Michael Mann: le fonti del potere sociale

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MIMESIS / TEORIA CRITICA N. xx Collana diretta da Lucio Cortella COMITATO SCIENTIFICO

Marina Calloni, Franco Crespi, Alessandro Ferrara, Virginio Marzocchi, Elena Pulcini, Stefano Petrucciani, Walter Privitera, Massimo Rosati

ELEONORA PIROMALLI

MICHAEL MANN Le fonti del potere sociale

MIMESIS

MIMESIS EDIZIONI (Milano – Udine) www.mimesisedizioni.it [email protected] Collana: Teoria critica, n. ? Isbn: 97888575217xx © 2016 – MIM EDIZIONI SRL Via Monfalcone, 17/19 – 20099 Sesto San Giovanni (MI) Phone: +39 02 24861657 / 24416383 Fax: +39 02 89403935

INDICE

INTRODUZIONE 1. I PRIMI SCRITTI DI MICHAEL MANN: COSA TIENE UNITA LA SOCIETÀ? 1.1 La coesione sociale nelle democrazie liberali e l’ideologia delle classi lavoratrici 1.2 Le prime applicazioni del modello quadripartito del potere sociale 1.3 Ruolo e autonomia degli Stati nella società contemporanea 2. IL POTERE SOCIALE NELL’ANTICHITÀ E NEL MEDIOEVO: THE SOURCES OF SOCIAL POWER, VOLUME 1 2.1 Definizioni di società e di potere sociale 2.2 Le origini del potere sociale: le prime civiltà mesopotamiche 2.3 Alcune osservazioni critiche 2.4 La dialettica di centralizzazione e decentralizzazione 2.5 Una «multi-power-actor civilization» aperta sul mondo: l’antica Grecia 2.6 L’impero territoriale romano 2.7 L’ecumene cristiana 2.8 Dal feudalesimo al capitalismo 2.9 Osservazioni conclusive: la sociologia storica di Michael Mann 3. CLASSI, STATI E NAZIONI: THE SOURCES OF SOCIAL POWER, VOLUME 2 3.1 Una teoria dello Stato moderno 3.2 Le grandi rivoluzioni all’origine di Stato, classi e nazioni 3.3 Il capitalismo transnazionale, l’equilibrio dei poteri e l’ascesa tedesca 3.4 I grandi attori di potere del XIX secolo: l’avvento dello Stato moderno 3.5 I grandi attori di potere del XIX secolo: classi e lotta di classe

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3.6 I grandi attori di potere del XIX secolo: nazioni e nazionalismi 3.7 1914: l’Europa si avvia alla catastrofe 4. RIVOLUZIONI E IMPERI GLOBALI: THE SOURCES OF SOCIAL POWER, VOLUME 3 4.1 L’Europa nella prima guerra mondiale 4.2 Globalizzazione frammentata: gli imperi coloniali 4.3 Una teoria della rivoluzione 4.4 La grande depressione e l’avanzata dei diritti sociali nelle democrazie costituzionali 4.5 La via autoritaria: i fascismi europei 4.6 I regimi della rivoluzione permanente: fascismo e stalinismo a confronto 4.7 L’ultima guerra tra imperi: 1939-1945 4.8 Michael Mann e le teorie delle relazioni internazionali 5. GLOBALIZZAZIONI, AL PLURALE: THE SOURCES OF SOCIAL POWER, VOLUME 4 5.1 L’ordine globale dopo la seconda guerra mondiale 5.2 La guerra fredda e gli Stati Uniti 5.3 L’Unione Sovietica: guerra fredda, riforma e crollo 5.4 La Repubblica Popolare Cinese 5.5 L’ideologia del dominio di classe globale: il neoliberismo dal 1970 a oggi 5.6 L’impero incoerente: le debolezze del nuovo imperialismo americano 5.7 Conclusioni: le quattro fonti del potere sociale, oggi

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6. IL LATO OSCURO DELLA MODERNITÀ: I FASCISMI E LA VIOLENZA ETNICA 6.1 Una sociologia dei movimenti fascisti 6.2 Prendere i fascisti sul serio: chi erano, e perché? 6.3 La psicologia fascista 6.4 I fascismi oggi 6.5 La violenza etnica come «lato oscuro della democrazia» 6.6 Le otto tesi sulla pulizia etnica 6.7 Combattere la pulizia etnica nel mondo di oggi

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7. BIBLIOGRAFIA DEGLI SCRITTI DI MICHAEL MANN

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INTRODUZIONE

La teoria del potere di Michael Mann, esposta nei quattro volumi che compongono l’opera The Sources of Social Power (1986, 1993, 2012, 2013), costituisce una delle prospettive più influenti nell’ambito della ricerca sul potere contemporanea. Essa ha dato vita a un vasto e partecipato dibattito nel quadro della sociologia e della filosofia politica internazionali e ha portato il suo autore ad essere universalmente riconosciuto come uno dei principali rappresentanti dell’attuale panorama storico-sociologico. Obiettivo di questo volume è una ricostruzione critica dell’opera complessiva di Mann: ripercorrendo l’itinerario dell’autore a partire dai suoi primi scritti fino alle ultime pubblicazioni, analizzeremo lo sviluppo della teoria delle quattro fonti del potere, gli snodi centrali di essa e le conclusioni a cui Mann giunge rispetto all’articolazione dei rapporti di potere nelle società storiche e contemporanee. Nato in Gran Bretagna nel 1942 ma stabilmente trasferitosi a Los Angeles1 a partire dal 1987, al punto da aver acquisito la doppia cittadinanza – britannica e statunitense – Michael Mann ha indagato lungo tutta la sua vita i rapporti di potere sociale, dedicando la maggior parte delle sue energie intellettuali a The Sources of Social Power. Questo testo costituisce una monumentale opera in quattro volumi in cui egli ripercorre la storia delle società umane esaminando, a partire dal neolitico fino alla contemporaneità, le forme, le variazioni e le dinamiche di sviluppo dei rapporti di potere. Mann conduce la sua vastissima ricerca storico-sociologica, che si colloca a metà strada tra uno studio di carattere empirico e un’opera di teoria sociologica generale, sulla base di un modello da lui stesso elaborato: egli sostiene infatti (e mira a dimostrare nella sua opera) che le relazioni di potere succedutesi nel corso della storia umana possono essere studiate al meglio analizzandole in base a quattro idealtipi principali, costituiti dal potere ideologico, economico, militare e politico, i quali si presentano sempre in1

Mann è attualmente distinguished professor di sociologia all’Università della California, Los Angeles.

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trecciati e intersecantisi nella concreta realtà sociale. Queste quattro «fonti del potere» rappresentano per Mann gli «strumenti organizzativi» che gli esseri umani, formando reti d’azione collettiva per il soddisfacimento dei loro scopi, hanno adottato fin dagli albori della civiltà; in forma idealtipica, esse costituiscono le chiavi analitiche fondamentali tramite cui è possibile studiare la storia umana. Le quattro fonti del potere sociale, interrelandosi attraverso l’azione individuale e collettiva dei soggetti e interagendo con altre variabili maggiormente contingenti e storicamente diversificate, vanno a comporre le concrete interazioni di potere, stratificazioni sociali, istituzioni e «cristallizzazioni»2 ravvisabili nelle diverse fasi dello sviluppo storico del genere umano. Attraverso il modello teorico basato sui quattro idealtipi è possibile svolgere generalizzazioni sensate sulle mutevoli conformazioni dei rapporti di potere e sugli eventi storici, i quali non presentano, però, sufficiente regolarità affinché si possa parlare di leggi storiche. Dall’altra parte, la storia non è nemmeno, idiograficamente, il regno della contingenza e del particolare: l’intersecarsi delle diverse reti di potere dà modo, in molti casi, di riconoscere regolarità e nessi di causalità, e talvolta anche di ravvisare dialettiche e dinamiche come, ad esempio, la dialettica di centralizzazione e decentralizzazione che Mann espone nel primo volume.3 Le quattro fonti del potere costituiscono quindi, alla massima profondità di analisi e di sistematizzazione a cui possiamo giungere, le componenti idealtipiche fondamentali lungo le quali è possibile ripercorrere la storia umana. Esse non danno modo di esaurire la complessità e la variabilità degli eventi storici né l’elemento contingente presente in essi; al contempo, però, il modello teorico elaborato da Mann, nell’identificare le quattro più profonde costanti idealtipiche, valide in ogni epoca e in ogni società, permette di tracciare, a grandi linee, una mappa argomentata delle strade prese dalla storia umana e, in maniera continuamente supportata dai dati empirici, di spiegare le tendenze generali dello sviluppo umano e del mutamento sociale. In The Sources of Social Power Mann compie non solo una (già di per sé notevolissima) impresa originale di teorizzazione, categorizzazione e ricostruzione storica, ma interloquisce altresì con una grande varietà di autori, di ambiti e di problemi teorici: la sociologia classica di Weber, Durkheim e Spencer, il pensiero marxiano, la sociologia storica e comparata contemporanea, le analisi dello Stato e delle classi tanto in chiave marxista quanto 2 3

Riguardo alle «cristallizzazioni», concetto specifico della teoria dello Stato elaborata da Michael Mann, cfr. infra, § 3.1.1. Cfr. infra, § 2.4.

Introduzione

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pluralista ed elitista, gli studi dedicati da Wallerstein e Arrighi alla geopolitica e al sistema-mondo, le teorie sociali evoluzionistiche e funzionalistiche. Grazie alla conoscenza diacronica e comparativa della storia mondiale che Mann guadagna mediante l’applicazione del suo modello, egli va spesso a collocarsi in una posizione originale, ma al contempo mediatrice, rispetto alle discussioni e ai paradigmi con cui si confronta, riuscendo a evitare le opposte unilateralizzazioni che talvolta hanno caratterizzato gli approcci precedenti, ma, allo stesso tempo, proponendo valide soluzioni ai problemi in questione. La teoria del potere di Mann costituisce, come vedremo, un modello originale, flessibile e dall’alto potere esplicativo, tale da essere applicabile al complesso della storia umana ma anche a questioni e problemi specifici:4 nel corso delle pluriennali ricerche finalizzate alla scrittura dei singoli volumi di The Sources of Social Power, la complessità di alcuni argomenti ha fatto sì che l’autore andasse a dedicare ad essi opere tematiche, in cui, applicando il modello delle quattro fonti del potere, giunge a letture innovative, rigorose e teoricamente affascinanti dei fenomeni in questione: l’attuale politica estera degli Stati Uniti (L’impero impotente, del 2003), i regimi fascisti (Fascists, del 2004), la pulizia etnica (Il lato oscuro della democrazia, 2005). Nel presente volume, successivamente alla considerazione dei primi scritti di Mann (capitolo 1) e dei quattro libri che compongono The Sources of Social Power (capitoli 2, 3, 4 e 5) andremo a trattare anche queste opere (capitoli 5 e 6), nelle quali l’attenzione analitico-argomentativa dello studioso e l’impegno politico-normativo di Mann come cittadino di solide convinzioni democratiche non sono mai disgiunti. L’approccio che seguiremo tende a mettere in luce, all’interno degli scritti di Mann, soprattutto i problemi e le questioni di maggior rilevanza per la filosofia politica e la sociologia, così come l’interlocuzione dell’autore con le grandi correnti classiche del pensiero politico e con i maggiori rappresentanti di quest’ultimo; dedicheremo spazio, tuttavia, anche se in misura più limitata, altresì a problematiche di carattere metodologico e storiografico. La grande attenzione per la verifica empirica di quanto affermato, la brillante capacità di analisi di singole situazioni storiche come anche di 4

Cfr. ad es. J. Lucas, The Tension Between Despotic and Infrastructural Power: the Military and the Political Class in Nigeria, in «Studies in Comparative International Development», XXXIII (1998), n. 3, pp. 90-113; M. Cole, Gender and Power: Sex Segregation in American and Polish Higher Education as a Case Study, in «Sociological Forum», XII (1997), n. 2, pp. 205-232; J. R. Hawkins, Historicizing the State in Development Theory, in «Progress in Development Studies», XIV (2014), n. 3, pp. 299-308.

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sintesi circa le regolarità ravvisabili in un materiale vastissimo, la lucidità dell’argomentazione e la fermezza nella difesa dei valori della democrazia e della libertà sono i tratti fondamentali dell’opera di Mann. Il presente volume, che include anche sezioni a carattere critico, intende essere un contributo a una più ampia discussione e conoscenza delle ricerche di questo autore; esse, facendo luce sul passato, offrono una chiave originale per capire da dove veniamo, e permettono di valutare più chiaramente, in quanto studiosi e cittadini, le scelte che ci si prospettano per il futuro.

1. I PRIMI SCRITTI DI MICHAEL MANN: COSA TIENE UNITA LA SOCIETÀ?

A partire dagli scritti giovanili fino ai testi che anticipano più da vicino il primo volume di The Sources of Social Power (1986), il percorso intellettuale di Michael Mann è guidato dalla domanda «cosa tiene unita la società?»; una domanda che si presenta strettamente legata, in questi primi studi, all’interrogazione sulle convinzioni ideologiche dei diversi gruppi sociali. Com’è possibile, in altre parole, il mantenimento di una sufficiente coesione sociale in un contesto, come quello delle moderne democrazie capitalistiche liberali, attraversato da divisioni di classe e da una pluralità di ideologie concorrenti e contrapposte? Come si articolano e quanto sono radicate le convinzioni ideologiche dei gruppi che compongono la società? In che modo esse contribuiscono alla stabilità o all’instabilità dell’ordine sociale, e in che misura si riflettono nei comportamenti concreti delle classi che ne sarebbero portatrici? Questi sono i problemi che, per mezzo del riferimento a dati empirici e attraverso riflessioni teorico-concettuali, Mann analizza nei suoi scritti degli anni ’70; essi, ancora orientati alle domande sull’identità e sul conflitto di classe tipiche della sociologia del lavoro britannica di quegli anni, non sono privi però di elementi di più ampia rilevanza. Sul finire del decennio, l’analisi relativa alla coesione tra le classi sociali prende la forma di una più ampia indagine sull’integrazione sociale: l’autore si dedica cioè a esaminare attraverso quali strutture organizzative generali sono andate conformandosi le società umane nel corso della storia, quali componenti principali si possono stabilmente individuare in esse, e se sia possibile affermare il primato di una di queste componenti nel determinare la strutturazione complessiva delle società. L’importanza dei primi scritti di Michael Mann non va sottostimata. Nella teoria che esporrà in The Sources of Social Power egli presenta infatti il potere sociale come strutturato da reti di interazione, tra cui quelle generate dal potere ideologico; capire di che genere siano i legami ideologici che tengono insieme le società moderne permette di iniziare a far luce su un elemento fondamentale dell’opera successiva di Mann, nella quale le te-

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matiche giovanili della coesione sociale e dell’ideologia vanno a riproporsi in analisi teoriche affinate. Va però anche considerato l’intrinseco interesse di testi in cui, dando peraltro le prime dimostrazioni dell’ambizione intellettuale che ne caratterizzerà tutto il percorso di ricerca, il giovane Mann va proficuamente a confrontarsi con uno dei più complessi problemi affrontati dalla filosofia politica e dalla sociologia critica. Cosa, dunque, tiene unita la società? 1.1. La coesione sociale nelle democrazie liberali e l’ideologia delle classi lavoratrici Mann pubblica nel 1970 il suo primo scritto, intitolato The Social Cohesion of Liberal Democracy. Questo testo, ancora oggi frequentemente citato nella letteratura sul consenso sociale, è senza dubbio il più significativo tra gli scritti giovanili che Mann dedica allo studio della coesione sociale nelle moderne democrazie liberali, prime fra tutte Gran Bretagna e Stati Uniti. In esso, Mann si confronta con la teoria del consenso valoriale e con la teoria marxista, al fine di verificare quale delle due visioni della coesione sociale sia più fondata e quali correzioni vadano eventualmente effettuate su di essa;1 egli mira a indagare se vi sia effettivamente una coesione della società intorno a ben definiti princìpi o ideali, e, in caso positivo, se questo consenso sociale possa dirsi reale o, come sostengono i marxisti, la misura di accordo esistente nella società sui valori dominanti sia invece viziata da falsa coscienza. Nella sua indagine Mann riporta e utilizza un’ampia quantità di dati raccolti da altri ricercatori in studi reciprocamente indipendenti, al fine di mettere tali dati in rapporto gli uni agli altri e di interpretarli sulla base delle domande teoriche generali che abbiamo richiamato. Dalla considerazione di essi emerge l’assenza di un significativo e profondo consenso valoriale esteso a tutte le classi sociali.2 Mentre inoltre le classi medie mostrano una maggiore omogeneità e coerenza ideologica al loro interno, le convinzioni delle classi lavoratrici risultano, a prima vista, ambigue e contraddittorie; i lavoratori infatti, nel complesso, sostengono tanto i valori delle classi dominanti quanto convinzioni che si contrappongono a questi valori. Di fronte alla richiesta di esprimere una più o meno forte approvazione rispet1 2

Cfr. M. Mann, The Social Cohesion of Liberal Democracy, in «American Sociological Review», XXXV (1970), n. 3, pp. 423-439: 424-425. Ivi, p. 432.

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to a una serie di asserzioni sulla società presentate dai ricercatori, essi, da una parte, affermano ad esempio che il merito, l’ambizione e l’impegno (e non l’appartenenza di classe) sono gli aspetti determinanti nella possibilità di una persona di avere successo nella vita; dall’altra, però, mostrano diffusa approvazione per affermazioni quali «i ricchi si prendono tutti i profitti», «le leggi favoriscono chi ha i soldi», «chi ha grandi capitali ha troppo potere».3 Nel suo scritto Mann dimostra che la chiave per venire a capo di questa apparente incoerenza è nel livello di generalità delle frasi presentate ai lavoratori: l’approvazione di essi per affermazioni legittimanti l’ordine sociale ha luogo solo quando queste sono espresse in termini astratti e generali (ad esempio, «il merito determina chi ha successo»). Il consenso rispetto ai valori delle classi dominanti viene però considerevolmente meno se quelle stesse posizioni vengono comunicate in termini che richiamano l’esperienza concreta del lavoratore («chi ha grandi capitali ha troppo potere»), o secondo contrapposizioni di base quali quella tra «ricchi» e «poveri» («i poveri sono svantaggiati dalla legge»).4 Non solo: come rivela uno degli studi presi in esame da Mann, i temi scolastici scritti da bambini appartenenti a famiglie delle classi operaie sull’argomento delle aspirazioni future abbondano di frasi edificanti sull’importanza dell’impegno e dell’ambizione nel lavoro, anche se nel concreto i piccoli autori dei temi immaginano la loro futura «vita riuscita» nei termini di un’improvvisa fama nel mondo dello sport o dello spettacolo, o di una tranquilla quotidianità famigliare.5 Tra i lavoratori più giovani e di mezza età si fa più acuta la discrepanza tra una superficiale approvazione delle ideologie dominanti presentate in termini astratti e l’espressione di convinzioni «devianti» rispetto all’ordine costituito, riferite alla propria esperienza presente o prospettata; mentre tra i lavoratori più anziani, lasciate sostanzialmente da parte le ideologie dominanti, prevale la visione disincantata di una società immutabilmente divisa tra «ricchi» e «poveri», in cui l’appartenenza alla seconda categoria è accettata con senso di ingiustizia e rassegnazione.6 La conclusione appare quindi chiara: i lavoratori, da una parte, mostrano un’adesione superficiale e irriflessa ai valori sociali dominanti, trasmessi in primis dalle agenzie di socializzazione istituzionalizzate. Fin dall’infanzia, però, alla socializzazione nel contesto dei valori dominanti (rafforzati 3 4 5 6

Ivi, p. 431. Ivi, p. 436. Ivi, p. 427. Ivi, p. 437.

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poi dai media e dalle gerarchie lavorative) si contrappone, afferma Mann, l’esperienza concreta della subordinazione sociale e la socializzazione quotidiana tra persone della stessa classe sociale.7 Le convinzioni ideologiche dominanti permangono quindi a livello astratto, al pari di una «falsa coscienza» superficiale (la cui falsità è rivelata dal carattere estrinseco e “periferico” di esse rispetto al più ampio e radicato sistema di convinzioni del soggetto); la subordinazione sociale è recepita mediante mera «accettazione pragmatica»,8 ossia come ruolo obbligato dall’assenza di alternative realisticamente percorribili. Con l’avanzare dell’età del soggetto, per di più, le aspirazioni di ascesa sociale o di mutamento della società vanno ridimensionandosi, per lasciare il posto a una rassegnata percezione di «inevitabilità» della propria condizione,9 per ingiusta che essa sia. Da questo discenderebbe la scarsa presa che sistemi teorici radicali, come il comunismo e il socialismo, hanno storicamente avuto sulle classi lavoratrici di Gran Bretagna e Stati Uniti.10 In The Social Cohesion of Liberal Democracy Mann introduce molti temi e riflessioni che avranno un ruolo tutt’altro che secondario nel suo percorso verso l’elaborazione della teoria delle quattro fonti del potere. Nel ripercorrere i testi che egli pubblica in questo primo periodo della sua attività, è però il caso di considerare anche il suo percorso biografico e le esperienze intellettuali e politiche che caratterizzano la fase che stiamo prendendo in esame: come scrive John A. Hall in un suo articolo dedicato alla teoria di Mann, «some simple biographical information does cast 7

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Le conclusioni a cui giunge Mann verranno confermate e riprese da Axel Honneth nei suoi primi studi; in essi, attraverso la categoria chiave di «moralità situata delle classi subordinate», Honneth pone le prime basi della sua teoria del riconoscimento. Cfr. in particolare A. Honneth, Coscienza morale e dominio di classe, trad. it. in Id., Riconoscimento e conflitto di classe. Scritti 1979-1989, a cura di E. Piromalli, Mimesis, Milano 2011, pp. 91-110. M. Mann, The Social Cohesion of Liberal Democracy, cit., p. 437. Il tema dell’«inevitabilità», solo accennato in The Social Cohesion of Liberal Democracy, viene sviluppato da Mann in Consciousness and Action among the Western Working Class (1973) e in Ideology in the Non-Skilled Working Class (1975), per essere compiutamente presentato in The Ideology of Intellectuals and Other People in the Development of Capitalism (1975, in particolare pp. 279-280). Per la trattazione di questi testi, cfr. infra, § 1.1.1. e 1.1.2. Va notato che, nello stesso periodo, Barrington Moore giunge parallelamente a elaborare un concetto di «inevitabilità ideologica» analogo a quello di Mann, che espone nel suo Le basi sociali dell’obbedienza e della rivolta (ed. orig. 1978, trad. it. Edizioni di Comunità, Milano 1983). Vedremo, nel § 3.5, come Mann in una fase successiva del suo itinerario teorico darà una spiegazione più articolata in merito.

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light on his intellectual trajectory».11 Mann nasce a Manchester nel 1942, in una famiglia di ceto medio-basso.12 Entrambi i genitori ripongono grande importanza nell’istruzione dei due figli maschi, e il padre, in particolare, suscita l’interesse del figlio adolescente nella politica, impegnandosi con lui in lunghe discussioni di attualità. John Hall, nell’articolo già citato, fa risalire le salde convinzioni democratiche di Mann al suo background familiare, in cui grande valore era attribuito allo sviluppo di qualità intellettuali e alla discussione. Su influenza del padre, dopo aver compiuto gli studi superiori a Manchester, Michael Mann si iscrive alla facoltà di legge dell’università di Oxford. L’avventura giuridica dura solo tre settimane, e dal semestre successivo Mann decide di iscriversi alla facoltà di storia, ambito che lo aveva sempre interessato. Tuttavia, come studente di storia, egli racconta, «non ero particolarmente brillante»:13 più che allo studio, in questo periodo le sue energie si indirizzano all’attività politica, dapprima nell’associazione studentesca liberale, e, dopo poco, in quella del partito laburista. I suoi interessi culturali sono ancora indefiniti, nessun argomento di studio lo colpisce particolarmente né egli ha un’idea chiara di cosa fare in futuro, eccetto un vago progetto di diventare assistente sociale; dopo la laurea breve in storia, Mann si iscrive quindi al corso magistrale in Public and Social Administration con l’obiettivo di diventare un operatore sociale addetto alla sorveglianza e al reintegro in società delle persone in libertà vigilata.14 Comunque sia (e per fortuna della sociologia, disciplina in cui Mann si mostra particolarmente versato durante gli studi per la laurea magistrale) le sue iniziali aspirazioni non vanno in porto: nel 1964, dopo la laurea in Social Administration, A. H. Halsey, professore di studi sociali e amministrativi all’università di Oxford e teorico del consenso sociale, gli propone di svolgere una ricerca per la General Food Corporation sulla rilocazione di un’industria da Birmingham a Banbury, e, attraverso questo studio empirico, di prendere il dottorato in sociologia. Mann accetta l’offerta, e, prima di concludere il dottorato, nel 1967, inizia a collaborare altresì a 11

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[Alcune semplici informazioni biografiche fanno effettivamente luce sul suo itinerario intellettuale]. Cfr. J. A. Hall, Political Questions, in An Anatomy of Power: The Social Theory of Michael Mann, a cura di J. A. Hall e R. Schroeder, Cambridge University Press, New York 2006, pp. 33-53: 36. Queste informazioni sono tratte dalla video-intervista realizzata a Mann nel 2005 da A. MacFarlane, disponibile all’indirizzo internet www.alanmacfarlane.com/ DO/filmshow/mann_fast.htm (ultimo accesso 27-11-2014). Cfr. ivi. Cfr. ivi.

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una ricerca internazionale sulla struttura sociale nei complessi industriali di vari Paesi sotto la direzione di John Goldthorpe, noto studioso della stratificazione di classe. Lo studio non riesce a ottenere finanziamenti consistenti, e la portata di esso viene quindi sensibilmente ridimensionata. Le riflessioni che Mann svolge nell’ambito di questo progetto confluiscono però in The Social Cohesion of Liberal Democracy e costituiranno anche la base del suo secondo libro, Consciousness and Action among the Western Working Class. Goldthorpe è il primo studioso di sociologia a esercitare un impatto significativo su Mann ed a trasmettergli la passione per la ricerca. Per quanto riguarda i risultati concreti e immediati, tuttavia, questo si rivela per Mann un periodo ben poco esaltante: egli deve ripetere l’esame di dottorato, in quanto la sua tesi sulla rilocazione industriale, per scrivere la quale aveva dovuto imparare («sostanzialmente da autodidatta»)15 a utilizzare metodologie complesse in tempi assai ristretti, viene giudicata insoddisfacente dalla commissione. Mann riscriverà la tesi a Cambridge sotto la direzione di Goldthorpe, ed essa, discussa con successo nel 1971, diventerà il suo primo libro: Workers on the Move. Workers on the Move consiste nello studio, mediante interviste ai 300 operai realizzate prima e dopo il trasferimento, della rilocazione di un’industria di dolci (la Alfred Bird and Sons) da Birmingham a Banbury: nell’Inghilterra di quegli anni era frequente che, sulla spinta di progetti governativi di risistemazione urbanistica, intere fabbriche si trasferissero insieme ai loro operai dalle vecchie città industriali, congestionate e caratterizzate da cattive condizioni ambientali e urbanistiche, a nuovi e moderni agglomerati urbani, le New Towns. Gli operai ricevevano quindi la proposta di spostarsi, con la loro famiglia e mediante assistenza logistica e immobiliare da parte dell’azienda, in una New Town in cui avrebbero potuto beneficiare di condizioni abitative migliori. Essi, però, si sarebbero dovuti allontanare dalla città in cui erano vissuti fino a quel momento, dalla loro famiglia allargata e dalle relazioni amicali precedenti, oppure, qualora non avessero voluto trasferirsi, avrebbero perso il lavoro (in una situazione occupazionale in cui trovare un nuovo impiego non era comunque particolarmente difficile). L’indagine sul trasferimento della Birds rappresenta quindi, per Mann, nell’ambito delle sue riflessioni su «cosa tiene unita la società», l’opportunità di indagare l’attaccamento relativo delle persone agli aspetti lavorativi e non-lavorativi della loro vita.16 Studi compiuti in 15 16

Cfr. ivi. Cfr. M. Mann, Workers on the Move, Cambridge University Press, London 1973, p. VIII.

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periodi precedenti e su diverse comunità operaie avevano evidenziato una generale riluttanza dei lavoratori agli spostamenti, in particolare per il legame di essi con la loro famiglia allargata e con la tradizionale comunità di vicinato, percepite come necessario ambito di relazioni e come informale rete di sostegno in caso di difficoltà.17 Lo studio di Mann evidenzia invece un mondo operaio in rapido cambiamento. Il coinvolgimento effettivo del lavoratore manuale nella sua attività, come in precedenza, rimane basso:18 l’operaio è prevalentemente teso a considerare il suo impiego unicamente come una fonte di reddito e di bastevole stabilità esistenziale, a fronte di una soddisfazione praticamente inesistente nell’atto lavorativo stesso.19 Tuttavia, rispetto al passato è andata accrescendosi la dipendenza del lavoratore dal suo particolare impiego e, al contempo, si sono indeboliti i legami comunitari, rendendo quindi gli operai più vulnerabili: in misura crescente, anche per effetto di un sempre maggiore uso di tecnologie complesse, le industrie si basano su un mercato del lavoro interno, in cui avanzamenti salariali possono essere ottenuti solo da chi svolga il suo percorso all’interno della stessa azienda.20 Cercare un nuovo lavoro a Birmingham avrebbe quindi voluto dire perdere la posizione raggiunta e ricominciare a un livello di retribuzione e stabilità occupazionale più basso.21 Al contempo, le comunità di vicinato operaie vengono percepite dai loro stessi appartenenti come meno coese e desiderabili rispetto al passato prossimo: le prime ondate migratorie dai Paesi in via di sviluppo, ancora malamente assorbite dal tessuto sociale, hanno creato divisioni etniche nella comunità operaia, e l’attrattiva di case più comode e moderne, nel giro di pochi anni, ha fatto sì che molti si allontanassero dalle vecchie città industriali.22 La stragrande maggioranza dei lavoratori della Birds, quindi, decide di trasferirsi a Banbury insieme 17 18 19 20 21

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Cfr. M. Young e P. Willmott, Family and Kinship in East London, Penguin Books, London 1962; C. Rosser e C. Harris, The Family and Social Change, Routledge & Kegan Paul, London 1965. Cfr. lo studio di J. Goldthorpe, D. Lockwood, F. Bechhofer, J. Platt, Classe operaia e società opulenta, trad. it. Franco Angeli, Milano 1973. Cfr. M. Mann, Workers on the Move, cit., pp. 40-47. Ivi, pp. 91-102. Le osservazioni che Mann compie nelle sue prime ricerche riguardo al mercato del lavoro interno lo porteranno a sviluppare, in The Sources of Social Power, il concetto di interdipendenza segmentale (ossia interdipendenza all’interno della stessa azienda) tra lavoratori e datori di lavoro, e ad analizzarne le molte implicazioni sulla coesione della classe lavoratrice e dei movimenti sindacali. Cfr. infra, § 3.5. M. Mann, Workers on the Move, cit., pp. 151-155.

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alla fabbrica, dichiarando a posteriori un alto livello di soddisfazione; le dinamiche generali sottostanti alla loro scelta, però, restituiscono l’immagine di una classe operaia sempre più frammentata, sempre più dipendente dalle decisioni dei datori di lavoro, e sempre più lontana da quella, ancora sostanzialmente forte della sua identità, ritratta da Goldthorpe e Lockwood solo cinque anni prima in The Affluent Worker (tradotto in italiano come Classe operaia e società opulenta). Elementi sviluppati in Workers on the Move ritorneranno, arricchiti di ulteriori specificazioni concettuali, nella teoria delle classi che Mann elabora nel secondo volume di The Sources of Social Power.23 1.1.1. Il modello IOTA Nel 1971 Mann ottiene un posto come docente in sociologia alla Essex University. In questo periodo egli continua lo studio, iniziato a Cambridge, dei classici del pensiero sociologico e filosofico-politico, approfondendo con particolare attenzione i due autori che fin da allora lo colpiscono maggiormente e che costituiranno i riferimenti principali della sua teoria matura: Marx e Weber. È proprio nel periodo trascorso alla Essex University che avviene la prima grande svolta nel pensiero di Mann: egli, nel 1972, scrive l’articolo Economic Determinism and Structural Change, che costituirà la base teorica di The Sources of Social Power.24 In esso Mann svolge un confronto tra il marxismo althusseriano e la teoria di Weber. In entrambi gli approcci vengono infatti differenziate tre dimensioni o livelli dell’organizzazione sociale, rispettivamente analoghi: classe, status e partito in Weber, livello economico, ideologico e politico negli althusseriani. A questi tre elementi Mann aggiunge il potere militare, mirando poi a dimostrare la coesistenza nella storia di queste quattro «dimensioni della struttura sociale» attraverso l’analisi di tre casi di studio: l’impero romano, il feudalesimo e la società contemporanea. Egli comincia quindi a lavorare a quello che doveva diventare, nelle sue intenzioni, un breve libro prevalentemente a contenuto teorico, ma «ben presto il progetto prese vita propria, e cominciai a gradualmente a spaziare verso argomenti sempre più impegnativi»:25 nascerà così il primo volume di The Sources of Social Power, seguito poi 23 24 25

Cfr. infra, § 3.5. Cfr. l’intervista rilasciata a MacFarlane, cit. Cfr. l’intervista rilasciata da Mann a G. Lawson, A Conversation with Michael Mann, in «Millennium: Journal of International Studies», XXXIV (2006), n. 2, pp. 477-485: 478.

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da altri tre della stessa serie. Quella del 1972 è un’enorme svolta nel pensiero di Mann. Essa però rimane nascosta: egli non pubblicherà mai l’articolo in questione, tracce del quale sono ravvisabili all’inizio di The Sources of Social Power (1986), e solo anni più tardi comincerà a rendere pubblici i risultati dei suoi studi sul potere. Nell’immediato, egli prosegue le sue ricerche su coesione sociale e ideologia, interpretando i dati raccolti nel periodo di Cambridge all’interno di un impianto più teorico e astratto rispetto a quello che caratterizzava Workers on the Move. Questo movimento verso la teoria risente probabilmente anche dell’impulso di David Lockwood, noto studioso della stratificazione sociale e delle dinamiche dell’ineguaglianza, tra gli autori di The Affluent Worker, con cui Mann collabora nel periodo che trascorre all’università dell’Essex. La principale linea d’indagine è sempre la stessa: cosa fa sì che una società internamente scissa e contraddittoria resti unita? Perché le classi subordinate accettano condizioni che le svantaggiano, invece di ribellarsi a esse? In Consciousness and Action among the Western Working Class (1973) Mann traccia per la prima volta un modello teorico della coscienza di classe che avrà grande importanza in The Sources of Social Power: il modello IOTA.26 Di fronte alla constatazione marxista che sembrano darsi le condizioni «oggettive» per una trasformazione rivoluzionaria della società, ma che quest’ultima sembra impedita dalla mancanza dell’aspetto «soggettivo», relativo cioè alla presa di consapevolezza da parte delle classi subordinate della loro situazione e delle loro potenzialità, Mann si propone di studiare quali elementi dovrebbero costituire una coscienza rivoluzionaria in grado di essere davvero tale. Egli identifica quattro componenti necessarie: 1. Identità: la capacità della classe lavoratrice di percepirsi come classe a sé stante, dotata di un ruolo distinto nel processo produttivo; 2. Opposizione: la percezione che il capitale e i suoi agenti costituiscono un avversario stabile ed effettivo alle rivendicazioni di essa; 3. Totalità: la consapevolezza che i due elementi precedenti rappresentano caratteristiche centrali a) della situazione del singolo in quanto componente della società; b) dell’organizzazione sociale presente; 4. Alternativa: la prefigurazione di un ordine sociale alternativo, assunto come obiettivo raggiungibile e desiderabile.

26

M. Mann, Consciousness and Action among the Western Working Class, MacMillan, London and Basingstoke 1973, p. 13.

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La coscienza di classe è bloccata, afferma Mann in riferimento alle classi operaie britanniche, a causa della mancata percezione da parte dei lavoratori della dimensione della totalità e di una scarsa fiducia nell’attuabilità di un’alternativa. L’atteggiamento dei lavoratori, come già risultava da The Social Cohesion in Liberal Democracy e da Workers on the Move, e come i dati presentati in Consciousness and Action among the Western Working Class confermano, coincide con una rassegnata «accettazione pragmatica»:27 gli operai sono consapevoli di costituire un’unica classe sociale (identità) e di subire lo sfruttamento capitalista (opposizione), ma, non vedendo un’alternativa realizzabile, reagiscono adottando un’attitudine strumentale nei confronti del loro lavoro, rapportandosi con scarso coinvolgimento emotivo alla loro situazione sociale, e cercando compensazione in aspetti della vita privata (famiglia, sport, amici). I sindacati britannici, tradizionalmente riformisti, replicano l’attitudine strumentale dei lavoratori, avanzando quasi solo rivendicazioni relative a un miglior trattamento economico invece di reclamare un maggior controllo sul processo produttivo da parte degli operai o avanzare richieste di carattere più spiccatamente politico.28 Questa situazione complessiva dà luogo a una società percorsa da conflitti latenti, instabile e contraddittoria, che riflette le contraddizioni interne al capitalismo (è evidente e dichiarata, in questi passi del testo, l’influenza di Althusser e Poulantzas). Il conflitto capitale-lavoro non è in grado, da solo, di determinare una situazione rivoluzionaria, né, sostiene Mann antimarxianamente, la base economica determina le forme e il mutamento della società: «politica, religione, famiglia, ideologia ecc. seguono logiche autonome, procedono a un loro ritmo e esercitano la loro influenza sul resto della società».29 A rendere più difficile il prodursi delle dimensioni della totalità e dell’alternativa nella coscienza operaia sono altresì le divisioni etniche che, con l’immigrazione da altri Paesi, vanno frammentando la coesione dei lavoratori, nonché le divisioni indotte dai mercati del lavoro interni alle singole aziende (elementi, questi, che avranno ampia rilevanza in The Sources of Social Power). La difficoltà fondamentale risiede però nel fatto che non sembra esservi alcun gruppo in 27 28

29

Ivi, pp. 29-30. Su questi temi, come anche sull’idea di «accettazione pragmatica», cfr. A. Giddens, La struttura di classe nelle società avanzate, trad. it. Il Mulino, Bologna 1975 (ed. or. 1973), pp. 297-331; in quest’opera è chiaro l’influsso di Michael Mann, in particolare di The Social Cohesion of Liberal Democracy e Consciousness and Action Among the Western Working Class. M. Mann, Consciousness and Action among the Western Working Class, cit., p. 16.

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grado di trasmettere ai lavoratori una coscienza di totalità e alternativa: «il socialismo», scrive infatti Mann, esplicitando i tratti di leninismo che manterrà lungo tutto il suo itinerario teorico, «è una filosofia che va appresa»:30 non è sufficiente l’esperienza collettiva dell’oppressione per far sorgere una coscienza rivoluzionaria tra i lavoratori; bensì tale esperienza deve essere interpretata da gruppi organizzati che, nell’arco di un periodo considerevole, ne evidenzino i caratteri e le vie d’uscita anche a coloro la cui coscienza di classe non è ancora altrettanto sviluppata. Quindi, conclude Mann, «sembra piuttosto improbabile che il proletariato abbia in sé la forza di divenire una classe per sé».31 1.1.2. La (non-)ideologia dei lavoratori e quella degli intellettuali Come Mann scrive nel successivo articolo Ideology in the Non-Skilled Working Class, basato sulle interviste a un campione di 951 operai manuali di Peterborough realizzate pochi anni prima insieme a Robert Blackburn,32 i lavoratori «tendono ad accettare, anche se non a legittimare, la loro posizione attuale; in tal modo gli è impossibile cogliere la rilevanza di un’ideologia politica orientata a trasformare strutture che, in rapporto alla loro esperienza, sono più remote di quelle che essi conoscono e accettano».33 Solo gli strati intellettuali della società, scrive quindi Mann in un articolo dello stesso anno (The Ideology of Intellectuals and Other People in the Development of Capitalism) hanno un’ideologia propriamente detta, intesa come sistema coerente e astratto di convinzioni sulla società. I cittadini appartenenti agli altri strati, in particolare se esposti per meno tempo alle 30 31 32

33

Ivi, p. 71. Ivi, p. 73. Insieme a Blackburn, e sulla base del medesimo studio, Mann scriverà anche The Working Class in the Labour Market (1979), tradotto in italiano come L’illusione della scelta (Rosenberg & Sellier, Torino 1983): in esso viene evidenziato come le effettive opportunità dei lavoratori manuali non qualificati di scegliere il loro impiego siano estremamente ridotte. Questo avviene a causa delle dinamiche del «mercato del lavoro interno» già richiamate trattando Workers on the Move e di una forte misura di arbitrio del management nell’ideare e applicare i criteri di selezione del personale. Nonostante ciò, i lavoratori sembrano ritenere normale una situazione così sbilanciata, e cercano di fare l’uso migliore possibile delle loro scarse possibilità di scelta nell’ambito di una realtà costrittiva che hanno ormai interiorizzato. R. M. Blackburn, M. Mann, Ideology in the Non-Skilled Working Class, in Working Class Images of Society, a cura di M. Bulmer, Routledge and Kegan Paul, London 1975, pp. 131-161: 155.

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agenzie di socializzazione scolastica, tendono a nutrire, al posto di un’ideologia che possa dirsi tale, un insieme di convinzioni spesso incerte, contraddittorie e mutevoli, che essi, nel complesso, percepiscono come poco importanti per la loro esperienza quotidiana.34 Se non sono convinzioni ideologiche stabili e coerenti a incanalare l’azione sociale dei cittadini, cosa li porta ad agire in un senso sufficientemente routinario e prevedibile da assicurare la riproduzione della società? Le istituzioni, scrive Mann, anticipando un aspetto cruciale di The Sources of Social Power.35 Esse strutturano e mediano la vita dei cittadini, i quali, nella loro quotidianità, non possono non agire attraverso di esse: mediante la scuola e la formazione essi sono condotti, ad esempio, a sviluppare le capacità e le convinzioni richieste dall’ordine sociale capitalistico; attraverso il mondo del lavoro vengono fattualmente implicati nei valori della prestazione e della competizione; facendo ricorso ai servizi assicurati dalle istituzioni nazionali sviluppano l’idea di una loro appartenenza a un’impresa sociale collettiva organizzata su basi territoriali, e così via. Più è forte l’implicazione fattuale dei cittadini nelle istituzioni e nei valori che esse incarnano e trasmettono, più sarà difficile che i soggetti possano concepire alternative all’ordine dato, afferma Mann anticipando la nozione di «caging», altro elemento centrale di The Sources of Social Power. Non vi è pertanto, contrariamente a quel che andavano sostenendo molti autori in quel periodo, una crisi di legittimazione delle società occidentali:36 anzi, esse mostrano un alto grado di stabilità. Tuttavia il consenso sociale è per Mann il prodotto, non la causa, della stabilità istituzionale, e non costituisce pertanto un argomento per la legittimazione normativa delle diseguaglianze sociali: «l’accettazione morale da parte dei subordinati è normalmente il prodotto di una lunga subordinazione fattuale» in cui « “ciò che è” diviene “ciò che è naturale”, e […] il confine tra “ciò che è” e “ciò che è giusto” va a sfocarsi».37

34

35 36 37

Cfr. M. Mann, The Ideology of Intellectuals and Other People in the Development of Capitalism, in Stress and Contradiction in Modern Capitalism, a cura di L. N. Lindger, R. Alford, C. Crouch, C. Offe, D.C. Heath, Lexington 1975, pp. 275-307: 276. Ivi, p. 277. Cfr. ad es. J. Habermas, La crisi della razionalità nel capitalismo maturo, trad. it. Laterza, Roma-Bari 1982, e C. Offe, Lo Stato nel capitalismo maturo, trad. it. Etas, Milano 1977. M. Mann, The Ideology of Intellectuals and Other People in the Development of Capitalism, cit., p. 280.

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Le questioni dell’accettazione pragmatica e della percezione di inevitabilità si fondono quindi, in questa fase del pensiero di Mann, ancora fortemente radicata nel milieu della sociologia del lavoro britannica ma già recante elementi di generalità che torneranno nelle opere successive, con uno strutturalismo funzionalista ispirato ad Althusser e Poulantzas, in cui, però, il primato marxiano della base economica è depotenziato. A questi elementi si associano, negli scritti del giovane Mann (ma anche nella sua matura teoria della rivoluzione),38 convinzioni leniniste sul necessario ruolo di un’avanguardia politica nello stimolare la coscienza di classe dei lavoratori. Sono gli intellettuali operanti nell’ambito letterario, umanistico e delle scienze sociali, scrive Mann nel 1975, coloro che potrebbero aspirare al ruolo di avanguardia «che la tradizione leninista attribuisce loro»:39 non solo essi sono socialmente e culturalmente portati all’elaborazione e alla trasmissione di ideologie, ma oltretutto la loro integrazione fattuale nelle istituzioni capitalistiche è minore di quella del resto della popolazione lavoratrice, orientandosi spesso, anzi, in senso costitutivamente oppositivo. Tuttavia, per poter avere un ruolo rivoluzionario, essi dovrebbero smettere di limitarsi a discorsi teorici su alienazione e capitalismo, e cercare attivamente di trovare un contatto con i settori più radicali della classe lavoratrice per «fronteggiare il nemico politico concreto».40 Tenendo fede con l’azione ai suoi pronunciamenti intellettuali, nel periodo che trascorre all’università dell’Essex (dal 1971 al 1977) Mann si dedica con impegno anche all’attività politica, venendo eletto nel comitato esecutivo del partito laburista a Colchester e non mancando di farsi notare nelle agitazioni che nel 1974 movimentano la sua università: egli verrà descritto come «leading troublemaker» nel rapporto redatto, su toni alquanto conservatori, da lord Noel Gilroy Annan, presidente della commissione d’inchiesta incaricata di far luce sui disordini.41

38 39 40 41

Cfr. infra, § 4.3. Ivi, p. 304. Ibid. Cfr. N. G. Annan, Report of the Disturbances in the University of Essex, 1974 (citato da J. A. Hall in Political Questions, cit., p. 39). Anche Mann scriverà un report/case study (in cui prende le parti degli studenti, ma con toni assai obiettivi e pacati, oltre che non privi di ironia) riguardo all’anno di scontri e occupazioni verificatisi all’università dell’Essex: M. Mann, S. Wolf, The Troubles at Essex: A Case Study of Student Unrest, 1974.

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1.2. Le prime applicazioni del modello quadripartito del potere sociale Nel 1977 Mann ottiene un posto alla London School of Economics per l’insegnamento del corso di metodologie di ricerca sociale. Egli ricorda il dipartimento di sociologia di quei tempi come un ambiente attraversato da tensioni interne e poco recettivo nei confronti di nuove idee;42 l’aspetto migliore della sua attività in esso, racconta Mann, erano i seminari informali, dal titolo Patterns of History, che, invitando noti studiosi di storia e sociologia, egli teneva insieme ai suoi colleghi John A. Hall e Ernest Gellner. In questo periodo Mann sviluppa sempre più la sua inclinazione verso la teoria sociologica e la storia. È del 1979 l’articolo che segna la seconda grande svolta nel suo percorso di ricerca: Idealism and Materialism in Sociological Theory. In questo saggio, infatti, compaiono il primo accenno di Mann alle quattro fonti del potere sociale, le prime intuizioni che lo porteranno a elaborare la metodologia del «materialismo organizzativo» poi esposta in The Sources of Social Power, e la sua posizione rispetto alle concezioni della storia deterministiche. La contrapposizione tra, da una parte, autori «materialisti» come Marx, Engels e la loro tradizione teorica, e, dall’altra, autori «idealisti» come Weber, Durkheim e Parsons, ha per Mann dato luogo a una disputa inutile, la quale, anzi, «ha ostacolato lo sviluppo della teoria sociologica».43 Non può esservi infatti una contrapposizione esclusiva tra «idee» e «realtà materiale», e, sebbene il loro pensiero sia stato frequentemente semplificato in questi termini, né Marx né Weber l’hanno mai affermata. Nell’intenzione di Weber di dimostrare, in L’etica protestante e lo spirito del capitalismo, come le idee diventino forze effettive nella storia, scrive giustamente Mann, c’è tanto idealismo quanto materialismo, così come nella sua teoria generale (la «gabbia d’acciaio» altro non è che un’istituzione “ideale” che assume un peso materiale).44 Quanto a Marx, non solo la base economica, che nella vulgata determina materialmente e unilateralmente la sovrastruttura ideale, è costituita dalla combinazione delle pratiche e delle idee che in ogni epoca sono rilevanti per l’intervento sulla natura, ma oltretutto la sovrastruttura retroagisce sulla base; le idee, sotto forma di coscienza di classe, hanno un ruolo determinante nel generare la situazione rivoluzionaria.45 Non si tratta, quindi, di 42 43 44 45

Cfr. l’intervista con A. MacFarlane. M. Mann, Idealism and Materialism in Sociological Theory, in Critical Sociology, a cura di J. W. Freiberg, Irvington, New York 1979, pp. 97-120: 97. Ivi, pp. 99 e 106. Ivi, pp. 105-108.

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criticare Weber da prospettiva materialista o Marx da prospettiva idealista, bensì di obiettare a quei marxisti che sostengono «di non aver nulla a che fare con l’idealismo» o a quegli idealisti che vedono le idee come «qualcosa che fluttua nell’aria».46 Esse, afferma Mann anticipando il suo «materialismo organizzativo», per avere effetto sulla società necessitano sempre di una struttura fatta di interazioni sociali concrete, mediate da istituzioni o da pratiche sociali istituzionalizzate. È indubbio, continua Mann, che Weber attribuisse all’ambito ideologico un’autonomia ben maggiore di quella ad esso assegnata da Marx, ma questo aspetto, a suo parere, va fatto risalire a una più ampia differenza di fondo tra i due autori:47 mentre Weber era convinto dell’impossibilità di giungere a una conoscenza oggettiva della storia umana, per Marx, grazie alla sua concezione evoluzionistica e teleologica, vi era invece modo di differenziare tra «apparenza socialmente necessaria» e verità. Con l’avvento del comunismo gli esseri umani sarebbero infatti giunti a stabilire un ordine sociale finalmente privo di contraddizioni, dal quale avrebbero potuto guardare alle loro precedenti convinzioni come a forme di falsa coscienza ormai superate. Questo processo sarebbe stato determinato, però, in ultima istanza, dalla base economica, che quindi per Marx si rivela il fattore decisivo anche nello stabilire la verità o la falsità dell’ideologia: di conseguenza, l’autonomia che egli attribuisce all’ideologia è molto minore che in Weber. Ribadendo il carattere limitante della disputa tra materialisti e idealisti, in conclusione, Mann afferma che per un’adeguata comprensione della storia delle società umane vanno considerate altre «sfere della società» oltre all’economia e all’ideologia: «in particolare, la sfera politica e quella militare si presentano come rilevanti. Ma questo è un problema che andrà considerato in altra sede»;48 nello specifico, negli scritti States, Ancient and Modern (1977), in cui Mann si concentra sul ruolo centrale del potere militare nella storia, e State and Society, 1130-1815 (1980), nel quale è invece la considerazione del potere politico a venire in primo piano. 1.2.1. Prime analisi del potere militare In States, Ancient and Modern, Mann tratta il potere militare in connessione con un tema che, d’ora in avanti, sarà fondamentale nelle sue riflessioni: le macro-forme organizzative che tengono insieme la società 46 47 48

Ivi, p. 106. Ivi, p. 113. Ibid.

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e che strutturano i rapporti tra i diversi gruppi, ossia l’integrazione sociale. La tesi di Marx e dei marxisti è che, in ogni epoca storica, le forme dell’integrazione sociale siano in ultima istanza dipendenti dall’economia: ciò che determina la conformazione dei diversi ambiti della società e i rapporti tra i gruppi umani è il modo di produzione. Se ci limitiamo all’esame delle società moderne, scrive Mann, l’economia, mediante il modo di produzione capitalistico e le relative istituzioni, ha effettivamente un ruolo importante nell’integrazione delle società; quando però andiamo a considerare le società precapitalistiche, la mancanza di universale validità storica delle tesi marxiane emerge con particolare chiarezza. Mann espone la sua critica a Marx («una critica non priva di apprezzamento»,49 specificherà nell’introduzione al volume in cui questo scritto e altri saranno poi raccolti) riferendosi all’impero romano e a quello cinese: in entrambi gli imperi le rispettive forme del potere economico, così come l’integrazione delle classi sociali tra loro e con lo Stato, non avrebbero potuto essere istituzionalizzate senza il ricorso al potere militare. Quest’ultimo, come già affermava Marx, è infatti necessario per l’espansione territoriale dell’impero e per mantenere un’economia largamente basata sul lavoro schiavile; ma, diversamente da quanto sostiene la versione marxiana, nelle società antiche esso ha anche una valenza propriamente produttiva, dalla quale l’economia di tali società non può prescindere. Qui Mann introduce una prima descrizione di quella che in The Sources of Social Power, ispirandosi alla «cooperazione obbligata» di Spencer, denominerà «economia legionaria».50 Nella fase di espansione dei grandi imperi di conquista, i territori acquisiti vengono sottoposti, in prima istanza mediante l’applicazione di forme di potere militare e coercitivo, al dominio da parte del centro; senza il potere militare, semplici ragioni logistiche avrebbero impedito l’esercizio di un controllo durevole su territori spazialmente distanti dal centro. Il dominio militare da parte degli imperi è ben lontano dall’essere semplicemente un saccheggio continuativo dei territori conquistati. Esso, sebbene sia sostanzialmente orientato a estrarre ricchezza dalla periferia per dirigerla verso il centro, aumenta fortemente la produttività dei territori periferici, determinandone lo sviluppo economico e il ruolo all’interno dell’economia imperiale.

49 50

M. Mann, Preface a States, War and Capitalism, Blackwell, Oxford 1988, p. X. M. Mann, States, Ancient and Modern, in States, War and Capitalism, cit., p. 4447, e cfr. Id., The Sources of Social Power, vol. 1, Cambridge University Press, New York 1986, pp. 148-153. Cfr. infra, § 2.6.1.

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La pacificazione militare provvista dall’impero, innanzitutto, garantisce per la prima volta la protezione delle coltivazioni e dei commerci dalle scorrerie di banditi e popolazioni rivali, garantendo a contadini e mercanti locali il sicuro possesso del loro surplus al netto di tasse e tributi; la prova di questo ruolo produttivo della pacificazione imperiale è data dai molti casi storicamente documentati in cui un indebolirsi delle capacità imperiali di difendere i territori periferici provoca gravi disturbi alle attività commerciali e agricole di essi, con conseguenti carestie e disastri economici. In secondo luogo, nell’antichità l’esercito è anche il principale costruttore di strade e il primo a promuovere un migliore sfruttamento delle vie di comunicazione terrestri e acquatiche che collegano centro e periferia: in tal modo, esso dà un fondamentale impulso a scambi commerciali, tecnici e culturali tra i territori, favorendo lo sviluppo delle loro economie al di là della semplice sussistenza. L’imposizione politico-amministrativa della moneta determina un’ulteriore spinta ai commerci e all’accumulazione. L’esercito, per finire, attraverso i suoi poteri coercitivi, provoca un’intensificazione della produzione, che va a beneficio del centro imperiale ma anche dei territori conquistati. È dunque il potere militare, attraverso le sue azioni di pacificazione, uniformazione e messa in comunicazione dei territori, a permettere in primo luogo l’integrazione, anche economica, degli imperi antichi. Anche le relazioni tra i diversi gruppi che compongono la gerarchia sociale erano mediate, a quei tempi, in prima istanza dal potere militare:51 esso consentiva, infatti, l’esazione coercitiva delle tasse e dei tributi che i produttori consegnavano ai proprietari terrieri e allo Stato, in un’epoca in cui le funzioni di quest’ultimo erano dirette, in misura preponderante, proprio all’attività militare. Né la forma politica né quella economica degli Stati imperiali, conclude quindi Mann, possono essere spiegate senza introdurre nel quadro anche il potere militare nel suo ruolo coercitivo, pacificante e produttivo; anzi, è per effetto di questo che esse hanno preso la forma che conosciamo. States, Ancient and Modern è il primo scritto in cui Mann, attraverso un’analisi storica comparata, applica il suo modello del potere sociale: le fonti del potere, come egli dimostra qui rispetto a quello militare, economico e politico, sono reciprocamente autonome ma, al contempo, capaci di interrelarsi in modi diversi nelle diverse epoche storiche. Se una di esse abbia un ruolo determinante rispetto alle altre nel corso dell’intera storia umana (come l’economia per Marx, o il potere militare

51

M. Mann, States, Ancient and Modern, cit., pp. 36-37.

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per Spencer) è una questione che Mann indagherà specificamente in The Sources of Social Power. 1.2.2. Il potere politico Il successivo scritto State and Society, 1130-1815 consiste in un’analisi dei registri di spesa dello Stato inglese nel periodo di tempo riportato nel titolo; l’esame delle diverse voci di spesa statali costituisce un formidabile indicatore delle finalità e funzioni dello Stato, permettendo di giungere a un’idea empiricamente fondata di quali tipologie di potere sociale fossero più solidamente istituzionalizzate nella società. «Tutte quelle teorie riduzioniste dello Stato, dal marxismo al pluralismo, che riducono il ruolo dello Stato a funzioni economiche interne al suo territorio, sono invalidate da questi semplici dati empirici»,52 scrive Mann: dall’analisi delle voci di spesa dello Stato britannico risulta infatti che, per tutto il periodo preso in esame, l’azione statale si rivolge in misura prevalente ad attività militari di conquista di territori esterni e alla guerra con altri Stati. Mentre nell’epoca feudale il principe poteva contare, per azioni di difesa e di conquista, sulla mobilitazione militare dei suoi vassalli, a partire dalla fine del XII secolo l’evoluzione delle tattiche di guerra porta alla sempre più massiccia introduzione di eserciti stabili e professionali, che vengono mantenuti tassando la popolazione. In questa fase, le spese statali sono quasi esclusivamente militari, mentre le spese civili riguardano praticamente solo il mantenimento della famiglia reale.53 Lo Stato è poco rilevante nella quotidianità della popolazione, eccetto che per le sue funzioni di prelievo fiscale. È proprio attraverso queste ultime che lo Stato è spinto a estendere la sua penetrazione infrastrutturale nei territori, mediante l’organizzazione di personale e strutture dedicate all’esazione di tasse e tributi. Con la «rivoluzione militare» determinata dall’introduzione delle armi d’artiglieria, infatti, i costi della guerra salgono esponenzialmente, e il carico fiscale sulla popolazione va quindi ad accrescersi sempre di più, come dimostrano i registri del XVI secolo.54 Mediante lo sviluppo di infrastrutture di penetrazione statale nel territorio, della tassazione (comprese le tasse doganali sui commerci) e delle prime forme di difesa statale alle attività economiche, comincia a sorgere, 52 53 54

Cfr. M. Mann, Preface, in States, War and Capitalism, cit., p. XI. M. Mann, State and Society, 1130-1815, in States, War and Capitalism, cit., pp. 73-123: 83-87. Ivi, p. 97.

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nella popolazione, la percezione di un’identità nazionale e di classe collettiva. Classi sociali nazionalizzate rivolgono le prime richieste allo Stato, stimolando così un accrescersi delle funzioni civili di esso: lo Stato va facendosi non più solo una macchina da guerra e un tribunale, ma anche un attivo agente di controllo dei rapporti tra classi (uno dei primi esempi ne è la Poor Law dell’epoca elisabettiana).55 È solo però a partire dal 1800 che le spese civili dello Stato iniziano stabilmente ad aumentare e ad essere destinate a infrastrutture, servizi e istituzioni rivolte alla popolazione; al contempo le spese militari, innalzandosi in corrispondenza delle guerre, si fanno tuttavia sempre più ridotte nei periodi di pace, assumendo quindi un trend discendente. Interverrà poi la rivoluzione industriale a trasformare radicalmente il quadro. Fino a quel momento, però, le funzioni statali appaiono prevalentemente militari ed esterne, mentre la stessa crescita del potere territoriale e infrastrutturale dello Stato (mediante la burocrazia e l’apparato fiscale istituito per far fronte, attraverso la tassazione, alle spese di guerra), viene a discendere da sviluppi militari.56 È il potere militare a porsi al centro delle ricerche svolte da Mann in questa fase giovanile: egli, tanto in States, Ancient and Modern quanto in State and Society, mira a confutare la tesi marxiana del primato dell’economia evidenziando il ruolo storico del potere militare, ma senza per questo ricadere in un determinismo militare à la Spencer.57 Insieme al potere militare e a quello economico sono infatti ravvisabili nelle società antiche e moderne, per Mann, anche il potere politico e quello ideologico, che interagiscono stabilmente con i primi. Gli interessi teorici che Mann rivela in questo periodo non si rivolgono unicamente all’analisi delle società del passato; anzi, si potrebbe affermare che le domande che guidano questa prima fase delle sue ricerche hanno alla loro base il desiderio dell’autore di comprendere meglio il periodo in cui egli scrive, caratterizzato dalla guerra fredda tra Stati Uniti e Unione Sovietica; l’aspirazione di Mann in questa fase del suo itinerario teorico è, non da ultimo, quella di capire in che direzione debba orientarsi un’attività politica che possa contribuire a scongiurare il rischio di un conflitto nucleare. Si configura così un ulteriore tratto della riflessione del nostro autore che rimarrà costante fino ai suoi scritti più recenti: l’analisi del passato 55 56 57

Ivi, p. 102. Ivi, p. 108. H. Spencer, Principi di sociologia, trad. it. UTET, Torino 1967. Per la discussione da parte di Mann della «società militante» di Spencer cfr. The Sources of Social Power, vol. 1, cit., pp. 55-57.

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e delle sue forme di strutturazione è sempre considerata, oltre che come finalità in sé, quale chiave per comprendere meglio le caratteristiche, le possibilità e i rischi del nostro presente. 1.3. Ruolo e autonomia degli Stati nella società contemporanea Tra la fine degli anni ’70 e la prima metà degli anni ’80, arco di tempo in cui Mann scrive gli articoli che stiamo considerando in questo capitolo, la tensione tra gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica è al culmine e la minaccia di una guerra nucleare si fa quanto mai realistica. Fin dal periodo trascorso a Cambridge, Mann aveva iniziato a nutrire l’idea che l’elemento economico-ideologico (scontro tra capitalismo e comunismo) e quello geopolitico-militare (scontro tra superpotenze mondiali) andassero separati analiticamente se si voleva ben comprendere la situazione della guerra fredda e agire politicamente per evitare la catastrofe. Nel suo articolo del 1984 Capitalism and Militarism e nel successivo War and Social Theory Mann dà a queste intuizioni un sostegno teorico. Il militarismo, egli scrive, è una caratteristica stabile e perenne delle società umane: esso aveva un ruolo determinante nel mondo antico, nel medioevo segna il sorgere degli Stati nazionali attraverso l’istituzionalizzazione del prelievo fiscale volto a finanziare gli eserciti,58 e accompagna gli Stati fino alla contemporaneità. Le forme del potere militare sono andate evolvendosi lungo la storia attraverso l’intersezione con le altre fonti di potere, senza però, come del resto queste ultime, perdere la loro autonomia di fondo e la loro differenza reciproca: «non vi è nulla di peculiarmente militaristico nel capitalismo»,59 scrive Mann, e, «dal punto di vista politico, né il capitalismo dell’Occidente, né il socialismo di Stato dell’Unione Sovietica, sono i veri nemici di coloro che oggi desiderano pace e sopravvivenza»;60 il militarismo è molto più antico, e così lo è, per le popolazioni civili, la minaccia costituita dalle guerre intraprese dagli Stati. Occorre dunque capire come sia oggi strutturato il potere militare-geopolitico, in modo da cercare di contenerne gli aspetti più minacciosi e potenzialmente distruttivi; per fare questo, però, bisogna distinguerlo analiticamente dal capitalismo e dal socialismo, senza pensare che combattere uno di questi ultimi equivalga automaticamente a 58 59 60

Cfr. infra, § 3.4. M. Mann, Capitalism and Militarism, in States, War and Capitalism, cit., pp. 124145: 144. Ibid.

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combattere anche il militarismo che contraddistingue i rapporti tra le due superpotenze. In che modo il potere militare, nelle società contemporanee, interagisce quindi con lo Stato (potere politico), con le classi sociali (potere economico) e con l’ambito del potere geopolitico? Come può essere ridotto il potenziale di pericolo presente in tali interrelazioni? Questo è il tema del saggio War and Social Theory, scritto nel 1985. Secondo quanto sostengono i marxisti, lo Stato persegue soprattutto gli interessi delle classi economicamente dominanti; per i pluralisti, come Dahl e Lipset, esso media tra i diversi gruppi d’interesse che compongono la società; per la tradizione teorica militarista, in cui rientrano Gumplowicz e Oppenheimer, lo Stato si fa invece rappresentante degli ideali del corpo militare, della nazione (intesa in senso essenzialistico) e della razza. Mann si contrappone a tutte e tre queste impostazioni: a suo parere, non solo lo Stato ha una maggiore autonomia dai gruppi della società civile di quanto esse implicano,61 ma, oltretutto, lo Stato moderno è contraddistinto da una struttura duale,62 dal momento che agisce al contempo nell’ambito della politica interna ed economica (come evidenziano liberali e marxisti) e in campo geopolitico e militare (come messo in luce dai sostenitori della teoria militarista). In quest’ultimo ambito, molto più che in quello della politica interna ed economica, le élite statali godono di un’ampia autonomia: i corpi diplomatici e militari, ora come in passato, agiscono sostanzialmente al di fuori dai controlli della società civile, e continuano ad avere la possibilità di trascinare classi e nazioni in guerre o in piani di politica internazionale autonomamente decisi. Per capire come mai l’attività geopolitica e militare si svolga in questo modo, e perché il controllo di essa da parte della società civile sia così debole, Mann analizza le modalità di esercizio del potere geopolitico e militare a partire dall’epoca medievale, in congiunzione con le strutturazioni interne alle classi sociali. Riprendendo una categorizzazione che applicherà anche in The Sources of Social Power, egli traccia la distinzione tra organizzazione di classe transnazionale, internazionale e nazionale.63 La prima ha luogo quando le classi si organizzano al disopra dei confini statali, e tanto i contatti all’interno di una medesima classe quanto il conflitto con altre classi hanno luogo 61 62 63

Mann affronterà specificamente questo tema in The Autonomous Power of the State, il prossimo articolo che andremo a trattare. M. Mann, War and Social Theory, in States, War and Capitalism, cit., pp. 146165: 151. Ivi, pp. 149-150.

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senza riferimento ai singoli Stati nazionali di appartenenza. Il potere degli Stati nazionali in quanto autonomi attori di potere, in questo caso, può essere mitigato dal controllo di ampio raggio che le classi transnazionali riescono spesso a esercitare; si pensi, ad esempio, al potere di orientamento delle politiche statali che riposa nelle mani dei grandi gruppi capitalistici transnazionali. Si può invece parlare di classi internazionali quando gli abitanti di uno Stato nazionale (tutti o gruppi significativi di essi) si percepiscono come una classe in relazione agli abitanti di un altro Stato nazionale: essi giungono quindi a vedersi come una nazione proletaria e sfruttata ad opera di altri Stati nazionali, o come nazione egemone (egemonia che giustificano solitamente attribuendosi un più alto grado di civiltà) nei loro confronti. Nel caso delle classi nazionali, infine, tanto l’organizzazione di classe quanto la lotta di classe avvengono entro i confini dello Stato nazione, senza significativi riferimenti allo spazio transnazionale; le classi rivolgono il loro sguardo verso l’interno dello Stato e non si interessano dell’ambito geopolitico. Tanto la scuola militarista quanto quella marxista e liberale hanno dedicato poca attenzione a questo tipo di strutturazione di classe, sebbene essa abbia un’importanza fondamentale nel chiarire l’autonomia geopolitica delle moderne élite statali e le ricadute di quest’ultima in campo militare. Quanto più le diverse classi della società civile assumono una strutturazione nazionale, dedicando scarsa attenzione alla geopolitica, tanto meno esse possono sottoporre a un controllo effettivo il potere militare dello Stato, che le élite politiche e militari, a partire dalla prima modernità, esercitano in sostanziale autonomia e a porte chiuse. Nell’era della bomba atomica sembrerebbe più chiaro che mai che la geopolitica sia un affare troppo importante per essere lasciato alle élite statali e militari, ma queste continuano ad averne il controllo. Perché così poco è cambiato? Secondo il modello di Mann, la risposta è nel permanere sostanzialmente invariate delle relazioni tra Stato e classi nazionali, internazionali e transnazionali: le classi della società civile si organizzano ancora su base prevalentemente nazionale (lo stesso capitalismo transnazionale si limita all’area controllata dagli Stati Uniti, tale da strutturarsi come una nazione a sé). Proprio come nelle epoche passate, che Mann ripercorre mediante un’accurata analisi storica, la grande massa della popolazione si interessa molto più alle questioni di politica interna, in quanto percepite come più rilevanti per la sua quotidianità, che alla geopolitica; similmente, i cittadini rivendicano con più forza e frequenza il loro diritto di codeterminazione democratica per quanto riguarda la prima, non la seconda. Lo Stato, quindi, viene ritenuto responsabile nei confronti della società civile rispetto alle questioni di politica interna, ma continua, in base alla

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sua struttura duale, a esercitare in autonomia le funzioni militari e geopolitiche. Il nemico geopolitico contro cui le popolazioni vengono propagandisticamente mobilitate, nell’era della guerra fredda, viene inoltre dipinto in termini ideologici come un «nemico di classe» con propaggini interne (in Occidente, i partiti comunisti nazionali).64 Una contrapposizione militargeopolitica potenzialmente letale per l’intera umanità è quindi presentata come una lotta ideologica per la civilizzazione mondiale, mentre strategie diplomatiche e decisioni militari rimangono pervase da segretezza e sottratte al controllo democratico da parte della popolazione. Un controllo che, scrive Mann, andrebbe rivendicato con molta più decisione; ma, per fare questo, occorrerebbe giungere a più chiara consapevolezza che lo scontro militare tra le due superpotenze è in prima istanza uno scontro geopolitico, e non una contrapposizione capitalismo-comunismo tale da mobilitare la popolazione attraverso l’appello alle convinzioni ideologiche delle diverse classi nazionali. Solo iniziando a ragionare in un’ottica che sia anche transnazionale e geopolitica, la società civile potrà farsi portatrice del comune interesse, che travalica le divisioni ideologiche e di classe, a evitare un olocausto nucleare, e agire per ridurre l’arbitraria autonomia militar-geopolitica delle élite statali mondiali. Questi temi torneranno a più riprese in The Sources of Social Power, a testimonianza dell’impegno di un autore la cui teorizzazione storica e sociologica non è mai scissa dalla presa di posizione normativa in favore dei valori democratici, e anzi costituisce la base argomentativa per una più stringente affermazione di essi. 1.3.1. Il potere autonomo dello Stato Il problema dell’autonomia delle élite statali è al centro del saggio del 1984 The Autonomous Power of the State. Lo Stato costituisce «un insieme internamente differenziato di istituzioni e personale centralmente organizzato, nel senso che le relazioni di potere politico si irradiano da un centro per estendersi su un’area territoriale definita»;65 questa definizione, che anticipa quella proposta in The Sources of Social Power, è al contempo «istituzionale» e «funzionale», ossia riguarda tanto le istituzioni che compongono lo Stato quanto le funzioni che esso svolge. Lo Stato è inoltre caratterizzato, per Mann, dalla struttura duale che abbiamo già visto (poli64 65

Ivi, pp. 159-163. M. Mann, The Autonomous Power of the State, in States, War and Capitalism, cit., pp. 1-32: 4.

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tica interna da una parte, geopolitica e scelte militari dall’altra); il gruppo che detiene il più ampio potere al suo interno è quello delle élite statali, le quali possono relazionarsi ai gruppi costituenti la società civile in due modalità principali: mediante il potere dispotico e il potere infrastrutturale. Il primo consiste nell’«insieme di azioni che l’élite statale ha la facoltà di intraprendere senza negoziazioni routinizzate e istituzionalizzate con i gruppi della società civile»,66 ed è quindi maggiore in Stati basati sul potere personalistico e assoluto del sovrano o dei gruppi al comando. Il potere infrastrutturale è invece «la capacità dello Stato di penetrare effettivamente la società civile, e implementare logisticamente le sue decisioni politiche all’interno del territorio».67 Esso è maggiore, naturalmente, negli Stati ad alta coordinazione istituzionale, dotati di consistenti apparati burocratici, sistemi di tassazione, controllo sul sistema educativo, occupazionale ed economico. Il potere infrastrutturale presuppone una divisione del lavoro, centralmente coordinata, tra le varie attività principali dello Stato; la diffusa alfabetizzazione degli agenti statali; l’uso di un sistema di moneta, di pesi e di misure uniforme, e rapidità nelle comunicazioni e nei trasporti. Se il potere dispotico assicura l’immediata esecuzione della volontà del sovrano all’interno dell’ambito su cui si estende il suo dominio diretto, il potere infrastrutturale permette ad essa di ramificarsi ed espandersi indirettamente su tutta la società. Le due forme di potere sono analiticamente autonome, ma si presentano intrecciate, sebbene a diverse intensità relative, nella concretezza sociale. In termini generali, le loro interrelazioni sono così riassunte da Mann in una tabella:68 Potere infrastrutturale

Potere dispotico

Basso

Alto

Basso

Stato feudale

Stato democratico

Alto

Stato imperiale/assolutista

Stato a partito unico

Lo Stato, nella sua definizione ideale, consiste quindi in una struttura amministrativo-decisionale con a capo le élite statali, in grado di esercitare

66 67 68

Ivi, p. 5. Ibid. La più aggiornata versione di questa tabella, qui tradotta, si trova in M. Mann, Infrastructural Power Revisited, «Studies in Comparative International Development», XLIII (2008), n. 3-4, pp. 355-365: 357. Cfr. anche The Sources of Social Power, vol. 2, Cambridge University Press, New York 1993, p. 60.

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potere dispotico e infrastrutturale sui gruppi della società civile. Esso svolge delle funzioni necessarie a quest’ultima: mantenimento dell’ordine interno e delle infrastrutture di comunicazione, esercizio del potere militare, redistribuzione economica. Non vi sono società anche solo minimamente complesse e civilizzate prive di un centro di coordinazione e di autorità obbligante. Le funzioni svolte dallo Stato mettono quest’ultimo in relazione con i diversi gruppi della società civile, i cui interessi differenziati vanno spesso a intersecarsi in vari modi; ciò permette alle élite statali un certo margine di manovra tra di essi (alleanze con gruppi differenziati, divide et impera, bilanciamento di interessi), grazie al quale le élite riproducono la loro stessa esistenza e la loro posizione di potere nella società.69 La tesi di Mann è quindi che lo Stato, attraverso il potere esercitato dalle élite, detenga sempre una certa misura di autonomia, per quanto essa sia storicamente variabile. Nei moderni Stati democratici, caratterizzati da elezioni regolari, forte potere infrastrutturale e rule of law, essa va a ridursi ma non a scomparire; le funzioni dello Stato sono infatti molteplici e i suoi possibili ambiti di influenza assai ampi e variegati.70 Sono quindi da considerarsi riduzioniste tutte quelle teorie dello Stato che intendono quest’ultimo come un mero agente delle classi economicamente dominanti (marxisti) o come un’arena inerte in cui avviene la competizione tra i principali gruppi d’interesse (pluralisti): lo Stato è un centro di potere attivo, che in quanto tale partecipa autonomamente ai conflitti di potere che hanno luogo nella società. Le caratteristiche organizzative e sociospaziali che gli permettono di fare questo sono la sua centralità e territorialità:71 lo Stato si pone come unico potere centralizzato riconosciuto sul suo territorio di riferimento, attraverso le molte funzioni necessarie che persegue in esso. La società civile non è quindi in grado di fare a meno dello Stato, e ciò fa sì che le élite statali possiedano rispetto ad essa un’autonomia di potere che, se non assoluta, è pari e spesso maggiore a quella dei principali gruppi sociali. Normativamente, tuttavia, nelle mani della società civile dovrebbe permanere un controllo democratico più ampio possibile sullo svolgimento di queste funzioni da parte dello Stato e sulle risorse, sociali e materiali, che per esse vengono impiegate; dal ruolo funzionale delle élite statali non dovrebbe quindi conseguire uno sfruttamento di tipo «dispotico» ai danni della società civile, né un’autonomizzazione, priva

69 70 71

M. Mann, The Autonomous Power of the State, cit., p. 14. Ivi, p. 15. Ivi, p. 16.

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di controlli, del potere delle élite stesse.72 Storicamente però, come Mann evidenzia tracciando per la prima volta la «dialettica di centralizzazione e decentralizzazione»73 che costituirà uno dei maggiori risultati teorici del primo volume di The Sources of Social Power, le cose sono spesso andate, e ancora talvolta vanno, in modo ben diverso.

72 73

Ivi, p. 19. Ivi, pp. 23-24.

2. IL POTERE SOCIALE NELL’ANTICHITÀ E NEL MEDIOEVO: THE SOURCES OF SOCIAL POWER, VOLUME 1

Il primo dei quattro libri che compongono l’opera The Sources of Social Power, pubblicato nel 1986, ripercorre la storia del potere sociale «dagli inizi al 1760», come recita il sottotitolo al volume. Quando e dove inizino «gli inizi», lo vedremo nel prossimo paragrafo. Prima di seguire Mann nella sua narrazione storica, è infatti il caso di delineare i concetti teorici necessari alla comprensione dell’impianto sottostante all’opera.1 Mann esordisce all’insegna di quella che Victor Kiernan, nella sua recensione al volume, definirà una «salutare iconoclastia»:2 «le società non sono unitarie. Non esistono sistemi sociali (chiusi o aperti); le società non sono totalità. Non vi è una società che abbia confini definiti, nello spazio geografico come in quello sociale. […] E poiché non vi è alcun sistema sociale, non può esservi nessun processo “evolutivo” al suo interno».3 Già con queste poche parole, Mann prende le distanze da gran parte della teoria sociale esistente: se la società non è un sistema né una totalità funzionale – come, insieme a Parsons, sostengono i teorici sistemici e funzionalisti – essa non può neanche essere suddivisa in «livelli» o «dimensioni», secondo quanto affermano gli strutturalisti; né le relazioni sociali possono venire ricondotte a priori a un singolo fattore di tale totalità, sia esso inteso in senso materiale (marxismo), ideologico-normativo (culturalismo), o militare (determinismo militare).4 Parimenti, Mann esclude ogni impostazione evoluzionistica o teleologica. Cos’è allora la società? 1

2 3 4

In lingua inglese, cfr. anche le introduzioni alla teoria di Mann ad opera di R. Collins, Mann’s Transformation of the Classic Sociological Traditions, in An Anatomy of Power, cit., pp. 19-32, e W. Domhoff, An Invitation to a Four-Network Theory of Power, in «Historical Social Research», XXXVII (2012), n. 1, pp. 23-37. V. G. Kiernan, recensione a The Sources of Social Power, vol. 1, in «The English Historical Review», CII (1987), pp. 648-650: 650. M. Mann, The Sources of Social Power, vol. 1, cit., p. 1. Ivi, p. 2.

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2.1. Definizioni di società e di potere sociale La società, scrive Mann, «è una rete di interazioni tra esseri umani, ai cui confini si trova un differenziale di interazione tra di essa e l’ambiente circostante».5 Le società, egli afferma, sono costitute dall’intersecarsi e dal sovrapporsi di una pluralità di reti di potere dai confini diversi e frastagliati, generate dai soggetti sociali, i quali interagiscono per perseguire i propri fini; queste reti, intrecciandosi reciprocamente in maggiore o minor numero, con diverse intensità e secondo le loro rispettive proprietà, danno luogo a particolari concentrazioni di interazione sociale, dotate di confini mutevoli e sempre aperte alla possibilità di nuove sovrapposizioni e intersezioni con le reti spazialmente adiacenti.6 Una società è quindi formata da reti di potere che, nell’intrecciarsi le une alle altre, danno vita a complessi di interazione maggiormente intensi e stabili rispetto a quelli presenti nello spazio a essa circostante. Le principali reti di potere che, intersecandosi tra loro, compongono le società, sono quelle che gli esseri umani generano a partire dalle quattro fonti del potere sociale. Queste ultime, identificabili a livello teorico come idealtipi, costituiscono i pilastri del «modello IEMP»,7 così definito dal sociologo britannico a partire dall’acronimo dei loro nomi: potere ideologico, economico, militare e politico. Ma perché Mann individua quattro, e solo quattro, fonti del potere sociale? E, se le società sono costituite dall’intersecarsi di reti di potere, cos’è il potere? Nel senso più generale, «il potere è la capacità degli esseri umani di perseguire e raggiungere obiettivi attraverso il controllo del proprio ambiente»,8 sociale o naturale; a tale definizione Mann aggiunge numerose specificazioni che vedremo in seguito. Per adesso, basti notare che egli non intende questa concettualizzazione come l’unica corretta o possibile; bensì semplicemente come la descrizione generale più adeguata a teorizzare il potere in senso organizzativo. Quest’ultima, per Mann, è la chiave di lettura che meglio consente di far luce sulle tendenze, le regolarità e i processi della storia delle società umane. Egli, che dichiara esplicitamente di non volersi addentrare nelle dispute concettuali sul «potere in sé» o su quante e quali siano le dimensioni di esso,9 si concentra quindi sul potere inteso come mezzo di organizzazione collettiva degli esseri umani, finalizzato al 5 6 7 8 9

Ivi, p. 13. Ivi, p. 2. Ibid. Ivi, p. 6. Ibid. Un lucido esempio di questo tipo di ricerca è costituito da S. Lukes, Il potere. Una visione radicale, trad. it. Vita e pensiero, Milano 2007.

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perseguimento dei loro fini. Alla base del modello elaborato da Mann vi è una definizione, estremamente generale e formale, della natura e delle finalità umane: gli esseri umani sono costitutivamente «irrequieti» e capaci di razionalità, scrive l’autore riecheggiando la «razionale irrequietezza» weberiana; essi sono orientati a perseguire una varietà di fini e desiderosi di aumentare il loro godimento di ciò che considerano buono.10 Mann, come Weber, pone quindi alla base della sua teoria le motivazioni individuali dei soggetti sociali, adottando una posizione di individualismo metodologico. La specie umana è caratterizzata da un intrinseco dinamismo, il quale, differenziandola rispetto al mondo animale, la rende capace di storia.11 Le fonti del potere sono i mezzi organizzativi di cui gli esseri umani si servono a livello collettivo per perseguire i loro fini. Quali effettivamente siano le originarie finalità umane, scrive Mann, è irrilevante allo scopo di determinare come le fonti del potere si strutturano nella storia. È improbabile, ad esempio, che il potere militare, specialmente in rapporto alle immani proporzioni che oggi ha raggiunto, rappresenti un fine originario e primario degli esseri umani; esso è però un mezzo efficace per perseguire altre necessità, primarie o derivate; di fronte a questa concretezza storica, la domanda su quali siano i fini originari perde di rilevanza empirica.12 Mann, con questa mossa, attesta le basi del suo modello su un terreno alquanto solido e sicuro – sebbene, si potrebbe affermare, a danno del respiro teorico che una più sostantiva definizione della natura e delle finalità umane avrebbe potuto dare alla sua concezione.13 Il riferimento alla concretezza storica è anche la chiave per comprendere perché le fonti del potere teorizzate da Mann siano esattamente le quattro che egli enumera: l’umana capacità di ravvisare sequenze causali nella sto10 11 12 13

M. Mann, The Sources of Social Power, vol. 1, cit., p. 4. Ibid. Ivi, p. 6. Le microfondazioni della concezione di Mann vengono indagate da E. Kiser nel suo Mann’s Microfoundations: Addressing Neo-Weberian Dilemmas (in An Anatomy of Power, cit., pp. 58-70). Come Weber, Mann assegna primaria importanza a motivazioni razional-strumentali, affermando che gli esseri umani sono desiderosi e razionalmente capaci di identificare e impiegare i mezzi per perseguire ciò che reputano buono. Sempre su una linea weberiana, come avremo modo di approfondire più avanti, nella sua narrazione storica Mann dà rilievo alla contingenza, alle conseguenze involontarie e inattese dell’azione umana, agli errori di valutazione. Infine, egli assegna un ruolo rilevante anche agli orientamenti valoriali, tradizionali e affettivi, che categorizza sotto il potere ideologico. Le microfondazioni della teoria di Mann sono quindi multiple e comprendenti tutti e quattro i tipi di azione sociale enucleati da Weber.

