è probabile che la mancanza di fondi abbia sovente avuto l’ultima parola in materia. Ma se le circostanze erano favorevoli, il santuario era ornato da opere d’arte; il motivo centrale era circondato da altre rappresentazioni votive del dio tauricida (come a Sarmizegetusa in Dacia). Lo si decorava di lampade, di candelabri e, come sappiamo dalla lettura di un’iscrizione trovata a Ostia, si offriva un velo ricamato o dipinto (deum in velo formatum) destinato alla nicchia rituale. Malgrado ciò la sistemazione di un Mitreo non era mai lussuosa, anche a Roma, dove si trovano tuttavia alcune statue coperte di oro in foglie, il santuario resta severo e spoglio, in conformità con il carattere della divinità che si venera. L’esame di alcune di queste rappresentazioni di Mithra ritrovate sul territorio dell’Impero permette di discernere un certo numero di correnti tradizionali. Il tipo normale del Mithra che uccide il toro in una caverna a volta si ritrova tanto su un rilievo in Yugoslavia (vedi Fig. 70) che a Roma o in altre parti dell’Impero romano. Il tipo divenuto alla lunga molto convenzionale è probabilmente dovuto a un artista che è senza dubbio vissuto all’epoca degli imperatori e che fu formato alla scuola ellenistica.

Figura 70 - Mithra che uccide il toro

Il rilievo sul quale Mithra figura in piedi sul toro è assolutamente eccezionale (vedi p. 198); il suo piede sinistro è trionfalmente poggiato sulla testa dell’animale. Su questo rilievo Mithra è abbigliato con il berretto frigio e con una corona; nella mano sinistra tiene un globo o una pigna e nella destra alza un pugnale. Ai suoi fianchi si vede uno scorpione, un corvo, un leone, un gallo che canta, una formica e un’aquila posata su un lampo. Il tipo del dio posto su un animale è talmente diffuso in Asia Minore che lo si utilizzò anche per rappresentare Mithra. Ma questo modo di rappresentare Mithra non conobbe successo: è come tauricida che il dio è al centro della natura e simboleggia dunque il momento della resurrezione della natura. Le correnti artistiche non sono tutte di provenienza romana, per quanto alcune scene non siano rappresentate che a Roma. Le processioni dei Leoni di Santa Prisca sono d’ispirazione assolutamente locale e danno alle cerimonie un’impronta personale. Un rilievo di Konjic (vedi Fig. 37) ci fa parimenti vivere uno dei momenti essenziali dell’ufficio religioso, ma è a sua volta di concezione totalmente diversa. Le scene di caccia sono geograficamente limitate alla Renania, non se ne trovano a Roma bensì a Doura sull’Eufrate; questa specie di rappresentazione fu dunque probabilmente introdotta direttamente dall’Asia Minore in Renania. Per contro la Renania ebbe scuole

artistiche diverse; da questa regione ci sono pervenuti i grandi rilievi decorati da scene accessorie. Questi rilievi costituiscono dei veri archi di trionfo, non si trovano nelle regioni danubiane e la specie non è conosciuta a Roma a parte un affresco del Mitreo Barberini che ci permette di affermare che la pittura romana fu influenzata dall’arte renana. In Romania e in Bulgaria si manifestano altri generi artistici, limitati ai territori in questione. Se per caso si incontrano in altre regioni, si può essere certi che sono di provenienza dacia. In questo gruppo figurano soprattutto i piccoli rilievi a forma di volta i cui bordi sono decorati con scene ispirate alla leggenda di Mithra. Le scene del bordo inferiore sono per la maggior parte separate da piccoli archi. Nei paesi danubiani si trovano sovente dei rilievi di forma trapezoidale sui quali l’immagine di Mithra è circondata da rappresentazioni diverse che si stendono fino ai bordi. Non si sono trovati rilievi di forma circolare a Roma, ma se ne è scoperti in Yugoslavia (Salona), in Ungheria (Brigezio) e uno solo in Bulgaria. La varietà nei monumenti è dunque grande; molta libertà è lasciata all’artista, che lavora secondo le sue concezioni personali spesso ispirate alle tradizioni locali. Capita d’altra parte, come si può costatare, che l’artista non abbia seguìto le istruzioni del maestro d’opera e non abbia compreso il simbolismo che quest’ultimo desiderava vedere espresso nel manufatto.