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ria è limitata, mentre la realtà sociale è molto più «disordinata» («messy», la definisce l’autore),14 ampia e variegata di quanto anche le più precise concezioni teoriche possano render conto; alcuni elementi di tale realtà si presentano con maggiore forza ed evidenza allo sguardo del sociologo che ripercorre la storia, anche se, sicuramente, non sono gli unici a costituire quest’ultima. Essi sono però gli unici che possiamo empiricamente ed argomentativamente discernere come dotati di concretezza e stabilità lungo tutta la storia delle società umane: nell’ambito del potere sociale, tali elementi sono quattro – il potere ideologico, economico, militare e politico.15 Il punto di partenza di Mann è quindi l’empiria: egli non prende le mosse dall’ipotizzare a livello teorico quali possano essere i più originari fini umani o le funzioni necessarie alla vita associata. Piuttosto, pone alla base del suo modello la constatazione storico-empirica che, ripercorrendo l’itinerario dell’umanità dall’antichità fino ad oggi, le forme di potere sociale che si presentano in ogni fase e che risaltano chiaramente in tutta la storia umana sono il potere ideologico, economico, militare e politico. Per quanto riguarda l’interpretazione di singoli periodi e avvenimenti storici in base a tale modello, la metodologia seguita da Mann è invece quella di un continuo confronto tra intuizioni concettuali e dati empirici: allo sviluppo di un’idea generale sulla base della documentazione storica segue un più approfondito confronto con le fonti e una messa a punto dell’ipotesi teorica, che viene poi nuovamente vagliata mediante il riferimento ai dati.16 Naturalmente, non sarebbe possibile ripercorrere millenni di storia del potere sociale considerando, per ogni epoca trattata, ogni singola regione geografica. Per questo Mann concentra di volta in volta la sua attenzione su quella che chiama la leading edge of power, l’avanguardia del potere: ossia la civiltà, il luogo, la regione in cui, in ogni data epoca storica, i rapporti di potere si presentano maggiormente avanzati e sviluppati in senso organizzativo, ossia dotati di una più alta capacità di integrare gruppi sociali e territori.17 Ciò su cui Mann concentra la sua attenzione è dunque l’«infrastruttura» organizzativa del potere, in chiave macrostorica e sociospaziale: in che 14 15 16 17

M. Mann, The Sources of Social Power, cit., p. xxvi. Ivi, p. 28. Ivi, p. viii. Ivi, p. 31. Barrington Moore, nella sua recensione a The Sources of Social Power, vol. 1 (in «History and Theory», XXVII, 1988, n. 2, pp. 169-177: 171) sintetizza in modo pragmatico la giustificazione di questa metodologia: «se si trattasse di scrivere una storia del violino non vi sarebbe motivo di dire granché su quelle zone del mondo in cui non vengono costruiti violini».

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modo gli esseri umani organizzano la loro azione sociale per mezzo di rapporti di potere istituzionalizzati (anche in via temporanea e informale), e come gli spazi sociali e geografici possono essere «conquistati e controllati da e attraverso organizzazioni di potere».18 Attraverso l’esame di come si articolano storicamente le fonti del potere sociale e le reti di interazione che gli esseri umani formano a partire da esse, Mann dispone di un formidabile strumento per discernere tendenze storico-sociali di ampio respiro, ravvisare dialettiche e dinamiche storiche, captare regolarità e individuare contingenze, nonché far luce sugli sviluppi, tanto diacronici quanto relativi a una singola epoca, dei rapporti di potere. Ripercorrendo la narrazione storica, vedremo che il modello elaborato da Mann permette anche, in maniera innovativa e altamente convincente, di rendere conto del cambiamento storico.19 2.1.1 L’interazionismo struttural-simbolico e le quattro fonti del potere sociale Attraverso la sua concezione organizzativa del potere, Mann ambisce a situarsi a metà strada tra i due opposti fuochi costituiti dallo strutturalismo, il quale analizza la società in termini di strutture e livelli funzionali, ma che non riesce a dare una spiegazione puntuale del perché essa si determini proprio secondo tale conformazione, e la teoria dell’azione sociale, che, analizzando puntualmente l’agire e le motivazioni dei soggetti, trova però difficoltà nel tenere adeguatamente conto delle conseguenze sovraindividuali dell’azione collettiva e delle istituzioni. Mann denomina il suo metodo «interazionismo struttural-simbolico»:20 gli esseri umani si organizzano gli uni con gli altri generando reti di interazione intorno alle quattro principali fonti del potere, consolidando tali reti tramite prassi condivise e abituali, stabilizzandole in istituzioni e concretizzazioni sociali; la teoria 18

19

20

Sul rapporto della teoria di Mann con la disciplina della geografia storica, cfr. R. Jones, Mann and Men in a Medieval State: The Geographies of Power in the Middle Ages, in «Transactions of the Institute of British Geographers», New Series, XXIV (1999), n. 1, pp. 65-78; e C. Harris, Power, Modernity, and Historical Geography, in «Annals of the Association of American Geographers», LXXXI (1991), n. 4, pp. 671-683. Nel suo Logics of History, W. Sewell si concentra sulla concezione del cambiamento storico adottata da Mann, enfatizzando, in essa, il ruolo della contingenza e dell’«evento» in grado di trasformare le strutture sociali. Cfr. W. Sewell, Logics of History, University of Chicago Press, Chicago 2005, pp. 81-123. M. Mann, The Sources of Social Power, vol. 1, cit., p. xi.

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deve quindi tenere conto tanto dell’azione sociale, quanto delle strutture organizzative e routinarie in cui quest’ultima si regolarizza. Come scrive Tim Jacoby, per Mann, «le motivazioni e le azioni individuali non possono essere ignorate, ma nemmeno spiegate unicamente in termini di risultati sul macrolivello».21 Il punto di riferimento metodologico per l’analisi condotta da Mann è quindi l’intersecarsi delle reti di interazione generate dai soggetti, i quali organizzano la loro azione sociale intorno alle quattro fonti del potere. Andiamo, adesso, a considerare più da vicino queste ultime. 1. Il potere economico deriva dalle azioni – di estrazione, trasformazione, distribuzione e consumo di risorse – che gli esseri umani intraprendono collettivamente per la soddisfazione dei loro bisogni materiali. Nessuna di queste fasi, per Mann, detiene un ruolo teoricamente privilegiato sulle altre: assegnare il primato ai rapporti di produzione, come fanno i marxisti (con la motivazione che quest’ultima precede logicamente e storicamente la distribuzione), vuol dire non riconoscere il fatto che ogni organizzazione dotata di concreta esistenza nella società rappresenta «un fatto sociale» al pari delle altre, e che quindi può esercitare, in via di principio, un potere non dissimile dal loro.22 Il concetto di classe sociale, intesa come gruppo che si genera a partire dalla stratificazione derivante dal perseguimento delle necessità materiali, rientra appieno, per Mann, nell’ambito del potere economico: le classi economicamente dominanti sono quelle che riescono a monopolizzare il controllo degli ambiti sociali relativi a questa forma di potere, o ad accentrarne i vantaggi sproporzionatamente su di sé. 2. Il potere militare è essenzialmente «l’organizzazione sociale della violenza letale concentrata»:23 mediante questa definizione Mann mira a rendere evidente l’opportunità della separazione teorica che egli introduce, rispetto alla teoria weberiana, tra potere militare e potere politico. Una separazione criticata in particolare da Gianfranco Poggi nel suo volume Forms of Power e poi nel saggio Political Power Un-manned, in cui egli afferma che il potere militare, in quanto amministrato e monopolizzato dallo Stato, rientra appieno all’interno del potere politico.24 Mann sostie21 22 23 24

Cfr. T. Jacoby, Narrative, Method and Historiography in Michael Mann’s Sociology of State Development, in «The Sociological Review», LII (2004), n. 3, pp. 404-421: 407. M. Mann, The Sources of Social Power, vol. 1, cit., p. 24. Ivi, p. xiii. G. Poggi, Political Power Un-manned, in An Anatomy of Power, cit., pp. 135149. La separazione di potere militare e potere politico è contestata anche da A. Callinicos, Making History, Haymarket, Chicago 2009, pp. 184 e segg.

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ne, in risposta a questa obiezione, che il potere militare ha delle proprietà emergenti che lo differenziano sostanzialmente da quello politico e statale: il suo essere una forza «concentrata, fisica, letale», ben diversa da quella routinizzata, mediata e regolata delle istituzioni politiche; la sua tendenza ad autonomizzarsi dal legittimo controllo da parte della società civile; i tratti dispotici e arbitrari che storicamente si presentano tanto nella sua organizzazione interna, quanto, soprattutto, nei confronti del nemico. Vi sono, naturalmente, casi in cui potere politico e potere militare si presentano come un tutt’uno: la Germania nazista, la Russia stalinista, la Cina maoista e l’Inquisizione cattolica. Tuttavia, argomenta Mann, l’associarsi del potere politico e militare rappresenta solitamente il risultato di una lunga escalation che ha luogo in un numero limitato di casi.25 Inoltre, tutte le fonti del potere possono talvolta fondersi le une con le altre, senza che questo sia un motivo per abbandonare la distinzione teorica di esse. 3. Il potere politico è un potere centralizzato, istituzionalizzato e territoriale, che Mann identifica con il potere dello Stato. Quest’ultimo, come abbiamo visto trattando The Autonomous Power of the State, gode di una certa misura di autonomia discendente dalla sua centralità e territorialità, da cui deriva la sua capacità di regolare le relazioni sociali nei territori di sua influenza. Oltre alla politica interna a un territorio nazionale, nel potere politico rientra altresì la diplomazia internazionale, in quanto amministrata a partire dai singoli Stati; l’aspetto militare della geopolitica ricade invece nel potere militare. Anche rispetto all’autonomia che Mann assegna al potere politico non sono mancate obiezioni: nella sua recensione, dal titolo Those in Authority, Perry Anderson scrive che «ogni esercizio di potere politico dipende manifestamente dal possesso di potere ideologico o militare, e normalmente si configura quindi come una combinazione di forza e convinzione»;26 sempre Anderson, in un altro scritto, afferma che «la regolazione politica non è concepibile senza le risorse della coercizione armata, del prelievo fiscale e della legittimazione ideale»,27 e che il potere politico, quindi, non costituirebbe una fonte autonoma. Mann concorda rispetto al fatto che il potere politico possa configurarsi in un rapporto di intreccio e talvolta di reciproco sostegno con altre 25 26

27

M. Mann, The Sources of Social Power, vol. 1, cit., p. xiii. P. Anderson, Those in Authority, in «The Times Literary Supplement», 12 December 1986, pp. 1405-1406; Cfr., per obiezioni simili, anche Ch. Wickham, Historical Materialism, Historical Sociology, in «New Left Review», CLXXI (1988), pp. 63-78: 67. P. Anderson, A Culture in Contraflow-1, in «New Left Review», CLXXX (1990), pp. 41-80: 61.

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forme di potere: egli denomina «promiscuità» questa caratteristica delle fonti di potere, dipendente dal fatto che, a livello empirico, gli idealtipi corrispondenti alle quattro fonti si presentano sempre intrecciati.28 Essa non riguarda solo il potere politico, bensì tutte e quattro le forme del potere sociale: il potere militare, ad esempio, in molti casi funziona efficacemente solo con il supporto del potere politico, economico e/o ideologico, al punto che le sue forme non dipendono unicamente dagli sviluppi ad esso interni. Riconoscere la promiscuità empirica delle fonti di potere, però, non equivale a negare la loro autonomia e irriducibilità concettuale: come quello militare (e ideologico, ed economico), il potere politico-statale ha proprie caratteristiche specifiche, non riducibili a quelle di fonti diverse. In particolare, lo vedremo a breve, esso si distingue per la sua capacità di caging, ossia di «ingabbiare» gran parte della vita sociale all’interno dei suoi territori di sovranità centralmente e istituzionalmente amministrati. 4. Il potere ideologico riguarda le elaborazioni culturali, le categorie di senso, le concezioni normative, le pratiche estetiche e rituali. Esso può essere trascendente o immanente. La forma trascendente è quella maggiormente autonoma, ossia separata dalle strutture d’autorità secolari poiché dotata di una legittimazione di carattere sovramondano. L’esempio più immediato di potere ideologico trascendente è offerto dalle religioni, ma anche visioni utopistiche di un ordine sociale radicalmente diverso rientrano in esso. Il potere ideologico immanente, invece, che si riferisce a forme secolari e già socialmente esistenti di potere economico, politico o militare, intensifica la coesione e l’attaccamento ad esse dei soggetti coinvolti, aumentando così il potere collettivo di questi ultimi in riferimento a determinate finalità: un esempio ne sono le ideologie politiche di tipo nazionalista o imperialista. Le forme di potere ideologico, per propagarsi ed esercitare effetti sulla società, necessitano di infrastrutture materiali e organizzative attraverso cui venire trasmesse: vie di comunicazione, gruppi logisticamente interconnessi, fonti di informazione, reti di proselitismo, di diffusione culturale o di propaganda ideologica.29 Assumendo una posizione intermedia tra idealismo e materialismo, Mann introduce così la sua concezione del «materialismo organizzativo»: le idee non giungono ad esercitare un influsso sulla società solo in virtù del loro eventuale potere di 28 29

M. Mann, The Sources of Social Power, vol. 1, cit., p. 17. P. S. Gorski, in Mann’s Theory of Ideological Power, in An Anatomy of Power, cit., pp. 101-134, riconosce in questa concezione di Mann l’influenza di Louis Althusser (cfr. ivi, p. 105).

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convincimento; esse necessitano di portatori concreti, di canali di comunicazione e di reti di diffusione. 2.1.2. Potere distributivo e collettivo; estensivo e intensivo; autoritativo e diffuso Per Mann non è una singola fonte del potere sociale, e nemmeno una combinazione di esse, a mantenere il primato lungo tutta la storia umana: quest’ultima si compone a partire dall’intreccio di reti di potere riferibili a tutte e quattro le fonti; in alcune fasi, una o due fonti possono guadagnare una temporanea posizione di preminenza sulle altre (ad esempio, nel periodo del capitalismo industriale europeo, sono il potere economico e quello politico a prevalere), ma non è possibile, come ad esempio per Marx, parlare del primato costante di una specifica fonte di potere. Per concludere questa introduzione teorica, andiamo a considerare le varianti in cui le quattro fonti del potere possono concretamente presentarsi. Oltre al potere dispotico e a quello infrastrutturale,30 definiti nel capitolo precedente, Mann teorizza infatti altre tre coppie di termini per descrivere le diverse forme organizzative che i rapporti di potere sociale possono fattualmente assumere. Abbiamo visto che, in via generale, Mann identifica il potere con «la capacità degli esseri umani di perseguire e raggiungere obiettivi attraverso il controllo del proprio ambiente». A partire da questa definizione egli ricava la prima, classica, coppia di forme organizzative: potere distributivo e potere collettivo. Il primo corrisponde al potere che un soggetto A esercita su un soggetto B. Esso configura un «gioco a somma zero»,31 nel senso che, affinché B guadagni potere su A, A deve perderne un ammontare corrispondente, e viceversa. Il potere collettivo si riferisce invece al potere che può essere congiuntamente esercitato, da soggetti in cooperazione tra loro, sull’ambiente naturale o su altri gruppi umani. Mann riprende la teorizzazione di questa forma organizzativa dall’articolo di Talcott Parsons La distribuzione del potere nella società americana. Di contro all’impostazione ristrettamente distributiva applicata da Wright Mills ne L’élite del potere, Parsons osservava che, per comprendere i rapporti di potere sociale, è necessario considerare anche l’aspetto collettivo di quest’ultimo: se quindi, 30

31

Nel suo State Infrastructural Power: Approaches to Conceptualization and Measurement (in «Studies in Comparative International Development», XLIII, 2008, n. 3-4, pp. 231-251), H. Soifer indaga la possibilità di elaborare metodi di misurazione del potere infrastrutturale dello Stato. M. Mann, The Sources of Social Power, vol. 1, cit., p. 6.

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ad esempio, la distribuzione della ricchezza tra le diverse classi sociali è sicuramente una questione di potere distributivo, ciò non deve far dimenticare che il semplice fatto che ci sia qualcosa da distribuire è esso stesso l’effetto di un esercizio di potere – di potere collettivo.32 La relazione tra potere distributivo e potere collettivo, spiega Mann, è dialettica: per perseguire i loro fini, gli esseri umani costituiscono relazioni di potere collettivo, cooperando gli uni con gli altri. Nell’implementare gli obiettivi comuni, tuttavia, per ragioni di funzionalità e produttività, i soggetti strutturano i loro rapporti secondo una divisione del lavoro. Quest’ultima racchiude in sé una tendenza intrinseca a generare relazioni di potere distributivo: coloro che occupano i posti al vertice della catena produttiva assumono, in virtù della loro posizione, un ruolo di controllo e di supervisione su chi è più in basso. Questi soggetti, scrive quindi Mann, detengono «un immenso vantaggio organizzativo» sugli altri: i superiori, potendo disporre di uno sguardo d’insieme, controllano l’intera organizzazione, mentre chi si trova ai posti sottostanti è strutturalmente privo di questa possibilità. Chi si trovi in posizione subordinata può senza dubbio rifiutarsi di obbedire, ma, in un sistema conformato gerarchicamente e distributivamente, è difficile che i gruppi al fondo della gerarchia dispongano delle risorse materiali e organizzative per istituzionalizzare, con comparabile successo, modalità alternative di raggiungimento degli stessi fini. Di conseguenza, «i pochi che si trovano al vertice possono assicurarsi la conformità di chi sta in basso, purché il loro controllo sia istituzionalizzato nelle leggi e nelle norme del gruppo sociale in cui tutti i soggetti operano».33 Ecco, quindi, la risposta all’interrogativo che Mann poneva fin dai suoi primi scritti: perché le masse non si ribellano al dominio? Non è una questione di consenso valoriale, né di puri e semplici rapporti di forza: «le masse si conformano allo status-quo perché mancano dell’organizzazione collettiva per fare altrimenti, in quanto sono inserite in organizzazioni di potere collettivo e distributivo controllate da altri»; esse vengono «sopraffatte organizzativamente».34 Una posizione, questa, che ricorda da vicino quella espressa da Gaetano Mosca: «la forza di qualsiasi minoranza è irresistibile di fronte ad ogni individuo della maggioranza, il quale si trova, solo, davanti alla totalità della minoranza organizzata».35 32 33 34 35

Cfr. T. Parsons, La distribuzione del potere nella società americana, in Id., Sistema politico e struttura sociale, trad. it. Giuffrè, Milano 1975, pp. 241-262: 258. M. Mann, The Sources of Social Power, vol. 1, cit., p. 7. Ibid. G. Mosca, Elementi di scienza politica, 2 voll., Laterza, Bari 1953.

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La successiva coppia di forme organizzative di potere presentata da Mann si compone di potere estensivo e potere intensivo: il primo si riferisce alla capacità di organizzare ampi numeri di persone su territori estesi, in modo da coinvolgerle in forme minimali di cooperazione stabile; il potere intensivo riguarda invece la capacità di creare stretti nessi organizzativi, percepiti come obbliganti, al fine di ottenere dai partecipanti un alto livello di mobilitazione o di impegno collettivo, a prescindere dal fatto se il numero dei soggetti implicati e l’area su cui viene esercitato il potere siano grandi o piccoli. Per finire, Mann delinea la coppia costituita da potere autoritativo e potere diffuso. Il potere autoritativo si esercita attraverso ordini espliciti e obbedienza consapevole; il potere diffuso, invece, si espande tra la popolazione in modo più spontaneo, inconsapevole e decentrato, e, piuttosto che su ordini precisi, riposa sul volontario conformarsi dei soggetti a pratiche e convinzioni percepite come morali, naturali, o favorevoli all’interesse collettivo. Potere intensivo, estensivo, autoritativo e diffuso possono così essere rappresentati in uno schema, in relazione a esempi pratici:36 Potere organizzativo

Potere organizzativo

Autoritativo

Diffuso

Intensivo

Struttura di comando dell’esercito

Sciopero generale

Estensivo

Impero militare

Scambio di mercato

Queste forme organizzative, che, come si evince dalla tabella, riguardano tutte e quattro le fonti del potere, ricorreranno spesso nella narrativa storica proposta da Mann, che inizieremo a ripercorrere nel prossimo paragrafo. 2.2. Le origini del potere sociale: le prime civiltà mesopotamiche «Una storia del potere dovrebbe iniziare dall’inizio»:37 ma qual è l’inizio? Nella preistoria, gli esseri umani sono vissuti per milioni di anni in gruppi nomadi poco strutturati e di piccole dimensioni; l’appartenenza a

36 37

M. Mann, The Sources of Social Power, vol. 1, cit., p. 9. Ivi, p. 34.

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essi era fluida, mutevole, priva di rapporti di potere istituzionalizzati.38 Il fatto che solo con la rivoluzione neolitica del 3000 a.C. abbiano cominciato a cristallizzarsi le prime forme di autorità e gerarchia stabile rivela che l’autorità asimmetrica, la stratificazione sociale e il potere distributivo non sono qualcosa che gli esseri umani, per milioni di anni, abbiano attivamente cercato. Devono essere stati molti, piuttosto, i casi di riuscita resistenza all’istituzionalizzarsi di stabili posizioni di potere asimmetrico e coercitivo: resistenza attuata mediante la forza o, probabilmente con maggiore frequenza, mediante l’abbandono dell’aspirante capo da parte degli altri membri del gruppo.39 Gli esseri umani, nell’immagine che Mann ne ricava a partire dalle fonti di cui disponiamo riguardo alla preistoria,40 hanno dunque un’indole sociale egualitaria, non gregaria; in caso contrario, essi si sarebbero organizzati ben prima in stabili unità gerarchiche. Il «bisogno di un capo» non sembra far parte delle loro caratteristiche, né la stabilizzazione di forme di potere, nella concezione di Mann, è un fenomeno che presenti unicamente lati positivi.41 Stabili forme di potere agiscono infatti per Mann al pari di una «gabbia sociale»:42 esse, nel permettere agli esseri umani uno sviluppo senza precedenti delle loro capacità di intervento sulla natura, costringono il singolo all’interno di relazioni asimmetriche e in ruoli sociali, che, stando alla dialettica tra potere collettivo e potere distributivo, per la maggioranza dei soggetti vanno a implicare diseguaglianza e obbedienza.43 Non c’è da meravigliarsi che il potere organizzato sia stato eluso per tanto tempo. La storia della civilizzazione non è un processo evolutivo uniforme e lineare, privo di blocchi e opposizioni, scrive Mann contrapponendosi alle teorie evoluzionistiche sostenute da Friedman, Rowlands e Fried.44 Questo processo, al contrario, passa attraverso una prolungata resistenza 38 39 40 41 42 43

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Ivi, pp. 39-42. Ivi, pp. 67-68. I riferimenti primari di Mann, nella sua trattazione della preistoria, sono S. Piggott, M. C. Webb, J. Woodburn, e M. Fried. Ivi, p. 39. Ivi, p. 38. Questa sorta di perversa «logica dello scambio», per cui le conquiste della razionalità umana sono controbilanciate dal dominio che ad esse si lega, sembra ricordare la concezione esposta da Horkheimer e Adorno nella Dialettica dell’illuminismo: due autori, questi, appartenenti a una tradizione teorica alla quale Mann risulta maggiormente vicino nel suo periodo giovanile, e da cui si va poi progressivamente allontanando. Cfr. J. Friedman, Catastrophe and Continuity in Social Evolution, in Theory and Explanation in Archaelogy, a cura di C. Renfrew et al., Academic Press, New York 1982; J. Friedman e M. Rowlands (a cura di), The Evolution of Social Sys-

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al potere che, in alcuni luoghi prima che in altri, da un certo punto in poi si rivela sterile e improduttiva, venendo quindi abbandonata. La domanda che a questo punto si pone è la stessa che vale per il rousseauiano Discorso sulle origini della diseguaglianza, relativa al perché gli esseri umani, in un dato momento, siano giunti a prendere la strada della civiltà, smettendo di eludere il potere. Ad eccezione degli Incas, che rappresentano un caso deviante rispetto al modello generale teorizzato da Mann, e alla civiltà minoica, che sorge in un ambiente le cui caratteristiche sono comunque, per altri versi, analoghe a quelle dei casi che confermano le ipotesi dell’autore,45 le prime civiltà, caratterizzate da forme di vita stanziali, organizzate e socialmente stratificate, dall’uso della scrittura, da religioni complesse e un’amministrazione politica centralizzata, emersero in numero assai limitato e si concentrarono in regioni specifiche: nelle pianure alluvionali del Tigri e dell’Eufrate, del Nilo, dell’Indo, del Fiume Giallo, e, nell’America centrale e meridionale, nei pressi di fiumi e corsi d’acqua.46 Il caging, l’ingabbiamento, è in prima istanza determinato dal fiume: quest’ultimo, inondando a intervalli irregolari la vallata o permettendone l’irrigazione, rende il suolo fertile e quindi particolarmente produttivo per i popoli che, progressivamente, sono quindi portati ad assumere uno stile di vita stanziale. Le terre utili alla coltivazione, concentrate nella piana alluvionale, sono in numero limitato, mentre i terreni non inondati dal fiume sono aridi. Lo sviluppo di tecniche e strumenti agricoli permette di ottenere dalle terre alluvionali una quantità di prodotti inimmaginabile altrove, non comparabile rispetto a quanto può essere ricavato mediante forme di agricoltura nomade o di raccolta. Gli esseri umani, oltrepassato un certo livello di sviluppo, sono quindi «costretti»47 al potere organizzato, alla «gabbia» della civiltà. Le quattro fonti del potere, per la prima volta nella storia, si intrecciano in reti di interazione stabili e permanenti. Il potere economico, in società prevalentemente agricole, favorisce lo sviluppo di nuove tecniche e forme organizzative, volte ad aumentare il surplus di produzione. Nello specifico, si generano i primi mercati e vengono costruiti i primi canali di irrigazione, i quali presuppongono una progettazione centralizzata e una realizzazione basata sulla divisione del lavoro.48 La cooperazione sociale richiede non

45 46 47 48

tems, Duckworth, London 1978; M. Fried, The Evolution of Political Society, Random House, New York 1967. M. Mann, The Sources of Social Power, vol. 1, cit., cap. 4. Ivi, p. 74 e, per analisi un’analisi comparativa tra le diverse civiltà, pp. 105-129. Ivi, p. 63. Ivi, p. 80.

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solo un investimento materiale sul territorio, bensì anche una solidarietà normativo-relazionale tra i soggetti: mediante i rapporti di produzione e di scambio si consolida un ancor debole, ma reale, senso di identità collettiva, associato allo sviluppo di una lingua e una scrittura comune, di una religione condivisa e di comuni miti fondativi. Il divino è «addomesticato» dalla società, che esorcizza in tal modo la minaccia rappresentata da potenze naturali prima percepite come incontrollabili; esso, però, mediante i suoi intermediari (i sacerdoti), addomestica a sua volta la società, nella forma delle posizioni di privilegio sociale e materiale che questi ultimi si arrogano attraverso il loro ufficio.49 I centri cerimoniali, in questa fase, sono non solo nuclei di autorità religiosa (i quali rappresentano le prime forme di potere organizzativamente diffuso), bensì anche magazzini per la conservazione e la distribuzione delle risorse comuni, luoghi di arbitrato e di scambio commerciale: essi assommano in sé, dunque, le funzioni relative al potere ideologico, a quello economico, e al potere politico. Questo ci porta a evidenziare la differenza tra, da una parte, le funzioni e le forme di potere determinate in senso idealtipico, e, dall’altra, le istituzioni sociali che in diverse fasi storiche incarnano concretamente quelle funzioni: come sostenuto da Habermas sulla base di sollecitazioni provenienti da Weber e da Parsons, è possibile notare un processo di differenziazione di funzioni, ambiti e istituzioni a partire dalle società primitive fino a quelle moderne.50 Componenti che nelle prime società erano unificate, indistinte o assenti acquisiscono progressivamente un’identità distinta e vengono amministrate da istituzioni differenti: se quindi, ad esempio, il tempio era inizialmente non solo un centro cerimoniale ma anche un’istituzione di gestione del potere economico e politico, queste funzioni vanno poi ad essere svolte da istituzioni diverse, mentre, con il crescere della complessità e della ricchezza sociale, emergono altresì nuovi bisogni, associati all’ulteriore sviluppo di diverse forme di potere. La generazione e l’accumulazione di surplus comportano infatti, ben presto, necessità di difesa permanente. Esse, gestite dapprima mediante gruppi informali, vanno poi a rinforzare la tendenza, determinata anche sul piano economico e ideologico, alla costituzione di istituzioni di tipo militare e di un potere amministrativo stabile, territoriale, centralizzato: le prime forme di Stato inteso alla maniera di Mann.51 49 50 51

Ivi, p. 47; anche rispetto a questo punto, cfr. Horkheimer e Adorno, Dialettica dell’illuminismo, trad. it. Einaudi, Torino 1997. Cfr. J. Habermas, Teoria dell’agire comunicativo, vol. 1, trad. it. Il Mulino, Bologna 1986, pp. 246-253. M. Mann, The Sources of Social Power, vol. 1, cit., p. 85

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2.2.1. Le origini della stratificazione sociale e della proprietà privata Questo processo di costituzione di reti di potere organizzato, che Mann ripercorre velocemente e che qui dobbiamo ricapitolare con ancor maggiore brevità, non sarebbe potuto avvenire senza l’influsso di un ulteriore mutamento: il determinarsi della stratificazione sociale. Essa si sviluppa a partire dall’emergere delle prime disparità di potere economico, le quali presuppongono forme di proprietà privata a base famigliare allargata. Lo sviluppo della proprietà privata, a sua volta, è strettamente legato a quello del potere politico stabile e centralizzato dello Stato.52 Diversamente rispetto a quanto affermano le teorie liberali (in primis quella lockiana),53 lo Stato non sorge quindi per garantire la difesa della proprietà privata, intesa come storicamente e logicamente preesistente ad esso, e nemmeno, come vorrebbe lo Engels di Le origini della famiglia, della proprietà privata e dello Stato, quest’ultimo viene istituito dalle classi dominanti per consolidare il loro potere:54 Stato e proprietà emergono insieme, rafforzati dai medesimi processi di caging. Stando ai primi registri storici di cui disponiamo, sostiene infatti Mann, l’esistenza della proprietà privata non è da subito sinonimo di stratificazione sociale, né lo sono le posizioni amministrative: le terre vengono inizialmente ripartite tra famiglie allargate su basi egualitarie e consensuali; non essendo ancora presenti forti e stabili forme di diseguaglianza sociale, anche coloro che sono addetti alla registrazione della divisione dei terreni dispongono, al più, di un’autorità funzionale, debole, limitata e provvisoria.55 La stratificazione sociale si genera nel tempo, a partire da questa situazione di base. I terreni casualmente meglio posizionati rispetto alle piene alluvionali, o situati al punto di contatto tra diverse reti di interazione e di scambio (congiunzione di fiumi, guadi, pozzi, crocevia), danno ai loro detentori la possibilità di ottenere maggiori surplus agricoli o commerciali: al potere collettivo di intervento 52

53 54 55

Le principali fonti di Mann, relative alle forme di proprietà presso i Sumeri, sono qui I. Gelb, On the Alleged Temple and State Economies in Ancient Mesopotamia, in «Studi in onore di Edoardo Volterra», 1969, 6, pp. 137-154; C. C. LambergKarlovsky, The Economic World of Sumer, in The Legacy of Sumer, a cura di D. Schmandt-Baesserat, Undena, Malibu (CA) 1976; J. Oates, Mesopotamian Social Organisation: Archaeological and Philological Evidence, in The Evolution of Social Systems, a cura di J. Friedman e M. J. Rowlands, Duckworth, London 1978. Cfr. J. Locke, Secondo trattato sul governo, trad. it. BUR, Milano 2009. F. Engels, Le origini della famiglia, della proprietà privata e dello Stato, trad. it. Editori Riuniti, Roma 2005. M. Mann, The Sources of Social Power, vol. 1, cit., p. 87.

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sull’ambiente naturale va quindi ad associarsi, per chi si trovi favorito dalla posizione geografica, un ammontare di potere distributivo sproporzionato rispetto a quello degli altri soggetti.56 La collocazione privilegiata delle popolazioni situate nella pianura alluvionale rispetto ai gruppi «periferici» dei terreni circostanti acuisce le disparità economiche; i popoli le cui zone non sono raggiunte dalle piene del fiume vivono a un livello di civilizzazione meno avanzato, praticando agricoltura di sussistenza o pastorizia nomade e commerciando con il «centro» alluvionale. In questo contesto nascono le prime forme di lavoro dipendente e semilibero: le famiglie del centro che possiedono i terreni più produttivi si fanno sostituire, per il lavoro nei campi, da gruppi provenienti dalla meno fertile periferia, ripagati mediante parte del surplus.57 Ecco, quindi, le prime élite della storia, che, dispensate dal lavoro agricolo grazie a una proprietà redditizia, si dedicano al commercio o a ricoprire posizioni di comando amministrativo sempre più istituzionalizzate. La coordinazione amministrativa centralizzata accresce ulteriormente il potere collettivo della popolazione nel suo complesso, permettendo una maggiore organizzazione sociale, la costruzione di magazzini, canali e strade, una più efficiente difesa e l’elaborazione di articolate spiegazioni cultural-religiose del cosmo; al contempo, con il crescere del potere collettivo, è il potere distributivo di determinati gruppi su altri che va a rafforzarsi. La teoria che Mann propone riguardo all’affermarsi della stratificazione sociale è espressione del già citato metodo dell’«interazionismo struttural-simbolico», in quanto combina l’attenzione all’azione sociale degli individui con la considerazione dell’influenza che le strutture sociali (ripartizione della proprietà, scambi con la periferia, prime forme amministrative) esercitano sul modo in cui i soggetti agiscono. La prospettiva di Mann si differenzia, inoltre, non solo dalle teorie liberali e da quelle marxiste, che fanno precedere lo Stato dalla proprietà privata, ma anche da quelle funzionaliste: diversamente, ad esempio, da quanto afferma la teoria dell’autorità redistributiva elaborata da Malinowski,58 non è la necessità di un capo che amministri le funzioni redistributive a spingere gli esseri umani a privarsi del controllo diretto sulle loro risorse comuni. La concezione presentata da Mann, piuttosto, combina argomenti funziona56 57 58

Ivi, p. 83. Ivi, p. 84. Ivi, p. 60. Cfr. B. Malinowski, Crimini e costumi nelle società selvagge, trad. it. in Id., Una teoria scientifica della cultura e altri saggi, Feltrinelli, Milano 1962.

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listi e una teoria dello sfruttamento: i soggetti si trovano gradualmente «ingabbiati» in territori, come anche in relazioni economiche e sociali, da cui, anche quando queste ultime diventano oppressive, non possono sottrarsi se non a proprio danno. L’agricoltura alluvionale e irrigua stimola il nascere di reti di potere sovrapposte, non modificabili da chi, in esse, dispone di posizioni organizzativamente svantaggiate. Perfino i soggetti che sopportano le condizioni più sfavorevoli, inoltre, sono restii ad abbandonare una società così costituita, perché, così facendo, perderebbero i benefici da essa derivanti in termini di potere collettivo. Sulla base di necessità funzionali (che, in prima istanza, determinano il nascere delle reti di potere), gli individui accettano quindi le disparità di potere distributivo e lo sfruttamento associati a queste ultime.59 2.3 Alcune osservazioni critiche Prima di continuare a seguire Mann nella sua narrazione storico-teorica relativa alle civiltà antiche, è il caso di considerare alcuni punti che, in quanto esposto finora, sembrano celare dei nodi irrisolti. Mann, lo abbiamo visto, scrive che «ai veri inizi, non vi era potere».60 Quest’affermazione, tuttavia, appare condivisibile a condizione che il concetto di potere venga definito unicamente in senso organizzativo, logistico e istituzionalizzato. Essa però appare troppo netta se andiamo a considerare anche altre valenze del potere, pure importanti, identificabili al «microlivello» costituito dall’azione sociale: le forme di potere personale; il potere basato sul genere e sull’età; i tentativi, in gran parte non riusciti ma comunque messi in atto, di esercitare forme di dominio; le reazioni, in termini di contropotere, a tali tentativi. È peraltro lo stesso Mann che, attraverso il metodo dell’«interazionismo struttural-simbolico» si propone di considerare, nella sua teoria, anche le forme dell’azione sociale. La categoria di potere distributivo, che Mann delinea in modo assai formale come potere esercitato da un soggetto A su un soggetto B, è inoltre, a rigor di termini, sufficientemente ampia da includere anche forme di potere temporaneo, personale e non stabilizzato. Eppure, all’inizio della sua narrazione storica, quando afferma che originariamente non vi era potere, Mann non considera queste ultime: egli sembra applicare una definizione di potere eccessivamente limitata rispetto al suo 59 60

Si ripropone qui il tema dell’«accettazione pragmatica», analizzato nel capitolo precedente. Ivi, p. 34.

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stesso modello teorico, la quale non permette di considerare come forme di potere a pieno titolo tutti i casi di autorità temporanea e personale di cui i soggetti, per milioni di anni, impediscono la stabilizzazione. La limitata concezione di potere applicata da Mann nella sua narrazione storica non consente, inoltre, di tenere conto del delinearsi, sul piano dell’azione sociale, di specifici rapporti di potere che si riverberano poi sul macrolivello istituzionale assumendo in esso persistenza: il dominio patriarcale e di genere,61 che, per stessa ammissione di Mann, sono poco considerati nella sua narrativa storica. Un altro aspetto problematico è quello legato al «criptoevoluzionismo» che, a tratti, sembra caratterizzare questa prima fase della narrativa storica proposta da Mann. Egli dedica un ampio numero di pagine a confutare una varietà di teorie evoluzionistiche e teleologiche,62 alle quali, in maniera convincente, contrappone la propria concezione di una storia non lineare, caratterizzata da sviluppi allo stesso modo che da battute di arresto e arretramenti. Eppure, l’affermarsi della stratificazione sociale, di rapporti di sfruttamento e diseguaglianza, sembra in Mann seguire una nascosta tendenza teleologica: se infatti, come egli sostiene, vi è una dialettica tra potere collettivo e potere distributivo per cui all’accrescersi del primo corrisponde inevitabilmente un incremento nel secondo, ogni società avanzata, caratterizzata da ampio potere collettivo, non potrà che essere una società ineguale, in quanto sarà necessariamente contraddistinta da disparità di potere distributivo. È implicitamente esclusa la possibilità che possano darsi livelli avanzati di potere collettivo nel contesto di società basate su paritari rapporti di potere economico, politico, ideologico e militare. Per quanto Mann, nella sua narrazione storica, attribuisca alla contingente collocazione geografica dei terreni la sproporzionata «accumulazione originaria» di surplus da parte di alcune famiglie, la dialettica di potere collettivo e potere distributivo sembra insomma implicare una logica oggettiva che, al di là delle convinzioni antiteleologiche di Mann, fa discendere le asimmetrie di potere distributivo dall’accrescersi del potere collettivo; essa riserva così un destino di diseguaglianza alle società umane sviluppate.63 Scrivendo una storia del potere dal neolitico a oggi si può essere tentati, infine, di vedere solo potere ovunque. Da questa tendenza Mann è signi61 62 63

Ibid. Ivi, pp. 34-40, 49-63. Rispetto ad altri tratti di «evoluzionismo latente» nella teoria di Mann, cfr. E. Gellner, recensione di The Sources of Social Power, vol. 1, in «Man», XXIII (1988), n. 1, pp. 206-207.

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ficativamente immune, ma non del tutto. I rapporti di potere non esauriscono in sé l’interezza delle relazioni sociali: essi possono essere isolati dall’ampio e disordinato complesso della vita sociale solo mediante un’astrazione (in conclusione al volume Mann afferma infatti: «ho scritto la storia dello sviluppo di un’astrazione, il potere»).64 Non mancano i passi in cui Mann dichiara apertamente la selettività del suo approccio alla storia e alla società: la sua prospettiva si pone come volutamente limitata all’analisi dei rapporti di potere sociale, e dunque non onnicomprensiva. Le relazioni di riconoscimento, i rapporti affettivi e forme di azione sociale di tipo oblativo o miranti all’intesa comunicativa (anch’esse enucleabili dalla realtà sociale solo mediante astrazione, in quanto concretamente sempre intrecciate all’azione strumentale o strategica), pertanto, sono considerate da Mann unicamente quando, nella storia, esercitano un’evidente influenza sulla configurazione di una o più reti di potere. In alcuni passaggi del primo volume di The Sources of Social Power, tuttavia, egli identifica l’oggetto d’indagine della sua teoria con l’integrazione sociale complessiva, e quest’ultima con i rapporti di potere organizzato e istituzionalizzato: nel primo paragrafo si legge l’affermazione secondo cui «la storia e la teoria delle relazioni di potere sono praticamente un sinonimo della storia e della teoria della stessa società umana»;65 le espressioni «reti di interazione» e «reti di potere» vengono utilizzate come equivalenti lungo tutto il primo capitolo;66 la partecipazione degli esseri umani alle reti formate dalle quattro fonti del potere viene identificata con la partecipazione alla società.67 In questi casi sembra di trovarsi di fronte non già a una teoria che miri a enucleare e analizzare un aspetto della storia delle società umane, ossia i rapporti di potere; bensì a una prospettiva che ambisce a concettualizzare nei termini di questi ultimi l’interezza delle relazioni sociali. Questa problematica, che si presenta in maniera intermittente lungo il primo volume di The Sources of Social Power, tenderà poi a ridimensionarsi nel volume successivo, fino ad essere completamente superata nei testi più recenti: Fascists (2004) e Il lato oscuro della democrazia (2005), come anche il terzo e quarto volume di The Sources of Social Power, rispettivamente del 2011 e del 2012.

64 65 66 67

M. Mann, The Sources of Social Power, vol. 1, cit., p. 538. Ivi, p. 1. Ivi, p. 1-2, pp. 11-12, p. 13. Ivi, p. 14.

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2.4. La dialettica di centralizzazione e decentralizzazione Nel primo volume di The Sources of Social Power Mann individua una dialettica storica grazie alla quale diviene possibile comprendere in che modo civiltà consolidate, pervenute a un notevole grado di sviluppo, vengono invase o soppiantate da popoli «periferici», apparentemente privi di paragonabili risorse di potere. Questa dialettica, che Mann denomina «di centralizzazione e decentralizzazione», sarà una costante non solo per tutta l’antichità, ma anche nell’età moderna e contemporanea. Essa, con il suo straordinario potere esplicativo e di sistematizzazione, è uno dei migliori esempi della capacità di Mann di individuare regolarità storiche di ampio raggio. Per presentare questa dialettica dobbiamo però innanzitutto introdurre la multi-power-actor civilization, ossia la forma organizzativa che, insieme a quella corrispondente agli «imperi di dominio», contraddistingue l’antichità e non solo. Le civiltà che si sviluppano nelle pianure alluvionali condividono una struttura geografico-organizzativa comune: esse sono costituite da un insieme di città-Stato che, in un’area territoriale piuttosto vasta, interagiscono tra loro mediante scambi commerciali e comunicazioni. Città-Stato a organizzazione intensiva compongono, quindi, una civiltà multistatale estensiva. Mann denomina queste civiltà «multi-power-actor civilizations», ossia «civiltà costituite da una molteplicità di attori di potere»: le città-Stato, che costituiscono le unità di potere locali, formano un contesto di reciproca interazione culturale e commerciale, andando così a costituire una civiltà ben identificabile, per quanto dai confini frastagliati e sfumati. Come abbiamo avuto modo di accennare in precedenza, le multi-power-actor civilizations non sono aree territoriali in sé conchiuse e autosufficienti:68 se da una parte si distinguono rispetto ai territori circostanti in virtù della maggior frequenza delle interazioni al loro interno e della cultura comune che le caratterizza, al contempo intrattengono frequenti scambi e comunicazioni con i territori periferici. L’intersezione di diverse reti di potere non riguarda, quindi, solo l’interno delle multi-power-actor civilizations: nelle singole città-Stato si intrecciano le reti costituite dalle quattro fonti (forme di potere economico, organizzazione politico-amministrativa, solidarietà normativo-religiosa e difesa militare), e, nel più vasto territorio comune della civiltà multiattore, si intersecano le reti di potere promananti dalle unità locali. Al contempo, tuttavia, vi è anche un intersecarsi di reti di potere tra il centro costituito dalle multi-power-actor civilizations situate nella 68

Ivi, p. 76.

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pianura alluvionale, e le popolazioni dei territori periferici circostanti, che, a un più basso livello di sviluppo in termini di potere collettivo, praticano agricoltura di sussistenza, pastorizia nomade, estrazione di metalli.69 Le reti di potere che legano il centro e la periferia sono, dapprima, essenzialmente di carattere commerciale: in cambio di beni agricoli e artigianali, le popolazioni dei territori periferici commerciano con il centro prodotti della pastorizia, legno e metalli.70 Tuttavia, la frequenza delle interazioni con il centro e il prolungarsi di esse nel tempo provocano dei rilevanti cambiamenti tra i gruppi della periferia: essi apprendono più avanzate tecniche di produzione, imparano a sfruttare le proprie risorse in relazione alle condizioni del territorio in cui vivono (mediante, ad esempio, la costruzione di attrezzi agricoli più adeguati a coltivare suoli aridi), acquisiscono il desiderio di uno stile di vita più prospero e, in un rapporto di imitazione-differenziazione rispetto ai territori del centro, iniziano a elaborare una più solida identità comune. Tali popoli di confine, inizialmente sviluppatisi per influsso stesso del centro, vanno quindi acquisendo un’organizzazione sociale sempre più coesa e, con l’aumento di popolazione susseguente al miglioramento dei loro standard di vita, iniziano a nutrire mire di conquista sulle fertili piane alluvionali. Essi passano dall’essere gruppi seminomadi e poco stratificati a un’organizzazione gerarchica di tipo militare, adatta a compiere assalti e saccheggi ai danni dei mercanti e dei territori centrali.71 Al contempo, le civiltà alluvionali, le cui istituzioni sono ormai saldamente stabilizzate, non presentano più l’apertura e la flessibilità che, all’inizio, permetteva loro di adattarsi facilmente a mutate condizioni ambientali; come nel caso dei Sumeri, esse cadono facilmente in dispute interne, senza peraltro disporre di risorse sufficienti per un effettivo controllo delle colonie che nel frattempo hanno fondato, le quali tendono ad autonomizzarsi. Ecco, così, la dialettica di centralizzazione e decentralizzazione ravvisata da Mann in relazione alle prime civiltà mondiali: le risorse materiali, culturali e organizzative del centro, inizialmente, vanno a nutrire la periferia; i gruppi della periferia riescono ad adattarle alle proprie condizioni e a sviluppare ulteriormente le tecniche che apprendono da un centro indebolito da lotte interne e dalla mancanza di rinnovamento di istituzioni ormai consolidate.72 Il centro diviene quindi facile preda di conquista per una 69 70 71 72

Ivi, p. 82. Ivi, p. 125. Ivi, p. 131. Ibid.

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periferia militarmente organizzata e capace di sfruttare innovative tecniche di battaglia. Il ripetersi di questa dialettica caratterizza tutta l’antichità, a partire dalla disfatta dei Sumeri, sconfitti nel 2310 a.C. (data incerta) da Sargon di Akkad, fino ai diversi popoli di confine che conquistano i territori di quello che prima era il centro: vi è dunque un millenario susseguirsi di invasioni da parte di gruppi periferici, spesso seminomadi, i quali, sfruttando a proprio vantaggio l’influsso delle popolazioni delle pianure alluvionali, riescono a sviluppare tecniche militari e di produzione innovative (i Micenei in Grecia, i Cassiti in Mesopotamia, gli Arii nella valle dell’Indo, la civiltà Hyksos in Egitto, e, in Cina, i Mongoli, i Toba e gli Sha-to).73 In tutti i casi in cui l’invasione ha successo, i popoli conquistatori tendono a stabilire «imperi di dominio»:74 imperi i cui territori sono controllati indirettamente da un signore militare, di solito attraverso élite clientelari o mediante forme di cooperazione obbligata.75 Quelle che erano multi-power-actor civilizations dall’organizzazione plurale e decentrata vengono dunque soppiantate da imperi di dominio con un centro ben definito; gli imperi di dominio, fondati su un controllo del territorio di tipo clientelare, vanno però ben presto incontro a frammentazione e nuovo decentramento: la cooperazione obbligata aumenta il potere economico, ideologico, militare e politico delle élite locali, le quali entrano in competizione tra loro e con il potere centrale dell’impero; i territori periferici, governati da élite locali, vanno quindi ad autonomizzarsi in nuclei di potere indipendenti e dotati di maggiori capacità, in termini organizzativi e di potere collettivo, rispetto a quando costituivano meramente zone periferiche dell’impero.76 La dialettica di centralizzazione e decentralizzazione prosegue dunque in modo ciclico, ma anche, al contempo, favorendo l’incremento cumulativo del potere collettivo dei territori da essa interessati. «L’infrastruttura del potere, la sua organizzazione e la sua logistica», conclude quindi Mann, «sono intrinsecamente armi a doppio taglio»:77 le tecniche di potere non possono essere confinate all’interno di un singolo territorio statale; per funzionare e svilupparsi devono diffondersi a nuove reti di interazione. Sono però proprio le popolazioni che così vengono coinvolte in esse che, sfruttando a proprio favore le tecniche apprese dal centro, im73 74 75 76 77

Ivi, pp. 162-164. Ivi, p. 130. Cfr. § 1.2. Ivi, p. 175. Ivi, p. 165.

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parano a usarle ai suoi danni. Allo stesso modo, vasti possedimenti territoriali necessitano di amministrazioni locali, che, consolidando il loro potere, hanno gioco facile nell’appropriarsi dei territori ad esse affidati. Risorse di potere riferibili a ognuna delle quattro reti vengono dunque trasferite dal centro alla periferia, con esiti non previsti dagli attori sociali implicati. Il mutamento storico avviene per «emergenza interstiziale»,78 ossia attraverso l’entrata in scena di nuovi gruppi che, sviluppando il loro potere collettivo sulla base delle infrastrutture e delle modalità organizzative inizialmente messe in opera dalle popolazioni del centro, si impongono come nuovi attori di potere, affiancando o soppiantando i gruppi che hanno involontariamente contribuito al loro emergere. I tratti di questo processo sono ravvisabili sia nel caso dei popoli seminomadi che aumentano il proprio potere collettivo grazie al centro, fino a conquistare quest’ultimo, che in quello delle élite locali che, accrescendo il loro potere e appropriandosi «privatisticamente» delle risorse loro affidate dall’autorità centrale, finiscono per porsi come centri di potere autonomi. Vedremo come il diffondersi del cristianesimo rappresenterà anch’esso una variante di «emergenza interstiziale». 2.5. Una «multi-power-actor civilization» aperta sul mondo: l’antica Grecia Tra il 1800 a.C. e il 1200 a.C. l’Europa e il Medio Oriente sono interessati da una serie di ondate di invasione da parte dei cosiddetti «popoli indoeuropei». Questi ultimi, come abbiamo accennato nel delineare la dialettica di centralizzazione e decentralizzazione, si giovano dello sviluppo di innovazioni tecnologiche il cui primo impulso deriva loro dai rapporti con le civiltà delle pianure alluvionali. Nuove modalità di lavorazione del bronzo e del ferro assicurano ai popoli indoeuropei un vantaggio militare e produttivo, poiché permettono loro di produrre sia armi più resistenti, sia strumenti agricoli in grado di lavorare facilmente anche i terreni situati al di fuori dalle pianure alluvionali.79 Le ondate di invasione si concludono nel 1000 a.C.; esse pongono le basi dello sviluppo di tre nuove conformazioni di potere, le quali procedono a ritmi e in aree differenti lungo l’intera estensione della leading edge of power individuata da Mann:80 78 79 80

Ivi, p. 16. Ivi, p. 180. Ivi, p. 188.

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– Nuovi imperi di dominio risultanti dalle conquiste da parte dei popoli indoeuropei, i quali all’inizio adottano sui territori conquistati un’organizzazione di tipo feudale, che va poi facendosi sempre più centralizzata. Alcuni imperi di dominio si stabiliscono in seguito alla riconquista, da parte dei popoli che originariamente li abitavano, dei territori alluvionali invasi dagli indoeuropei, o, ancora, a partire dall’occupazione di questi territori da parte di nuovi invasori. Il più notevole esempio di impero di dominio in questa fase storica è quello degli Assiri,81 popolo che si impone nuovamente sugli invasori indoeuropei costituendo un impero militare caratterizzato dalla condivisione, da parte di classi dominanti ed esercito, di una comune ideologia di conquista. La dialettica di centralizzazione e decentralizzazione torna a estrinsecarsi nel momento in cui il centro dell’impero assiro perde sostanzialmente il controllo delle élite locali periferiche. – Multi-power-actor civilizations a economia agricola o basata sul commercio marittimo (Fenici e Greci); – La lenta crescita, in termini di potere intensivo ed estensivo, di imperi di dominio che, consolidandosi, assumono una forma storicamente inedita: quella dell’impero territoriale (Romani). Andiamo adesso a considerare la Grecia antica,82 multi-power-actor civilization che presenta, come sua fondamentale unità politica e comunitaria, la polis. Mann è attento nel mettere in luce l’eccezionalità della città-Stato greca: differentemente dall’abituale conformazione del potere nelle coeve società civilizzate, la polis era fondata sull’eguaglianza politica dei cittadini maschi proprietari nati sul territorio. Essa si caratterizzava come una comunità democratica in cui l’appartenenza politica e la strutturazione sociale discendevano dalla partecipazione dei cittadini all’impresa comune, piuttosto che dai legami di clan che, nelle altre civiltà dello stesso periodo, determinavano gerarchicamente i rapporti sociali e politici. 81 82

Ivi, pp. 231-237. Le fonti principali di Mann sono qui N. G. L. Hammond, The Classical Age of Greece, Weidenfield & Nicolson, London 1975; R. J. Hopper, The Early Greeks, Weidenfeld & Nicolson, London 1976; R. Meiggs, The Athenian Empire, Oxford University Press, Oxford 1972; M. M. Austin e P. Vidal-Naquet, Economic and Social History of Ancient Greece, Batsford, London 1977; J. K. Davies, Democracy and Classical Greece, Fontana, London 1978; O. Murray, Early Greece, Fontana, London 1980; W. G. Runciman, Origins of States: the Case of Archaic Greece, in «Comparative Studies in Society and History», 1982, 24, pp. 351-377; J. K. Anderson, Military Theory and Practice in the Age of Xenophon, University of California Press, Berkeley 1970; W. K. Pritchett, Ancient Greek Military Practices, pt. 1, University of California, Berkeley 1971.

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La lealtà dei cittadini si rivolgeva, con un’intensità che non trova eguali nelle civiltà antiche, verso la polis, la quale, nella maggior parte dei casi, era democraticamente amministrata dai cittadini stessi. Quello dell’antica Grecia è, con maggiore evidenza, uno dei casi di cui sarebbe riduttivo spiegare le caratteristiche unicamente sulla base di una singola fonte di potere. Se consideriamo il potere economico, è infatti raro che in aree basate sulla piccola proprietà agricola, organizzata in fattorie indipendenti, si generi un’organizzazione politica permanente ed estensiva, caratterizzata da un alto grado di dedizione del singolo nei confronti della collettività;83 nemmeno il commercio marittimo, che affiancava l’agricoltura e metteva le poleis in contatto reciproco, può spiegare, da solo, perché la Grecia si componesse in una rete di città-Stato ad alto tasso di impegno collettivo dei cittadini e ad organizzazione politica prevalentemente democratica. Per capire in che modo sia potuto avvenire lo sviluppo di una conformazione politica come quella che si generò tra il VII e il VI secolo a.C., bisogna far riferimento anche al potere militare e ideologico. Un elemento determinante per spiegare la strutturazione politica e la coesione sociale della città-Stato greca è l’istituzione della falange oplita. Alla fine dell’ottavo secolo, gli sviluppi della metallurgia e il maggior surplus economico derivante da agricoltura e commerci fanno sì che i costi dell’equipaggiamento militare possano essere affrontati anche da chi dispone di ricchezze moderate. Il servizio di difesa prestato da membri dell’aristocrazia viene quindi sostituito da un esercito formato da un ampio numero di cittadini e cementato, in virtù della sua stessa organizzazione interna, da forti legami di coesione ideologica. La falange oplita era strutturata in modo che ogni soldato fosse protetto dallo scudo del compagno alla sua destra: gli scudi formavano un sistema di difesa collettiva in cui la vita di ciascun soldato dipendeva dal suo vicino, e in cui, quindi, l’unione per il bene comune riceveva una rappresentazione oggettiva. L’organizzazione tattica della falange, per funzionare, richiedeva inoltre che ogni oplita si sottoponesse a un lungo addestramento, venendo quindi lungamente socializzato in un contesto ideologico che enfatizzava la lealtà ai compagni e alla polis.

83

M. Mann, The Sources of Social Power, vol. 1, cit., pp. 197-198. Con questa affermazione, Mann sembra richiamare il 18 Brumaio di Luigi Bonaparte di Karl Marx (trad. it. Feltrinelli, Roma 1896, p. 108): «I contadini piccoli proprietari costituiscono una massa enorme i cui membri vivono in condizioni somiglianti, ma senza essere uniti gli uni agli altri da relazioni molteplici. Il loro modo di produzione li isola invece di mantenerli in reciproca relazione tra loro».

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Se però il senso di appartenenza e di identità dei Greci avesse avuto come orizzonte ultimo la loro polis di origine, le singole poleis avrebbero probabilmente costituito contesti chiusi, statici e ristretti. A integrare la rete di potere ideologico costituita dalla polis vi erano altre due reti, che permisero alla Grecia antica non solo di trionfare sugli attacchi esterni, ma anche di plasmare con il suo influsso culturale l’intera storia dell’Occidente: la percezione di una comune identità culturale, linguistica, artistica e religiosa tra le varie poleis (cementata da un sostanziale equilibrio di potere tra le città e da scambi culturali e commerciali), e una nozione di umanità che i Greci, anche mediante la filosofia, sono i primi a sviluppare in chiave universalistica.84 Nell’antica civiltà greca, sostiene Mann, vi era una dialettica tra queste tre reti di interazione ideologica (identità come cittadini della polis, identità greca, concezione universale di umanità razionale), che, intersecandosi tra loro, interagivano anche con il potere politico, economico e militare. L’analoga organizzazione economica, militare e politica delle città-Stato, oltre alla cultura che esse condividevano e alla loro coesistenza geopolitica in un unico territorio fortemente integrato mediante comunicazioni e commerci navali, è all’origine dell’identità comune tra le diverse poleis: la percezione di far parte di un tutto più ampio, la Grecia. Fu grazie a questa comune identità che le poleis si allearono contro gli invasori persiani, sconfiggendoli definitivamente nel 479 a.C. La terza concezione ideologica caratteristica della Grecia antica, l’idea di umanità universale,85 ha per Mann anch’essa le sue radici nella polis: l’organizzazione economica, militare e politica propria della città-Stato incoraggiava l’idea che l’essere umano ha la possibilità e la capacità di controllare il proprio mondo, di applicare su di esso le proprie forze e la propria razionalità. Da qui si originano la filosofia, la scienza, l’arte e la letteratura classica, che costituiscono la più grande eredità che la Grecia antica ha lasciato al mondo. Quella che si verifica con la civiltà greca, rispetto alle epoche precedenti e a civiltà sia ad essa coeve che più antiche, è insomma una rivoluzione culturale dai tratti inediti: il potere viene desacralizzato, si sviluppa una religione di carattere razionale e illuminato, la quale riflette il forte senso dell’individuo che permea la cultura greca, e si diffonde una scrittura alfabetica che, per la sua facilità di apprendimento,

84 85

M. Mann, The Sources of Social Power, vol. 1, cit., p. 203, pp. 223-227. Su questo tema cfr. H. C. Baldry, L’unità del genere umano nel pensiero greco, trad. it. Il Mulino, Bologna 1983.

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permette un’ampia alfabetizzazione della popolazione e un’agevole trasmissione della cultura.86 Mann propone un’interessante spiegazione «materialistica» del perché la filosofia si sia originata, con Talete, Anassimandro e Anassimene, proprio nella polis di Mileto.87 L’organizzazione della polis si rifletteva nell’idea che l’uomo potesse intervenire su ciò che lo circondava, comprendendone le leggi e la natura senza fare riferimento a un insondabile intervento divino: se nell’autocratica società egizia il fatto che il faraone garantisse concretamente l’ordine sociale portava a investirlo con l’attributo della divinità, allo stesso modo nell’egualitaria polis greca la fiducia nella ragione umana, sostenuta da risultati oggettivi, fu generalizzata nella capacità degli esseri umani di comprendere il cosmos. Mileto, sebbene fosse una città ricca, nel VI secolo a.C. era attraversata da aspri conflitti politici e di classe: l’idea di un mondo costituito da princìpi originari di carattere naturale si lega alla percezione di una realtà sociale attraversata da forze materiali, che ne determinano le dinamiche interne; l’Asia Minore, infine, era il punto d’incontro tra la cultura ellenica e le religioni politeistiche tradizionali del Medio Oriente, le quali, nelle aree culturalmente più avanzate, stavano attraversando un periodo di decadenza, pronte ad essere sostituite da spiegazioni del mondo di carattere maggiormente umanistico e razionale. Tutte e tre le reti di potere caratteristiche della Grecia antica (singola polis, comune identità greca, riferimento all’umanità), dialetticamente intrecciate, sono essenziali per spiegare i caratteri della cultura ellenica classica:88 la capacità militare e ideologica di fronteggiare unitariamente gli invasori esterni; la fiducia nella ragione umana e nel dialogo, come anche la ricerca del bello e la riflessione su di esso; la lealtà dei cittadini nei confronti della loro città-Stato, che permette a quest’ultima, nella sua fase più alta, di trascendere divisioni politiche, militari ed economiche. La Grecia antica, in questo intersecarsi di reti di identità e fonti di potere, presenta e sviluppa infatti anche contraddizioni e divisioni interne. Non solo l’idea di umanità razionale e universale era in linea di principio inconciliabile con l’istituzione economica dello schiavismo89 e con l’esclusione politica e so86 87 88 89

Cfr. a riguardo anche il classico J.-P. Vernant, Le origini del pensiero greco, trad. it. Editori Riuniti, Roma 1976. M. Mann, The Sources of Social Power, vol. 1, cit., pp. 211-212. Ivi, p. 227. La portata dello schiavismo nell’antica Grecia è stata però recentemente ridimensionata da E. Meiksins Wood, nello studio Contadini-cittadini e schiavi, trad. it. Il Saggiatore, Milano 1994. Cfr. anche O. Murray, La Grecia delle origini, trad. it. Il Mulino, Bologna 1984.

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ciale di schiavi, donne e meteci; ma oltretutto, come diviene evidente con la guerra del Peloponneso (431-404 a.C.), lo sbilanciamento degli equilibri di potere tra le principali poleis, sostanzialmente paritari prima dell’egemonia ateniese, spinge i cittadini a mettere da parte la loro percezione di comune identità greca per affermare, contro le poleis avversarie, la lealtà alla propria città-Stato.90 La più pervasiva contraddizione interna che caratterizza la Grecia classica, dal quinto secolo in poi, è però la lotta di classe: «la Grecia è la prima società storica in cui la lotta di classe è una caratteristica stabile e chiaramente percepibile della vita sociale».91 Qui Mann introduce i principali elementi di quella che, nel secondo volume, si configurerà come una vera e propria teoria delle classi92. «Le classi, nel senso più generale, sono rapporti di dominio economico»,93 sebbene non vadano categorizzate solo in termini di diseguaglianze materiali, ma, anche e soprattutto, di diseguaglianze di potere, ossia di «diseguali capacità delle persone di controllare le proprie e altrui opportunità di vita mediante il controllo delle risorse economiche».94 Le diseguaglianze di classe «non sono mai rapporti completamente legittimi», e, dunque, «danno luogo a lotte di classe»,95 e cioè a conflitti verticali tra gruppi gerarchicamente ordinati in base al controllo sulle risorse economiche. Nelle società storiche Mann individua tre diversi tipi di organizzazione di classe:96 – Classi latenti: esse si danno quando esiste un’oggettiva stratificazione verticale della società, la quale coesiste però con forme economiche di tipo orizzontale (relazioni familiari, clientelari, tribali, locali) che, mitigando l’impatto delle diseguaglianze di classe sui singoli oppure ostacolando l’organizzazione collettiva di questi ultimi, impediscono che la diseguaglianza dia vita a conflitto. – Classi estensive: in questo caso sono le relazioni verticali, e la percezione di esse da parte dei soggetti, a predominare. Le classi hanno quindi un’effettiva estensione nella società e si identificano come reciprocamente indifferenti, alleate o contrapposte. Possono essere asimmetriche, nel caso 90 91 92 93 94 95 96

M. Mann, The Sources of Social Power, vol. 1, cit., p. 210. Ivi, p. 216. Cfr. infra, § 3.5. M. Mann, The Sources of Social Power, vol. 1, cit., p. 210. Ibid. Ibid. Ivi, pp. 216-217. Si noti come, anche in questo caso, Mann dedica particolare attenzione all’aspetto organizzativo.

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alcune abbiano maggiore organizzazione o autocoscienza rispetto ad altre (es. classi dominanti vs. classi subordinate), o simmetriche, qualora i loro poteri organizzativi si equivalgano. – Classi politiche: si tratta di classi non solo estensive, ossia consapevoli di sé, ma anche politicamente organizzate in vista della trasformazione dello Stato in accordo con i loro obiettivi comuni o, al contrario, per la difesa delle condizioni esistenti. Anche in questo caso possono darsi asimmetrie nell’organizzazione. La Grecia, a partire dal quinto secolo, è contraddistinta da una lotta tra classi politiche e simmetriche;97 lo sviluppo dell’agricoltura e dei commerci aveva infatti portato a una maggiore stratificazione sociale, che, per effetto dello spirito partecipativo della polis, dà vita per la prima volta nella storia a una società attraversata e resa dinamica da una lotta tra classi capaci di identificarsi come tali. A questa dinamica di classe non partecipavano i meteci e le donne (in quanto esclusi dalla vita politica) e gli schiavi, i quali, privi di occasioni di socialità e spesso anche di una lingua comune, mancavano della possibilità di sviluppare un’organizzazione di classe estensiva.98 Il conflitto aveva luogo esclusivamente tra cittadini e si originava a partire da rapporti di sfruttamento indiretto: la classe collocata più in basso era quella dei cittadini ordinari, solitamente piccoli proprietari terrieri o commercianti, privi di schiavi. Essi erano minacciati dagli alti tassi d’interesse sui debiti, dal rischio di perdere le loro terre a causa dell’indebitamento, dalla tassazione e dagli obblighi di leva che li costringevano a trascurare la loro attività produttiva per lunghi periodi. Questa classe, talvolta in alleanza con le classi medie e con gli opliti, indirizzava le sue rivendicazioni al ceto dominante, costituito dagli aristocratici e dai grandi proprietari terrieri. Si formavano così fazioni e gruppi d’interesse la cui lotta, di solito, veniva però adeguatamente incanalata dalle istituzioni, sebbene al prezzo di una frequente instabilità delle forme di governo.99 Le relazioni di classe, finché (anche grazie alle istituzioni) si mantennero simmetriche, costituivano un elemento di dinamismo e di libertà nella Grecia antica: nessuna classe poteva stabilmente prevalere sulle altre. Tuttavia, gli ormai familiari processi della dialettica di centralizzazione e decentralizzazione sono ravvisabili fin dal termine del quinto secolo, quando si evidenzia un irrigidimento delle istituzioni delle città-Stato e uno 97 98 99

Ivi, p. 217. Ivi, p. 219. Ivi, p. 220.

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stratificarsi in senso gerarchico delle relazioni tra le diverse poleis, che ne indebolisce la percezione di identità comune. Nelle singole città, le risorse economiche e militari sono in sempre maggior misura monopolizzate dalle classi dominanti, comportando un indebolirsi della coesione sociale; gli opliti vengono frequentemente rimpiazzati da truppe mercenarie, con un decadimento in termini di potere militare; il ricorso ai mercenari e ad eserciti costituiti da una varietà di reparti causa inoltre un aumento dei costi militari che mette sotto sforzo le finanze e la stabilità politica di molte città.100 Il declino delle città-Stato greche è quindi in gran parte da attribuirsi a motivi militar-ideologici, come lo era stata la loro ascesa; le poleis, così indebolite, risultano vulnerabili all’invasione da parte di tiranni stranieri, capi mercenari e re di popolazioni periferiche. Nel 338 a.C., con la vittoria a Cheronea, Filippo il Macedone mette fine all’indipendenza delle polis greche e alla loro multi-power-actor civilization, espandendo anche su di esse il suo impero di dominio. La dialettica di centralizzazione e decentralizzazione riparte da un impero centrale che presto verrà a sua volta sopraffatto dalla nuova grande forza in campo: la civiltà romana. 2.6. L’impero territoriale romano Nell’itinerario storico finora ripercorso, la leading edge of power (ossia, lo ricordiamo, l’area socio-geografica dove, in un dato momento storico, i rapporti di potere si presentano più avanzati e sviluppati) è andata spostandosi verso ovest: dalle prime civiltà dell’area mesopotamica fino ai popoli indoeuropei, che perfezionano le tecniche produttive e militari apprese dai primi e le diffondono, mediante le loro migrazioni, a occidente; e dalla civiltà greca, di derivazione indoeuropea, fino ai popoli da essa direttamente influenzati, tra cui gli Etruschi (provenienti con molta probabilità dai Balcani e dall’Asia Minore), e, attraverso questi ultimi, i Romani. L’unicità della civiltà romana, per Mann, non è nel suo carattere spiccatamente militare, e nemmeno nella quantità delle sue acquisizioni territoriali: bensì nel fatto che Roma è riuscita, meglio di ogni altra civiltà storica, a mantenere le sue conquiste nel tempo.101 Roma rappresenta il primo esempio storico di impero territoriale. Un impero, cioè, fondato sul controllo stabile e continuativo del territorio, in grado di sviluppare tecniche di amministrazione e sorveglianza su di esso che assicuravano un dominio durevole: 100 Ivi, p. 227. 101 Ivi, p. 250.

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veniva così evitato l’esito allora più comune, ossia che conquiste realizzate mediante la forza d’urto del potere militare venissero poi rapidamente perdute a causa dell’impossibilità, date le capacità logistiche del tempo, di sorvegliare e amministrare ampi territori. L’impero romano viene istituzionalizzato mediante due tecniche principali: una specifica modalità di cooperazione obbligata e la formazione di una classe dominante uniforme e coesa, la quale risulta dall’assorbimento, all’interno della classe egemone romana, delle élite dei territori conquistati. Quello che diverrà l’impero territoriale romano, agli inizi, altro non è che una piccola città-Stato, con due particolarità che ne condizionano lo sviluppo:102 dapprima mediante l’influenza etrusca e poi grazie al contatto con i popoli marittimi del Mediterraneo come Fenici e Greci, Roma acquisisce in breve tempo innovazioni come la scrittura alfabetica e la moneta; dal momento però che la via dell’espansione marittima mediante commerci e colonie è preclusa da questi stessi popoli, i Romani rivolgono la loro attenzione alla conquista di una posizione egemonica sull’entroterra mediante lo scontro militare con le popolazioni concorrenti. Tutte e quattro le fonti del potere sociale sono fondamentali per spiegare l’ascesa e il crollo di Roma; in epoca regia e repubblicana, la più significativa combinazione di potere militare, ideologico, politico ed economico è rappresentata dalla legione romana. Essa, derivante dalla falange oplita greca attraverso l’influenza etrusca, era fattore di coesione sociale e coscienza politica, nonché, come in Grecia, oggettivazione della sostanziale uniformità economica tra i cittadini.103 A differenza che nella società greca, tuttavia, in quella romana si manifesta fin dal principio una maggiore presenza di affiliazioni particolaristiche, discendenti da una più marcata stratificazione sociale: questo tratto si espliciterà nel sovrapporsi (e, in età imperiale, quasi nel prevalere), sull’impegno collettivo per il bene della città, di una dimensione privatistica, familistica e clientelare.104 Tuttavia ancora così non è nella Roma repubblicana: l’istituzione delle centurie, ossia le unità di base delle legioni, ognuna delle quali originariamente costituita da cento uomini, permette in questa fase di fondere insieme potere militare, politico, economico e ideo102 I riferimenti principali di Mann, nella sua trattazione di Roma in età monarchica e repubblicana, sono H. H. Scullard, Storia del mondo romano, trad. it. BUR, Milano 1992; R. M. Ogilvie, Le origini di Roma, trad. it. Il Mulino, Bologna 1999; P. A. Brunt, Conflitti sociali nella Roma repubblicana, trad. it. Laterza, Bari 1972; M. H. Crawford, Roma nell’età repubblicana, trad. it. Il Mulino, Bologna 1995. 103 Cfr. H. D. Parker, The Roman Legions, Rowman & Littlefield Publishers, New York 1971. 104 M. Mann, The Sources of Social Power, vol. 1, cit., p. 251.

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logico, riducendo l’effetto disgregante delle divisioni di classe e fungendo, al contrario, da mezzo di integrazione sociale. In base alla riforma militare indetta da Servio Tullio, doveri civili e militari si presentavano associati nelle centurie: ognuna delle cinque classi di censo in cui si divideva la popolazione romana contribuiva secondo quote legalmente fissate a costituire le 193 centurie di cui si componeva l’esercito; ogni centuria aveva pari diritto di voto nella principale assemblea popolare, i comizi centuriati. Il fatto che le classi patrizie e proprietarie fossero chiamate a contribuire a un maggior numero di centurie inclinava la bilancia elettorale a loro favore, ma il diritto di voto si estendeva a tutte le centurie, anche a quella – nominale – costituita dai nullatenenti, i proletarii. In tal modo, pur in assenza di un’effettiva eguaglianza politica, tutte le classi venivano integrate nelle istituzioni fondamentali della repubblica; ciò nutriva un senso di cittadinanza condivisa, depotenziava le tensioni sociali che inevitabilmente risultavano dalle diseguaglianze economiche, e contribuiva in termini ideologici ad assicurare l’impegno militare dell’esercito. Come esemplificato dalla secessione della plebe del 494 a.C., che Mann definisce «il primo grande sciopero storicamente documentato»,105 questo intreccio di potere militare, politico, economico ed ideologico contribuiva altresì al progresso delle forme democratiche: rifiutandosi di combattere in difesa della città fin quando i patrizi non avessero accettato le sue richieste, la plebe romana ottenne il diritto di eleggere annualmente i propri tribuni. 2.6.1. Da impero di dominio a impero territoriale Sulla base di questo vantaggioso intreccio di fonti di potere, Roma realizza una notevole espansione territoriale, che, in seguito alla guerra contro Pirro (280-272 a.C.), la porta a dominare l’intera Italia peninsulare. È però con le guerre puniche (264-164 a.C.) che la Roma repubblicana realizza la sua più rilevante espansione in termini militari e territoriali, sviluppando la propria flotta e, mediante una lunga serie di battaglie navali e terrestri, ampliando il suo dominio ad Africa settentrionale, Spagna meridionale, Sicilia, Sardegna e Corsica. Se alla base del potere di conquista dell’antica Roma vi era un esercito fortemente integrato nella società e capace, a sua volta, di funzionare come strumento di integrazione sociale, la capacità romana di mantenere i territori conquistati discendeva soprattutto da una specifica strategia politica: l’invenzione di quella che Mann denomina la

105 Ivi, p. 252.

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«cittadinanza territoriale estensiva».106 Forme di cittadinanza associate a diversi gradi di privilegio fiscale o di godimento dei diritti politici venivano concesse agli abitanti dei territori conquistati e agli alleati che dimostravano la loro fedeltà nei confronti di Roma: questo metodo di controllo politico, nel disincentivare la creazione di leghe militari volte a riguadagnare la libertà dal controllo romano, permetteva anzi alle popolazioni delle province di sentirsi politicamente riconosciute, piuttosto che meramente dominate e sfruttate. Mediante la cittadinanza territoriale estensiva nei territori conquistati, Roma dà vita alla più estesa rete di impegno collettivo mai realizzata fino a quel momento.107 L’avanzamento del dominio romano continua per tutta l’età repubblicana: alle conquiste realizzate con le guerre puniche seguono ulteriori espansioni nella penisola iberica, sulle coste balcaniche, sulla Grecia, sulla Gallia, nel nord Africa e nel vicino Oriente. Anche in presenza di sempre più marcate tensioni sociali, politiche e militari, Roma, almeno fino al 200 d.C., manterrà una straordinaria struttura di dominazione militare produttiva e territoriale sulle zone conquistate; una struttura che a quell’epoca rappresenta un unicum storico. La burocrazia della repubblica, e poi dell’impero romano, era estremamente ridotta: Roma governava i suoi territori in gran parte attraverso l’esercito, adottando una forma di cooperazione obbligata che Mann denomina «economia legionaria».108 In essa si possono distinguere due principali fasi di sviluppo: la prima, dal 100 a.C. fino al 100 d.C., pur mostrando sue specifiche caratteristiche, coincide ancora con la forma dell’impero di dominio; la seconda, denominata da Mann «economia legionaria intensificata»,109 è all’origine del primo impero territoriale della storia, durato fino a circa il 200 d.C.110 Nella prima fase, i confini dei territori romani non sono ancora rigidamente definiti da fortificazioni: il potere di conquista dispiegato dalle legioni era ancora incomparabilmente più forte del potere di consolidamento che lo Stato poteva esercitare su territori che ancora non recavano la sua impronta, e che erano sostanzialmente privi della rete di comunicazione e di infrastrutture necessaria all’esercizio di un potere centralizzato. L’espansione verso l’esterno aveva luogo mediante l’avanzata delle legioni; esse si facevano strada a un ritmo lento e metodico, 106 107 108 109 110

Ivi, p. 254. Ibid. Ivi, p. 272. Cfr. anche infra, § 1.2.1. Ivi, p. 276. Nel tracciare le caratteristiche delle due forme di economia legionaria Mann fa riferimento anche a E. N. Luttwak, La grande strategia dell’impero romano, trad. it. BUR, Milano 1991.

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spezzando la resistenza di popolazioni ostili e spesso, in territori non ancora civilizzati, costruendo le strade su cui procedevano nella loro marcia. Queste iniziali vie di comunicazione erano fondamentali nella successiva pacificazione dei territori conquistati, che venivano dotati delle strutture amministrative necessarie alla tassazione, alla coscrizione militare, e alla messa in opera dell’economia legionaria. Quest’ultima si componeva delle caratteristiche di base della cooperazione obbligata, portate a un più alto livello di efficienza:111 1) la pacificazione e la difesa militare dei territori da nuovi invasori, che forniva un ambiente stabile e sicuro per l’attività economica; 2) il «moltiplicatore militare»: i rapporti di tipo coercitivo imposti agli attori economici attraverso le legioni permettevano la rapida costruzione di un’adeguata rete di vie di comunicazione, di un’infrastruttura commerciale e di un mercato di consumo, sia locale che fondato sul commercio con Roma, in grado di assorbire i surplus di un’agricoltura e di un settore artigianale resi più produttivi dalla coercizione militare; 3) l’assegnazione di valore economico ai beni prodotti, mediante l’uso della moneta che veniva coniata a Roma: l’intreccio tra commerci privati e consumi da parte dello Stato, in epoca imperiale, dà vita a un gigantesco mercato comune basato su un’economia monetaria ed esteso a ogni angolo dell’impero; 4) l’intensificazione del processo produttivo, dapprima realizzata per mezzo della semplice coercizione militare, poi anche attraverso l’istituzione del lavoro salariato; 5) innovazione e diffusione coercitiva di nuove tecniche: mediante il dominio romano, specialmente nella prima fase dell’economia legionaria, le tecniche produttive impiegate con successo in determinate zone venivano diffuse all’intero territorio, migliorando così la resa di ogni area posta sotto il diretto controllo romano. Nella fase che stiamo analizzando, solo i territori più vicini a Roma, o quelli già civilizzati e precedentemente dotati di un proprio potere statale, che Roma sottometteva in funzione clientelare, potevano essere stabilmente presidiati dalle legioni e quindi stabilizzati mediante l’economia legionaria: non vi erano sufficienti risorse per la pacificazione e l’impiego produttivo di tutte le aree conquistate dall’esercito romano, specialmente nel caso in cui queste fossero popolate, a bassi livelli di densità, unicamente da gruppi nomadi. In questo caso, era preferibile per Roma stabilire con tali popolazioni, una volta sottomesse sul piano militare, rapporti clientelari indiretti mediante esazione di tributi e tramite commerci a condizioni privilegiate. Intorno al centro costituito dalla città di Roma, dunque, in questa prima fase si espandeva una prima zona di controllo diretto, stabilmente 111 M. Mann, The Sources of Social Power, vol. 1, cit., pp. 278-279.

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pacificata dall’esercito anche mediante l’istituzione dell’economia legionaria; questa zona era circondata da un’area più esterna, sulla quale Roma esercitava il proprio controllo diplomatico mediante élite e Stati clientelari; seguiva una zona «di influenza» ancor più periferica, scarsamente civilizzata, sulla quale si estendeva il potere di intimidazione delle legioni, volto a riaffermare periodicamente il dominio romano.112 Con il consolidarsi delle conquiste, il continuo affluire di ricchezze dai territori dominati, e il raggiungimento, da parte dell’esercito, di aree scarsamente appetibili e poco popolate, di fronte alle quali la sete di conquista si placa, il dominio romano acquisisce caratteristiche territoriali sempre più spiccate: le legioni, inizialmente impiegate per la pacificazione e la resa produttiva dei territori di conquista più interni, vengono poste in difesa dei confini esterni, ora muniti di fortificazioni nei punti strategici. Il territorio dell’impero romano, nella fase di sua massima estensione, raggiunge l’intera penisola iberica, la Britannia (conquistata dall’imperatore Claudio), la Gallia, parte dell’attuale Germania, i Balcani fino al Mar Nero, la Grecia, parte del vicino Oriente (tra cui l’Assiria e la Mesopotamia, conquistate dall’imperatore Traiano), l’Egitto e l’Africa settentrionale. Uniformato da una stabile rete infrastrutturale e commerciale, esso viene amministrato tramite una forma intensificata di economia legionaria. Dall’essere un impero di dominio, ossia un territorio di egemonia estensiva con confini esterni sfumati e poco definiti, costituito da zone a diversi livelli di integrazione reciproca, Roma, intorno al 100 d.C., grazie all’ormai consolidata pacificazione delle aree conquistate, diviene un impero territoriale contraddistinto da confini rigidi, forte integrazione interna, e da una sostanziale solidarietà ideologica delle élite dominanti.113 Grazie all’istituzione della «cittadinanza territoriale estensiva», l’impero romano risulta caratterizzato da una classe dominante cosmopolitica, ideologicamente e culturalmente integrata, dotata di notevole potere economico e politicamente consapevole di sé in quanto classe.114 La solidarietà ideologica delle classi dominanti è, insieme all’economia legionaria, l’altro grande fattore di coesione dell’impero romano: non solo l’élite cosmopolitica dominante è internamente connessa da legami ideologici, ma, oltretutto, è legata a doppio filo allo Stato. Per mantenere la loro posizione economicamente privilegiata, derivante da un’appropriazione sproporzionata (e spesso arbitrariamente privatistica) del surplus generato sui terri112 Ivi, pp. 275-276. 113 Ivi, p. 277. 114 Ivi, p. 267.

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tori imperiali, le classi dominanti necessitavano infatti del sistema fiscale, dell’uniformità monetaria e dell’economia legionaria centralmente amministrati: «le classi dominanti si appropriavano privatamente delle proprietà dello Stato», scrive Mann, «ma lo Stato era necessario all’esistenza di quelle stesse proprietà».115 La classe dominante decentralizzata si impossessa dunque delle ricchezze generate nei territori locali grazie alle strutture messe a disposizione dallo Stato centrale, riproponendo, ancora una volta, l’ormai familiare dialettica di centralizzazione e decentralizzazione. 2.6.2. Il problema della coesione sociale Con l’ampliarsi dei territori conquistati e il prolungarsi delle guerre, l’esercito di cittadini che aveva costituito la chiave del successo militare di Roma, nonché il nucleo dell’integrazione sociale romana, inizia a mutare radicalmente i suoi caratteri: le legioni erano sostanzialmente diventate corpi militari stipendiati e a tempo pieno. Nel 107 a.C. la necessità di nuove reclute per l’esercito porta il console Gaio Mario a rimuovere i vincoli di censo verso il basso, permettendo ai proletarii di entrare in servizio come soldati stipendiati. Le conseguenze di medio e lungo termine saranno disastrose: non solo l’esercito, ora costituito in larga parte dalla classe proletaria, non riflette più l’effettiva composizione della società romana, di fatto allentando l’impegno delle classi superiori nei confronti della città e polarizzando i rapporti di potere all’interno dei corpi militari tra alti comandi patrizi e truppe plebee; ma, oltretutto, i soldati si trovano ora a dipendere totalmente dal successo in guerra del loro comandante, che, al termine del servizio, ha la facoltà di ricompensarli con concessioni di terre.116 Vengono così a crearsi legioni «privatizzate», legate al loro comando superiore da rapporti di dipendenza personale, autonome rispetto alla società civile e passibili di essere impiegate contro lo Stato, come accadrà a opera di Lucio Cornelio Silla solo vent’anni dopo la riforma di Gaio Mario. Nel breve periodo, tuttavia, quest’ultima permette non solo di risolvere i problemi di reclutamento, ma anche di depotenziare momentaneamente le tensioni sociali che a Roma stavano acuendosi: la prolungata assenza dei lavoratori dai campi, dovuta al servizio in guerra, aveva fatto sprofondare molte piccole proprietà terriere nell’abbandono e nei debiti, provocando il riversarsi in città di un ampio numero di contadini spossessati e nullatenenti. Le tensioni sociali e di classe avevano raggiunto quindi 115 Ivi, p. 272. 116 Ivi, p. 257.

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livelli difficilmente controllabili, come esemplificato dalle agitazioni legate ai tentativi di riforma di Tiberio e di Caio Gracco (133-121 a.C.) e dalle rivolte di schiavi, i quali, a causa del loro alto numero sul territorio romano, erano capaci di organizzazione politica estensiva.117 Questi disordini, a cui si sommano le lotte per la cittadinanza da parte degli alleati italici (la cosiddetta guerra sociale, 91-88 a.C.) e sanguinosi scontri tra fazioni politiche, evidenziano come la coesione che era stata la forza di Roma fosse ormai seriamente compromessa.118 È proprio la lotta tra consoli sostenuti da legioni «personali» che, attraverso le vicende del primo e del secondo triumvirato, segna il passaggio dalla costituzione repubblicana a quella imperiale nel 27 a.C., quando Ottaviano assume il titolo di Augusto. Al mutamento di forma costituzionale non corrisponde però un approccio risolutivo, da parte delle élite, ai problemi di coesione sociale che a Roma vanno facendosi sempre più acuti, e che, sostiene Mann, sono la più profonda causa del crollo dell’impero: il problema della coesione e dell’integrazione sociale, dal quale egli aveva preso le mosse nei suoi scritti giovanili, torna quindi al centro della sua attenzione nell’analisi di una società complessa come quella romana. In età imperiale le diseguaglianze sociali raggiungono livelli tali che le classi inferiori, le quali durante la repubblica erano ancora capaci di azione politica ed estensiva, si fanno sempre più disaffiliate dalla società complessiva. Da «classi» che erano, diventano «masse»119 caratterizzate da alti livelli di povertà, assente partecipazione politica e rapporti di tipo clientelare nei confronti dei patrizi e dello Stato, che ricorre a elargizioni di denaro e beni alimentari, nonché alla messa in scena di spettacoli di intrattenimento, al fine di contenere il malcontento sociale. I giovani più poveri potevano essere facilmente mobilitati dalle élite di Roma e dei territori imperiali in cricche e in eserciti privati, con prevedibili conseguenze sulla stabilità delle relazioni politiche. Non vi era alcuna ufficiale e stabile istituzione di potere, nel complesso, che integrasse paritariamente le crescenti masse proletarie con il resto della società. Le élite dominanti, dal canto loro, esercitavano un controllo dai sempre più pronunciati tratti privatistici sui loro ambiti di competenza e di influenza, appropriandosi informalmente delle ricchezze pubbliche.120 Esse, tuttavia, non avevano alcun potere collettivo e istituzionalizzato nei confronti dell’imperatore e della sua immediata 117 118 119 120

Ivi, p. 256. Ivi, p. 258. Ivi, p. 260. Ivi, p. 282.

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cerchia: la possibilità di esercitare un influsso sul centro dipendeva da rapporti informali di fazione, ossia dall’entrare a far parte della ristretta élite che affiancava l’imperatore.121 Quest’ultimo aveva un indiscusso controllo sullo Stato, il quale era visto come necessario sia dalle masse (a causa del «welfare-state imperialism»122 a cui esse dovevano la loro sopravvivenza) che dalle classi dominanti. Al contempo, il potere imperiale era però minacciato dalla sempre possibile autonomizzazione delle élite locali o di fazioni politiche disponenti di eserciti privati. Nessuna delle principali relazioni tra classi era quindi istituzionalizzata mediante canali stabili, ufficiali e prevedibili; non esisteva un vero centro di legittimità condivisa né una comune disposizione al bene collettivo; ognuno dei tre principali attori sociali (masse, classi dominanti, élite statali) disponeva di una maggiore o minore autonomia di potere, che sfruttava in una direzione divergente da quelle altrui. Venne così a determinarsi una situazione di stallo in cui, cessati la coesione e l’impegno comune che avevano caratterizzato l’ascesa di Roma, come anche l’integrazione partecipativa delle diverse classi nella struttura sociale, non vi era alcun centro decisionale condiviso.123 La passata gloria di Roma molto doveva all’istituzione della legione romana, nella quale le quattro fonti di potere si congiungevano, incrementando il potere collettivo dell’intera popolazione e cementando una forte coesione sociale; adesso era però il potere distributivo a prendere il sopravvento, in una situazione in cui potere economico, politico, militare e ideologico erano accentrati nelle mani di élite reciprocamente autonome e separate dalla massa della popolazione. La coesione sociale degli inizi altro non era che un pallido ricordo. 2.6.3. Il crollo dell’impero romano Il crollo dell’impero non avvenne a causa di un sistema produttivo inadeguato poiché eccessivamente basato sull’impiego di lavoro schiavile e sullo sfruttamento delle classi subordinate, secondo quanto affermano Marx e storici marxisti come Perry Anderson e De Ste. Croix;124 e nemmeno, come vorrebbe la «versione liberal-borghese» del declino di Roma, 121 122 123 124

Ibid. Ivi, p. 257. Ivi, p. 282. Cfr. G. E. M. de Ste. Croix, The Class Struggle in the Ancient Greek World, Cornell University Press, Ithaca (NY) 1998, in particolare le pp. 453-467, e P. Anderson, Passages from Antiquity to Feudalism, NLB, Bristol 1974, in particolare le pp. 59-103.

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quest’ultimo si verificò a causa di una carenza di inventiva tecnica in ambito agricolo, che ritardò la scoperta e la diffusione di innovazioni che, nel frattempo adottate altrove, avrebbero potuto grandemente aumentare la produttività.125 Nell’impero romano il potere economico funzionò bene, in termini di efficienza, fino al periodo in cui la crisi e l’instabilità complessive erano ormai conclamate. In assenza delle contraddizioni insormontabili che furono all’origine di queste ultime, l’economia legionaria avrebbe potuto assicurare prosperità all’impero ancora per molto tempo. Il periodo in cui la produzione maggiormente si basava sul lavoro degli schiavi, nota anzi Mann di contro all’ipotesi marxista, coincise con la fase di più grande prosperità per Roma;126 le innovazioni apportate dai Romani erano inoltre di tipo estensivo (modalità inedite ed efficaci di pacificare, organizzare e stabilizzare produttivamente vasti territori) piuttosto che di tipo intensivo, ossia riferite all’invenzione di singoli oggetti o tecniche di lavoro. Le contraddizioni di Roma riguardavano la coesione della struttura sociale dell’impero. In assenza di sollecitazioni esterne, date dal riproporsi della dialettica di centralizzazione e decentralizzazione, il crollo forse non sarebbe stato così repentino; la mancanza di un centro di legittimità ideologicamente e politicamente condivisa tra classi a tal punto diseguali in termini economici e di potere, tuttavia, risultò fatale nel momento in cui le frontiere dell’impero furono messe a dura prova.127 I confini sul Reno e sul Danubio erano minacciati da popoli nomadi che, nel tempo, avevano mutuato alcune delle tecniche agricole e militari applicate dai Romani, e, sempre per influenza di questi ultimi, si erano dati una struttura sociale e politica più centralizzata e organizzata.128 Queste tendenze alla «civilizzazione», che i Romani avevano incoraggiato a scopi diplomatici, ora venivano sfruttate ai loro danni. Lo sforzo militare contro i popoli germanici (oltre a quello, poi vittorioso, contro l’impero sassanide a est), sulle basi di una struttura fiscale non adeguata a sostenerlo e della scarsa dedizione militare di eserciti mal pagati, poco coesi e facili all’ammutinamento, acuisce la crisi interna all’impero, il quale, nel cosiddetto periodo dell’«anarchia militare», tocca

125 M. Mann, The Sources of Social Power, vol. 1, cit., p. 183. 126 Ivi, p. 284. 127 I riferimenti principali di Mann per questa fase della sua narrazione storica sono A. H M. Jones, Il tardo impero romano, trad. it. Il Saggiatore, Milano 1974; F. Millar et al., L’impero romano e i popoli limitrofi, trad. it. Feltrinelli, Milano 1968; J. Vogt, Il declino di Roma, trad. it. Il Saggiatore, Milano 1968. 128 Ivi, p. 286.

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l’apice dell’instabilità politica.129 Le legioni, eccetto quelle direttamente coinvolte nella difesa dell’imperatore, si trasformano progressivamente in eserciti regionali al comando delle élite locali, impegnate nella difesa dei loro territori; l’economia legionaria si sgretola fino a scomparire. Nel frattempo le città si spopolano in favore delle campagne, dove inizia a radicarsi un’economia di tipo proto-feudale, basata su unità agricole autosufficienti. Nel 476 d.C. Romolo Augustolo, ultimo imperatore dell’impero romano d’occidente, viene deposto. La pressione esercitata dalle invasioni barbariche fu decisiva nel determinare il crollo dell’impero, ma la ragione ultima di esso è da cercarsi nelle contraddizioni che, per tutta l’età imperiale, caratterizzarono i rapporti di classe.130 Esse preclusero la coesione sociale e l’impegno collettivo per finalità comuni che avrebbero permesso di dare una soluzione militare o ideologica al problema delle invasioni. Una strategia militare volta a evitare le invasioni avrebbe richiesto di spingere le linee di conquista, nella prima epoca imperiale, fino alle steppe russe, dove solo pochi gruppi nomadi rimanevano a insidiare le frontiere; essa avrebbe richiesto però una capacità collettiva di dedizione al bene comune e di sacrificio militare che solo una cittadinanza relativamente egualitaria e integrata nella società poteva fornire.131 L’ipotesi ideologica avrebbe invece potuto implicare uno sforzo di conversione dei barbari al cristianesimo prima dell’inizio delle invasioni, o, in alternativa, secondo la strategia seguita con successo dall’impero cinese, l’incorporazione di essi in un impero congiunto.132 Per il perseguimento di entrambe, tuttavia, sarebbe stato necessario un alto grado di coesione delle élite dominanti, volto a elaborare una soluzione finalizzata all’interesse collettivo e dai tratti ideologicamente e politicamente inediti. Qualcosa di molto difficile anche in condizioni meno proibitive di quelle in cui versava l’impero romano. Con la caduta di esso ha fine un complesso di interazioni di potere durato 700 anni; dalla sua stessa struttura, a livello interstiziale, emerge però la successiva, grande rivoluzione sociale della storia: il cristianesimo. Con esso, mentre l’impero romano si basava su un intreccio paritario delle quattro fonti di potere, è il potere ideologico ad assumere temporaneamente il primato.

129 130 131 132

Ivi, p. 288 e 293. Ivi, p. 295. Ivi, p. 294. Ivi, p. 296.

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2.7. L’ecumene cristiana Una «competizione» tra due diverse configurazioni del potere ideologico inizia a prendere forma fin dal tardo impero romano: da una parte, il potere ideologico immanente delle élite dominanti dell’impero, che si concepivano come una classe unitaria, con proprie finalità di autoconservazione politica, e condividevano i medesimi riferimenti culturali e ideali; dall’altra, la nuova ideologia trascendente incarnata dal cristianesimo, in grado di combinare potere estensivo con potere intensivo e di propagarsi a tutte le principali classi dell’impero.133 Quest’ultima configurazione di potere ideologico, esattamente come quella propria delle classi dominanti, rispondeva a bisogni sociali effettivi e poggiava su concrete infrastrutture organizzative di trasmissione. Gran parte della letteratura esistente sull’ascesa della religione cristiana, afferma polemicamente Mann, tende ad affermare che «il cristianesimo si diffuse perché era vero»;134 un’analisi sociologica del propagarsi di una forma di potere ideologico deve invece tenere conto dei presupposti, in termini di condizioni culturali, politiche, economiche e militari, della società su cui tale forma di potere va a innestarsi. Già da prima della diffusione del cristianesimo, sul territorio imperiale nascono e si propagano una varietà di correnti monoteistiche, escatologiche e sincretiche, recanti promesse di salvezza ultraterrena e basate su riti di carattere comunitario: segno, questo, che vi erano delle richieste sociali di guida e di inclusione che il tardo impero non riusciva a soddisfare. Su questo terreno, il cristianesimo si inserisce proponendo un messaggio di accoglienza, semplice, radicale ed egualitario:135 tutti possono entrare nel regno dei Cieli, purché credano in Dio e riflettano la loro fede nelle proprie azioni. In questo modo, il cristianesimo offriva una soluzione a una serie di contraddizioni della società imperiale:136 1. Di contro al particolarismo delle élite dominanti, proponeva una forma di appartenenza universalistica; 2. Affermava una società egualitaria, ponendosi in contrasto con l’evidente stratificazione gerarchica della società imperiale; 3. Di fronte a un impero che oscillava tra tendenze alla centralizzazione del potere e le spinte decentralizzanti delle élite locali, si poneva come forma decentralizzata, ma puramente ideologica; 133 134 135 136

Ivi, p. 301. Ivi, p. 303. Ivi, p. 305. Ivi, p. 306-307.

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4. Contrapponeva una comunità dal basso, di tipo cosmopolitico, all’uniformità amministrativa che l’impero cercava di realizzare sui suoi territori mediante le élite; 5. Si poneva come forza civilizzatrice, ma non in senso militare, bensì mediante una religione che fosse portatrice di pace, unità e comunità. Il cristianesimo dunque, secondo Mann, si impone in quanto costituisce una risposta universalistica, egalitaria, cosmopolitica e civilizzante ai bisogni sociali lasciati insoddisfatti dall’impero. Contrariamente a molte interpretazioni proposte da studiosi della cristianità di fede cristiana, per Mann il cristianesimo non rappresenta una risposta spirituale a una condizione di deprivazione materiale, né un’alternativa spirituale a un mondo dominato dal materialismo (come frequentemente sostenuto sulla scia di Troeltsch).137 Il cristianesimo, scrive Mann, è essenzialmente la soluzione a una domanda di identità sociale, all’aspirazione a far parte di una comunità normativa e relazionale nella quale riconoscersi. La «sofferenza terrena» dei primi cristiani era infatti di tipo identitario e normativo,138 non materiale. Essi non provenivano dagli strati più poveri e oppressi della popolazione: sulla base di studi effettuati sulle iscrizioni tombali in Palestina, si evince che i primi cristiani appartenevano a tutte le classi sociali, con prevalenza del ceto medio.139 La spiegazione di Mann è che si trattasse di persone che conducevano un’esistenza materialmente soddisfacente, ma che erano completamente escluse da forme di partecipazione alla vita pubblica tanto del centro imperiale quanto delle loro comunità locali. Ai tempi di Traiano e di Adriano i sudditi dei territori orientali erano totalmente privi di qualsiasi potere politico e associativo: le assemblee erano proibite, non vi erano comunità normative autorizzate, gli ufficiali imperiali vietavano gli assembramenti in quanto potenziali fonti di sedizione. Per i primi cristiani, in poche parole, «l’impero non era la loro società».140 Essi, come del resto tutti i gruppi umani nella storia, necessitavano di forme di vita collettiva da cui sentirsi attratti e a cui partecipare; le trovarono in una religione egualitaria, comunitaria, trascendente, che si

137 E. Troeltsch, La dottrina sociale delle Chiese e dei gruppi cristiani, trad. it. La Nuova Italia, Firenze 1969. 138 M. Mann, The Sources of Social Power, vol. 1, cit., p. 309. 139 Ivi, pp. 322-323. Cfr. S. J. Case, The Social Triumphs of the Ancient Church, Books for Libraries, Freeport (NY) 1933, e R. M. Grant, Cristianesimo primitivo e società, trad. it. Paideia, Brescia 1987. 140 M. Mann, The Sources of Social Power, vol. 1, cit., p. 324.

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poneva come guida morale e prospettiva di salvezza in una società dalla quale si sentivano esclusi. 2.7.1. Il materialismo organizzativo e l’emergenza interstiziale «L’organizzazione delle risorse del potere è la determinante fondamentale dell’ascesa di un movimento religioso, come di ogni altro movimento»,141 scrive Mann, ribandendo l’idea di base del suo «materialismo organizzativo»: le idee non sono free-floating, non viaggiano nell’aria, bensì necessitano di concreti canali di trasmissione. Per spiegare come si diffuse il cristianesimo, è quindi necessario considerare le specifiche reti sociali attraverso cui il messaggio cristiano venne diffuso. Esse erano sostanzialmente quattro:142 1. il «mosaico» di villaggi, città, tribù e popoli, tra loro variamente interrelati, su cui si estendeva il dominio romano; 2. i canali ufficiali dell’impero, impersonati dalle élite dominanti e dai funzionari statali, che mantenevano le comunicazioni tra i villaggi; 3. l’esercito, che, mediante i soldati delle legioni, era un vettore di trasmissione di innovazioni ideologiche; 4. le reti di scambio e di commercio che interconnettevano i territori dell’impero e costituivano effettivi canali di comunicazione tra mercanti, produttori e popolazione ordinaria. Il messaggio cristiano si diffonde quindi attraverso canali informali, interstiziali a quelli ufficiali dell’impero, ma sfruttando le vie di comunicazione e le reti di interazione da questo costruite e mantenute. Una delle regolarità ravvisate da Mann nella sua analisi storico-sociologica è proprio il processo per cui infrastrutture comunicative create dai principali detentori del potere vengono sfruttate interstizialmente dai gruppi emergenti: le istituzioni esistenti, dunque, esercitano un effettivo influsso sull’azione individuale dei soggetti, e anche per questo motivo il teorico della società deve essere in grado di tener conto tanto delle strutture quanto dell’azione sociale.143 141 Ivi, p. 310. 142 Ivi, pp. 310-312. 143 Dal punto di vista dell’azione sociale, aspetto che, invero, nell’analisi del cristianesimo svolta da Mann non riceve pari attenzione rispetto a quello strutturale, cfr. l’ottima analisi di J. Snyder, Networks and Ideologies: the Fusion of ‘Is’ and ‘Ought’ as a Means to Social Power, in An Anatomy of Power, cit., pp. 306-327. Nel suo saggio, Snyder mette in luce come i tangibili risultati sociali del cristiane-

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La creazione di reti interstiziali di potere ideologico e di comunità religiose solidali e coese non sfuggiva all’occhio «ufficiale» dell’impero; i cristiani furono presto oggetto di persecuzioni. La risposta del potere imperiale era solo in parte dovuta ai contenuti sostanziali del messaggio cristiano: essa discendeva soprattutto dalla possibile minaccia rappresentata, per il potere imperiale, dallo sviluppo di questi canali interstiziali e nascosti. Anche il generarsi di comunità che si raccoglievano strettamente intorno a un messaggio per molti aspetti radicalmente diverso, e perfino opposto rispetto ai valori affermati dall’impero, era interpretato da quest’ultimo quale fattore di pericolo e sedizione, come anche il rifiuto dei cristiani di venerare déi pagani, in un contesto, come quello imperiale, che non riconosceva separazione tra autorità divina e mondana.144 Il cristianesimo, in quanto rappresentava una fonte alternativa sia di organizzazione che di solidarietà normativa, venne dunque per secoli osteggiato dall’impero. Fin dal 250, tuttavia, la sopravvenuta maggior strutturazione della Chiesa e la sua intenzione di ridurre le tensioni con l’autorità politica la portano a interiorizzare alcune delle contraddizioni dell’impero:145 viene introdotta una gerarchia ecclesiastica istituzionalizzata; le donne vengono relegate in un ruolo subordinato all’interno della Chiesa; la dottrina ufficiale di quest’ultima afferma una posizione ambigua riguardo alla schiavitù; si stabilizza progressivamente un’idea di ortodossia religiosa che porta all’intolleranza e alla persecuzione nei confronti dei non-cristiani e degli eretici. Dopo la caduta dell’impero romano, nel medioevo, l’ecumene cristiana andrà a costituire una fondamentale rete di solidarietà normativa su gran parte dell’Europa, segnando, in questo periodo, una prevalenza del potere ideologico sulle altre fonti; i monasteri dell’Europa medievale saranno luoghi di cultura, di trasmissione e conservazione delle opere dell’antichità, nonché centri di arbitrato e di regolazione giuridica informale; legati tra loro e con borghi e castelli mediante scambi commerciali, andranno a formare il tessuto infrastrutturale della cristianità medievale, intesa come «rete specializzata di potere ideologico, con funzioni di regolazione normativa, pacificazione, coesione identitaria, trasmissione culturale e commerciale».146 Lungo tutto questo periodo, con tracce che si estendono simo, in termini di rispetto collettivo di norme morali di reciproco aiuto tra i suoi affiliati, abbiano attratto ad esso, nel primo periodo, molti altri seguaci, desiderosi di appartenere a una comunità così evidentemente e vantaggiosamente coesa dal punto di vista sociale e normativo. 144 Cfr. M. Mann, The Sources of Social Power, vol. 1, cit., p. 321. 145 Ivi, p. 326. 146 Ivi, p. 337.

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fino a oggi, la Chiesa manterrà però due grandi contraddizioni, che nel medioevo porteranno la sua autorità ad essere evocata, alternativamente, dai poveri in rivolta e dal potere costituito, impegnato nella repressione delle ribellioni:147 la contraddizione tra la proclamazione di eguaglianza di tutti gli uomini di fronte a Dio e l’affermazione di una rigida gerarchia, anche all’interno della stessa istituzione ecclesiastica; e quella tra la diffusione e la valorizzazione della ragione umana e della cultura, da una parte, e il dogmatico e oscurantista ricorso all’ipse dixit, dall’altra. Contraddizioni che porteranno allo scisma protestante, ricco di conseguenze politiche e ideologiche.148 2.7.2. Le necessarie funzioni del potere ideologico La trattazione che Mann compie rispetto al potere ideologico religioso si pone in accordo con la concezione di Durkheim: in base a quest’ultima, relazioni sociali stabili non possono essere fondate solo sulla forza o sull’autointeresse dei soggetti, bensì necessitano anche di forme di solidarietà normativa, tra cui possono rientrare quelle relative alla religione.149 Per Durkheim, come per Mann, la religione è il riflesso dei bisogni normativi della società. E tuttavia Mann spinge avanti di un passo la classica teorizzazione durkheimiana:150 la religione non si limita a riflettere le forme e le necessità normative della società che la elabora, ma, come abbiamo visto rispetto al diffondersi del cristianesimo, essa contribuisce attivamente al rinnovamento di tale società o crea un nuovo ordine sociale, un nuovo nomos, in una situazione in cui le regolazioni sociali egemoni (date dalla preesistente configurazione delle quattro forme di potere) si mostrano manchevoli e contraddittorie. Le religioni non hanno quindi solo una valenza riflessiva, ma anche creativa.151 La trattazione che Mann svolge rispetto al cristianesimo è stata criticata in quanto, applicando il metodo del materialismo organizzativo, l’autore non sembra attestarsi, come dichiarato, a metà strada tra materialismo e idealismo, bensì privilegiare il primo sul secondo. Questa obiezione viene indipendentemente rivolta a Mann da tre autori che, nel complesso, si pongono in modo assai simpatetico rispetto alla sua impresa teorica: Perry 147 Ivi, p. 338. 148 Cfr. ivi, pp. 463-472. 149 É. Durkheim, Le forme elementari della vita religiosa, trad. it. Edizioni di Comunità, Milano 1963, in particolare le pp. 456-487. 150 M. Mann, The Sources of Social Power, vol. 1, cit., p. 369. 151 Ivi, p. 23.

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Anderson, Joseph Bryant e John Hobson.152 Il comune denominatore delle loro obiezioni è che, nella sua trattazione del diffondersi del cristianesimo, Mann si sarebbe concentrato quasi esclusivamente sui canali materiali di trasmissione ideologica e sui bisogni sociali, concepiti in senso prevalentemente razionalistico, che questa religione emergente riesce a soddisfare: il tutto, a discapito della considerazione degli aspetti emotivi e dei legami di tipo emozionale che il potere ideologico può far scaturire negli esseri umani, come anche degli elementi irrazionali e «sovrannaturali» implicati dalle religioni, che mal si conciliano con una spiegazione dell’attrattiva di esse solo in termini razionalistici. Nell’introduzione alla nuova edizione di The Sources of Social Power Mann accetta le loro obiezioni153 (come anche quelle di Philip Gorski, il quale gli imputa una considerazione «intermittente» del potere ideologico):154 il terzo e il quarto volume dell’opera, pubblicati nel 2011 e nel 2012, come anche Fascists e Il lato oscuro della democrazia, mostrano una più attenta considerazione degli elementi emotivi e irrazionali connessi al potere ideologico. 2.8. Dal feudalesimo al capitalismo Adottando per la prima volta nella sua opera un’ottica esplicitamente teleologica, Mann si propone, trattando l’Europa medioevale, di evidenziare gli sviluppi di potere intensivo ed estensivo che, mediante un percorso secolare, porteranno al prodursi del cosiddetto «miracolo europeo»:155 la nascita degli Stati moderni, del capitalismo e della tecnologia industriale, che conducono alla più grande accelerazione storica dei rapporti di potere collettivo, la rivoluzione industriale. Questo salto in avanti, localizzato nel XVIII secolo, guadagna forza lungo tutto il medioevo, periodo durante il quale le quattro fonti del potere sociale sembrano prendere una direzione comune, che porterà alla transizione (non solo, né primariamente, economica)156 dal feudalesimo al capitalismo: l’Europa feudale dell’alto 152 Cfr. P. Anderson, Those in Authority, cit., pp. 1405-1406; J. Bryant, Grand, yet Grounded: Ontology, Theory, and Method in Michael Mann’s Historical Sociology, in An Anatomy of Power, cit., pp. 71-97, cfr. in particolare pp. 86-93; J. Hobson, Mann, the State and War, in An Anatomy of Power, cit., pp. 150-166, cfr. in particolare pp. 160-164. 153 Cfr. M. Mann, The Sources of Social Power, vol. 1, cit., p. xvi. 154 Cfr. Ph. Gorski, Mann’s Theory of Ideological Power, cit., pp. 117-128. 155 Cfr. M. Mann, The Sources of Social Power, vol. 1, cit., p. 373. 156 Ivi, p. 375.

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medioevo, come vedremo in questo paragrafo, è uno straordinario contesto di sviluppo, a livello intensivo, delle quattro fonti del potere; tale sviluppo costituisce il necessario presupposto dell’aumento di potere estensivo che avrà luogo dalla metà del XII secolo, e che condurrà alla fine del mondo feudale e all’emergere del capitalismo e dello Stato moderno. Il modello teorico attraverso cui Mann spiega il mutamento storico è quello del «cambiamento neo-episodico»: nei momenti di grande trasformazione sociale, nuovi attori, bisogni o rapporti sociali che emergono interstizialmente dalle strutture di potere esistenti si intersecano con le strutture organizzative e le istituzioni già date, le quali cambiano esse stesse, ma a un ritmo molto più lento.157 Saranno, in questo caso, le necessità militari dello Stato e gli attori emergenti costituiti da classi e nazioni a segnare il passaggio dal sistema feudale ai moderni Stati capitalistici, modificando in profondità le istituzioni e le forme di organizzazione sociale. Alla fine delle invasioni barbariche, in Europa si stabilizza una federazione, priva di centro, costituita da piccole unità di potere autonome;158 esse, sostanzialmente paritarie, erano connesse tra loro, a breve e medio raggio, da reti di interazione economica, politica e militare, nel contesto di una più ampia solidarietà normativa data dal cristianesimo.159 Queste comunità estremamente localizzate (villaggio, castello, borgo, monastero) praticavano un’economia in cui, a una produzione di sussistenza, erano abbinati scambi commerciali tra le diverse unità, perlopiù su distanze contenute. Sul piano politico e militare, la «multiple acephalous federation»160 che così si determinava era costituita da piccoli centri di potere territoriale i quali, risultanti dalla frammentazione dei regni barbarici susseguitisi all’impero romano, erano di proprietà dei signori feudali e organizzati secondo il sistema del vassallaggio. I poteri del signore feudale erano deboli 157 Ivi, pp. x-xi. Mann sembra qui, per alcuni versi, richiamare la prospettiva esposta da F. Braudel nel suo libro Il Mediterraneo (trad. it. Bompiani, Milano 2002), in base alla quale la storia si comporrebbe tanto di «increspature superficiali», per noi più visibili nella quotidianità (ad esempio, conflitti legati a specifiche questioni di attualità), quanto di movimenti più lenti e profondi che, nel lungo periodo, danno luogo a cambiamenti significativi. 158 I riferimenti generali di Mann riguardo al periodo medievale sono M. McKisack, The Fourteenth Century, Clarendon Press, Oxford 1959; M. Powicke, The Thirteenth Century, Clarendon Press, Oxford 1962; B. P. Wolffe, The Royal Demesne in English History, Allen & Unwin, London 1971, e G. L. Harris, King, Parliament and Public Finance in Medieval England to 1369, Clarendon Press, Oxford 1975. 159 M. Mann, The Sources of Social Power, vol. 1, cit., p. 376. 160 Ibid.

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e indiretti:161 egli poteva chiamare i suoi vassalli alla leva, senza rischio di scatenare resistenze e defezioni, solo per periodi limitati. Anche il potere fiscale che esercitava su di essi, a causa della poca organizzazione infrastrutturale, era estremamente ridotto, dato che il controllo sulle popolazioni dei territori amministrati dai vassalli spettava a questi ultimi. Il signore feudale, infine, condivideva il suo potere giuridico e di arbitrato con la Chiesa, la quale costituiva la maggiore sorgente di regolazione giuridica, morale e normativa. Il cristianesimo costituiva la rete più estesa di integrazione sociale: esso non solo forniva alla popolazione la percezione di essere parte di un’unica identità comune, di una comunità trascendente ben più ampia rispetto ai ristretti nuclei sociali locali, più astratta di essi, e in cui le divisioni di classe e le differenze di istruzione erano irrilevanti; ma oltretutto costituiva anche la maggiore fonte di pacificazione normativa.162 Mediante la sua ideologia estensiva, prescrivente un’attitudine di rispetto e considerazione tra cristiani, la comune aderenza al cristianesimo faceva sì che le relazioni sociali quotidiane si svolgessero secondo modalità sostanzialmente routinarie, prevedibili e caratterizzate da normatività di base. 2.8.1. Sviluppo tecnologico intensivo ed estensivo Senza il contesto di pacificazione e solidarietà normativa provvisto dal cristianesimo non sarebbe stato possibile lo sviluppo di potere intensivo che, nell’ambito dell’agricoltura, ha luogo a partire dall’anno 1000. Tale sviluppo pone le basi per la «transizione embrionale al capitalismo»163 che si verifica dal 1300. «La struttura materiale, ossia l’economia villaggio-castello, che introdurrà innovazioni cruciali come l’aratro pesante e il sistema di rotazione triennale delle colture, e che era costituita anche dalle relazioni commerciali tra le città, dipendeva dall’“infrastruttura” [ideologica] fornita dal cristianesimo»:164 è chiara, in questo passaggio, la polemica di Mann contro la concezione marxiana di base e sovrastruttura, come anche contro la rigida distinzione tra materialismo e idealismo. A livello generale, quella che viene solitamente denominata «transizione dal feudalesimo al capitalismo» per Mann dipende sia, in senso durkheimiano, dall’esistenza in Europa di una comune fonte di regolazione normativa, sia, come egli afferma riprendendo Weber, dall’inventiva razionale 161 162 163 164

Ivi, p. 392. Ivi, pp. 379-383. Ivi, p. 409. Ivi, p. 377.

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delle popolazioni europee medievali.165 Un’inventiva che è stata sottovalutata e trascurata da molta storiografia, la quale vede nel medioevo un’età di arretratezza culturale, e dalle ricerche di sociologia comparata che mettono superficialmente a paragone caratteristiche intrinsecamente differenti:166 non ha senso, afferma Mann in proposito, sostenere ad esempio che l’Europa del 1500 fosse inferiore, in termini generali di potere, rispetto alla Cina dello stesso periodo. Si riducono infatti a una, così, tipologie di potere organizzativo essenzialmente diverse. Di sicuro, nessun monarca europeo avrebbe potuto possedere le stesse ricchezze del Kublai Kahn, disporre dello stesso numero di truppe, e dominare territori così estesi; l’Europa non raggiungeva lo stesso ammontare di potere estensivo (relativo all’organizzazione e al controllo di ampi spazi geografici) della Cina. Già a partire dal 1000 a.C., essa presenta però una distintiva superiorità in termini di potere intensivo: riferito cioè alla scoperta di nuove tecniche da applicare a uno specifico contesto produttivo e all’invenzione di oggetti che incrementano le possibilità umane di intervento sulla natura e di interazione sociale.167 Proprio il potere intensivo che intorno al 1000 a.C. inizia a dispiegarsi nell’Europa feudale, frammentata in unità locali quasi autosufficienti, costituisce per Mann il punto di partenza dello sviluppo verso il capitalismo.

165 Ivi, p. 398. 166 Mann è stato a più riprese criticato per il suo scarso uso di tecniche di sociologia comparata: P. Anderson (Those in Authority, cit., p. 1405), Ch. Wickham (Historical Materialism, Historical Sociology, cit., p. 75), W. G. Runciman (The Old Question, in «London Review of Books», 19-02-1987, pp. 7-8), J. A. Goldstone (A Historical, not Comparative, Method, in An Anatomy of Power, cit., pp. 263-282) obiettano a Mann il fatto che egli impieghi quasi esclusivamente una narrativa lineare, a discapito della capacità di approfondimento di singole epoche e problemi assicurata da una prospettiva comparata. Va detto però che nel primo volume di The Sources of Social Power vi sono alcune sezioni comparative di grande interesse (cap. 4 e cap. 11), e che Mann farà un uso molto maggiore della comparazione nel secondo volume dell’opera, in cui, come egli spiegherà, il periodo trattato permette, a differenza di quello antico, di disporre di più casi rappresentativi e paragonabili in relazione a una medesima questione. A fianco degli autori che criticano Mann per il suo scarso uso della comparazione, ve ne sono altri che riconoscono che «egli utilizza questo metodo, ma con cautela» (cfr. J. Bryant, Ground, yet Grounded, cit., p. 79), e che lo elogiano per la sua attenzione alla specificità storica, associata alla capacità di elaborare categorie analitiche che rendono possibile ravvisare continuità e fratture lungo ampi periodi di tempo e vasti territori (cfr. Ch. Tilly, Macrosociology: Social Change, Social Movements, World Systems, Comparative and Historical Sociology, in «Contemporary Sociology», XXVI, 1987, n. 5, pp. 630-631). 167 Cfr. M. Mann, The Sources of Social Power, vol. 1, cit., p. 378.

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Resta però da spiegare come si giunge, dal modo di produzione feudale, implicante l’estrazione di surplus da parte dei proprietari terrieri mediante lo sfruttamento di una classe di contadini asserviti a legami di dipendenza personale, al modo di produzione capitalistico; e va altresì spiegato attraverso quale processo il lavoro si trasforma in una merce, mentre la proprietà dei mezzi di produzione, individuale e assoluta, passa nelle mani della classe capitalistica. Né il potere del signore feudale né quello dei vassalli potevano penetrare con reale efficacia infrastrutturale nelle aree da essi formalmente sorvegliate: al loro controllo sfuggivano i contesti di interazione di borghi e villaggi, in cui contadini, mercanti e artigiani entravano in comunicazione e potevano scambiarsi beni materiali, innovazioni produttive e idee sulla società.168 I contadini potevano parzialmente sottrarsi anche in altro modo ai rapporti di asservimento a cui erano sottoposti: pur lavorando i terreni che formalmente appartenevano al signore, essi potevano ritagliare porzioni di surplus a proprio uso e, nel tempo, mediante le regolazioni consuetudinarie, acquisire il possesso di fatto di propri appezzamenti di terra.169 La dialettica in moto è sempre quella di centralizzazione e decentralizzazione: in mancanza di un controllo infrastrutturale capillarmente esteso, le risorse che il centro di potere (in questo caso il signore feudale) controlla in modo solo indiretto tendono, in una certa misura, a disperdersi nella società civile, vengono da essa appropriate, e in tal modo si decentralizzano. Questo processo, avente luogo dall’anno 1000 in poi, è parte di una tendenza generale verso lo sviluppo di rapporti capitalistici in agricoltura:170 i contadini, «grazie al loro effettivo possesso di autonome risorse produttive locali»,171 iniziano infatti a elaborare e sperimentare tecniche e attrezzi in grado di aumentare il surplus agricolo di cui possono godere indipendentemente dai proprietari terrieri. In questo modo prendono piede innovazioni (alcune delle quali già esistenti ma poco diffuse) quali il mulino ad acqua, l’aratro pesante, la rotazione triennale delle colture, la ferratura dei cavalli, che aumentano fortemente la produzione 168 Ivi, p. 395. 169 Ivi, p. 409. 170 Nella sua ricostruzione di questo processo Mann si basa primariamente su due fonti neoclassiche (D. C. North, R. P. Thomas, L’evoluzione economica del mondo occidentale, trad. it. Mondadori, Milano 1976; M. M. Postan, Economia e società nell’Inghilterra medievale dal XII al XVI secolo, trad. it. Einaudi, Torino 1978) e due fonti marxiste (P. Anderson, Dall’antichità al feudalesimo, trad. it. Mondadori, Milano 1978; e R. Brenner, Agrarian Class Structures and Economic Development in Pre-industrial Europe, in «Past and Present», 76, 1976). 171 Cfr. M. Mann, The Sources of Social Power, vol. 1, cit., p. 409.

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agricola.172 Anche i contadini che lavorano terre non loro, a partire dalla prima metà del XIV secolo, hanno la possibilità di aumentare il surplus di produzione grazie alle nuove tecniche agricole, e, così, di pagare i tributi in denaro o in natura, piuttosto che in prestazioni lavorative. Un numero sempre maggiore di essi, dunque, si emancipa di fatto dal dominio feudale, e le iniziali reazioni repressive dei proprietari terrieri sono sostituite da un’accettazione del modo di produzione emergente: i signori feudali, piuttosto che restaurare con la forza i precedenti rapporti di dipendenza personale fondati su tributi in servizi lavorativi, presto capiscono che è più conveniente, in un’ottica protocapitalistica, esigere dai contadini affittuari il pagamento di somme di denaro che possano essere reinvestite nell’agricoltura o nel commercio.173 Al contempo, gli agricoltori dotati di più terreni, o di terreni più fertili, prendono alle loro dipendenze contadini poveri o senza terra, utilizzando il loro lavoro come merce e retribuendolo in denaro: il lavoro salariato inizia così a diffondersi. «Alla fine, dunque, il modo di produzione feudale viene spazzato via dal mercato»,174 scrive Mann: tra il 1300 e il 1450 i contadini ricchi e i signori feudali si fondono nella classe capitalistica rurale. La spiegazione proposta da Mann rispetto alla transizione economica dal feudalesimo a un’agricoltura capitalistica combina il riferimento alla domanda, all’offerta e alla demografia, proprio delle teorie economiche classiche, con le categorie marxiste di sfruttamento e di classe; al contempo, essa apporta delle modifiche sia alla concezione classica che a quella marxiana. L’orientamento degli individui al profitto privato e alla competizione produttiva, diversamente da quanto affermato dagli economisti classici, per Mann non è naturale: presuppone piuttosto che «attori autonomi abbiano il potere di disporre, senza interferenza da parte di altri, di risorse possedute privatamente».175 Solo quando i contadini hanno la possibilità di aumentare il loro surplus produttivo e l’interesse a farlo, in quanto hanno 172 Ivi, p. 405. Nel suo A Historical, Not Comparative, Method, cit., J. A. Goldstone sostiene che la «scienza» andrebbe intesa come quinta fonte del potere sociale; nel suo rejoinder dal titolo The Sources of Social Power Revisited (ivi, pp. 343396) Mann si pronuncia contro l’autonomia e l’irriducibilità di essa, ma, come vedremo, tornerà sulla questione con accenti più sfumati nel quarto volume di The Sources of Social Power (cfr. infra, § 5.7.1.). 173 M. Mann, The Sources of Social Power, vol. 1, cit., p. 411. 174 Ibid. 175 Cfr. M. Mann, European Development: Approaching a Historical Explanation, in Europe and the Rise of Capitalism, a cura di J. Baechler, J. A. Hall e M. Mann, Basil Blackwell, Oxford 1987, pp. 6-19: 11.

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decentralizzato nelle loro mani parte delle risorse detenute dal centro, iniziano ad agire in tal senso. La competizione, inoltre, affinché sia economicamente produttiva (piuttosto che una disfunzionale lotta con ogni mezzo), deve avvenire nel contesto di una preesistente regolazione normativa, che stabilizzi le relazioni sociali e le inserisca in una cornice morale di base: cornice che in Europa viene fornita dal cristianesimo.176 Per Mann, quindi, né l’orientamento individuale al profitto né la competizione regolata sono datità naturali. Al contempo, differentemente da Marx,177 egli fa discendere la cosiddetta «accumulazione originaria» non tanto da violenti espropri ai danni dei contadini, quanto, in maggior misura, dall’emancipazione di essi da rapporti di dipendenza personale che, per effetto dell’emergente mercato capitalistico, nemmeno i proprietari terrieri valutano più come convenienti e profittevoli. L’elemento strutturale dello sfruttamento (ad opera prima dei signori feudali sui contadini, poi della nuova classe capitalistica sulle classi subordinate) è ben presente nella narrazione di Mann; non altrettanto però lo è quello di una separazione violenta, considerata al livello dell’azione sociale, dei produttori dai loro mezzi di produzione. 2.8.2. Il potere politico territoriale Nel seguire i primi passi del capitalismo agrario ci siamo spinti fino al 1450, lasciando quindi indietro la trattazione delle altre fonti del potere sociale per seguire unicamente gli sviluppi del potere economico. Riprendiamo dunque le fila del discorso dal XII secolo; questo è il momento in cui in Europa, a partire da piccoli regni feudali i cui sovrani, come abbiamo visto, disponevano di scarsissimo potere infrastrutturale, prende il via il secolare processo di istituzionalizzazione che porterà al sorgere dello Stato moderno, inteso come entità territoriale e centralizzata, munita di potere infrastrutturale e internamente coordinata. Il centro va quindi a estendere il suo potere infrastrutturale sull’intero territorio, sempre più capillarmente e in modo sempre più istituzionalizzato: la tesi di Mann è che l’intensificarsi del potere territoriale e centralizzato dello Stato (che all’inizio corrisponde a un piccolo regno feudale recante le caratteristiche che abbiamo considerato in precedenza) discenda da necessità militari:178 la resistenza dei 176 Ibid. 177 Cfr. K. Marx, Il Capitale, Libro I, La cosiddetta accumulazione originaria, trad. it. Editori Riuniti, Roma 1964, pp. 777-826. 178 Qui Mann si riferisce primariamente allo studio di S. E. Finer, La formazione dello stato e della nazione in Europa: la funzione del «militare», in La formazione degli Stati nazionali, a cura di Ch. Tilly, trad. it. Il Mulino, Bologna 1984, e ai volumi di

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vassalli ad adempiere alla leva feudale e l’imporsi di tecniche e strategie di guerra sempre più dispendiose comporta la necessità, per i signori feudali, di organizzare sul loro intero territorio le risorse amministrative, infrastrutturali e burocratiche volte a raccogliere proventi fiscali bastevoli a stipendiare un esercito di professionisti.179 In questo modo, lo Stato penetra in profondità nella società civile, in un sempre più stretto intrecciarsi su base territoriale di reti di potere militare, politico, economico ed ideologico: una ben definita area socio-spaziale estensiva viene progressivamente unificata dalle funzioni di uno stesso Stato. Lo Stato assume a poco a poco i compiti di regolazione della giustizia che il signore feudale condivideva con la Chiesa; si fa carico della protezione, ricompensata dalla tassazione, delle attività economiche che avvengono all’interno delle sue frontiere; costruisce vie di comunicazione; dedica parte delle spese (non prima del 1600 e in maniera sostanziale solo dal 1800)180 a funzioni civili di proto-welfare. Il caging che lo Stato realizza nei confronti delle popolazioni che abitano sul suo territorio porta queste ultime, intorno al 1300, a sviluppare le prime forme di identità collettiva e linguistica su base statal-territoriale ed a creare i primi mercati interni a uno Stato.181 Lo Stato è quindi un attore di potere a tutti gli effetti, che, mediante la sua azione istituzionale, modifica sensibilmente i rapporti tra i gruppi sociali, creandone altresì di nuovi. Esso, pertanto, non consiste semplicemente in un inerte campo di scontro politico tra gruppi d’interesse; anche la società civile trasforma mediante la sua azione le istituzioni statali, venendo però, in tal modo, ingabbiata sempre più strettamente da esse: «ogni volta che i gruppi sociali davano vita a rivolte contro l’eccessiva tassazione, venivano incorporati più completamente dalla forma-Stato».182 Riguardo a questo punto, Mann cita la sequenza dei cinque successivi passaggi, elaborata da Tilly, che ciclicamente caratterizza lo sviluppo dello Stato e delle sue istituzioni politiche dal 1400 al 1800:183

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M. Howard La guerra e le armi nella storia d’Europa, trad. it. Laterza, Bari 1978, e J. F. Verbruggen, The Art of War in Western Europe during the Middle Ages, North-Holland, Amsterdam 1977. Cfr. M. Mann, The Sources of Social Power, vol. 1, cit., p. 430. Ivi, pp. 453-458 e 461. Nel ripercorrere questi sviluppi, Mann si basa sull’analisi dei bilanci dello Stato inglese che trattava già nel suo articolo del 1979 State and Society, 1130-1815, che abbiamo considerato nel primo capitolo del presente volume. Cfr. infra, § 1.2.2. Ivi, p. 436. Ibid. Ivi, p. 433, e Ch. Tilly, La formazione degli Stati nazionali nell’Europa occidentale, trad. it. Il Mulino, Bologna 1984. Il punto 5 è un’aggiunta di Mann. Cfr. anche

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1. modifica o espansione dell’esercito → 2. rinnovati sforzi statali di estrarre risorse dalla popolazione → 3. sviluppo di nuove forme burocratiche e innovazioni amministrative → 4. resistenza della popolazione → 5. [acuirsi della coercizione da parte dello Stato e/o ampliamento delle assemblee rappresentative] → 6. aumento durevole del prelievo fiscale statale. Con il sorgere dello Stato territoriale e del capitalismo, intrecciati, si inaugura anche l’alleanza tra capitale e Stato: mercanti, agricoltori capitalistici e commercianti, in particolare, necessitano di quest’ultimo per funzioni di difesa, regolazione giuridica e costruzione di vie di comunicazione; lo Stato, a sua volta, necessita di soggetti economicamente produttivi per il prelievo fiscale in funzione delle finalità militari, per mantenere la sua stessa amministrazione centralizzata, far fronte alle spese private della famiglia reale e, soprattutto dal 1700 in poi, alle sue funzioni civili.184 A partire dal 1500, con l’espansione dei commerci internazionali e l’adozione di politiche mercantiliste, le interazioni economiche vengono naturalizzate all’interno dei confini statali: diventa possibile parlare dell’«economia olandese», dell’«economia spagnola» o di quella portoghese, nel contesto di un’ideologia di concorrenza tra nazioni.185 Siamo così giunti alle soglie della rivoluzione industriale, che Mann tratterà nel secondo volume di The Sources of Social Power. L’Europa che si prepara ad accogliere la «più grande rivoluzione di sempre in termini di potere collettivo» è una multi-power-actor civilization costituita da Stati nazionali, reciprocamente interrelati da rapporti commerciali, diplomatici, geopolitici, e da un’ideologia di competizione economica regolata.186 A partire dallo sviluppo di potere intensivo nell’epoca feudale, nel contesto di regolazione normativa reso possibile dal cristianesimo, sono quindi andati generandosi gli elementi che portano alla transizione dal feudalesimo alle prime forme di capitalismo agrario. Non solo il modo di produzione si trasforma, ma, di lì a breve, attraverso un processo di caging, muta anche l’organizzazione politica: le necessità militari dei signori feudali comportano la sempre più forte penetrazione infrastrutturale del loro dominio, e, per influsso delle B. Downing, The Military Revolution and Political Change, Princeton University Press, Princeton 1992. 184 M. Mann, The Sources of Social Power, vol. 1, cit., p. 461. 185 Ivi, p. 473. 186 Ivi, p. 495.

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infrastrutture di coscrizione, di difesa e di esazione fiscale, le popolazioni tornano, per gradi, a sviluppare di nuovo quel senso di identificazione territorial-nazionale di tipo culturale, economico, politico e militare che era andato perduto con il crollo dell’impero romano. 2.9. Osservazioni conclusive: la sociologia storica di Michael Mann Oltre alla dialettica di centralizzazione e decentralizzazione, che abbiamo visto all’opera durante l’intero periodo finora considerato, nelle pagine conclusive del primo volume di The Sources of Social Power Mann delinea un altro tipo di regolarità storica, che, presentando caratteri meno definiti, merita il nome di «dinamica» piuttosto che quello di «dialettica»:187 la dinamica tra multi-power-actor civilizations e imperi. Essa si interseca strettamente con la dialettica di centralizzazione e decentralizzazione, che, lo ricordiamo, riguarda il processo ciclico per cui un certo ammontare del potere di un centro territoriale, a poco a poco, si disperde nella periferia con cui quest’ultimo interagisce. I gruppi periferici, in tal modo, guadagnano la possibilità di imporsi sul centro quali nuovi attori di potere: «un potere regionalmente dominante», pertanto, quale che sia la sua forma, tende a favorire «lo sviluppo delle capacità di potere dei gruppi vicini»,188 che si trasformano così in suoi concorrenti. La dinamica tra multi-power-actor civilizations e imperi riguarda invece la forma di volta in volta assunta dalla leading edge of power, la quale, come abbiamo visto, si sposta durante la storia: nell’era antica il ruolo di leading edge of power viene assunto in alternanza, non da ultimo per effetto della dialettica di centralizzazione e decentralizzazione, da multi-power-actor civilizations e imperi: le multipower-actor civilizations della Mesopotamia, che costituiscono la prima leading edge of power, vengono soppiantate in questo ruolo da imperi di dominio come quello accadico, che inizialmente deriva alcune delle sue tecniche di potere proprio dall’interazione con il centro che poi soppianterà; a loro volta, gli imperi risultanti in seguito alle migrazioni indoeuropee perdono la loro posizione di leading edge a favore delle multi-power-actor civilizations della Fenicia e della Grecia; la Grecia passa il testimone all’impero di dominio, poi territoriale, romano; quest’ultimo, alla sua caduta, costituisce il terreno da cui emerge la multi-power-actor civilization dell’Europa feudale, normativamente unificata dal cristianesimo. Durante 187 Ivi, p. 536. 188 Ivi, p. 539.

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tutto il periodo antico e medievale, imperi e multi-power-actor civilizations, per influsso di una dinamica interna, vanno quindi alternandosi in quanto punti di concentrazione del potere sociale. È evidente, ripercorrendo questa dinamica, come la leading edge of power sia andata spostandosi progressivamente verso occidente: un processo che Mann mette in relazione alla maggiore fertilità dei suoli disponibili a ovest piuttosto che a est, e all’ostacolo politico, militare e/o religioso rappresentato a oriente dai popoli islamici e dai gruppi nomadi delle steppe.189 Mann esamina i dati empirici attraverso l’occhio di un sociologo, allenato a ravvisare in essi modelli di sviluppo, regolarità storiche e nessi causali. Questa è la base della sociologia storica, o macrosociologia, nella cui tradizione egli si situa:190 la macrosociologia consiste in uno specifico tipo di impresa sociologica riferita ad ampi periodi storici e vaste aree geografiche, che viene condotta a partire dal confronto con i dati empirici ma anche mediante le risorse di analisi sociale, riflessione teorica e generalizzazione argomentativa messe a disposizione dalla sociologia. Il ricorso a un approccio macrosociologico, piuttosto che puramente storico e idiografico, permette a Mann di adottare un’attitudine maggiormente sintetica e critica nei confronti dei dati empirici e delle loro possibili interpretazioni: «abbiamo bisogno della teoria per dare un senso ai dati, e abbiamo bisogno di dati affidabili per elaborare le nostre teorie»,191 egli scrive in risposta a John Goldthorpe, che nel 1991 dà vita a una polemica su The British Journal of Sociology con un articolo in cui, attaccando la macrosociologia, sosteneva che storia idiografica e sociologia nomotetica dovessero rimanere ambiti separati.192 La tesi di Mann è che per ottenere «dati affidabili» il sociologo deve, in ampia misura, fare ricorso ai lavori degli storici che vengono direttamente in contatto con le fonti; al contempo, egli può tuttavia analizzare criticamente e con cognizione di causa alcuni dati primari e verificare le interpretazioni fornite dagli storici mediante la sua attitudine alla teoria generale e diacronica, nonché grazie alle sue conoscenze specifiche sull’organizzazione delle società.193 In tal modo, la macrosociologia non solo dà 189 Ivi, pp. 509-510. 190 Riguardo alla teoria di Mann in relazione alla sociologia storica, cfr. W. Spohn, Historical and Comparative Sociology in a Globalizing World, in «Historická sociologie», I (2009), pp. 9-27. 191 M. Mann, In Praise of Macro-Sociology: A Reply to Goldthorpe, in «The British Journal of Sociology», XLV (1994), n. 1, pp. 37-54: 42. 192 Cfr. J. Goldthorpe, The Uses of History in Sociology: Reflections on Some Recent Tendencies, in «The British Journal of Sociology», XLII (1991), n. 2, pp. 211-230. 193 M. Mann, In Praise of Macro-Sociology, cit., pp. 40-41.

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accesso a nuove modalità di verifica e di valutazione dei dati empirici, ma può altresì elaborare teorie di ampio respiro temporale, capaci di ravvisare dialettiche e regolarità storiche e di proporre ipotesi argomentate sulle forme e sullo sviluppo delle società umane nella storia. Mediante l’analisi storico-causale, i ricercatori in questa disciplina possono «considerare le condizioni che hanno dato origine alle istituzioni moderne e che consentono di comprendere la loro natura presente e le loro aspettative di durata»;194 l’attitudine analitica e comparativa praticata dalla macrosociologia «permette di comprendere istituzioni moderne come il capitalismo, o lo Stato nazione, o il dominio patriarcale, mettendole a paragone con le diverse istituzioni economiche, politiche o di genere di altri gruppi sociali»;195 infine, «una macrosociologia di carattere maggiormente astratto-comparativo […] analizza il passato per validare ipotesi generali sulle comunità umane, […] ad esempio cercando di indagare di che tipo siano, “in ultima istanza”, le relazioni di potere tra le élite politiche e le classi economiche dominanti».196 Un approccio, quest’ultimo, che contraddistingue in special misura l’opera di Mann, e che, possiamo notare, si colloca per molti aspetti nella zona di sovrapposizione teorica tra sociologia storica e filosofia politica. Nella sua risposta a Goldthorpe, Mann rifiuta inoltre l’idea, a suo parere presupposta dall’interlocutore, che vi sia una pura verità dei fatti storici, immutabile, indipendente dalle nostre percezioni e completamente trasparente allo sguardo che viene ad essa rivolto. «La mia posizione epistemologica», scrive Mann, «è più kantiana»: siccome una conoscenza oggettiva, totale e neurale dei fatti empirici non è possibile, ma negare ad essi ogni attendibilità ci condurrebbe a un relativismo senza fine, non ci resta che agire «come se» ciò che noi vediamo corrisponda a verità, mantenendo sempre, però, l’apertura a percezioni diverse. Non possiamo quindi che «presentare i fatti come li vediamo, impegnarci nel confronto con il modo in cui altri li vedono, e cercare di convincere questi ultimi, se è il caso, che la nostra percezione ha un maggiore potere esplicativo e predittivo».197

194 195 196 197

Ivi, p. 39. Ibid. Ibid. Ivi, p. 42.

3. CLASSI, STATI E NAZIONI: THE SOURCES OF SOCIAL POWER, VOLUME 2

Nel secondo volume di The Sources of Social Power, pubblicato nel 1993, Mann riprende la sua narrazione storica dal punto in cui l’aveva interrotta, ossia dal 1760, per portarla avanti fino al 1914. Ciò che subito risulta evidente da un rapido confronto con il primo libro della serie è la relativa brevità dell’arco di tempo ora preso in esame, sebbene il volume che stiamo considerando, con le sue 814 pagine fitte di ricostruzioni storiche e complesse analisi teoriche, sia anche il più ponderoso dell’intera opera The Sources of Social Power: una particolarità dovuta all’abbondanza di eventi e di cambiamenti sociali verificatisi nel corso del periodo trattato, come anche all’ampia documentazione disponibile su di essi.1 Se questi aspetti, da una parte, agevolano il lavoro del sociologo, dall’altra lo costringono a ridurre l’estensione temporale di volta in volta abbracciata dalle sue ricostruzioni storico-teoriche. Questo è anche il motivo per cui i volumi della serie, che nel progetto originario di Mann dovevano essere due, poi portati a tre (di cui l’ultimo a carattere prevalentemente teorico), diverranno infine quattro, ognuno dei quali comprensivo di narrativa storica e sezioni teoriche. Un’altra importante differenza che contraddistingue il secondo volume di The Sources of Social Power non solo rispetto al primo, ma anche ai due successivi, è il fatto che, in esso, la trattazione svolta da Mann non riguarda un’estensione geografica globale, bensì abbraccia unicamente l’Europa e il Nord America, considerato in quanto espansione coloniale di quest’ultima. Tanto il primo volume della serie, con le sue incursioni nell’analisi della civiltà cinese o di quelle precolombiane e la sua mutevole leading edge of power, quanto il terzo e il quarto, rispettivamente dedicati agli imperi coloniali europei e al mondo globalizzato contemporaneo, hanno carattere geografico globale. Anche la ragione di questa differenza è presto detta:

1

Cfr. M. Mann, The Sources of Social Power, vol. 2, cit., pp. vii-viii e p. 10.

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questo è stato il primo periodo storico in cui una civiltà regionale [l’Europa e gli Stati Uniti, originariamente colonie d’insediamento europee] è giunta a dominare tutte e quattro le fonti del potere sociale mondiale – ideologico, economico, militare e politico. Un dominio che non è durato a lungo, ma che era ancora effettivo nel giugno del 1914, quando questo volume si interrompe.2

Non di eurocentrismo si tratta, dunque, ma di una consapevole scelta teorica motivata in parte dal materiale storico stesso, e in parte dall’esigenza concettuale di dedicare alla storia globale fino al 1945 l’intero volume successivo: il macro, nel secondo volume di The Sources of Social Power, viene temporaneamente sostituito dal micro. Questa è altresì la ragione per cui la dinamica di imperi di dominio e multi-power-actor civilizations, nel volume che stiamo trattando, sparisce dalla vista: la leading edge of power su cui Mann appunta la sua attenzione, ossia l’Europa occidentale insieme agli Stati Uniti, costituisce essa stessa una multi-power-actor civilization. Al posto degli sviluppi socio-spaziali di ampia portata che avevamo ripercorso nel primo volume attraverso la dialettica di centralizzazione e decentralizzazione e la dinamica tra imperi di dominio e multi-poweractor civilizations, a costituire uno dei principali fili conduttori dell’opera di Mann è ora la nascita e l’evoluzione di tre specifici attori sociali: Stato moderno, classi e nazioni. Le classi sociali e la percezione di una comune identità nazionale, lungi dallo svilupparsi in contrapposizione, emergono insieme, intersecandosi, attraverso il consolidarsi di uno Stato le cui funzioni si fanno sempre più rilevanti per la vita dei cittadini. Questi cambiamenti vengono ripercorsi da Mann con l’aiuto di una teoria dello Stato e una teoria delle classi di sua elaborazione, le quali permettono di tracciare gli sviluppi del maggiore attore politico di questo periodo, il moderno Stato nazionale, e del principale attore economico, le classi sociali. 3.1. Una teoria dello Stato moderno Mann perviene alla sua teoria originale dello Stato, ispirata alla metodologia dello strutturalismo istituzional-simbolico, mediante l’analisi dei vantaggi e delle problematicità delle principali impostazioni vigenti nella sociologia contemporanea: l’approccio marxista, quello pluralista e quello elitista. Le teorie dello Stato marxiste,3 per Mann, sono nel giusto 2 3

Ivi, p. vii. Mann cita come paradigmatiche quelle elaborate da N. Poulantzas, R. Miliband, B. Jessop, C. Offe, Ch. Wright Mills e W. Domhoff.

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quando mettono in luce il carattere capitalistico degli Stati moderni, ma cadono nell’eccesso di identificare il capitalismo come unica proprietà fondamentale di essi.4 Le istituzioni dello Stato, nella visione marxista, altro non sono che uno strumento nelle mani dell’élite capitalistica, identificata come sostanzialmente coesa e unitaria; quest’ultima si serve dello Stato per far prevalere i propri interessi rispetto all’accumulazione di capitale e alla regolazione dei rapporti tra le classi. L’approccio strumentalista di Miliband e quello strutturalista di Poulantzas, contrapposti negli anni ’70 in un’accesa disputa teorica,5 condividono, per Mann, il medesimo riduzionismo marxiano che subordina ogni forma di potere al potere economico. In ambito marxista vi sono anche autori che riconoscono allo Stato propri interessi istituzionali diversi da quelli del capitale (per esempio Claus Offe),6 o che (come C. Wright Mills e G. W. Domhoff)7 lo intendono composto da più ambiti e funzioni controllate da diverse frazioni di classe, rifiutando così l’idea di un’élite capitalistica monolitica; ma sono comunque i rapporti di potere economico che, per la scuola marxista, hanno il primato su tutte le altre fonti. Le teorie pluraliste,8 rispetto a quelle marxiste, restituiscono un’immagine più varia dei diversi attori, interessi e funzioni che compongono il moderno Stato democratico; in esse, tuttavia, lo Stato viene considerato come l’arena in cui si scontrano e si incontrano i diversi gruppi di interesse, piuttosto che, in base a quanto Mann argomentava nel suo articolo The Autonomous Power of the State,9 come un attore dotato di ampi margini di potere autonomo.10 Come per i marxisti, inoltre, per i pluralisti lo Stato è

4 5

6 7 8 9 10

Ivi, p. 45. Cfr. N. Poulantzas, The Problem of the Capitalist State (in «New Left Review», n. 58, 1969, pp. 67-78); R. Miliband, The Capitalist State: Reply to Nicos Poulantzas (in «New Left Review», n. 59, 1970, pp. 53-60); R. Miliband, Poulantzas and the Capitalist State (in «New Left Review», n. 82, 1973, pp. 83-92); N. Poulantzas, The Capitalist State: A Reply to Miliband and Laclau (in «New Left Review», n. 95, 1976, pp. 63-83). Cfr. ad es. C. Offe, The Capitalist State and the Problem of Policy Formation, in Stress and Contradiction in Modern Capitalism, a cura di L. Lindberg et al., Lexington Books, Lexington (MA) 1975, pp. 125-144. M. Mann, The Sources of Social Power, vol. 2, cit., p. 46. Cfr. W. Domhoff , The Power Elite and the State: How Policy is Made in America, De Gruyter, New York 1990; C. Wright Mills, La élite del potere, trad. it. Feltrinelli, Milano 1966. Mann cita come loro rappresentanti R. A. Dahl e S. M. Lipset. Cfr. infra, § 1.3.1. M. Mann, The Sources of Social Power, vol. 2, cit., p. 47. Cfr. R. A. Dahl, Prefazione alla teoria democratica, trad. it. Edizioni di Comunità, Milano 1994.

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unitario: essi lo intendono come uniformemente composto da gruppi d’interesse i cui poteri, sebbene non identici, sono simili quanto basta a dar vita a un’effettiva competizione democratica. Anche la teoria pluralista, sebbene apparentemente sostenga una visione dello Stato più complessa rispetto a quella dei marxisti, incappa dunque in esiti riduzionistici: essa infatti descrive quest’ultimo come niente di più che un campo di scontro tra i gruppi in competizione che, insieme ai cittadini che li sostengono, costituiscono il fondamentale tessuto politico della società; l’onnicomprensiva, singola forma di potere sociale è quella implicata dalla competizione politica e dalla condivisione diffusa di norme di convivenza.11 Le teorie elitiste, al contrario, attribuiscono allo Stato un ampio potere autonomo; al loro interno, secondo Mann, è possibile ravvisare due diverse correnti. Coloro che egli denomina «veri elitisti»12 descrivono le élite statali come fortemente coese e unitarie, enfatizzandone in particolare il potere distributivo:13 esse eserciterebbero la loro azione di governo sulla società al preciso fine di massimizzare i propri interessi. Il maggiore elemento di verità del vero elitismo, sostiene Mann, consiste nel fatto che lo Stato, attraverso l’azione delle élite, è considerato un attore di potere a tutti gli effetti. Anche la rilevanza che i veri elitisti attribuiscono alle relazioni internazionali e all’ambito geopolitico è guardata con favore da Mann.14 Egli, tuttavia, contesta il fatto che il potere dello Stato venga identificato senza residuo con il potere personale delle élite, le quali, per di più, sono descritte come immancabilmente coese, unitarie e sostanzialmente prive di legami con la società civile:15 una casta di potenti separata dalla società, che governa predatoriamente su quest’ultima all’unico fine di perseguire il proprio interesse. A partire dalla critica al «vero elitismo» Mann presenta la sua teoria dello «statismo istituzionale».16 Come dimostrato dai casi empirici che egli ripercorre nella sua narrazione storica, lo Stato moderno non è caratterizzato da un’élite unitaria e coesa; le élite statali, al contrario, sono costituite 11 12 13 14 15 16

M. Mann, The Sources of Social Power, vol. 2, cit., pp. 47 e 88. Ivi, p. 48. Rappresentanti di questa corrente sono per Mann S. D. Krasner, M. Levi, E. Kiser e M. Hechter, G. Poggi. Cfr. ibid. e Ch. Tilly, L’ oro e la spada: capitale, guerre e potere nella formazione degli stati europei, trad. it. Ponte alle Grazie, Firenze 1991. M. Mann, The Sources of Social Power, vol. 2, cit., p. 51. Ivi, p. 52. Radicato nell’elitismo classico di G. Mosca e V. Pareto, l’approccio dello statismo istituzionale è rappresentato, oltre che dallo stesso Mann, da Th. Skocpol.

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da individui le cui identità sociali non promanano solo dallo Stato, bensì, in modi vari e differenziati, si radicano anche nella società civile. Di conseguenza, non è possibile intendere lo Stato come un complesso unitario il cui interesse sia identificabile in tutto e per tutto con quello di un’élite separata dalla società civile e da gruppi di potere non statali. Siamo bensì in presenza di élite statali internamente differenziate, spesso fortemente radicate nella società civile e, al fine di assicurarsi sostegno elettorale o materiale, portate a stringere alleanze strategiche con gruppi organizzati non appartenenti alle istituzioni statali (ad esempio l’alleanza tra Stato e capitale, o tra Stato e Chiesa).17 Nel periodo oggetto del secondo volume di The Sources of Social Power, in particolare, nello Stato coesistono monarchia, militari, burocrazia e partiti politici: un eterogeneo insieme di attori, le cui mutevoli alleanze tra loro e con gruppi della società civile porteranno gli Stati ad azioni raramente riconducibili a un singolo interesse razionalmente e coerentemente perseguito. L’autonomia dello Stato, per Mann, non consiste quindi nel potere di un’élite statale che si vorrebbe unitaria e coesa. Essa «risiede piuttosto nella logica autonoma di determinate istituzioni politiche sorte nel corso di precedenti lotte di potere e successivamente consolidatesi, le quali condizionano poi le nuove lotte».18 Diversamente da quanto egli ancora affermava in The Autonomous Power of the State, il potere statale non è dunque prerogativa di un insieme di individui intesi in senso personale: i singoli individui e gruppi organizzati possono esercitare potere solo mediante le istituzioni, le quali, a loro volta, sulla base delle loro conformazioni consolidate, influiscono sull’azione dei soggetti.19 Come sostenevano gli elitisti classici,20 il potere delle élite statali si origina nella società civile: è sulla base del controllo delle risorse di quest’ultima, siano esse di tipo economico, militare o ideologico, che le élite emergenti possono farsi strada nelle istituzioni statali o, in alcuni casi, rovesciarle violentemente (ad esempio attraverso un colpo di stato paramilitare).21 L’alternarsi delle élite statali è dunque una dinamica che 17 18 19

20 21

Ivi, p. 48. Ivi, p. 52. Ivi, p. 44. In proposito, nella sua recensione al volume, Ch. Sparks scrive che il metodo di Mann costituisce «un interessante tentativo di integrare una descrizione diacronica dell’azione umana con un’analisi sincronica di processi storici». Cfr. Ch. Sparks, recensione a The Sources of Social Power, vol. 2, in «American Journal of Sociology», C (1994), n. 3, pp. 819-820. Cfr. ad es. G. Mosca, Elementi di scienza politica, cit. M. Mann, The Sources of Social Power, vol. 2, cit., p. 48.

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trova la sua origine nel possesso di risorse pregresse esterne allo Stato. Grazie a queste ultime, le nuove élite possono soppiantare i loro predecessori ormai in declino e plasmare le istituzioni statali in base ai propri e diversificati interessi. Mediante il loro controllo sulle istituzioni, le élite statali, internamente differenziate, tendono a consolidare e ad espandere le risorse che, in prima istanza, hanno permesso la loro scalata al potere dello Stato. Il potere statale, quindi, è controllo sulle istituzioni, le quali, mediante la logica di centralità e territorialità impositiva che ad esse pertiene, assicurano ai singoli soggetti che compongono le élite statali la capacità politica di esercitare un impatto significativo sulla società. La lotta per il potere politico, di conseguenza, è lotta per il controllo delle istituzioni o per l’influenza su di esse: questa lotta non riguarda solo le élite statali emergenti e quelle che vengono soppiantate, ma tutti i gruppi che compongono la società, i quali, mediante rivendicazioni e richieste politiche, ambiscono anch’essi a plasmare le istituzioni in corrispondenza dei propri interessi. Le istituzioni dello Stato, oltre che alle logiche di centralità e territorialità impositiva evidenziate in The Autonomous Power of the State, rispondono a un’interna logica di permanenza: esse non sono radicalmente trasformabili da un giorno all’altro, né possono venire rivoluzionate da parte di un unico attore sociale autonomo. Lo Stato, in base alla prospettiva dello «statismo istituzionale», è quindi dotato di un ruolo attivo: esso «istituzionalizza i conflitti sociali che si danno in un certo momento, ma questi conflitti, una volta istituzionalizzati, esercitano un potere considerevole su quelli che vanno successivamente a prodursi».22 Esso, inoltre, non è internamente omogeneo e unitario, bensì plurale, in quanto formato da élite differenziate che agiscono in ambiti diversi e mediante diverse istituzioni. In questo modo, Mann riesce a tenere conto tanto dell’azione delle élite quanto di quella delle istituzioni, tanto delle lotte portate avanti nella società dagli individui quanto della conformazione strutturale di quest’ultima, tanto della permanenza quanto del mutamento istituzionale. Riassumendo, queste sono, per Mann, le caratteristiche strutturali generali dello Stato moderno: – lo Stato è un attore di potere che esercita la sua influenza sulla società mediante le istituzioni; – il potere delle élite statali è quindi controllo sulle istituzioni; – le élite statali sono differenziate e plurali, piuttosto che un gruppo internamente coeso;

22

Ivi, p. 53.

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– esse perseguono i propri interessi mediante le istituzioni dello Stato, che cercano di plasmare a propria misura, subendo però anche l’influenza di determinazioni istituzionali pregresse; – essendo le élite plurali e differenziate, plurali e differenziate saranno anche le istituzioni statali; – tanto ai fini dell’obiettivo di plasmare le istituzioni, quanto, ancor prima, per l’ascesa al potere politico, è fondamentale per le élite disporre di risorse di potere materiale e simbolico nella società civile; – le élite, una volta in possesso del potere politico, mireranno attraverso il loro controllo sulle istituzioni statali a consolidare e ampliare le risorse di cui dispongono nella società civile. 3.1.1. Le cristallizzazioni statali Pur evidenziando come le istituzioni statali possano assumere una varietà di configurazioni, di orientamenti e di compiti diversi, mobilitando differenti gruppi sociali sia a livello nazionale che geopolitico, Mann ritiene, a differenza dei teorici dello «Stato disorganizzato» [foul-up theories of the State],23 che sia possibile giungere a una schematizzazione generale delle più importanti funzioni e determinazioni statali. Ogni Stato dotato di esistenza storico-empirica è caratterizzato da istituzioni specifiche, le quali sono riconducibili, nondimeno, a determinazioni generali che Mann denomina «cristallizzazioni», relative a cinque categorie principali, le quali a loro volta si pongono in rapporto alle quattro fonti del potere sociale. Una «cristallizzazione» è la specifica forma assunta dalle istituzioni di uno Stato all’interno di una varietà di configurazioni possibili, relativamente a una singola categoria tracciata a livello teorico. Nel periodo trattato nel secondo volume di The Sources of Social Power (1760-1914), ad esempio, gli Stati devono far fronte a due sfide principali per quanto riguarda il potere politico: le lotte per la rappresentanza e l’emergere delle coscienze nazionali. In risposta ad esse, gli Stati possono dotarsi di istituzioni rappresentative o meno, e di forme di governo centralizzato, o meno. Mann enuclea quindi la categoria della «rappresentatività» e quella della «centralità»: rispetto alla prima gli Stati potranno assumere una cristallizzazione monarchico-autoritaria, come la Prussia e l’impero austroungarico, o democratico-rappresentativa, come la Gran Bretagna e gli Stati Uniti. Per quanto concerne la «centralità», essi potranno cristallizzarsi nella forma di un governo centralizzato, come ad esempio quello fran23

Ivi, pp. 53-54.

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cese, o federale, come negli Stati Uniti. Rispettivamente alla cristallizzazione costituita dal potere militare, gli Stati potranno configurarsi come militaristi o pacifisti; in relazione a quella relativa al potere economico, come capitalisti o socialisti; e, per quanto riguarda il potere ideologico, le loro istituzioni potranno riflettere e propagandare un’ampia varietà di ideologie. Gli Stati moderni si determinano quindi come «polimorfici», ossia caratterizzati da una pluralità di «cristallizzazioni», geograficamente e storicamente variabili. Mediante l’approccio basato sulle cristallizzazioni, l’estrema molteplicità di conformazioni che le istituzioni dello Stato possono empiricamente assumere nella storia moderna viene ridotta a un limitato numero di determinazioni principali, rendendo possibile effettuare generalizzazioni e presentare ipotesi argomentate quanto alle diverse forme assunte dalle moderne istituzioni statali in relazione agli specifici caratteri del loro contesto di sviluppo: perché, ad esempio, non vi è stata una rivoluzione inglese a fianco di quelle americana e francese? E quali sono le motivazioni all’origine della deriva militaristica che, in alcuni Paesi più che in altri, apre la strada alla prima guerra mondiale? Per Mann, le risposte (che andremo a considerare nello specifico ripercorrendo la narrativa storica) sono radicate nelle diverse cristallizzazioni statali e nella loro interazione con le fonti e gli attori di potere propri della specifica situazione.24 Le singole cristallizzazioni, tanto all’interno di un singolo Stato quanto nelle relazioni di esso con gli altri Stati, si intersecano, si scontrano e si modificano a vicenda, rivelando una natura dinamica piuttosto che statica. Fonte del potere sociale

Politico

Categoria

- Monarchica-autoritaria (es. Prussia/Germania) Rappresentatività - Monarchica-rappresentativa (es. Gran Bretagna) - Repubblicana-democratica (es. Stati Uniti) Centralità

24

Possibili cristallizzazioni statali nell’ambito della leading edge of power, 1760 ca. -1914

- Stato centralizzato (es. Francia) - Stato federale (es. Stati Uniti)

Mann, scrive W. Snyder nella sua recensione al secondo volume di The Sources of Social Power (in «The Journal of Economic History», n. 55, 1995, 1, pp. 167169: 168) «non racconta al lettore la storia di come sono accaduti gli avvenimenti che tratta; al centro della sua attenzione vi sono piuttosto le forme di interazione sociale che spiegano perché tali avvenimenti hanno avuto luogo».

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103 - Stato capitalistico (tutti, a diversi livelli di sviluppo, fino al 1917) - Stato socialista (dal 1917 l’URSS)

Economico

Sistema economico

Militare

Rilevanza potere militare nelle funzioni statali

- Stato militarista (tutti, in diverse gradazioni) - Stato pacifista (solo dopo II guerra mondiale)

Ideologico

Ideologie riflesse e affermate dalle istituzioni

- Nazionalistica (tutti, in diverse gradazioni e con specificità nazionali) - Varie altre ideologie

Per comprendere gli Stati moderni dobbiamo poter specificare le loro particolarità istituzionali, ragionare su di esse e sul loro rapporto a diversi fattori; ma questo è possibile solo riconducendo queste ultime alle cristallizzazioni principali degli Stati, le quali ci permettono di rinviare a un numero ridotto di determinazioni la complessità dei vari e dettagliati casi singoli, senza per questo cadere in esiti riduzionistici. Una teorizzazione dello Stato sufficientemente completa, sostiene Mann, deve tenere conto di tutte e quattro le forme di potere, dal momento che esse sono sempre compresenti e si intersecano reciprocamente nelle diverse cristallizzazioni statali. Grazie al metodo delle cristallizzazioni, diviene possibile identificare quattro tendenze generali che contraddistinguono il periodo storico oggetto del secondo volume di The Sources of Social Power: il progressivo espandersi del capitalismo; il lento cammino verso istituzioni rappresentative più inclusive; la spinta verso la centralizzazione nazionale; una sempre maggiore professionalizzazione e burocratizzazione del potere militare. Tendenze che vedremo all’opera nella narrazione storica che, a partire dal prossimo paragrafo, inizieremo a ripercorrere. 3.2. Le grandi rivoluzioni all’origine di Stato, classi e nazioni Il periodo tra il 1770 e il 1830 viene definito da Mann come la «principale fase creativa della moderna storia occidentale».25 È in questo periodo, infatti, che nei più avanzati Paesi europei si istituzionalizzano le cristallizzazioni statali di maggior rilievo storico: quella relativa al potere militare (mediante Stati che si presentano immancabilmente militaristi, ossia assegnano al potere militare un ruolo fondamentale tra le loro funzioni), al potere economico (nella forma capitalistica), e alle due cristallizzazioni 25

M. Mann, The Sources of Social Power, vol. 2, cit., p. 217.

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concernenti il potere politico (a tal riguardo i diversi Stati presentano varie gradazioni di rappresentatività e centralizzazione). Questo processo di istituzionalizzazione procede di pari passo all’emergere di classi sociali autoconsapevoli e al diffondersi delle identità nazionali, nel contesto di uno Stato che va assumendo una sempre maggior rilevanza per la società civile e va dotandosi di un’amministrazione più estesa, moderna e burocratizzata. In questo stesso periodo ha luogo la più grande trasformazione economica della storia occidentale: la rivoluzione industriale. Essa segna il sorgere del capitalismo industriale in Gran Bretagna, unico Paese che aveva già istituzionalizzato il capitalismo commerciale, e favorisce la nascita di forme di capitalismo e protocapitalismo agrario e commerciale negli altri Stati europei. L’espansione dei commerci che si verifica a partire da questo periodo è favorita altresì dal raggiungimento dell’indipendenza delle colonie americane dalla Gran Bretagna. La rivoluzione americana e la successiva rivoluzione francese trovano per Mann la loro ragione scatenante nell’intensificazione del militarismo geopolitico degli Stati, che provoca un aumento delle pressioni fiscali sulla popolazione. La gabbia si è ormai chiusa, non è più possibile sottrarsi alle pretese e all’influenza degli Stati moderni; l’unica cosa che gli individui possono fare è unirsi per rendere la loro permanenza in essi il meno svantaggiosa possibile, guadagnando quindi accesso a istituzioni rappresentative che possano assicurare loro un potere decisionale sulle politiche statali.26 Le pressioni fiscali indotte dal potere militare determinano le lotte per la partecipazione al potere politico e, con esse, le prime ideologie nazionali; i conflitti per la rappresentanza, a loro volta, favoriscono il sorgere di uno dei principali attori economici della modernità: classi sociali consapevoli di sé. I soggetti, ben presto, si rendono infatti conto che nella lotta per l’accesso alle istituzioni politiche essi partono da collocazioni differenti, determinate in base al loro potere economico e sociale. Diverse classi sociali nutrono interessi differenziati, e solo superando forti opposizioni le classi subordinate riescono progressivamente a conquistare i diritti politici negli Stati rappresentativi. Al contempo, le reti di interazione del commercio, della società civile e dello Stato favoriscono il diffondersi di un’ampia varietà di ideologie, da quelle relative alla modernizzazione 26

Ivi, p. 224. Come afferma R. Schroeder (in Encyclopedia of Power, a cura di K. Dowding, Sage, Los Angeles 2001, p. 400), Mann non concettualizza il potere degli Stati moderni «unicamente nei termini di un apparato coercitivo, come facevano Marx e Weber, ma anche come un prodotto della lotta per la democratizzazione attraverso cui lo Stato incorpora nelle sue istituzioni, mediante la rappresentanza partitica, diversi gruppi di cittadini».

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dell’amministrazione statale in senso burocratico, a forme di coscienza di classe e nazionale, fino alle celebrazioni dello spirito di intraprendenza capitalistico. Dall’analisi delle vicende che portano all’approvazione del Reform Bill britannico, della rivoluzione americana e di quella francese, come vedremo in conclusione alla disamina di questi tre momenti, Mann trarrà delle conclusioni generali di ampio respiro, basate sulla sua teoria delle cristallizzazioni. 3.2.1. La Gran Bretagna nella rivoluzione industriale La rivoluzione industriale è la più grande rivoluzione economica occidentale, ma, specifica Mann, le trasformazioni che essa provoca riguardano quasi esclusivamente il potere collettivo, non quello distributivo: se cioè il potere degli esseri umani di estrarre energia dalla natura e di mobilitare grandi numeri di persone, come anche «il potere collettivo della civiltà europea di sfruttare civiltà meno sviluppate»27 vanno incontro a un aumento senza precedenti, la distribuzione delle risorse all’interno di questa stessa civiltà non subisce variazioni di rilievo, denotando così l’«enorme adattabilità dei regimi dominanti».28 Emergono, sì, nuovi attori collettivi – Stati moderni, classi politiche estensive e nazioni – ma i gruppi che possedevano il controllo di più ampie risorse di potere, piuttosto che subire esiti redistributivi, consolidano e aumentano tale controllo. Anche in un panorama per molti versi rapidamente cambiato, sostiene quindi Mann seguendo la linea continuistica già tracciata da autori come B. Moore, A.J. Mayer, P. Corrigan e D. Sayer, gli attori dominanti mantengono la loro posizione di supremazia:29 il motivo di questa mancata trasformazione va ravvisato, in base allo statismo istituzionale di Mann, nell’influenza che istituzioni pregresse esercitano sulle nuove trasformazioni sociali. Nello specifico, la Gran Bretagna di inizio 1800 era l’unico Paese europeo che, sul piano politico, avesse istituzionalizzato i diritti civili e una rudimentale democrazia rappresentativa, estesa solo all’ancien régime; a rendere la Gran Bretagna un caso unico in Europa contribuiva anche il fatto che essa fosse già contraddistinta da un’economia di capitalismo agrario e commerciale. Sotto quest’ultima venivano sostanzialmente ad accomu27 28 29

M. Mann, The Sources of Social Power, vol. 2, cit., p. 14. Ivi, p. 15. Ivi, p. 17. Cfr. B. Moore, Le origini sociali della dittatura e della democrazia, trad. it. Einaudi, Torino 1969; P. Corrigan e D. Sayer, The Great Arch, Blackwell, Oxford 1985; A. J. Mayer, Il potere dell’Ancien régime fino alla 1. guerra mondiale, trad. it. Laterza, Roma 1983.

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narsi gli interessi, relativi a una politica economica di laissez faire, della piccola borghesia commerciale e di un ancien régime di proprietari terrieri che, differentemente dal caso francese, imparano ben presto a fare uso delle proprie risorse in un’ottica capitalistica:30 il mercato, anche durante gli sconvolgimenti che preludono all’inclusione della piccola borghesia nelle istituzioni rappresentative, funge quindi da collante per gli interessi di classi politicamente disomogenee. La presenza di iniziali forme di democrazia rappresentativa, inoltre, incanala fin da subito i conflitti esistenti nella direzione di una loro ricomposizione nel quadro di istituzioni parlamentari più inclusive.31 Tutti questi aspetti fanno sì che la contrapposizione tra borghesi e ancien régime, che a un certo punto si accende per effetto di più forti pressioni fiscali-militari, non sfoci, come in Francia, in esiti rivoluzionari, ma al contrario si risolva nella fusione delle due classi in un’unica classe dominante capitalistica, sotto quello che Mann denomina un «liberalismo di ancien régime».32 I rapporti di potere distributivo non vengono in tal modo alterati, pure a fronte di un’immensa trasformazione, quantitativa e qualitativa, del potere collettivo. Lo Stato britannico di inizio 1800, come già accennato, era contraddistinto da un’embrionale cristallizzazione democratico-rappresentativa; sostanzialmente esclusa dalle istituzioni parlamentari basate sul censo, tuttavia, era la borghesia. I borghesi più ricchi godevano o avrebbero potuto godere del diritto di voto, ma il potere politico era saldamente nelle mani dell’ancien régime: oltre che alle basi censitarie del suffragio, questo esito era dovuto a sistemi di voto clientelare e al fatto che l’aristocrazia ereditaria manteneva il controllo di un ampio numero di circoscrizioni elettorali che negli anni erano andate spopolandosi, i cosiddetti «borghi putridi».33 Essi, sebbene poco rappresentativi e facilmente controllabili a causa della scarsa popolazione, conservavano ancora gli antichi confini e il diritto di eleggere rappresentanti per il parlamento, falsando così, in favore della nobiltà agraria, i risultati elettorali. Ma perché le classi escluse dal voto o prive di effettivo potere politico avrebbero dovuto desiderare la partecipazione nelle istituzioni di uno Stato pressoché privo di funzioni civili, il quale si occupava unicamente di mantenere un modicum di ordine sociale e, per il resto, era particolaristicamente in mano dell’ancien régime?34 30 31 32 33 34

M. Mann, The Sources of Social Power, vol. 2, cit., p. 92. Cfr. in proposito anche R. A. Dahl, Poliarchia. Partecipazione e opposizione nei sistemi politici, trad. it. Franco Angeli, Milano 1990. M. Mann, The Sources of Social Power, vol. 2, cit., p. 92. Ivi, p. 108 Ivi, p. 112.