CAPITOLO XXI Mithra sconfitto

Nel corso del III secolo d.C. il culto di Mithra era talmente diffuso nell’Impero romano che, anche quando l’Iran si mise a rivaleggiare con Roma sul terreno politico e militare, vi rimase in onore. La parentela tra la casa imperiale e le dinastie siriane all’inizio del III secolo non fece che aumentare l’interesse nei confronti degli dei dell’Oriente. L’attrattiva dei misteri risiedeva soprattutto nella cerimonia dell’iniziazione, nella quale il fedele si sentiva personalmente legato alla divinità di sua scelta. Nei culti orientali, l’accento era messo sulla salvezza personale del fedele nel corso della sua vita e dopo la morte. Per chi si sentiva attirato da un culto orientale, ma non ne desiderava l’esotismo, l’attrazione per Mithra era sicura. La tendenza al monoteismo, ancora favorito dalle concezioni filosofiche del momento, condusse al culto universale del Sole invitto. Il giovane siriano Eliogabalo fece tuttavia un grossolano errore quando credette, nel 218 d.C., di potere introdurre a Roma il culto di Baal di Emeso. I Romani tenevano ancora troppo alle loro concezioni tradizionali sul sole per ammettere un Baal personificato da una pietra nera. Nel 274 Aureliano poté costruire un grande tempio al sole sul Campo di Marte, all’angolo con l’attuale Piazza S. Silvestro. In questo tempio, Aureliano venerava il dio del sole come l’unico, la celeste, la potentissima forza divina. Ogni quattro anni, dovevano essere celebrate feste in onore della nuova divinità dello Stato: un collegio sacerdotale particolare fu dedicato al suo culto e la sua nascita fu celebrata il 25 dicembre. Si comprenderà che il culto di Mithra approfittò di questo favore e, nel 307 o 308, vediamo alle frontiere dell’Impero come Diocleziano nel corso della sua conferenza di Carnuntum consacrò con i governanti del momento un altare a Mithra ‘protettore dell’Impero’ (vedi p. 68). Tuttavia è citato solo il nome di Mithra e gli assistenti alla consacrazione non si associano al culto solare più generale di Aureliano. La potenza di Mithra ha raggiunto il suo apogeo e diviene universale. Mithra tenta allora di acquisire il posto d’onore in capitolo. È difficile affermare che ci sarebbe riuscito se la sua avanzata non fosse stata bloccata dal cristianesimo. L’affermazione di Renan nel suo libro su Marc’Aurelio (p. 279) che dice: ‘Se il cristianesimo fosse stato arrestato nella sua crescita da

qualche malattia mortale, il mondo sarebbe stato Mitraista’ è troppo rigorosa. La battaglia del ponte Milvio, vicino al Tevere (312), fu decisiva non soltanto per Costantino, ma anche per il culto di Mithra. Il monogramma del Cristo aveva condotto Costantino alla vittoria, come in precedenza il dio del sole aveva mostrato ad Aureliano che lottava al suo fianco e non a quello di Zenobia (Altheim). Il culto solare fu allora imposto a Roma come culto di Stato; mentre è la croce che Costantino piantò fermamente sul suolo romano. Bayet rileva a giusto titolo che la religione dei Romani si è sempre sviluppata nell’ambito della politica romana: ‘È lì la particolarità più sorprendente della sua evoluzione’. H. Doerris ritiene che sia anacronistico chiedersi se l’intervento ufficiale di Costantino in favore del cristianesimo rispondesse a idee e sentimenti personali. Riferendosi a Costantino, Doerris dice: ‘die Politik war für ihn von der Religion bestimmt, die Religion von Politischen aus erschlossen’. Nel corso della seconda metà del IV secolo si disegna il quadro finale della lotta tra cristianesimo e paganesimo. L’imperatore Giuliano, poco incline a seguire la sua educazione cristiana, ricevette il nome di ‘apostata’. Molto influenzato dalla scuola neoplatonica e attirato dal misterioso, Giuliano, da cristiano, divenne Mitraista convinto. Convinzione ancora più rimarchevole poiché il culto nel IV secolo conosceva più simpatizzanti che veri adepti. J. Bidez al quale dobbiamo una magnifica biografia di Giuliano l’Apostata, lo descrive in pagine infiammate come l’ultimo imperatore che professò la dottrina di Mithra. Giuliano comprese che il Mitraismo, se voleva diventare una religione universale, doveva abbandonare il suo carattere rimasto ancora primitivo sotto diversi aspetti e aprirsi di più alle interpretazioni filosofiche. Ecco perché l’inno al Sole composto dallo stesso imperatore è ispirato al misticismo di Giamblico; Mithra s’identifica con il Sole, con Apollo, con Fetonte, Iperio e Prometeo. Le altre divinità non sono altro che l’emanazione della potenza del Sole. Giuliano s’identifica con il buon pastore, al quale era imposta la morale di Mithra: ‘Bontà verso gli uomini che era chiamato a governare, devozione verso gli dei, padronanza di se stesso’ (Giuliano, Caes., 356 C). Dal momento in cui, in un Mitreo di Costantinopoli, egli fu iniziato al più alto grado del culto, fece di tutto per far trionfare Mithra, ma una freccia mise fine ai suoi giorni nel corso della sua spedizione contro il sovrano persiano Shapur. Dopo la sua morte si assiste a un breve periodo di mutua tolleranza. Essa