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La ragione è da ricercarsi nelle pressioni fiscali, determinate dalle spese militari: dal 1760 al 1815, in coincidenza con la fine della guerra dei sette anni (1763), con la rivoluzione americana (1776-1783) e con la rivoluzione francese e le guerre napoleoniche (1792-1815) il carico di tassazione va rapidamente aumentando, in particolare per le classi proprietarie prive di rappresentanza elettorale. Esse, esenti dai privilegi fiscali di cui l’ancien régime godeva grazie al suo uso particolaristico delle istituzioni rappresentative, iniziano a richiedere diritti di partecipazione politica, anche mediante la diffusione di una vivace stampa radicale.35 Alcuni membri della nobiltà, da parte loro, premono per uno Stato più moderno e inclusivo, dotato di un’amministrazione più efficiente e meno costosa.36 L’aumento dell’estrazione fiscale per ragioni militari, questa è la tesi di Mann, dà quindi vita a una lotta di classe politica e nazionale, proprio come nei secoli precedenti aveva dato impulso al sorgere degli Stati territoriali: la piccola borghesia, affiancata da modernizzatori provenienti dalle fila dell’ancien régime, richiede piena rappresentanza per le classi proprietarie. Una simile alleanza, basata su ragioni ideologiche e su una comunanza di interessi economici, era motivata, per l’aristocrazia ereditaria, anche dall’esigenza di prevenire un saldarsi delle lotte della piccola borghesia con quelle del popolo, come era avvenuto nel caso della rivoluzione francese: un’eventualità improbabile, dato il carattere apolitico delle «rivolte per il pane» messe in atto dalle classi popolari britanniche37 e dall’ampia distanza sociale e culturale che separava la piccola borghesia da queste ultime, ma comunque da scongiurare. È proprio il combinarsi di interessi economici e timori politici che, nel 1832, dopo un tentativo fallito nell’anno precedente, spinge un parlamento sostanzialmente dominato dall’ancien régime ad «autoriformarsi», approvando il Reform Bill: viene così ampliato il corpo elettorale da circa 400.000 elettori a 650.000 e, assegnando un più adeguato numero di seggi alle grandi città che si erano sviluppate con la rivoluzione industriale, diminuisce il numero dei «borghi putridi». L’ancien régime, quindi, «si converte ai nuovi princìpi»,38 quelli del liberalismo, dando vita a un’unica classe capitalistica e politica formata dai detentori di proprietà e assicurandosi, in tal modo, la possibilità di «sopravvivere in nuovi colori liberali».39 L’alle35 36 37 38 39

Ivi, pp. 105-106. Ivi, p. 124. Ivi, pp. 121-122. Ivi, p. 126. Ivi, p. 129; l’analisi di Mann smentisce quindi la concezione di T. H. Marshall (Citizenship and Social Class, in Id., Sociology at the Crossroads, cit.) per cui

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anza tra borghesia e ancien régime, sebbene a un certo punto fosse stata temporaneamente compromessa dall’aumento della pressione fiscale e dal diffondersi di ideologie radicali tra la piccola borghesia, aveva profonde motivazioni economiche: si basava sulla comunanza di interessi capitalistici tra le due classi, acuita dalla progressiva, sempre più forte adesione dell’aristocrazia ai princìpi del libero mercato. La rivoluzione industriale comporta infatti la graduale penetrazione della nobiltà agraria negli ambiti dell’industria, del commercio e della finanza, e, dunque, l’abbandono degli orientamenti protezionistici che la sua precedente vocazione terriera le suggeriva.40 Questo esito, scrive Mann, non avrebbe potuto verificarsi in assenza di già consolidate istituzioni rappresentative, che incanalano in senso parlamentaristico il conflitto tra le classi, e di un capitalismo commerciale già sviluppato, il quale fornisce l’impulso per una riorganizzazione della classe dominante che lascia sostanzialmente immutati gli equilibri di potere distributivo. L’emergere della piccola borghesia come classe consapevole dei propri interessi deriva quindi tanto dallo sviluppo economico prodotto dalla rivoluzione industriale, quanto dalle lotte per la rappresentanza politica risultanti dalle pressioni fiscali generate da ragioni militari; queste stesse lotte sono all’origine della maturazione, nelle classi sociali che in esse si contrappongono, della percezione ideologica della propria appartenenza nazionale. Classi, Stati moderni e nazioni sono attori sociali che si sviluppano insieme, nell’ambito di uno stesso processo, il quale coinvolge tutte e quattro le fonti del potere. 3.2.2. «Una critica sociale radicale a partire dall’alto» Prima di trattare la seconda grande rivoluzione di questo periodo, quella americana, andiamo a considerare un’obiezione che, prendendo le mosse da un aspetto particolare della ricostruzione storica svolta da Mann, è rivolta più in generale alla prospettiva di fondo da cui egli guarda alla società. Mann, nel primo volume di The Sources of Social Power, ritiene, come abbiamo visto, che le sommosse per il pane del popolo minuto britannico fossero rivolte apolitiche. Tali sollevazioni non avrebbero cioè, per Mann, implicato più ampie rivendicazioni politiche di tipo egualitario al di là delle

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la borghesia, in quanto classe «intrinsecamente democratica», sarebbe fondamentalmente l’unica responsabile del progresso verso l’espansione dei diritti di rappresentanza. M. Mann, The Sources of Social Power, vol. 2, cit., pp. 128-129.

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richieste economiche contingenti; avrebbero trovato il più delle volte il loro destinatario in attori economici (come incettatori, o mugnai e fornai esosi) piuttosto che politici; e, anche in quest’ultimo caso, sarebbero state mirate, quali dimostrazioni ritualizzate, a richiamare il benevolo intervento delle autorità su una situazione di esasperazione economica, piuttosto che a mettere sotto accusa queste ultime. Storici come E.P. Thompson e J. Foster,41 secondo Mann, avrebbero quindi «esagerato il radicalismo delle classi popolari».42 Frank Trentmann, nel suo saggio The ‘British’ Sources of Social Power,43 afferma che la considerazione assegnata da Mann ai conflitti protocapitalistici nel primo volume di The Sources of Social Power è insufficiente e parziale. Sono infatti molte e prestigiose le ricerche, condotte soprattutto nell’ambito della social history, che attestano le finalità e le retrostanti convinzioni politiche di tali lotte;44 questa parzialità di Mann deriverebbe da un problema teorico più generale, relativo alla concezione organizzativa del potere adottata dall’autore. Per effetto di essa, sostiene Trentmann, Mann concentra la sua attenzione sulle reti di potere che empiricamente appaiono più consolidate, stabili ed evidenti, ossia sulle strutture e sulle istituzioni sociali, piuttosto che su interazioni più fluide, dotate di minor stabilità, o meno capaci di lasciare marcate tracce nella storia.45 La conseguenza è che, nell’immagine storica proposta da Mann, le élite, che agiscono attraverso le istituzioni, risultano attive, ideologicamente autoconsapevoli e organizzate; le classi popolari, che detengono scarso potere istituzionale ed esplicano la loro azione mediante forme di organizzazione e di comunicazione meno strutturate, appaiono invece passive di fronte all’oppressione, tutt’al più reattive e, in ogni caso, decentrate rispetto alle élite dominanti. Dalla trattazione che Mann compie rispetto alla società moderna emerge dunque la pessimistica immagine di un’élite economica e politica che esercita uno spropositato potere istituzionale su un popolo disorganizzato, impotente e 41 42 43 44

45

J. Foster, Class Struggle and the Industrial Revolution, Weidenfeld and Nicolson, London 1974; E.P. Thompson, Rivoluzione industriale e classe operaia in Inghilterra, 2 voll., trad. it. Il Saggiatore, Milano 1969. M. Mann, The Sources of Social Power, vol. 2, cit., p. 122. F. Trentmann, The ‘British’ Sources of Social Power: Reflections on History, Sociology, and Intellectual Biography, in An Anatomy of Power, cit., pp. 285-305. Ci limitiamo a ricordare, oltre ai già citati Foster ed E. P. Thompson, G. Rudé, Ideologia e protesta popolare. Dal medioevo alla rivoluzione industriale, trad. it. Editori Riuniti, Roma 1988; B. Sharp, In Contempt of All Authority, University of California Press, Berkeley 1980; A. Wood, Riot, Rebellion and Popular Politics in Early Modern England, Palgrave, Basingstoke 2002. Cfr. F. Trentmann, The ‘British’ Sources of Social Power, cit., p. 294.

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passivo; a quest’ultimo, nonostante tutto, vanno le simpatie dell’autore46 (che, non dimentichiamolo, è pur sempre il teorico dell’«accettazione pragmatica»). Quella di Mann, nelle parole di Trentmann, è quindi «una critica sociale ‘radicale’ svolta a partire dall’alto»,47 e l’interazionismo strutturalsimbolico proposto da Mann appare sbilanciato dalla parte della struttura. Un’adeguata considerazione del ruolo storico delle classi subordinate, sostiene Trentmann, avrebbe richiesto di rivolgere una maggiore attenzione all’indagine dell’azione sociale di tutti i gruppi che compongono la società: tale metodologia avrebbe permesso di discernere le forme di organizzazione e di elaborazione normativa alla base delle lotte delle classi subordinate, la loro percezione dell’oppressione e la loro attiva, per quanto reiteratamente sconfitta, contrapposizione ad essa. Una obiezione analoga viene rivolta a Mann da Peter G. Stillman: per l’autore di The Sources of Social Power, afferma Stillman, «gli schiavi esistono occasionalmente, quando si rivoltano o quando sono essenziali per l’economia; le donne non fanno quasi mai la loro comparsa […]; l’unica infanzia che viene menzionata è quella di Luigi XIV. […] Le relazioni famigliari (e i loro effetti su coloro che crescono all’interno di esse) non sono praticamente considerate».48 3.2.3. La rivoluzione americana Nella rivoluzione americana, lotta per la rappresentanza politica e percezione di identità nazionale si uniscono in un intreccio ancor più stretto. 46 47

48

Ivi, p. 286 e 289. Ivi, p. 293; cfr. anche la già citata recensione di B. Moore, in cui, a p. 177, egli scrive: «Di sicuro, Mann è vulnerabile all’obiezione di essere uno storico topdown del potere. Sia le sue definizioni che il suo linguaggio […] mostrano che egli guarda al problema dell’ordine attraverso gli occhi del governante e dell’amministratore. D’altronde […], il problema di come istituire e mantenere un ordine sociale era molto serio nel corso di tutto il periodo oggetto del suo studio; non è una creazione del punto di vista di Mann». Cfr. P. G. Stillman, recensione a The Sources of Social Power, vol. 1, in «The International History Review», IX, 1987, n. 2, pp. 308-311: 310. Vedremo come questa effettiva carenza dell’approccio metodologico di Mann, presente soprattutto nel primo volume di The Sources of Social Power e a tratti nel secondo, verrà poi in gran parte superata nel terzo e nel quarto, rispettivamente del 2012 e del 2013, come anche nei volumi tematici Fascists (2004) e Il lato oscuro della democrazia, nei quali la considerazione dell’azione sociale sarà uno dei punti salienti dell’analisi condotta da Mann. La stessa trattazione delle lotte di classe nell’ambito del secondo volume di The Sources of Social Power tiene in conto l’azione sociale dei lavoratori e il ruolo, per i movimenti operai, delle comunità famigliari e di vicinato. Cfr. infra, § 3.5.

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Nel 1760, le colonie della Gran Bretagna in America erano abitate da circa due milioni di persone; a causa della distanza che le separava dalla Gran Bretagna, le colonie godevano di ampi margini di libertà rispetto all’influenza amministrativa e decisionale della madrepatria. Le loro istituzioni, dal punto di vista economico, politico, militare e ideologico, erano non molto dissimili da quelle britanniche; tuttavia vi erano già almeno cinque particolarità che differenziavano le colonie rispetto alla Gran Bretagna:49 – la loro organizzazione politica non centralizzata, bensì locale; – un’economia prevalentemente agraria ma a forte connotazione capitalistica, basata su unità economiche indipendenti e sostenuta da un’ideologia del profitto personale; – ideologie razziste stabilmente istituzionalizzate, a costituire un tratto permanente della quotidianità: esse, teorizzate in tutta Europa, nelle colonie venivano abitualmente praticate contro neri e indiani; – una comunità bianca internamente molto coesa, grazie a condizioni economiche sostanzialmente omogenee, alla prevalenza della religione protestante, e a una forte partecipazione alla vita comunitaria; – l’indipendenza della maggior parte dei colonizzatori, infine, da reti di potere clientelari o da forme di subordinazione personale: in una società economicamente piuttosto egualitaria, una diffusa ideologia di individualismo sostituiva la deferenza alle classi dominanti tipica delle classi subordinate europee. Molti di questi tratti permarranno nella società americana successiva all’indipendenza e influenzeranno la sua conformazione politica: le istituzioni pregresse, lo abbiamo visto tracciando la teoria dello Stato elaborata da Mann, condizionano le forme istituzionali successive. Prima della rivoluzione, come frequentemente accadeva anche in Europa, i cittadini comuni erano sostanzialmente indifferenti tanto al governo della madrepatria quanto a quello della loro colonia. È solo in modo graduale che vengono a crearsi le prime concrezioni di potere economico e politico consolidato, in particolare attraverso il progressivo sorgere di un’aristocrazia terriera nelle colonie del sud,50 ma sempre in un clima di scarsa attenzione dei cittadini alla politica.51 La situazione cambia radicalmente, come nel 49 50 51

Ivi, p. 137. Ivi, p. 143. Cfr. R. J. Dinkin, Voting in Provincial America, Greenwood Press, Westport, 1977, e D. H. Fischer, The Revolution of American Conservatism, Harper & Row, New York 1965.

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caso britannico appena considerato e in quello francese, che vedremo a breve, quando, per effetto della guerra dei sette anni, la Gran Bretagna inizia a imporre un più alto prelievo fiscale alle colonie; esse, inoltre, in seguito alla vittoria britannica su Spagna e Francia, non necessitano più della protezione della madrepatria, volta ad evitare che francesi e spagnoli potessero inviare aiuti ai nativi americani i quali, nei territori dell’ovest, si opponevano ai colonizzatori:52 i tempi sembrano quindi maturi per affermare l’interesse, in prima istanza economico, all’indipendenza. Un interesse economico che ben presto assume connotazioni politiche e morali: l’imposizione di tasse a cittadini privi di rappresentanza politica viene intesa come un affronto ai princìpi di autonomia, libertà e eguaglianza caratteristici dello «spirito americano», i quali vengono sempre più spesso evocati su giornali, pamphlet e durante assemblee e dimostrazioni:53 la consapevolezza nazionale si intreccia e fa tutt’uno con la lotta per la rappresentanza politica. La contrapposizione delle colonie alla madrepatria dà luogo a un’escalation di ostilità che, nel 1775, porta la Gran Bretagna a fare ricorso all’esercito. I coloni rispondono a loro volta con le armi. Si trattava di un conflitto che i coloni, considerevolmente meno organizzati rispetto all’esercito britannico, avrebbero potuto vincere solo mediante un’estesa mobilitazione: i padri fondatori, appartenenti alle classi proprietarie, iniziano perciò a giustificare la ribellione mediante princìpi di governo popolare, a proclamare la rivoluzione in nome del popolo, e, nel complesso, a fare uso di parole d’ordine di orientamento democratico.54 Questa mossa, come avverrà anche nel caso francese, assicura un’ampia partecipazione popolare al movimento rivoluzionario, garantendogli infine la vittoria; al contempo, essa conferisce a quest’ultimo una direzione democratica che, al di là dei proclami, non era nelle intenzioni né negli interessi dei patrioti a capo della rivoluzione. Alcune forme di potere ideologico, come l’appello agli ideali di eguaglianza e di democrazia, sembrano possedere una certa misura di autonomia dalle intenzioni e dalle finalità di attori che, come in questo caso, ne facciano un uso strategico: esse si diffondono e creano una mobilitazione emotiva della popolazione che non può più essere arrestata, la quale, infine, contribuisce a plasmare le istituzioni in senso democratico, ponendosi con ciò come forza al contempo ideale e reale. Si può sostenere (anche se per 52 53 54

M. Mann, The Sources of Social Power, vol. 2, cit., p. 144. Ivi, p. 145. Cfr. P. Davidson, Propaganda and the American Revolution, University of North Carolina Press, Chapel Hill 1941; B. Bailyn, The Ideological Origins of the American Revolution, Harvard University Press, Cambridge (MA) 1967. M. Mann, The Sources of Social Power, vol. 2, cit., p. 151.

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Mann si tratterebbe probabilmente di una tesi eccessivamente idealistica) che questo «potere autonomo» degli ideali democratici sia da riferire in ultima istanza al loro intrinseco carattere universalistico: esso, a partire da sé, spinge ogni soggetto a riferire tali ideali anche a se stesso, senza che possano essere avanzate argomentazioni convincenti a dimostrare che qualcuno debba essere escluso.55 La guerra rivoluzionaria, combattuta «dal basso», in poco tempo destabilizza i rapporti di potere locali tra ricchi possidenti e gente comune: con la vittoria sulla Gran Bretagna viene istituzionalizzato un sistema di democrazia di partito a suffragio progressivamente allargato, nel quadro di una repubblica federale.56 La cristallizzazione democratica dello Stato americano, rispetto a quelli europei, ha una particolarità: essa, specifica Mann, sottintende il primato dei diritti individuali su quelli collettivi. La libertà personale viene cioè intesa come inscindibile dai diritti di proprietà, in una riproposizione dell’ideologia di individualismo e dell’impostazione capitalistica che, fin dal principio, contraddistingueva le colonie americane. Secondo Mann, dunque, relativamente agli Stati Uniti è possibile parlare insieme a C.B. MacPherson di «individualismo proprietario», sebbene, contrariamente a quanto sostiene l’autore di Libertà e proprietà alle origini del pensiero borghese, le radici di questa ideologia non possano essere fatte risalire alle concezioni affermate nel diciassettesimo secolo da Hobbes e Locke,57 bensì alla rivoluzione americana. Inserendo qui una delle sue molte obiezioni alla teoria evoluzionistica dei diritti di T. H. Marshall, Mann sostiene altresì che quest’ultima viene smentita dal caso americano: non solo gli Stati Uniti danno scarso sviluppo ai diritti di cittadinanza sociale, ma, oltretutto, i diritti collettivi (ad esempio quelli rivendicati dai sindacati per i lavoratori) restano sempre subordinati ai diritti di proprietà individuali dei detentori di capitale, come più avanti avremo modo di vedere trattando il movimento operaio americano.58 55

56 57 58

Si veda anche, a questo riguardo, la trattazione del diffondersi del cristianesimo delineata nel capitolo precedente: era proprio il carattere universalistico della prospettiva di salvezza dispiegata dalla religione cristiana a porsi come risposta, valida per ogni soggetto, alle contraddizioni pratiche dell’ordine sociale romano; allo stesso modo, si potrebbe argomentare, la forza universalistica dell’ideale democratico rivela le contraddizioni insite nelle disparità di potere politico, come, per l’appunto, contraddizioni, piuttosto che come datità naturali. Ivi, p. 155. Ivi, pp. 157-158. Cfr. C. B. Macpherson, Libertà e proprietà alle origini del pensiero borghese, trad. it. Mondadori, Milano 1982. M. Mann, The Sources of Social Power, vol. 2, cit., p. 158. Cfr. infra, § 3.5.

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Per quanto riguarda la cristallizzazione relativa alla centralizzazione nazionale, gli Stati Uniti si collocano all’estremo costituito da uno Stato federale e decentralizzato, basato su una netta separazione dei poteri: una scelta che, motivata dalla volontà di prevenire eventuali mire dispotiche e accentratrici, riflette però anche l’influenza delle forme di governo locale precedentemente istituzionalizzate.59 Al contempo, vengono previste infrastrutture statali centralizzate per favorire lo sviluppo del grande capitale:60 un’ulteriore cristallizzazione dello Stato americano, presente fin dal principio, è infatti quella capitalistica, che esso sviluppa più di tutti gli altri Stati occidentali. Mentre le masse popolari si concentrano sull’ottenimento della democrazia, i ceti proprietari mirano all’istituzionalizzazione dei diritti individuali e della tutela della proprietà: ciò che ne risulta è una democrazia politica, non economica, la quale conserva e riproduce le ineguaglianze di potere materiale che già stavano emergendo ai tempi della rivoluzione americana.61 Ad esse si associa una cristallizzazione militaristica portata al suo estremo, in particolare, nel periodo che stiamo prendendo in esame, per quanto riguarda il militarismo interno: tanto contro i nativi americani quanto contro il movimento operaio, che, come vedremo, viene represso con estrema brutalità.62 3.2.4. La rivoluzione francese La terza grande rivoluzione avvenuta nel periodo che stiamo prendendo in esame è la rivoluzione francese. In essa gli storici hanno spesso ravvisato la lotta vittoriosa dell’emergente borghesia capitalistica contro l’ancien régime feudale. Mann, insieme ad altri rappresentanti della sociologia storica come Goldstone e Skocpol,63 contesta questa interpretazione: per l’autore di The Sources of Social Power, la rivoluzione francese non inizia come una lotta di classe, bensì come una «lotta per il privilegio» interna all’ancien régime: in una situazione di grave crisi fiscale, indotta, come di consueto, dalle spese militari, si trovano reciprocamente contrapposte la nobiltà, che intende mantenere i propri privilegi ed esenzioni fiscali, e la monarchia, che, impossibilitata a perdere l’appoggio dell’aristocrazia, 59 60 61 62 63

Ivi, p. 156. Ivi, p. 163. Ibid. Ivi, p. 162, e cfr. infra, § 3.5. Cfr. Th. Skocpol, Stati e rivoluzioni sociali, trad. it. Il Mulino, Bologna 1981; J. Goldstone, Revolution and Rebellion in the Early Modern World, University of California Press, Berkeley 1991.

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preme però per l’abolizione di tali privilegi. Solo in seguito, non da ultimo per l’incapacità dello Stato assoluto francese di istituzionalizzare i conflitti, la contrapposizione alla monarchia si espanderà alle altre classi sociali, assumendo caratteri propriamente rivoluzionari. Basandosi sul suo statismo istituzionale, Mann perviene a questa ricostruzione storica mettendo in relazione osservazioni condotte direttamente sui dati empirici con un esame delle cristallizzazioni dello Stato francese prerivoluzionario e una considerazione analitica dei diversi attori sociali coinvolti: in questo modo, la sua interpretazione della rivoluzione francese giunge a combinare il revisionismo militar-fiscale introdotto nell’ambito della sociologia storica da Skocpol e Behrens,64 la considerazione dell’influenza che le istituzioni esistenti esercitano sugli eventi che vengono storicamente a prodursi, come anche l’attenzione alle dinamiche di classe nonché alle forme di potere ideologico che, sulla base di canali di trasmissione materiale, vengono dispiegandosi in questo periodo. La Francia del 1780 era basata su un’economia prevalentemente agricola, caratterizzata da forti diseguaglianze, le quali però, in misura più o meno simile, erano presenti in ogni altro Paese europeo del tempo. Ciò che rendeva la situazione francese particolarmente critica era la condizione delle finanze statali. La lotta con la Gran Bretagna per la supremazia globale, combattuta durante tutto il diciottesimo secolo, aveva lasciato alla Francia, oltre che una serie di brucianti sconfitte, finanze gravemente dissestate. Ad aggravare questa condizione contribuiva il fatto che il potere di estrazione fiscale dello Stato francese fosse estremamente scarso. Anche questo aspetto costituisce una caratteristica dipendente dalle cristallizzazioni statali: gli Stati costituzionali e parlamentari, come la Gran Bretagna, si basavano su prelievi fiscali che venivano discussi e approvati in parlamento dai rappresentanti delle classi che avrebbero poi dovuto portarne il peso – principalmente ricchi commercianti e proprietari terrieri; l’estrazione fiscale avveniva quindi su basi di consenso, era sufficientemente ampia, e veniva facilitata dal forte potere infrastrutturale dello Stato. Per le monarchie assolute, e in particolare per la Francia, la situazione era ben diversa. In mancanza di istituzioni rappresentative, l’estrazione fiscale era regolata sulla base di accordi particolaristici: in uno Stato sostanzialmente privo di potere infrastrutturale, il re poteva sperare di implementare le sue decisioni nei territori locali solo grazie all’appoggio attivo dell’aristocrazia terriera e dei ricchi commercianti che direttamente controllavano questi territori. Lo Stato, quindi, non poteva fare a meno del sostegno dei nobili, ed era 64

Cfr. C. B. A. Behrens, The Ancien Regime, Thames & Hudson, London 1967.

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costretto a cedere di fronte alle loro richieste di conservare e aumentare i privilegi e le esenzioni fiscali di cui già godevano. Al contrario che negli Stati parlamentari, il consenso sociale si basava quindi sull’esclusione (fiscale) da parte dello Stato centrale, piuttosto che sull’inclusione (politica) in esso attraverso le istituzioni rappresentative.65 Se dunque, a prima vista, il re assoluto sembrava possedere più potere rispetto a un sovrano costituzionale costretto a confrontarsi con il parlamento, la realtà era ben diversa: il monarca assoluto possedeva certamente un più ampio ammontare di potere dispotico, ma questo gli era di scarsa utilità; per affermare il suo potere infrastrutturale egli era costretto al perenne compromesso, su basi particolaristiche e da essi continuamente rinegoziabili, con gli attori sociali che effettivamente disponevano del controllo sul territorio. I molti e vari privilegi fiscali della nobiltà (come anche, in misura minore ma comunque consistente, di mercanti e ricchi commercianti) facevano sì che la tassazione ricadesse in gran parte sulla piccola borghesia e sui contadini, sempre meno in grado di farvi fronte. In questa fase, afferma Mann, in Francia non esisteva una classe borghese autoconsapevole: quella che avrebbe potuto essere la borghesia non si poneva in contrasto con l’ancien régime affermando valori ad esso alternativi, come era stato in Gran Bretagna nella fase che aveva preceduto l’approvazione del Reform Bill; piuttosto, mirava a una mobilità verso l’alto, a un’assimilazione nelle classi nobiliari.66 A partire dal 1760, per effetto del rapido aggravarsi della situazione fiscale, la corona tenta a più riprese di attuare riforme volte all’abolizione di una parte delle esenzioni nobiliari; di fronte alla resistenza dell’aristocrazia, però, il monarca è ripetutamente costretto a fare marcia indietro. Il problema francese, per Mann, era quindi di natura organizzativo-istituzionale: la Francia non disponeva di un centro di autorità univoco che, mediante la forza o procedure di legittimazione rappresentativamente istituzionalizzate, potesse superare la situazione di stallo. In questo frangente l’aristocrazia inizia a difendere il proprio privilegio in termini ideologici: la corona, facendo pressione per l’abolizione delle esenzioni fiscali, stava cioè, secondo i nobili, attentando ai diritti di proprietà, alle leggi tradizionali e consuetudinarie, e alle difese locali contro il dispotismo.67

65 66 67

M. Mann, The Sources of Social Power, vol. 2, cit., p. 172. Ivi, p. 173. Cfr. J. Goldstone, Revolution and Rebellion in the Early Modern World, cit., p. 237. M. Mann, The Sources of Social Power, vol. 2, cit., p. 181.

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È nel nome del principio di libertà, e specificamente della «libertà dalla monarchia», che in questa fase emergono due conflitti molto diversi: da una parte, quello tra re e nobiltà; dall’altra, inizialmente sull’onda del primo ma con contenuti opposti, le rivendicazioni avanzate dagli ideologi illuministi, i quali, da posizioni antiassolutiste, richiedono con decisione istituzioni rappresentative. Lo Stato francese deteneva uno scarso controllo sulle reti di trasmissione ideologica presenti sul suo territorio. I princìpi dell’illuminismo, una volta enunciati, si diffondono quindi rapidamente: tanto nei circoli culturali, ad opera di intellettuali e rappresentanti della professione legale, i quali erano di provenienza alto-borghese o aristocratica e di convinzioni modernizzatrici, quanto tra la piccola borghesia.68 Gli idéologues che elaboravano e diffondevano le idee illuministiche erano prevalentemente intellettuali e professionisti attivi in campo culturale e pubblicistico, come Mann dimostra attraverso un esame analitico della loro provenienza e collocazione sociale:69 avvocati, accademici, dottori, funzionari e scrittori che, sulla base dei nuovi princìpi, contrapponevano una «nazione» libera, colta e moderna al «feudalesimo», assolutista, inefficiente e fondato sul privilegio. L’opposizione al privilegio nobiliare trova rapida risonanza presso i ceti piccolo-borghesi, ma, in questa prima fase, il dissenso non assume ancora toni rivoluzionari. A far precipitare la situazione interviene l’azione della corona: il re, per tacitare le richieste da parte illuminista e, al contempo, risolvere lo stallo relativo al prelievo fiscale, avrebbe potuto riformare con decisione le istituzioni statali in senso rappresentativo.70 Invece, con l’intenzione di applicare la consueta tattica assolutistica del divide et impera, il sovrano fa convocare gli Stati generali, l’unica istituzione rappresentativa che la Francia conoscesse. Il suo progetto, afferma Mann, era di ottenere sostegno per una riforma fiscale che rimuovesse le esenzioni nobiliari, sfruttando a suo favore le tendenze illuministiche del terzo stato e di un primo stato in cui i rappresentanti del basso clero, più vicini alle rivendicazioni dei contadini e dei piccoli artigiani, superavano numericamente gli alti prelati; nello stesso tempo, avendo fatto ricorso agli Stati generali, avrebbe dato un’impressione di apertura nei confronti della richiesta di istituzioni rappresentative, mantenendo però il potere assoluto.71 L’unica questione che egli intendeva rimettere agli Stati generali, naturalmente, era la riforma fiscale. 68 69 70 71

Ivi, p. 182. Ivi, pp. 187-197. Ivi, p. 184. Ivi, pp. 185-187.

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L’aver convocato gli Stati generali, istituzione che non si riuniva dal 1614, diede luogo a conseguenze che il re, nella sua intenzione di applicare tattiche segmentali al mai esplorato territorio delle istituzioni rappresentative, non aveva previsto. Non solo, per il fatto di essere stata convocata come «terzo stato», la borghesia guadagnò una più chiara percezione della sua identità di classe e ideologica (un caso di caging); ma, oltretutto, a serrare i ranghi del terzo stato fu l’intransigenza del re nel voler discutere unicamente la questione fiscale. Viene qui in primo piano il motivo delle «conseguenze impreviste dell’azione»: esso rappresenta uno dei principali elementi di distanza tra la concezione di Mann e gli approcci «realisti» alla politica interna e alla geopolitica, i quali presuppongono attori sociali immancabilmente razionali e chiari nessi di causalità tra intenzioni coscienti e risultati. Per Mann, nella storia, è invece ampio il ruolo degli effetti involontari dell’azione dei soggetti, di conseguenze non previste risultanti dal combinarsi di una pluralità di fattori e di azioni, di errori di calcolo e valutazioni imprecise.72 Dopo un prolungato stallo, durante il quale le reali intenzioni del monarca si fanno sempre più chiare per i membri del terzo stato (ribattezzatisi nel frattempo deputati dei Comuni), il 17 giugno 1789 questi ultimi si autoproclamano Assemblea nazionale, a intendere un’assemblea rappresentativa non più di un singolo stato, bensì dell’intero popolo francese. Il 19 giugno, il basso clero e i nobili illuminati di primo e secondo stato si uniscono all’Assemblea nazionale, che si pone così come rappresentante della nazione contro l’assolutismo e i privilegi feudali. Questo atto rivoluzionario trova seguito anche presso le folle urbane, con la presa della Bastiglia del 14 luglio, e nelle campagne, mediante le insurrezioni dei contadini, i quali, con l’acuirsi dell’oppressione fiscale, avevano sviluppato precocemente un’identità di classe in contrapposizione allo Stato dell’assolutismo e del privilegio.73 L’esito degli Stati generali è un chiaro esempio della dialettica che, nel secondo volume di The Sources of Social Power, Mann individua tra le istituzioni esistenti in un determinato momento storico e l’emergenza interstiziale di nuovi attori sociali: l’emergere di classi borghesi e popolari 72

73

Vedremo come questi aspetti avranno un’importanza tutt’altro che secondaria nel determinare lo scoppio della prima guerra mondiale; cfr. infra, § 3.7. Per questa ragione, possono dirsi non del tutto giustificate le critiche che, in Mann, The State and War, cit., e in Eurocentrism and Neorealism in “the Fall of Mann” (in «Millennium», XXXIV, 2005, n. 2, pp. 517-527), John M. Hobson rivolge a quello che ritiene essere un unilaterale realismo politico di Mann. M. Mann, The Sources of Social Power, vol. 2, cit., p. 199.

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consapevoli di sé, come anche il formarsi, presso di esse, di una coscienza nazionale,74 «prendono di sorpresa le classi e i regimi dominanti»,75 senza che vi siano istituzioni specificamente designate per far fronte al presentarsi di questi nuovi soggetti economico-politici. Là dove invece già vi sono istituzioni parlamentari consolidate, suscettibili di essere rese più inclusive e universalistiche, il conflitto testa-a-testa tra classi dominanti e attori emergenti può essere evitato mediante riforme volte all’incorporazione rappresentativa di questi ultimi (ne è un chiaro esempio il caso inglese); se però alle rivendicazioni delle nuove classi sociali, dotate di un’identità comune e di una coscienza oppositiva, fa fronte l’assenza di istituzioni che possano servire a ricondurre il conflitto in canali procedurali, unita all’intransigenza delle élite dominanti, è probabile che la ribellione deflagri con piena forza. Grazie al suo approccio teorico basato sulle cristallizzazioni ed a partire dall’analisi del processo di riforma britannico, della rivoluzione americana e di quella francese, Mann può quindi affermare che la presenza di cristallizzazioni statali di tipo monarchico-assolutista, piuttosto che democratico, rende più probabile, nel caso di marcato dissenso sociale, il prodursi di esiti rivoluzionari, piuttosto che riformisti. Le istituzioni politiche di uno Stato assoluto sono inadatte ad assorbire i conflitti dal basso, in quanto possono divenire inclusive solo a prezzo di trasformazioni radicali (a differenza di quelle degli Stati parlamentari, che, anche nel caso siano a rappresentanza limitata, possono facilmente essere riformate in senso più inclusivo). Le istituzioni assolutistiche, inoltre, sono «specializzate» nella repressione, invece che nell’assorbimento, dei conflitti: ma l’adozione di un atteggiamento repressivo, nel caso non riesca a stroncare le opposizioni sul nascere, finisce spesso per aumentare la coesione ideale dei dissenzienti e li spinge verso ideologie rivoluzionarie.76 Infine, le istituzioni di uno Stato assoluto sono meno plastiche, più resistenti al cambiamento, proprio per la concezione personalistica e particolaristica del potere che è alla loro base: più difficilmente, quindi, esse riusciranno ad autoriformarsi in tempo per evitare esiti rivoluzionari. Nel caso francese, quella che era iniziata come «lotta per il privilegio» si trasforma, nelle mani di diversi attori sociali, in una lotta ideologica fondata sulla contrapposizione tra «nazione» produttiva e «feudalesimo» 74 75 76

La consapevolezza nazionale delle classi emergenti francesi si rafforza, inizialmente, anche grazie anche alla guerra contro l’Austria, cominciata nel 1792. Ivi, p. 728. Cfr. a riguardo anche la teoria della rivoluzione elaborata da Mann, infra, § 4.3.

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parassitario, e, a breve distanza, in una lotta di classe in cui la piccola borghesia emergente, affiancata dalle folle urbane e guidata dagli idéologues, si contrappone all’ancien régime.77 In maniera non dissimile rispetto a quanto era accaduto nella rivoluzione americana, gli ideologi borghesi scoprono che solo forti dichiarazioni ideali e slogan facenti appello a princìpi radicali possono assicurare alle loro idee i numeri e il supporto pratico sia della piccola borghesia che dei ceti popolari, e forgiare quindi legami emotivi tra attori di potere disparati.78 La pressione dal basso che gli idéologues riescono a evocare è la stessa, tuttavia, che li costringe a tenere fede alle loro dichiarazioni di principio, orientando quindi la loro azione politica e di leadership in direzioni più radicali di quanto, all’inizio, essi non intendessero.79 Questa è la tendenza di base che sarà registrabile negli anni successivi al 1789, esemplificata tanto dalla progressiva radicalizzazione in senso sociale e democratico della Costituzione francese, quanto dal prevalere di posizioni sempre più orientate a una linea di antimoderatismo e volte a cercare l’appoggio delle folle urbane.80 È in questo contesto che una borghesia consapevole della propria identità di classe e dei propri interessi va progressivamente a emergere, in contrapposizione sia a quell’ancien régime al quale inizialmente cercava di assimilarsi, che alle classi popolari e piccolo-borghesi; esse, condotte sempre più a sinistra dagli eventi politici, nutrono orientamenti inconciliabili con il liberalismo proprietario borghese.81 La Costituzione del 1793, la più radicale e democratica, non entrerà mai in vigore, sostituita dall’istituzione del Comitato di salute pubblica che, capeggiato da Robespierre, inaugura il periodo del Terrore. L’arbitraria eliminazione di oppositori politici e sospettati tali, unita al dissesto economico che mette alla fame le città e alla violenza con cui sono represse le insurrezioni popolari, fa rapidamente scemare il sostegno popolare a Robespierre: i sanculotti non faranno molto per difendere quest’ultimo dal colpo di Stato del 9 termidoro (28 luglio del 1794), che segna la fine della rivoluzione francese e prelude all’istituzione del regime borghese del Direttorio.82 Le ambiguità di classe della rivoluzione francese, esemplificate da un’élite ideologica radicata nella 77 78 79 80 81 82

Ivi, p. 198. Cfr. anche F. Furet, Critica della rivoluzione francese, trad. it. Laterza, Roma 1998, e L. Hunt, La rivoluzione francese: politica, cultura, classi sociali, trad. it. Il Mulino, Bologna 1989. M. Mann, The Sources of Social Power, vol. 2, cit., p. 196. Ivi, p. 206. Ivi, pp. 206-207. Ivi, p. 206.

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borghesia ma trascinata su posizioni radicali dalle sue stesse dichiarazioni di principio, vengono spazzate via, insieme alla rivoluzione stessa, da una borghesia proprietaria consapevole della sua identità di classe e decisa ad affermare i propri interessi politici ed economici. Lo Stato francese, al termine della rivoluzione, si cristallizza dunque come uno Stato capitalistico, centralizzato, moderatamente militarista, e caratterizzato da un governo direttoriale di matrice liberal-borghese che, nel 1799, verrà rovesciato dal colpo di Stato del 18 brumaio di Napoleone Bonaparte. Ripercorrendo, seppur per grandi linee, la rivoluzione industriale e le riforme politiche britanniche, la rivoluzione americana e quella francese, abbiamo visto come Mann ricostruisce l’emergere dei tre maggiori attori di potere del periodo: classi, Stato moderno e nazioni. La tendenza comune ravvisabile in questo processo è il prodursi di lotte sociali in seguito alla crisi fiscale dello Stato indotta da ragioni militari. Le lotte sociali sono il contesto in cui gli individui giungono a rendersi conto tanto dell’influenza dello Stato territoriale sulle loro vite quanto della loro possibilità collettiva di modificare gli equilibri politici, e pervengono quindi a percepirsi come «nazione»; al contempo, in questo frangente, si evidenzia anche l’esistenza di differenziati interessi materiali tra i gruppi sociali che convivono su quello che viene ora concepito come uno stesso territorio nazionale: emergono quindi, come specifici attori economico-politici, classi sociali consapevoli della propria identità comune. In questi processi di formazione di Stato, nazioni e classi, si intersecano il potere militare che determina la crisi fiscale, il potere ideologico delle reti discorsive mediante le quali i nuovi princìpi sociali hanno modo di diffondersi, il potere economico che segna le differenze tra le classi sociali e, infine, il potere politico degli Stati territoriali e delle loro istituzioni. Come Mann evidenzia grazie alla sua teoria delle cristallizzazioni, Stati già cristallizzati in senso rappresentativo hanno maggiori possibilità di sottrarsi a un’escalation del conflitto; al contempo, tutte le cristallizzazioni pregresse delle istituzioni statali esercitano un’influenza sugli eventi scatenati dall’emergere dei nuovi attori di potere e sulla forma delle cristallizzazioni future. Sebbene, data la quantità di variabili in gioco, non sia possibile elaborare una teoria generale e nomotetica dei rapporti tra cristallizzazioni,83 è nondimeno possibile, sostiene Mann, identificare grazie ad esse alcune regolarità: ad esempio, per quanto riguarda le minori possibilità che hanno le monarchie assolute, rispetto a quelle costituzional-rappresentative, di istituzionalizzare il conflitto, di modernizzare la propria amministrazione 83

Ivi, pp. 86-87.

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o, come abbiamo visto ponendo a confronto Francia e Gran Bretagna, di mettere a punto un sistema di tassazione efficiente e adeguato. 3.3. Il capitalismo transnazionale, l’equilibrio dei poteri e l’ascesa tedesca L’aumento di potere collettivo risultante dalla rivoluzione industriale ebbe conseguenze di rilievo tanto a livello geopolitico quanto per i singoli Stati nazionali.84 Lo sviluppo industriale della Gran Bretagna «era stato difficile da mettere in moto, ma era facile da imitare»:85 l’esempio britannico venne difatti imitato da tutti i Paesi più avanzati. In una riproposizione della dialettica di centralizzazione e decentralizzazione che abbiamo considerato nel capitolo precedente, le tecniche industriali vennero perfezionate e gli squilibri economico-sociali che si erano verificati nel caso inglese vennero, proprio grazie all’esperienza da esso derivante, in una certa misura prevenuti.86 La rete industrial-capitalistica risultante da questo processo si componeva di reti transnazionali, nazionali e nazionaliste. Il sistema capitalistico che si veniva sviluppando aveva indubbie connotazioni transnazionali, mentre i canali di trasmissione che esso apriva favorivano il propagarsi di un’ideologia corrispondente: in particolare in ambienti liberali si diffondevano la speranza e la convinzione (riecheggianti gli scritti di Immanuel Kant e John Stuart Mill)87 che il futuro sistema transnazionale sarebbe stato pacifico. Degli Stati nazionali sarebbero rimaste unicamente le infrastrutture necessarie a fornire sostegno allo sviluppo capitalistico; condotte di tipo imperialistico e politiche economiche mercantiliste si sarebbero estinte, lasciando il posto a un mondo interamente regolato dal libero mercato. La versione più «debole» di questa ideologia prefigurava invece il persistere degli Stati nazionali e di limitate rivalità economiche e 84

85 86 87

Sulle implicazioni del modello delle quattro fonti del potere per la teoria delle relazioni internazionali, e per un’analisi critica delle prospettive assunte da Mann a riguardo, cfr. S. Hobden, Geopolitical Space or Civilization? The International System in the Work of Michael Mann, in «International Relations», XII (1995), n. 6, pp. 77-101. M. Mann, The Sources of Social Power, vol. 2, cit., p. 18. Ibid. Cfr. I. Kant, Idea di una storia universale dal punto di vista cosmopolitico e Per la pace perpetua, trad. it di entrambi i saggi in Id., Scritti di storia, politica e diritto, a cura di F. Gonnelli, Laterza, Roma-Bari 2009, pp. 29-44 e 163-207, e J. S. Mill, Principi di economia politica, trad. it. UTET, Torino 1983, vol. 2, p. 800.

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geopolitiche tra di essi, comunque depotenziate dall’impostazione transnazionale del capitalismo.88 Queste prospettive trovano parziale riscontro nella realtà di un secolo fondamentalmente pacifico, fatta eccezione per pochi e brevi conflitti tra il 1848 e il 1871. Il capitalismo si rivela un fattore di nazionalizzazione quanto di transnazionalizzazione: da una parte, i rapporti commerciali tra i diversi Stati si giovano di una situazione geopolitica priva di conflitti conclamati e, anche sulla base di un’ideologia che mette in luce il reciproco profitto negli scambi economici tra nazioni, tendono a favorire il perpetuarsi della pace; dall’altra, attraverso le infrastrutture statali, la tassazione e i mercati interni, il capitalismo contribuisce alla «naturalizzazione» delle classi sociali all’interno dei territori nazionali; un processo, questo, che assume coloriture nazionaliste nel momento in cui il principio di concorrenza capitalistica contribuisce a una definizione degli interessi economici su basi territoriali, e porta così a una contrapposizione tra economie nazionali. Con la caduta di Napoleone, il cui successo viene attribuito da Mann soprattutto a straordinarie capacità militari e di leadership, sconfitte solo in seguito all’errata decisione di combattere simultaneamente sul fronte spagnolo e su quello russo,89 il congresso di Vienna ridefinisce l’ordine europeo. La pace che sostanzialmente caratterizza gli anni dal 1815 al 1914 è stata spesso attribuita, in particolare dai teorici del sistema-mondo, all’egemonia capitalistica della Gran Bretagna; il montare della tensione internazionale successivamente al 1880 sarebbe da riferirsi, per questi ultimi, proprio al cessare di tale egemonia. Mann contesta le teorie del sistemamondo,90 che ritiene affette da economicismo e riduzionismo. In base ad esse, in maniera quasi «hobbesiana»,91 la pacifica interdipendenza globale risulta dall’esistenza di un’unica, benevola potenza economicamente egemone; a regolare il sistema-mondo, come scrive Wallerstein, sarebbe quindi «la singola logica dell’economia-mondo capitalistica».92 Detenere il più avanzato sistema capitalistico assicurerebbe alla potenza egemone anche la supremazia militare, politica e ideologica, che la renderebbe in grado di garantire l’ordine geopolitico del globo. Mann risponde che «la geopolitica e l’economia politica internazionale sono più dinamiche e variate» rispetto a 88 89 90 91 92

M. Mann, The Sources of Social Power, vol. 1, cit., p. 254. Ivi, pp. 271-277. Mann si riferisce nello specifico alle concezioni di I. Wallerstein, Ch. ChaseDunn, e G. Modelski. Ivi, p. 257. Ibid.; cfr. I. Wallerstein, Il sistema mondiale dell’economia moderna, 3 voll., trad. it. Il Mulino, Bologna 1978-1995.

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quanto ritengono i teorici del sistema-mondo, «oltre ad essere determinate da tutte e quattro le fonti del potere».93 Innanzitutto, scrive Mann, più che di egemonia, nel caso britannico è possibile parlare di «quasi-egemonia specializzata»:94 dal punto di vista del potere militare, la flotta della Gran Bretagna sopravanzava le due successive flotte più estese messe insieme (rispondendo al cosiddetto two-power standard);95 questo assicurava al Regno Unito un indiscusso predominio sui mari, a cui però non faceva riscontro un paragonabile potere militare di terra. Quella britannica era un’egemonia regionalmente specializzata, in quanto si basava su un accordo diplomatico con le potenze continentali prescrivente una condotta di reciproca non-interferenza nei rispettivi ambiti di forza.96 L’egemonia britannica era anche settorialmente specializzata: come vedremo a breve, in ambito produttivo la Gran Bretagna viene ben presto sorpassata dalla Germania, ma mantiene il predominio commerciale fino ad oltre il 1914. Le norme transnazionali non potevano essere fissate autonomamente e autonomamente fatte rispettare dalla Gran Bretagna, come si converrebbe a una potenza propriamente egemonica. Esse erano stipulate mediante negoziazione tra le potenze; una negoziazione che, sebbene il potere contrattuale della Gran Bretagna sopravanzasse quasi sempre quello degli altri contraenti, rappresentava comunque anche per quest’ultima un passaggio obbligato. La pace, pertanto, non risulta dal ruolo di «benevolo Leviatano globale» che Wallerstein attribuisce alla Gran Bretagna;97 bensì è frutto, oltre che della «quasi-egemonia specializzata» britannica, anche dell’azione diplomatica delle varie potenze, del potere economico e ideologico del capitalismo transnazionale, e, infine, dell’organizzazione geopolitica risultante dal Congresso di Vienna:98 in altre parole, di tutte e quattro le fonti del potere sociale. Negli anni successivi al 1815, tra gli Stati europei si susseguono continui accordi diplomatici volti a prevenire l’ascesa di qualsiasi potenza continentale sulle altre: in quel pe93 94 95 96 97 98

M. Mann, The Sources of Social Power, vol. 2, cit., p. 258. Ivi, p. 265. Ivi, p. 264. Ivi, p. 265. Ivi, p. 256. Ivi, p. 266. Cfr. anche p. 280: «è sbagliato affermare, come fa Arrighi [in Il lungo XX secolo, Il Saggiatore, Milano 2014] che il concerto europeo fosse, ‘sin dal principio, […] soprattutto uno strumento della gestione britannica dell’equilibrio di potere continentale’: la Gran Bretagna stava ancora contando i costi dei suoi interventi sul continente e si riteneva soddisfatta di una meno dispendiosa presenza navale nel Mediterraneo, associata all’egemonia marittima in ogni altro luogo».

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riodo la pace e l’ordine vengono quindi conservati prevenendo l’egemonia, piuttosto che, come sostengono le teorie della stabilità egemonica, grazie al primato di un Paese sugli altri.99 Sicuramente, inoltre, tra il 1815 e il 1880 capitalismo e industrialismo si sviluppano intrecciati a una geopolitica nazionalista e aggressiva; essa però si gioca ancora, in questa fase, non tanto sul terreno degli Stati europei, bensì in quella che Wallerstein denomina la periferia del sistema-mondo: gli imperi coloniali, che costituiranno uno dei punti focali del terzo volume di The Sources of Social Power. Se il boom del capitalismo transnazionale di metà secolo aveva portato le politiche economiche degli Stati a orientarsi dal protezionismo al laissez faire,100 le crepe nell’equilibrio diplomatico che dopo il 1880 risultano dall’espansione della Prussia, come anche l’inondazione dei mercati europei da parte di ampie quantità di merci a buon mercato provenienti da Russia e Stati Uniti, segnano il ritorno al protezionismo. Il clima geopolitico, che va facendosi di nuovo incerto, provoca un rinnovarsi della corsa alle armi, con la conseguente necessità degli Stati di assicurarsi un maggiore gettito fiscale. L’aumento delle tariffe doganali accresce le barriere degli Stati nei confronti dei flussi commerciali, ridimensionando, ma non in eccessiva misura, il carattere transnazionale del sistema capitalistico.101 Le dinamiche economiche, afferma chiaramente Mann, non sono sufficienti a determinare il ripresentarsi di una rivalità tra Stati tale da causare, sul lungo termine, la prima guerra mondiale. Maggiormente destabilizzante per l’equilibrio internazionale è, in questo periodo, l’ascesa militare della Prussia. 3.3.1. Un’egemonia basata sulle quattro fonti del potere sociale Nel 1914, la Germania è la leading edge of power, il Paese industrialmente egemone in Europa e il massimo esponente di quello che Mann denomina «capitalismo nazionale autoritario».102 Un secolo prima, la Germania non esisteva nemmeno. L’area germanofona era divisa tra la Prussia, estesa sui due terzi della Germania del nord ed economicamente piuttosto arretrata, la Confederazione germanica formata da 37 piccoli «Stati cuscinetto», e l’Austria, territorialmente ampia ma internamente disunita e poco efficiente dal punto di vista economico. Nel corso del diciannovesimo secolo, la Prussia assorbe i piccoli Stati che compongono la Confederazione 99 100 101 102

Ivi, p. 282. Ivi, p. 286. Ivi, pp. 287-288. Ivi, p. 297.

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germanica, riporta vittoria su Austria e Francia, e fonda infine, nel 1871, l’Impero tedesco. Nel 1890 la Germania giunge a superare di due volte l’efficienza agricola del ben più esteso impero austroungarico e attraversa uno sviluppo industriale senza precedenti; all’inizio del 1900 sopravanza la Gran Bretagna dal punto di vista produttivo, tecnologico e dell’organizzazione del capitale materiale e umano.103 Tuttavia la Germania di inizio ventesimo secolo era ancora una monarchia militarista e semiautoritaria, ben lontana dai caratteri di «modernità liberale» che contraddistinguevano tutti gli Stati europei avanzati. Questa peculiarità tedesca ha portato molti storici e sociologi liberali a parlare di Sonderweg:104 un «cammino peculiare» che, con i suoi caratteri di autoritarismo politico e di esaltazione del militarismo, condurrebbe fino alle responsabilità tedesche nella prima e nella seconda guerra mondiale e ai crimini del nazismo. Esso, secondo i sostenitori della tesi corrispondente, si origina dal fatto che la borghesia, considerata dalla dottrina liberale la classe democratica per eccellenza, in Germania non riesce ad affermarsi al disopra della potente nobiltà terriera, gli Junker; lo sviluppo tedesco viene quindi guidato da un’élite statale reazionaria, politicamente e ideologicamente alleata all’aristocrazia proprietaria.105 Per storici marxisti come Blackbourne ed Eley, che si contrappongono a questa visione liberale, la Germania non avrebbe invece sofferto di alcuna «carenza di borghesia»: semplicemente, la borghesia tedesca non sarebbe stata interessata alla liberaldemocrazia, preferendo un regime semiautoritario capace di favorire lo sviluppo capitalistico e di reprimere efficacemente le proteste dei lavoratori. Non si sarebbe trattato, quindi, di un Sonderweg, bensì di uno sviluppo che si colloca perfettamente nell’alveo dell’autoritarismo borghese.106 Per Mann, entrambe le versioni trascurano, nel loro focalizzarsi unicamente sui rapporti di forza tra classi, e quindi sul potere economico, aspetti fondamentali della situazione tedesca prima, durante e dopo la nascita della Germania. Esse non tengono conto dell’influenza dei motivi ideologici, politici e militari legati al perseguimento di un’identità nazionale, dipingendo al contempo gli attori di classe come perfettamente consapevoli dei

103 Ivi, p. 300. 104 Cfr. ad es. R. Dahrendorf, Sociologia della Germania contemporanea, trad. it. Il Saggiatore, Milano 1968; M. Kitchen, The Political Economy of Germany, 18151914, Croom Helm, London 1978. 105 M. Mann, The Sources of Social Power, vol. 2, cit., p. 306 106 D. Blackbourne, G. Eley, The Peculiarities of German History, Oxford University Press, Oxford 1984.

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propri interessi e implicati in uno scontro diretto.107 La connessione tra le diverse classi sociali (non solo la borghesia) e lo Stato autoritario avviene in realtà sulla base dei consensi che quest’ultimo riscuote presso la popolazione a causa della sua pragmatica efficienza produttiva e militare, la cui prova ultima, agli occhi degli abitanti, è la traduzione in realtà del sogno dell’unificazione tedesca.108 Dal 1860 al 1871 Bismarck realizza infatti le speranze di unificazione Kleindeutsch diffuse in Prussia e nella Confederazione germanica. Di fronte ai successi di Bismarck, la popolazione giunge ad associare a un’élite statale forte e dai tratti autoritari le caratteristiche di efficienza e legittimità che quest’ultima, realizzando l’unificazione, si è in un certo senso guadagnata sul campo. Nel saldare l’alleanza tra élite statale, aristocrazia terriera e borghesia, senz’altro, conta anche il timore di disordini popolari dovuti a un possibile contagio della rivoluzione francese, che spinge queste classi a unirsi in un «partito dell’ordine» contrapposto ai Reichsfeinde, i «nemici dell’impero», identificati nei socialisti e nei sostenitori di partiti regionali separatisti.109 L’appoggio alle élite statali, tuttavia, non è prerogativa della sola borghesia (che quindi non è caratterizzabile come classe intrinsecamente democratica o autoritaria) né è dovuto unicamente a contrapposizioni tra classi. Mann, perciò, rifiuta la teoria del Sonderweg, attribuendo la cristallizzazione semiautoritaria dello Stato tedesco a elementi contingenti, come la legittimità che, per effetto di una vincente strategia-politico militare sostenuta da un rapido e ben pianificato sviluppo industriale e infrastrutturale, viene attribuita dalla popolazione all’élite statale. Ma quanto era effettivamente autonoma questa élite? Per approvare le leggi, il governo necessitava della maggioranza nel Reichstag, eletto a suffragio universale e diretto; a causa di alleanze politiche, tuttavia, il partito socialdemocratico, che rappresentava i lavoratori e che, nel 1912, arriva a essere il più grande partito nazionale, era sistematicamente messo in minoranza. Internamente, le istituzioni principali dello Stato tedesco erano cinque: – il Kaiser; – la corte formata dal circolo dei consiglieri personali del re, in grande maggioranza appartenenti al ceto degli Junker; – il cancelliere con i suoi ministri, solitamente provenienti dall’aristocrazia terriera; 107 M. Mann, The Sources of Social Power, vol. 2, cit., pp. 307-308. 108 Ivi, p. 310. 109 Ivi, p. 316.

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– un ampio ceto burocratico, anch’esso costituito da membri dell’aristocrazia terriera e da professionisti provenienti dalla borghesia; – i vertici militari, differenziati in marina ed esercito con strutture di comando reciprocamente autonome; formalmente responsabili di fronte al re, in realtà essi vanno sempre più autonomizzandosi dal controllo della società civile.110 All’interno del parlamento, poi, sedevano partiti le cui posizioni erano assai vicine al re (i conservatori Junker e i nazional-liberali), partiti che potevano fornire al monarca una solida maggioranza dietro limitate concessioni (i cattolici centristi, i nazionalisti radicati nelle classi medie e i partiti agrari), e partiti sostanzialmente esclusi dalla vita democratica (i socialdemocratici e i partiti regionalisti). La classe più fortemente incardinata all’interno delle istituzioni statali e capace di orientare ai suoi interessi una parte consistente dell’attività di queste ultime, talvolta limitando seriamente anche l’autonomia del re e del cancelliere, erano gli Junker. Un tempo classe economicamente egemone, ora in declino, essi godevano quindi di un forte radicamento istituzionale, oltre ad essere dotati di una posizione di rilievo nella società civile.111 Per poter perseguire efficacemente e con coesione i propri scopi (ed essere quindi «autonoma» nel senso che questo termine ha nell’ambito della teoria dello Stato), per Mann un’élite statale deve essere ben radicata tanto nelle istituzioni statali quanto nella società civile; ossia deve detenere posizioni di potere consolidate in quest’ultima ed essere in grado di mobilitarle. L’eventuale autonomia di un’élite statale dalla società civile, ossia uno scarso radicamento in essa, si traduce invece in una insufficiente autonomia decisionale di tale élite all’interno dello Stato: le élite statali necessitano, per la realizzazione dei fini che intendono perseguire in quanto attori istituzionali, della coesione che deriva loro da una pregressa comunanza di identità nella società civile e di poter fare uso delle risorse di cui dispongono in essa.112 Se, tra le classi sociali che componevano le élite statali, gli Junker erano quella che deteneva il maggiore livello di autonomia, essi non erano gli unici attori istituzionali dotati di un significativo potere decisionale; anzi, lo Stato tedesco era una composizione di élite autonome radicate in vari ambiti della società civile, ognuna delle quali esercitava un controllo pres110 Ivi, p. 319. 111 Ivi, p. 318. 112 Ivi, p. 48.

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soché esclusivo sulle sue istituzioni di competenza, in un complesso statale dalle cristallizzazioni estremamente polimorfiche.113 Nella Costituzione tedesca i poteri delle istituzioni e le procedure amministrative erano state, in molti casi, lasciate deliberatamente vaghe: la finalità era quella di conservare intatta, nelle mani di re e cancelliere, la libertà di governare facendo uso delle tradizionali tattiche dispotiche del divide et impera all’interno della corte e del parlamento, di servirsi di canali informali e particolaristici, e di stipulare alleanze di convenienza. Re e cancelliere si ponevano quindi al centro di una rete di gruppi, fazioni e poteri semiautonomi, tra cui quelli dei vertici militari e della burocrazia, rispetto ai quali creavano e ricreavano equilibri mutevoli, perseguendo così i propri fini e, qualora si dessero condizioni di non interferenza, permettendo agli altri attori sociali di determinare e realizzare autonomamente i propri. L’effetto involontario di questa strategia era il giustapporsi, nelle istituzioni, di una varietà di cristallizzazioni altamente differenziate, ognuna delle quali veniva perseguita in autonomia e portata al suo massimo grado di sviluppo da una diversa élite statale, senza che vi fosse un’effettiva coordinazione centrale o che venisse imposto un ordine di priorità tra di esse.114 Lo Stato tedesco, agli inizi del 1900, si cristallizzava quindi come il più avanzato sistema nazionale industrial-capitalistico, caratterizzato da un cospicuo sostegno statale all’industria e dallo stretto legame tra banche e complessi industriali monopolistici.115 La Germania ospitava inoltre l’apparato militare che, tra quelli europei, era andato sviluppandosi in modo maggiormente autonomo dal controllo delle autorità civili, come anche il più esteso ceto burocratico, sostenuto da una solidarietà di corpo senza eguali e da grande fedeltà allo Stato. La monarchia permetteva a queste diverse cristallizzazioni di svilupparsi ognuna in modo semiautonomo dalle altre, senza approntare canali definiti e formalmente istituzionalizzati per coordinare le varie funzioni in base a fini centralmente predeterminati.116 Come vedremo, questa strategia «additiva» (termine che Mann riferisce al sommarsi e all’estremizzarsi di cristallizzazioni su cristallizzazioni), che le élite statali tedesche perseguono con lo sguardo puntato unicamente sui loro singoli scopi particolari e senza rendersi conto degli effetti di essa sul

113 Ivi, p. 323. 114 Ivi, pp. 320-321. 115 Ivi, p. 314; la connotazione nazionale (piuttosto che transnazionale) del capitalismo tedesco e il ruolo, in esso, di uno Stato protezionistico e dirigista, portano Mann a definirlo «capitalismo nazionale autoritario». 116 Ivi, p. 324-325.

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sistema internazionale, avrà un ruolo non secondario nel determinare lo scivolamento dell’Europa verso la prima guerra mondiale. 3.4. I grandi attori di potere del XIX secolo: l’avvento dello Stato moderno Nel periodo oggetto del secondo volume di The Sources of Social Power (1760-1914) è possibile ravvisare un mutamento nelle fonti di potere socialmente prevalenti. Fino a metà del XIX secolo, ad avere il primato sono il potere economico e quello militare: ciò è dovuto ai notevoli cambiamenti sociali risultanti dall’affermarsi del capitalismo, nonché dal fatto che la guerra e la preparazione ad essa, in Europa, rimangono fino a quel periodo al centro delle funzioni statali. Successivamente, a predominare sono il potere economico e politico:117 mentre il capitalismo industriale continua la sua ascesa, lo Stato va acquisendo una sempre più ampia varietà di funzioni e una maggiore penetrazione infrastrutturale nella società. Nel periodo trattato nel secondo volume di The Sources of Social Power, dunque, vigono in ultima istanza due configurazioni principali dei rapporti di potere, dando luogo a quella che Mann denomina «dual determination»:118 al primato di una specifica combinazione di potere economico e militare si sostituisce gradualmente un intreccio di potere politico ed economico.119 Tra la prima e la seconda rivoluzione industriale, che ha luogo intorno al 1880, gli Stati europei attraversano una crescita di complessità senza precedenti: le loro funzioni si fanno più numerose e articolate, soprattutto in ambito civile; si sviluppa un apparato amministrativo burocraticamente organizzato; rilevanti ambiti di attività statale si specializzano e si professionalizzano. Le principali teorie dello Stato tendono ad attribuire lo sviluppo di quest’ultimo all’azione di singoli gruppi sociali guidati da specifici interessi: per le teorie marxiste la crescita dello Stato si verifica in 117 Non sono quindi giustificate obiezioni come quelle di S. Tarrow (recensione di The Sources of Social Power, vol. 2, in «American Political Science Review», n. 88, 1994, pp. 1031-1032) e di T. Mulhall (recensione di The Sources of Social Power, vol. 2, in «The British Journal of Sociology», n. 46, 1995, pp. 362-363), che attribuiscono a Mann una prospettiva Stato-centrica in cui sarebbe il potere politico a prevalere stabilmente. 118 M. Mann, The Sources of Social Power, vol. 2, cit., p. vii. 119 Sul tema cfr. anche M. Mann, Putting the Weberian State in Its Social, Geopolitical and Militaristic Context, in «Journal of Historical Sociology», XIX (2006), pp. 344-353.

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risposta all’esigenza di favorire il capitalismo industriale;120 per gli elitisti sono i gruppi dominanti nelle istituzioni a necessitare di uno Stato sempre più sviluppato per perseguire i propri interessi.121 Pluralisti e funzionalisti hanno elaborato una varietà di ipotesi, anch’esse incentrate su una singola funzione statale, per spiegare l’avvento dello Stato moderno:122 i sostenitori della «teoria della modernizzazione» affermano che la crescita di dimensioni e di complessità degli Stati moderni risulterebbe dalla necessità di coordinare una società sempre più internamente differenziata; secondo la «teoria dei beni pubblici» e la «teoria del welfare State» lo sviluppo statale deriverebbe, rispettivamente, dall’esigenza di provvedere a beni, come la difesa nazionale, che sono nell’interesse di tutti i gruppi sociali, o da quella di fornire assistenza materiale a individui e gruppi nel contesto di una società complessa, in cui questa funzione non può più essere rimessa alle limitate iniziative di privati o di istituzioni religiose.123 Mann, di contro a questi approcci, sostiene che lo sviluppo dello Stato moderno non può essere attribuito all’azione di un particolare gruppo sociale né al perseguimento di una singola finalità principale, alla quale le altre vengono scientemente subordinate; esso risulta bensì dall’azione differenziata delle principali componenti dello Stato e della società civile all’interno delle cristallizzazioni statali, le quali al contempo condizionano questa azione e vengono da essa condizionate. Per dimostrare e chiarire la sua tesi, Mann svolge una disamina analitica dei diversi aspetti in cui è possibile scomporre la crescita che lo Stato attraversa nel diciannovesimo secolo: la burocratizzazione amministrativa, l’espansione delle funzioni civili, la quasi-autonomizzazione del potere militare. Innanzitutto, egli afferma, va sgombrato il campo dall’idea secondo cui, per effetto dell’ampliarsi dei compiti e delle funzioni statali, in questo periodo lo Stato andrebbe trasformandosi in un gigantesco e costoso apparato che, come mai prima d’ora, si mantiene grazie al carico fiscale imposto sulla società civile: Mann, mediante l’analisi empirica dei bilanci di spesa statali, mostra che nel diciannovesimo secolo, se messe in rapporto alla crescita di popolazione e all’inflazione, le spese statali diminuiscono piuttosto che aumentare.124 Da una parte, come vedremo, le funzioni civili dello Stato si accrescono senz’altro; gli esborsi ad esse relativi, tuttavia, sono controbilanciati dal 120 Ivi, p. 360. Mann qui cita in particolare quella sviluppata da Miliband in Lo Stato nella società capitalistica, trad. it. Laterza, Roma-Bari 1970. 121 Ivi, p. 358. Cfr. a riguardo Th. Skocpol, Stati e rivoluzioni sociali, cit. 122 Cfr. R. Higgs, Crisis and Leviathan, Oxford University Press, Oxford 1987. 123 M. Mann, The Sources of Social Power, vol. 2, cit., pp. 358-359. 124 Ivi, p. 370.

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risparmio dovuto a una più efficiente organizzazione amministrativa e soprattutto a un contrarsi delle spese militari, sia per effetto di un secolo relativamente pacifico, che per l’avvento di tattiche e tecnologie richiedenti il dispendio di meno risorse economiche in tempo di pace: «tutte quelle teorie secondo cui lo Stato, nella fase del capitalismo industriale, diventa sempre più grande e incombe sulla società civile, non rispondono quindi a verità».125 La burocratizzazione dello Stato è un processo che raggiunge l’apice nel diciannovesimo secolo, ma che affonda le sue radici nei due secoli precedenti: essa si verifica nel corso del 1700 innanzitutto in ambito militare, mediante la progressiva istituzionalizzazione di carriere fondate sull’anzianità e su impersonali criteri di competenza.126 Nel settore civile la burocratizzazione riceve il primo impulso dalla necessità dello Stato monarchico militare settecentesco di guadagnare un maggior potere infrastrutturale, volto a una più efficiente estrazione fiscale. Nella prima fase di avanzamento burocratico dello Stato, che Mann colloca tra il 1700 e il 1780, le prime forme di razionalizzazione amministrativa coesistevano ancora con casi di accordo particolaristico tra lo Stato e i principali attori della società civile, come abbiamo visto trattando la Francia prerivoluzionaria.127 Negli anni successivi sono soprattutto i movimenti per la rappresentanza e la cittadinanza, nonché i modernizzatori dell’ancien régime, a premere in favore di una razionalizzazione burocratica dello Stato: essa veniva intesa come finalizzata non solo a una più efficiente gestione economica e ad una rimozione del particolarismo nel prelievo fiscale, ma anche ad assicurare un maggiore controllo della società civile sugli organi di governo, in base ai princìpi, che vengono affermandosi in quel periodo, di una responsabilità dello Stato nei confronti della popolazione. Il processo di burocratizzazione, sebbene spinto in avanti anche dalla società civile, è funzionale alle stesse élite statali: negli Stati monarchicoautoritari che costituivano la norma nel periodo precedente, il sovrano era affiancato da un limitato numero di funzionari e consiglieri, e l’élite statale, al netto degli intrighi e delle fazioni di corte, era quindi socialmente compatta e accomunata dai medesimi interessi; il suo potere dispotico, però, sopravanzava di gran lunga quello infrastrutturale, rendendole possibile solo un ridotto controllo sulla società civile. Per aumentare le sue possibilità di intervento effettivo sulla società, essa deve dunque acquisire un 125 Ibid. 126 Ivi, p. 448. 127 Ivi, p. 447.

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maggiore potere infrastrutturale, ampliandosi, ramificandosi nella società e specializzandosi in funzioni differenziate: a questo fine, l’élite dello Stato è costretta ad abbandonare le sue connotazioni particolaristiche e rinunciare alla sua omogeneità sociale, allargandosi a classi non facenti parte dell’ancien régime, dotandosi di un apparato amministrativo e aprendosi a istituzioni rappresentative.128 La burocratizzazione dello Stato, dunque, risulta dall’intersecarsi, dal susseguirsi e dal combinarsi di finalità militarfiscali, rappresentative, capitalistiche e civili, piuttosto che dal disegno consapevole di una singola élite tesa a perseguire interessi univoci: essa è il prodotto di diverse cristallizzazioni statali, delle quattro fonti del potere, e del loro combinarsi le une alle altre. Dopo il 1850, lo sviluppo senza precedenti delle infrastrutture e delle funzioni civili dello Stato, congiunto con l’ormai definitivo affermarsi del capitalismo industriale e delle funzioni statali volte a favorirlo, porta gli Stati a dotarsi di un’amministrazione moderna e burocratizzata. Dal 1870 in poi, lo Stato sviluppa inoltre tre nuovi ambiti funzionali in relazione alla società civile: esso provvede alla creazione di infrastrutture di comunicazione materiale e simbolica; diviene un attore economico a fianco dell’impresa capitalistica privata, mediante il controllo di grandi industrie e infrastrutture o la partecipazione in esse; inizia a mettere a punto programmi di welfare e sistemi di pubblica istruzione.129 Lo Stato acquisisce dunque un impatto senza precedenti sulla vita sociale e un’inedita capacità di caging: gli individui non potranno mai più tornare a «ignorare lo Stato».130 In queste nuove forme di intervento statale sulla società civile si combinano e si limitano a vicenda, sostiene Mann, sviluppi riguardanti le cristallizzazioni capitalistica, rappresentativa e militare degli Stati. Si rafforza l’azione dello Stato in sostegno del capitalismo, anche e soprattutto nei Paesi a sviluppo tardivo;131 in questa fase, lo Stato è anche (ma non solo, come invece era per Marx) «il comitato d’affari della borghesia». Lo sviluppo delle infrastrutture di comunicazione e l’intervento dello Stato nell’economia rafforzano la cristallizzazione capitalistica, ma contribuiscono anche al caging della vita sociale e al formarsi di concezioni territorializzate di identità e di interessi. In questo periodo va a svilupparsi altresì quello che, con una celebre locuzione in 128 Ivi, pp. 455-457. 129 Ivi, p. 479. A riguardo, cfr. anche H. Soifer, M. vom Hau, Unpacking the Strength of the State: The Utility of State Infrastructural Power, in «Studies in Comparative International Development», XLIII (2008), n. 3-4, pp. 219-230. 130 M. Mann, The Sources of Social Power, vol. 2, cit., p. 479. 131 Ivi, pp. 493-496.

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voga soprattutto negli anni ’70 del 1900, è stato chiamato «complesso politico-militar-industriale»:132 si verifica cioè la collaborazione tra élite statali, grandi capitalisti e vertici militari nella pianificazione di ferrovie e infrastrutture per scopi al contempo civili, produttivi e militari, come anche si espande un’industria degli armamenti il cui principale committente è lo Stato. Lo stesso potere militare, la cui modernizzazione in senso burocratico aveva preceduto quella delle amministrazioni statali, all’inizio del 1900 va specializzandosi in diversi compiti e funzioni sul piano nazionale: per effetto dell’ormai consolidata istituzionalizzazione dei diritti politici, nonché del fatto che le lotte dei lavoratori, come vedremo, vengono ricondotte con efficacia in canali routinizzati, i compiti dell’esercito vanno differenziandosi da quelli della polizia.133 La brutale repressione militare delle rivolte sociali, che costituiva la norma nei secoli precedenti, lascia il posto a una gestione più razionale e strategica dei disordini civili: il loro controllo viene demandato, invece che all’esercito, a forze di polizia appositamente addestrate a reprimere gli scontri evitando eccessivi spargimenti di sangue ed escalation di violenza. Qui Mann smentisce esplicitamente la tesi di Foucault secondo cui il passaggio da un uso del potere basato su punizioni arbitrarie, spettacolari e violente a forme di repressione routinizzate, capillari e contenute avrebbe luogo nel 1700:134 è solo con la conquista novecentesca dei diritti di cittadinanza politica e con la conciliazione istituzionalizzata dei conflitti tra classi che questa transizione può compiersi stabilmente. In modo diverso vanno le cose in ambito geopolitico: nel diciannovesimo e nel ventesimo secolo esso continua ad essere appannaggio privatistico e particolaristico dei vertici statali e militari, senza grandi mutamenti rispetto all’enorme discrezionalità che il re, il quale allora era anche comandante in capo delle forze armate, deteneva nel 1700 rispetto alle questioni geopolitico-militari.135 Il diciannovesimo secolo, negli Stati democratici, vede la partecipazione delle istituzioni rappresentative alle decisioni militari in situazioni di crisi; le gestione routinaria della geopolitica, però, continua a svolgersi a porte chiuse tra élite statali e vertici militari. L’opinione pubblica, tenuta all’oscuro e tendenzialmente interessata alla politica interna più che a quella estera, in situazioni di crisi può venire facilmente mobilitata 132 133 134 135

Ivi, p. 496. Ivi, p. 406. Cfr. C. Emsley, Policing and Its Context, Macmillian, London 1983. M. Mann, The Sources of Social Power, vol. 2, cit., pp. 404-405. Ivi, p. 413. Cfr. M. Foucault, Sorvegliare e punire, trad. it. Einaudi, Torino 2003.

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dalla propaganda verso un superficiale militarismo nazionalista:136 proprio questo avverrà nell’imminenza della prima guerra mondiale. Durante il diciannovesimo secolo non solo i vertici militari, insieme alle élite statali, prendono decisioni geopolitiche di rilievo in isolamento dalla società civile, ma lo stesso corpo militare va autonomizzandosi da essa, a tutti i suoi livelli. Le dinamiche di burocratizzazione, specializzazione e professionalizzazione interna dell’esercito, tra cui, in primis, la diffusione di «carriere» interne a partire dai gradi inferiori, portano a una progressiva separazione dei militari dalla popolazione civile, all’intensificarsi dello spirito di corpo e al diffondersi di un ethos professionale distinto. È quindi possibile parlare dello sviluppo di una «casta militare» sempre più autonoma dalla società civile e dal controllo statale.137 Con l’industrializzazione, inoltre, crescono la pericolosità degli eserciti e le tendenze tecnocratiche ad essi interne: gli alti comandi si fanno fautori di una modernizzazione tecnologica degli armamenti scissa da considerazioni diplomatiche, la quale innesca la corsa competitiva ad arsenali provvisti di un sempre più alto coefficiente di distruttività. Per effetto di questo processo, la distinzione tra difesa preventiva e attacco va progressivamente sfumando, in un contesto di incomunicabilità tra vertici militari interessati agli ultimi ritrovati della tecnologia degli armamenti più che alla considerazione di strategie diplomatiche, e funzionari diplomatici che, ancora provenienti dalle classi nobiliari, hanno scarsa competenza quanto alle più recenti tattiche e tecnologie della guerra.138 Uno sviluppo, questo, che avrà un ruolo non secondario nel determinare la prima guerra mondiale. 3.5. I grandi attori di potere del XIX secolo: classi e lotta di classe All’inizio del diciannovesimo secolo, e per gran parte di esso, la Gran Bretagna è l’unica nazione industrializzata. In quanto tale, essa è anche la prima in cui va emergendo la classe sociale che, lungo il 1800 e il 1900, si porrà al centro dello scenario economico, politico e ideologico: il proletariato industriale. Quando, all’inizio del ventesimo secolo, la seconda rivoluzione industriale segnerà l’ingresso di molti altri Paesi tra le nazio136 M. Mann, The Sources of Social Power, vol. 2, cit., p. 416. Cfr. su questi temi anche lo scritto del 1985 War and Social Theory, in States, War and Capitalism, cit., pp. 146-165 (trattato infra, § 1.3.) 137 Cfr. M. Janowitz, The Professional Soldier, Free Press, New York 1960, e B. Bond, War and Society in Europe, 1870-1970, Fontana, London 1984. 138 M. Mann, The Sources of Social Power, vol. 2, cit., p. 437.

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ni industrializzate, la natura delle classi e dello Stato sarà già diversa: le vicende del primo proletariato britannico e del cartismo costituiscono un unicum storico che non si ripeterà in nessun altro Paese.139 In base al modello marxiano del conflitto di classe, i lavoratori e i capitalisti, «classi universali» simmetriche, si trovano reciprocamente contrapposti in rapporto al possesso dei mezzi di produzione. Sono le stesse relazioni produttive imposte dal capitale a rendere la classe lavoratrice coesa e unitaria: i lavoratori nutrono infatti i medesimi interessi per effetto della loro comune condizione di sfruttamento, consolidando altresì la loro coscienza di classe mediante i legami che intrattengono tanto nelle industrie capitalistiche, le quali concentrano spazialmente ampi numeri di operai, quanto all’interno delle proprie comunità di vicinato.140 Queste opportunità di azione collettiva e di maturazione della coscienza politica danno vita a un movimento dei lavoratori internamente coeso in vista dell’obiettivo di un mutamento dei rapporti di produzione, da compiersi in modo rivoluzionario. Nel concordare con il modello marxiano circa il ruolo che, per la formazione di una comune coscienza di classe, hanno gli interessi economici e la similarità pratica delle condizioni di vita e di lavoro dei soggetti coinvolti, Mann afferma però che la coesione della classe lavoratrice prefigurata da Marx non era, e non avrebbe potuto essere, un’effettiva realtà politica. Egli sostiene questa tesi sulla base di una sua originale teoria delle classi. Abbiamo già avuto modo di considerare alcuni elementi di essa: innanzitutto il modello IOTA, elaborato da Mann nei suoi primi scritti.141 Esso riassume le componenti nelle quali la coscienza che una classe ha di sé deve necessariamente articolarsi per farsi portatrice di un’azione politica che, in un ambiente favorevole, possa condurre a un mutamento dei rapporti produttivi: 1. Identità: la capacità della classe in questione di percepirsi come classe a sé stante, dotata di un ruolo distinto nel processo produttivo; 2. Opposizione: la capacità di identificare un avversario di classe stabile ed effettivo; 3. Totalità: la consapevolezza che i due elementi precedenti rappresentano caratteristiche centrali a) della situazione del singolo in quanto componente della società; b) della stessa organizzazione sociale presente; 4. Alternativa: la prefigurazione di un ordine sociale alternativo, assunto come obiettivo raggiungibile e desiderabile. 139 Ivi, p. 510. 140 Cfr. ad es. K. Marx, Capitale, Libro I, cit., pp. 825-826. 141 Cfr. infra, § 1.1.1.

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La teoria delle classi che Mann traccia nel secondo volume di The Sources of Social Power, oltre al modello IOTA, riprende anche la distinzione in classi latenti, estensive e politiche delineata nel primo volume della serie:142 1. Classi latenti: esiste «oggettivamente» una stratificazione verticale della società, ma essa è mitigata dall’esistenza di relazioni economiche di tipo orizzontale che, rendendo le diseguaglianze meno evidenti, impediscono che esse diano vita a conflitto. 2. Classi estensive: a predominare sono le relazioni verticali, chiaramente percepite dai soggetti. Le classi hanno quindi un’effettiva estensione nella società e si identificano come reciprocamente indifferenti, alleate o contrapposte, ma mancano dell’organizzazione interna necessaria a produrre un’azione politica. 3. Classi politiche: si tratta di classi non solo estensive, ossia consapevoli di sé, ma anche politicamente organizzate in vista della trasformazione dello Stato in accordo con i loro obiettivi comuni o, al contrario, per la difesa delle condizioni esistenti. Tanto la classe capitalistica quanto quella dei lavoratori, afferma Mann, nella Gran Bretagna del diciannovesimo secolo sono classi politiche rispondenti al modello IOTA; in questo, la teoria marxiana sembra ricevere conferma dall’analisi di Mann. Vi è però un altro aspetto che secondo l’autore di The Sources of Social Power va considerato, il quale rende il quadro più complesso e consente di spiegare perché, nella storia, le classi operaie non abbiamo dimostrato la coesione prefigurata da Marx. Oltre all’interdipendenza e al legame tra i membri di una singola classe, congiunti da interessi e condizioni comuni, e alla divisione oppositiva di essi rispetto alla classe economicamente antagonistica, esistono infatti anche interdipendenze e divisioni segmentali e settoriali.143 Entrambe derivano dal fatto che i singoli lavoratori risultano molto meno simili e «intercambiabili» tra loro rispetto a quanto Marx e Engels pensavano si sarebbe verificato con la meccanizzazione capitalistica, la quale, a loro parere, avrebbe portato a una dequalificazione di massa dei lavoratori, 142 Cfr. infra, § 2.5. 143 M. Mann, The Sources of Social Power, vol. 2, cit., pp. 511-512; questi aspetti, non ancora oggetto di specifica e sistematica teorizzazione, emergevano anche nell’analisi che, in Workers on the Move, Mann compiva rispetto all’industria Alfred Bird & Sons (cfr. infra, § 1.1.).

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uniformandone oltremodo condizioni di vita e obiettivi sociali: il capitalismo industriale, sostiene invece Mann, dequalifica effettivamente le attività artigianali, ma non dà luogo a un uniforme livellamento delle mansioni, delle abilità e delle posizioni dei lavoratori.144 Si producono quindi forme di interdipendenza, come quella segmentale, in cui i lavoratori sono incentivati a riconoscersi non con il complesso della classe operaia, bensì con il ristretto «segmento di classe» a cui appartengono: ad esempio quello costituito dai lavoratori che, all’interno di una singola azienda dotata di mercato del lavoro interno, sono stati progressivamente promossi fino a occupare posizioni più ambite, implicanti mansioni più complesse. All’interno del mercato del lavoro interno a una particolare impresa si crea dunque un’interdipendenza tra lavoratori e datore di lavoro: quest’ultimo non può facilmente sostituire lavoratori addestrati nel corso di anni all’interno dell’azienda stessa, e i lavoratori, in questo modo, guadagnano un maggior potere contrattuale, in quanto il datore di lavoro non può agevolmente fare ricorso a crumiri in caso di sciopero. Dall’altra parte, tuttavia, essi sono consapevoli che, se dovessero cercare lavoro presso un’altra azienda, molto difficilmente verrebbero collocati fin dall’inizio nella posizione che erano giunti a ricoprire mediante anni di avanzamenti. I mercati del lavoro interni, quindi, segregano i lavoratori delle singole imprese rispetto alla classe operaia complessiva, e di conseguenza il conflitto di classe diviene spesso un conflitto «segmentale», relativo al singolo datore di lavoro e alle condizioni della singola azienda. L’interdipendenza settoriale riguarda sempre collettività di lavoratori definite in base al loro settore lavorativo o al loro livello occupazionale, ma, stavolta, considerato in riferimento all’intera classe operaia. Questo tipo di interdipendenza accomuna in particolare i lavoratori specializzati, i quali formano una sorta di «aristocrazia della classe operaia»145 che, in quanto tale, condivide solo parzialmente gli interessi degli altri lavoratori. Ciò dà luogo sia a forme di «chiusura»146 protezionistica mediante le quali gli operai specializzati cercano di ostacolare l’accesso di altri lavoratori al loro ambito, in modo da conservare la propria posizione esclusiva e i vantaggi ad essa connessi, sia, in caso di aperto conflitto capitale-lavoro, ad azioni di «repressione selettiva» da parte dei capitalisti: questi ultimi cer144 Ivi, p. 511. 145 Ivi, p. 512. 146 Cfr. anche il concetto di «chiusura» elaborato da F. Parkin in Classi sociali e Stato, trad. it. Zanichelli, Bologna 1985.

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cheranno cioè di disunire la classe operaia conciliando i lavoratori specializzati mediante concessioni, e riservando la repressione a quelli generici, più facilmente rimpiazzabili. Per effetto di queste forme di interdipendenza e di divisione, la classe operaia è molto meno compatta di quanto pensava Marx: i conflitti di classe si intersecano, in modo complesso e spesso scarsamente prevedibile, con divisioni e interdipendenze segmentali e settoriali. Ma le scissioni interne alla classe lavoratrice non finiscono qui: a giocare un ruolo non secondario vi sono anche, specialmente in Paesi multietnici, divisioni relative all’etnicità, alla nazionalità, alla religione. Il marxismo, sostiene inoltre Mann, raramente considera nella sua specificità l’azione dello Stato e delle sue cristallizzazioni, in particolare di quella politica e quella militare: vedremo a breve, ripercorrendo l’analisi comparata che Mann svolge rispetto ai conflitti di classe nei principali Paesi europei, come l’identità di classe, il conflitto e le sue possibilità di successo siano fortemente condizionate da questi aspetti. Di grande importanza sono anche le relazioni famigliari e di genere, sistematicamente trascurate dal marxismo.147 In conseguenza di tutti questi fattori, il conflitto di classe è raramente un confronto testa-a-testa, bensì comprende logiche distinte, quando non reciprocamente contraddittorie. Anche nei casi di conflitto diretto, inoltre, è difficile che si produca l’esito rivoluzionario previsto da Marx: la classe capitalistica, a causa del minor peso che in essa hanno segmentazione e settorializzazione rispetto alla classe operaia, può facilmente reagire a quest’ultima diminuendo il suo frazionamento interno; e cioè compattandosi al fine di sconfiggere, con la forza indiscriminata o con tattiche di conciliazione selettiva, l’azione politica dei lavoratori. L’approccio di Mann in termini di potere organizzativo risulta particolarmente adeguato all’indagine delle dinamiche della lotta di classe. Egli, differenziando quattro fasi temporali, ripercorre l’emergere della classe operaia britannica e i conflitti tra lavoratori e capitalisti che hanno luogo tra la fine del diciottesimo secolo e l’inizio del ventesimo.148 La fase iniziale, che si estende dal 1760 al 1832, vede il nascere del147 M. Mann, The Sources of Social Power, vol. 2, cit., p. 513. 148 I principali riferimenti di Mann, in questa sezione, sono E. P. Thompson, Rivoluzione industriale e classe operaia in Inghilterra, cit.; H. Perkin, The Origins of Modern English Society, 1780-1880, Routledge & Kegan Paul, London 1969; A. E. Musson, British Trade Unions 1800-1875, Macmillian, London 1979; W. H. Fraser, Trade Unions and Society, Allen & Unwin, London 1974; T. Tholfsen, Working Class Radicalism in Mid-Victorian England, Croom Helm, London 1979; E. H. Hunt, British Labour History, 1815-1914, Weidenfeld & Nicolson,

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le prime forme di coscienza di classe, inizialmente relative soprattutto all’ambito del lavoro artigianale. Con il sorgere delle prime manifatture, gli artigiani passano infatti, dall’essere lavoratori autonomi, a forme di impiego dipendente meno qualificato, implicante una perdita di status e un generalizzato peggioramento delle loro condizioni di vita, lavoro e retribuzione. In questo quadro si produce un’iniziale solidarietà settoriale degli artigiani in fase di proletarizzazione, e, in seguito all’abolizione dei limiti legali sui salari minimi, hanno luogo i primi scioperi, i quali però non portano risultati per i lavoratori.149 Ogniqualvolta tuttavia le rivendicazioni dei lavoratori – prive di carattere rivoluzionario, ispirate piuttosto a una logica di protezione del loro status economico e sociale – vengono represse o restano inascoltate, l’agitazione si amplia a sempre nuovi settori lavorativi, i cui appartenenti iniziano anch’essi a sentirsi minacciati dall’avanzare del capitalismo.150 In questo processo, come E. P. Thompson mette magistralmente in luce nel suo Rivoluzione industriale e classe operaia in Inghilterra, le richieste dei lavoratori si saldano con aspetti religiosi, nazionali e politici: e cioè con l’idea protestante di eguaglianza morale di ogni uomo e con rivendicazioni di suffragio universale, basate su una concezione ideale dei diritti del «libero cittadino inglese»151. L’identità di classe dei lavoratori viene involontariamente rafforzata, in senso nazionale e politico, anche dalla cristallizzazione militaristica dello Stato: l’opposizione degli artigiani contro lo sfruttamento da parte degli imprenditori capitalistici fa un tutt’uno con la richiesta di diritti rappresentativi per poter avere voce nelle questioni fiscali, come anche con la protesta contro l’eccessiva tassazione che veniva imposta alle classi subordinate dall’ancien régime, unica classe effettivamente rappresentata in parlamento. Se mediante il combinarsi di più rivendicazioni le proteste sociali si diffondono e si rafforzano, al contempo la classe lavoratrice non ha, in questa fase, un avversario politico chiaro e univoco: gli oppositori dei lavoratori nelle lotte economiche, ossia i capitalisti borghesi, sono loro alleati in quelle per la rappresentanza; l’embrionale movimento operaio che in questo periodo si sviluppa, inoltre, comprende in sé quasi solo la frazione di classe costituita dagli artigiani, e non anche i manovali o i lavoratori privi London 1981, e N. Kirk, The Growth of Working Class Reformism in Mid-Victorian England, Croom Helm, London 1985. 149 Ivi, p. 519. 150 Ibid. 151 Ivi, p. 520. Cfr. E. P. Thompson, Rivoluzione industriale e classe operaia in Inghilterra, cit., vol. 1, p. 194.

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di qualificazioni. Prima della riforma del 1932, dunque, l’emergente classe lavoratrice fatica a dar vita a un’azione politica coerente, universale e risoluta:152 contrariamente a quanto afferma E. P. Thompson, in questa fase per Mann non è dunque possibile vedere già all’opera una «classe operaia» propriamente detta. Per assistere al cementarsi di tale classe e allo sviluppo in essa di quelle caratteristiche di identità, opposizione, totalità e alternativa che costituiscono i capisaldi del modello IOTA, bisogna attendere il Reform Bill del 1832. Come abbiamo visto nel secondo paragrafo del presente capitolo, in seguito alla riforma, la classe borghese e l’ancien régime si fondono in un’unica classe dominante. Al contempo i lavoratori non ottengono diritti di rappresentanza né un miglioramento del quadro giuridico relativo al lavoro; vengono anzi ristrette le libertà di stampa, mentre le prime unioni sindacali vengono dichiarate illegali in quanto «cospirazioni».153 Lo Stato si cristallizza come sempre più capitalistico, mentre lo sviluppo del capitalismo industriale sottopone un numero crescente di appartenenti alle classi subordinate a un comune destino di sfruttamento e alle stesse condizioni di vita e di lavoro. Questi sviluppi ottengono l’effetto di cementare il movimento dei lavoratori e dare ad esso un singolo avversario, la classe dominante capitalistica, contro cui indirizzare rivendicazioni unitarie. Nasce così il movimento del cartismo,154 che presenta alla Camera dei comuni la Carta del popolo, una petizione richiedente il suffragio universale maschile a scrutinio segreto, la rielezione annuale del parlamento, l’istituzione di un’indennità economica per i deputati, e collegi elettorali numericamente uguali. Gli obiettivi politici del cartismo, nota Mann, altro non erano che strumenti attraverso cui, una volta guadagnato accesso alle istituzioni, i lavoratori intendevano perseguire le loro finalità di carattere economico e giuridico.155 Il cartismo si diffonde rapidamente tra i lavoratori, eccetto che nelle grandi città: esso si propagava infatti attraverso le comunità di vicinato, che nei nuovi agglomerati urbani industriali erano meno numerose e coese. Il radicamento nella sfera comunitaria e famigliare conferisce a questo movimento forti risorse motivazionali: la mobilitazione di persone ed energie si fa più intensa quando ad essere colpiti dai problemi a cui essa mira a contrapporsi sono i legami più stretti ed 152 M. Mann, The Sources of Social Power, vol. 2, cit., p. 522. 153 Ivi, p. 524. 154 Cfr. a riguardo A. Briggs, Chartist Studies, MacMillan & Co., London 1959; D. Jones, Chartism and the Chartists, Allen Lane, London 1975; D. Thompson, Il Cartismo, trad. it. La Pietra, Milano 1978. 155 M. Mann, The Sources of Social Power, vol. 2, cit., p. 524.

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emotivamente connotati dei soggetti. In questo caso, «la distruzione delle famiglie dei lavoratori, l’impiego in fabbrica di donne e bambini, la Poor Law e le forme di tassazione regressiva avevano impatto su tutto il nucleo famigliare e non unicamente, come in seguito, sui lavoratori di sesso maschile».156 Il cartismo prende quindi piede come un movimento coeso, determinato, esteso e coerente. Come mai, allora, esso non riesce a raggiungere i suoi scopi, ma anzi declina irrimediabilmente a metà del diciannovesimo secolo? Le ragioni, per Mann, non vanno cercate in errori relativi all’azione politica dei lavoratori, ma, piuttosto, nell’assenza di fratture e divisioni in campo avversario su cui poter far leva. La classe capitalistica, di fronte all’offensiva dei lavoratori, si ricompatta con grande forza e rapidità, mostrando una straordinaria consapevolezza dei propri interessi di classe.157 Il confronto testa-a-testa tra lavoratori e capitalisti viene vinto da questi ultimi, che, di fronte ad ampie e partecipate dimostrazioni cartiste, fanno ricorso a forze militari e di polizia le quali mettono in atto una repressione ponderata e misurata, volta (anche se non sempre con successo) a evitare eccessivi spargimenti di sangue e conseguenti escalation del conflitto. Saranno poi divergenze tattiche interne a dare il colpo di grazia a un movimento già fortemente indebolito. Inoltre, afferma Mann, per spiegare il declino del cartismo occorre considerare l’effetto che le leggi per la limitazione del lavoro minorile e femminile sortiscono sul coinvolgimento dell’intera famiglia e delle comunità di vicinato nel movimento cartista.158 Non potendo più guadagnare quanto prima a causa di limitazioni dell’orario di lavoro per altri versi giuste e necessarie, la donna si trova, all’interno della famiglia, in una posizione maggiormente subordinata e dipendente dalle scelte del capofamiglia; la comunità di vicinato operaia in una certa misura si depoliticizza, mentre i luoghi di lavoro, a preponderanza maschile, divengono l’ambito principale dell’azione politica di classe. Successivamente al declino del cartismo, le rivendicazioni dei lavoratori assumeranno un carattere quasi esclusivamente economicistico, volto ad assicurare al capofamiglia il «family wage», ossia uno stipendio che possa mantenere l’intero nucleo famigliare. Dopo il 1850 i sindacati degli operai più qualificati, oltre a farsi portatori di queste rivendicazioni, aumentano gli sforzi di carattere protezionistico volti a limitare l’ingresso di altri lavo156 Ivi, p. 526. Sul coinvolgimento della comunità famigliare nelle lotte di classe, cfr. anche C. Calhoun, The Question of Class Struggle, Blackwell, Oxford 1982. 157 M. Mann, The Sources of Social Power, vol. 2, cit., p. 530. 158 Ivi, p. 535.

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ratori alla loro professione; parallelamente, proliferano i mercati del lavoro interni, favorendo il diffondersi di forme di interdipendenza segmentale, oltre che settoriale, le quali rendono meno acuto e diretto il conflitto tra lavoro e capitale. Esso è depotenziato anche dal prendere piede delle cosiddette «respectable unions», i sindacati che vengono considerati «rispettabili», da prospettiva capitalistica, in quanto si adoperano per garantire una mediazione tra lavoratori e datori di lavoro che assicuri la continuità della produzione.159 Una linea di riformismo contraddistinguerà anche le posizioni del partito laburista, sorto nel 1900 nel contesto del «new unionism»;160 esso determinerà la definitiva incorporazione democratico-rappresentativa delle lotte dei lavoratori in una direzione ben lontana non solo da aspirazioni rivoluzionarie, ma anche da più concilianti posizioni socialdemocratiche. Se la seconda rivoluzione industriale in Gran Bretagna provoca l’avvento del nuovo unionismo e un breve ravvivarsi del conflitto di classe, anche negli altri Paesi europei avanzati la più forte competizione internazionale e l’alta concentrazione di capitali che da essa risultano, soprattutto nell’industria pesante, portano a un esacerbarsi della contrapposizione tra capitalisti e lavoratori. Le pressioni per la diminuzione dei salari e per l’aumento delle ore lavorative, nonché il peggioramento delle condizioni di lavoro, compattano la classe operaia in senso estensivo e politico. Mentre però la situazione appena delineata è la stessa in tutti i Paesi industrializzati, in ogni Paese essa conduce a esiti diversi, sia per quanto riguarda le ideologie sviluppate dai lavoratori che le forme e i risultati della lotta. In Russia avremo una rivoluzione comunista; in Germania, una quasi-rivoluzione; la Gran Bretagna, come abbiamo visto, si orienta a un mite riformismo, mentre negli Stati Uniti si verifica quello che Mann denomina un «settorialismo senza socialismo». Da cosa dipende questa differenza di risultati? La risposta di Mann è chiara: dalle cristallizzazioni politiche e militari vigenti nello Stato in questione e, in minor misura, dalla struttura interna alla comunità dei lavoratori.161 In generale, scrive Mann, Stati la cui cristallizzazione democratico-rappresentativa è maggiormente consolidata metteranno in atto strategie di conciliazione selettiva e/o di incorporazione istituzionale nei confronti dei lavoratori, depotenziando in tal modo il conflitto e orientando il movimento operaio verso posizioni meno radicali, 159 Cfr. M. Savage, The Dynamics of Working-Class Politics, Cambridge University Press, Cambridge 1987. 160 Cfr. M. Mann, The Sources of Social Power, vol. 2, cit., p. 601; l’ottenimento del suffragio universale maschile, in Gran Bretagna, avviene nel 1885. 161 Ivi, p. 628. Cfr. anche Ruling Class Strategies and Citizenship, in States, War and Capitalism, cit., pp. 188-209.

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come nel caso britannico. Stati autoritari o semi-autoritari fronteggeranno invece i lavoratori mediante forme di repressione indiscriminata e, nel caso di cristallizzazioni fortemente militariste, violenta; una strategia che, laddove non riesca a cancellare il movimento operaio, lo fortifica, in quanto le divisioni settoriali e segmentali vengono meno di fronte all’esperienza della brutale repressione che accomuna i lavoratori. Sempre per effetto di quest’ultima, inoltre, le classi operaie tendono a convergere verso posizioni più radicali, grazie anche all’azione ideologico-egemonica di intellettuali vicini alla causa dei lavoratori sia a livello di princìpi ideali, che per quanto riguarda l’esperienza della repressione.162 Questo è il caso russo, che Mann considera diffusamente nel terzo volume di The Sources of Social Power e che noi andremo a ripercorrere nel prossimo capitolo. Gli Stati Uniti sembrano costituire un’eccezione tanto rispetto alla progressiva inclusione rappresentativa quanto alla repressione autoritaria dei movimenti dei lavoratori: pare, infatti, non esservi stato un movimento operaio. Gli USA sono «il Paese senza socialisti», come recita la famosa definizione di Sombart;163 ma è sempre stato così? Sono state proposte almeno tredici diverse spiegazioni, afferma Mann, del perché non vi sarebbero socialisti negli Stati Uniti. Esse sono riconducibili a tre grandi famiglie:164 1) un’ideologia socialista non si sarebbe prodotta a causa del marcato individualismo del «carattere americano»; 2) la società americana, frammentata in religioni, etnie e nazionalità, non avrebbe potuto dar vita a un movimento collettivistico come quello socialista; 3) la democrazia precocemente istituzionalizzata negli Stati Uniti fa venir meno il bisogno di ideologie radicali. Mann si contrappone a tutte queste spiegazioni e alla tesi di fondo che esse intendono motivare: gli Stati Uniti, egli afferma, non nascono come «caso particolare», bensì lo diventano agli inizi del 1900.165 Prima del 1914, gli USA presentavano un livello di sindacalizzazione e di partecipazione agli scioperi in linea con lo sviluppo industriale che avevano raggiunto, sebbene il movimento dei lavoratori fosse già attraversato da 162 M. Mann, The Sources of Social Power, vol. 2, cit., p. 630. Queste tesi, come abbiamo visto nel primo capitolo del presente volume, vengono anticipate da Mann nello scritto del 1975 The Ideology of Intellectuals and Other People in the Development of Capitalism. 163 Cfr. W. Sombart, Perché negli Stati Uniti non c’è il socialismo?, trad. it. Mondadori, Milano 2006. 164 M. Mann, The Sources of Social Power, vol. 2, cit., pp. 636-637. Cfr. anche S. M. Lipset, Why No Socialism in the United States?, in Sources of Contemporary Radicalism, a cura di S. Bialer e S. Sluzar, Westview, Boulder 1997. 165 M. Mann, The Sources of Social Power, vol. 2, cit., p. 638.

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divisioni di carattere etnico e religioso. Una situazione ben diversa da quella di oggi, in cui, afferma Mann, che peraltro risiede dal 1987 negli Stati Uniti, «la forma dominante dei rapporti di produzione è desindacalizzata, fondata sui mercati del lavoro interni e su concessioni da parte dei datori di lavoro per quanto riguarda le grandi industrie, mentre un alto grado di sfruttamento caratterizza il settore secondario».166 Per spiegare come si sia giunti alla situazione odierna, occorre riferirsi alle cristallizzazioni dello Stato americano ai tempi della seconda rivoluzione industriale e negli anni precedenti alla prima guerra mondiale, quando il movimento dei lavoratori viene spezzato. Gli Stati Uniti, innanzitutto, erano e sono il Paese che spinge alla massima intensità la sua cristallizzazione capitalistica. Questo si riflette, a livello giuridico, nella preminenza dei diritti individuali su quelli collettivi: nei tribunali i capitalisti possono contare sul sostegno dello Stato contro il movimento operaio. La cristallizzazione militaristica degli Stati Uniti portava lo Stato non solo a intervenire militarmente, con misure di repressione indiscriminata contro dimostrazioni e scioperi, ma anche a rendere legittimo il ricorso, da parte dei singoli capitalisti, a forze paramilitari private. Di fronte alla violenza della repressione, che rende gli Stati Uniti il Paese con il più alto numero di lavoratori uccisi in scontri sindacali dopo la Russia,167 declina la partecipazione al movimento operaio. Ma perché si ha questo esito, invece che, come accade in Russia, una radicalizzazione del conflitto? La ragione, per Mann, è nella pregressa frammentazione della classe operaia statunitense sul piano etnico e religioso, oltre che politico:168 la strategia riformista dell’AFL, il principale sindacato americano, non era infatti appoggiata da tutti i lavoratori, mentre la loro divisione in comunità di nazione o di credo non favoriva la compattezza del movimento. Gli interessi operai, peraltro, erano rappresentati politicamente solo da piccoli partiti a base etnica o religiosa, incapaci quindi di contrapporsi ai due partiti principali, entrambi favorevoli alla repressione capitalistica delle proteste dei lavoratori. Per di più, in presenza di uno Stato che aveva già istituzionalizzato la democrazia, i lavoratori non potevano neanche trovare unificazione nelle lotte per la rappresentanza politica, come era invece accaduto in Europa. La cristallizzazione democratico-bi166 Ivi, pp. 643-644. 167 Ivi, p. 635. 168 Ivi, pp. 647-654. Cfr. S. Hirsch, Roots of the American Working Class, University of Pennsylvania Press, Philadelphia 1978, e I. Katznelson, City Trenches, Pantheon, New York 1981.

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partitica degli Stati Uniti, dunque, era un ulteriore fattore di indebolimento per il movimento dei lavoratori, come anche la cristallizzazione relativa al piano nazionale: le lotte messe in atto dalla classe lavoratrice si frammentano tra livello federale, nazionale e locale, tanto più che molti aspetti relativi al lavoro erano regolati giuridicamente dai singoli Stati. In conclusione, quindi, il panorama delle lotte tra capitale e lavoro non nasce, negli Stati Uniti, come eccezionale. Lo diventa a causa dell’azione delle quattro cristallizzazioni capitalistica, militare, democratica e federalista, i cui effetti amplificano le divisioni già esistenti tra i lavoratori. La classe lavoratrice statunitense era sostanzialmente priva della dimensione della totalità. 3.6. I grandi attori di potere del XIX secolo: nazioni e nazionalismi Nel suo articolo The Emergence of Modern European Nationalism, Mann definisce il nazionalismo come «un’ideologia che asserisce la superiorità morale, culturale e politica di un gruppo etnico (vero o immaginato)».169 Nel periodo che stiamo prendendo in esame si evidenziano tre tipi di nazionalismo: il «nazionalismo rafforzatore di Stato», che ha luogo in quei Paesi, come la Francia o la Gran Bretagna, in cui l’ideologia nazionale è coestensiva al territorio statale; il «nazionalismo sovvertitore di Stato», che è proprio di gruppi etnici che non si riconoscono nello Stato di cui fanno parte ed elaborano quindi ideologie nazionali separatiste, come avviene ai danni dell’impero austroungarico, di quello russo e di quello ottomano; e il «nazionalismo creatore di Stato», che si verifica in tutti quei casi in cui la nazione idealmente percepita si estende al di là dei confini di un singolo Stato, come nel caso del Piemonte per la nazione italiana o della Prussia per quella tedesca.170 Mann propone una teoria «modernista» del nazionalismo: esso è concepito cioè come un fenomeno prettamente moderno, in contrapposizione alle prospettive «perennaliste», che intendono le nazioni come un dato permanente e immutabile, e quelle «primordialiste», le quali vedono queste ultime come comunità storiche, non perenni, ma comunque fondate su le-

169 M. Mann, The Emergence of Modern European Nationalism, in Transition to Modernity: Essays on Power, Wealth and Belief, a cura di J. A. Hall e I. C. Jarvie, Cambridge University Press, New York 1992, pp. 137-166: 137. 170 M. Mann, A Political Theory of Nationalism and its Excesses, in Notions of Nationalism, a cura di S. Periwal, Central European University, BudapestLondon-New York 1995, pp. 44-64: 46.

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gami ancestrali (ed essenzializzati) di tipo etnico e culturale.171 È solo nel diciottesimo secolo, con lo sviluppo intrecciato di Stato moderno e lotte per la rappresentanza, che secondo le teorie moderniste può diffondersi tra le popolazioni la consapevolezza della loro identità nazionale. Questo è il periodo che Mann denomina «fase militare»,172 a indicare l’origine delle lotte per la rappresentanza, che, come abbiamo visto, va cercata nella tassazione e nella coscrizione da parte dello Stato: la rivoluzione francese e le lotte britanniche per la riforma elettorale sono chiari esempi del sorgere di una diffusa coscienza nazionale in rapporto alla pressione sullo Stato per l’inclusione nelle istituzioni rappresentative. La fase successiva, che va dalla metà del diciannovesimo secolo alla prima guerra mondiale, viene denominata da Mann «fase industriale».173 Per effetto dell’espansione delle funzioni statali – costruzione di infrastrutture, intervento nell’economia, istruzione pubblica e prime forme di assistenza sociale – la coscienza nazionale va facendosi più profonda, enfatizzata anche da forme di propaganda, nella scuola e nella società, volte ad accrescere la fedeltà dei cittadini alla patria: la nazione viene identificata come «madre» o «padre», come «casa» o «focolare».174 La socializzazione in senso nazionale di classi e cittadini rappresenta per le élite politiche un ottimo strumento per contenere i conflitti sociali e per mobilitare la popolazione in vista delle finalità statali. Tuttavia, nota giustamente Mann, «percepirsi come membri di una comunità nazionale non implica necessariamente adottare un atteggiamento di aggressività verso le altre nazioni»:175 in questo periodo iniziano a prendere piede, in alcuni Paesi e strati sociali, anche ideologie di nazionalismo aggressivo; dove esse si diffondono, e perché? Una componente di militarismo difensivo era comune a tutti i «sentimenti nazionali». I valori a cui i cittadini dei diversi Stati venivano socializzati riflettevano infatti, al di là delle particolarità nazionali, i princìpi prevalenti a quel tempo: l’onore militare, derivato dalla precedente e più bellicosa fase di sviluppo degli Stati, era uno di essi, nonché un elemento fondamentale della cultura maschile-patriarcale. Sentimento nazionale e ideali di valore militare venivano trasmessi congiuntamente in tutte le principali agenzie di socializzazione, ma la retorica utilizzata era quella della difesa della patria, piuttosto che quella di una supremazia naziona171 M. Mann, The Sources of Social Power, vol. 2, cit., p. 215. Cfr. A. D. Smith, Nationalism and Modernism, Routledge, London 1998. 172 M. Mann, A Political Theory of Nationalism and its Excesses, cit., p. 46. 173 Ivi, p. 53. 174 M. Mann, The Sources of Social Power, vol. 2, cit., p. 732. 175 M. Mann, A Political Theory of Nationalism and its Excesses, cit., p. 55.

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le da imporsi mediante le armi.176 È stato spesso scritto, in particolare da storici e filosofi politici marxisti, che ideologie di nazionalismo aggressivo sarebbero state particolarmente diffuse tra le classi medie di tutti i Paesi europei: Poulantzas, ad esempio, sostiene che la piccola borghesia viene in gran parte proletarizzata in seguito alla seconda rivoluzione industriale;177 a causa di questa retrocessione sociale o per reazione psicologica al timore di essa, come afferma anche Wright Mills,178 i suoi membri sviluppano generalizzate inclinazioni aggressive e semiparanoidi. Essi estremizzano cioè l’ideologia nazionalista al punto da identificare il nemico nello straniero, e trovano compensazione per il proprio senso di impotenza in un progetto di superiorità etnica da attuarsi militarmente sia contro le nazioni europee percepite come rivali che, imperialisticamente, in ambito coloniale.179 Mann rifiuta tanto la tesi di una proletarizzazione della piccola borghesia quanto quella di particolari tendenze di questa classe al nazionalismo aggressivo: con la transizione al capitalismo industriale solo parti del settore artigianale e manifatturiero vengono proletarizzate; nel complesso, il declino sociale attraversato dalla piccola borghesia è quindi poco notevole. All’inizio del 1900, proprio a causa dello scivolamento degli artigiani nel proletariato e del godimento, da parte del resto delle classi medie, dei vantaggi derivanti dallo sviluppo del capitalismo industriale, si amplia anzi la distanza di status che intercorre tra gli appartenenti alla piccola borghesia e i lavoratori; quest’ultima, come Mann dimostra attraverso un’analisi comparata riferita ai principali Paesi europei e al Giappone, intensifica e consolida i propri caratteri di frazione della classe media distinta sia dal proletariato che dal grande capitale. I membri della piccola borghesia non erano estremisti nazionalisti né soggetti risentiti e collettivamente inclini a 176 M. Mann, The Sources of Social Power, vol. 2, cit., pp. 579 e 734. La supremazia attraverso le armi, da affermare tanto rispetto agli altri Stati europei quanto alle popolazioni locali, veniva però imposta negli imperi coloniali: qui, il militarismo che in patria aveva caratteristiche difensive dispiegava tutta la sua potenza aggressiva verso popolazioni ritenute incivili e inferiori. Come Mann afferma in Authoritarian and Liberal Militarism (in International Theory, a cura di S. Smith, K. Booth e M. Zelewski, Cambridge University Press, Cambridge 1996, pp. 221239) il «militarismo di vicinato», ossia diretto agli altri Paesi europei, per tutto il XIX secolo rimane assai contenuto, mentre il «militarismo del globo» si scatena liberamente. 177 M. Mann, The Sources of Social Power, vol. 2, cit., p. 553. Cfr. N. Poulantzas, Classi sociali e capitalismo oggi, trad. it. Etas, Milano 1978. 178 Cfr. Ch. W. Mills, Colletti bianchi. La classe media americana, trad. it. Einaudi, Torino 1967. 179 M. Mann, The Sources of Social Power, vol. 2, pp. 553 e 786.

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reazioni di xenofobia paranoide: piuttosto, si trattava per la maggior parte di «tranquilli conservatori»,180 concentrati sulla propria attività professionale e assai poco propensi a ideologie radicali di qualsiasi genere.181 Le ideologie imperialiste, razziste e nazionaliste che si propagano in Europa tra fine ‘800 e inizio ‘900 non erano radicate nelle classi medie: esse trovavano origine e diffusione soprattutto tra gli alti funzionari statali, provenienti dall’ancien régime, e nelle scuole private in cui i loro figli venivano formati alla carriera statale. Una parziale eccezione è rappresentata dal jingoismo, una forma di ideologia nazionalista e sciovinista diffusa prevalentemente in Gran Bretagna, che trovava i suoi principali sostenitori in un particolare segmento di frazione della borghesia: i funzionari statali di carriera e la classe media istruita.182 In Germania e in Austria le medesime frazioni di classe ospitavano il maggior numero di nazionalisti estremi, complessivamente più numerosi che negli altri Paesi europei: essi erano la colonna portante dei gruppi di pressione che, all’inizio del 1900, guadagnano sempre maggiore influenza in Germania. Non si trattava però, nel caso britannico come in quello tedesco, di un nazionalismo dai tratti ansiosi e paranoidi: esso, in particolare nel caso dei funzionari di carriera, derivava dall’estrema fedeltà allo Stato di soggetti che erano stati socializzati in base ai suoi valori, che traevano da esso il proprio sostentamento e riponevano in esso le proprie aspirazioni di avanzamento sociale. Questi soggetti si concepivano come portatori di modernità, di ideologie che avrebbero dischiuso un futuro di affermazione e di benessere per la propria nazione, unita e solidale nel perseguimento dei suoi giustificati interessi di sviluppo interno e di espansione coloniale.183 In Germania e in Austria una più ampia diffusione del nazionalismo aggressivo non era prerogativa solo dei funzionari di ancien régime e dei carrieristi di classe media: essa riguardava tutte le classi dominanti. La ragione di questa particolarità è da ricercarsi nelle strategie di divide et impera e di repressione selettiva messe in atto dalla monarchia tedesca: in un Paese percorso da un acuto conflitto di classe tra capitale e lavoratori, ma dotato di un sistema politico disegnato al fine da escludere il partito socialdemocratico da una rappresentanza effettiva, e quindi privo di reali modalità di istituzionalizzazione del conflitto, il nazionalismo diviene un’ideologia di distrazione di massa: tanto nelle sue componenti imperia180 181 182 183

Ivi, p. 579. Ivi, p. 558. Ivi, p. 582-583. Ivi, p. 587.

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listiche, relative alle conquiste coloniali, quanto in quelle riguardanti l’affermazione della Germania tra gli Stati europei, esso viene impiegato per riaffermare un’idea di grandezza e di sicurezza che i cittadini comuni sentono venir meno nelle loro percezioni sociali quotidiane.184 Al contempo, le ideologie nazionaliste, ispirate al principio di una nazione forte, coesa e internamente omogenea, permettono di unire tra loro le classi che si sentono minacciate dal potere dei lavoratori o da altri gruppi percepiti come infedeli agli obiettivi nazionali: socialisti e minoranze etniche o religiose (in primis ebrei e cattolici) ottengono, come abbiamo visto, la denominazione collettiva di Reichsfeinde, «nemici dell’impero». Mediante una strategia guidata dall’alto, anche in questo caso senza una chiara idea delle possibili conseguenze, in Germania le élite al potere favoriscono quindi il diffondersi di forme di nazionalismo aggressivo,185 in un contesto in cui vanno a intrecciarsi la cristallizzazione monarchico-autoritaria, con le sue tattiche di divide et impera; quella capitalistica, relativa ai conflitti di classe; la cristallizzazione nazionale, vissuta con particolare enfasi da uno strato di zelanti funzionari statali; e quella militarista, portata avanti da una «casta militare» sempre meno rimessa al controllo civile. Per quanto riguarda le convinzioni delle classi operaie, esse erano tradizionalmente pacifiste e lontane da nazionalismi di sorta: non solo per il carattere transnazionale del movimento socialista in cui molti lavoratori militavano, ma altresì per una radicata avversione al militarismo, la cui funzione repressiva essi avevano più volte sperimentato direttamente.186 Anche i contadini, che negli Stati autoritari (Russia, Austria e Germania) erano esclusi dalla partecipazione alle istituzioni rappresentative e che quindi, come i lavoratori, erano maggiormente immuni alla socializzazione in base a ideologie nazionaliste, avevano una tradizionale vocazione pacifista derivante dall’ostilità alla coscrizione.187

184 Ivi, p. 588 e 735. 185 Cfr. A. J. Mayer, Domestic Causes of the First World War, in The Responsability of Power, a cura di L. Krieger e F. Stern, Macmillan, London 1968. 186 M. Mann, The Sources of Social Power, vol. 2, cit., pp. 784-785. 187 Sulle posizioni politico-ideologiche generali delle classi agrarie all’inizio del 1900, cfr. A. Kane e M. Mann, A Theory of Early Twentieth-Century Agrarian Politics, in «Social Science History», 1992 (XVI), pp. 421-456. In questo saggio gli autori sostengono che, contrariamente alla visione marxiana, i contadini fossero una classe capace di organizzarsi efficacemente in difesa dei propri interessi. Tali interessi non erano inoltre di carattere intrinsecamente conservatore né immancabilmente rivoluzionario, come spesso affermato da sinistra: piuttosto, i contadini si orientavano più di frequente a un riformismo moderato e settoriale,

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I capitalisti, per quasi tutto il diciannovesimo secolo, come abbiamo visto, mantengono un’impostazione transnazionale, ritenuta la più adeguata al perseguimento dei loro interessi economici. Agli inizi del 1900, per effetto del mutato clima diplomatico, si orientano invece a forme di nazionalismo economico, assicurando il proprio appoggio a politiche economiche di tipo protezionistico. Gli interessi economici vengono concepiti come interessi nazional-territoriali, in un contesto di competizione tra nazioni per il profitto. Il nazionalismo capitalistico, però, era tutt’altro che radicale: i suoi sostenitori erano a favore di una rivalità puramente economica, piuttosto che militare, la quale avrebbe danneggiato i mercati e sconvolto per molto tempo l’economia globale. Perfino i fabbricanti di armamenti, scrive Mann, «preferivano le guerre fredde a quelle calde», dal momento che le prime consentivano loro, con la dovuta discrezione, di vendere armi a tutti i Paesi,188 a differenza delle seconde, in cui uno schieramento di campo diventava obbligato: essi, dunque, contrariamente a quanto afferma la storiografia marxista, non furono tra i responsabili della prima guerra mondiale. I capitalisti, sebbene tendenzialmente contrari al conflitto, erano tuttavia marginali nelle arene di decisione a tal proposito rilevanti, le quali erano dominate da élite statali provenienti dall’ancien régime e dall’ambito militare. Peraltro, come accade per tutte le classi, nell’imminenza della guerra la classe capitalistica è facilmente portata dalla propaganda a sostenere posizioni nazionaliste e militariste. Si diffonde quindi per le società civili europee un nazionalismo effimero e superficiale, associato a quello che Mann denomina «spectator-sport militarism», «militarismo sportivo da spettacolo»: «milioni di uomini e donne acclamavano nelle strade i giovani che partivano per la guerra, cantavano canzoni patriottiche e consegnavano piume bianche [le quali, simbolo di codardia, venivano offerte con scherno a chi non si arruolava volontario] – senza sostenere personalmente alcun costo».189 Una forma di militarismo che, come Mann avrà modo di osservare in opere successive, è assai attuale ancora oggi. 3.7. 1914: l’Europa si avvia alla catastrofe Le spiegazioni di come l’Europa sia precipitata nella prima guerra mondiale si rifanno essenzialmente a due distinti filoni teorici. Il primo si conossia relativo alla questione dello sfruttamento che i capitalisti mettevano in atto verso di loro mediante il sistema dei prestiti. 188 M. Mann, The Sources of Social Power, vol. 2, cit., p. 781. 189 M. Mann, A Political Theory of Nationalism and its Excesses, cit., p. 56.

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centra su motivazioni di politica interna agli Stati: in particolare, sull’acuirsi delle loro rivalità di carattere economico, come anche sullo sfuggire di mano di una ben precisa strategia dei governi nazionali, che Mann denomina «imperialismo sociale»: essa consiste nel lanciare un’offensiva contro «nemici della patria» interni ed esterni al fine di compattare l’opinione pubblica intorno allo Stato, distogliendola dai suoi malumori riguardanti il modo in cui viene condotta la politica interna. L’altro filone teorico assegna invece il primato a motivazioni di politica estera: in particolare, gli studiosi di impostazione macrorealista fanno derivare il conflitto mondiale dallo scontro di interessi geopolitici tra i vari Stati, mentre i microrealisti enfatizzano il carattere di incoerenza e fallibilità delle politiche nazionali, indotto da particolari configurazioni geopolitiche che conducono a errori di calcolo e ad una generale situazione di imprevedibilità.190 Mann, nella sua spiegazione delle cause della prima guerra mondiale, considera entrambi gli approcci, mirando altresì a indagare il ruolo delle cristallizzazioni degli Stati coinvolti e le conseguenze dell’azione dei quattro principali attori sociali di questo periodo: gli uomini di Stato, le classi sociali, i militari e i gruppi nazionalisti. Le cause immediate che portano allo scoppio del conflitto sono ben note: il 28 giugno 1914 l’arciduca Francesco Ferdinando, erede al trono d’Austria, viene ucciso in un attentato dallo studente serbo Gavrilo Princip, facente parte di un gruppo politico di nazionalisti orientato all’obiettivo di un’unificazione nazionale dei popoli slavi del sud. Un’indagine austriaca rivela la compiacenza della Serbia all’attentato, e, forte della consapevolezza che la Germania avrebbe garantito il suo sostegno a eventuali azioni militari, l’Austria invia un ultimatum a Belgrado. Il governo serbo, pur assicurandosi nel frattempo l’appoggio della Russia in caso di guerra, replica all’ultimatum in maniera conciliante. L’Austria rifiuta la conciliazione, e, su pressioni tedesche, il 28 luglio dichiara guerra alla Serbia; in risposta, lo zar fa schierare le proprie truppe a ridosso del confine austriaco e tedesco. A questo punto entrano in gioco le alleanze militari che le principali potenze europee avevano precedentemente stipulato a scopi difensivi: esse stabilivano che, nel caso uno dei Paesi sottoscrittori fosse stato attaccato, gli alleati sarebbero intervenuti in sua difesa. Le monarchie autoritarie di Austria e Germania, insieme all’Italia, che entrerà in guerra l’anno successivo, formavano la Triplice alleanza. Russia e Francia, insieme alla Gran Bretagna, che fa ingresso nel conflitto il 6 agosto 1914, costituivano la Tri190 Cfr. J. Joll, Le origini della prima guerra mondiale, trad. it. Laterza, Roma-Bari 1985; M. Mann, The Sources of Social Power, vol. 2, cit., pp. 740-741.

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plice intesa. La guerra, scatenata da un colpo di pistola, assume in questo modo proporzioni «semiglobali». Essa, scrive Mann, «non fu l’esito razionale di politiche razionali»,191 ma nemmeno dipese, come è stato affermato, da un’ondata di irrazionalità generalizzata che in quegli anni si sarebbe impossessata dell’Europa.192 Piuttosto, la prima guerra mondiale risultò dal complesso intreccio delle azioni, spesso imprevedibili, di una pluralità di attori sociali.193 Il conflitto non era considerato un esito desiderabile o vantaggioso dalle diplomazie delle grandi potenze, eccetto che da quella tedesca. Le ragioni alla base di questa cautela, che non trovò tuttavia riscontro nei fatti, erano la consapevolezza del livello di distruttività raggiunto dalle tecnologie militari, insieme a quella di aver raggiunto uno stabile equilibrio di potere internazionale che, essendo a somma zero, avrebbe comportato conseguenze disastrose per chi fosse uscito sconfitto dal conflitto conseguente alla rottura di esso.194 La competizione tra potenze, tratto ormai consolidato del panorama europeo, non necessitava inoltre di essere estremizzata in un conflitto militare: essa avrebbe potuto proseguire su strade pacifiche, come, lo abbiamo visto, la classe capitalistica auspicava quasi nella sua interezza.195 Mann torna su questo aspetto nella sua conversazione con John A. Hall, pubblicata in forma di volume con il titolo Power in the 21st Century: i capitalisti sono abituati a ragionare in termini di input e output, perdite e profitti, e chiaramente sono molto attenti a calcolare se trarranno vantaggio o meno da determinate scelte: di conseguenza, tengono solitamente un comportamento più razionale di quello delle élite statali e dei gruppi sociali mobilitati da esse.196

Mann rifiuta inoltre le interpretazioni che vorrebbero la prima guerra mondiale causata da un desiderio di egemonia economica, o comunque di guadagno materiale, da parte della Germania, come anche da una sua reazione difensiva contro un supposto «accerchiamento britannico» che avrebbe minacciato gli interessi economici del Reich. La Germania aveva infatti già sopravanzato economicamente la Gran Bretagna nella lotta per l’egemonia capitalistico-industriale.197 191 192 193 194 195 196 197

Ivi, p. 755. Cfr. ad es. E. Todd, Le fou et le proletaire, Laffont, Paris 1979. M. Mann, The Sources of Social Power, vol. 2, cit., p. 741. Ivi, p. 752. Ivi, p. 754. M. Mann, Power in the 21st Century, Polity Press, Cambridge 2011, p. 20. M. Mann, The Sources of Social Power, vol. 2, cit., p. 754.

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Le cause immediate dello scivolamento dell’Europa nel conflitto vanno dunque, secondo Mann, cercate in errori di calcolo, negli effetti imprevisti di strategie preventive in uno scenario in rapido mutamento, ma anche, come vedremo, nelle conseguenze delle cristallizzazioni politiche dei Paesi coinvolti e dell’azione di gruppi nazionalisti interni ed esterni alle istituzioni degli Stati. L’autore di The Sources of Social Power ricostruisce un ampio numero di errori di valutazione, dall’una e dall’altra parte degli schieramenti militari,198 che portano i capi di Stato e i vertici dell’esercito alternativamente a sottostimare e a sovrastimare il pericolo di un attacco straniero, e, di conseguenza, a prendere decisioni controproducenti.199 Gli uomini di Stato dei diversi Paesi, all’interno di una situazione estremamente opaca e in rapido mutamento, erano convinti di agire in termini di realismo razionale; in una certa misura questa loro convinzione corrispondeva a verità, ma vi era anche ampio spazio per fraintendimenti ed errori di calcolo.200 D’altra parte, a un livello più profondo, le loro azioni erano guidate anche da forti componenti emotive e ideologiche: idee di onore, di orgoglio nazionale, di valore militare:201 «essi condividevano forti concezioni ideologiche di onore, gloria, status, credibilità, come anche la paura e la vergogna di essere ritenuti deboli e, quindi, messi in ridicolo – le insicurezze emotive di bambini che litigano ai giardinetti».202 Componenti ideologiche erano presenti soprattutto nelle due monarchie autoritarie che costituivano l’Alleanza: Austria e Germania. Esse erano caratterizzate, come abbiamo visto nel paragrafo precedente, da forti gruppi nazionalistici sia nelle istituzioni statali che nella società civile. All’interno delle istitu-

198 Ivi, pp. 749-751. 199 Anthony Giddens, nella sua recensione al secondo volume di The Sources of Social Power, afferma pertanto: «gli eventi che portarono alla prima guerra mondiale non si prestano ad essere spiegati nei termini della teoria “realista” delle relazioni internazionali. Gli Stati e i capi di Stato semplicemente non hanno la coerenza di motivazioni e la chiara visione d’insieme che tale prospettiva presuppone». Cfr. A. Giddens, Rough and Tough, in «New Statesman and Society», VII (1994), n. 1, pp. 37-38. 200 A riguardo, Wolfgang Knöbl scrive che il modello IEMP «permette di tenere conto dei margini di libertà di azione dei gruppi e degli individui più rilevanti per gli accadimenti storici considerati, e allo stesso tempo, di teorizzare eventi contingenti nonostante l’esistenza di strutture apparentemente rigide». Cfr. W. Knöbl, Intelligible Past, Diffuse Present, in «Archives Européennes de Sociologie», LIV (2013), n. 3, pp. 423-438: 429. 201 M. Mann, The Sources of Social Power, vol. 2, cit., p. 757. 202 M. Mann, The Sources of Social Power, vol. 3, Cambridge University Press, New York 2012, p. 134.

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zioni il nazionalismo era diffuso a tutti i livelli, a partire dall’aristocrazia, i membri della quale costituivano la corte reale, il corpo diplomatico e gli alti comandi militari, fino all’amministrazione burocratica e ai funzionari statali provenienti dalle classi medie. Il nazionalismo della società civile era in gran parte indotto dall’alto, propagandisticamente, a riflettere le effettive convinzioni ideologiche delle élite statali, ma anche come strategia per unire classi e individui contro i Reichsfeinde; esso però poteva fare presa in quanto si ancorava su concezioni territoriali di interesse economico e su una diffusa percezione di vulnerabilità di fronte a potenze europee percepite come ostili.203 Come abbiamo avuto modo di considerare, l’élite statale tedesca governava attraverso un sistema fondato sul divide et impera, privo di una chiara attribuzione delle competenze, di canali di decisione univoci e proceduralmente fissati, nonché di centri di potere universalmente riconosciuti. Questa peculiare cristallizzazione semiautoritaria dello Stato tedesco fa sì che il ruolo di intrighi di corte, particolarismi e opacità sia molto più ampio che negli altri Stati: gli ultimi passi verso la guerra, in particolare, vengono compiuti dagli alti comandi militari indipendentemente da canali politici. La «casta militare» era andata autonomizzandosi rispetto al controllo civile nel corso dei decenni precedenti, al punto che il potere del capo di stato maggiore dell’esercito, Helmuth von Moltke, e quello del cancelliere, Theobald von Bethmann-Hollweg, si equivalevano; entrambi disponevano di canali di influenza autonomi sul Kaiser, loro unico superiore. Sarà proprio Moltke a persuadere quest’ultimo, sfruttandone la bellicosità caratteriale, a far entrare la Germania in guerra, senza peraltro rivelare ad alcuna autorità civile che i piani di mobilitazione delle truppe implicavano la violazione della neutralità del Belgio e, con essa, il rischio che la Gran Bretagna scendesse in campo; un rischio poi puntualmente tradottosi in realtà.204 Le finalità ultime delle élite statali tedesche, scrive Mann nel terzo volume di The Sources of Social Power, non erano quelle di far diventare la Germania la 203 M. Mann, The Sources of Social Power, vol. 2, cit., p. 754. 204 Ivi, p. 764. Come Mann sosterrà nel terzo volume di The Sources of Social Power, l’iniziale esitazione britannica a scendere sul campo di battaglia era dovuta al timore dei leader politici di perdere voti presso un’opinione pubblica di tendenze pacifiste: il governo britannico decise dunque di aspettare finché, come era prevedibile, la Germania non avesse violato la neutralità del «piccolo Belgio», pubblicizzando ampiamente le atrocità commesse dai soldati tedeschi in quell’occasione, in modo da dare una tonalità «umanitaria» al proprio schieramento in guerra (in realtà volto a evitare che la Germania potesse turbare gli equilibri geopolitici europei); cfr. The Sources of Social Power, vol. 3, cit., p. 132.

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potenza egemone europea: «i leader tedeschi aspiravano semplicemente a indebolire la Gran Bretagna, la Francia e la Russia, in modo da potersi assicurare, insieme ad esse, un posto al sole nel sistema di potenze europee».205 Non troppo diversa, rispetto alla Germania, era la configurazione interna dello Stato russo:206 i vertici dell’esercito suggerivano allo zar scelte basate unicamente su una logica di efficienza tecnocratico-militare, in un atteggiamento di totale indifferenza nei confronti di vie diplomatiche, mentre il corpo diplomatico era sprovvisto di aggiornate conoscenze pratico-militari. In Austria, similmente, esercito e diplomazia erano in una condizione di reciproca incomunicabilità.207 Tutti e tre i regimi autoritari coinvolti nel conflitto avevano quindi caratteristiche comuni: essi erano retti da élite statali che governavano mediante un’organizzazione istituzionale fondata su rapporti particolaristici, nell’ambito dei quali nessun attore statale aveva una visione d’insieme delle decisioni che venivano prese. Questa cristallizzazione autoritaria, tipicamente fondata su strategie di divide et impera e su canali informali e non-routinari di comunicazione tra le varie élite, aveva favorito, già nei decenni precedenti al conflitto, una maggiore autonomia dell’esercito dal controllo della società civile. È stato più volte affermato che i regimi democratici avrebbero un intrinseco carattere pacifico, a differenza di quelli autoritari.208 Mann concorda, in linea di principio, sulla maggiore propensione alla pace delle democrazie: il fatto che nei regimi democratici le decisioni debbano passare attraverso istituzioni rappresentative fa sì che si tenda a evitare guerre costose e distruttive. Le democrazie, inoltre, per effetto pratico e ideologico delle loro istituzioni, sono maggiormente orientate a soluzioni di conciliazione diplomatica.209 La chiara determinazione di compiti, funzioni, procedure e responsabilità che in esse ha luogo, infine, rende possibile perseguire coerentemente finalità politiche ponderate, evitando che le azioni dello Stato siano rimesse a canali particolaristici e mutevoli. Per questo stesso motivo, è improbabile che Stati democratici sviluppino un alto numero di cristallizzazioni radicali e dotate di forte autonomia reciproca, quindi potenzialmente pericolose. 205 206 207 208

M. Mann, The Sources of Social Power, vol. 3, cit., p. 138. M. Mann, The Sources of Social Power, vol. 2, cit., p. 763. Ivi, p. 765. Cfr. ad es. M. Doyle, Kant, Liberal Legacies and Foreign Affairs, Part 1, in «Philosophy and Public Affairs», XII (1983), n. 3, pp. 205-235, e Id., Kant, Liberal Legacies and Foreign Affairs, Part 2, in «Philosophy and Public Affairs», XII (1983), n. 4, pp. 323-353. 209 M. Mann, The Sources of Social Power, vol. 2, cit., p. 769.

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Questo, invece, è proprio quel che succede nel caso tedesco, e che, al di là dei fraintendimenti e degli errori di valutazione che accelerano il cammino verso il conflitto, costituisce per Mann la causa profonda della prima guerra mondiale. Il conflitto scaturisce in gran parte da un’azione politica mediante la quale la Germania, senza porre un ordine di priorità, avere una visione di insieme o percepire le conseguenze delle sue scelte sul clima geopolitico, dà a tutte le proprie cristallizzazioni un carattere estremo, radicale, ipertrofico. Esso non può non risultare minaccioso per gli altri Stati europei, e, al contempo, dota la Germania di un potere spropositato, dalle enormi potenzialità distruttive, concentrato nelle mani di élite a malapena capaci di comunicare efficacemente tra loro, autonome dal controllo reciproco nonché da quello della popolazione civile. Mann denomina questo involontario corso d’azione «sviluppo additivo», o «cumulativo», delle cristallizzazioni. In particolare, i diversi attori di potere costituenti lo Stato tedesco, in sostanziale autonomia reciproca, portano alle massime conseguenze le tre cristallizzazioni che, dagli altri Stati europei, vengono percepite come particolarmente minacciose: quella militarista, quella monarchico-autoritaria e quella nazionalista.210 La prima viene enfatizzata da un potere militare che, nella sua autonomizzazione tecnocratica – ma con l’appoggio dei capitalisti industriali e di élite statali che necessitavano di simboli della gloria nazionale tedesca – intraprende la costruzione di una gigantesca flotta militare, attentando alla supremazia navale britannica. Così, almeno, vengono percepite in Europa le intenzioni tedesche, sebbene, attraverso una dettagliata analisi,211 Mann concluda che la costruzione della flotta, insieme alla retorica nazionalista del caso, «non dipendeva da anglofobia, né era basata su una lucida valutazione del suo impatto sul clima internazionale o della sua possibile utilità militare».212 Era un progetto confuso, che fondeva la cristallizzazione monarchica («la flotta era il nuovo giocattolo del Kaiser»), quella nazionale, quella capitalistica e quella militare, senza alcuna finalità strategica ben definita e decisa in precedenza. Le conseguenze di questo atto sul piano diplomatico, naturalmente, «furono disastrose»:213 la Francia coglie nella nuova flotta tedesca una minaccia, mentre la Gran Bretagna si sente sfidata e, ancor prima di intervenire in guerra, intraprende una corsa alle armi che l’economia tedesca non può sostenere. La Germania, sul piano geopolitico, si trova 210 211 212 213

Ivi, p. 791. Ivi, pp. 791-792. Ivi, p. 792. Ibid.

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quindi circondata dai nemici che essa stessa ha provocato;214 internamente, la pressione dei nazionalisti estremi e la sostanziale esclusione politica di classi agrarie e lavoratori orienta il clima politico a favore di un’azione militare capace di porre fine all’«accerchiamento» esterno di Francia e Gran Bretagna, e al percepito accerchiamento interno da parte dei Reichsfeinde. La retorica relativa alla cristallizzazione nazionalista si fa sempre più aggressiva, venendo altresì sfruttata dal regime come risorsa di coesione sociale e per giustificare la repressione di minoranze e classi lavoratrici. Anche la cristallizzazione capitalistica si lega in misura crescente a interessi economici intesi in senso territoriale, a ideali di imperialismo economico ed a politiche protezionistiche.215 Tutti i principali attori che compongono lo Stato tedesco, in condizioni di semiautonomia reciproca, portano quindi all’estremo la loro cristallizzazione di riferimento: decisioni politiche autoritarie e particolaristiche per la monarchia; minaccioso sviluppo dell’esercito di terra e di una potente flotta navale per i militari; prese di posizione sempre più retoriche e aggressive da parte dei numerosi gruppi nazionalisti; concezione territoriale degli interessi economici da parte dei capitalisti. Ognuno di questi attori sociali, per di più, aveva una propria idea su chi fossero i nemici della Germania – potenze geopolitiche di mare e di terra, Reichsfeinde, concorrenti economici – e sembrava pronto a fare di tutto per eliminarli.216 Il processo messo in moto dalle impreviste conseguenze diplomatiche di un militarismo autoriferito, nutrito di nazionalismo estremo e privo di qualsiasi freno che, in altre condizioni, la monarchia o la società civile avrebbero potuto imporre, aveva portato la Germania a sentirsi minacciata dalle potenze che essa stessa aveva involontariamente provocato; ora essa, per effetto di quelle stesse cristallizzazioni che avevano prodotto la crisi, nutriva il desiderio di liberarsi, con i mezzi militari che era sicura di possedere, dall’«accerchiamento» di cui si pensava vittima. La strada verso la prima guerra mondiale era ormai segnata.

214 Ivi, p. 793. 215 Ivi, pp. 794-795. 216 Ivi, p. 794.

4. RIVOLUZIONI E IMPERI GLOBALI: THE SOURCES OF SOCIAL POWER, VOLUME 3

Il secondo volume di The Sources of Social Power viene pubblicato nel 1992; il terzo e il quarto, che completano la serie facendo giungere la ricostruzione storica svolta dall’autore fino al 2011, escono rispettivamente nel 2012 e nel 2013. Ben vent’anni separano dunque il secondo volume dal terzo: vent’anni che Mann dedica a svolgere approfondite ricerche sulla storia globale del ventesimo secolo, la quale è l’oggetto di entrambi i volumi conclusivi della serie The Sources of Social Power. Se quindi, rispetto al secondo volume, l’ambito geografico si amplia – dagli Stati nazionali europei all’intero globo –, al contempo l’orologio storico rallenta: il ventesimo secolo è il periodo che Mann considera più nel dettaglio. Ad esso l’autore dedica non solo due volumi su quattro all’interno della sua opera sulle fonti del potere sociale, ma anche altri tre libri che egli pubblica a distanza di un anno l’uno dall’altro: L’impero impotente (2003), un testo di grande impegno politico in cui, sulla base del modello delle quattro forme del potere, Mann analizza e condanna la politica estera contemporanea degli Stati Uniti; Fascists (2004), che costituisce uno studio dell’ascesa di movimenti e partiti di estrema destra nell’Europa degli anni ’20 e ’30, nel quale particolare attenzione viene rivolta alla ricostruzione e all’analisi delle motivazioni dei loro seguaci; e Il lato oscuro della democrazia (2005), un’analisi storico-teorica dei casi di genocidio e di pulizia etnica del ventesimo secolo, volta a ricostruire le ragioni profonde che, al di là delle contingenze storiche, etniche e geografiche, spingono i perpetratori a tali atti disumani. Tratteremo L’impero impotente nel prossimo capitolo, nel contesto dell’analisi relativa alle sezioni del quarto volume di The Sources of Social Power in cui Mann analizza la situazione politica globale contemporanea; Fascists e Il lato oscuro della democrazia, tra i quali intercorre uno stretto legame interno, saranno invece l’oggetto dell’ultimo capitolo del presente volume. Andiamo adesso a considerare il terzo volume di The Sources of Social Power, dedicato agli anni tra il 1890 e il 1945. Il secondo libro della serie si

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interrompeva nel 1914, ma il terzo, tornando indietro di qualche decennio, riprende dal 1890. «Preparando il terzo volume», spiega Mann, «decisi che dovevo rettificare un’omissione che, nel secondo, aveva luogo rispetto agli imperi [coloniali] globali dei Paesi più avanzati».1 Questa decisione, la quale va a sanare un’effettiva mancanza,2 fa sì che nel terzo volume vadano a sovrapporsi due diverse scale temporali. La prima, riguardante l’ambito storico-geografico dei Paesi industrializzati, permette la continuazione del percorso interrottosi alla fine del secondo volume: Mann riprende quindi la sua narrazione dal 1914. La seconda, relativa agli imperi coloniali, si spinge ben più indietro: le prime colonie spagnole e britanniche datano al quindicesimo e sedicesimo secolo, ma solo nel diciannovesimo secolo gli imperi coloniali assumono il ruolo di effettivi attori di potere, capaci di orientare in modo radicale gli eventi storico-politici globali: dapprima scatenando corse all’«impresa imperiale» tra le potenze ancora prive di un impero, e successivamente attraverso le lotte per l’indipendenza. La data convenzionale che Mann pone a delimitare l’inizio di questo inedito ruolo storico degli imperi globali è quindi il 1890: ossia, come vedremo nel secondo paragrafo di questo capitolo, quando si dispiega con piena forza il «nuovo imperialismo» delle potenze europee a recente industrializzazione, desiderose di non essere da meno dei più antichi imperi coloniali e di acquisire proprie colonie in uno spazio globale che va facendosi sempre più affollato. Sarà questa, sul lungo periodo, una delle strade che porteranno l’Europa, e con essa il mondo, a una nuova grande tragedia, con la quale si chiude il terzo volume di The Sources of Social Power: la seconda guerra mondiale. Attraverso gli imperi coloniali, il potere dell’Occidente (e poi anche del Giappone) si espande su scala globale; al contempo, mediante le rivoluzioni che rappresentano un ulteriore elemento caratterizzante di questo pe1 2

M. Mann, The Sources of Social Power, vol. 3, cit., p. vii. Cfr. la recensione di J. Go (A Global-Historical Sociology of Power, in «International Affairs», LXXXIX, 2013, n. 6, pp. 1469-1477: 1472): «nel secondo volume Mann esaminava gli Stati europei, ma senza teorizzarli per quello che realmente erano: imperi su larga scala, che traversavano i mari e dominavano su popolazioni lontane. Li trattava come Stati-nazione nel preciso momento (1760-1914) in cui erano formazioni imperiali estese». Anche W. Knöbl (Intelligible Past, Diffuse Present, cit., p. 428) nota che, se Mann avesse considerato più approfonditamente gli imperi coloniali già nel secondo volume, avrebbe potuto meglio spiegare come la forza degli Stati europei fosse spesso il risultato delle loro imprese imperiali. Più in generale, nel suo saggio Knöbl nota come il terzo e il quarto volume di The Sources of Social Power, rispetto ai primi due, abbiano un carattere più descrittivo e ricostruttivo, meno sistematizzante ed esplicativo.

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riodo, la leading edge of power, precedentemente localizzata nell’Europa occidentale e negli Stati Uniti, si estende all’Unione Sovietica e alla Cina.3 Le tre grandi reti di interazione al centro di questo volume sono quindi il capitalismo transnazionale (e la sua alternativa socialista), gli imperi coloniali, e gli Stati nazionali: si tratta di reti a estensione e ad influenza globale, che rappresentano i passi iniziali verso quel processo di globalizzazione che costituisce uno dei caratteri fondamentali della contemporaneità. La globalizzazione, tanto nella forma imperial-geopolitica che essa assume nel diciannovesimo e ventesimo secolo, quanto in quella apparentemente onnipervasiva che contraddistingue gli inizi del ventunesimo, è, sostiene Mann, una globalizzazione «polimorfica» e «frammentata»:4 essa, lo vedremo meglio in seguito, consiste in un processo di integrazione del globo, ma non di uniformazione di esso.5 Vengono cioè a crearsi una pluralità di «segmenti» (costituiti in origine dagli imperi coloniali e dal loro Paese europeo di riferimento, e successivamente da distinte aree geografico-culturali) la cui comunicazione e influenza reciproca è ampia e globalmente estesa, ma che al contempo mantengono notevoli caratteristiche di distinzione e spesso di contrapposizione gli uni rispetto agli altri. La segmentazione appare evidente anche considerando le ideologie che dalla fine del diciannovesimo secolo si diffondono a livello globale, ma che, nondimeno, si pongono spesso in contrasto le une alle altre: il socialismo e il capitalismo, nelle sue varianti transnazionale e nazional-territoriale (non sempre reciprocamente solidali); l’imperialismo e l’anti-imperialismo; il nazionalismo e il transnazionalismo a ispirazione cosmopolitica. Sempre per quanto riguarda il potere ideologico, nel terzo e nel quarto volume di The Sources of Social Power Mann assicura una più approfondita considerazione a quelle che, a partire dal testo del 2006 The Sources of Social Power Revisited,6 egli denomina «ideologie istituzionalizzate»:7 e cioè le ideologie celate nelle istituzioni presenti, date per scontate dai soggetti in quanto facenti parte di un ordine culturale e di potere assunto come naturale e immutabile, spesso addirittura radicate a livello inconscio. Un esempio di «ideologia istituzionalizzata» che pervade la storia umana e che solo recentemente è stata messa in discussione nelle società avanzate, anche se non sconfitta, è quella patriarcal-maschilista. Questo tipo di ide3 4 5 6 7

Cfr. M. Mann, The Sources of Social Power, vol. 3, cit., p. 2. Ivi, pp. 1-2. Ibid. M. Mann, The Sources of Social Power Revisited, in An Anatomy of Power, cit., p. 346. M. Mann, The Sources of Social Power, vol. 3, cit., p. 7.

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ologie, afferma Mann, hanno al loro interno solo «una minima presenza di potere ideologico autonomo»;8 esse sono il riflesso degli assetti di potere sociale, relativi alle altre fonti, che si danno in una determinata società e che vengono intesi dai soggetti come equivalenti a un ordine naturale. Nel determinare lo scoppio della prima guerra mondiale, come anche nel suo sanguinoso procedere fino al 1918, oltre alle dinamiche politiche e ai fraintendimenti geopolitici analizzati nel capitolo precedente, hanno importanza fondamentale due ideologie a quel tempo fortemente istituzionalizzate in Europa, la prima soprattutto tra le classi dominanti, la seconda tra quelle subordinate: l’onore nazional-militare e la deferenza verso i detentori di autorità. 4.1. L’Europa nella prima guerra mondiale Non furono le lotte per gli imperi coloniali (che considereremo nel prossimo paragrafo) a causare la prima guerra mondiale: essa fu il prodotto dell’intreccio di timori geopolitici, errori di valutazione e rivalità nazionaliste analizzato nel capitolo precedente. Al contempo, tanto allo scoppio del conflitto quanto alla sua prosecuzione contribuirono due aspetti ideologici che Mann, nel terzo volume di The Sources of Social Power, evidenzia con più enfasi che nel precedente: il primo di essi è la cultura militaristica europea, fondata sull’ossessione per l’onore militare, sulla ricerca della gloria personale e nazionale e sulla paura della vergogna e del ridicolo che coprivano chi si rifiutava di combattere, chi si ritirava, chi dimostrava di non essere un «vero uomo». Queste concezioni plasmavano in modo radicale l’azione delle élite statali e dei vertici di Stato, imponendosi con tal forza che le resistenze razionali allo scivolamento nel conflitto, che erano anch’esse presenti prima della guerra, poterono essere agevolmente superate da chi aveva il potere di decidere le sorti di intere nazioni – generali e uomini di Stato, i quali, nota peraltro Mann, sapevano bene che non si sarebbero poi ritrovati in prima linea, al fronte, a rischiare le proprie vite: «nella guerra moderna, le élite combattono per il proprio onore con le vite degli altri»,9 egli nota amaramente. A determinare molti errori di calcolo e di valutazione, provocando risposte militari anziché diplomatiche a minacce che vennero regolarmente percepite in modo esagerato, fu proprio il timore delle élite che una loro even8 9

Ibid. Ivi, p. 166.

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tuale cautela venisse interpretata dagli avversari come mancanza di onore e di coraggio. Nella sua discussione del volume che stiamo considerando, Dylan Riley scrive che «per Mann, il militarismo europeo non era radicato né nel capitalismo, né in antiche divisioni di classe precapitalistiche, bensì in una peculiare psicologia sociale che caratterizzava l’Europa e la sue élite».10 Questa valutazione non è del tutto esatta: la «psicologia sociale» dell’Europa e delle élite europee non è, per Mann, un dato naturale che nulla ha a che vedere con le epoche precapitalistiche; al contrario, essa discende dall’originario militarismo «di sopravvivenza» dell’Europa medievale e moderna, la quale, come abbiamo visto, era una multi-power-actor civilization i cui Stati, amministrati dalle élite in modo personalistico, potevano sperare di conservarsi solo resistendo militarmente alle aggressioni dei loro vicini, e, meglio ancora, espandendosi a propria volta ai loro danni. Qui si radicano le concezioni di onore militare, virilità e orgoglio nazionale che tanta distruzione porteranno nel ventesimo secolo: come Mann sostiene attraverso il suo modello dello statismo istituzionale, le istituzioni di un determinato periodo storico sono fortemente condizionate da quelle che le hanno precedute, le quali esercitano la propria logica autonoma influenzando le possibilità di sviluppo e la conformazione di quelle che le seguiranno. Nell’imminenza della prima guerra mondiale era diffusa la convinzione che si sarebbe trattato di un conflitto di breve durata: le masse e le élite nazionali pensavano che le forze della propria nazione avrebbero rapidamente sbaragliato quelle avversarie. La storia ha dimostrato che questa convinzione era tragicamente errata: la prima guerra mondiale fu «la più costosa in termini di vite dei soldati, la più distruttiva per i territori su cui venne combattuta, e la più dispendiosa in armamenti».11 Mann ripercorre dettagliatamente il procedere della guerra: tanto sui due fronti di combattimento, occidentale e orientale, quanto analizzando le decisioni prese, nel corso di essa, delle élite statali e militari dei diversi Paesi. Che si sarebbe trattato di una guerra di logoramento e di posizione combattuta dalle trincee, piuttosto che della trionfale, spedita marcia verso la vittoria che ognuna delle élite nazionali prefigurava per la propria nazione, emerge già a partire dalla battaglia della Marna del 1914. Lì falliscono gli ambiziosi piani di avanzata tedeschi, i fronti si stabilizzano, e diviene chiaro che, a meno di non intraprendere negoziazioni, la guerra si protrarrà a lungo, costerà milioni di vittime e terribili sofferenze a tutti i Paesi coinvolti. 10 11

D. Riley, Routes or Rivals? Social Citizenship, Capitalism, and War in the Twentieth Century, in «Contemporary Sociology», XLII (2013), n. 4, pp. 484-494: 491. Ivi, pp. 140-141.

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Le élite statali e militari delle diverse nazioni, tuttavia, anche una volta compreso che non si sarebbe trattato di una guerra-lampo, bensì di un conflitto che avrebbe richiesto un enorme dispendio di uomini e di mezzi, decidono di continuare a combattere piuttosto che cercare vie diplomatiche per negoziare la pace; per coprire le ingenti perdite, vengono mandati al fronte soldati sempre più giovani, sempre più inesperti, sempre peggio equipaggiati.12 Si innesca una spirale che nessuno, tra coloro che godono di potere decisionale, cerca di fermare con mezzi che non siano quelli del massacro. A Verdun, nel 1916, rimangono uccisi 550.000 soldati francesi e 434.000 soldati tedeschi: «uccidere più francesi possibile» era la dichiarata “strategia” del feldmaresciallo von Falkenhayn per costringere la Francia ad arrendersi e a trattare; un milione di morti più tardi, Verdun non era caduta e i francesi non si erano arresi. La successiva battaglia della Somme costerà ancora più vittime (stimate a 1.100.000) tra soldati tedeschi, britannici e francesi; alla fine di essa, il fronte dell’Intesa era avanzato di tre chilometri – due morti per centimetro quadrato.13 La situazione, a questo punto, è di stallo: nessuno degli schieramenti contrapposti riesce a dare il colpo di grazia agli avversari;14 all’inizio del 1918 le perdite subite e l’uscita della Russia dal conflitto in seguito alla rivoluzione bolscevica pongono le potenze dell’Intesa in una condizione di inferiorità militare. Tuttavia, la svolta che avrebbe portato alla loro vittoria, e alla fine della guerra, era già avvenuta: il presidente americano Woodrow Wilson, nell’aprile del 1917, desideroso di arbitrare la situazione europea e agendo per la difesa dei commerci statunitensi (minacciati sia da una possibile sconfitta della Gran Bretagna che dagli indiscriminati attacchi dei sottomarini tedeschi contro ogni nave essi intercettavano), dichiara guerra alla Germania.15 Con la resa, quest’ultima è costretta ad accettare le punitive condizioni di pace del trattato di Versailles: il pagamento di enormi risarcimenti di guerra, la pressoché totale smobilitazione dell’esercito, la cessione di tutte le colonie e di parti del territorio nazionale agli Stati vincitori, nonché l’assunzione dell’intera colpa per lo scoppio della guerra. Queste condizioni inique saranno, scrive Mann, un fattore determinante per «l’ascesa al potere del nazismo, la seconda guerra mondiale, e tutto quel che ne è seguito».16 12 13 14 15 16

Ivi, p. 142. Ibid. Ivi, p. 143. Ibid. Ivi, p. 145.

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La domanda che a questo punto l’autore si pone è perché i soldati accettarono di combattere, pur vedendo lo stesso massacro ricominciare giorno dopo giorno, la guerra continuare senza una fine all’orizzonte, e i loro sforzi militari risultare privi di effetto, o quasi, nel determinare un avanzamento dei fronti.17 La guerra fu decisa dalle élite, ma combattuta dalle masse: perché, passato un certo punto, queste ultime non si rifiutarono di farsi massacrare? Da una parte, nelle fasi iniziali, fu determinante un superficiale e gioioso patriottismo nazionalista, che, indotto dai mezzi di propaganda, trovava però riscontro in una peculiare «ideologia istituzionalizzata» in Europa: «gli Stati si erano sempre fatti la guerra; era normale, ed era normale che giovani uomini partissero per il fronte».18 Contava anche la percezione, per le masse di tutti i Paesi coinvolti, che quella che si stavano apprestando a combattere fosse una guerra giusta, di autodifesa, da combattersi perché «altri Paesi li avevano attaccati o li stavano “strangolando”».19 Una volta iniziata, le popolazioni furono indotte a percepire la guerra come «una difesa della civiltà contro la barbarie, rappresentata, quest’ultima, dalle atrocità commesse dai nemici, ampiamente pubblicizzate»,20 fossero esse reali o invenzioni della propaganda. All’interno delle loro strutture di caging nazionale, i civili non avevano altre fonti di informazione, né altri orizzonti ideologici di riferimento, oltre a ciò che «i governi, i notabili locali e i mass media dicevano loro»;21 al fronte però, eccetto che in casi particolari in cui era proprio l’esperienza del conflitto a rafforzare l’ideologia nazionale delle truppe,22 i proclami patriottici lasciavano presto il posto a una fatalistica rassegnazione di fronte al continuo rischio di morte e alle spaventose condizioni di vita. I tassi di diserzione erano bassissimi, mentre gli ammutinamenti (numerosi solo nel caso francese) erano volti a richiedere migliori condizioni di 17 18 19 20 21 22

Ibid. Ibid. Ivi, p. 146. Ibid. Ibid. Fu così, ad esempio, per le truppe francesi che combatterono a Verdun (cfr. ivi, p. 147): ex contadini e operai inizialmente dotati di scarsa coscienza nazionale (in quanto classi tradizionalmente escluse dalla gestione della cosa pubblica) svilupparono in trincea, attraverso la sanguinosa contrapposizione ai tedeschi, la percezione di essere francesi, associata a un corrispondente orgoglio di patria che li portava a concepirsi come ultimo baluardo contro l’avanzata della «barbarie». Cfr. S. Audoin-Rouzeau e A. Becker, 14-18: Understanding the Great War, Hill and Wang, New York 2002, e T. Smith, Creating the Welfare State in France, 1880-1940, McGill-Queen’s University Press, Montreal 2003, pp. 101-112.

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riparo e di approvvigionamento alimentare, ma non la resa.23 I soldati rimanevano nel complesso obbedienti e disciplinati, continuando a combattere giorno dopo giorno anche in condizioni di terrore intermittente e di estrema sofferenza psicologica. Oltre al cameratismo che necessariamente sorgeva tra individui quotidianamente sottoposti alle medesime, terribili condizioni, a mantenere gli eserciti coesi e disciplinati vi era, afferma Mann sulla base degli studi di Keegan,24 una forte componente di accettazione pragmatica. I soldati sapevano che, a fronte di atti di diserzione o di ribellione, la morte, probabile nel conflitto, sarebbe stata quasi una certezza; ma soprattutto a tenerli fedeli alla disciplina era una specifica «ideologia istituzionalizzata» tra le classi subordinate, dalle quali proveniva la maggioranza dei soldati. Essi, anche prima della guerra, «erano abituati ad obbedire ai loro superiori nella scala sociale»;25 la deferenza verso l’autorità era una delle principali componenti nella socializzazione tra i ceti contadini e operai; per tali classi il principio secondo il quale si doveva obbedire alle gerarchie corrispondeva a un criterio «naturale», immutabile, che veniva rafforzato dalla rigida struttura organizzativa interna agli eserciti (non dimentichiamo che Mann teorizza il potere innanzitutto come organizzazione). Vi era dunque una «gabbia»,26 secondo la consueta metafora di Mann, che intrappolava i soldati nelle trincee, e le cui sbarre più robuste erano costituite da un’ideologia istituzionalizzata per cui l’opposizione all’autorità non rientrava nel novero delle cose possibili, come anche dalla convinzione che la diserzione non avrebbe portato alla salvezza, ma solo a una morte più probabile. L’unica conseguenza positiva della guerra, scrive Mann,27 fu che essa indebolì fortemente la devozione delle masse all’autorità, spingendole a salire alla ribalta per richiedere quei diritti politici e sociali che prima erano loro negati, la cui assenza aveva permesso ai leader politici e militari di trascinarle in un conflitto foriero di enormi sofferenze sia al fronte e che nelle città.28 Nel dopoguerra, per effetto delle pressioni popolari, svariate forme di diritti sociali vengono incluse nell’ordinamento giuridico dei principali Stati europei e viene introdotto il suffragio universale maschile 23 24 25 26 27 28

M. Mann, The Sources of Social Power, vol. 3, cit., pp. 150-151. Cfr. J. Keegan, Il volto della battaglia, trad. it. Il Saggiatore, Milano 2010. M. Mann, The Sources of Social Power, vol. 3, cit., p. 147. Ivi, p. 150. Ivi, p. 166. Cfr. ivi, pp. 159-164, per una trattazione sulle sofferenze della popolazione civile durante la guerra, sulle difficoltà di approvvigionamento delle città, e sulla riconversione a scopi bellici delle industrie nazionali mediante l’uso indiscriminato di quanta più manodopera possibile.

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in tutti i Paesi che avevano partecipato al conflitto; in Gran Bretagna, Stati Uniti, Germania, Austria e Svezia l’estensione del diritto di voto nel primo dopoguerra riguarda anche le donne. Il conflitto distrugge quasi tutte le monarchie dinastiche sul continente, dando la vittoria alle democrazie. «Che le popolazioni dei diversi Stati avessero vissuto una vittoria o una sconfitta nella guerra», conclude quindi Mann, «la loro partecipazione al conflitto e le loro sofferenze cambiano il mondo e le loro stesse aspirazioni per il futuro».29 Per capire davvero perché la prima guerra mondiale poté accadere e fare milioni di vittime, afferma Mann, non possiamo applicare le categorie del ventunesimo secolo; piuttosto dobbiamo ragionare nei termini di una cultura in cui la guerra era considerata uno strumento normale e legittimo, in cui agli Stati venivano attribuiti interessi di sopravvivenza e sicurezza che i cittadini maschi erano tenuti a difendere con le loro vite, e in cui tutti obbedivano, fino alla morte, agli uomini in posizioni d’autorità – a prescindere da quanto questi fossero stupidi.30

E nonostante tutto, dalla nostra collocazione nel ventunesimo secolo, dovremmo condannare gli uomini di Stato che portarono l’Europa alla guerra, «inclusi quelli britannici e perfino quelli francesi, per la loro insofferenza nei confronti della diplomazia, per la loro follia nel far precipitare un intero continente nel conflitto, e, quando il conflitto raggiunse una situazione di stallo, per la loro incapacità di fare ricorso alla diplomazia per negoziare una pace di compromesso».31 Non dovremmo mai più permettere che élite statali e militari, sottraendosi al controllo democratico e facendo poggiare il proprio potere sul principio di autorità, decidano di sacrificare le vite di altri esseri umani in conflitti fatti passare per vantaggiosi o necessari.32 4.2. Globalizzazione frammentata: gli imperi coloniali Mann definisce un impero come «un sistema di dominio gerarchico e centralizzato, acquisito e conservato mediante coercizione, attraverso cui un territorio centrale governa su territori periferici, agisce da intermediario nelle loro principali interazioni, e incanala risorse verso di sé e tra periferie 29 30 31 32

Ivi, p. 166. Ivi, p. 165. Ivi, p. 166. Cfr. anche la critica all’autonomia e all’isolamento decisionale delle élite militari che Mann formula fin dal suo saggio del 1985 War and Social Theory (§ 1.3).

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e periferie».33 Gli imperi si reggono quindi, in prima istanza, su una combinazione di potere militare e politico: essi nascono e si espandono inizialmente mediante il potere militare, che può essere concretamente dispiegato ai danni dei territori soggetti a conquista o venir semplicemente usato come mezzo di intimidazione, e che resta sempre una risorsa utilizzabile in modo intermittente dal centro per sedare eventuali resistenze nei territori conquistati; ad esso si associa poi il potere politico imposto dal Paese dominante, che può prendere più forme. Mann distingue quattro principali idealtipi di dominio imperiale:34 1. Impero diretto: i territori conquistati vengono incorporati politicamente dal centro, mediante la totale sostituzione delle élite governanti locali con élite provenienti dal Paese colonizzatore. Il sovrano del centro diviene, formalmente e sostanzialmente, sovrano anche delle colonie. La conquista ha luogo mediante uso diretto del potere militare, al quale si associa poi l’esercizio routinario di un potere politico dispotico e autoritativo. L’impero diretto è solitamente una forma di dominio che i moderni Paesi colonialisti non sono riusciti a mantenere a lungo: esso richiede un ampio numero di coloni disposti a vivere nel Paese conquistato per implementare il dominio del centro ed è fortemente vulnerabile alla lontananza geografica delle colonie dal Paese dominante, la quale rende più difficile esercitare un forte controllo sulla politica locale. 2. Impero indiretto: il centro imperiale dichiara sovranità politica sulle colonie, ma alle originarie élite dominanti è concesso di mantenere una qualche autorità formale nonché limitati poteri di negoziazione sulle decisioni a livello locale. L’intimidazione militare è costante, ma solitamente, rispetto a (1), il dominio del Paese colonizzatore è più «leggero», implicante un minor esercizio di potere dispotico e una più ampia collaborazione con le élite locali. Come nel caso dell’impero diretto e a differenza dell’impero informale, questo tipo di dominio implica un’effettiva occupazione territoriale delle periferie da parte del centro. 3. Impero informale: i governanti dei territori periferici mantengono piena sovranità formale, ma la loro autonomia viene limitata in modo significativo, ad opera del centro imperiale, attraverso intimidazioni militari ed economiche. Le élite di un Paese formalmente libero sono dunque costrette, a causa di notevoli squilibri nei rapporti di forza, a piegarsi alle politiche che vengono loro imposte. Questa è la forma di dominio prevalente negli imperi moderni, adottata di solito in seguito a una prima fase di «impero 33 34

M. Mann, The Sources of Social Power, vol. 3, cit., p. 17. Ivi, pp. 18-20.

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indiretto». Le limitazioni all’autonomia del Paese periferico riguardano spesso l’ambito economico: esse, per esempio, consistono nell’ingiunzione di condizioni di commercio svantaggiose per la periferia ma vantaggiose per il centro (di tal genere furono i «trattati ineguali» fatti stipulare a Cina, Giappone e Corea da molti Paesi occidentali, i quali imponevano condizioni di libero mercato a economie scarsamente industrializzate, che avrebbero tratto maggiori benefici da politiche protezionistiche). Mann distingue tre sottotipi di impero informale: – impero informale per cannoniere: è l’equivalente geopolitico-militare della gunboat diplomacy, la «diplomazia delle cannoniere». Interventi militari brevi e mirati, o la realistica minaccia di essi, permettono al potere dominante di costringere il Paese dominato al rispetto di trattati ineguali o di accordi svantaggiosi; – impero informale per procura: il centro imperiale si serve di élite clientelari originarie del Paese dominato per imporre condizioni che siano per esso vantaggiose e per reprimere eventuali resistenze. Il ricorso al potere militare non è direttamente ordinato dal centro, bensì dai suoi emissari locali. – imperialismo economico: la coercizione militare, volta a portare il Paese dominato a piegarsi alle politiche imposte dal dominante, è sostituita da quella economica; si ha quindi l’applicazione punitiva di embarghi, o l’imposizione di piani di «aggiustamento strutturale» delle finanze pubbliche che, se rifiutati, provocano la fuga dei capitali stranieri e il crollo dei commerci internazionali. La popolazione locale non viene dunque minacciata militarmente, ma intimidita ed eventualmente strangolata economicamente. 4. Egemonia: non si tratta, a rigore, di una tipologia di impero, in quanto il dominio esercitato dal centro è percepito dai dominati come legittimo o perlomeno «normale». Si creano rapporti di deferenza volontaria, considerata dalle popolazioni locali come naturale e basata sull’attrattiva che per esse hanno i valori e la cultura del Paese egemone. I diversi tipi di impero implicano, è evidente, livelli discendenti di potere militare e gradi crescenti di potere politico, economico e ideologico. Ma quali sono le motivazioni che, in generale e al di là di specifiche contingenze storiche, spingono un Paese a intraprendere la strada dell’espansione coloniale? Per Mann esse sono quattro, ognuna riferita a una fonte di potere:35 1. La percezione di essere in grado di dispiegare un potere militare sufficiente ad acquisire e mantenere il controllo di una regione attraverso le armi 35

Ivi, p. 21.

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(o la minaccia di usarle), senza che potenze rivali possano realisticamente opporsi al progetto. La causa immediata del successo europeo nel colonizzare il globo risiedette per l’appunto nel superiore potere militare dell’Europa, radicato in una cultura della guerra e in un’industria bellica sviluppatesi lungo secoli, con cui le popolazioni colonizzate non potevano competere; 2. La consapevolezza di poter ricavare guadagni economici dall’impresa coloniale, tanto attraverso lo sfruttamento del territorio, volto all’appropriazione delle sue risorse (quella che David Harvey chiama, sottovalutandone l’importanza, «logica del territorio»), quanto mediante l’imposizione di scambi commerciali ineguali (la «logica del capitale», sempre nelle parole di Harvey);36 3. Il timore geopolitico di essere vulnerabili all’aggressione da parte di altre potenze, e l’impulso, quindi, all’ampliamento dei propri territori a scopo difensivo; in realtà questa strategia si rivela errata e illusoria: più un impero è esteso, meno sicuro esso sarà (e si sentirà) circa le sue capacità di poter difendere i propri confini. 4. Le motivazioni ideologiche, secondarie rispetto alle altre nel determinare la decisione di intraprendere un’espansione coloniale, sono di due tipi principali: il desiderio delle élite e delle masse di dimostrare al mondo il proprio status di potenza imperiale, e, in seconda istanza, la percezione di avere una «missione» civilizzatrice nei confronti dei popoli che verranno colonizzati. Quest’ultima motivazione, solitamente, si rafforza una volta che l’espansione militare, con il suo carico di violenze e uccisioni, è già iniziata: essa rappresenta una comoda razionalizzazione per progetti di oppressione e dominio che trovano le loro ragioni principali nella ricerca di profitto o di sicurezza geopolitica. A queste motivazioni generali si affiancano motivazioni storiche contingenti. Abbiamo visto che Mann inizia la sua trattazione storica a partire dal 1890, sebbene i primi imperi coloniali (spagnolo, portoghese e britannico) risalgano al quindicesimo secolo; gli anni tra il 1870 e il 1890 costituiscono però il periodo in cui l’acquisizione di un impero coloniale diviene, per la maggioranza degli Stati europei sviluppati, un fondamentale motivo d’azione e di rivalità reciproca. È proprio in questa fase, sostiene Mann, che si inaugura una delle dinamiche di lungo periodo che porteranno l’Europa alla seconda guerra mondiale. Grazie all’invenzione delle navi a vapore, di armamenti più leggeri e maneggevoli, e alla scoperta del chinino, si verifica un forte incremento delle espansioni coloniali; questo incremento è reso ancora 36

Ibid. Cfr. D. Harvey, La guerra perpetua, trad. it. Il Saggiatore, Milano 2006.