termina con un editto dell’imperatore Graziano nel 382. L’altare di Victoria è tolto dal Senato, i sussidi ufficiali riservati al culto romano sono soppressi (vedi p. 176). Graziano è il primo imperatore, nel 374, a rifiutare il titolo di pontifex maximus. A credere a Gerolamo (lettera a Laeta, 107), il prefetto urbano Gracco aveva poco tempo prima (377) abbattuto, sfregiato e fatto a pezzi (subvertit, fregit, escussit) un Mitreo e tutte le orribili immagini (portentosa simulacra) che vi si trovavano. Questo Mitreo non ha potuto essere identificato con certezza. De Rossi ha espresso l’opinione che si trattasse del santuario situato vicino a S. Silvestro. Comunque sia, le conseguenze di questo furore iconoclasta sono nettamente riconoscibili nel santuario di Santa Prisca. Graziano dovette fronteggiare l’opposizione di una cerchia molto importante d’intellettuali. Li si può dividere in due gruppi: quelli che desideravano servire e seguire il clan di Giuliano e quelli che lottavano per gli dei la cui esistenza, secondo l’espressione di Altheim, si giustificava: ‘not in their being gods, but in their being gods of Rome’. I due gruppi collaboravano intimamente. Il loro capofila era Vezio Agorio Praetextatus, che aveva fatto restaurare sul Foro il Porticus Deorum Consentium, nel quale figuravano le immagini di dodici dei. Egli era responsabile di diversi sacerdoti ed era Padre dei Padri del culto di Mithra. Praetextatus era un fedele adepto delle idee di Giuliano, mentre il suo successore e amico Q. Aurelio Simmaco era di un conservatorismo rigido. Verio Nicomaco Flaviano, nipote di Simmaco fu punito dall’Imperatore nel 377 per avere favorito i Donatisti in Africa. Fu lui che condurrà la lotta finale. Di Alfenio Ceionio Giuliano Kamenius, nipote dell’imperatore Giuliano, ci sono pervenute diverse iscrizioni molto importanti che rivelano come egli fosse legato al culto di Mithra. È in quest’ambiente di aristocratici e di saggi che si muoveva lo scrittore Macrobio che sintetizzò la dottrina del paganesimo nei suoi Saturnalia. Fu Simmaco che, nella sua veste di diplomatico prese su di sé il compito ingrato di dolersi con Graziano delle misure che egli aveva appena preso. Ma l’arcivescovo di Milano, Ambrogio, minacciò il giovane imperatore di scomunica. I due avversari non furono dunque Graziano e Simmaco ma Ambrogio e Praetextatus. Nel 385 quest’ultimo morì lasciando il suo partito senza un capo. L’avvento di Teodosio vide la lotta volgere alla fine. Quando i cristiani di Siria saccheggiarono e incendiarono una sinagoga, e quando dei monaci misero a fuoco un santuario di valentiniani gnostici, Teodosio intervenne per esigere la punizione dei colpevoli e la riparazione dei danni. Ma Ambrogio