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più notevole dal fatto che il clima di «corsa alle colonie» intensifica la percezione delle grandi potenze che i territori produttivi e suscettibili di conquista andassero rapidamente esaurendosi, e fosse quindi necessario procedere velocemente all’acquisizione degli spazi che ancora non erano reclamati da nessuno.37 Nel 1914 il mondo risulta dunque frammentato in imperi multipli e rivali, ognuno facente capo al proprio Stato coloniale – Spagna, Portogallo, Olanda, Gran Bretagna, Francia, Russia, Germania, Belgio, Stati Uniti, Giappone e Italia. Non vi era un singolo mercato globale, bensì ogni potenza coloniale commerciava soprattutto con il proprio impero e con la propria sfera d’interesse, che proteggeva mediante l’adozione di politiche economiche mercantiliste. Per Mann, quindi, il «sistema-mondo capitalistico» che Wallerstein colloca gli inizi nel sedicesimo secolo38 era, ancora nel diciannovesimo, una potenzialità piuttosto che una realtà: la globalizzazione era iniziata, ma in quanto coesistenza di segmenti reciprocamente semi-autonomi, e non come un sistema complessivo integrato da una singola economia.39 Anche le modalità politico-militari del dominio imperiale variavano nel tempo secondo ritmi non uniformi, contribuendo così a una frammentazione globale che non era solo economica: dopo la conquista militare, date le difficoltà pratiche e il dispendio di risorse implicato dal mantenimento di imperi diretti, i Paesi colonizzatori passavano solitamente, nel giro di qualche anno, a forme di impero indiretto, e, successivamente ancora, a varianti di impero informale e imperialismo economico. I singoli imperi globali, quindi, attraversavano nel corso del tempo una serie di trasformazioni: se nelle zone di più antica conquista il dominio veniva solitamente facendosi più «leggero» e «liberale», le colonie più recenti erano amministrate mediante forme di impero diretto spesso implicanti sanguinose repressioni militari. Vi era dunque una generale tendenza verso forme di dominio meno violento, ma l’intero globo non procedeva uniformemente in tale direzione; le modalità di controllo imperiale, piuttosto, variavano da territorio a territorio a seconda del tempo trascorso dalla prima conquista, dei rapporti tra élite colonizzatrici e popolazione locale, e del tipo di cristallizzazioni dello Stato colonizzatore.40 Gli Stati Uniti, da questo punto di vista, rappresentano un caso particolare: trovatisi ad acquisire, in parte per effetto di eventi contingenti, le 37 38 39 40

M. Mann, The Sources of Social Power, vol. 3, cit., p. 35. Cfr. I. Wallerstein, Il sistema mondiale dell’economia moderna, trad. it. Il Mulino, vol. 1, Bologna 1986. M. Mann, The Sources of Social Power, vol. 3, cit., p. 23. Ivi, p. 40.

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colonie di Cuba, delle Filippine e di Porto Rico, passarono con estrema rapidità dall’impero diretto all’impero indiretto, e, nel caso filippino, alla concessione di un sostanziale autogoverno alle élite locali dopo neanche vent’anni dall’iniziale acquisizione del territorio.41 La ragione di questo veloce scivolamento non è da cercarsi in una particolare benevolenza dei colonizzatori americani – vero è, anzi, il contrario, come la storia di Cuba sta a dimostrare – bensì nell’impossibilità di governare territori coloniali a impero diretto senza che vi fosse un numero sufficientemente alto di coloni disposti a insediarsi permanentemente in essi, e, peraltro, avendo in diversi modi suscitato l’opposizione delle élite e delle popolazioni locali. Internamente agli Stati Uniti, inoltre, prendeva sempre più forza un movimento ideologico anti-imperialista, che, su basi morali e costituzionali, si contrapponeva all’imperialismo diretto.42 Dalle loro iniziali difficoltà gli Stati Uniti non trassero la conclusione di abbandonare l’impresa imperiale, bensì ampliarono la loro sfera di influenza a nuovi territori; stavolta, però, attraverso forme di imperialismo economico, di imposizione di trattati ineguali mediante impero informale per cannoniere, e per mezzo del dispiegamento della cosiddetta «diplomazia del dollaro».43 Gli USA seguirono quindi quella che, in base alla sua concezione di statismo istituzionale, Mann denomina la «logica autonoma» delle loro istituzioni, che, lo sappiamo, si cristallizzavano in forme fortemente capitalistiche. Gli Stati Uniti estesero la loro influenza a Corea, Cina e Giappone mediante avvertimenti militari e interventi punitivi finalizzati a mantenere i mercati orientali aperti alle merci statunitensi, e intervenendo militarmente per reprimere la rivolta cinese detta «dei Boxer», volta a far cessare le importazioni di oppio che la Gran Bretagna, partner commerciale degli Stati Uniti, riversava in Cina.44 Accordi ineguali furono imposti, mediante cannoniere, anche a molti Stati dell’America latina e delle isole dei Caraibi, costringendoli a rilasciare concessioni monopolistiche in favore di imprenditori statunitensi e a destinare il proprio territorio alla monocoltura di prodotti finalizzati all’esportazione negli Stati Uniti. 41 42 43

44

Ivi, p. 89. Ivi, p. 86. Ivi, p. 93: essa, applicata nei confronti dei Paesi latinoamericani, consisteva nella concessione di prestiti monetari in cambio dello sfruttamento di materie prime, di diritti commerciali esclusivi e della libertà di intervento nei conti pubblici degli Stati in questione mediante operazioni di «aggiustamento strutturale» che, se rifiutate, provocavano la fuga dei capitali degli investitori esteri e, in alcuni casi, forme di avvertimento militare da parte degli USA. Ivi, p. 92.

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Abbondano gli studi che mostrano come le industrie statunitensi del caffè e della canna da zucchero abbiano avuto un impatto assolutamente negativo sulle economie dei Paesi dell’America centrale e meridionale, portando a una crescita economica che non prevedeva opportunità di sviluppo per la popolazione locale.45 Si origina qui, non solo per quanto riguarda i Paesi sottoposti all’imperialismo statunitense ma per la quasi totalità dei territori che furono soggetti a forme di impero diretto, indiretto e informale, quella che Mann denomina la «grande divergenza»:46 un sottosviluppo economico difficilmente recuperabile, relativo tanto alla produttività economica quanto all’aspettativa di vita e alle condizioni di sussistenza della popolazione. Nella stragrande maggioranza dei casi, per tutta la durata del dominio imperialista, quasi tutto il surplus generato dai Paesi dominati era appropriato dalle élite del centro. Ma a determinare la grande divergenza non fu tanto lo sfruttamento diretto, nella forma di appropriazione di risorse umane e materiali, bensì il fatto che per i Paesi sottoposti a dominio imperiale la strada verso l’industrializzazione era sostanzialmente preclusa: venne così a crearsi un enorme divario tra i territori del centro e quelli della periferia, non industrializzati e spesso dipendenti dalle esportazioni di una singola coltura o da un’unica industria estrattiva, e quindi gravemente vulnerabili alle fluttuazioni dei prezzi. La grande divergenza fu acuita altresì dal ritardo dei Paesi vittime di imperialismo nel beneficiare di diritti civili e politici: proprio mentre in Europa, in seguito alla prima guerra mondiale, si verificava la massima espansione delle libertà politiche, nei territori colonizzati i diritti liberali e democratici continuavano ad essere preclusi alla popolazione:47 nemmeno dopo che decine di migliaia di soldati arruolati nelle colonie ebbero combattuto in Europa nella prima guerra mondiale vi furono concessioni di diritti.48 La motivazione addotta dai colonizzatori per spiegare la negazione dei diritti rifletteva naturalmente il razzismo, che, dal punto di vista ideologico, è da sempre una componente più o meno palese dei progetti imperialistici: i popoli in questione non erano in grado di fare uso di diritti che solo esseri maturi e razionali avrebbero potuto applicare responsabilmente.49 I territori 45 46 47 48 49

Cfr. S. Topik, A. Wells, The Second Conquest of Latin America, University of Texas Press, Austin 1998. M. Mann, The Sources of Social Power, cit., p. 42. Ivi, p. 48. Ivi, pp. 164-165. Ivi, p. 48; per la trattazione delle ideologie connesse all’espansione imperiale degli Stati europei, cfr. ivi, pp. 51-55.

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sottoposti a impero indiretto o informale non ebbero, dal punto di vista del godimento dei diritti, una sorte migliore di quelli direttamente colonizzati: per mantenere il proprio dominio a distanza, infatti, gli Stati del centro si appoggiarono a élite locali dispotiche, a dittatori sanguinari e a regimi tirannici, talvolta intervenendo mediante l’esercito per far cessare sul nascere rivendicazioni popolari di rappresentatività o misure redistributive.50 Questo, naturalmente, andò a determinare nei Paesi in questione un’alta instabilità politica, che in molti casi si protrae fino ad oggi. 4.3. Una teoria della rivoluzione Le rivoluzioni furono eventi frequenti nella storia del ventesimo secolo, a partire dalla rivoluzione russa del 1917 e dalle fallite rivoluzioni in Germania e Austria degli anni ’20, fino alla rivoluzione cinese e alle successive rivoluzioni anticoloniali in Asia, Africa e Sudamerica. Mann definisce la rivoluzione come «un movimento di insurrezione popolare che rovescia un regime dominante e poi trasforma sostanzialmente almeno tre delle quattro fonti del potere sociale».51 Egli distingue tre ondate di rivoluzioni e, a partire da esse, ravvisa una serie di regolarità attraverso cui individua le condizioni che rendono probabile il prodursi di una rivoluzione. Mann elabora dunque una teoria della rivoluzione che, in base all’impostazione complessiva del suo modello, non va pensata in prospettiva nomotetica, bensì semplicemente come delineazione di alcune condizioni ricorrenti che hanno un ruolo rilevante nel portare un Paese alla rivoluzione. Le rivoluzioni, Mann ne è ben consapevole, sono eventi ad alto tasso di contingenza e dall’esito incerto e imprevedibile,52 e quindi ogni teoria riguardante tali fenomeni è costretta a muoversi nell’ambito del probabile. Lenin, in L’estremismo, malattia infantile del comunismo, scriveva che «per la rivoluzione non basta che le masse sfruttate e oppresse siano coscienti dell’impossibilità di continuare a vivere come per il passato ed esigano dei cambiamenti; per la rivoluzione è necessario che gli sfruttatori

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Ivi, pp. 48 e 94. Così si espresse il segretario di Stato (e premio Nobel per la pace) Cordell Hull per descrivere Rafael Trujillo, dittatore della Repubblica Domenicana: «sarà pure un figlio di puttana, ma è il nostro figlio di puttana» (cfr. ivi, p. 97) Cfr. The Sources of Social Power, vol. 4, Cambridge University Press, New York 2013, p. 246. M. Mann, The Sources of Social Power, vol. 3, cit., p. 168.

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non possano più vivere e governare come per il passato».53 La riformulazione che Mann propone di questa tesi è che «le rivoluzioni avvengono quando una popolazione insoddisfatta arriva alla convinzione che il regime dominante si è indebolito al punto che è possibile sfidarlo»54 (al punto, potremmo anche affermare conoscendo le precedenti elaborazioni teoriche di Mann, che viene meno l’accettazione pragmatica derivante dalla consapevolezza che alla ribellione seguirà necessariamente sconfitta e repressione). Naturalmente, questa enunciazione va sviluppata e spiegata. Andiamo subito a considerare, a livello teorico, i punti fondamentali della teoria della rivoluzione di Mann, che poi metteremo in relazione ai casi storici – in particolare la rivoluzione russa e quella cinese – a partire dai quali Mann ricava la sua prospettiva. Nel tracciare la sua teoria della rivoluzione, Mann si riferisce non solo ai casi concretamente verificatisi, ma anche alle teorie che a partire da questi ultimi sono state elaborate da altri studiosi, primi fra tutti Theda Skocpol e Walter Goldfrank.55 Entrambi gli autori, congiuntamente, enfatizzano il ruolo delle divisioni politiche del regime dominante, acuite da possibili tensioni geopolitiche, e l’unità delle classi subordinate nell’insorgere contro le élite al potere.56 Mann, sulla base della sua analisi delle rivoluzioni russa e cinese e delle fallite rivoluzioni in Germania e in Austria, specifica ulteriormente i punti enucleati da Goldfrank e Skocpol e ne aggiunge altri due, pervenendo, così, a un modello che tiene conto di tutte e quattro le fonti del potere sociale. 1. Dal punto di vista del potere politico, affinché possa aver luogo una rivoluzione, il regime dominante deve, sì, essere debole, frazionato e disunito, ma anche dispotico e repressivo:57 in caso contrario, gli insorti potrebbero esprimere il loro dissenso attraverso le istituzioni rappresentative o tenderebbero a rivolgere il proprio malcontento contro le classi economicamente dominanti, non contro lo Stato. Repressione delle libertà e debolezza interna sono condizioni necessarie per un’insurrezione che si trasformi in rivoluzione. La debolezza del regime, sostiene Mann, nei casi concreti di rivoluzione si articola spesso nei termini di una carenza di po-

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V. Lenin, L’«estremismo», malattia infantile del comunismo, in Id., Opere, vol. 31, Editori Riuniti, Roma 1967, pp. 9-93: 74. M. Mann, The Sources of Social Power, vol. 3, cit., p. 169. Cfr. Th. Skocpol, Stati e rivoluzioni sociali, cit., e W. Goldfrank, Theories of Revolution and Revolution Without Theory, in «Theory and Society», VII (1979), pp. 135-165. M. Mann, The Sources of Social Power, vol. 3, cit., p. 170. Cfr. M. Mann, The Sources of Social Power, vol. 4, cit., p. 247.

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tere infrastrutturale:58 le élite statali dispotiche, che basano il loro dominio su un’organizzazione politica frazionata, poiché fondata su rapporti particolaristici e sul divide et impera, non dispongono di una sufficiente penetrazione infrastrutturale per implementare routinariamente le loro decisioni politiche nella società civile. Ciò fa sì che il loro potere, quando riesce a esercitarsi su quest’ultima, venga spesso percepito dai soggetti come arbitrario e illegittimo, e possa trovare solo un’applicazione limitata, intermittente e parziale. 2. Per quanto riguarda il potere economico, i principali attori che salgono alla ribalta nella modernità, ossia le classi subordinate, devono essere uniti almeno da rivendicazioni comuni e comuni motivi di insoddisfazione.59 Particolarmente importante è, nelle economie prevalentemente agricole, il determinarsi di obiettivi rivoluzionari che connettano le classi rurali ai lavoratori industriali residenti nelle città. Una condizione ostacolata dal fatto che gli interessi di base di queste due frazioni della classe subordinata sono strutturalmente contrapposti: i contadini, che solitamente non rivolgono le loro richieste economiche allo Stato, ma alle classi economicamente dominanti, aspirano a mantenere alti i prezzi dei generi alimentari, mentre i lavoratori urbani richiedono il loro abbassamento. È quindi necessario che si diano elementi di comunanza tra le due frazioni della classe subordinata, dal momento che ribellioni di una sola frazione potrebbero più facilmente venire represse; in alternativa, per il darsi di una rivoluzione, una delle due frazioni deve essere, oltre che coesa al suo interno, fortemente prevalente sull’altra dal punto di vista numerico. 3. Affinché i gruppi che potrebbero rovesciare il regime dominante pervengano alla necessaria coscienza di sé e coesione interna, è essenziale altresì il potere ideologico:60 solo ideologie che siano in grado di prefigurare una società più giusta, rivelando i caratteri dell’oppressione presente, sono in grado di far abbandonare ai gruppi subordinati il loro atteggiamento di accettazione pragmatica e la percezione dell’inevitabilità «naturale» dell’ordine di potere dato. Ideologie siffatte, nelle concrete situazioni storiche, sono state spesso trasmesse ai gruppi oppressi da un’avanguardia rivoluzionaria, più raramente sono andate sviluppandosi all’interno del gruppo stesso. Nel ventesimo secolo l’ideologia rivoluzionaria per eccellenza è naturalmente il marxismo, che risulta una forza attiva tanto nella rivoluzione russa quanto in quella cinese; in Germania, tuttavia, esso viene inteso 58 59 60

M. Mann, The Sources of Social Power, vol. 3, cit., p. 170. Ivi, pp. 170 e 180. Cfr. M. Mann, The Sources of Social Power, vol. 4, cit., p. 247.

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dalle sinistre in senso produttivista e industrialista, allontanando così dal movimento rivoluzionario le classi subordinate rurali. 4. Il bilanciamento di potere militare tra Stato e insorti, come quello tra lo Stato in cui avviene la rivoluzione e Stati rivali che si muovono sul piano geopolitico, infine, gioca un ruolo fondamentale per il prodursi di una rivoluzione e per le sue possibilità di successo:61 i rivoluzionari dovranno disporre di un potere militare superiore a quello che il vecchio regime può dispiegare, e non dovranno essere ostacolati – bensì, semmai, favoriti – da dinamiche geopolitiche. 4.3.1. La prima ondata di rivoluzioni: la rivoluzione russa La prima ondata storica di rivoluzioni62 ha luogo tra il 1917 e il 1923: essa viene inaugurata dalla rivoluzione bolscevica, la quale ispira poi diversi tentativi rivoluzionari in Europa, destinati tuttavia al fallimento. Nella rivoluzione russa63 si evidenziano chiaramente le quattro condizioni individuate da Mann: - Potere politico: il regime dello zar Nicola II, come del resto tutti i regimi autocratici dell’epoca, era fondato sul divide et impera e su canali particolaristici. Mentre alle classi subordinate lo zar riservava la repressione violenta, egli imponeva il proprio volere sulla nobiltà, sui funzionari di corte e sugli alti comandi militari tramite la revoca di concessioni precedentemente accordate, al di fuori da qualsiasi routinaria procedura istituzionale.64 Il regime dominante era inoltre repressivo e dispotico: nonostante una rapida industrializzazione, che aveva portato alla formazione di una classe operaia consistente e autoconsapevole, nessuna riforma economica e democratica era stata concessa dallo zar, mentre i diritti collettivi di cui 61 62 63

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M. Mann, The Sources of Social Power, vol. 3, cit., p. 170. Cfr. M. Mann, The Sources of Social Power, vol. 4, cit., p. 248. I riferimenti principali di Mann per quanto riguarda la rivoluzione russa sono S. Smith, Red Petrograd: Revolution in the Factories, 1917–18, Cambridge University Press, Cambridge 1983; K. Murphy, Revolution and Counterrevolution: Class Struggle in a Moscow Metal Factory, Berghahn Books, Oxford 2005; G. Gill, Peasants and Government in the Russian Revolution, Barnes & Noble, New York 1979; V. Bonnel, Roots of Rebellion, University of California Press, Berkeley & Los Angeles 1983; D. Mandel, The Petrograd Workers and the Fall of the Old Regime, MacMillan, London 1983; A. Rabinowitch, I bolscevichi al potere, trad. it. Feltrinelli, Milano 1978; R. Suny, The Soviet Experiment, Oxford University Press, Oxford 1998; R. McKean, St. Petersburg Between the Revolutions, Yale University Press, New Haven 1990; Th. Skocpol, Stati e rivoluzioni sociali, cit. M. Mann, The Sources of Social Power, vol. 3, cit., p. 175.

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potevano godere i lavoratori erano assai scarsi. I riformatori borghesi erano riusciti a ottenere l’istituzione di un parlamento a suffragio ristretto, la Duma, ma la repressione del dissenso era all’ordine del giorno. Le proteste messe in atto dalle classi subordinate erano oggetto di repressione mediante azioni militari che facevano migliaia di morti. La repressione violenta e il rifiuto da parte dello zar di qualsiasi compromesso portano le iniziali rivendicazioni di riforma costituzionale,65 avanzate fin dagli inizi del 1900 da larghe sezioni della popolazione, a orientarsi in senso rivoluzionario. Decisiva, nel produrre questa radicalizzazione, è l’intransigenza di Nicola II nel far scendere la Russia in guerra e, soprattutto, nel proseguire il conflitto anche a fronte delle prime, catastrofiche sconfitte e del rapido peggiorare della situazione nelle città, la cui popolazione è spinta allo stremo dalla mancanza di generi alimentari – dirottati al fronte – e dai ritmi massacranti della produzione industriale a scopi bellici.66 In un clima di crescente tensione sociale i numerosi scioperi dei lavoratori vengono immancabilmente repressi, fino all’insurrezione generale del febbraio 1917. - Potere militare: la guerra era stata decisiva nel portare la situazione sociale della Russia al punto di rottura; essa aveva inoltre pressoché annullato il potere infrastrutturale dello Stato. La rivoluzione russa si configura come «una rivoluzione dal basso contro un regime il cui potere infrastrutturale era stato devastato dalla guerra e aveva perso dunque ogni capacità repressiva».67 La repressione militare ordinata dallo zar al fine di riconquistare il controllo sugli insorti è il suo ultimo atto. Le truppe si uniscono ai dimostranti: ora gli insorti dispongono del potere militare, e, dal momento che la guerra mondiale infuria, nessuna potenza straniera interviene a salvare l’impero dello zar. Il 2 marzo 1917 la corte, i ministri e gli alti comandi ritirano ufficialmente il loro appoggio a Nicola II. Entra in carica il governo provvisorio di Georgij L’vov, che promette l’uscita dal conflitto ed elezioni a suffragio universale. - Potere economico: le classi subordinate avevano, in Russia, obiettivi differenziati. I contadini, strangolati dai debiti e dai costi dell’affitto dei terreni presso proprietari terrieri assenteisti, chiedevano una riforma agraria; i lavoratori urbani industriali rivendicavano migliori condizioni di lavoro, oltre che diritti democratici e sociali. Tra le due frazioni di classe vi era però un’unione di fondo:68 la crisi economica, la mancanza di cibo, la 65 66 67 68

Ibid. Ivi, p. 176. Ivi, p. 178. Ivi, p. 181.

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morte in guerra di amici e familiari colpiscono allo stesso modo lavoratori e contadini, i quali erano i gruppi sociali che, più di tutti gli altri, portavano sulle proprie spalle i sacrifici risultanti dal conflitto;69 entrambe le frazioni di classe erano accomunate da un sentimento pacifista e antigovernativo, tanto più che la prospettata uscita dal conflitto sembra non arrivare mai. Il popolo vuole la pace, ma il governo di L’vov, oltre a rimandare sempre di nuovo le riforme, continua la guerra tra le enormi sofferenze di soldati, contadini e lavoratori; «se il governo avesse chiesto la pace», scrive Mann, «avrebbe probabilmente evitato la rivoluzione».70 - Potere ideologico: la prolungata repressione e intransigenza del governo fa convergere le tre principali frazioni della classe subordinata (operai, contadini e soldati) verso un’ideologia rivoluzionaria, saldandone l’unità. Esse si organizzano in consigli formati da rappresentanti eletti democraticamente, i soviet. In questa occasione i bolscevichi, frazione del partito socialdemocratico a programma rivoluzionario, che fino a quel momento aveva avuto un ruolo ben poco rilevante (Mann definisce i bolscevichi d’anteguerra «un gruppuscolo di marginali»,71 privi di effettiva influenza politica), riesce ad assumere la guida ideologica della rivoluzione. Con lo slogan semplice e radicale «pane, terra e pace»,72 i bolscevichi riescono abilmente a ottenere il favore di lavoratori, contadini e soldati, rinsaldando, al contempo, la loro unione di classe. I bolscevichi avevano come propria finalità, in base all’ideologia marxista, la rivoluzione proletaria, e proprio grazie a tale obiettivo trascendente avevano mantenuto grande coesione interna e dedizione alla causa rivoluzionaria anche attraverso gli anni della repressione politica. Tuttavia, dando prova di intelligenza strategica, pongono adesso di fronte alla popolazione insoddisfatta obiettivi di breve termine, in grado di far presa sui principali gruppi da cui essa è composta. Il fallito colpo di Stato di Kornilov dà ulteriore impulso alla forza ideologica dei bolscevichi, i quali si pongono a capo della difesa della Russia contro le mire autoritarie del generale.73 Giunti a questo punto, forti dell’appoggio popolare e del fatto che le più grandi città fossero già effettivamente governate da soviet, i bolscevichi decidono di rompere gli indugi. Sotto la guida di Vladimir Lenin, il 25 ottobre 1917 prendono il potere.

69 70 71 72 73

Ibid. Ivi, p. 184. Ivi, p. 176. Ivi, p. 184. Ivi, pp. 185-186.

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Gli avvenimenti russi sono all’origine del propagarsi, in Europa, di tendenze rivoluzionarie, che nel caso tedesco e austriaco sfociano in tentativi concreti, ma destinati al fallimento. Gli spartachisti,74 che tentarono la rivoluzione in Germania nel 1919, non avevano dalla loro parte il potere militare, né vi era unità tra le classi subordinate, poiché l’ideologia produttivista e industrialista dei marxisti tedeschi precludeva loro l’appoggio dei contadini, mentre i lavoratori stessi erano divisi tra linea rivoluzionaria e riformismo. Il potere politico era inoltre saldamente nelle mani del governo socialdemocratico di Ebert, che godeva dell’appoggio della maggioranza della popolazione ed era aperto alle riforme. Nemmeno in Austria il partito socialdemocratico di Otto Bauer riuscì a imporre il suo riformismo radicale al di là della città di Vienna:75 il potere della coalizione formata dalle classi economicamente dominanti, dai cattolici e dai contadini era ben saldo; le classi subordinate erano disunite; i militari erano maggiormente attratti dall’austrofascismo e dal nazionalsocialismo emergente, piuttosto che dal socialismo riformista radicale di Bauer. In seguito alla svolta autoritaria impressa al Paese da Engelbert Dollfuss, il partito socialdemocratico viene messo fuorilegge e Bauer è costretto a lasciare l’Austria. Tanto il caso tedesco quanto quello austriaco confermano dunque, in negativo, il modello di Mann; lo stesso vale per la Repubblica Sovietica d’Ungheria, instaurata nel 1919 e repressa pochi mesi dopo.76 4.3.2. La seconda ondata rivoluzionaria: la rivoluzione cinese La rivoluzione cinese77 segna l’inizio della seconda ondata rivoluzionaria, e anche in essa emergono chiaramente tutti i caratteri della teoria della 74 75 76 77

Ivi, pp. 193-199. Ivi, pp. 199-201. Ivi, pp. 201-203. I principali riferimenti di Mann sono qui E. Perry, Rebels and Revolutionaries in North China, 1845–1945, Stanford University Press, Stanford 1980; D. Goodman, Social and Political Change in Revolutionary China, Rowman & Littlefield, New York 2000; K.-K. Shum, The Chinese Communists’ Road to Power, Oxford University Press, Oxford 1988; E. Dreyer, China at War, 1901–1949, Longman, London 1995; G. Benton, Mountain Fires: The Red Army’s Three-Way War in South China 1934–1938, University of California Press, Los Angeles 1992, e Id., New Fourth Army: Communist Resistance along the Yangtze and the Huai, 1938– 1941, University of California Press, Los Angeles 1999; L. Bianco, Peasants Without the Party. Grass-Roots Movements in Twentieth-Century China, Sharpe, New York 2001; Y. Chen, Making Revolution, University of California Press, Los Angeles 1986; K. Hartford, Repression and Communist Success: the Case of Jin-

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rivoluzione proposta da Mann. Nel 1927, il governo del generale Chiang Kai-shek, a capo del partito conservatore Kuomintang (KMT), lancia un brutale attacco militare al piccolo partito comunista cinese, uccidendo 5000 membri di esso e costringendo gli altri alla clandestinità. I sopravvissuti fuggono nella provincia di Jiangxi con l’obiettivo di combattere la guerra rivoluzionaria a partire dalle campagne, strappando villaggio dopo villaggio al dominio del KMT e dei signori della guerra che a quel tempo controllavano parte della Cina.78 La reazione del KMT non si fa attendere: accerchiati dall’esercito di Chiang Kai-shek, i comunisti, per salvarsi, devono intraprendere la «lunga marcia» (1934-1935), un’estenuante ritirata a cui solo il 5% di coloro che erano partiti sopravvive, e che li porta a Yennan, nell’estremo nord-est.79 Chiang Kai-shek fa pressioni sui signori della guerra che controllano l’area affinché diano il colpo di grazia ai suoi oppositori, ma fattori geopolitici vengono in aiuto ai comunisti: il Giappone aveva invaso fin dal 1931 la Manciuria e stava continuando la sua avanzata in territorio cinese, senza essere contrastato con particolare impegno da Chiang Kai-shek, il quale era uso sostenere che «i giapponesi sono una malattia della pelle; i comunisti una malattia del cuore».80 Di fronte all’aggravarsi del primo tipo di “malattia”, sono i suoi stessi soldati a costringere Chiang Kai-shek a costituire un fronte unico in funzione antigiapponese insieme ai comunisti. I giapponesi, naturalmente, concentrano le proprie forze sul nemico più potente, l’esercito del KMT, dando ai comunisti il tempo di riorganizzarsi. Senza l’invasione da parte del Giappone, i comunisti sarebbero probabilmente stati sterminati nel 1935.81 Tra la popolazione cinese l’insoddisfazione politica nei confronti del KMT era ampia, a causa della debolezza interna ed esterna di esso (la Cina era frammentata tra aree controllate dal KMT, aree sottoposte ai signori della guerra e basi comuniste), del malgoverno di cui facevano maggiormente le spese le classi più povere, e dell’irresolutezza nel confrontarsi con l’invasore giapponese. I comunisti cinesi capiscono che, oltre a sfruttare il dissenso politico di ampi settori della popolazione, in un Paese basato su un’economia agraria essi devono farsi portatori delle rivendicazioni dei contadini. Mettono quindi da parte il marxismo ortodosso e cercano, piuttosto, di analizzare le forme dello sfruttamento rurale, al fine di assicurarsi

78 79 80 81

Cha-Ji, 1938–1943, in Single Sparks: China’s Rural Revolutions, a cura di K. Hartford e S. Goldstein, Sharpe, New York, pp. 92-127. M. Mann, The Sources of Social Power, vol. 3, cit., p. 398. Ivi, p. 401. Ivi, p. 384. Ivi, p. 401.

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l’appoggio e la partecipazione attiva dei contadini privi di terra e impoveriti dai debiti.82 La linea suggerita da Mao Tse-tung, che, dopo la lunga marcia, diviene leader indiscusso del partito, è quella di farsi portatori degli interessi dei contadini sfruttati e, al contempo, di ricercare alleanze con elementi illuminati delle classi medie rurali e urbane. I comunisti intraprendono quindi, nelle aree da loro controllate, politiche di riduzione forzata delle tasse e dei debiti dei contadini più poveri; implementano forme di governo partecipativo nei villaggi, istituiscono banchi di mutuo soccorso rurale, e mobilitano le popolazioni locali per progetti agricoli su larga scala, mentre proseguono la loro espansione in nuove aree grazie alle nuove reclute per le loro milizie.83 Questo tipo di azione economico-politico-militare diviene però possibile solo una volta che i comunisti riescono a porsi, agli occhi dei contadini, come un’alternativa reale all’ordine che questi avevano da sempre conosciuto. Dal punto di vista ideologico, infatti, i contadini poveri cinesi erano inizialmente privi di coscienza di classe e anche solo della consapevolezza che un diverso ordine sociale fosse possibile: essi erano, da generazioni, abituati a un atteggiamento di rassegnazione fatalistica e di accettazione pragmatica, basato sulla consapevolezza che gli squilibri di potere tra loro e i proprietari terrieri erano troppo grandi affinché azioni di resistenza potessero avere successo. Per molti, oltretutto, l’ordine esistente corrispondeva a un «ordine naturale», complici anche i tradizionali valori confuciani di dovere e armonia gerarchica.84 L’atteggiamento dei contadini verso i comunisti fu quindi, all’inizio, di sospettosa diffidenza, in quanto essi temevano che i nuovi arrivati avrebbero poi avuto la peggio e i proprietari terrieri si sarebbero vendicati su chi li aveva appoggiati. I comunisti dovettero dunque lavorare su più fronti per guadagnare la fiducia dei contadini: mediante politiche di redistribuzione economica; attraverso assemblee partecipative durante le quali la popolazione era incoraggiata a esprimere il suo risentimento verso gli sfruttatori, mentre i membri del partito ponevano la propria ideologia come alternativa allo strapotere dei proprietari terrieri; e consolidando la stabilità del loro controllo militare sul territorio per mezzo di sempre più numerose «basi rosse». Internamente al partito vennero inoltre sviluppate istituzioni volte ad accrescere la coesione, l’istruzione e la preparazione dei quadri, in modo da formare un’élite 82 83 84

Ivi, p. 399. Ivi, pp. 408-409. Ivi, pp. 401-403. Cfr. a riguardo lo studio di L. Bianco, Peasants without the Party, cit.

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politico-ideologica che sapesse efficacemente articolare gli scontenti e le sofferenze dei contadini in termini politici: «non ci sarebbe stata la rivoluzione senza questa élite», scrive Mann; «la rivoluzione dei contadini fu realizzata da loro. Lo scontento a cui i contadini davano espressione con i mezzi forniti dai quadri era reale, ma la rivoluzione cinese non fu una sollevazione spontanea».85 Nel giro di pochi anni si assistette quindi «a un’enorme redistribuzione di ricchezza e di potere politico e alla quasi eliminazione dei latifondi nelle aree sotto controllo comunista»;86 i contadini, gradualmente, danno il loro sostegno attivo alla rivoluzione, contribuendo all’avanzata dei comunisti. Nel 1945, successivamente all’intervento statunitense nella seconda guerra mondiale, i giapponesi si ritirano dalla Cina; di conseguenza, il KMT accelera la sua espansione su vaste aree del Paese, ponendosi nuovamente come un’effettiva minaccia per i comunisti. Esso, però, oltre ad essere meno coeso e internamente disciplinato di questi ultimi, aveva ormai perso ogni sostegno popolare.87 Nel 1948, gli Stati Uniti si accorgono che il KMT è ormai destinato alla sconfitta ad opera dei comunisti e smettono di fornirgli armi. Stalin e Truman avevano raggiunto l’accordo implicito di tenersi fuori dalla guerra civile cinese: oltre alla guerra fredda, non volevano trovarsi a intraprendere anche una «guerra calda» l’uno contro l’altro.88 Nel 1949 i comunisti sbaragliano ciò che rimane dell’esercito del KMT, e, salutati come salvatori della nazione, il 1° ottobre 1949 fondano la Repubblica Popolare Cinese. Tutti gli elementi teorizzati da Mann sono ben evidenti nella rivoluzione cinese: un regime dominante debole, repressivo e inefficiente; classi subordinate unite e coese; rivoluzionari capaci di intraprendere la lotta armata e favoriti da fattori geopolitici; un’ideologia che consolida l’unità degli insorti e che spazza via le forme di accettazione pragmatica del dominio praticate dalle classi subordinate. Mann afferma che la sua spiegazione delle rivoluzioni «è apertamente marxiana solo nell’enfatizzare l’elemento della lotta di classe»: per il resto, lo sfruttamento a cui i popoli dominati si contrappongono mediante l’insurrezione rivoluzionaria non deriva unicamente dalla relazione capitale-lavoro, bensì da forme di repressione politica, militare e ideologica.89 La seconda ondata rivoluzionaria, inaugurata dalla 85 86 87 88 89

Ivi, p. 410. Ivi, p. 411. Ivi, p. 411-412. Ivi, p. 413. M. Mann, The Sources of Social Power, vol. 4, cit., pp. 253-254.

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rivoluzione cinese, prosegue con le lotte coloniali per l’indipendenza che hanno luogo nel secondo dopoguerra: l’ideologia socialista è qui sostituita da ideologie nazionaliste e anticolonialiste, mentre il nemico con cui gli insorti devono scontrarsi non è una forza controrivoluzionaria interna, bensì il centro imperiale che si contrappone loro come potenza geopolitica.90 Si può parlare anche di una terza ondata rivoluzionaria? Mann pone la questione in termini dubitativi. L’evento capostipite di essa sarebbe la rivoluzione iraniana del 1979, che, dopo un iniziale successo in senso democratico, viene dirottata in direzione teocratico-islamista dall’ayatollah Khomeini.91 In questo caso, come in quello delle lotte per l’indipendenza delle colonie latinoamericane, l’assenza dell’elemento geopolitico (nella forma di un conflitto che esacerbi le sofferenze della popolazione, spingendola alla ribellione) è probabilmente compensata dal carattere altamente personalistico, dispotico e repressivo del regime dominante al quale gli insorti inizialmente si ribellano.92 La rivoluzione iraniana prelude idealmente, forse, alle fallimentari «primavere arabe» del 2011, in cui un’iniziale spinta rivoluzionaria per la conquista di democrazia e giustizia economica implode nell’ascesa al potere di dittature islamiche.93 La conclusione dell’autore di The Sources of Social Power è che le rivoluzioni, per prodursi, necessitano solitamente di fattori ben precisi, relativi a tutte e quattro le fonti del potere sociale; esse, inoltre, colpiscono regimi repressivi, personalistici, internamente frazionati: solitamente «le rivoluzioni non hanno luogo nelle democrazie»,94 le quali «possono normalmente gestire lo scontento mediante processi elettorali istituzionalizzati».95 Un’osservazione che, se abbandoniamo per un momento la storia contemporanea, richiama le considerazioni che Mann già svolgeva nel volume precedente riguardo alla madre di tutte le rivoluzioni: la rivoluzione francese. 4.4. La grande depressione e l’avanzata dei diritti sociali nelle democrazie costituzionali Il 29 ottobre del 1929, il giorno del crollo della borsa di New York, ha inizio la seconda crisi semiglobale del ventesimo secolo: la grande de90 91 92 93 94 95

Cfr. infra, cap. 5. M. Mann, The Sources of Social Power, vol. 4, cit., pp. 254-260. Ibid. Ivi, p. 263. Ivi, p. 267. Ivi, p. 247.

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pressione. Con il repentino precipitare del valore delle azioni, centinaia di migliaia di risparmiatori e di grandi investitori, a partire dalla settimana precedente, avevano visto volatilizzarsi i propri capitali. Il «martedì nero» del 29 ottobre segna il crack definitivo: il panico bancario che ne risulta provoca il fallimento di moltissimi istituti di credito e trascina ancor più nella crisi le aziende americane; si instaura una spirale di fallimenti a catena, che getta nella povertà e nella disoccupazione milioni di persone. A partire dagli Stati Uniti, la crisi si espande a tutti i Paesi sviluppati, determinando un dissesto economico e sociale che solo dopo anni ci si potrà lasciare alle spalle. La crisi aveva ragioni profonde: Mann propone una spiegazione multifattoriale della grande depressione, la quale si genera, egli afferma, dal congiungersi di una serie di crisi distinte, relative a fattori economici, politici, geopolitici ed ideologici. Egli rifiuta quindi interpretazioni che facciano risalire la grande depressione unicamente a motivazioni economiche, o anche a una combinazione di ragioni economiche e geopolitiche,96 concependola, piuttosto, come la risultante del congiungersi inaspettato di diverse catene di eventi riferibili a tutte e quattro le fonti del potere sociale.97 La motivazione più di lungo termine è di carattere economico: durante la prima guerra mondiale tutti i Paesi partecipanti, eccetto gli Stati Uniti, interrompono la loro adesione al sistema aureo, ossia al sistema monetario prescrivente la piena convertibilità in oro delle basi monetarie nazionali secondo un rapporto di cambio fisso. Nel dopoguerra i Paesi europei più avanzati tornano nel sistema aureo, in quanto esso, ponendo un limite alla cartamoneta stampabile, preveniva l’inflazione, oltre a garantire standard di bilancio che favorivano la fiducia degli investitori. In teoria, il ritorno all’interno del sistema aureo avrebbe dovuto essere indice del ritrovato stato di salute delle economie nazionali. Nella pratica non era così. La maggior parte delle monete nazionali vengono nascostamente su-

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Tra queste la spiegazione proposta da Arrighi, che, ne Il lungo XX secolo (Il Saggiatore, Milano 1996), fa risalire la grande depressione alla mancanza, nel periodo tra le due guerre, di una «potenza egemone» che potesse garantire ordine e stabilità al sistema internazionale; come abbiamo visto nel capitolo precedente, però, Mann rifiuta le tesi che Arrighi assume come presupposto della sua interpretazione della grande depressione, ossia che la Gran Bretagna fosse una reale potenza egemone prima della guerra e che l’ordine internazionale possa essere garantito, in senso «hobbesiano», da un singolo Stato egemone. Cfr. M. Mann, The Sources of Social Power, vol. 3, cit., p. 211. Ivi, p. 209.

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pervalutate senza riserve d’oro a garantirle,98 al fine di prevenire la fuga di capitali e lanciare agli altri Stati un segnale di potenza economica, per quanto illusorio. Questo ha effetti controproducenti: non solo l’oro, tenuto fermo come riserva, non viene investito e risulta dunque improduttivo; ma oltretutto, nelle nazioni che supervalutano la propria moneta, vengono imposte alla popolazione politiche di austerità economica sotto l’ossessione del pareggio di bilancio.99 Siffatte politiche fiscali ed economiche, in base a un processo che in seguito alla «grande recessione neoliberale del 2008» ci è divenuto fin troppo familiare, deprimono le economie nazionali, causano l’impoverimento di ampie fasce di popolazione, e contribuiscono all’accrescersi delle tensioni sociali.100 Si trattava infatti di politiche economiche volte a tranquillizzare gli investitori ai danni dei lavoratori, i quali, organizzati in movimenti a base nazionale, possono però fare poco per contrastare le misure adottate dai governi per tutelare l’interesse del capitale transnazionale: «il potere del capitale finanziario», scrive Mann, «è più antico di quanto molti commentatori contemporanei pensino».101 Nel determinare il ritorno dei Paesi europei al sistema aureo, ancorché su basi fragili e illusorie, come anche l’adozione di politiche di austerità, pesavano ragioni ideologiche e geopolitiche.102 Il clima internazionale del dopoguerra continuava infatti a essere teso, in un contesto ad alto tasso di nazionalismo economico competitivo: ogni governo nazionale voleva dimostrare, in base a concezioni di onore non troppo dissimili da quelle che tanta parte avevano avuto nel determinare la prima guerra mondiale, che l’economia del proprio Paese non era da meno di quella degli altri Stati e che poteva competere sul loro stesso livello.103 La questione del pagamento dei risarcimenti di guerra esacerbava, inoltre, le diffidenze e gli attriti tra gli Stati europei: il culmine della tensione si ebbe, da questo punto di vista, nel 1923, quando il governo tedesco annunciò che non sarebbe riuscito a pagare le riparazioni; per tutta risposta, il Belgio e la Francia occuparono 98 99

100 101 102 103

Ivi, p. 213. Cfr. J. Hamilton, Monetary Factors in the Great Depression, in «Journal of Monetary Economics», XIX (1988), pp. 145-169. M. Mann, The Sources of Social Power, vol. 3, cit., pp. 214-215, e cfr. B. Bernanke e H. James, The Gold Standard, Deflation, and Financial Crisis in the Great Depression, in Financial Markets and Financial Crises, a cura di G. Hubbard, University of Chicago Press, Chicago 1991. Cfr. P. Clavin, The Great Depression in Europe, St. Martin’s Press, New York 2000. M. Mann, The Sources of Social Power, vol. 3, cit., p. 215. Cfr. B. Eichengreen, Golden Fetters: The Gold Standard and the Great Depression, Oxford University Press, Oxford 1992. M. Mann, The Sources of Social Power, vol. 3, cit., p. 214.

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militarmente la Renania, provocando scioperi e resistenze da parte della popolazione, i quali danneggiarono ulteriormente l’economia tedesca.104 L’adesione al sistema aureo era espressione di una ben precisa ideologia; «un dogma, quasi una religione»,105 piuttosto che un’azione strumentalmente razionale: i governi che potevano far tornare le proprie economie nazionali ad aderire al sistema aureo erano concepiti come «buoni governi», capaci di operare con energia ed efficacia per l’interesse nazionale. Le stesse politiche di austerità adottate a questo fine erano nobilitate come dimostrazioni di probità, disciplina e responsabilità.106 «Liquidare gli operai, liquidare le azioni, liquidare gli agricoltori, liquidare le proprietà immobiliari… Eliminare il marcio dal sistema, in modo che la gente lavorerà di più, vivrà una vita morale»: così si esprimeva, nel 1923, il segretario al tesoro degli Stati Uniti Andrew Mellon. L’ideologia dell’austerità, naturalmente, era un’ideologia di classe: la mancanza di probità, di disciplina e di attitudine al risparmio era imputata alle classi subordinate, alle quali, guarda caso, venivano addossati i maggiori sacrifici economici.107 Le politiche deflazionistiche adottate dai governi ebbero l’effetto di impoverire ulteriormente le classi lavoratrici e fornirono l’occasione per una repressione violenta delle proteste del movimento operaio, a tutto vantaggio degli investitori e delle élite statali: «dietro ai tecnicismi della teoria e alla retorica morale c’era la difesa del privilegio, della proprietà, e del diritto di avere servi».108 Questa combinazione di ideologie nazionaliste e classiste, di politiche economiche deflazionistiche, nonché di tensioni geopolitiche, costituisce lo sfondo di crisi pregresse su cui, in un arco di tempo estremamente ridotto, si innestano nuovi elementi di dissesto: vi è innanzitutto una crisi di sovrapproduzione agricola, dal momento che, durante la guerra, gli Stati neutrali avevano aumentato la loro produzione a scopo di esportazione, ma ora anche i Paesi che avevano combattuto tornavano a produrre. «La fiducia nel dogma neoclassico dell’austerità», scrive Mann, «fece però precipitare la deflazione nella depressione economica»:109 alla crisi nell’agricoltura si sommò infatti una crisi di sovrapproduzione industriale, risultante dal calo demografico provocato dal conflitto e soprattutto dal contrarsi del potere d’acquisto della popolazione, impoverita dalle politiche di austerità. A 104 105 106 107 108 109

Ivi, p. 216. Ivi, p. 228. Ibid. Ivi, p. 229-230. Ivi, p. 230. Ivi, p. 229.

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compromettere definitivamente questa già difficile situazione intervenne la crisi finanziaria del 1929, risultante dallo scoppio di una bolla speculativa riguardante le «nuove industrie» dei beni di consumo (automobili, benzina, tabacco, cibi preconfezionati). Per esse gli investitori prevedevano, correttamente, enormi possibilità di futuri guadagni, e furono quindi spinti a concentrare i propri capitali su queste industrie, le quali, però, erano ancora troppo giovani e poco sviluppate per poter adeguatamente rivalorizzare tali investimenti.110 Le politiche deflazionistiche messe in atto dai governi fecero sì che, allo scoppio della bolla speculativa, chi possedeva delle riserve di capitale non fu spinto a investirle. I fallimenti degli istituti di credito provocati dal panico bancario susseguente al «martedì nero» si fecero quindi sempre più numerosi, e con essi la chiusura delle aziende, già messe sotto stress dalla sovrapproduzione industriale.111 Attraverso il sistema aureo, la crisi si propagò rapidamente a tutti i Paesi europei: gli Stati che si riprenderanno più velocemente da essa saranno quelli che, prima degli altri, lasceranno il sistema monetario. La Gran Bretagna, successivamente all’uscita dal sistema aureo, adotta politiche protezionistiche che conducono la sua situazione economica a un modesto miglioramento; Germania, Austria e Italia, come vedremo nel prossimo capitolo, cercano invece la ripresa economica e la ricostituzione della coesione sociale affidando il potere a regimi autoritari statalisti, cementati da una ideologia fortemente nazionalista.112 4.4.1. Il New Deal e l’ampliamento dei diritti sociali Gli Stati Uniti seguono la strategia elaborata da John Maynard Keynes, la quale prevede un massiccio intervento statale per riattivare la crescita 110 Ivi, p. 223. Cfr. Clavin, The Great Depression in Europe, cit., e B. Bernanke, Essays on the Great Depression, Princeton University Press, Princeton 2000. 111 M. Mann, The Sources of Social Power, vol. 3, cit., p. 219. 112 Sulla base di questo dato storico Mann critica come troppo economicistica la tesi di Polanyi del «doppio movimento», in base alla quale momenti di espansione dei mercati sarebbero seguiti dalla reazione regolativa della società (cfr. K. Polanyi, La grande trasformazione, trad. it. Einaudi, Torino 1974). Essa, infatti, sostiene Mann, non spiega come mai le reazioni difensive della società rispetto all’espansione e alla susseguente crisi del capitalismo del 1929 furono così diverse da condurre alcuni Stati all’instaurazione di regimi autoritari, altri all’approfondimento dei diritti sociali in un contesto democratico: per poter rendere conto di queste differenze è necessaria un’analisi fondata sulle quattro fonti del potere sociale e sulle cristallizzazioni statali. Cfr. M. Mann, The Sources of Social Power, vol. 3, cit., p. 239.

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economica, associato a misure di redistribuzione della ricchezza e all’espansione dei diritti sociali. Emerge qui, con la massima chiarezza, la capacità del capitalismo di riformare se stesso, la quale costituisce la più efficace contromisura alle crisi, che, contrariamente a quanto prefigurava Marx, non segnano quindi il suo crollo.113 Il New Deal inaugurato da Roosevelt nel 1932 era basato su politiche miranti a dare sollievo al capitale e al lavoro, in particolare mediante aiuti statali all’industria, all’agricoltura e alle banche. La creazione di posti di lavoro, che in tal modo ottiene impulso, viene ulteriormente favorita dalla realizzazione di grandi opere pubbliche finanziate dallo Stato, il quale interviene altresì nella regolazione di prezzi e stipendi e nella concessione di prestiti per la casa.114 A partire dal 1935, a queste misure si aggiunge l’elaborazione di programmi di welfare e di previdenza sociale, che porta a un ampliamento dei diritti sociali (e perfino sindacali) dei cittadini americani. Tali misure si collocano in un contesto di più generale allargamento della cittadinanza sociale nei Paesi sviluppati. Possono essere individuate, per Mann, tre principali teorie del welfare State: la concezione industrialista,115 che fa discendere l’istituzione dello Stato sociale dalle esigenze legate al capitalismo industriale, in quanto una forza-lavoro che goda di sufficienti standard di vita e di istruzione sarà anche una forza-lavoro più produttiva; la concezione basata sulla lotta di classe,116 in base alla quale il welfare State sarebbe il prodotto dei conflitti messi in atto dalle classi subordinate; e la concezione politicoistituzionale,117 che intende le variazioni dello Stato sociale riscontrabili nei diversi Paesi come il prodotto delle interrelazioni specifiche di partiti, burocrazie, élite statali. Per Mann, nessuna di queste teorie è autosufficiente, ma tutte colgono un aspetto di verità. Nel corso del diciannovesimo secolo, come abbiamo visto, le funzioni civili degli Stati vanno gradualmente ampliandosi: gli Stati si occupano come mai prima d’allora della costruzione di infrastrutture, della pulizia e dell’illuminazione delle strade, della messa a punto di sistemi idrici e di trasporto pubblico. Con l’industrializzazione capitalistica, gli Stati giungono a disporre dei capitali per finanziare obiettivi più ambiziosi, risultanti altresì dall’esigenza dei capitalisti di una forza lavoro maggiormente qualificata e dai problemi sanitari, urbanistici e di ordine pubblico che derivano dall’inurbamento di grandi masse di po113 114 115 116 117

Cfr. ivi, p. 461. Ivi, p. 247. Ivi, p. 284. Ivi, pp. 284-285. Ivi, p. 286.

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polazione nelle città industriali. Nella prima fase di sviluppo di un ancora embrionale welfare State, afferma Mann, è ben presente dunque la «logica dell’industrialismo»,118 dal momento che le élite politiche ed economiche concordano rispetto all’opportunità di misure sociali finalizzate a incrementare la produttività e un modicum di coesione sociale. Il diciannovesimo secolo è però anche il periodo in cui sulla scena politica irrompono classi e nazioni: tra la fine del 1800 e l’inizio del 1900 vanno aumentando le pressioni delle classi lavoratrici per la redistribuzione economica, la regolamentazione giuridica dell’ambito lavorativo e la concessione di diritti sociali di base. L’avanzamento della cittadinanza sociale che si verifica in questo periodo deriva quindi anche dall’esigenza delle élite di placare le masse, specialmente in seguito alla rivoluzione russa e, come abbiamo visto, alla prima guerra mondiale.119 La grande depressione costituisce un ulteriore motivo di ampliamento dei diritti sociali, negli Stati Uniti ma anche nelle democrazie europee a più antica istituzionalizzazione: in questo caso, a combinarsi, sono esigenze industrialiste di ripresa economica e le pressioni esercitate dal basso da una popolazione impoverita e risentita. Eppure non tutti i Paesi colpiti dalla grande depressione prenderanno la strada delle riforme sociali in un contesto democratico; vi saranno anche Stati che sceglieranno la via dei regimi autoritari. Anche solo considerando le democrazie capitalistiche è possibile, sostiene inoltre Mann sulla scorta di Esping-Andersen,120 individuare tre modelli differenziati di istituzionalizzazione del welfare state, i quali, quanto ai loro caratteri generali, si mantengono sostanzialmente immutati fino ad oggi; qui vengono in primo piano gli apporti delle teorie politico-istituzionali dello Stato sociale:121 - Il modello liberale (Paesi anglosassoni) si impone nei Paesi più fortemente caratterizzati da una cristallizzazione capitalistica, in particolare Stati Uniti e Gran Bretagna. Questo modello di welfare si presenta, nel complesso, sottodimensionato, in quanto tende a lasciare la maggior parte della popolazione fortemente dipendente per la sua esistenza dal mercato. Il movimento operaio britannico, di tendenza riformista, e quello statunitense, poco numeroso e disunito di fronte alla compatta opposizione del grande capitale e dei governi conservatori, non riescono a sollecitare, se 118 Ivi, p. 287. 119 Ivi, p. 288. 120 Cfr. G. Esping-Andersen, Politics against Markets, Princeton University Press, Princeton 1985. 121 M. Mann, The Sources of Social Power, vol. 3, cit., pp. 286-287.

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non per periodi di tempo limitati, significative espansioni dei diritti sociali. Il periodo storico successivo alla prima guerra mondiale e alla grande depressione costituisce però, in questi Paesi, un momento di notevole sviluppo dei diritti sociali e di regolamentazione giuridica del capitalismo, sulla base tanto delle richieste delle classi subordinate, quanto di esigenze «sistemiche» di ripresa economica. - Il modello socialdemocratico (Paesi nordici): in accordo con i princìpi della socialdemocrazia, che prende piede in questi Paesi in seguito alla formazione di un forte movimento operaio, il welfare viene inteso come un diritto di cittadinanza; a sussidi statali distribuiti in base a criteri di bisogno, si affianca una più ampia varietà di forme di sostegno garantite a tutta la popolazione a prescindere da particolari requisiti, secondo l’unico criterio della cittadinanza nazionale. - Il modello conservatore (Europa centrale e meridionale) si configura come meno universalista e redistributivo di quello nordico, dal momento che il sostegno dello Stato è altamente variabile a seconda di requisiti di bisogno economico o di status famigliare. Per quanto riguarda le politiche femminili, esso è contraddistinto da un’impostazione «maternalista», che concepisce le donne, in primo luogo, come madri di famiglia: diversamente dal modello nordico, le misure rivolte alle donne sono dunque orientate soprattutto a dare sostegno alla procreazione e all’allevamento dei figli, piuttosto che a una paritaria partecipazione femminile al mondo del lavoro e alla più ampia cooperazione sociale. 4.5. La via autoritaria: i fascismi europei Negli anni successivi alla prima guerra mondiale, la leading edge of power va a dividersi in tre blocchi contraddistinti da differenti cristallizzazioni politiche, ideologiche, economiche e militari. Nei Paesi dell’area europea nordoccidentale si consolidano sempre più le democrazie liberali e costituzionali; nell’Europa meridionale, centrale e orientale prendono piede le destre autoritarie; in Russia, la rivoluzione bolscevica implode nello stalinismo. Gli Stati nordoccidentali a più antica cristallizzazione democratica, lo abbiamo visto nel paragrafo precedente, riescono efficacemente a contenere e incanalare in istituzioni rappresentative e sindacali il conflitto di classe, che subisce una recrudescenza negli anni successivi alla guerra e poi con la grande depressione. Le rivendicazioni di più ampia partecipazione politica e di maggiori tutele lavorative e sociali portano a un ampliamento dei diritti

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della popolazione e ad una moderata redistribuzione economica, che dà impulso alla ripresa del sistema produttivo in seguito alla crisi del 1929. Le liberaldemocrazie guadagnano così una sempre maggiore coesione ideologica e sociale interna, come anche una sempre più forte stabilità politica: le destre si tengono lontane da tendenze autoritarie, mentre le sinistre si orientano al riformismo, piuttosto che alla rivoluzione. Diverso è il caso di Paesi come Germania, Austria, Italia, Spagna, Ungheria e Romania: in essi si impongono regimi autoritari che, agli occhi dei cittadini, riescono a presentarsi come una risposta convincente alle crisi militari, economiche, politiche e ideologiche causate o esacerbate dalla prima guerra mondiale. Un’approfondita analisi dei moventi individuali di leader, attivisti, seguaci e simpatizzanti del fascismo viene svolta da Mann in Fascists: in questo libro del 2004, adottando un approccio di teoria dell’azione sociale e di individualismo metodologico, egli dimostra che l’adesione di milioni di persone al fascismo derivava dal potere di convincimento razionale di un’ideologia in linea con valori e categorie di pensiero fortemente istituzionalizzate in quel periodo, e in grado di proporsi, agli occhi dei cittadini, come risolutiva rispetto alle crisi multifattoriali che turbavano l’Europa,122 A Fascists dedicheremo specifica attenzione nel capitolo conclusivo del presente volume; nel terzo libro di The Sources of Social Power (che, lo ricordiamo, è del 2013, e quindi successivo a Fascists) Mann pone alla base della sua analisi del fascismo le stesse tesi presentate più approfonditamente in Fascists, ma, conseguentemente all’impostazione di interazionismo struttural-simbolico che contraddistingue l’intera opera, mette in luce con particolare attenzione le motivazioni strutturali, di macrolivello, che conducono i soggetti alle loro scelte individuali.123 L’avanzata dei regimi autoritari in Europa, scrive quindi Mann in The Sources of Social Power, fu la risposta a una serie di crisi economiche, militari, politiche e ideologiche 122 Mann assume quindi una posizione intermedia tra la scuola che vorrebbe interpretare il diffondersi dei fascismi in chiave idealistico-nazionalista, quali «religioni politiche» in grado di portare a una rigenerazione nazionale (cfr. E. Gentile, Il fascismo come religione politica, in «Storia contemporanea», VI, 1990, pp. 10791106), e l’approccio materialistico, che si concentra soprattutto sulle basi di classe dei fascismi (es. E. Hobsbawn, L’età degli estremi, trad. it. Carocci, Roma 1998). 123 Le fonti principali utilizzate da Mann riguardo al fascismo in The Sources of Social Power sono F. L. Carsten, La genesi del fascismo, trad. it. Baldini e Castoldi, Milano 1970; M. Knox, To the Threshold of Power, 1922-33, Cambridge University Press, New York 2009; R. Paxton, Il fascismo in azione, trad. it. Mondadori, Milano 2005; Th. Childers, The Nazi Voter, University of North Carolina Press, Chapel Hill 1983; R. Griffin, The Primacy of Culture, in «Journal of Contemporary History», XXXVII (2002), pp. 21-43.

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comportate dalla prima guerra mondiale, che si sommano le une alle altre e interagiscono con precedenti strutture di potere:124 «senza la guerra non vi sarebbe stata una forte ascesa degli autoritarismi, e il fascismo sarebbe rimasto una nota a piè di pagina nella storia mondiale. Hitler avrebbe vissuto una vita oscura, l’Olocausto non avrebbe avuto luogo, e probabilmente neanche la seconda guerra mondiale».125 Ma non è stato così, e la causa, per Mann, va cercata nelle crisi seguenti al primo conflitto mondiale. La crisi economica, che si era verificata alla fine della guerra per effetto del dissesto delle economie nazionali, si ripresenta con pieno vigore nel 1929.126 Negli anni che conducono alla grande depressione la ripresa era stata estremamente lenta e caratterizzata da un susseguirsi di picchi d’inflazione, sicché, anche allora, la situazione era percepita dalla popolazione come tutt’altro che rassicurante. Il crollo del 1929 rappresenta la definitiva delegittimazione, agli occhi dei cittadini, dei governi e dei partiti esistenti, i quali avrebbero dovuto, in base all’idea di Stato che era andata imponendosi a partire dalla metà del diciannovesimo secolo, guidare le economie nazionali fuori dalla crisi. I movimenti fascisti, proponendosi come un’alternativa nuova e mai sperimentata rispetto ai partiti consolidati, seppero in questo contesto assicurarsi il favore di ampi settori della popolazione; i loro programmi economici prefiguravano la ritirata degli Stati nazionali da un sistema monetario ed economico internazionale che i cittadini, in seguito alla grande depressione, percepivano come minaccioso, impositivo e dannoso per gli interessi nazionali.127 Vi era inoltre il timore, presso le classi economicamente dominanti, che la crisi del capitalismo avrebbe portato all’inarrestabile avanzata del socialismo bolscevico:128 i regimi fascisti, tanto per i capitalisti urbani quanto per l’aristocrazia latifondista minacciata dalle richieste di riforma agraria, sembrarono dunque un’alternativa forte contro una possibile deriva a sinistra. Anche i militari avevano le loro ragioni economiche per appoggiare i movimenti fascisti:129 negli Stati che erano usciti sconfitti dalla prima guerra mondiale (che sono per l’appunto quelli in cui vanno a imporsi i regimi autoritari), il budget e l’autonomia di cui gli eserciti avevano potuto godere prima del conflitto erano ora minacciati dalle richieste di maggior controllo avanzate dalla società civile. Se si fosse imposto 124 125 126 127 128 129

M. Mann, The Sources of Social Power, vol. 3, cit., p. 328. Ibid. Ibid. Ivi, p. 320. Ivi, p. 329. Ibid.

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al potere un movimento dai chiari orientamenti militaristi e autoritari, il pericolo di un ridimensionamento di fondi e di poteri decisionali sarebbe stato scampato. A crisi e timori di natura economica si associavano motivi di risentimento militare e di instabilità geopolitica:130 gli Stati che erano usciti sconfitti dalla guerra avevano dovuto cedere vaste aree; perfino in Italia, a seguito del mancato ottenimento di tutti i territori promessi negli accordi di schieramento, erano in molti a parlare di «vittoria mutilata». Vi era dunque un malcontento diffuso per i nuovi assetti geopolitici. Soprattutto, però, dalla prima guerra mondiale risultarono i molti veterani, intrisi di nazionalismo aggressivo, che costituirono il nerbo dei corpi paramilitari impostisi come una componente stabile dei movimenti fascisti. Negli Stati solidamente democratici, come Francia, Gran Bretagna e Stati Uniti, i movimenti paramilitari avevano un peso e una consistenza numerica insignificante; era nei Paesi sconfitti in guerra (o insoddisfatti della vittoria) che i corpi paramilitari capeggiati da veterani ebbero la massima espansione, contribuendo alla repressione violenta degli oppositori politici e «trasformando il fascismo da uno sparuto movimento di intellettuali [quale era prima della guerra] in un movimento di massa composto da qualche migliaio di persone».131 Ma fattori militari ed economici non sono sufficienti a spiegare perché il fascismo si diffuse con tale rapidità e perché interessò solo alcuni Paesi: vi erano anche fondamentali motivazioni politiche.132 L’Europa dell’immediato dopoguerra si presentava divisa tra Stati ad antica istituzionalizzazione democratica e un ampio numero di democrazie deboli e recenti; queste ultime, in massima parte, caratterizzavano i Paesi che erano usciti sconfitti dalla guerra e in cui era più acuta la crisi economica e militare, la quale delegittimava agli occhi della popolazione i governi e i partiti esistenti. Furono questi, dunque, gli Stati che andarono incontro alla svolta autoritaria. Essa era considerata altresì la soluzione a un conflitto di classe che si faceva sempre più acceso e violento: la crisi economica aveva infatti prodotto una recrudescenza delle lotte tra capitale e lavoro, le quali spaventavano soprattutto le classi medie e rendevano impossibile l’ordinata, disciplinata e armonica ripresa che queste ultime, stanche di guerre e di conflitti, avrebbero desiderato. I fascismi vennero visti, da molti settori della popolazione, come una soluzione politica per far rientrare, in senso 130 Ivi, p. 330. 131 Ivi, p. 331. 132 Ivi, p. 332.

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autoritario, una situazione di «improduttiva disunione sociale» che poteva rapidamente sfuggire di mano;133 i movimenti fascisti evocavano, di contro agli antagonismi e ai contrasti che turbavano il presente, un ideale di comunità organica, priva di divisioni, unita nel perseguire gli stessi obiettivi di sviluppo e di gloria nazionale. Le classi politiche liberali e conservatrici dei Paesi a recente democratizzazione, inoltre, non avevano ancora interiorizzato le regole del gioco democratico: un compromesso con i fascisti sembrò loro, in molti casi, una buona soluzione per poter rimanere al potere appoggiandosi alla crescente forza politica di essi, con l’illusione di poterli poi tenere sotto controllo a proprio piacimento.134 Le crisi di tipo economico, militare e politico, come loro effetto congiunto, provocarono una crisi ideologica; gran parte della popolazione imputò la presente situazione di dissesto ai valori e alle istituzioni democratiche, che si stavano affermando in quel periodo. Vi fu dunque una diffusa ricerca di nuove ideologie, dal momento che le forze conservatrici erano state delegittimate dalla guerra e dalle successive crisi, mentre la democrazia, il cui carattere di istituzionalizzazione routinaria del conflitto venne tragicamente frainteso, era ritenuta inadeguata ad amministrare una situazione percorsa da lotte e antagonismi. In questo contesto i fascismi riescono a porsi, in maniera credibile, come movimenti capaci di operare per la purificazione ideologico-morale di una società divenuta materialistica, decadente ed eccessivamente permissiva verso forze disgregatrici e immorali:135 la risacralizzazione sociale sarebbe avvenuta grazie al ritorno agli antichi valori, tradizioni e miti nazionali, nella direzione di un’unione organica e armonica di cittadini che, espellendo le componenti portatrici di disunione e corruzione morale, avrebbe ricondotto la nazione alle glorie passate. Il fascismo offriva inoltre, alle masse, la possibilità di un’attiva partecipazione alla vita politica, assecondando un’esigenza che, lo abbiamo visto, si manifesta dopo la prima guerra mondiale: mediante forme di mobilitazione dal basso, e, successivamente alla presa del potere, anche dall’alto, i movimenti fascisti danno risposta a un concreto bisogno sociale che democrazie ancor deboli e ideologicamente fragili non erano in grado di soddisfare. Mann definisce il fascismo, termine con il quale – lo ricordiamo – egli identifica tutti i movimenti totalitari di estrema destra che vanno imponendosi tra le due guerre, come una «forma di nazionalismo statalista che mira a un cambiamento socia133 Ivi, p. 333. 134 Ivi, p. 334. 135 Ibid.

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le radicale e “purificante”, da ottenersi mediante forme di militarismo e paramilitarismo».136 Quattro sono gli elementi principali del fascismo: - Nazionalismo organicista e «purificante»: l’unità e la purezza della nazione derivano dall’assenza di elementi di differenza, divisione e disaccordo. A un tessuto nazionale unitario, coeso e organico il fascismo intende pervenire mediante l’eliminazione violenta dei membri della società percepiti come «corpi estranei», colpevoli di pregiudicare l’unità, l’armonia e la perfezione fisica e spirituale della nazione. Il «razzismo fascista»,137 praticato dai nazisti, fu la forma estrema di applicazione di questa ideologia, che, com’è ben noto, risultò nel genocidio di milioni di persone, tra avversari politici, membri di razze ritenute inferiori, omosessuali e persone con disabilità fisiche o psichiche.138 - Statalismo: lo Stato viene inteso come «depositario di un progetto morale»,139 per perseguire il quale esso necessita di coesione e forza. Lo Stato monopartitico rappresenta quindi la base dello sviluppo economico, sociale, geopolitico e morale della nazione, e, a questo fine, ha il potere di plasmare le istituzioni secondo i suoi scopi e di mobilitare dall’alto la popolazione, rendendola strumento attivo di rinnovamento sociale. - Trascendimento radicale dell’ordine esistente: tutte e quattro le fonti del potere sociale vanno riorganizzate, in senso «rivoluzionario», al fine di pervenire a un ordine sociale totalmente nuovo e che rimanga in continuo rinnovamento.140 Tanto il lavoro quanto il capitale devono essere subordinati al potere dello Stato-partito, che incarna l’interesse della nazione, in modo da abolire il conflitto di classe; i valori collettivi vanno riformati, attingendo ai miti del glorioso passato nazionale e a un’ideologia di nazionalismo aggressivo, esclusivista e militarista; il welfare deve essere amministrato dall’alto, piuttosto che venir sollecitato dalle richieste e dalle rivendicazioni delle classi subordinate. Ogni interesse privato va messo in secondo piano rispetto a quello della nazione. - Militarismo: il potere militare è il mezzo principale attraverso cui realizzare questi scopi, oltre a costituire l’espressione dell’irresistibile, coesa e disciplinata potenza rinnovatrice dello Stato fascista: esso domina quindi, iconograficamente e idealmente oltre che concretamente, la quotidianità 136 Ivi, p. 318. 137 Ibid. 138 Per un’analisi storico-concettuale del genocidio nazista, come di altri casi di pulizia etnica, rimandiamo al capitolo conclusivo del presente volume, in cui tratteremo il libro di Mann Il lato oscuro della democrazia. 139 Ivi, p. 319. 140 Ibid.

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della nazione. Il paramilitarismo costituisce un fondamentale strumento di mobilitazione e coinvolgimento della popolazione dal basso, mentre, nell’ambito della politica estera, il militarismo geopolitico è per gli Stati una componente fondamentale sia ai fini della ricerca di gloria imperiale nel mondo, che per l’affermazione della loro potenza nazionale in Europa. 4.6. I regimi della rivoluzione permanente: fascismo e stalinismo a confronto I fascismi furono «regimi di rivoluzione permanente»,141 in movimento perpetuo, fondati sulla continua mobilitazione delle popolazioni nazionali e sul continuo rinnovamento delle quattro fonti del potere sociale in base a un sistema di «dispotismo di partito»: ossia attraverso il dominio di leader e strutture di comando sottratte alla legge, e capaci anzi di incarnare e ridefinire quest’ultima a seconda dei loro fini e obiettivi. Questo aspetto, indagato da Mann nel suo saggio Le contraddizioni della rivoluzione permanente (1996), è uno dei fondamentali elementi di comunanza tra fascismo e stalinismo. In quanto segue andremo a ripercorrere le tesi avanzate da Mann nell’articolo del 1996, in cui egli mostra come a minare la forza e la stabilità tanto dei regimi fascisti quanto del regime stalinista fu un’ineliminabile contraddizione interna comune a entrambi. Prima, però, andiamo a tracciare i caratteri di base dello stalinismo. A differenza dei regimi fascisti, le cui forme di base appaiono chiare fin dal primo momento e si mantengono sostanzialmente immutate fino alla fine, il socialismo sovietico142 fu un progetto che si modificò radicalmente in corso d’opera. Quello che doveva essere solo l’inizio di una rivoluzione globale, diviene, in seguito al fallimento dei tentativi rivoluzionari europei e alla minacciosa opposizione geopolitica degli Stati capitalistici, un esperimento di «socialismo 141 M. Mann, Le contraddizioni della rivoluzione permanente, in Stalinismo e nazismo: dittature a confronto, a cura di I. Kershaw, M. Lewin, trad. it. Editori Riuniti, Roma 2002, pp. 183-212: 184. 142 I riferimenti principali di Mann sono R. Service, Storia della Russia nel XX secolo, trad. it. Editori Riuniti, Roma 1999; K. Murphy, Revolution and Counterrevolution, Berghahn, Oxford 2005; S. Fitzpatrick, Everyday Stalinism, Oxford University Press, Oxford 1999; J. A. Getty, Origins of the Great Purges, Cambridge University Press, Cambridge 1985, e Id., con O. Naumov, The Road to Terror, Yale University Press, New Haven 1999; P. Gregory, The Political Economy of Stalinism, Cambridge University Press, Cambridge 2004; D. Stone, Hammer and Rifle, University Press of Kansas, Lawrence 1975; R. Allen, Farm to Factory, Princeton University Press, Princeton 2004.

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in un solo Paese», portato avanti in un estremo isolamento internazionale. Lo stesso territorio dell’Unione Sovietica cambia fortemente di volto, in accordo con la trasformazione dell’economia: a caro prezzo in termini di vite umane, l’URSS attraversa un rapidissimo progetto di industrializzazione, che la porterà, nella seconda guerra mondiale, a produrre più armi della Germania. Quella che durante la rivoluzione si era configurata come una democrazia dei soviet, presto si trasforma in una dittatura di partito.143 La rivoluzione del 1917 viene seguita da quattro anni di guerra civile tra i bolscevichi e le forze conservatrici, decise a restaurare l’ordine precedente alla rivoluzione. «In questa situazione», afferma Mann, «sarebbe stato utopico aspettarsi che i bolscevichi indicessero libere elezioni, riconoscessero la legittimità dei partiti dei loro nemici e stabilissero una democrazia pluralista»:144 si trattava di una guerra a tutti gli effetti, nella quale, peraltro, i bolscevichi avevano dalla loro il sostegno della popolazione; sostegno che viene meno, in una certa misura, di fronte alle prime misure dittatoriali, come la soppressione dei soviet delle fabbriche e delle comunità di vicinato.145 La via dispotica viene praticata, all’inizio, poiché i bolscevichi intendono tener fede ai loro obiettivi di trasformazione sociale radicale pur nelle circostanze, estremamente avverse, della guerra civile e del caos postrivoluzionario; la dittatura è originariamente intesa come temporanea, in quanto il socialismo si sarebbe presto diffuso a tutto il mondo. Quando, con il fallimento dei tentativi rivoluzionari europei, diviene chiaro che questa previsione non si realizzerà in tempi brevi, i bolscevichi fanno ricorso al potere militare e a misure autoritarie per mantenersi al comando. Nel 1923 essi riportano vittoria nella guerra civile, ma il Paese è ormai devastato dalla carenza di cibo, privo di infrastrutture e sotto il controllo di uno Stato fondato su «militarismo, terrore e campi di prigionia»;146 la classe lavoratrice è stata decimata dal conflitto, e il massiccio intervento statale nell’«economia di guerra» ha suscitato l’ostilità dei contadini. Per porre rimedio alla crisi economica e mitigare il malcontento politico, i bolscevichi lanciano nel 1922 la «nuova politica economica», che consente ai proprietari indipendenti di produrre beni per il mercato.147 Questa iniziativa, in una certa misura, fa rientrare l’opposizione dei contadini, e, alla fine degli anni ’20, l’economia sovietica ritorna ai livelli del 1913. 143 144 145 146 147

M. Mann, The Sources of Social Power, vol. 3, cit., p. 347. Ivi, p. 348. Ibid. Ivi, p. 349. Ivi, p. 350.

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Con l’ascesa di Stalin al vertice del partito, nel 1924, lo Stato e l’economia vengono stabilmente subordinati alle decisioni prese dalla leadership comunista. Mann identifica sei caratteristiche principali dello Stato di partito stalinista:148 due di esse sono di tipo economico (proprietà statale dei mezzi di produzione ed economia pianificata); due hanno carattere politico (il partito comunista come unico centro decisionale legittimo, e la sua linea di internazionalismo politico); e due sono di tipo ideologico-militare (adozione di un’ideologia totalizzante, con obiettivi utopici, basata sull’individuazione di nemici di classe; e l’imposizione del «socialismo militarizzato», ossia modellato sull’organizzazione e la disciplina militare). Le collettivizzazioni forzate dei terreni agricoli che ebbero luogo fra il 1930 e il 1936 furono chiara espressione della linea politico-economico staliniana, oltre a rappresentare «il passo più decisivo verso il pervertimento degli ideali socialisti»:149 con il fallimento dell’espansione globale del socialismo, la Russia si era venuta a trovare in una condizione di isolamento e di insicurezza geopolitica; per questo motivo essa doveva approntare rapidamente un efficiente apparato di difesa, realizzabile solo mediante una veloce industrializzazione forzata. La «nuova politica economica» avrebbe permesso di ricavare surplus sufficienti all’industrializzazione, ma a ritmi troppo lenti; essa fu quindi abbandonata in favore delle collettivizzazioni forzate, le quali diedero però luogo alla resistenza dei contadini, sanguinosamente repressa mediante violenze e deportazioni di massa. Aziende collettive dirette dallo Stato andarono pertanto a sostituire la proprietà agricola privata, ma, a causa dei metodi coercitivi, la produzione subì comunque un notevole calo. Le carestie del 1932 e 1933 provocano milioni di morti, dal momento che gli scarsi raccolti vengono in ampia misura dirottati verso le città per sostenere l’industria. Il trasferimento di ingenti masse di popolazione nelle città dà però impulso alla produzione industriale, e la crescita desiderata dal partito, sebbene al prezzo di milioni di vite, viene realizzata. Il rapidissimo aumento della produttività industriale risulta quindi da una combinazione di esortazione ideologica e di coercizione: quello di Stalin era «un regime iperattivo, capace di mobilitare la partecipazione collettiva mediante un insieme di potere militare e ideologico» e di «incanalare le energie della popolazione in giganteschi progetti di industrializzazione, di costruzione abitativa e di estrazione mineraria in tutto il Paese, anche in zone estremamente remote e inospitali».150 148 Ivi, p. 351. 149 Ivi, p. 353. 150 Ivi, p. 355.

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Come quelli fascisti, il regime staliniano era un «regime di rivoluzione continua», dotato di straordinarie capacità di mobilitazione di massa, orientato al trascendimento del precedente ordine sociale mediante la trasformazione delle quattro fonti del potere, e avente come suo unico centro di legittimità lo Stato-partito. A causa di questa loro comune determinazione, tanto il fascismo quanto lo stalinismo sono soggetti alla medesima contraddizione interna. In essi, infatti, un’ideologia rivoluzionaria di continua trasformazione radicale della società sotto la guida dello Stato-partito si scontra con la necessità fattuale di istituzionalizzare, con una certa misura di stabilità, solidità ed efficienza, le strutture e l’organizzazione del nuovo ordine sociale. È stato spesso sostenuto che i cosiddetti regimi totalitari fossero contraddistinti da forti apparati burocratici di controllo sociale e di implementazione delle politiche decise dai vertici. La tesi di Mann è invece che essi, con la loro ideologia di rivoluzione permanente, non potevano dare luogo a un’amministrazione burocratica formale: «al contrario di quanto sostiene la teoria totalitaria, gli Stati che nel XX secolo si sono dimostrati più aperti a tale burocrazia formal-razionale non sono state le dittature, bensì le democrazie».151 Solo queste ultime, basate sullo Stato di diritto e su procedure politiche solidamente istituzionalizzate, possono infatti ammettere un potere di amministrazione governato da regole fisse e routinarie, non connotato politicamente, il più possibile neutrale rispetto alle ideologie e refrattario ai localismi come anche a rapporti di tipo personalistico. Solo le democrazie, di conseguenza, possono contare su un’amministrazione burocratica efficiente, poiché sottratta ad antagonismi interni, iniziative personali, autonomizzazioni e lotte per il potere, nonché, al contempo, regolata secondo procedure stabili e prevedibili, con chiare attribuzioni di responsabilità. Nei «regimi di rivoluzione permanente» il potere esercitato dallo Statopartito non è governato da regole e procedure, bensì queste ultime risultano dipendenti da esso: «la sovranità formale», scrive Mann, tanto nel nazismo quanto nello stalinismo «era conferita a un unico partito di governo e, in ultima istanza, alla persona del suo leader supremo»,152 il quale si rapportava ai suoi luogotenenti mediante strategie di divide et impera. Sia Hitler che Stalin «coltivavano una rete di rapporti informale e personalistica, col risultato che le gerarchie ufficiali avevano scarso peso»:153 a implementare le decisioni non erano funzionari neutrali rispetto a ideologie e relazioni per151 M. Mann, Le contraddizioni della rivoluzione permanente, cit., p. 184. 152 Ivi, p. 187. 153 Ivi, p. 198.

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sonalistiche, bensì luogotenenti affiliati al partito che miravano a prevenire ogni possibile desiderio del leader per accattivarsi il suo favore personale, cercando di ottenere informazioni sull’orientamento politico desiderato e poi, solitamente, estremizzandolo.154 In tal modo essi intendevano dar prova al leader tanto di fedeltà quanto di spirito d’iniziativa; regole fisse e procedure standard erano sostituite dallo zelo ideologizzato di luogotenenti in perenne mobilitazione e in reciproca competizione per l’approvazione del capo. La strategia del divide et impera, naturalmente, presentava anche i suoi svantaggi: se da una parte era positivamente in grado di sollecitare l’azione di dirigenti regionali e attivisti di partito, dall’altra permetteva altresì il sorgere di «feudi personali» di questo o quel funzionario, il quale poteva utilizzare il suo potere per perseguire i propri interessi piuttosto che quelli del partito; questo problema faceva sì che il potere centrale avesse difficoltà a penetrare infrastrutturalmente i territori locali155 e che il leader si trovasse spesso a dubitare della fedeltà dei suoi sottoposti. Al contempo, la «rivoluzione permanente» non poteva prescindere da queste autonomie locali e territoriali: non solo in una certa misura esse erano una necessaria implicazione di essa, «dal momento che non esistevano leggi definitive o norme amministrative che potessero fissare le regole per i luogotenenti»;156 ma, oltretutto, esse costituivano un importante strumento di mobilitazione dal basso, attraverso le iniziative locali organizzate da funzionari, militanti e attivisti di partito. Se alcuni attivisti locali erano arrampicatori interessati ad aumentare il proprio potere personale, molti erano però zelanti adepti del regime e dell’idea di cambiamento rivoluzionario: «Hitler e Stalin volevano lasciarli liberi pur controllandone l’energia e la violenza. Non potevano fare entrambe le cose in modo coerente. Potevano però affrontare il problema procedendo a zig-zag, a volte pungolando le sezioni locali e regionali, altre volte cercando di frenarle».157 Vi era inoltre il problema della convivenza con le forze politiche preesistenti all’ascesa del regime autoritario: «l’elemento comune ai regimi nazista e stalinista e a nessun altro […] fu il persistente rifiuto del compromesso istituzionale tanto con i nemici quanto con gli alleati»:158 essi cercarono di spazzare via con la violenza gli oppositori politici e strinsero poche, temporanee 154 155 156 157 158

Ivi, p. 199. Ivi, pp. 187-188. Ivi, p. 188; trad. leggeremente modificata. Ivi, p. 201. Ivi, p. 195.

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alleanze, prive di effetti significativi sulla loro linea politica. L’ideologia della rivoluzione permanente si poneva in radicale contrapposizione rispetto a forme di compromesso politico, le quali, però, avrebbero permesso una stabilità istituzionale altrimenti inattingibile. Nazismo e stalinismo accumulano nemici su nemici a livello interno e geopolitico, senza d’altra parte stringere alleanze affidabili. Nel caso del fascismo italiano, come in quello del franchismo, la contrapposizione tra rivoluzione di destra e compromesso viene invece risolta a favore di quest’ultimo, dal momento che la politica del regime emerge «attraverso accordi espliciti o impliciti tra soggetti pressoché paritari – fascisti, monarchia, chiesa cattolica, forze armate e grande capitale».159 In questo modo, però, il regime italiano va progressivamente perdendo l’energia e la forza d’urto dei primi fascisti «autenticamente rivoluzionari».160 Per istituzionalizzare saldamente il nuovo ordine sociale, e implementare efficientemente le decisioni del regime nei territori, sarebbero state necessarie un’organizzazione burocratica formale e una disponibilità al compromesso; esse però si pongono in radicale opposizione con lo spirito della «rivoluzione permanente», con l’entusiasmo della mobilitazione dal basso, e con tattiche di potere dispotico fondate sul divide et impera; sia Stalin che Hitler rifiutano dunque tale modo di procedere. La contraddizione era intrinseca e non poteva essere risolta che privilegiando un aspetto a discapito dell’altro. Hitler e Stalin, contrariamente a Franco e Mussolini, scelgono di radicalizzare la via della rivoluzione permanente, ma questo dà luogo a inefficienza, instabilità, corruzione e localismi. L’Unione Sovietica era un «totalitarismo inefficiente»:161 esso offriva terreno fertile per le tendenze paranoidi di Stalin, che tante vittime fecero attraverso le epurazioni degli anni ‘30. Lo Stato nazista era anch’esso caotico e disorganizzato; le sue modalità di gestione amministrativa «non generarono una burocrazia, bensì disordine e violenza»;162 «l’asistemicità amministrativa costituì parte di una dinamica autodistruttiva».163 Lo Stato nazista, come quello staliniano, andava quindi disintegrandosi dall’interno, mediante un sistema di potere inefficiente, fondato sull’arbitrio e percorso da rivalità e corruzione. Nel caso tedesco, fu la sconfitta nella seconda guerra mondiale a far precipitare una situazione già gravemente compromessa, di cui l’esito della guerra è, in parte, esso stesso il prodotto: l’incapacità di Hitler di stringere 159 160 161 162 163

Ivi, p. 194. Ivi, p. 195. Ivi, p. 188. Ivi, p. 201. Ivi, p. 188.

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alleanze, unita al suo rifiuto del compromesso e della diplomazia, «portò il fascismo al suicidio».164 Scegliendo di risolvere i conflitti attraverso l’assalto violento e frontale della rivoluzione permanente, egli gettò la Germania in una guerra autodistruttiva senza avere al suo fianco alleanze militarmente valide, e con la sola risorsa di un regime disunito e inefficiente, isolato rispetto alle altre élites della società tedesca; il trattamento che egli riservò alle cosiddette «razze inferiori», insieme alla sua politica estera aggressiva, assicurarono inoltre alle democrazie liberali una coesione che esse precedentemente non avevano e una resistenza ideologica mai prima sperimentata. «I nazisti abbracciarono il male in un’espressione geopolitica e razziale che si rivelò suicida»;165 «la semplice spiegazione dell’uscita di scena del fascismo», scrive Mann, «è che l’ha ucciso Hitler».166 L’opposto accadde nel caso della Russia staliniana: la vittoria nella seconda guerra mondiale salvò il regime dal collasso immediato. Essa diede impulso al patriottismo, rilanciò l’Unione Sovietica nel ruolo di superpotenza e pose fine alla «rivoluzione permanente», in favore di un regime progressivamente meno repressivo e maggiormente istituzionalizzato, per quanto sempre percorso da vasti fenomeni di corruzione e da reti informali di scambio di favori tra uomini politici e funzionari. Di questo, però, andremo a parlare nel prossimo capitolo, dedicato al quarto volume di The Sources of Social Power; riprendiamo adesso la storia della Germania e dell’Europa dal punto in cui l’abbiamo lasciata: alle soglie della seconda guerra mondiale. 4.7. L’ultima guerra tra imperi: 1939-1945 La seconda guerra mondiale167 inizia nel 1939, con l’invasione della Polonia da parte di Hitler, e termina nel 1945, con la resa di Giappone e 164 165 166 167

M. Mann, The Sources of Social Power, vol. 3, cit., p. 346. M. Mann, Le contraddizioni della rivoluzione permanente, cit., p. 209. M. Mann, The Sources of Social Power, vol. 3, cit., p. 344. I principali riferimenti di Mann per quanto riguarda la seconda guerra mondiale sono M. J. Carley, 1939: L’alleanza che non si fece e l’origine della seconda guerra mondiale, trad. it. La Città del sole, Napoli 2009; R. J. Overy, Le origini della seconda guerra mondiale, trad. it. Il Mulino, Bologna 2009; T. Imlay, Facing the Second World War, Oxford University Press, New York 2003; I. Kershaw, Scelte fatali. Le decisioni che hanno cambiato il mondo, trad. it. Bompiani, Milano 2012, e Id., La fine del Terzo Reich. Germania 1944-45, trad. it. Bompiani, Milano 2013.

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Germania. Essa rappresenta però solo la fase culminante di una più lunga serie di conflitti: il Giappone, Paese che durante gli anni ’30 aveva preso la strada del nazionalismo aggressivo, autoritario e militarizzato,168 invade la Cina nel 1931 e poi nel 1937; l’Italia colonizza l’Abissinia nel 1935, e, insieme alla Germania, aiuta il dittatore Francisco Franco a vincere la guerra civile spagnola tra il 1936 e il 1939. Nel 1939 l’Italia invade l’Albania, e tra il 1936 e il 1938 Hitler annette ai territori tedeschi la Renania, l’Austria e la Cecoslovacchia, mediante aggressione militare ma senza dover combattere. Tutti questi conflitti, come poi sarà il caso della seconda guerra mondiale, vengono iniziati dalle potenze dell’Asse (Germania, Italia, Giappone), desiderose di conquistare un impero globale per affermare la loro gloria nazionale e porsi così su un piano, quantomeno, di parità rispetto ai grandi imperi europei. Nel corso del conflitto mondiale, il Giappone seguiterà la sua avanzata in Cina, mentre l’Italia, con l’indispensabile aiuto delle forze tedesche, occuperà militarmente la Grecia, e, in modo temporaneo, parti della Dalmazia e dell’Egitto. La seconda guerra mondiale, diversamente dalla prima, fu quindi una guerra globale tra imperi e aspiranti tali.169 A suscitare l’aggressività della Germania (e in subordine dell’Italia, in cui molti erano gli insoddisfatti per la «vittoria mutilata»), ancor prima delle velleità imperiali, erano stati però i trattati di pace successivi alla prima guerra mondiale. Essi, nel caso tedesco, non risolvevano le tensioni precedenti e ne creavano di nuove: tanto dal punto di vista geopolitico, dal momento che ad est della Germania non rimaneva più alcuno Stato europeo che potesse contrapporsi con successo a un’eventuale nuova invasione tedesca, quanto da quello ideologico. Come già accennato, le condizioni di pace imposte alla Germania, non a torto definite vendicative, suscitano instabilità internazionale (a causa della difficoltà tedesca nel pagare i debiti di guerra) e volontà di rivalsa, nazionalismo aggressivo e risentimento in patria.170 Hitler sale al potere in un clima contraddistinto da una forte insicurezza economica, dalla recrudescenza dei conflitti di classe, dalla paura di una rivoluzione comunista e, soprattutto, dal risentimento nei confronti delle altre potenze europee. L’affermazione politica di Hitler trova le sue radici in tutte e quattro le fonti del potere: nel desiderio di rivincita che, dal punto 168 M. Mann, The Sources of Social Power, vol. 3, cit., pp. 371-397. 169 Ivi, p. 423. 170 Ivi, p. 424. Cfr. anche M. Mann, The Role of Nationalism in Two World Wars, in War and Nationalism, a cura di J. A. Hall e S. Malesevic, Cambridge University Press, Cambridge 2013, pp. 172-196.

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di vista ideologico, caratterizza una nazione sottoposta a trattati di pace umilianti; nel fatto che essa fosse economicamente in ginocchio; e che fosse tormentata, a livello politico oltre che economico, da violenti conflitti di classe. Una nazione che quindi diviene facilmente preda di un’ideologia militaristica e aggressiva che si propone di restaurare la passata gloria del Reich, di rilanciare la potenza economica tedesca e di pacificare internamente lo Stato: economia, politica e potere militare vengono concepiti, in questo senso, come altrettante componenti dell’ideologia nazista e sviluppati in funzione di quest’ultima. Il piano di Hitler, fin dall’inizio, aveva come obiettivo la fondazione di un grande impero tedesco, da realizzarsi mediante l’aggressione militare agli altri Stati, che, politicamente «decadenti» (in quanto democratici) o popolati da razze inferiori, erano destinati alla sconfitta.171 Quattro passaggi avrebbero portato la Germania a costituire un impero globale che le desse il primato su ogni altra potenza mondiale. Innanzitutto, andava compiuta una rapida ricostruzione economica e militare, associata al rafforzamento politico e morale dello Stato e della nazione: questo, per Hitler, implicava l’eliminazione violenta degli oppositori politici, delle minoranze etniche e razziali e di altri gruppi «sgraditi», come omosessuali e disabili. Successivamente, il piano prevedeva la riconquista dei territori persi nei trattati di pace e l’espansione dei confini della Germania al fine di includere le regioni di lingua tedesca. Sarebbe poi seguita l’avanzata verso est, attraverso la quale le molte minoranze tedesche che nei secoli si erano insediate in quelle aree avrebbero potuto ricongiungersi alla Germania. Le regioni in questione sarebbero state «purificate» dagli slavi e dalle comunità ebraiche che le abitavano e, colonizzate da milioni di tedeschi, avrebbero garantito alla razza germanica lo «spazio vitale» di cui essa necessitava; questo passaggio, Hitler ne era consapevole, richiedeva la vittoria sull’Unione Sovietica. Per finire, egli avrebbe facilmente sconfitto le decadenti democrazie nordoccidentali, assicurando così alla Germania lo status di potenza dominante, capace di imporre la propria egemonia sugli Stati Uniti, sul Giappone, e su ciò che eventualmente sarebbe rimasto della Russia. Hitler iniziò a perseguire i suoi piani senza che nessuna delle potenze europee si rendesse conto di dove essi avrebbero potuto condurre; la sua capacità di riassestare rapidamente l’economia tedesca (grazie ai sacrifici di una popolazione ideologicamente mobilitata più che a superiori doti organizzative) e la sua risolutezza nel procedere al riarmo dell’esercito tede-

171 M. Mann, The Sources of Social Power, vol. 3, cit., pp. 426-427.

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sco vennero anzi ammirate da molti capi di Stato esteri.172 Al suo antisemitismo gli altri Stati guardavano con più preoccupazione: i governi europei ignoravano i campi di concentramento che Hitler aveva fatto costruire già pochi mesi dopo aver preso il potere, ma erano ben al corrente delle leggi razziali e delle sempre più pesanti violenze antiebraiche che andavano verificandosi in Germania, culminate, negli anni precedenti alla guerra, con la Notte dei cristalli del 9 novembre 1938. Ciononostante non vi furono, in Europa, reazioni degne di nota: bisogna considerare, osserva Mann, che una certa misura di razzismo nei confronti degli ebrei e di altre minoranze era abituale in Occidente; rispetto ai terribili pogrom che avvenivano con regolarità nell’Europa dell’est, quel che si sapeva dell’antisemitismo tedesco era anzi reputato poca cosa.173 Gli ebrei e le altre minoranze rimasero dunque senza alleati di fronte al nazismo, fatta eccezione per le sinistre francesi e britanniche, le quali, inascoltate, chiedevano che Hitler venisse fermato. Anche la riconquista dei territori persi con i trattati successivi alla prima guerra mondiale suscitò simpatie per Hitler sia in patria che presso le destre europee: la maggior parte degli abitanti della Renania, dell’Austria e dei Sudeti erano a favore dell’unificazione con la Germania, e il principio dell’autodeterminazione dei popoli era ampiamente riconosciuto in Europa. Hitler poté quindi annettere questi territori senza dover combattere, e, anzi, riscuotendo diffusa ammirazione per le sue qualità di stratega.174 Fino a questo punto, Hitler espande con determinazione il potere economico, politico e militare della Germania sulla base dell’ideologia nazista, attirandosi il sostegno dei principali gruppi sociali in patria e delle élite politiche, economiche, ideologiche e militari degli altri Stati europei, le quali non colgono la minaccia insita nel nazionalsocialismo. Il passaggio alla terza parte del piano, l’espansione a est alla ricerca di «spazio vitale» per i tedeschi, causa finalmente allarme in Europa: l’invasione della Polonia del 1° settembre 1939 segna l’inizio della seconda guerra mondiale. Francia e Gran Bretagna respingono i messaggi di pace che Hitler invia loro dopo aver conquistato la Polonia, e si preparano a combattere contro la Germania. Il loro ingresso nella guerra allo scopo di arginare Hitler fu tardivo in quanto, differentemente rispetto al primo conflitto mondiale, né i governi né la popolazione volevano combattere di nuovo: la pace era considerata, da potenze malsicure di poter difendere 172 Ivi, p. 426. 173 Ibid. 174 Ivi, p. 427.

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i propri territori nazionali e coloniali, come la miglior tutela dei loro interessi, mentre le masse, dopo l’esperienza del 1914-1918, erano quanto mai refrattarie a forme di nazionalismo aggressivo.175 La minaccia rappresentata da Hitler andava tuttavia facendosi troppo grande, e fu proprio la consapevolezza di dover agire subito per non consentire alla Germania di aumentare ulteriormente la propria forza d’urto a portare Francia e Gran Bretagna a intervenire. «La causa immediata della seconda guerra mondiale […] fu Adolf Hitler:176 essa non risultò, come la prima, da errori di calcolo favoriti da diffuse ideologie di nazionalismo aggressivo; a darle inizio fu una singola persona, armata di un ambizioso progetto di conquista». «Per l’unica volta in tutto The Sources of Social Power», scrive Mann, «attribuisco un enorme potere causale a un individuo».177 Un individuo che, nota però l’autore, era salito al potere grazie alla crisi, al risentimento e al desiderio di rivalsa risultanti dai trattati di pace successivi alla prima guerra mondiale, e che, nei suoi progetti geopolitici, mirava ad assicurare al suo Paese lo status di cui godevano altre potenze nazionali. Un obiettivo che gli assicurava alleati in Stati autoritari che miravano anch’essi all’espansione territoriale e alla gloria imperiale: il Giappone e l’Italia. La seconda guerra mondiale, scrive Mann, «fu una collisione tra imperialisti: tra un ancien régime che desiderava la pace e la sicurezza geopolitica come mezzi migliori per conservare il suo impero, e nuovi arrivati pronti a combattere per conquistare il proprio».178 Francia e Gran Bretagna (a cui successivamente si aggiungono gli Stati Uniti e la Russia) si trovano quindi contrapposte a Germania, Italia e Giappone, Stati in cerca d’impero. Hitler non aveva previsto di dover combattere così presto contro la Francia e la Gran Bretagna; lo scontro con le potenze nordoccidentali non era che la parte finale del suo piano. Il rapido successo delle truppe italotedesche contro la Francia lo convince però di poter sferrare il previsto attacco alla Russia pur mantenendo aperto, allo stesso tempo, il conflitto con la Gran Bretagna. Nei piani di Hitler, sarebbe stato facile sconfiggere quest’ultima mediante una gigantesca operazione di sbarco navale, da effettuarsi dopo aver ottenuto il controllo dei cieli britannici e aver indebolito le difese del Paese. I bombardamenti aerei contro la Gran Bretagna iniziano nel 1940 ma, in seguito alla valorosa resistenza della RAF, diventano 175 176 177 178

Ivi, p. 428. Ivi, p. 427. Ivi, p. 345. Ivi, p. 428.

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sempre più rari:179 le energie di Hitler, convinto di poter pensare più tardi alla Gran Bretagna, vanno a concentrarsi sulla pianificazione dell’attacco all’Unione Sovietica. In questa occasione egli compie però dei gravi errori strategici, risultanti dalla sua «rivoluzionaria» avversione al compromesso e alle mezze misure, dalla sua incapacità di affidarsi alle alleanze, come anche dalla sua mania di grandezza. Ansioso di abbattere il «giudeobolscevismo», Hitler viola il patto di non-aggressione stipulato con Stalin nel 1939, attaccando quindi l’URSS nel 1941; egli compie questa ambiziosa mossa, tuttavia, senza aver prima sconfitto la Gran Bretagna sul fronte occidentale, e, oltretutto, senza ricorrere all’aiuto del Giappone, che avrebbe potuto aggredire l’Unione Sovietica da est. L’«operazione Barbarossa» contro l’URSS segna la disfatta della Germania nazista, per effetto di una serie di sopravvalutazioni della potenza economica e militare tedesca e di errori tattico-strategici. Alla sconfitta tedesca, insieme alla sempre maggiore disorganizzazione e inefficienza del regime,180 collaborano loro malgrado i giapponesi: l’attacco alla base di Pearl Harbour provoca l’intervento diretto degli Stati Uniti nel conflitto. «La follia di Hitler e dei giapponesi», scrive Mann, «fornisce alla Gran Bretagna i potenti alleati di cui aveva bisogno: la Russia, invasa da Hitler nel 1941; e gli USA, attaccati a Pearl Harbour nel dicembre dello stesso anno».181 I preparativi statunitensi richiedono quasi due anni; nel frattempo, la situazione della Germania va facendosi sempre più difficile. A partire dal contrattacco sovietico del 1943, la campagna di Russia si trasforma in un incubo senza fine per le forze dell’Asse, sempre peggio armate ed equipaggiate. La fedeltà dell’esercito tedesco ai valori di disciplina e volontà propagandati dal nazismo, uniti a una dura disciplina militare, riducono al minimo le diserzioni,182 mentre nelle città, la cui economia viene nuovamente finalizzata alla guerra, subentra un atteggiamento di accettazione pragmatica:183 la popolazione vede come sua unica possibilità di salvezza non ribellarsi al regime (neanche alle deportazioni e agli sterminii nei campi, di cui, sebbene non nei dettagli, i tedeschi comuni erano al corrente almeno dal 1943) e cercare di sopravvivere fino alla fine della guerra, che, ormai era chiaro, sarebbe arrivata presto. Con gli sbarchi americani del 179 180 181 182 183

Ivi, p. 441. Cfr. a riguardo il paragrafo precedente, 4.6. Ivi, p. 443. Ivi, p. 454. Ivi, p. 455.

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1944 e la successiva avanzata terrestre da ovest, associata all’offensiva sovietica da est, la seconda guerra mondiale si conclude con la vittoria degli Alleati sulle potenze dell’Asse (tra cui, dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943, non rientrava più l’Italia, che combatteva a fianco degli Alleati). Da quel momento, il panorama geopolitico cambia radicalmente: il mondo si presenta diviso in due blocchi, corrispondenti all’area di influenza degli Stati Uniti e a quella dell’Unione Sovietica; si chiude l’epoca dell’imperialismo europeo e della corsa alle colonie; in Europa occidentale trionfano il capitalismo, la liberaldemocrazia e l’egemonia statunitense. La più grande debolezza dei regimi fascisti – conclude Mann – fu la loro incapacità di stringere un sufficiente numero di alleanze, il che, a sua volta, era il prodotto del loro nazionalismo aggressivo. Gli alleati riuscirono a vincere perché erano più numerosi e potevano quindi disporre di maggiori risorse; la Germania, l’Italia e il Giappone erano carenti di potere geopolitico, e fu questo, in ultima istanza, a distruggerli.184

4.8. Michael Mann e le teorie delle relazioni internazionali A partire dal secondo volume di The Sources of Social Power, e particolarmente nel contesto della narrativa storica riguardante il ventesimo secolo e le due guerre mondiali, Mann si confronta con i due principali approcci vigenti nell’ambito della teoria delle relazioni internazionali: l’impostazione realista e la teoria dell’interdipendenza. Ad entrambe egli riconosce dei contenuti di verità, addivenendo a una propria, originale concezione dei rapporti internazionali tra Stati; quest’ultima viene applicata da Mann nelle ricostruzioni storico-empiriche proposte nel secondo, nel terzo e nel quarto volume di The Sources of Social Power. In base all’approccio realista,185 le mosse geopolitiche degli Stati sono l’esito di un calcolo razionale intrapreso dalle élite dirigenti nazionali sulla base dei rapporti di potere al momento vigenti nel sistema stesso; esse considerano i possibili rischi e benefici che, per lo Stato in questione, possono derivare dall’intraprendere o meno una determinata azione geopolitica. Le finalità ultime che guidano le decisioni delle élite sono, secondo i medesimi criteri di razionalità strategica e strumentale, la massimizzazione della sicurezza e del potere dello Stato nel sistema internazionale. La realtà geopolitica viene quindi concepita come un campo di forze reciprocamente 184 Ivi, p. 451. 185 M. Mann, The Sources of Social Power, vol. 2, cit., p. 49.

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in conflitto, regolato da azioni e reazioni strategicamente necessarie, all’interno del quale l’applicazione di una geopolitica di potenza costituisce lo strumento migliore per perseguire l’interesse di uno Stato che abbia sufficienti forze economiche e militari per muoversi in tal senso. «La guerra», come sosteneva Carl von Clausewitz, «non è che la prosecuzione della politica con altri mezzi».186 Gli Stati sono concepiti come attori unitari e autointeressati;187 la loro consistenza territoriale e il loro peso geopolitico si determinano attraverso il conflitto che, considerato al pari di una legge naturale della politica internazionale, li contrappone agli altri Stati.188 Secondo l’altra impostazione oggi prevalente, la teoria dell’interdipendenza,189 a regolare le relazioni internazionali non sono principalmente rapporti di forza esercitati in base all’interesse alla sicurezza geopolitica e all’aumento di potenza, bensì reti e sistemi di norme transnazionali che determinano condizioni di reciproca dipendenza tra Stati: l’interesse fondamentale, per questi ultimi, consiste nella massimizzazione della prosperità economica nazionale, e può essere ottenuto mediante un regime di concorrenza regolata, non attraverso lo scontro diretto. Per i sostenitori di questo approccio, inaugurato da Robert Keohane e Joseph Nye,190 è soprattutto il moderno capitalismo transnazionale a creare una rete di interazione all’interno della quale gli Stati agiscono perseguendo il proprio interesse e, al contempo, facendo l’interesse degli altri partecipanti alla rete economica; quest’ultima include anche un sistema di regolazioni giuridiche e una base di solidarietà normativa informale tra Stati, la quale accomuna non solo le élite economiche di ognuno di essi, ma, in una certa misura, anche le élite dominanti negli altri settori. Mann accoglie elementi di entrambi gli approcci: in una prospettiva di sostanziale vicinanza alla teoria dell’interdipendenza egli sostiene infatti che reti e forme di solidarietà transnazionali sono fondamentali nel determinare l’ordine geopolitico e nell’orientare i rapporti tra gli Stati.191 Tuttavia, afferma anche che il capitalismo moderno non è l’unica rete creatrice di interdipendenza, bensì è affiancato da reti politiche, ideologiche e geopolitiche: ricordiamo a tal proposito il contesto di solidarietà normativa garantito dalla religione cristiana, in cui viene sviluppandosi l’Europa 186 C. von Clausewitz, Della guerra, trad. it. Mondadori, Milano 1970, p. 38. 187 M. Mann, The Sources of Social Power, vol. 2, cit., p. 51. 188 A. Jarvis, Societies, States and Geopolitics, in «Review of International Studies», XV (1989), pp. 281-293: 281. 189 M. Mann, The Sources of Social Power, vol. 2, cit., p. 51. 190 R. Keohane, J. Nye, Power and Interdependence, Little Brown, Boston 1977. 191 M. Mann, The Sources of Social Power, vol. 2, cit., pp. 49-50.

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medievale in quanto multi-power-actor civilization; il sistema diplomatico internazionale del diciannovesimo secolo, cementato da legami di classe e culturali tra le élite diplomatiche dei diversi Paesi e da valori di pacifica coesistenza internazionale tra potenze; le ideologie di classe e di onore nazional-militare che agli inizi del ventesimo secolo accomunavano le élite politiche dei Paesi europei, le quali portano poi il continente a scivolare nella prima guerra mondiale. Rispetto a quest’ultimo esempio, Mann nota inoltre che l’interdipendenza tra gli Stati non è necessariamente portatrice di ordine, pace e stabilità, come comunemente ritenuto dai sostenitori dell’approccio corrispondente: le norme internazionali che determinano la reciproca dipendenza tra gli Stati «possono incarnare interessi repressivi dettati da attori di classe o di altro tipo, possono incoraggiare alla guerra nel nome di più alti princìpi, possono perfino idealizzare la guerra stessa».192 Diversamente da quanto sostengono i realisti, le ideologie per Mann non sono, infine, semplici coperture volte a dissimulare, sotto una facciata di alti ideali, una politica di potenza mirante alla massimizzazione del potere geopolitico dello Stato in questione.193 Al contrario, sebbene possa darsi anche la possibilità appena richiamata, la storia ci offre molti esempi di ideologie che, affermate in buona fede dagli attori sociali, agiscono come forze reali attraverso l’azione dei gruppi che le sostengono, purché essi, come precisa Mann sulla base della sua concezione del materialismo organizzativo, dispongano di sufficiente potere materiale. Mann, quindi, sebbene operando ampliamenti, modifiche e precisazioni, accetta la tesi fondamentale della teoria dell’indipendenza; al contempo, egli non nega però che la stessa ideologia realista possa costituire l’elemento che lega tra di loro gli attori geopolitici. In determinate circostanze, élite politiche e militari appartenenti ai diversi Stati in gioco, accomunate e guidate da un’ideologia realista, possono agire sulla base di una politica di potenza fondata su un calcolo «razionale» degli interessi; qui l’interdipendenza è data dal comune orientamento al realismo. Quasi mai, però, i calcoli svolti in prospettiva realista sono esatti, ossia coincidono con quello che uno studioso realista dotato della perfetta conoscenza della situazione internazionale, nonché del prezioso senno di poi, potrebbe determinare come strategicamente ottimale: trattando la fase che immediatamente precede la prima guerra mondiale, abbiamo visto quanto sia ampio il ruolo giocato da fraintendimenti ed errori di valutazione, nonché quanto pesino, 192 Ivi, p. 50. 193 Cfr. ibid. per la critica che Mann indirizza alla teoria di realismo politico esposta da Hans Morgenthau in Politica tra le nazioni.

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nello spingere a determinate scelte attori sociali che si autopercepiscono come strategicamente razionali, ideologie che ben poco hanno a che fare con un oggettivo calcolo degli interessi.194 Come afferma Stephen Hobden, Mann adotta quindi un approccio che, sebbene si collochi in una posizione di maggior vicinanza alla teoria dell’interdipendenza, non esclude che gli attori sociali possano agire secondo linee di realismo.195 Il sistema geopolitico internazionale viene, per Mann, a determinarsi come una combinazione di reti di norme (non solo economiche, bensì relative a tutte e quattro le fonti del potere sociale), e di azioni degli Stati guidate da un’ideologia richiedente la massimizzazione del potere e della sicurezza nazionale in un quadro di rapporti di forza da calcolare strategicamente. La sintesi tra i due approcci e la loro messa in relazione al più ampio sistema basato sulle fonti del potere sociale permette a Mann, afferma Hobden, di giungere a un’impostazione vantaggiosa sotto più aspetti. Innanzitutto, come nota anche Anthony Jarvis,196 la prospettiva di Mann e, nel complesso, quella della sociologia storica, permettono di concepire gli Stati non come mere derivazioni degli equilibri vigenti nel sistema internazionale, bensì di affiancare alla considerazione della dimensione geopolitica quella della politica interna, anch’essa rilevante nel determinare la conformazione, la potenza e l’estensione dei diversi Stati: ad esempio, la decisione di aggredire militarmente un altro Stato sovrano può derivare non solo da ragioni geopolitiche di ordine internazionale, ma anche da strategie interne di imperialismo sociale. Queste possono spingere le élite nazionali a dichiarare guerra a un nemico geopolitico facile da battere al fine di distogliere l’attenzione dell’opinione pubblica da più gravi problemi interni e mobilitarne il patriottismo. Anche Fred Halliday pone l’accento sul fatto che Mann considera i rapporti geopolitici tra gli Stati come condizionati tanto da elementi di politica interna quanto di geopolitica; inoltre, mentre le teorie delle relazioni internazionali tendono a partire dall’assunto della sovranità territoriale dello Stato, la concezione multifattoriale elaborata da Mann permette di spiegare, mediante il ricorso a motivi interni (le reti amministrative di prelievo fiscale) oltre che geopolitici, come siano venuti storicamente a costituirsi gli Stati nazionali, senza dare la loro esistenza per presupposta.197 Un ulteriore 194 Ibid. 195 S. Hobden, Geopolitical Space or Civilization?, in «International Relations», XII (1995), n. 6, pp. 77-101: 87. 196 A. Jarvis, Societies, States and Geopolitics, cit., p. 285. 197 F. Halliday, State and Society in International Relations, in «Millennium», XVI (1987), n. 2, pp. 215-229: 221.

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vantaggio della prospettiva di Mann nell’ambito delle relazioni internazionali, continua Hobden, è il fatto che essa si sottragga tanto al riduzionismo economico dei teorici dell’interdipendenza, quanto a quello geopoliticomilitare dei realisti, dal momento che, in maniera empiricamente convincente, essa tiene conto anche del potere politico e ideologico. Infine, The Sources of Social Power include tanto una concezione dei rapporti internazionali quanto una teoria dello Stato, le quali rafforzano a vicenda il loro potere esplicativo.198 La concezione proposta da Mann riesce quindi a integrare con successo motivi della teoria realista e di quella dell’interdipendenza, nonché ad arricchire entrambe le prospettive grazie alla considerazione delle quattro fonti del potere, della dimensione della politica interna oltre che della geopolitica, e mediante una teoria dello Stato e del mutamento sociale. Tuttavia, osserva Hobden, nell’opera di Mann sono altresì presenti alcuni passaggi da cui emerge una evidente tensione tra elementi di teoria realista ed elementi tratti dalla teoria dell’interdipendenza: ad esempio, nel secondo volume di The Sources of Social Power, sebbene Mann sostenga, nel complesso, la linea di pensiero interdipendentista per cui «la pace internazionale […] necessita di norme condivise e di un sistema di attenta diplomazia multistatale»,199 si possono trovare anche affermazioni generali di teoria realista come: «la diplomazia multistatale si esercita tra Stati autonomi che solo in misura limitata sono congiunti da legami normativi, e che sono continuamente impegnati a ricalcolare le loro scelte geopolitiche».200 Che l’integrazione tra motivi provenienti dalla teoria realista e da quella dell’interdipendenza non sia sempre agevole ce lo rivela anche la trattazione che, in due riprese, Mann svolge rispetto alle cause della prima guerra mondiale; a questo tema, lo ricordiamo, egli dedica la fine del secondo volume di The Sources of Social Power e, a distanza di vent’anni, l’inizio del terzo. Come abbiamo visto, nel volume del 1992 Mann adotta una spiegazione in cui grande importanza viene assegnata al tentativo delle diverse élite politiche e militari di agire in base a interessi geopolitici razionali. Prevale dunque, in questo caso, una linea realista, per quanto Mann la sottoponga a un duplice correttivo: non solo i corsi d’azione che le élite ritengono essere razionali non si rivelano tali a causa di fraintendimenti reciproci ed errori di valutazione; ma, oltretutto, alla stessa disposizione «realistica» alla politica di potenza non pertiene alcun carattere di indi198 S. Hobden, Geopolitical Space or Civilization?, cit., p. 78. 199 M. Mann, The Sources of Social Power, vol. 2, cit., p. 293. 200 Ivi, p. 416.

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scutibile oggettività; essa altro non è che un’ideologia condivisa, in quel periodo, dalle élite degli Stati europei, in particolare dai regimi autoritari. Tale ideologia li inviluppa in un’interdipendenza per cui, di fronte ad azioni di altri Stati percepite come minacciose, la risposta non può essere che la guerra. Nel terzo volume di The Sources of Social Power Mann ritorna sulla spiegazione delle origini della prima guerra mondiale: egli stavolta richiama con più forza l’elemento delle ideologie di valore militare, onore nazionale e coraggio virile che accomunano i popoli europei all’inizio del ventesimo secolo, mettendo in luce come queste ideologie, che costituiscono una forma di interdipendenza «negativa», ossia portatrice non di pace, bensì di conflitto, rappresentino un fattore determinante nello scoppio della prima guerra mondiale. È quindi attraverso un percorso alquanto tortuoso, su cui torna a più riprese, che Mann riesce a includere nella sua spiegazione del primo conflitto mondiale tanto fattori realistici, privilegiati nella prima occasione, quanto elementi di interdipendenza, messi in luce soprattutto nella seconda. Da una parte, l’itinerario seguito da Mann fa emergere la difficoltà di conciliare due approcci che, a prima vista, sembrano porsi come autosufficienti; dall’altra, tuttavia, il fatto che egli sia infine riuscito a integrarli in una prospettiva più articolata rende evidente come una conciliazione tra di essi sia possibile, e come quest’ultima permetta di attingere a un potere esplicativo maggiore di quello consentito dalle due impostazioni singolarmente considerate.

5. GLOBALIZZAZIONI, AL PLURALE: THE SOURCES OF SOCIAL POWER, VOLUME 4

Il sottotitolo del quarto volume di The Sources of Social Power, il quale tratta gli anni dal 1945 al 2011, è «globalizzazioni». Di solito della globalizzazione si parla al singolare, a intendere un unico processo di estensione e rilevanza mondiale, mentre qui essa appare al plurale, per ragioni che risulteranno evidenti a partire dalla ricostruzione storico-teorica compiuta da Mann nel corso del testo. Le spiegazioni della globalizzazione che sono state date finora, scrive l’autore nelle prime pagine del volume, sono per lo più inadeguate: esse non sono nemmeno spiegazioni, poiché «descrivono la globalizzazione, ma non la spiegano»;1 la maggior parte delle teorie della globalizzazione tendono a focalizzarsi su una singola componente o caratteristica di essa, a cui ogni altro aspetto viene ridotto, senza considerare come la globalizzazione sia un prodotto dell’intreccio di reti di interazione sociale riferite alle quattro fonti del potere. Vi sono ad esempio teorie (prevalentemente di area marxista, come quelle di Harvey o dei teorici del sistema-mondo)2 che concepiscono la globalizzazione come un processo primariamente economico, risultante dall’espansione globale del capitalismo transnazionale. In questo c’è un elemento di verità, ma, esattamente come per i processi che hanno luogo a livello locale, nazionale e internazionale, l’economia non è la sola rete di potere intorno alla quale gli esseri umani organizzano le loro azioni per perseguire i propri fini,3 né il capitalismo di mercato è regionalmente uniforme o rappresenta l’unico sistema economico a rilevanza globale. Se quindi Mann rifiuta un approccio puramente materialistico, non per questo accetta le concezioni proposte dai teorici «idealisti» della globalizzazione, come Malcolm Waters e John Meyer,4 secondo i quali essa sarebbe 1 2 3 4

M. Mann, The Sources of Social Power, vol. 4, cit., p. 5. Ibid. Cfr. I. Wallerstein, Il sistema mondiale dell’economia moderna, cit. M. Mann, The Sources of Social Power, vol. 4, cit., p. 6. Cfr. M. Waters, Globalization, Routledge, New York 1995; J. Meyer, The Changing Cultural Content of the Nation-State, in State/Culture, a cura di G. Steinmetz, Cornell University Press, Cornell (NY) 1999.

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regolata in prima istanza dal potere ideologico; in base alle loro concezioni, quest’ultimo genererebbe un «ordine culturale mondiale», un «villaggio globale» i cui abitanti, per la prima volta nella storia, si sentirebbero legati agli altri esseri umani dalla consapevolezza della co-appartenenza a uno stesso mondo. Anche Anthony Giddens, Ulrich Beck e Scott Lash suggeriscono, nelle loro opere,5 che la globalizzazione incarni una specifica «riflessività» ideologica, in base alla quale gli esseri umani risultano finalmente consapevoli dell’impatto delle loro azioni sul resto del mondo, aspetto che li porta a elaborare regole di condotta globali. Non solo, nota Mann a riguardo, occorre considerare anche le altre fonti del potere sociale per giungere a un quadro non riduzionistico, ma, oltretutto, lo stesso potere ideologico non ha immancabilmente conformazioni globali unitarie, unificanti o pacificanti.6 Mai come ora siamo anzi circondati da ideologie globali oppositive, le quali si sviluppano e si propagano, in gran parte, proprio per contrapposizione reciproca: i diversi fondamentalismi religiosi, l’imperialismo degli Stati Uniti, il neoliberismo globale e l’antiliberismo, solo per fare alcuni esempi. Se non mancano i sostenitori della globalizzazione come processo guidato dall’economia o dall’ideologia, quasi nessuno considera il potere militare, mentre, per quanto riguarda il potere politico, è tesi diffusa che la globalizzazione stia erodendo il ruolo degli Stati nazionali. Teorici come Pietersee7 affermano che lo Stato nazionale ha dominato il panorama mondiale tra il 1840 e il 1960, e che ora sta venendo scalzato dai nuovi processi globali, i quali necessitano di regolazioni transnazionali.8 Questa, secondo Mann, è una visione eurocentrica e non rispondente a verità: nel periodo citato da Pietersee solo l’Occidente era suddiviso in Stati-nazione; il resto del mondo era governato da imperi. Precedentemente alla prima guerra mondiale, lo abbiamo visto, lo Stato nazionale aveva inoltre ben poca rilevanza nella vita dei soggetti, oltre a godere solo di un limitato potere infrastrutturale. Ma soprattutto, sostiene Mann, globalizzazione (anzi, globalizzazioni) e Stati nazionali non sono rivali, bensì si sviluppano insieme: la loro crescita è interrelata tanto a livello economico, quanto a livello ideologico, politico e militare. In un mondo globalmente interconnesso ma 5 6 7 8

Cfr. A. Giddens, Le conseguenze della modernità, trad. it. Il Mulino, Bologna 1994; U. Beck, La società del rischio, trad. it. Carocci, Roma 2000; S. Lash, J. Urry, Economies of Signs and Space, Sage, London 1994. M. Mann, The Sources of Social Power, vol. 4, cit., p. 7. J. N. Pietersee, Globalization as Hybridization, in Global Modernities, a cura di M. Featherstone, S. Lash, R. Robertson, Sage, London 1995, pp. 45-68. M. Mann, The Sources of Social Power, vol. 4, cit., p. 9.

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comunque differenziato e frammentato, gli Stati nazionali sono infatti gli unici attori in grado di elaborare le decisioni che vengono prese a livello transnazionale e sovranazionale e di implementarle efficacemente sui singoli territori. Perfino l’Unione Europea, la maggiore istituzione transnazionale della contemporaneità, «è diretta, in ultima istanza, dagli interessi degli Stati-membri più potenti».9 L’unico aspetto sotto il quale gli Stati nazionali hanno recentemente assunto una posizione più defilata è quello delle guerre: sono infatti fortemente diminuite le guerre tra singoli Stati, ma, a partire dagli anni ’90, in collegamento con il proliferare per opposizione di ideologie etno-nazionaliste, sono aumentati i conflitti etnici e le guerre civili; su un diverso ordine di grandezza, sono andate moltiplicandosi altresì le aggressioni militari sferrate dall’ultimo grande impero, gli Stati Uniti.10 La globalizzazione non è quindi, per Mann, un processo diretto da una singola fonte del potere sociale, né risulta in uno sviluppo unitario in grado di dar luogo a un singolo ordine globale, a un’unica società mondiale, a forme comuni a tutto il mondo: essa è il risultato di un intreccio di processi storico-sociali nell’ambito dei quali, con velocità, intensità e modalità variabili, le diverse aree territoriali entrano in relazione reciproca, senza che vi sia alcuna tendenza prevalente all’assimilazione, uniformazione e omogeneizzazione di esse sotto un singolo ordine.11 La globalizzazione, anzi, frammenta tanto quanto unisce, preservando e in molti casi acuendo le specificità delle diverse società: molte aree si differenziano per contrapposizione, sorgono nuovi conflitti intorno alle quattro fonti del potere, e in un alto numero di regioni del mondo le identità etniche e culturali sono riaffermate con forza, in opposizione a quelli che vengono percepiti come tentativi di assimilazione. La globalizzazione dà vita a un mondo più interconnesso, ma non per questo più armonico o uniforme. Essa è, per Mann, «universale ma polimorfica»:12 abbraccia tutto il globo, ma porta a esiti differenziati. Contrariamente a teorici che, come Bauman e Appadurai,13 rifiutano le «grandi narrazioni» e pongono in primo piano l’elemento della fluidità, della discontinuità inafferrabile, della segmentazione mutevole, Mann afferma che le grandi narrazioni sono possibili, «purché rese plurali

9 10 11 12 13

Ivi, p. 10. Cfr. a riguardo infra, § 5.6. Ivi, pp. 10-11. Ivi, p. 10. Cfr. Z. Bauman, Modernità liquida, trad. it. Laterza, Roma-Bari 2003; A. Appadurai, Modernità in polvere, trad. it. Meltemi, Roma 2001.

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e un po’ meno grandi»:14 purché, cioè, condotte mediante la guida offerta dal modello delle quattro forme del potere sociale, le quali riescono a dar vita a reti di interazione dotate di sufficiente capacità strutturante affinché, a livello teorico, si riesca a giungere a generalizzazioni sensate. La concezione di «globalizzazione plurale» affermata da Mann costituisce uno dei principali fili conduttori del quarto volume di The Sources of Social Power; nei paragrafi che seguiranno avremo modo di tornare sui temi che in quest’introduzione abbiamo solo accennato. L’altro filo rosso che si dipana lungo il volume e che lo distingue, in una certa misura, dai precedenti, è quello della teoria normativa: mentre nelle precedenti opere della serie The Sources of Social Power Mann considerava talvolta l’aspetto normativo delle questioni e degli eventi trattati, senza tuttavia porre alla base delle sue osservazioni un vero e proprio modello teorico (ma anche senza mai perdere la coerenza di uno studioso di salde convinzioni democratiche), ora l’attenzione normativa dell’autore è molto più costante nel corso della narrazione storica; e, soprattutto, nei suoi ultimi scritti Mann elabora e propone un modello normativo basato sulla teoria delle quattro fonti del potere sociale. Egli introduce tale modello nel suo saggio del 2006 The Sources of Social Power Revisited,15 iniziando col notare che solitamente, nella storia, le fonti del potere sociale si presentano intrecciate, ma non reciprocamente fuse. Né una di esse prevale sulle altre al punto da assimilarle a sé, inglobarle o annullarle, né le quattro fonti risultano accentrate nelle mani dei medesimi attori sociali: normalmente, scrive Mann, «il capitalismo, gli Stati, le ideologie e l’esercito non sono diretti dalle stesse persone, non servono gli stessi interessi, non mobilitano le stesse emozioni».16 E questo, egli continua, è senz’altro un fatto positivo: normativamente non è auspicabile che le quattro fonti vengano fuse in una sola o concentrate sotto il comando degli stessi attori di potere. «Queste fusioni, se implementate, accrescono il potere dispotico e portano al disastro»,17 poiché viene meno il pluralismo delle élite al potere nella società, che, in condizioni di effettiva democrazia, sono sottoposte a forme giuridicamente regolate di reciproca sorveglianza e possono essere controllate altresì dalle istituzioni a ciò preposte e dalla più ampia popolazione.

14 15 16 17

M. Mann, The Sources of Social Power, vol. 4, cit., p. 8. M. Mann, The Sources of Social Power Revisited, in An Anatomy of Power, cit., pp. 343-396. Ivi, p. 387. Ivi, p. 388.

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Quando le diverse fonti di potere si accentrano nelle mani degli stessi attori sociali o una di esse prende il sopravvento sulle altre, riducendo queste ultime a sé, gli esiti sono nefasti. Può darsi il caso di un’ideologia trascendente e totalizzante che si imponga sulle menti degli individui portandoli a subordinare ad essa il potere politico, economico e militare, insieme, di solito, a ogni considerazione normativa che si discosti dai suoi dettami: tra gli esempi ricordati da Mann a riguardo vi sono il nazismo, lo stalinismo, il Grande balzo in avanti maoista, il fondamentalismo teocratico, l’ideologia di violenza dei Khmer rossi. Anche il potere economico può imporsi sulle altre fonti: un esempio attuale di una tendenza ormai conclamata in tal senso è il neoliberismo, che opera di fatto per la subordinazione dell’intero complesso della vita sociale, comprese le istituzioni democratiche, al potere del mercato. Il potere politico può ridurre a sé le altre fonti del potere sociale nella forma dello Stato-partito, mentre il potere militare è suscettibile di autonomizzarsi nelle mani di una casta militare sottratta a ogni controllo civile e capace di strumentalizzare le altre fonti del potere sociale per il perseguimento dei suoi obiettivi. «La libertà e il dinamismo sociale», conclude quindi Mann, «richiedono che vengano erette barriere di contenimento tra le diverse fonti del potere, a protezione della loro autonomia relativa», e che «gruppi diversi controllino le diverse risorse di potere».18 Vedremo, ripercorrendo la narrativa storica che egli traccia nell’ultimo volume di The Sources of Social Power, che non sempre è così, e quali sono le conseguenze a cui questo può portare. 5.1. L’ordine globale dopo la seconda guerra mondiale La seconda guerra mondiale cambia radicalmente le relazioni geopolitiche su tutto il globo: essa dà il colpo di grazia agli imperi coloniali tedesco, giapponese e italiano, ma altresì i Paesi europei usciti vincitori dal conflitto trovano serie difficoltà a mantenere i propri territori imperiali; negli anni ’50 e ’60 avvieranno anch’essi un processo di decolonizzazione. La conclusione del secondo conflitto mondiale segna inoltre l’inizio della guerra fredda tra le due superpotenze che da essa emergono, Unione Sovietica e Stati Uniti. Gli USA affiancano alla loro egemonia in Europa occidentale un’espansione tramite impero informale nel Sud-est asiatico, in Medio Oriente, e nell’America centrale e meridionale. In questo paragrafo ripercorreremo per grandi linee, in rapporto alle quattro fonti del potere, 18

Ivi, p. 389.

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i processi di decolonizzazione successivi alla seconda guerra mondiale e l’espansione imperiale globale degli Stati Uniti, motivata in misura significativa dalla guerra fredda. Notiamo fin d’ora che, nel periodo oggetto del quarto volume di The Sources of Social Power, la leading edge of power individuata da Mann sono gli USA: una leading edge che rimane stabile durante tutto il periodo, e su cui si concentra quindi gran parte della narrazione storica svolta dall’autore.19 5.1.1. I processi di decolonizzazione Tra la fine della seconda guerra mondiale e gli anni ’60 ha luogo il periodo d’oro dei movimenti per l’indipendenza e la decolonizzazione: a questo esito concorrono fattori relativi al potere ideologico, economico, politico e militare, nonché la già più volte richiamata dialettica di centralizzazione e decentralizzazione. I territori imperiali, infatti, erano ormai stati sottoposti a dominio coloniale per un arco di tempo che abbracciava una o più generazioni: un periodo sufficiente affinché le élite locali, che si formavano in istituzioni i cui programmi di insegnamento erano decisi dal centro imperiale, iniziassero a mettere in relazione le ideologie universalistiche apprese in tali istituzioni alla condizione del loro Paese, colonizzato ed economicamente sfruttato. Gruppi di persone inizialmente ristretti cominciano quindi a elaborare concezioni nazionaliste e indipendentiste, le quali ambiscono a mettere in discussione il dominio politico-militare, lo sfruttamento economico e la sudditanza ideologica imposte al loro Paese. È però il secondo conflitto mondiale a favorire il sorgere di movimenti di massa per l’indipendenza o per una più ampia autonomia politica: non solo la guerra, in alcuni casi, aveva esposto la debolezza militare di dominatori coloniali fino a quel momento percepiti come invincibili (Francia, Belgio e Olanda erano stati conquistati dalla Germania, prima della disfatta di quest’ultima), ma, oltretutto, il conflitto era stato combattuto anche da truppe coloniali; di conseguenza, le popolazioni colonizzate avevano sopportato perdite e privazioni per una guerra a loro estranea.20 Questo era accaduto anche nella prima guerra mondiale, al termine della quale gli abitanti delle colonie avevano visto disattendere le promesse europee in base alle quali, come ricompensa per aver combattuto nel conflitto mondiale, sarebbero state loro concesse maggiori libertà, diritti e autonomia. Le nuove promesse degli Stati imperiali ora di conseguenza non vengono 19 20

M. Mann, The Sources of Social Power, vol. 4, cit., p. 37. Ivi, p. 14.

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credute, e, in seguito al 1945, le colonie rivendicano in massa l’indipendenza.21 Il 1947 è l’anno dell’indipendenza dalla Gran Bretagna dell’India, del Pakistan e della Birmania, seguite nel 1957 dalla Malesia e nel 1959 da Singapore. In Africa, continente in cui i confini delle colonie europee spezzavano preesistenti comunità etniche, il sorgere di movimenti indipendentisti su base nazionale era assai più difficile che in Asia; come in Asia, però, la forzata partecipazione alla guerra mondiale genera solidarietà tra le diverse etnie, mentre il fatto stesso di combattere a fianco di soldati europei, contro altri soldati europei, erode le pretese imperiali riguardanti la deferenza dovuta all’uomo bianco in base alla sua autoproclamata superiorità razziale.22 Anche in Africa nascono quindi movimenti anti-imperialisti, i quali però, piuttosto che trovare il loro principale motivo ispiratore nella costituzione di una nazione indipendente, sono animati soprattutto da quello che è stato definito «nazionalismo africano», basato su «un appello all’unità delle popolazioni africane contro lo sfruttamento da parte dei bianchi».23 Il ruolo delle élites locali e dei movimenti di massa è centrale nel portare la Gran Bretagna a intraprendere, negli anni ’50 e ’60, la strada di una decolonizzazione sostanzialmente pacifica,24 da cui si origina l’unione volontaria costituita dal Commonwealth: le resistenze delle popolazioni colonizzate portano le autorità britanniche a mettere fine a un dominio sempre più costoso in termini militari, sempre meno profittevole, e osteggiato in misura crescente dall’opinione pubblica nazionale e internazionale. Diverso è il caso della Francia, che cerca di mantenere i propri territori coloniali fino alla sconfitta militare, in Vietnam nel 1954 e in Algeria nel 1962. La decolonizzazione non ha impatto positivo, se non dopo decenni, sulle economie degli Stati che raggiungono l’indipendenza;25 per effetto del dominio imperiale, questi Paesi si ritrovano infatti con economie specializzate in un unico prodotto o settore, e pertanto estremamente vulnerabili alle fluttuazioni del mercato. Il potere risulta inoltre accentrato nelle mani di ristrette élite economiche e di governo, che, nel periodo coloniale, erano 21 22 23 24

25

Ibid. Ivi, p. 18. Ibid. S. Salessi, in Revolution, Power and the Third World (in «Third World Quarterly», XXXVI, 2015, n. 2, pp. 416-430: 417) elogia Mann per aver messo bene in chiaro come «gli inglesi non decisero elegantemente di andarsene, come spesso si afferma con arroganza, bensì, nell’essere cacciati via, dimostrarono semplicemente un “maggiore realismo” dei francesi». M. Mann, The Sources of Social Power, vol. 4, cit., p. 21.

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state rafforzate dal centro imperiale: ne deriva una forte instabilità politica delle aree decolonizzate, gravi tensioni economiche e sociali, e conseguente carenza di investimenti. La decolonizzazione, infine, lascia dietro di sé infrastrutture assai limitate, e comunque più adatte a inviare materie prime all’estero che a usarle in favore dello sviluppo economico del Paese. Nel complesso, quindi, l’età degli imperi è all’origine della povertà e dei conflitti interni delle ex-colonie, le quali solo recentemente e solo in alcuni casi stanno colmando il divario che le separa dalle economie avanzate e industrializzate.26 5.2. La guerra fredda e gli Stati Uniti Il periodo successivo alla seconda guerra mondiale non vede solo la fine degli imperi coloniali europei, ma anche l’epilogo dell’egemonia mondiale dell’Europa in quanto multi-power-actor civilization. Il panorama globale risulta ora dominato da USA e URSS: le due superpotenze che, uscite vittoriose dalla guerra mondiale, si trovano adesso contrapposte a livello geopolitico, economico, ideologico e militare. La guerra fredda, scrive Mann, è uno scontro che riguarda tutte e quattro le fonti del potere sociale, ma in cui, al di là delle apparenze, prevalgono motivi geopolitici e ideologici: «ognuna delle due parti credeva fermamente nel suo modello ideologico, era convinta che esso dovesse dominare il mondo, e vedeva il modello opposto come realizzazione delle sue peggiori paure».27 A livello geopolitico tanto gli Stati Uniti quanto l’Unione Sovietica si assicurano un’area territoriale di influenza in Europa: essa ha il triplice scopo di sottrarre terreno all’espansione ideologica della superpotenza nemica, di costituire un «cuscinetto» per la difesa del territorio nazionale da eventuali invasioni militari, e di rappresentare un avamposto da cui, all’occorrenza, sferrare un attacco all’area di influenza avversaria. A livello globale, tanto gli Stati Uniti quanto l’Unione Sovietica intervengono a dare supporto militare a Paesi ideologicamente alleati nel caso essi entrino in conflitto con forze dello schieramento avverso, e, come vedremo a breve, gli Stati Uniti associano a questo esercizio di influenza e di sostegno geopolitico la creazione di un impero informale globale. Per quanto riguarda i rapporti militari tra le due superpotenze, la guerra fredda, paradossalmente, ha un effetto stabilizzante, sebbene più volte nel 26 27

Ivi, p. 23. Ivi, p. 30.

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corso di essa il mondo sembrerà sull’orlo della distruzione nucleare: in un contesto in cui entrambi gli avversari possiedono la bomba atomica, quest’ultima agisce di fatto come un fondamentale limitatore del loro potere.28 A prevalere, da ambo le parti, sono cioè considerazioni pragmatiche sulla necessità di contenere il conflitto prima che si giunga alla devastazione dell’intero globo. Ciò non significa che, proprio a causa della potenza distruttiva che ne scoraggia un reale utilizzo, gli armamenti nucleari siano più sicuri di quelli convenzionali: questo può valere (senza alcuna certezza) nel caso in cui, come nella guerra fredda, a confrontarsi siano due, e solo due, avversari dalla potenza pressoché equivalente, capaci di distruggersi a vicenda ma anche di interagire diplomaticamente.29 Con l’attuale proliferazione degli armamenti nucleari in un ampio numero di Paesi che dispongono di diversi coefficienti di potere militare, aumenta il rischio che la bomba atomica venga utilizzata da attori di potere incapaci di azione diplomatica o da Stati che, sapendosi già in procinto di essere distrutti, ne facciano uso come arma di chi non ha più niente da perdere; l’aumentare del numero di Paesi che dispongono di armi nucleari incrementa fortemente, inoltre, il rischio di reciproci fraintendimenti, malintesi e interazioni imprevedibili, come quelle che condussero alle due guerre mondiali. L’odierna proliferazione nucleare, scriverà Mann in L’impero impotente, è da imputarsi in ultima istanza all’«impero americano»: esso, ponendosi a partire dai primi anni del ventunesimo secolo come «signore della guerra globale»,30 porta gli Stati che si sentono nel suo mirino ad armarsi con funzioni di deterrenza; questa prima proliferazione a sua volta spinge altri Stati della stessa regione, che si sentano minacciati dal nuovo arsenale dei primi, a munirsi anch’essi di armi nucleari.31 Avendo vinto la seconda guerra mondiale senza riportare danni sul loro territorio e, anzi, incrementando fortemente i profitti nazionali grazie all’industria bellica, gli Stati Uniti risultano, alla fine del conflitto, la più grande potenza economica mondiale. La produzione militare, durante la guerra, era stata diretta da quello che, nella sua classica opera L’élite del potere, Charles Wright Mills denomina il complesso politico-militar-industriale.32 Con la fine della seconda guerra mondiale e l’inizio della guerra fredda i militari possono consolidare ulteriormente il loro potere, mentre i legami 28 29 30 31 32

Ivi, p. 32. Cfr. M. Mann, L’impero impotente, trad. it. Piemme, Casale Monferrato 2004, pp. 44-51. M. Mann, The Sources of Social Power, vol. 4, cit., p. 36. M. Mann, L’impero impotente, cit., pp. 48-51. M. Mann, The Sources of Social Power, vol. 4, cit., p. 38.

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tra le diverse élite si conservano e si rafforzano: nonostante l’insistenza del grande capitale e dei politici al governo nel proclamare le capacità del libero mercato di assicurare prosperità, efficienza e libertà, in questo periodo lo Stato interviene massicciamente nell’economia per dare sostegno al capitalismo e favorire lo sviluppo industriale.33 Il sistema capitalistico, lungi dall’essere autosufficiente, necessita di un intreccio di relazioni di potere politico, ideologico e militare:34 a partire dal sostegno e dalle regolazioni assicurate dallo Stato a mercato e capitale, passando per la propagazione di ideologie mirate a garantire il favore dell’opinione pubblica nei confronti di un sistema fondato sull’ineguaglianza, fino al potere dell’industria della guerra nel sospingere in avanti l’economia. Lo Stato americano, afferma recisamente Mann, «era minimo solo per quanto riguardava i diritti sociali»: sull’impulso del diffondersi, nel dopoguerra, di un’ideologia anticomunista e antisovietica, le élite politiche dominanti sferrano il colpo di grazia ai sindacati e ai movimenti dei lavoratori americani. Il maccartismo indebolisce la sinistra e le unioni sindacali oltre ogni possibilità di ripresa, e, in tal modo, anche l’avanzamento verso una concezione ampia di welfare viene interrotto per non riprendere più. 5.2.1. L’espansione militare globale degli USA Sul piano geopolitico, come accennato, la guerra fredda provoca l’intensificarsi dell’espansione imperiale degli Stati Uniti. Precedentemente alla seconda guerra mondiale gli USA controllavano mediante impero informale, per procura o per cannoniera, diversi Paesi dell’America centrale e meridionale: Cuba, Repubblica Domenicana, Nicaragua, Venezuela, Portorico, Haiti.35 Con la fine del conflitto, gli Stati Uniti acquisiscono una zona di egemonia in Europa occidentale: un’egemonia in gran parte benevola, che mediante il piano Marshall (vantaggioso per la stessa economia statunitense) apporta sostegno allo sviluppo, alla ripresa e alla ricostruzione dei Paesi devastati dalla guerra, ma che mostra il suo lato più duro e antidemocratico nell’intervento in Grecia, compiuto in funzione anticomunista insieme alla Gran Bretagna, e nell’appoggio alle dittature di Franco in Spagna e di Salazar in Portogallo.36 33 34 35 36

Ivi, p. 47. Ivi, p. 46. In American Empires, Past and Present, Mann ripercorre la storia delle fasi di espansione dell’impero americano; cfr. «The Canadian Review of Sociology», XLV (2008), n. 1, pp. 7-50. M. Mann, The Sources of Social Power, vol. 4, cit., p. 89.

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Per contrapporsi geopoliticamente e militarmente all’Unione Sovietica, dopo la seconda guerra mondiale, gli Stati Uniti intendono però ampliare a livello globale la loro area di dominio e di influenza. Si lanciano quindi nell’acquisizione di un impero informale che va a includere Paesi del Sudest asiatico e del Medio Oriente. In Asia orientale le sorti dell’impresa imperiale statunitense sono tutt’altro che felici, con l’eccezione del Giappone, che, sottoposto a dominio coloniale subito dopo la guerra, diviene presto un Paese libero all’interno dell’area di egemonia degli Stati Uniti. Tanto nella guerra di Corea quanto in quella del Vietnam gli Stati Uniti compiono un errore che, afferma Mann, ripeteranno spesso in futuro: agiscono cioè affidandosi unicamente alla brutale forza d’urto del potere militare, di cui dispongono in abbondanza; in tal modo fanno poggiare le loro possibilità di successo su basi eccessivamente unilaterali e quindi fragili, che non sempre sono in grado di assicurare loro la vittoria e che comunque non bastano a sostenere con sicurezza un impero.37 La guerra di Corea, ad esempio, si sarebbe potuta evitare se gli Stati Uniti, invece di ancorare il loro dominio imperiale a élite locali repressive, avessero promosso la democrazia e la riforma agraria, che già da tempo erano richieste dalla popolazione della Corea meridionale. Kim Il-Sung invade la Corea del Sud proprio sulla base della sua consapevolezza che la popolazione avrebbe accolto bene l’unificazione sotto un regime comunista, e che il governo filoamericano, ad essa inviso, sarebbe stato facile da rovesciare. Naturalmente, Kim Il-Sung non si aspettava l’intervento degli Stati Uniti.38 Quando quest’ultimo ha luogo, la popolazione sudcoreana, come previsto, invece di schierarsi con gli americani, porta aiuto alle truppe della Corea del Nord e sviluppa ancor di più sentimenti anti-imperialisti e nazionalisti. Il conto delle vittime americane sale quando un eccesso di fiducia nel loro potere militare spinge gli Stati Uniti, una volta respinto Kim Il-Sung e recuperati i territori perduti, a invadere a loro volta la Corea del Nord, giungendo fino al confine cinese. La reazione di Mao non si fa attendere, e, in seguito a una sanguinosa lotta, i confini delle due Coree vengono ristabiliti alla situazione precedente alla guerra: il prestigio del regime cinese si consolida, mentre in Corea del Sud gli Stati Uniti sono finalmente costretti a concedere la riforma agraria. Ingenti perdite in termini di vite si sarebbero potute evitare, afferma Mann, se gli USA, invece di confidare (peraltro eccessivamente) nel loro potere militare, fossero 37 38

Questa è la tesi fondamentale de L’impero impotente, che andremo a trattare nel § 6 del presente capitolo. Ivi, p. 93.

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intervenuti sulle élite clienti sudcoreane per portarle ad amministrare il Paese in un modo che fosse economicamente e politicamente accettabile alla popolazione locale.39 Gli esiti sono ancora peggiori in Vietnam, dove gli Stati Uniti intervengono in modo brutale, senza risparmiare la popolazione civile, per sconfiggere le milizie di Ho-Chi-Minh, il quale mirava a portare il Paese all’indipendenza dalla Francia ed a stabilire, con il consenso della popolazione, un regime comunista. La guerra viene vinta nel 1975 dalle forze vietnamite, che, per quanto sulla carta fossero immensamente inferiori dal punto di vista militare, potevano contare su una migliore conoscenza dei territori, sul sostegno della popolazione e su risorse di motivazione ideologica molto maggiori: «fu il potere ideologico a vincere la guerra»,40 scrive Mann. Gli Stati Uniti, mediante interventi militari o segrete opere di destabilizzazione politica, intervengono altresì in un ampio numero di Stati del Sud-est asiatico (tra cui Indonesia, Laos e Birmania del nord) per frenare l’avanzata di movimenti comunisti o rovesciare regimi tendenti a sinistra; per bloccare molti di essi sarebbe bastato deporre le autocratiche élite terriere messe a governare per procura, promuovendo invece la riforma agraria e misure redistributive. Intervenendo militarmente, gli Stati Uniti provocano guerre civili e colpi di Stato, favoriscono l’ascesa al potere di dittatori sanguinari, o, in modo involontario, rafforzano ideologicamente e numericamente movimenti che, come quello dei Khmer rossi, compiranno terribili atrocità.41 In molti Paesi dell’America centrale e meridionale, similmente, gli Stati Uniti stabiliscono un impero informale per procura, instaurando regimi dittatoriali clientelari fino al punto che, nel 1979, solo quattro Paesi latinoamericani non sono dittature appoggiate dagli USA.42 A questo fine vengono compiuti interventi militari volti a rovesciare capi di Stato sgraditi (come nel caso del Guatemala) o a reprimere movimenti sociali minacciosi (ad esempio l’offensiva in Nicaragua contro il movimento sandinista), come anche operazioni di intelligence orientate a destabilizzare politicamente regimi di orientamento ideologico rivale. Nel complesso, quindi, «l’impero americano ostacolò continuativamente la pace, lo sviluppo e la democrazia nel suo stesso emisfero».43 Una politica che Mann reputa «irrazionale», in quanto, come nel caso del Sud-est asiatico, mediante la 39 40 41 42 43

Ivi, pp. 94-94. Ivi, p. 98. Ivi, pp. 99-101. Ivi, p. 113. Ivi, p. 119.

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repressione e la violenza essa favoriva involontariamente l’estremizzarsi a sinistra delle posizioni centriste, lasciava invariati i problemi che erano alla base dell’instabilità della regione, peggiorava i conflitti sociali e indeboliva le economie.44 Se in America centrale e meridionale gli Stati Uniti riescono con successo a mettere al potere clienti fedeli e durevoli – si trattava pur sempre di un’area che già da tempo rientrava nell’orbita di influenza statunitense – lo stesso non può dirsi rispetto al Medio Oriente. Quest’ultimo costituiva una regione della massima importanza strategica per gli USA, in quanto geograficamente vicina all’Unione Sovietica e ricca di petrolio; gli Stati Uniti decidono di appoggiarsi a clienti locali, ricorrendo all’intervento diretto solo a fronte di condizioni che possano pregiudicare la loro possibilità di ottenere petrolio a prezzi di favore. Il regime iraniano di Mosaddeq, colpevole di aver nazionalizzato l’industria petrolifera, viene quindi rovesciato nel 1953 mediante un colpo di Stato favorito da una serie di operazioni di destabilizzazione orchestrate dalla CIA; il successivo regime dello Scià, «unico alleato leale che ai tempi gli Stati Uniti avevano in quell’area»,45 viene ben presto abbattuto dalla rivoluzione del 1979, alla quale seguirà poi l’ascesa al potere dell’ayatollah Khomeini. Durante gli anni ’80 gli Stati Uniti si servono, contro l’Iran, del dittatore iracheno Saddam Hussein, mentre, in Afghanistan, forniscono armi e aiuti, contro l’Unione Sovietica, a gruppi di guerriglieri islamisti da cui emergeranno i talebani: la storia recente ha ben mostrato quanto contradditorie, sul lungo periodo, si siano rivelate queste strategie. La contraddizione foriera di maggiori conseguenze negative, però, è secondo Mann quella per cui «mentre l’interesse vitale dell’America nella regione mediorientale è garantirsi il petrolio, il suo più stretto alleato in quella regione è Israele, il Paese che maggiormente indispone tutti gli Stati produttori di petrolio».46 Non vi è razionalità alla base di questa politica, bensì la deferenza delle élite politiche ed economiche statunitensi alle potenti lobby ebraiche americane, la sopravvalutazione da parte degli Stati Uniti del proprio potere militare e del ruolo che ad esso può realisticamente competere in un moderno impero globale, e l’alleanza tra conservatori americani e destra religiosa. Vedremo a breve, trattando L’impero impotente, come l’attuale politica estera degli USA non possa dirsi, per Mann, benefica o razionale sotto alcun aspetto: privilegiando la via militare immediata pur di assicurarsi risultati a breve termine, gli Stati 44 45 46

Ibid. Ivi, p. 122. Ivi, pp. 124-125.

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Uniti esacerbano i sentimenti nazionalisti e anti-imperialisti delle popolazioni, favoriscono l’estremizzarsi ideologico delle posizioni, mettono al potere clienti inaffidabili o si basano su alleati militari che poi sfuggono al loro controllo. 5.3. L’Unione Sovietica: guerra fredda, riforma e crollo L’Unione Sovietica, avversario geopolitico, ideologico ed economico degli Stati Uniti nella guerra fredda, estendeva la sua area di influenza sull’Europa orientale. Mentre il tipo di controllo esercitato dagli USA sull’Europa occidentale era in gran parte categorizzabile come egemonia, l’Unione Sovietica stabilisce nell’Europa dell’est un impero per procura, con occasionali interventi diretti di tipo militare. «L’URSS», scrive Mann, «era una dittatura repressiva che imponeva con la forza il suo dominio in Europa orientale»:47 si trattava di un dominio benevolo solo dal punto di vista economico, in quanto l’Unione Sovietica destinava ai suoi Stati satelliti sussidi allo sviluppo attraverso cui questi ultimi potevano altresì garantire un sistema di diritti sociali ai propri cittadini. Tale sistema di welfare era in linea di principio molto avanzato, ma in realtà compensava appena i bassi salari della popolazione, mentre la sua implementazione pratica era viziata da inefficienze e da diffusi fenomeni di corruzione. Il dissenso politico e ideologico veniva prontamente represso dai regimi locali, in un contesto di sistematica negazione dei diritti civili e democratici, né mancarono interventi militari dell’URSS per sopprimere violentemente sollevazioni e tentativi di rivoluzione, come in Ungheria nel 1956 e in Cecoslovacchia nel 1968.48 Come anche gli Stati Uniti, l’URSS destinava aiuti economici e militari ai propri alleati in tutto il mondo, allo scopo di favorire la diffusione di regimi comunisti e contrastare l’espandersi della zona d’influenza americana. Molto più parco degli USA era invece il governo sovietico nell’impiegare le proprie (comunque più limitate) risorse militari nell’invasione di Paesi esterni al suo blocco di potere: in quarant’anni l’unica operazione di questo tipo sarà la guerra in Afghanistan,49 Paese che già rientrava nell’area di influenza sovietica e che, in seguito alla ritirata e poi al crollo dell’URSS, diverrà una repubblica islamica sotto il controllo dei mujaheddin e poi dei talebani. 47 48 49

Ivi, p. 32. Ibid. Ibid.

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L’Unione Sovietica controllava quindi efficacemente, attraverso i suoi regimi satelliti, l’Europa orientale, e aveva instaurato un’occupazione di tipo coloniale in Estonia, Lettonia e Lituania. Dal dopoguerra fino agli anni ’80 l’URSS attraversa una fase di crescita economica e un formidabile sviluppo militare, accompagnati da un miglioramento delle condizioni di vita della popolazione e della qualità dei diritti sociali. Dopo la morte di Stalin, il suo successore Krusciov (1954-63) pone fine al regime di terrore da questi instaurato, e la repressione politica viene ulteriormente mitigata da Breznev (1964-82): sotto quest’ultimo, «sebbene non fossero tollerate espressioni di aperto dissenso politico, si verifica un’espansione dell’istruzione superiore e gli intellettuali hanno la possibilità di mettere alla prova, cautamente, i limiti imposti dalla censura».50 Nonostante la concessione di più ampie libertà, il potere rimane saldamente nelle mani dello Stato-partito, che amministra non solo l’economia, ma costituisce altresì l’unica fonte di legittimità politica e ideologica. Nel 1975, scrive Mann, la popolazione sovietica aveva, rispetto a quella statunitense, «un più alto tasso di istruzione, più medici e posti letto in ospedale, pieno impiego, e servizi di welfare da considerarsi generosi in base agli standard dei Paesi a un comparabile livello di sviluppo».51 La popolazione era, nel complesso, consapevole di essere priva delle libertà civili e politiche vigenti in Occidente, come anche del fatto che la realtà in cui viveva si discostasse sia dalla propaganda di regime che dall’utopia socialista; ma finché continuava la crescita economica e con essa si allentava la repressione politica, le persone erano per la maggior parte convinte che le condizioni di vita sarebbero ulteriormente migliorate e più libertà sarebbero seguite.52 Era ancora diffusa la fiducia nelle capacità del socialismo di assicurare benessere e, in prospettiva, diritti per tutti. A partire dalla fine degli anni ’70, tuttavia, la crescita economica comincia a rallentare in modo sempre più consistente: il sistema agricolo, giunto al massimo delle sue capacità, non riusciva più a produrre sufficiente surplus per sostenere lo sviluppo dell’industria, mentre le risorse naturali, fatta eccezione per il gas e il petrolio, erano state sfruttate al limite.53 L’economia pianificata si rivela inadeguata a garantire uno sviluppo comparabile a quello capitalistico per effetto delle inefficienze nella determinazione dei prezzi e nella distribuzione delle merci, oltre che per la sua incapacità di 50 51 52 53

Ivi, p. 180. Ivi, p. 181. Ibid. Ivi, p. 182.

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stimolare l’iniziativa individuale. Ad aggravare la situazione contribuivano fattori militari, in quanto il complesso militar-industriale, dotato di un’autonomia molto maggiore che negli Stati Uniti, dirottava ingenti risorse nell’accumulazione di armamenti. Anche aspetti politici giocavano la loro parte: le diseguaglianze economiche, sebbene meno pesanti che nei Paesi occidentali, erano in aumento non da ultimo a causa dell’appropriazione di risorse compiuta con sempre più frequenza dalle élite di partito sulla base di privilegi connessi al loro status e di fenomeni di corruzione. Il maggiore fattore di destabilizzazione, nell’Unione Sovietica degli anni ’80, è però la crisi ideologica generatasi a partire dal contesto appena richiamato: si faceva largo nella popolazione una sempre maggiore disillusione riguardo alla capacità dello Stato-partito di realizzare un’idea di socialismo che, in linea di principio, avrebbe dovuto avere tratti ben diversi.54 La stessa privazione dei diritti civili e democratici sempre meno sembrava un prezzo equo da pagare per un regime che non riusciva a mantenere le sue promesse: «il socialismo di Stato aveva chiaramente fallito nell’economia, ma, in maniera ancora più fondamentale, nella politica: sebbene il dispotismo fosse andato mitigandosi, non vi era stato un reale movimento verso la democrazia. Ma questi fallimenti erano esacerbati dall’ideologia: il socialismo avrebbe dovuto essere migliore, molto migliore».55 5.3.1. Riforma e caduta È in questo clima che si fanno largo élite riformiste le quali, avendo compiuto i propri studi in Occidente nell’era di Krusciov e Breznev, avevano maturato l’idea che il sistema sovietico andasse sensibilmente trasformato per poter tornare a essere economicamente competitivo e riguadagnare un effettivo favore popolare. La linea riformista prevale con l’elezione di Michail Gorbaciov a segretario generale del partito, nel 1985; per Mann saranno proprio le scelte di Gorbaciov, che egli definisce «moralmente coraggioso ma politicamente incapace»,56 a provocare il crollo dell’URSS. Quando Gorbaciov va al potere, il sistema sovietico mancava di legittimazione ideologica, ma godeva ancora di un consenso di base derivante dal fatto che, sebbene in crisi, esso era ancora capace di assicurare adeguate condizioni di vita alla popolazione. L’errore politico di Gorbaciov fu, se54 55 56

Ivi, p. 183. Cfr. S. Kotkin, A un passo dall’Apocalisse: il crollo dell’Unione Sovietica, 1970-2000, trad. it. Viella, Roma 2010. M. Mann, The Sources of Social Power, vol. 4, cit., p. 183. Ivi, p. 198.

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condo Mann, l’aver realizzato contemporaneamente una ristrutturazione economica che, seppur promettente, nell’immediato peggiora ancor di più la crisi, e una serie di misure di democratizzazione le quali, in un periodo di forte tensione economica, ideologica, militare e politica, vanno a indebolire lo Stato-partito, unico centro di stabilità e di autorità che l’URSS avesse mai conosciuto: «non fu il collasso a portare alle riforme», afferma Mann, «bensì le riforme a portare al collasso».57 Il complesso di riforme economiche realizzate da Gorbaciov, la perestroika, era basato sul principio di una maggiore decentralizzazione delle attività produttive: la proprietà dei mezzi di produzione restava pur sempre in mano allo Stato, ma la motivazione individuale e la concorrenza erano incentivate da compensi commisurati alla prestazione lavorativa, da più ampia autonomia decisionale sui metodi, sulle retribuzioni e sugli obiettivi di produzione, e dalla possibilità delle imprese di competere le une con le altre sul mercato. Il risultato immediato della riforma economica fu che, siccome i lavoratori ora avevano un maggiore potere di determinare i propri compensi, questi salirono; in un contesto in cui la maggior parte dei prezzi erano fissi, la più alta disponibilità economica degli acquirenti fece sì che in breve tempo i negozi rimanessero vuoti. Le più ampie autonomie locali e regionali altresì incluse nelle riforme portavano inoltre i governi locali delle repubbliche sovietiche a ridurre la produzione da esportare in altre aree dell’URSS, con il duplice effetto di accrescere la propensione dei consumatori a fare scorta di generi alimentari e diminuire ulteriormente la disponibilità di questi ultimi.58 La situazione economica si fece quindi immediatamente molto difficile, e con essa aumentò il malcontento ideologico per quella che era considerata una grave inefficienza del regime. La responsabilità per la crisi multifattoriale che attanagliava l’Unione Sovietica era (con ragione, in ultima istanza) imputata dalla popolazione al solo centro decisionale politico, economico, ideologico e militare esistente in URSS: lo Stato-partito. Il fatto che esso accentrasse in sé le quattro fonti del potere sociale, senza alcun contrappeso né fonte di pluralismo, non solo aveva condotto a violenze, repressione e privazione di diritti, secondo quanto Mann sostiene nella sua teoria normativa; ma, oltretutto, il concentrarsi del potere decisionale nelle mani di un’unica élite dirigente aveva fatto sì che la crisi, risultante da errori decisionali e di amministrazione, riguardasse senza eccezione tutte le fonti del potere sociale, e che l’intero dissenso della popolazione, venuta 57 58

Ivi, p. 184. Ivi, p. 186.

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meno anche la speranza nell’ideologia socialista, si rivolgesse ora contro lo Stato-partito. Riguardo alla descrizione dello Stato-partito sovietico quale istituzione che in sé accentrava le quattro forme del potere sociale, naturalmente, non è possibile non concordare. Tuttavia, dal punto di vista teorico vale la pena di chiedersi, a margine, se all’interno di esso le quattro fonti avessero la stessa importanza o se, invece, fosse il potere politico a prevalere sulle altre, dirigendole e regolandole almeno in una certa misura. Una questione su cui Mann non si sofferma, forse dando per implicita questa preminenza del potere politico all’interno dello Stato-partito accentratore delle quattro fonti; preminenza che fonda altresì la capacità di quest’ultimo di abbandonare, o diminuire, il suo controllo su una o più di esse. Negli stessi anni della riforma economica, lo Stato-partito sovietico rinuncia infatti a gran parte del suo potere dispotico e repressivo (ideologico e militare): la glasnost, ossia la politica di apertura alla democrazia inaugurata da Gorbaciov, rimuove la censura, garantisce libertà di stampa e di associazione, e restituisce la libertà ai dissidenti politici. Attraverso di essa, Gorbaciov sperava di incoraggiare un’attitudine di maggiore trasparenza del partito verso la società, in grado di far ritrovare alla popolazione fiducia in esso e di permettere che quelli che venivano percepiti come problemi potessero essere risolti e non negati.59 Tuttavia, nel clima in cui la glasnost va a inserirsi, le critiche che la popolazione rivolge al governo non sono del tipo simpatetico e collaborativo che Gorbaciov aveva immaginato: le molte carenze e inefficienze del partito vengono impietosamente messe in luce dai media; i problemi sociali emergono in tutta la loro crudezza; i cittadini si organizzano in movimenti liberali che richiedono forme di privatizzazione economica, in movimenti politici che premono per un’ulteriore democratizzazione, e in movimenti nazionalisti che rivendicano autonomia regionale.60 Non appena le opposizioni polacche e ungheresi capiscono che il centro sovietico va indebolendosi, iniziano a reclamare indipendenza, progetto al quale, in una radicale rottura con il passato, Gorbaciov non si oppone. Questo fa sì però che anche repubbliche interne al territorio sovietico comincino ad avanzare con più forza rivendicazioni indipendentiste, le quali vengono violentemente respinte. La crisi è ora economica, politica, geopolitica e ideologica.61 Nel frattempo, il partito comunista, delegittimato dal movimento di pubblica opinione emerso dalla glasnost, si trova internamente frazionato tra 59 60 61

Ivi, p. 188. Ibid. Ivi, p. 191.

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una corrente sovietica affine a Gorbaciov e una fazione russa, ideologicamente liberale, che si raggruppa intorno a Yeltsin.62 Nel 1990 il partito rinuncia al suo ruolo di guida unica e si tengono le prime elezioni multipartitiche nelle quindici repubbliche sovietiche, che portano Yeltsin a diventare presidente della repubblica russa.63 Pochi mesi dopo viene sciolto il patto di Varsavia che vincolava all’URSS i restanti Stati satelliti. Concedendo una maggiore autonomia alle repubbliche sovietiche, Gorbaciov sperava di poter mantenere queste ultime reciprocamente coese; nell’imminenza della firma del Nuovo trattato d’Unione, che avrebbe dovuto permettere la divisione dell’URSS in una federazione di repubbliche indipendenti sotto uno stesso presidente, ha luogo il colpo di Stato contro Gorbaciov ad opera di alcuni elementi dei vertici statali e militari che non approvano la sua direzione riformista. Il colpo di Stato fallisce, ma segna la fine del comunismo sovietico e la dissoluzione dell’URSS: i liberisti filo-occidentali, che godevano già di ampia popolarità, si rafforzano ulteriormente grazie alla pubblica denuncia del Putsch coraggiosamente compiuta da Yeltsin, il quale si pone come leader di fatto dell’Unione Sovietica.64 L’8 dicembre del 1991 Yeltsin firma, insieme ai presidenti della Bielorussia e dell’Ucraina, il trattato che sancisce la dissoluzione dell’URSS. Con questo evento si chiude altresì la guerra fredda, anche se il processo di pace era iniziato nel 1986, su impulso di Gorbaciov: egli voleva ridurre l’autonomia del complesso militar-industriale sovietico, ma, non avendo il potere per affrontarlo direttamente, pensava di poterlo indebolire indirettamente mediante il disarmo.65 Il gioco a somma zero della guerra fredda si stava rivelando sempre più costoso e pericoloso; questa tesi, a partire dal 1985, sembra convincere anche Reagan, il quale era oltretutto rassicurato dal declino di potenza dell’URSS. Di fronte alle aperture sovietiche Reagan reagisce quindi positivamente, e può così avere inizio il disarmo. Nel 1989 Gorbaciov e il successore di Reagan, George H.W. Bush, dichiarano finita la guerra fredda. «Gorbaciov fece quasi sempre la scelta moralmente più giusta»,66 afferma Mann; il crollo dell’Unione Sovietica, tuttavia, fu un esito in larga parte determinato dall’errore di aver voluto ristrutturare, allo stesso tempo,

62 63 64 65 66

Cfr. G. Gill, The Collapse of a Single-Party System, Cambridge University Press, Cambridge 1994. M. Mann, The Sources of Social Power, vol. 4, cit., p. 195. Ivi, p. 196. Ivi, p. 192. Ibid.

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le istituzioni economiche e quelle politiche dell’Unione Sovietica:67 si trattò di una rivoluzione scaturita da riforme attuate con una tempistica poco prudente, tale da creare una carenza di stabilità politica in un momento di forte dissenso popolare, di frazionamento del partito e di tensione geopolitica dovuta alle spinte indipendentiste nelle repubbliche sovietiche. Un frangente in cui le nuove forze liberali ebbero gioco facile nel proporsi come guida di un nuovo ordine economico, ideologico, politico e militare. In seguito al crollo dell’URSS le quindici repubbliche sovietiche ebbero destini politici variati: alcune operarono una riuscita transizione alla democrazia, altre divennero dittature, un terzo di esse furono dilaniate da conflitti etnici e guerre civili. Il blocco sovietico si disgregò proprio nel momento in cui, in Occidente, stava prendendo piede il neoliberismo; l’economista Anders Aslund sostiene che i Paesi che compirono la loro transizione al capitalismo mediante una rapida «terapia d’urto» neoliberista, fondata su privatizzazioni e liberalizzazioni spinte al massimo e su radicali programmi d’adeguamento strutturale, furono quelli che ottennero i migliori risultati economici.68 Mann contesta con forza questa tesi: il maggiore sviluppo economico degli Stati in questione, nello specifico quelli dell’Europa centro-orientale e i Paesi baltici, deriverebbe piuttosto dal fatto che essi erano geograficamente e ideologicamente più vicini all’area occidentale: questi Stati, nel porsi come partner commerciali e come sedi di investimento, erano quindi agevolati dalla loro prossimità spaziale e culturale con l’Occidente, e già disponevano di più avanzati settori privati e istituzioni della società civile rispetto ai Paesi più a est. Inoltre, se invece di considerare indicatori come il PIL si vanno a guardare i tassi di natalità, di mortalità e le aspettative di vita, più affidabili nel rivelare le condizioni di esistenza delle popolazioni, si scopre che le transizioni mediante «terapia d’urto» furono disastrose in tutti i Paesi che le sperimentarono, mentre quelle graduali provocarono meno danni:69 «il Programma delle Nazioni Unite per lo sviluppo 67 68 69

Cfr. anche M. Pei, From Reform to Revolution: The Demise of Communism in China and the Soviet Union, Harvard University Press, Harvard (MA) 1994. M. Mann, The Sources of Social Power, vol. 4, cit., p. 202. Cfr. A. Aslund, Building Capitalism, Cambridge University Press, Cambridge 2002, e Id., How Capitalism Was Built, Cambridge University Press, Cambridge 2007. M. Mann, The Sources of Social Power, vol. 4, cit., p. 203. I riferimenti di Mann sono il Rapporto sullo sviluppo mondiale The State in a Changing World, ad opera della Banca mondiale (Oxford University Press, Oxford 1997), il Rapporto sullo sviluppo umano 2009 del Programma delle Nazioni Unite per lo sviluppo, gli studi di B. Milanovic e L. Ersado Reform and Inequality During the Transition, World Bank Policy Research Working Paper, 2008, e di D. Stuckler et al.,

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(1999) afferma che dieci milioni di persone morirono prematuramente per effetto di queste transizioni – all’incirca lo stesso numero di morti risultanti da tutte le atrocità staliniane. Le atrocità dei mercati non sono visibili come quelle del piano, ma le sofferenze e i tassi di mortalità possono benissimo essere simili».70 In un contesto fino a quel momento caratterizzato dal monopolio statale della produzione e in assenza di governi solidi che potessero garantire rispetto delle regole e solidarietà normativa, la rapida transizione al capitalismo genera in molti Stati (compresa la Russia) un sistema basato non primariamente sulla concorrenza, bensì su connessioni politiche, corruzione, controlli particolaristici sulle risorse economiche ottenuti da ex membri di partito mediante canali informali:71 né capitalismo né democrazia, bensì «cleptocrazia».72 Sotto la presidenza di Putin la Russia ha sostanzialmente abbandonato il neoliberismo: lo Stato ha riacquisito un maggior potere formale, molte industrie sono state nuovamente nazionalizzate, il governo ha ripreso, in parte, il controllo dei media.73 Per effetto, non da ultimo, dell’ideologia nazionalista sostenuta da Putin, la Russia intrattiene oggi minori connessioni con l’economia internazionale, e ha quindi risentito in minor misura della crisi neoliberale del 2008. Lo stesso Putin e i suoi alleati personali e politici controllano il 40% dell’economia russa, in un contesto di notevoli diseguaglianze materiali e sociali, che presenta ombre anche per quanto riguarda la regolarità delle elezioni e la gestione del dissenso politico. 5.4. La Repubblica Popolare Cinese L’Unione Sovietica si è frammentata in una molteplicità di Stati dai destini disparati, il principale dei quali, la Russia, sembra oggi contraddistinto da un «capitalismo politicizzato», in cui cioè la maggior parte delle risorse economiche sono nelle mani dell’élite politica. La Cina, invece, esprime oggi «la forma più dinamica mai vista prima di capitalismo e comunismo».74 Come si è giunti a questo esito? Dal secondo dopoguerra

70 71 72 73 74

Mass Privatisation and the Post-Communist Mortality Crisis, in «The Lancet», 15-01-2009. M. Mann, The Sources of Social Power, vol. 4, cit., p. 205. Ivi, p. 211. Ivi, p. 216. Ivi, p. 214. Ivi, p. 236. I riferimenti principali di Mann sono qui B. Naughton, The Chinese Economy, MIT Press, Boston 2007, e Id., Growing Out of the Plan, Cambridge

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fino agli anni ’70 la Cina maoista procede secondo un’alternanza di autoritari accentramenti di potere nelle mani dello Stato-partito e parziali decentralizzazioni tanto del potere economico quanto di quello politico. Sono anni in cui, a fianco di misure positive, come un notevole impulso all’istruzione, la costruzione di infrastrutture e l’implementazione di diritti sociali, scelte politiche nefaste quali l’avvio del «Grande balzo in avanti» e della rivoluzione culturale provocano grandi sofferenze alla popolazione cinese e decine di milioni di morti. Il partito comunista si pone come un’organizzazione dispotica a struttura rigida, la quale mobilita persecuzioni intermittenti ma dure contro «nemici di classe», controrivoluzionari e oppositori.75 Il successore di Mao, Deng Xiaoping, dà inizio a un programma di riforme aventi come obiettivo l’industrializzazione, e, attraverso quest’ultima, il rafforzamento delle risorse militari dello Stato, necessarie per la difesa nel periodo della guerra fredda. Si trattava di riforme puramente economiche, le quali, a differenza che nel caso sovietico, lasciavano invariato il potere politico, militare e ideologico dello Stato-partito:76 quest’ultimo, fortemente radicato nella società e guidato con mano ferma da Deng Xiaoping, era in grado di far valere la propria autorità di fronte a eventuali resistenze. Mediante un programma di modernizzazione tecnologica e di incentivi al profitto, la Cina riesce a realizzare una notevole crescita economica e ad avviarsi sulla strada dell’industrializzazione. Abbandonate le gigantesche collettivizzazioni forzate dell’agricoltura e i progetti «eroici» e stakanovisti, il governo concede alle industrie una maggiore autonomia nella determinazione dei prezzi e nelle scelte produttive, la quale ha delle positive ricadute sui profitti, oltre a favorire la nascita di ulteriori industrie a proprietà statale; nel 1984 lo Stato garantisce alle famiglie contadine la totale autonomia produttiva e incentiva il sorgere di piccole imprese manifatturiere nelle campagne, a proprietà collettiva o sussidiata dallo Stato, dotate di discreti margini di autonomia nella gestione. Queste nuove imprese sono

75 76

University Press, New York 2007; C. Chen, Transforming Rural China, Routledge, London 2003; Y. Wu, China’s Economic Growth, Routledge, London 2004; Ch. Bramall, Sources of Chinese Economic Growth, 1978-1996, Oxford University Press, Oxford 2000; D. Yang, Calamity and Reform in China, Stanford University Press, Stanford 1996, e Id., Remarking the Chinese Leviathan, Stanford University Press, Stanford 2004; S. Shirk, The Political Logic of Economic Reform in China, University of California Press, Berkeley 1993; J. Andreas, Rise of the Red Engineers, Stanford University Press, Stanford 2009; M. Pei, From Reform to Revolution, cit. M. Mann, The Sources of Social Power, vol. 4, cit., pp. 219-221. Ivi, pp. 225-226.