intervenne nuovamente e Teodosio cedette. Quale che sia stato il suo desiderio d’indipendenza, egli divenne in definitiva ‘spiritualmente sottomesso ad Ambrogio’ (Herbert Bloch). Tuttavia incorse comunque nella scomunica in occasione di un altro incidente, ma fu riammesso alla comunione dal vescovo nel Natale del 390. Un editto del 27 febbraio 391 vietò qualsiasi culto pagano a Roma e qualsiasi visita a santuari pagani (Cod. Theod., XVI, 10, 10). Poco tempo dopo, il magnifico Serapeo di Alessandria fu distrutto (Rufino, Hist. Eccl., XI, 22-30). Il giorno 8 novembre dell’anno successivo fu promulgato l’editto finale. Qualsiasi pratica di una religione pagana, anche in privato, è punita di sanzioni gravi (Cod. Theod., XVI, 10, 12). Non si deve tuttavia pensare che i sostenitori del partito avversario si siano sottomessi di buon grado. Flaviano divenne il perno attivo dell’opposizione e scelse il partito di Eugenio che si apprestava a dichiarare battaglia a Teodosio nell’Italia del nord. Il combattimento doveva decidere della sorte dell’antico culto. All’inizio la battaglia del Frigidus sembrò portare la vittoria a Giove; l’indomani mattina Teodosio s’inginocchiò in preghiera. Una tempesta si levò sull’Adriatico e le frecce del nemico si ritorsero contro di lui. Un nuovo miracolo aveva deciso la sorte della battaglia. Eugenio fu abbattuto e Flaviano si tolse la vita. La lotta spirituale durò ancora degli anni e poco tempo dopo Agostino iniziò a scrivere la sua ‘Città di Dio’ per contestare l’affermazione secondo la quale la presa di Roma sarebbe stata dovuta all’abbandono e al disprezzo da parte degli antichi dei romani. E possibile che Mithra sia ancora rimasto per qualche tempo in qualche contrada isolata, ma il potere del dio invitto era infranto; fu il tempo a sconfiggerlo, il suo culto disparve e noi cerchiamo di percepire i segreti che il dio portò con sé nella sua caduta.

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Mithraeum di Marino - Il transitus del dio - Mithra reca in spalle il toro ucciso

Mithraeum di Marino

Ricostruzione della nicchia cultuale del Mithraeum di Nida-Heddernheim

Mithraeum di Marino - tauroctonia

Duomo di Monreale (Palermo) capitello con Mithra che sopprime il toro

Battistero di Parma - Timpano con scena ispirata ai Misteri di Milhra

Museo Archeologico di Bergamo - Ara mithriaca

Mithraeum Barberini icona cultuale

Indice Frontespizio Libro ed Autore Simbolo di Mithra Prefazione Per una rilettura di “Ce Dieu Mystérieux” Le caverne mitriache Il potere dei Magi Il potere delle immagini Il potere del nome Mitografie Bipolarità creatrice L’esoterismo dei misteri Il volto del dio La tauroctonia poliedrica I Magi ellenizzati Genealogia dei misteri Corrispondenze mistiche Roma, il Ponto, l’Egitto e l’Iran Origini indo-iraniche Osservazioni calendariali Il sacrificio indo-iranico La dimensione bio-cosmica Religiosità individuale Epilogo Cenni biografici Introduzione CAPITOLO I Mithra in Iran e in India CAPITOLO II Zoroastro e i Magi CAPITOLO III Mithra in Europa CAPITOLO IV Gli Adepti di Mithra CAPITOLO V Metodi di propaganda CAPITOLO VI Aspetto di un tempio di Mithra CAPITOLO VII Santuari di Mithra celebri o importanti Il Mitreo vicino alla chiesa di Santa Prisca sull’Aventino a Roma Il Mitreo vicino a Walbrook nella città di Londra Scoperte magnifiche in un santuario a Merida in Spagna Templi di Mithra a Deutsch-Altenburg vicino a Vienna Un santuario di Mithra a Sarmizegetusa in Romania CAPITOLO VIII La più gloriosa impresa di Mithra CAPITOLO IX L’entourage del Dio CAPITOLO X La leggenda di Mithra, la nascita miracolosa La lotta di Mithra con il toro Il miracolo dell’acqua La caccia di Mithra Sole e Mithra Il banchetto e l’ascensione CAPITOLO XI Divinità che attorniano la figura di Mithra CAPITOLO XII Il Dio del tempo infinito Kronos-Saturno Le concezioni siriane Le concezioni orfiche Influenze egiziane Altre speculazioni relative a Aion CAPITOLO XIII Iniziazione ai Misteri CAPITOLO XIV I sette gradi dell’iniziazione Corax, corvo Nymphus, sposo Miles, soldato Leo, leone Perses, Persiano Heliodromos, Messaggero del sole Pater, Padre CAPITOLO XV Costellazioni ed elementi CAPITOLO XVI Il problema della donna CAPITOLO XVII Il culto di Mithra e i sacrifici umani CAPITOLO XVIII Canti sacri CAPITOLO XIX I testi recenti di Santa Prisca a Roma CAPITOLO XX Le offerte e gli artisti Mithra nell’arte CAPITOLO XXI Mithra sconfitto Bibliografia Bibliografia relative alla Prefazione Opere di carattere generale Titoli particolari Il sacrificio del toro Figure

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