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incoraggiate a entrare in concorrenza con le industrie a proprietà statale, spingendo così le une e le altre a migliorare la produttività: «un’economia di mercato stava sorgendo dal piano».77 Se Deng Xiaoping aveva affermato che l’obiettivo doveva essere un «socialismo con caratteristiche cinesi»,78 fondato sulla coesistenza di industrie statali e private, Jiang Zemin, nel 1989 segretario generale del partito comunista, dichiara che l’obiettivo delle riforme è pervenire a «un’economia socialista di mercato»:79 includere nel sistema economico cinese un settore di business privato su larga scala, operante in base a princìpi capitalistici, era necessario ai fini della competizione con le economie degli altri Paesi. Nel 1992 si inaugura quindi la privatizzazione delle industrie di Stato e delle manifatture collettive rurali. Da questo punto in poi, afferma Mann, è difficile definire con precisione il regime economico vigente in Cina; esso si configura come un insieme di economia di mercato, socialismo e tradizionali valori cinesi di risparmio, impegno nel lavoro e solidarietà comunitaria.80 Le industrie più grandi rimangono saldamente nelle mani dello Stato; quando si parla di industrie «private» o «privatizzate», si intende inoltre, con ciò, la concessione a privati, da parte dello Stato, dei diritti di proprietà, sempre potenzialmente revocabili da quest’ultimo (che però raramente esercita questo potere).81 A partire dal 2007 i diritti di proprietà sono stati garantiti costituzionalmente, ma l’implementazione effettiva della norma rimane incompleta. Lo straordinario sviluppo dell’economia della Cina, che oggi è una delle maggiori potenze industriali globali, dimostra che l’espansione è possibile nonostante diritti di proprietà incompleti o incerti.82 Sebbene l’impresa «privata» goda in Cina di una sempre maggiore autonomia, quasi a configurare un parziale dualismo tra l’economia e la politica centralmente diretta dal partito, è quest’ultimo che mantiene fermamente il controllo. Nel 1993 Zemin ha modificato la Costituzione per consentire agli imprenditori capitalisti l’accesso al partito, nel quale sono ora una presenza consistente.83 Ancora adesso, inoltre, è il partito a vigilare su chi occupa i posti di rilievo nella politica, nell’economia, nell’informazione e nell’università, in base a criteri quali la capacità di favorire la crescita economica, 77 78 79 80 81 82 83

Ivi, p. 229. Ivi, p. 231. Ibid. Ibid. Ivi, pp. 231-232. Ivi, p. 231. Ivi, p. 233.

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di creare impiego, di attirare investitori stranieri, e, non ultimo, di tenere sotto controllo le tensioni sociali.84 Il grave problema della Cina odierna è infatti la carenza di diritti liberali, democratici e sindacali; negli ultimi anni, in seguito ad aperture del partito su questo fronte, si sono manifestate le prime rivendicazioni della cittadinanza volte a ottenere maggiori libertà, come anche vi sono state proteste per le crescenti ineguaglianze sociali, i bassi salari e la disoccupazione in aumento. Si tratta comunque di proteste circoscritte e locali, che vengono represse dalle autorità non appena accennino ad assumere proporzioni maggiori. Il regime, in ogni caso, teme disordini sociali; la popolazione, recentemente, è riuscita a ottenere riforme riguardanti pensioni, disoccupazione, sussidi per calamità naturali, come anche norme più stringenti contro la corruzione e la bancarotta fraudolenta,85 ma il regime rimane dispotico e poco trasparente, con media controllati dal governo e occasionali repressioni violente del dissenso.86 Dal punto di vista dell’economia, il piano è stato sostituito dal mercato in quasi tutti i settori produttivi ma non nel controllo economico complessivo, che è saldamente nelle mani dello Stato-partito. Per quanto riguarda il potere ideologico, la Cina ha abbandonato i due capisaldi del comunismo: la realizzazione di una società egualitaria basata sull’organizzazione collettiva del lavoro e l’idea di una diffusione mondiale del comunismo. Il potere politico è monopolizzato dallo Stato-partito, il quale, adesso, include però anche i capitani d’industria e tiene ben in conto le loro richieste. Lo stesso Stato-partito, privo di ambizioni imperialistiche e più interessato a una pragmatica espansione commerciale, controlla anche il potere militare.87 Il destino della Cina comunista, sebbene essa sia passata per un periodo di profonde riforme (economiche e politico-ideologiche), è stato ben diverso da quello dell’Unione Sovietica. Mentre in URSS la perestroika economica e il glasnost politico/ideologico sono state perseguite insieme, scardinando il piano economico e minando alla base uno Stato-partito che accentrava le quattro forme di potere sociale, in Cina lo Stato-partito ha sempre mantenuto un saldo controllo sull’economia e la società, compiendo le riforme economiche e, solo in seguito, modificando profondamente la sua struttura ideologica e politica:88 «se la leadership sovietica avesse aspettato che la perestroika fosse saldamente istituzionalizzata, sotto il controllo dello Sta84 85 86 87 88

Ivi, p. 232. Ivi, p. 240. Ivi, p. 241. Ivi, pp. 241-242. Ibid.

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to e della legge, prima di varare la glasnost, probabilmente anche l’Unione Sovietica avrebbe beneficiato di uno sviluppo economico».89 La transizione della Cina a un sistema economico dai tratti capitalistici è inoltre avvenuta gradualmente, nell’arco di trent’anni, piuttosto che in sei anni, come nel caso dell’URSS; essa si è verificata in un Paese dove la concessione di autonomie politiche locali era avvenuta precocemente, disinnescando spinte decentralizzanti, e in cui non vi erano le rivalità etniche che caratterizzavano l’Unione Sovietica. I cinesi hanno inoltre avuto il vantaggio di poter imparare dalle esperienze e dagli errori sovietici;90 negli ultimi anni, questo ha impedito loro di farsi incantare dalle sirene del neoliberismo, realizzando una crescita economica che non è stata seriamente compromessa dalla crisi neoliberale scoppiata nel 2008.91 Una crescita che, però, si basa ancora in parte sulla privazione di diritti, sulla violenza e sulla repressione del dissenso. 5.5. L’ideologia del dominio di classe globale: il neoliberismo dal 1970 a oggi La politica economica prevalente in Europa dopo la seconda guerra mondiale era di stampo neokeynesiano; si configurava, cioè, come una sintesi di meccanismi keynesiani e del modello fondato sull’equilibrio di domanda e offerta. Lo sviluppo perseguito dal neokeynesismo era basato sul pieno impiego, sulla redistribuzione economica attuata dallo Stato mediante il sistema fiscale, sull’ampio riconoscimento dei diritti sindacali e su un esteso sistema di diritti sociali. Essa non era semplicemente una politica economica, bensì rappresentava il prodotto di una più comprensiva ideologia riformista, ispirata all’idea di maggiore eguaglianza sociale e al compromesso pragmatico nei confronti della lotta di classe, che, in seguito alla guerra mondiale, era tornata ad assumere proporzioni notevoli in Europa.92 La svolta neoliberista risale alla fine degli anni ’70: in seguito all’aumento della competizione economica a livello globale (in particolare per effetto della ripresa, dopo la guerra, delle economie dell’Estremo Oriente, e della loro rapida crescita), le industrie occidentali si trovano in grave difficoltà, complice anche la fine del sistema di Bretton Woods e la crisi petrolifera. 89 90 91 92

Ivi, p. 244. Ivi, p. 242. Ivi, p. 243. Ivi, p. 129.

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La risposta neokeynesiana alla crisi è il finanziamento in deficit della spesa pubblica, al fine di stimolare la domanda e attraverso di essa riportare l’occupazione a livelli più alti; l’effetto immediato di questa politica, in un contesto di bassa crescita economica, è però un aumento dell’inflazione che erode significativamente i profitti e il potere d’acquisto dei consumatori, aggravando la crisi.93 Proprio in questo frangente si fa strada la convinzione che l’economia possa tornare a riprendersi solo comprimendo i costi del lavoro, riducendo fortemente il ruolo dello Stato in essa, potenziando il capitale finanziario, e mirando, a livello statale, al pareggio di bilancio: il potere del mercato, a cui Stato e legislazioni di tutela del lavoro dovevano fare largo, avrebbe fatto piazza pulita delle industrie incapaci di rimanere attive, dando modo a quelle restanti di aumentare i propri profitti e di recuperare competitività in ambito internazionale.94 Il «periodo neoliberista», iniziato alla fine degli anni ’70, «finora non è stato un successo economico»:95 la promessa di incrementare profitti e benessere della popolazione grazie a un sistema reso più competitivo dalla riduzione dei costi di produzione e dai liberi flussi di capitale si è rivelata illusoria. Dal punto di vista dell’efficienza,96 i tagli agli stipendi e ai servizi sociali hanno ridotto fortemente il potere di acquisto dei lavoratori, e con esso la domanda economica; la disoccupazione si è mantenuta su livelli alti per tutto il periodo, toccando il culmine con la crisi del 2008; la deregolamentazione del lavoro ha provocato una corsa al ribasso che ormai, mediante il fenomeno delle delocalizzazioni, si espande a tutto il globo; la finanziarizzazione sregolata dell’economia dà luogo a speculazioni che pregiudicano la stabilità complessiva del sistema; l’imposizione di politiche di austerità e del dogma del pareggio di bilancio alle economie nazionali aggravano la disoccupazione e le tensioni sociali, gettando molte famiglie nella povertà e contribuendo così alle dinamiche recessive che hanno caratterizzato l’intero periodo. Il neoliberismo, valuta quindi Mann, è un sistema a basso potere collettivo – ossia a bassa efficienza – e ad alto potere distributivo – inteso come potere delle classi e delle nazioni più forti di imporsi sulle più deboli.97 93 94 95 96 97

Ivi, p. 146. Ivi, p. 147. Ivi, p. 142. Cfr. anche R. Brenner, The Boom and the Bubble, Verso, London 2002. M. Mann, The Sources of Social Power, vol. 4, cit., pp. 159-163. Ivi, pp. 129-130. Cfr. OCSE, Growing Unequal? Income Distribution and Poverty in OECD Countries, OECD, Paris 2008, e Th. Picketty, E. Saez, Income Inequality in the United States, 1913-1998, in «Quarterly Journal of Economics», CXVIII (2003), pp. 1-39.

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Non vi può essere una vera crescita economica in queste condizioni, né tantomeno esse possono dar luogo a una situazione sociale normativamente accettabile.98 Alla nascita di forti concentrazioni di potere e di monopoli economici si è associato a un notevole aumento delle diseguaglianze, mentre veniva a crearsi un mercato del lavoro duale: una minoranza di posti desiderabili, ancora dotati di relative garanzie giuridiche ed economiche, destinati a soggetti qualificati e istruiti, e una maggioranza di occupazioni precarie, mal pagate, poco tutelate giuridicamente, le quali rappresentano l’unica possibilità per chi provenga da contesti svantaggiati – ma che in misura crescente assorbono ormai anche parte della popolazione istruita e qualificata.99 La privatizzazione dei servizi e i tagli al welfare hanno contribuito a peggiorare le condizioni di ampi settori della popolazione, mentre governi compiacenti o conniventi con le élite economiche giocano la loro parte nel ridurre le tutele giuridiche dei lavoratori, nel subordinare gli obiettivi sociali alle «richieste dei mercati», presentate come realtà naturali e incontestabili, e nel rimettere decisioni che dovrebbero essere oggetto di consultazione democratica nelle mani di élite tecnocratiche non elette.100 Anche nei Paesi in via di sviluppo il neoliberismo ha avuto effetti nefasti tanto dal punto di vista dell’efficienza economica quanto da quello normativo.101 La Banca mondiale e il Fondo monetario internazionale impongono programmi di austerity e di adeguamento strutturale ai Paesi debitori, imponendo loro la versione contemporanea dei «trattati ineguali» ottocenteschi: dietro alla minaccia della fuga di capitali e del default economico, Stati a recente industrializzazione vengono costretti ad aprire i loro mercati alle merci dei Paesi occidentali, i quali sono liberi di proteggere i propri. I neoliberisti si dichiarano dunque a favore del libero commercio internazionale, ma solo quando esso va a loro favore. Nel frattempo, molti Paesi in via di sviluppo sono strangolati da un debito che non riusciranno mai a pagare, il quale accresce la loro dipendenza dai Paesi del Nord del mondo, riduce la loro sovranità, e contribuisce a peggiorare le condizioni di vita della popolazione.102 La crescita economica che alcuni Paesi del Sud 98 M. Mann, The Sources of Social Power, vol. 4, cit., pp. 164-166. 99 Ivi, p. 155. 100 Mann concorda con la tesi di W. Streeck (The Crises of Democratic Capitalism, in «New Left Review», LXXI, 2011, pp. 5-29) per cui il consueto attrito tra democrazia e capitalismo sarebbe particolarmente pronunciato nel neoliberismo. Cfr. anche C. Crouch, Il potere dei giganti, trad. it. Laterza, Roma-Bari 2012. 101 M. Mann, The Sources of Social Power, vol. 4, cit., pp. 166-167 e 175-176. 102 Ivi, pp. 166-168. Cfr. J. Vreeland, The IMF and Economic Development, Cambridge University Press, Cambridge 2003, ed E. Prasad et al., Foreign Capital

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del mondo (una esigua minoranza)103 stanno attraversando in questi anni non equivale spesso a livelli di benessere effettivamente più alti per le ex classi rurali, ora trasformate in masse di lavoratori urbani non qualificati, a cui non sono riconosciuti i più elementari diritti e norme di sicurezza sul lavoro. Il neoliberismo non è solo una politica economica; è un’ideologia totalizzante che include considerazioni e valutazioni morali estese al complesso della vita sociale, in base alle quali il libero mercato è identificato con la promozione delle virtù di intraprendenza e di merito; le politiche keynesiane, assistenzialistiche, stimolerebbero nella popolazione un atteggiamento di passività, asservendo i probi e capaci a garantire il sostentamento dei pigri.104 Come ogni ideologia totalizzante, essa si basa su asserzioni radicali, che Mann riassume con l’espressione «fondamentalismo di mercato»: i mercati massimizzano sempre il benessere della popolazione, e il perseguimento del profitto a breve termine degli azionisti assicura la massima efficienza alle imprese.105 Si tratta di un sistema ideologico-politico-economico-militare fondato su una serie di errori teorici:106 - i mercati non si autoregolano, non sono naturali, né possono fare a meno dello Stato: non solo essi richiedono infrastrutture, norme vincolanti, e un contesto di solidarietà normativa di base che non sono in grado di costruire da soli, ma producono effetti caotici e diseguaglianze sociali che solo lo Stato può regolare e mitigare; in assenza del ruolo economico dello Stato, difficilmente il capitalismo si sarebbe potuto imporre come attuale modo di produzione, né sarebbe potuto durare. - Una pura ideologia neoliberale è impraticabile nella realtà: le attuali inefficienze del sistema neoliberista vengono imputate, dai suoi sostenitori, al fatto che ancora oggi non verrebbe permesso al potere dei mercati di dispiegarsi liberamente; la cura alle aporie del neoliberismo, quindi, sarebbe più neoliberismo. Un’ideologia neoliberale «pura», tuttavia, altro non è che un idealtipo: non solo il neoliberismo necessita dello Stato, ma oltretutto, come ogni altro principio ideale, esso deve inserirsi in una realtà in cui operano diversi attori di potere, rispetto ai quali deve scendere a compromessi. Necessità, questa, alla quale peraltro il neoliberismo ha sa-

103 104 105 106

and Economic Growth, in «Brooking Papers on Economic Activity», I (2007), pp. 153-230. Cfr. infra, § 5.7.1. per la distinzione di Mann in zone integrate, sfruttate e ostracizzate. M. Mann, The Sources of Social Power, vol. 4, cit., p. 130 e 156. Ivi, p. 130. Ivi, pp. 130-133.

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puto rispondere, articolandosi in tutte e quattro le fonti del potere:107 come insieme di princìpi ideali; nella forma di élite economiche; mediante élite politiche colluse con le élite economiche; e attraverso la promozione di politiche di sicurezza a «tolleranza zero» nei confronti dei disordini sociali risultanti dall’economia, nonché lo stanziamento di enormi budget per la sicurezza geopolitica contro le «armi dei deboli», di cui parleremo nel prossimo paragrafo.108 - I mercati non sono neutrali rispetto al potere: dare più potere ad essi accresce il potere degli attori sociali che hanno maggiori risorse da impiegarvi, e toglie potere non solo a chi dispone di più scarse risorse di mercato, ma anche alla democrazia politica e sociale. La connessione spesso richiamata dai neoliberali tra economia di mercato e libertà politiche, scrive Mann, è quindi storicamente contingente: uno Stato minimo dominato dal mercato è un rischio per le libertà democratiche.109 Il neoliberismo, subordinando al potere economico tutte le altre fonti del potere, per di più «in un contesto in cui il potere economico si è venuto concentrando nelle mani di pochi»,110 è una minaccia per la democrazia e per la libertà, la quale, lo abbiamo visto, richiede un equilibrio pluralistico tra le quattro forme di potere sociale. Un ordinamento normativamente adeguato contrasta sia con il primato schiacciante di una fonte di potere sulle altre, sia con l’accentramento della maggior parte delle risorse di potere nelle mani di un singolo gruppo sociale. L’ideologia neoliberale sta oggi erodendo gli spazi della democrazia politica, ambisce a porsi a livello culturale ed economico come unico sistema possibile, ed ha forti ramificazioni perfino nel potere militare. Il tutto a vantaggio delle classi dominanti delle nazioni dominanti, che vanno a costituire l’«élite al potere» globale. Nonostante questo, il neoliberismo «non domina il mondo»,111 tanto a causa delle resistenze e dei conflitti che produce, quanto a causa delle sue stesse fragilità e contraddizioni interne. Queste dinamiche sono apparse con grande chiarezza nel corso della recessione del 2008, che, iniziata negli Stati Uniti a partire dalla crisi dei mutui subprime, si è poi diffusa a livello globale: tanto negli USA quanto in Europa, le conseguenze della crisi, che trova le sue origini nella derego107 108 109 110 111

Ivi, p. 131. Ibid. Ivi, p. 132. Ibid. Ivi, p. 356.

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lamentazione finanziaria e nelle operazioni speculative messe in atto dalle banche d’investimento, sono però interamente ricadute sulla popolazione, e in particolare sui settori più vulnerabili di essa. La conseguenza della recessione – scrive Mann – è che specialmente nei Paesi anglofoni e in quelli mediterranei la popolazione più povera ha dovuto pagare, i movimenti operai sembrano finiti, alle classi medie viene chiesto di accontentarsi delle piccole cose, e i soldi di tutti questi cittadini hanno permesso alle élite economiche di diventare ancora più ricche, anche se erano state loro a causare la crisi.112

Molti Stati europei hanno messo in atto dure politiche fiscali e tagli alla spesa pubblica per recuperare la fiducia degli investitori e per ripagare il debito contratto nel salvare le banche dal fallimento: da queste politiche di austerità è conseguito un ulteriore calo dei consumi, l’aumento della disoccupazione, l’impoverimento delle fasce sociali più deboli.113 Lo stesso progetto dell’Unione Europea si è rivelato problematico: esso riunisce insieme economie nazionali con livelli di forza molto differenti, le più potenti delle quali hanno gioco facile nel dettare la linea alle altre. La debolezza dell’Unione Europea è politica, prima ancora che economica: essa è nelle mani delle élite degli Stati-membri economicamente più forti, senza che le decisioni economiche e politiche siano sottoposte a un reale e paritario controllo democratico da parte delle popolazioni di tutti gli Stati membri. L’Unione Europea «è la macroregione mondiale in cui istituzioni multilaterali si sono sviluppate più velocemente, ma alle spalle dei cittadini – e ora se ne vedono le conseguenze».114 Il neoliberalismo, afferma Mann, ha fallito, «ma rimane in auge a causa del suo potere distributivo, in quanto favorisce le classi e le nazioni più potenti, che sono ancora in grado di imporre i propri interessi a gran parte dell’umanità»:115 quella che Mann adotta rispetto all’epoca contemporanea è quindi una visione in cui le élite dominanti (economiche, politiche, e militari, ma unificate da un’ideologia, quella neoliberale, di stampo economico-politico) hanno plasmato le istituzioni secondo i propri interessi, che esse continuano a far valere su una popolazione il cui potere distributivo è 112 Ivi, p. 351. 113 Ivi, p. 349. Cfr. anche P. Krugman, Il ritorno dell’economia della depressione, trad. it. Garzanti, Milano 2001, e M. Mann, D. Riley, Explaining Macro-Regional Trends in Global Income Inequalities,1950-2000, in «Socio-Economic Review», V (2007), pp. 811-815. 114 Cfr. M. Mann, The Sources of Social Power, vol. 4, cit., p. 353. 115 Ivi, p. 356.

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troppo scarso per poter mettere in atto un’effettiva resistenza. Ricordiamo qui le considerazioni che, nel primo volume di The Sources of Social Power, Mann svolgeva rispetto al vantaggio che le élite, in termini di potere distributivo, detengono in virtù della loro stessa posizione:116 esse dispongono di maggiori risorse, di un maggiore controllo sulle istituzioni e di una più chiara visione d’insieme, oltre che di una maggiore facilità di stringere legami e connessioni tra loro, in confronto al resto della popolazione. In tal modo possono più agevolmente realizzare i propri obiettivi comuni rispetto ai soggetti che si trovano in posizioni subordinate; questi ultimi potranno contare su un più alto numero di alleati, tutti, però, almeno in partenza altrettanto disorganizzati, privi di potere e spesso inconsapevoli di quali obiettivi sia il caso di perseguire. Naturalmente, tanto a livello normativo quanto di sviluppo economico, la direzione presa negli ultimi quarant’anni andrebbe invertita: sarebbero necessarie la ri-regolamentazione giuridica del lavoro e delle banche, anche a livello transnazionale, una stringente ed effettiva regolazione del capitale finanziario, come anche riforme in senso redistributivo e di garanzia dei diritti sociali. «Ci vogliono più regole», conclude Mann, «ma arriveranno?».117 Una cosa è sicura: la globalizzazione economica non dà necessariamente luogo a un’armonica integrazione del mondo – essa può anche dividerlo e lacerarlo:118 il neoliberismo globale ha reso più profonde le diseguaglianze di classe e aggrava il divario tra Paesi in via di sviluppo e il cosiddetto Nord del mondo, con quel che ne consegue anche in termini di flussi migratori, accolti con resistenza dalle popolazioni degli Stati verso i quali sono diretti. Nei diversi Stati e nelle diverse zone del mondo, il capitalismo, sebbene ormai esteso a livello quasi globale, ha dato luogo al propagarsi di ideologie diverse, spesso contrapposte; espandendosi su territori già dotati di proprie specificità (in termini di istituzioni politiche, di pregresse forme economiche, di ideologie e di ruolo del potere militare), ha assunto forme regionalmente variate: dal capitalismo neoliberale degli Stati Uniti e dei Paesi anglosassoni, a quello socialdemocratico degli Stati scandinavi, al «capitalismo di Stato» cinese, al «capitalismo clientelare» quasi integralmente fondato su connessioni personali tra uomini d’affari e funzionari pubblici, vigente in molti Stati africani e parzialmente in Russia ed America meridionale, fino ai molti Paesi in cui esso coesiste con forme 116 Cfr. M. Mann, The Sources of Social Power, vol. 1, cit., p. 7. 117 M. Mann, The Sources of Social Power, vol. 4, cit., p. 360. 118 Ivi, p. 357.

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economiche tradizionali quali il baratto. Ragione per cui lo Stato nazionale rimane la necessaria unità di coordinazione del capitalismo, tanto dal punto di vista funzionale quanto da quello normativo:119 non è pertanto vero che la globalizzazione porterà, perlomeno in un arco di tempo su cui sia possibile effettuare previsioni, alla scomparsa degli Stati nazionali o ad una sostanziale erosione del loro ruolo. 5.6. L’impero incoerente: le debolezze del nuovo imperialismo americano Il capitalismo globale, nell’integrare più strettamente le regioni del mondo, spesso acuisce le differenze e le contrapposizioni tra di esse; non solo dal punto di vista del potere economico, ma anche di quello ideologico, del ruolo dei regimi politici e perfino del potere militare. A questa tendenza all’interconnessione e, insieme, alla frammentazione, si somma quella derivante dal potere economico, geopolitico, ideologico e militare dell’«unico impero globale mai esistito»,120 gli Stati Uniti. Gli USA, dopo il collasso dell’Unione Sovietica, sono divenuti la più grande potenza economica e militare mondiale. Il potere economico degli Stati Uniti riposa attualmente, in prima istanza, sul ruolo del dollaro come principale valuta di riserva mondiale; questa prerogativa permette agli USA di godere di condizioni più vantaggiose negli scambi economici e finanziari rispetto agli altri Paesi, nonché di stampare moneta senza vincoli, creando liquidità al bisogno.121 In secondo luogo, gli Stati Uniti, se dal punto di vista del volume della produzione e degli scambi rappresentano solo uno dei tre blocchi economici principali (insieme all’Unione Europea e ai Paesi dell’Asia orientale), sono al contempo la più grande potenza finanziaria mondiale.122 Naturalmente questo comporta anche dei rischi: la riduzione dei profitti dell’economia reale, insieme a un capitalismo finanziario sregolato, è un pericolo per tutto il mondo, come la crisi del 2008 ha dimostrato: essa è dipesa «da un problema strutturale […] derivante dalla supremazia della finanza sul capitalismo produttivo», scrive Mann, «non dalle malefatte di pochi delinquenti».123 119 120 121 122 123

Ivi, p. 327. Ibid. Ivi, p. 269. Cfr. M. Mann, L’impero impotente, cit., pp. 66-67. Ivi, p. 68.

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Ma è anche (e soprattutto) dal punto di vista militare che gli Stati Uniti, a partire dal secondo dopoguerra, hanno fatto valere il proprio potere sul mondo, a scopi geopolitici, economici e ideologici. Durante la guerra fredda, lo abbiamo visto, gli USA dominano su diverse regioni dell’Estremo Oriente, dell’America latina e del Medio Oriente mediante impero indiretto o informale. Da allora la loro ambizione imperialistica non si è esaurita, sebbene abbia in parte mutato i suoi caratteri. Negli ultimi anni, essa sembra procedere con sempre meno razionalità, coerenza e solidità: l’impero americano, afferma Mann, è un «impero incoerente», che si affida alla gigantesca forza d’urto del suo potere militare per condurre guerre di sicura vittoria, volte a produrre cambiamenti di regime nelle sue aree di interesse, a impiantare basi o ad eterodirigere la politica di Stati sovrani.124 Questo imperialismo militarista sta generando nemici pericolosi rispetto ai quali le armi americane poco possono fare, ha gettato intere aree del mondo nel caos – in quanto è capace di ottenere facile vittoria su regimi ostili, ma non di riportare i territori alla pace –, ha rinfocolato conflitti etnici e guerre civili sulle quali non ha il controllo, e danneggia la percezione globale della legittimità ideologica delle azioni degli Stati Uniti, la loro potenza economica, e la loro coerenza politica. L’impero americano è un gigante dai piedi d’argilla, che, nel perseguire una geopolitica dissennata, sta rendendo più fragili le sue basi di potere e rivela ormai la sua vulnerabilità al mondo. Questa tesi viene argomentata da Mann nel testo del 2003 L’impero impotente, in cui egli analizza l’attuale imperialismo statunitense sulla base del modello delle quattro fonti del potere, rivolgendo ad esso una critica non «di ispirazione etica»,125 bensì relativa alla capacità degli USA di perseguire efficacemente le loro stesse finalità.126 Mann fa derivare la nascita del «nuovo imperialismo americano», inaugurato intorno al 2000 dalla destra neoconservatrice americana (e oggi portato avanti dal democratico Obama), da una serie di fattori. Fondamentale è il ruolo delle élite politiche, economiche, militari e religiose:127 con la 124 Ivi, p. 37. 125 Ivi, p. 5. 126 Aspetto, questo, su cui pone l’accento B. S. Turner nella sua recensione a Incoherent Empire, in «The British Journal of Sociology», LV (2004), n. 3, pp. 477-479. «Incoherent Empire non offre alcuna retorica morale o alcun esplicito giudizio di valore, piuttosto sviluppa una dettagliata analisi empirica degli attuali fallimenti delle strategie globali americane e britanniche». 127 Il ruolo che nella sua spiegazione del nuovo imperialismo Mann attribuisce all’azione sociale delle élite è ben notato da B. Mabee nella sua recensione a Incoherent Empire, in «International Affairs», XXC (2004), n. 5, pp. 993-995: 994.

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(contestata) vittoria elettorale di George W. Bush si impone ancora una volta, negli Stati Uniti, una linea politica fondata sull’affermazione globale degli interessi americani mediante interventi militari preventivi e unilaterali. Questo orientamento riscuote il sostegno della maggior parte della popolazione statunitense e, dopo l’11 settembre, viene propagandato sui media come l’unico percorribile. La Revolution in Military Affairs iniziata negli anni ’90 permette, oltretutto, di condurre guerre ad alto coefficiente tecnologico ed a basso rischio per l’esercito statunitense, senza che vi sia quindi la necessità di fare ricorso alla leva militare, la quale costituisce una delle maggiori ragioni di opposizione interna ai conflitti.128 Con le nuove tecnologie, la guerra viene combattuta per mezzo di «armi intelligenti», droni radiocomandati, radar satellitari, veicoli robotizzati; si configura così una «risk transfer war», nella quale l’intero rischio viene spostato sulla popolazione su cui viene sferrato l’attacco – in primo luogo sui combattenti nemici, ma, come tristemente noto, non è raro che le armi «intelligenti» feriscano e uccidano civili. Le élite politiche statunitensi, da parte loro, sono certe di riscuotere consensi mediante il perseguimento di una geopolitica capace di imporre sul mondo il dominio americano senza però fare vittime americane; tale geopolitica risponde peraltro alle loro convinzioni ideologiche, essendo d’altra parte ben vista – e ben finanziata – dalle élite economiche, oltre che, com’è ovvio, esaltata da quelle militari. Il nuovo imperialismo americano ha però anche cause «realistico-istituzionali» alla sua base; non è unicamente dovuto alle azioni di élite orientate da un’idea di politica di potenza: esso, scrive Mann, è «la logica conseguenza del potere illimitato che la politica estera americana ha assaporato dopo il collasso dell’Unione Sovietica».129 Gli Stati Uniti, dopo la fine della guerra fredda, si ritrovano infatti a essere la prima potenza mondiale; forti della loro tradizione militare e di un’economia e un arsenale invincibili, possono finalmente imporre liberamente il proprio potere sul mondo senza rischiare di turbare gli equilibri con l’URSS. Mann spiega quindi il nuovo imperialismo americano, da una parte, in base ad argomentazioni realistiche; esse, in base alla sua prospettiva dello statismo istituzionale, prendono in considerazione tanto gli interessi delle élite quanto il contesto delle istituzioni e degli oggettivi rapporti di potere. Dall’altra, egli si avvicina a un approccio di teoria dell’interdipendenza nell’esaminare anche il ruolo delle ideologie. A determinare il nuovo imperialismo concorrono tendenze ideologiche disparate, le quali convergono però nel garantire appoggio alla 128 M. Mann, L’impero impotente, cit., pp. 33-36. 129 Ivi, p. 15.

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geopolitica militarista: da una parte, vi sono le ideologie di realismo geopolitico sostenute dalle élite politiche conservatrici, da ampia parte delle élite economiche e dai militari. Dall’altra vi è un variegato panorama di legittimazioni morali della guerra:130 a partire dall’idea che il nuovo imperialismo sia una triste necessità volta a garantire la sicurezza degli Stati Uniti, fino alle concezioni di esso quale missione ideale per portare nel mondo pace, libertà e democrazia, passando per la sua rappresentazione come lotta del bene contro il male (visione, quest’ultima, affermata in particolare della destra cristiana ed ebraica, la quale ha un importante ruolo nel sostenere la geopolitica statunitense).131 Non si tratta solo di ciniche dissimulazioni di interessi di potere, sebbene questo aspetto non manchi; queste convinzioni ideologiche sono genuinamente affermate da ampi settori della popolazione e da una parte delle élite. Il nuovo imperialismo si distingue da quello precedente, praticato durante la guerra fredda, da una parte per il suo uso delle nuove tecnologie militari, che rendono possibili «guerre a distanza», e dall’altra per la sua ambizione di porsi in termini morali: la contrapposizione al comunismo sovietico veniva certamente argomentata anche come lotta per la libertà contro la dittatura collettivista, ma non si sarebbe mai pensato di proclamare «guerre umanitarie» volte a salvare da crudeli dittatori popolazioni lontane e il pianeta tutto.132 Questi due caratteri di base del nuovo imperialismo, afferma Mann, sono all’origine delle sue più gravi debolezze e incoerenze dal punto di vista del potere militare. A partire dall’inizio del ventunesimo secolo il potere militare americano è stato «iperattivo»133, tanto in «operazioni punitive» come quella in Afghanistan,134 quanto in guerre volte a rovesciare regimi ostili in zone ad alto interesse economico e geopolitico,135 come l’Iraq e la Libia. Data l’enorme sproporzione di forze, la vittoria militare americana è sempre stata rapida ed è costata poche vittime all’esercito statunitense. I problemi iniziano subito dopo, quando si tratta di ripacificare il territorio. Il tipo di operazioni militari messe in atto dagli Stati Uniti sembrano infatti pensate per stabilire forme di impero territoriale, eventualmente temporaneo: il regime precedente viene rovesciato, il Paese (di 130 131 132 133 134 135

Ivi, pp. 16-17. Ivi, p. 17. Ivi, p. 16. M. Mann, The Sources of Social Power, vol. 4, cit., p. 273. M. Mann, L’impero impotente, cit., p. 198. Cfr. anche M. Mann, Recent American Economic and Military Imperialism: Are They Connected?, in Sociology and Empire, a cura di G. Steinmetz, Duke University Press, Durham (NC) 2009.

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solito già affetto da gravi tensioni etniche e problemi strutturali) entra nel caos, e solo grazie a una consistente forza di occupazione militare che per lungo tempo addestri, istruisca e supporti praticamente un fedele esercito locale, si può assistere ad un cambiamento di regime desinato a durare ed a riportare stabilità nell’area. Eppure, gli Stati Uniti non vogliono impiegare le loro truppe in questo tipo di compito: per esso sarebbero necessarie forze molto più ampie di quelle adoperate in una guerra tecnologica, le quali verrebbero sottoposte a rischi di attentati e sollevazioni ben più consistenti di quelli implicati dal breve conflitto che precede l’occupazione, combattuto «a distanza».136 L’impero territoriale temporaneo è un passaggio necessario, sostiene Mann, per portare ai cambiamenti di regime a cui sono finalizzate le operazioni militari statunitensi, senza con questo far sprofondare il Paese nel caos e rimetterlo potenzialmente, a distanza di pochi anni, nelle mani di nuove forze ostili. Ma gli USA non vogliono questo: le élite politiche sanno che i cittadini americani «non sono disposti a pagare tasse più alte per mantenere un esercito più grande e per avere più bare».137 L’impero statunitense, inoltre, ha una reputazione morale (sebbene ormai molto compromessa) da difendere: stabilire un impero territoriale, che solo con il tempo potrebbe divenire indiretto e poi informale, avrebbe ripercussioni negative sull’opinione pubblica, in quanto rimanderebbe a un’idea di colonialismo ormai invisa.138 L’alternativa, estremamente insoddisfacente, che viene quindi attualmente praticata, consiste nell’imporre con la forza militare il desiderato cambiamento di regime per poi abbandonare il Paese, come se esso già costituisse un impero indiretto o informale, lasciando sul posto, al più, limitati contingenti militari del tutto insufficienti ad arginare il disordine che a quel punto si produce.139 Gli Stati Uniti vogliono un impero, ma non vogliono presentarsi agli occhi del mondo come imperialisti, né vogliono sacrificare le vite dei loro soldati; in questo modo, precipitano intere aree nel caos, rendono vane le conquiste fatte solo pochi anni prima, e creano un ambiente favorevole all’emergere interstiziale di nuove forze militari. Queste ultime possono essere precedenti alleati locali che dopo la vittoria diventano difficilmente controllabili (dedicandosi, ad esempio, alla pulizia etnica contro altre popolazioni, come nel caso dell’Alleanza del nord in Afghanistan e delle 136 137 138 139

M. Mann, L’impero impotente, cit., p. 37. Ivi, p. 30. Ivi, p. 130. Ivi, p. 196.

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milizie croate e albanesi in Jugoslavia e Kosovo),140 oppure forze di opposizione al nuovo regime e alle residue truppe di occupazione,141 o, ancora, movimenti terroristici internazionali.142 I movimenti terroristici, in particolare, trovano nel disordine di un Paese distrutto dalla guerra e poi abbandonato a se stesso un campo fertile per proliferare: hanno dalla loro non solo la scarsità di controlli, ma anche l’odio e il risentimento generati nella popolazione dalla guerra. Le tecnologie militari americane non riescono a eliminare terroristi che si muovono agilmente sul territorio, muniti delle «armi dei deboli» (armamenti tradizionali a bassa tecnologia) ed abili a confondersi tra i civili;143 e ancor meno possono fare quando i terroristi riescono a compiere attentati direttamente sul territorio degli Stati Uniti o di Paesi loro alleati. L’unico modo efficace per combattere il terrorismo è ostacolare la sua capacità di reclutare nuovi soldati e simpatizzanti; e l’unico modo per raggiungere questo obiettivo è che l’impero americano, insieme ai suoi sempre più riluttanti alleati, smetta di agire quale «signore della guerra globale».144 «L’Iraq adesso è sotto a un regime migliore di quello precedente?», si chiede Mann in Power in the 21st Century, continuando: il numero delle morti irachene causate dall’invasione e dall’occupazione americana probabilmente soprassa quello delle vittime fatte da Saddam, e, al momento, si ha anche una maggiore instabilità etnico-religiosa. In Iraq adesso si tengono elezioni, ma si tratta di plebisciti etnico-religiosi che determinano quale gruppo controllerà il Paese. Gli USA non stanno neanche ottenendo maggiori quantità di petrolio o controllando l’estrazione di esso. E, quel che è peggio, l’invasione e l’occupazione hanno aggravato la minaccia terroristica piuttosto che costituire una risposta efficace a essa, proprio come è avvenuto in Afghanistan, un caso ormai palesemente senza speranza.145

Per quanto riguarda il potere economico, gli Stati Uniti si servono della loro supremazia globale per imporre sanzioni a regimi ostili e, attraverso la Banca mondiale e il Fondo monetario internazionale, istituzioni che essi controllano, concedono prestiti a Paesi in via di sviluppo imponendo loro la liberalizzazione dei mercati e «programmi di adeguamento strutturale»; questi programmi, di fatto imposti ai governi locali, «aumentano la disoc-

140 141 142 143 144 145

Cfr. ivi, pp. 41-42. Ivi, p. 308. Ivi, pp. 145-152. Ivi, pp. 64-65. Ivi, p. 65. M. Mann, Power in the 21st Century, cit., p. 33.

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cupazione e allargano il solco tra ricchi e poveri»,146 e, in tal modo, «producono irrequietezza politica e alimentano sentimenti antiamericani».147 Gli USA agiscono quindi nel panorama economico mondiale come un «suggeritore inopportuno»,148 che crea rancori geopolitici e tensioni sociali. Gli aiuti internazionali ammontano solo allo 0,2 % del PIL degli Stati Uniti, e la maggior parte di essi non viene utilizzato per sostenere le economie di Paesi poveri, bensì viene destinato a Israele, ai Paesi dell’ex Unione Sovietica che costituiscono una zona-cuscinetto intorno alla Russia, agli alleati nella regione del Medio Oriente e agli Stati che supportano gli USA nelle varie guerre sparse per il mondo: «in sostanza», conclude Mann, «sono le esigenze strategiche più che quelle dello sviluppo a determinare la logica della distribuzione degli aiuti».149 Non è quindi possibile, neanche dal punto di vista economico, parlare di un imperialismo benevolo: è la convenienza, non la benevolenza, a guidare le azioni degli Stati Uniti, e il divario tra Paesi poveri e nazioni dominanti, per effetto di questo, si allarga. «Non è la povertà che genera il terrorismo», nota Mann, «è l’oppressione».150 Politicamente, gli Stati Uniti oscillano tra un desiderio di compiere le proprie azioni militari sotto l’egida dell’ONU (che garantisce a esse maggiore legittimazione ideologica e fa sì che i costi militari ricadano su più nazioni), e la presa di posizione per l’unilateralità, qualora la multilateralità non sia ottenibile.151 Il che accade sempre più spesso, dal momento che gli obiettivi proposti dagli USA (quali l’attacco all’Iraq) riguardano il perseguimento del programma imperiale statunitense, piuttosto che l’eliminazione di reali minacce all’Europa, rispetto alle quali ottengono anzi l’effetto contrario. I cambiamenti di regime imposti con le armi dagli Stati Uniti danno regolarmente risultati caotici, tanto più che spesso avvengono in Stati contraddistinti da rivalità etniche e religiose; il vecchio regime riusciva a impedire lo scatenarsi di queste ultime, le quali però deflagrano non appena esso viene rovesciato.152 Diversamente rispetto al periodo coloniale ottocentesco, oggi nel mondo sono fortemente diffuse ideologie di appartenenza etnica e nazionale: questo non solo genera disordini là dove il precedente potere venga meno e il nuovo regime non sia imposto con forza 146 147 148 149 150 151 152

M. Mann, L’impero impotente, cit., p. 85. Ivi, p. 95. Ivi, p. 96. Ivi, p. 72. Ivi, p. 103. Ivi, p. 109. Ivi, p. 306.

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sufficiente, ma favorisce anche il sorgere di un’opposizione generalizzata contro l’occupazione statunitense. Opposizione che sempre più spesso, nell’area mediorientale, viene assumendo connotati religiosi oltre che antiimperialisti: l’obiettivo diviene liberare il Paese dall’invasore infedele.153 Più gli Stati Uniti intervengono militarmente nell’area, più offrono reclute e legittimazione ideologica ai movimenti islamici armati. Per finire, anche governare attraverso regimi clientelari non è più facile come in passato:154 in un contesto in cui il potere degli Stati Uniti ha ultimamente mostrato numerose vulnerabilità, e in cui ideologie nazionali spingono i governi ad agire per l’interesse del proprio Stato più che del centro imperiale, non sono mancati alleati o clienti infedeli; lo stesso Israele, da sempre alleato degli USA, compie frequentemente azioni unilaterali che contribuiscono ad aumentare la tensione in una regione già molto tormentata, nuocendo sistematicamente agli interessi americani nell’area. In mancanza di alleati migliori in Medio Oriente, e potendo Israele contare su vari gruppi di potere negli Stati Uniti, gli USA, impero impotente, sono costretti a tollerare.155 Dal punto di vista del potere ideologico, la facciata moralista del nuovo imperialismo mostra ormai vistose crepe, avvertite nel mondo più che negli Stati Uniti, dove, in occasione di ogni nuova guerra, i media promuovono quello che Mann chiama «militarismo sportivo da spettacolo» [spectatorsport militarism]: il pubblico viene incitato a fare il tifo per la propria squadra, senza che ci si renda davvero conto degli orrori della guerra né che si possa avere un resoconto oggettivo del perché essa viene combattuta.156 Il tema delle «minacce alla sicurezza nazionale» viene altresì sfruttato per ingenerare nella popolazione un’adesione superficiale e disinformata alle scelte delle élite politico-militari.157 All’estero il consenso intorno ai simboli e ai valori americani si sta indebolendo; sempre più spesso i crimini e le violazioni dei diritti umani compiute dagli USA sono denunciate e condannate nel resto del mondo.158 Per effetto di questo, gli Stati Uniti «hanno adottato un modello militare quanto ai flussi d’informazione, gerarchico, segreto, censorio»:159 tengono nascoste informazioni rilevanti ai giornalisti, costringono gli inviati in zone di guerra a farsi guidare dai militari nei 153 154 155 156 157 158 159

Ivi, pp. 239-241. Ivi, p. 127. Ivi, pp. 117-123. Ivi, p. 129. Ivi, p. 132. Ivi, pp. 134-135. Ivi, p. 153.

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loro reportage, celano i dati sul numero di caduti civili. Versioni alternative della verità o notizie e conteggi non ufficiali emergono nonostante ogni precauzione, portando l’opinione pubblica mondiale alla diffidenza rispetto alle informazioni sulla guerra provenienti dal governo degli Stati Uniti. Nelle aree direttamente sottoposte all’offensiva americana, l’opposizione all’imperialismo va saldandosi, presso alcuni gruppi, con il fondamentalismo religioso. Come Mann sottolinea nel suo articolo Globalization as Violence, quello del fondamentalismo islamico è un panorama variato: vi sono gruppi che rifiutano la modernità in quanto tale, e un ben più ampio numero di essi che ambisce a forme di modernizzazione, ma in accordo con la religione islamica.160 Nessuno di questi, a differenza di quanto propagandato sui media e come scritto anche nel rapporto elaborato dal National Intelligence Council sotto la guida della CIA, «odia gli Stati Uniti perché gli Stati Uniti sono moderni»: ai terroristi internazionali «per lo più la nostra cultura non interessa. Non odiano la nostra cultura, la nostra democrazia o il nostro benessere; odiano la nostra politica estera».161 Il nuovo imperialismo, conclude quindi Mann, si basa su una «spregiudicata arroganza che […] sfocia nel disastro»:162 l’impero americano si muove incoerentemente tra le quattro fonti del potere, conducendo la propria geopolitica in base a motivi contrapposti e incompatibili; assegna il primato alla forza d’impatto del suo immenso potere militare, ma senza curarsi dei risultati a lungo termine della sua azione; sparge devastazione per il mondo indebolendo di fatto le proprie fondamenta ideologiche, economiche e politiche. «I nuovi imperialisti si basano in misura preponderante su una sola fonte di potere; il potere militare. E, per di più, su una sola forma di potere militare: la potenza di fuoco offensiva»,163 scrive Mann 160 Cfr. M. Mann, Globalization as Violence, saggio inedito, 2001, disponibile sul web all’indirizzo: http://www.sscnet.ucla.edu/soc/faculty/mann/ globasviol%5B1%5D.pdf (ultimo accesso 27-04-2015) 161 M. Mann, L’impero impotente, cit., p. 203. 162 Ivi, p. 314; Mann si contrappone quindi alla tesi dei teorici del sistema-mondo secondo cui gli Stati Uniti avrebbero rilanciato il loro imperialismo per compensare, in termini di potere, il declino economico che li avrebbe colpiti (cfr. I. Wallerstein, Il declino dell’America, trad. it. Feltrinelli, Milano 2004). L’imperialismo, per Mann, deriva non dalla paura della decadenza economica (la quale non è seria come i teorici del sistema-mondo vorrebbero), bensì da un eccesso di fiducia, da parte delle élite statunitensi, nel potere economico, politico, ideologico e soprattutto militare della loro nazione. Cfr. M. Mann, The Sources of Social Power, vol. 4, cit., pp. 310-312. 163 M. Mann, The First Failed Empire of the 21st Century, in «Review of International Studies», XXX (2004), pp. 631-635: 631.

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in un articolo significativamente intitolato The First Failed Empire of the 21st Century: una strategia strumentalmente e normativamente nefasta, in quanto il ruolo preponderante di una sola forma di potere mal si concilia con le esigenze relative alle altre fonti del potere sociale. Il primato del potere militare è foriero di contraddizioni e incoerenze nella geopolitica statunitense. «Per avviarci verso un futuro migliore», scrive Mann, «dovremmo coniugare la funzione di guida dell’America con il rispetto, da parte di essa, del diritto internazionale e delle norme che regolano i conflitti nel mondo»;164 gli Stati Uniti, insieme agli altri Paesi avanzati, dovrebbero intraprendere seri programmi di sviluppo economico internazionale e di conciliazione dei principali conflitti etnici e religiosi; ma, soprattutto, i cittadini americani dovrebbero, mediante il voto, «cacciare dai palazzi del potere il nuovo militarismo».165 Eppure, questa soluzione proposta da Mann sembra vulnerabile a un’obiezione, riferibile, in ultima istanza, al suo élitismo di fondo: se il nuovo imperialismo americano dipende non solo dall’azione delle élite, ma anche da ragioni strutturali (quali la disponibilità da parte degli USA del più avanzato potere militare del mondo, senza un oppositore come l’URSS a imporre limitazioni ad esso), nonché da ideologie ampiamente diffuse non solo tra la classe politica al governo ma anche tra gli elettori, può davvero la rimozione dei vertici neoconservatori essere risolutiva? La vittoria dei democratici nel 2009, sei anni dopo la pubblicazione de L’impero impotente, non ha segnato un sostanziale cambiamento di rotta nella politica estera statunitense.166 Le critiche che in altre occasioni autori diversi hanno rivolto all’approccio élitista di Mann,167 relative alla sua scarsa considerazione dell’azione sociale e delle ideologie di tutti i gruppi che compongono la società, sembrano qui cogliere nel segno; nella conclusione a L’impero impotente, inoltre, egli avrebbe dovuto tenere conto degli aspetti strutturali 164 M. Mann, L’impero impotente, cit., pp. 332. 165 Ivi, p. 334. Non è quindi fondata l’obiezione che C. Craig formula nella sua recensione a Incoherent Empire (in «World Politics», LVII, 2004, n. 1, pp. 143-171) secondo la quale Mann non proporrebbe alternative effettivamente percorribili all’attuale politica estera degli Stati Uniti, e la confronterebbe piuttosto, in maniera anacronistica e con toni velati di nazionalismo, alla politica coloniale della Gran Bretagna dell’‘800. 166 «L’amministrazione Obama ha proseguito sulla strada di politiche neo-conservatrici e imperialistiche. Nonostante la sua retorica più conciliante e il suo bizzarro premio Nobel per la pace, Obama ha rilanciato l’offensiva in Afghanistan […]. Il giovane Bush ha di che essere orgoglioso di lui» (The Sources of Social Power, vol. 4, cit., p. 315). 167 Cfr. infra, § 3.2.3.

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e istituzionali che giustamente ricorda all’inizio di esso, i quali contribuiscono fortemente a influenzare il comportamento delle élite al potere. 5.7. Conclusioni: le quattro fonti del potere sociale, oggi I processi di globalizzazione economica, ideologica, politica e militare analizzati da Mann nel quarto volume di The Sources of Social Power danno luogo a un mondo più interconnesso, ma non per questo più omogeneo e uniforme: esso mantiene, al contrario, una varietà e molteplicità di tratti, dal momento che a intersecarsi reciprocamente e ad entrare in connessione, in forme e modalità differenziate, sono reti di interazione ideologica, economica, politica e militare già dotate di proprie specificità; esse, dunque, reagiscono in maniera differenziata agli stimoli provenienti dalle altre reti con cui, nei processi di globalizzazione, vengono in contatto. La globalizzazione è quindi plurale e polimorfica: non vi è l’emergere di un unico sistema globale dotato di caratteristiche uniformi; la maggiore interconnessione delle reti di potere intersecantesi nelle aree geografiche mondiali dà luogo tanto al propagarsi di forme reciprocamente simili quanto a differenziazioni per opposizione. L’unica caratteristica unitaria della globalizzazione è, per Mann, quella di essere «globale»:168 essa mette in reciproca comunicazione – per quanto con intensità e modalità differenziate – aree del mondo che prima non erano connesse, o lo erano molto meno. Reti multiple di interazione sociale, riferite alle quattro fonti del potere, implicano altresì che esse non saranno tutte, in ogni area geografica, globalmente interconnesse con la stessa intensità: in un singolo territorio, ad esempio, il potere economico potrebbe essere fortemente integrato sul piano globale, ma potrebbe darsi, al contempo, un’integrazione molto più scarsa dal punto di vista ideologico. Questo è il caso della Cina contemporanea, che costituisce una delle maggiori potenze economiche ma la cui cultura è relativamente poco conosciuta e poco influente nel mondo, e la cui forma ideologico-politica rappresenta un unicum a livello globale.169 La globalizzazione, quindi, altro non è che una maggiore integrazione tra le reti di potere sociale relative a determinate aree: per effetto di essa e della loro precedente conformazione, tali reti possono variare le loro caratteristiche, assumendo tratti simili a 168 M. Mann, The Sources of Social Power, vol. 4, cit., p. 3. 169 Ivi, p. 430; cfr. anche L. Weiss, Michael Mann, State Power, and the Two Logics of Globalisation, in «Millennium», XXXIV (2005), n. 2, 529-541: 531.

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quelle con cui ora vengono in contatto o, al contrario, differenziandosene per opposizione. Vediamo cosa questo implichi, in termini generali, dal punto di vista di ognuna delle quattro fonti del potere sociale, sintetizzando gli sviluppi che Mann ripercorre nel quarto volume di The Sources of Social Power. 5.7.1. Il potere economico Oggi assistiamo al trionfo del capitalismo, il quale attualmente costituisce la maggiore rete di interconnessione globale relativa al potere economico: esso, espandendosi a partire dal suo epicentro, che Mann individua negli Stati Uniti,170 è venuto a interessare aree molto diverse tra loro, caratterizzate da differenti assetti delle quattro fonti del potere sociale e da problemi regionalmente specifici, che lo hanno portato a prendere conformazioni geograficamente variate. Ulteriore variazione è dipesa dalle modalità con cui queste diverse aree sono giunte in contatto con il sistema capitalistico. Il capitalismo ha quindi assunto, nelle diverse regioni del globo, forme fortemente differenti: esse, come abbiamo già accennato, includono il neoliberismo che, pur coinvolgendo quasi tutto il mondo, si radica nei Paesi occidentali; il capitalismo di Stato cinese; forme di capitalismo clientelare in Russia, Africa e America latina; intersezioni tra capitalismo e usi economici tradizionali in ampia parte dei Paesi in via di sviluppo. Il capitalismo mondiale, che ha la sua base e i suoi maggiori centri di potere nei Paesi economicamente più sviluppati, si rapporta alle zone del Sud del mondo secondo tre modalità prevalenti: integrandole, sfruttandole oppure ostracizzandole.171 Le zone integrate, che includono le «piccole tigri» del sud-est asiatico (Malesia, Indonesia, Tailandia e Filippine), l’India, il Cile, il Messico e alcuni Paesi dell’Europa orientale (Repubblica Ceca, Polonia e Ungheria), stanno attraversando una rapida crescita economica; molti sono gli investimenti da parte dei Paesi più sviluppati e gli scambi commerciali con l’Europa occidentale e gli Stati Uniti. Si può prevedere, sostiene Mann, che nel giro di relativamente poco tempo queste aree colmeranno il divario economico che le separa dal mondo industrializzato; già dagli ultimi anni la loro crescente potenza economica sta dando luogo a un ordine globale più multilaterale, grazie anche al parziale declino 170 Cfr. M. Mann, Globalization Is (Among Other Things) Trans-National, InterNational and American, in «Science & Society», LXV (2001-2002), n. 4, pp. 464-469: 467. 171 M. Mann, Globalization as Violence, cit., p. 3.

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dell’Europa occidentale e degli Stati Uniti, indeboliti da politiche economiche disfunzionali, di stampo neoliberista, che non favoriscono la crescita, aumentano le tensioni sociali e, come se non bastasse, peggiorano le condizioni delle aree sfruttate e ostracizzate. Le zone sfruttate abbracciano gran parte dei Paesi del Sud del mondo: si tratta di tutti quegli Stati che, ex colonie, sono ora sottoposti all’ingerenza dei Paesi sviluppati, che essa avvenga sotto forma di prestiti della Banca mondiale e del FMI – i quali obbligano questi Stati all’attuazione di programmi di adeguamento strutturale e a varie forme di «accordi ineguali» – o mediante interventi politici e persino militari volti a fare pressione su governi sovrani per l’adozione di politiche che favoriscano gli interessi occidentali. Va riconosciuto al contempo che queste zone, come soprattutto quelle integrate, hanno visto negli ultimi decenni un continuo abbassamento del tasso di mortalità, segno di un miglioramento generale delle condizioni di vita e di salute degli abitanti; questo è il risultato «sia del capitalismo, per effetto del quale la dieta di molte popolazioni si è fatta più abbondante e salutare, che della costruzione, da parte dei governi, di infrastrutture idriche, fognarie, e della creazione di servizi di sanità pubblica».172 Il discorso è ben diverso, tuttavia, per quanto riguarda le zone ostracizzate. Esse sono, da una parte, gli Stati sottoposti a isolamento economico «punitivo» (mediante embargo); e, dall’altra, tutte quelle aree a basso interesse economico, spesso guidate da governi dittatoriali. Esse sono di fatto tagliate fuori da investimenti e commercio internazionale e, a causa della forma del loro regime, ricevono scarsi aiuti allo sviluppo. «L’Africa subsahariana è in pratica esclusa dall’economia internazionale formale (tranne le tre regioni produttrici di greggio) […]. La gente si impoverisce, perde i diritti umani, finisce preda delle malattie e della carestia»173 nella sostanziale indifferenza dei Paesi sviluppati. Tanto lo sfruttamento quanto l’ostracismo economico provocano povertà, che, se risultante da oppressione, può facilmente essere fonte di conflitto e violenza: quest’ultima, quando la distribuzione delle risorse viene ricondotta a basi etniche, trova spesso espressione locale nelle infinite guerre civili che dilaniano le aree più povere del pianeta; ma può anche andare a vantaggio dei movimenti terroristici internazionali e transnazionali. Il capitalismo, seppur globale, non integra quindi uniformemente tutte le aree; esso non è nemmeno omogeneo, anzi assume conformazioni diver172 M. Mann, The Sources of Social Power, cit., vol. 4, p. 410. 173 M. Mann, L’impero impotente, cit., p. 75.

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se in diverse regioni; non apporta unicamente sviluppo e armonia, bensì anche crisi e conflitto; e, per finire, non è solo «globale» o transnazionale: gli Stati nazionali, in particolare, sono ancora le unità fondamentali su cui l’espansione globale del capitalismo riposa. Nel suo articolo Has Globalization Ended the Rise and Rise of the Nation-State?, Mann distingue cinque reti spaziali sulle quali il capitalismo, nell’era delle globalizzazioni, si articola: locale, nazionale, internazionale, transnazionale e globale.174 La dimensione locale mantiene ancor oggi un importante ruolo, dal momento che la maggioranza della produzione mondiale rimane finalizzata a scambi su breve distanza; ma sono soprattutto gli Stati nazionali a «fornire la struttura […] delle reti capitalistiche globali».175 La legislazione economica si riferisce ancora al livello nazionale; le stesse aziende multinazionali sono regolate giuridicamente dagli Stati nazionali; perfino i mercati finanziari, apparentemente quanto di più distaccato da un singolo territorio, sono soggetti a regolarità «burocratiche» su base nazionale (ad esempio l’orario di apertura e di chiusura delle transazioni), mentre queste ultime vengono tassate dagli Stati stessi.176 Anche le organizzazioni economiche che si vorrebbero «globali», come la Banca mondiale, il Fondo monetario internazionale, la Banca centrale europea, il G8 e il G20 sono in realtà organizzazioni internazionali piuttosto che transnazionali, poiché sono dirette, governate e talvolta dominate dagli Stati più potenti sul panorama mondiale, invece di porsi, in quanto organizzazioni, al disopra di essi.177 L’espansione del capitalismo come rete d’integrazione globale o transnazionale si basa dunque su Stati nazionali e su organizzazioni internazionali: le diverse reti necessitano le une delle altre e si sviluppano insieme. Anche i risultati di un capitalismo esteso a livello globale ricadono in gran parte sugli Stati nazionali: i profitti risultanti dagli scambi e dagli investimenti globali contribuiscono al PIL delle singole nazioni, e, mediante la tassazione, vanno ad aumentare il potere infrastrutturale degli Stati, sotto forma di servizi, di welfare, di vie e mezzi di comunicazione, di sostegno alle economie locali. Similmente, lo sviluppo economico di molti Paesi del Sud del mondo, dal quale consegue la costruzione di maggiori infrastrutture e un più marcato intervento statale nella vita dei cittadini, sta rafforzando presso questi ultimi la percezione di una comune identità nazionale, pro174 M. Mann, Has Globalization Ended the Rise and Rise of the Nation-State?, in «Review of International Political Economy», IV (1997), n. 3, pp. 472-496: 475. 175 Ivi, p. 481. 176 Ivi, p. 479. 177 Ivi, p. 480.

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prio com’è avvenuto in Europa nei secoli scorsi.178 Reti locali, nazionali, internazionali, transnazionali e globali si appoggiano le une alle altre e si consolidano a vicenda, senza che sia possibile affermare che, nel futuro prevedibile, il capitalismo globale potrà fare a meno dello Stato nazione. Questo non vuol dire che non si pongano, già oggi, problemi che necessiterebbero di soluzioni globali: uno di essi è il cambiamento climatico mondiale, che Mann identifica, insieme all’offensiva neoliberale ai diritti sociali, come una delle maggiori crisi contemporanee.179 Allo stato attuale, gli accordi per la riduzione delle emissioni hanno carattere internazionale, a partecipazione volontaria, e possono essere implementati e fatti rispettare unicamente dagli Stati nazionali, i quali raramente invertono l’ordine di priorità tra sviluppo economico e tutela dell’ambiente. Possiamo notare a margine che, nel trattare il problema del surriscaldamento globale, Mann compie un’affermazione alquanto sorprendente riguardo una possibile riorganizzazione del suo sistema teorico. Di fronte al fatto che, sulla base di osservazioni scientifiche e di una forte solidarietà collettiva nello sfidare enormi interessi economici, gli scienziati ambientalisti siano riusciti a portare la questione del cambiamento climatico all’attenzione del mondo e dei governi, Mann scrive: «il mio rifiuto di considerare la scienza come una distinta fonte di potere oscilla».180 Se nei volumi precedenti egli aveva ridotto la scienza, a seconda del periodo e delle circostanze considerate, agli interessi economici, politici o militari allora prevalenti, o al potere ideologico, ora egli afferma – mostrando un’apertura alle sollecitazioni giunte in questo senso da Jack A. Goldstone181 – che, nel caso dell’indagine sul cambiamento climatico, il sapere scientifico potrebbe aver funzionato come una fonte di potere sociale a sé stante. In questo modo egli sembra abbandonare la posizione, di carattere élitista, per cui la scienza, lungi dal rappresentare un sapere oggettivo o indipendente, rifletterebbe, almeno a livello di orientamenti e temi generali, gli interessi dominanti nei diversi periodi storici, riferibili agli attori e alle fonti di potere in essi prevalenti. Quella che ha luogo in relazione al tema del cambiamento climatico è comunque, da parte di Mann, una presa di posizione circostanziata, che, da sola, non basta a motivare un’effettiva revisione del sistema teorico delineato in The Sources of Social Power, e che l’autore stesso esprime in toni dubitativi. 178 179 180 181

Ivi, p. 481. M. Mann, The Sources of Social Power, vol. 4, pp. 361-399. Ivi, p. 363. Cfr. J. A. Goldstone, An Historical, Not Comparative, Method, cit., e cfr. infra, § 2.8.1.

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Tornando al capitalismo globale, Mann non concorda con la tesi del «doppio movimento» sviluppata da Polanyi, in base alla quale fasi di espansione capitalistica, coincidenti con un arretramento delle tutele dei lavoratori e della cittadinanza di fronte al mercato, sarebbero seguite da fasi di ri-regolamentazione giuridica di quest’ultimo, che la società metterebbe in atto a scopo autodifensivo. Non vi è alcun ciclo regolare o necessario, per Mann:182 vi è solo una lotta per i diritti senza esito predeterminato, resa ancor più difficile dal fatto che il moderno capitalismo neoliberista va propagandosi su tutto il globo, sottoponendo a sfruttamento non solo ampi settori della popolazione dei Paesi avanzati, ma anche impoverendo ulteriormente molti Paesi del Sud del mondo. Al contempo, la storia ci mostra che è solo autoriformandosi sulla spinta delle tensioni e dei problemi sociali da esso stesso provocati, che il capitalismo non è caduto e si è fatto normativamente più adeguato. Né i sostenitori del potere incontrastato del mercato né Karl Marx hanno quindi visto finora realizzarsi le loro previsioni: il capitalismo ha necessitato di correzione interna, ed è stato capace di modificare parzialmente i suoi tratti. I teorici marxisti del sistema-mondo, tra cui Immanuel Wallerstein, propongono una versione aggiornata della tesi marxiana del crollo del capitalismo: esso esaurirà nel giro di breve tempo i mercati mondiali in cui è disponibile forza-lavoro a basso costo.183 Occorrono circa trent’anni affinché, in un Paese in via di sviluppo, sorgano i primi sindacati e si riescano a ottenere miglioramenti sostanziali nelle retribuzioni e nelle condizioni di lavoro della popolazione; una volta che anche le regioni più povere saranno riuscite a compiere questo cammino, tempo che Mann stima in sessant’anni, ulteriori tattiche di «aggiustamento spaziale» mediante delocalizzazioni non saranno più possibili, e il capitalismo andrà incontro alla sua crisi finale. L’autore di The Sources of Social Power esprime scetticismo rispetto a questa tesi:184 la carenza di lavoro a basso costo potrebbe essere facilmente 182 M. Mann, The Sources of Social Power, vol. 4, cit., p. 410. Egli, in questo modo, si contrappone alla visione elaborata da W. Streeck in Re-Forming Capitalism, Oxford University Press, Oxford 2009. 183 M. Mann, The Sources of Social Power, vol. 4, cit., p. 411. Cfr. I. Wallerstein, Structural Crisis, or Why Capitalists No Longer Find Capitalism Rewarding, in Does Capitalism Have a Future? A Sociological Polemic, a cura di Georgi Derleugian, Yale University Press, New Haven 2012. 184 M. Mann, The Sources of Social Power, vol. 4, cit., pp. 411-412. Su questo tema e più in generale sulla prospettiva di I. Wallerstein, cfr. anche M. Mann, Explaining the World as a System: Can It Be Done?, in «British Journal of Sociology», XLI (2010), Supplement n. 1, pp. 177-182, e The End May be Nigh, But For Whom?, in Does Capitalism Have a Future?, cit.

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compensata non solo dall’aumento della domanda di beni e servizi nei Paesi a recente industrializzazione, che andrebbe a generare un capitalismo globale riformato, ma anche dalla creazione di nuovi mercati mediante lo stimolo a bisogni finora non avvertiti come tali dalla popolazione. Il capitalismo, afferma quindi Mann, non crollerà, almeno non in un arco di tempo rispetto al quale sia ragionevole fare previsioni: ma se le società civili globali sapranno resistere all’odierna offensiva neoliberale lottando per i diritti sociali (e, nel Sud del mondo, anche per quelli civili e politici), il capitalismo assumerà probabilmente tratti meno iniqui.185 5.7.2. Il potere ideologico Per quanto riguarda il potere ideologico, il carattere plurale delle sue manifestazioni transnazionali si evidenzia già tra le due guerre mondiali; problemi della modernizzazione comuni a tutti gli Stati europei provocano infatti, in quel periodo, risposte ideologiche molto diverse tra loro, in gran parte dovute alla pregressa storia istituzionale delle regioni interessate: in Europa nord-occidentale si consolidano le democrazie liberali, mentre in Europa centrale e meridionale prendono il sopravvento le dittature fasciste. Nel mondo, il comunismo inaugurato in Russia nel 1917 va ad espandersi in Cina e in altri Stati, venendo adattato, nella pratica, alle particolarità economiche e sociali di essi. C’è chi, come Francis Fukuyama, afferma che oggi saremmo di fronte a una «fine della storia»:186 il fascismo è stato sconfitto nella seconda guerra mondiale, il socialismo reale è crollato insieme all’URSS, la Cina sta prendendo la strada del capitalismo e della democratizzazione, e quindi la democrazia liberale, diffusa nel mondo dagli Stati Uniti, sembra costituire l’unica ideologia rimanente,187 e, senza più rivali, si affermerà ovunque al pari di un dato naturale. Questa tesi viene nettamente rifiutata da Mann: non solo le ideologie oggi istituzionalizzate nel mondo sono molto numerose e varie; ma inoltre, mentre vecchie ideologie si consolidano, ne sorgono continuamente di nuove; molte di queste recano contenuti universalistici, ma molte altre sono di segno contrario alla democrazia liberale. L’imperialismo militarista, il neoliberismo e i fondamentalismi religiosi armati, ad esempio, costituiscono altrettante negazioni di un’ideologia effettivamente liberale e democratica, e mai come adesso 185 M. Mann, The Sources of Social Power, vol. 4, cit., p. 412. 186 Cfr. F. Fukuyama, La fine della storia e l’ultimo uomo, trad. it. Rizzoli, Milano 1992. 187 M. Mann, The Sources of Social Power, vol. 4, cit., p. 404.

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stanno diffondendosi in diverse regioni del mondo.188 La globalizzazione ideologica integra e, allo stesso tempo, crea divisioni. È proprio l’«impero incoerente» a essere responsabile della diffusione globale di molte nuove ideologie: esso genera interconnessioni tra diverse aree del mondo imponendo rapporti di potere e causando reazioni contrastanti. Vi sono zone favorevolmente conquistate all’ideologia neoliberista o all’egemonia degli Stati Uniti, in quanto incluse in termini di parità (attuale o potenziale) nel sistema globale; e vi sono regioni che vengono integrate nelle reti transnazionali e globali unicamente in termini di sottomissione e sfruttamento, e che, di conseguenza, costituiscono terreno fertile per il sorgere di conflitti locali tra poveri o bacini di reclutamento per movimenti terroristici globali. 5.7.3. Il potere militare L’imperialismo militarista degli Stati Uniti, che genera risentimento e disperazione nelle popolazioni da esso colpite, nutre involontariamente il fondamentalismo islamico. Se, specialmente negli ultimi vent’anni, quest’ultimo è venuto assumendo caratteri transnazionali (mediante la formazione di una sorta di «identità panislamica», per quanto essa non manchi di divisioni interne), altre tensioni e conflitti scoppiano nel mondo in nome dell’identità etnica o nazionale. Guerre di questo tipo possono scaturire dall’opposizione a invasioni o ingerenze «imperialiste», oppure da dispute sulla ripartizione delle risorse in territori percorsi da antiche fratture etniche, associate, come abbiamo visto trattando il potere economico, a un acuirsi della coscienza nazionale risultante da un più ampio intervento dello Stato nella vita dei cittadini: in ambienti multietnici o multireligiosi, l’ideale del “popolo sovrano” viene spesso interpretato come legittimazione del dominio da parte di un gruppo etnico o religioso sugli altri, dominio a cui seguono resistenza, guerra civile e pulizia etnica. […] Questo è un problema essenzialmente moderno, generato dalla diffusione di un principio di “sovranità popolare” in cui “il popolo” viene concepito, allo stesso tempo, come demos e come ethnos».189

Questa sarà la tesi fondamentale dell’opera di Mann che andremo a considerare nel prossimo capitolo, Il lato oscuro della democrazia. Tanto le diverse fazioni che combattono un conflitto etnico o una guerra civile, quanto 188 Ibid. 189 M. Mann, Il lato oscuro della democrazia: alle radici della violenza etnica, trad. it. Università Bocconi Editore, Milano 2005, p. 8.

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i movimenti terroristici, fanno ricorso, per lo più, alle «armi dei deboli»: leggere e facili da trasportare, a bassa tecnologia e a basso costo, esse sono l’antitesi degli «armamenti intelligenti» e degli apparati tecnologici usati dalle grandi potenze militari. Eppure, come dimostrato dalla recente guerra in Afghanistan e dal conflitto in Iraq, le prime possono rivelarsi vantaggiose sulle seconde: «il gigante militare è vulnerabile ai topolini che brulicano sotto i suoi piedi, invisibili e forti delle “armi dei deboli”. […] I terroristi non costituiscono eserciti, ma reti flessibili. Un nemico così amorfo e sfuggente induce alla paranoia; è dappertutto e da nessuna parte».190 I conflitti di tipo etnico o nazionale sono oggi ben più numerosi delle tradizionali guerre tra Stati: le nazioni che compongono la multi-power-actor civilization europea hanno ormai, infatti, dopo secoli di lotte per la definizione dei confini, imparato i vantaggi della diplomazia e trovato un ordine pacifico; ma il diffondersi delle ideologie nazionaliste a livello globale fa sì che queste stesse rivendicazioni siano ora decisive in aree a più recente (ed eterodiretta) determinazione geopolitica, come l’Africa. 5.7.4. Il potere politico L’egemonia degli Stati Uniti dal punto di vista economico, politico, militare e ideologico, che è stata il centro del quarto volume di The Sources of Social Power, andrà lentamente indebolendosi sempre più. È difficile dire chi sarà il successore degli USA, ma probabilmente non si tratterà di un altro impero globale: nel futuro prevedibile, nessuno Stato potrà acquisire un potere tale da sostituirsi, dispiegando il loro stesso attuale livello di forza, agli Stati Uniti. Il prossimo detentore di egemonia sarà probabilmente un consorzio di potenze, costituito dagli stessi Stati Uniti, dall’Unione Europea, la Cina, l’India e il Giappone.191 Gli USA perderanno quindi il centro della scena, ma non scenderanno dal palco. L’era della globalizzazione, dal punto di vista politico, non può prescindere dagli Stati nazionali:192 tanto come basi di appartenenza identitaria, quanto per le loro funzioni di coordinazione, organizzazione, formazione delle decisioni e implementazione di esse.193 A livello politico, la centra190 M. Mann, L’impero impotente, cit., p. 64. 191 M. Mann, The Sources of Social Power, vol. 4, cit., p. 421. 192 Cfr. anche M. Mann, Globalization, Macro-Regions and Nation-States, in Transnationale Geschichte. Themen, Tendenzen, Theorien, a cura di G.-F. Budde et. al., Vandenhoeck & Ruprecht, Göttingen 2006. 193 Cfr. M. Mann, Nation-States in Europe and Other Continents: Diversifying, Developing, Not Dying, in «Daedalus», CXXII, n. 3, pp. 115-140.

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lità e territorialità dello Stato che Mann metteva in luce nel suo testo del 1984 The Autonomous Power of the State è ancora una prerogativa irrinunciabile. Essa è stata sotto molti aspetti rafforzata dalle dinamiche di globalizzazione, piuttosto che indebolita: gli Stati nazionali si trovano ora a prendere decisioni in arene internazionali oltre che sul territorio nazionale; decisioni che vanno poi implementate in quest’ultimo. Anche quello appena ricordato, però, non è un tratto di omogeneità: il fatto che il potere del singolo Stato nazionale aumenti o diminuisca dipende fortemente dalla sua forza in tali organizzazioni internazionali. In esse sono infatti, solitamente, un numero ristretto di Paesi-membri a dettare la linea che anche gli altri devono seguire, a discapito del loro potere di autodeterminazione. La globalizzazione, quindi, non provoca il sistematico declino degli Stati nazionali, bensì una trasformazione di essi che può andare nella direzione di un aumento o di una diminuzione di potere, ma che in ogni caso implica un accrescimento di funzioni.194 Le stesse politiche dell’identità (relative ai rapporti di genere, agli orientamenti sessuali, ai diritti civili per gruppi minoritari), che hanno recentemente preso il ruolo di primo piano che prima era appartenuto alle politiche di classe, con ciò indebolendo ulteriormente la lotta per i diritti sociali di contro all’avanzata neoliberista, rafforzano gli Stati nazionali. Questi ultimi, infatti, costituiscono le basi territoriali di regolazione legale a cui le politiche dell’identità si riferiscono; esse, inoltre, ampliano il raggio di intervento dello Stato in aree, come quella degli orientamenti sessuali, della famiglia, dei rapporti di genere, prima considerate ambiti «privati», da lasciare alla discrezione dei singoli soggetti e, con ciò, agli arbitrari rapporti di potere informalmente vigenti nella società.195 5.7.5. Dialettiche e dinamiche globali L’indebolirsi dell’egemonia statunitense, che verrà probabilmente sostituita da quella di un gruppo di potenze globali, potrebbe essere l’evoluzione futura della dinamica tra imperi e multi-power-actor civilizations che Mann aveva introdotto nel primo libro della serie. In seguito alla caduta dell’impero romano,196 l’Europa medievale e moderna era venuta a carat194 Cfr., a riguardo, anche L. Weiss, Michael Mann, State Power, and the Two Logics of Globalisation, cit., p. 532. 195 M. Mann, Has Globalization Ended the Rise and Rise of the Nation-State?, cit., p. 491. 196 Per i passaggi precedenti, cfr. infra, § 2.9.

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terizzarsi come una multi-power-actor civilization, ma, da questo punto in poi, la dinamica era sembrata interrompersi, o meglio, sdoppiarsi: tra il diciannovesimo e il ventesimo secolo la multi-power-actor civilization europea aveva condiviso la scena con gli imperi di dominio da essa stessa creati, le colonie.197 Una combinazione di centralizzazione e decentralizzazione riflessa, sul territorio europeo, dalla divisione di quest’ultimo, a partire dal periodo tra le due guerre, in due aree differenziate: la prima, nord-occidentale, costituita da democrazie liberali (decentralizzate); la seconda, centrale, meridionale e orientale, formata da regimi centralizzati, di stampo fascista o socialista.198 Con la caduta del fascismo prima, e del socialismo reale poi, è venuta accrescendosi la potenza degli Stati Uniti, che si sono imposti, a partire dal secondo dopoguerra, come unico impero globale. Se la loro posizione egemone verrà in futuro assunta, come sembra, da un insieme di potenze formante una multi-power-actor civilization, potrebbe tornare a riprodursi la dinamica che Mann traccia a partire dalle più antiche civiltà umane. Per una dinamica che potrebbe riprendere, un’altra sembra invece essere sul punto di interrompersi, almeno per quanto riguarda le sue manifestazioni di macrolivello; ci riferiamo alla dialettica di centralizzazione e decentralizzazione che abbiamo visto all’opera più volte nel corso di The Sources of Social Power: le popolazioni periferiche apprendono le tecniche di potere proprie di un’area «centrale» maggiormente civilizzata, e, adattandole alla propria situazione e alle necessità del momento meglio di quanto riesca a fare il centro di potere, ormai irrigidito in istituzioni consolidate, prevalgono alla fine su di esso. La Cina viene oggi universalmente indicata come la potenza emergente che, dalla periferia del sistema economico, andrà nel giro di qualche decennio a soppiantare l’egemone economico mondiale, gli Stati Uniti, da sola o al fianco di altre potenze; essa sembrerebbe rappresentare, a prima vista, un esempio perfetto di dialettica di centralizzazione e decentralizzazione. Eppure, si chiede Mann, esiste ancora una vera «periferia» nel sistema economico globale, da cui civiltà «di confine» possano iniziare il loro sviluppo e giungere, gradualmente, a un potere tale da soppiantare la potenza egemone? Oppure, con l’esclusione delle aree «ostracizzate» e «sfruttate», le quali non potrebbero comunque realizzare, nell’immediato, una crescita tale da porsi come nuovo centro, non rimangono zone che si sottraggano all’interconnessione globale, che non siano cioè già implicate nel capitalismo globale e nella ge197 M. Mann, The Sources of Social Power, vol. 4, cit., p. 426. 198 Ibid.

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opolitica mondiale? Per Mann le cosiddette «aree integrate» non possono, per loro stessa natura, essere le «civiltà di confine» del futuro: la dialettica di centralizzazione e decentralizzazione, per quanto riguarda i processi storici su ampia scala, potrebbe essere giunta alla fine.199 La questione se una delle quattro fonti del potere sociale detenga un primato sulle altre viene introdotta da Mann a partire dal primo volume di The Sources of Social Power; finalmente, in conclusione all’opera, è il momento di tirare le fila: avendo ripercorso l’intera storia dei rapporti di potere a partire dall’antichità, egli può affermare che nessuna fonte di potere esercita un ruolo preminente sulle altre nel condizionare la strutturazione delle interazioni umane. Tutt’al più, può verificarsi un primato temporaneo di una o più fonti di potere limitatamente a periodi storici circoscritti. Nell’arco di tempo considerato nel primo volume di The Sources of Social Power le due fonti di potere sociale dotate di un più forte ruolo nella strutturazione delle società sono il potere militare e quello economico, e, per quanto riguarda l’epoca delle religioni mondiali, il potere ideologico, mentre l’era moderna trattata nel secondo volume si presenta scissa in due fasi differenziate. Dal 1760 al 1815, con la nascita degli Stati mediante le guerre territoriali e l’emergere del capitalismo globale, a ottenere il primato è un intreccio di potere economico e militare; successivamente, fino al 1914, il potere politico, quello militare e quello economico condividono una posizione di primato, essendo questo il periodo della seconda rivoluzione industriale, degli imperi coloniali e dell’aumento delle funzioni civili degli Stati. Infine, nel periodo che dalla fine della prima guerra mondiale conduce ad oggi, il maggior ruolo causale pertiene al potere economico, grazie all’espandersi globale del sistema capitalistico, e a quello politico, rappresentato dalla perdurante rilevanza degli Stati nazionali.200 La modernità si caratterizza per «standard di vita più elevati, prosperità di massa, espansione dei diritti, armi più devastanti, rischio di distruzione del pianeta, più avanzate istituzioni per la cooperazione internazionale».201 Un elenco eterogeneo, in cui bene e male sono intenzionalmente mescolati. Il dinamismo umano è infatti, sostiene Mann nelle pagine conclusive di The Sources of Social Power, intrinsecamente duale: sviluppi desiderabili e passi in avanti si affiancano ad arretramenti, rischi e calamità, tanto a livello normativo quanto relativamente alla stessa autoconservazione della 199 Ivi, p. 427. 200 M. Mann, Power in the 21st Century, cit., pp. 170-171. 201 Ivi, p. 421.

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specie. In questo insieme disomogeneo è possibile però ravvisare una dinamica in base alla quale dai più grandi disastri è sempre scaturito qualche tentativo di migliorare le cose: i provvedimenti economici keynesiani in seguito alla grande depressione; l’istituzione di organizzazioni internazionali dopo la seconda guerra mondiale, tra cui l’Unione Europea, che ha consolidato la pace in Europa; i programmi di disarmo dopo la guerra fredda; le prime mosse, durante la grande recessione del 2008, verso una regolazione più multilaterale del capitalismo globale, specialmente mediante l’attribuzione di un maggiore ruolo al G20, che include tutti e quattro i Paesi BRIC.202

Questa dinamica delineata da Mann sembra implicitamente riprendere la concezione hegeliana del negativo, inteso come momento antitetico che permette di trascendere le contraddizioni dell’esistente, di modo che l’ordine sociale possa essere ricostituito su un piano normativo più alto. Per un sociologo empirico come Mann, tuttavia, la dinamica di positivo e negativo non ha alcuna implicazione di necessità o alcun potere predittivo;203 essa si basa solo sull’osservazione di ciò che è accaduto finora, non vi sono garanzie di validità per il futuro: «non c’è alcuna fine della storia, nessun primato di ultima istanza, nessun progresso lineare necessario; le azioni umane generano costantemente nuovi problemi interstiziali, esiti plurali sono sempre possibili, e gli esseri umani hanno la capacità di fare scelte buone o cattive, per il bene o per il male».204

202 Ivi, p. 423. 203 Cfr. a riguardo anche il già ricordato rifiuto da parte di Mann della tesi del «doppio movimento» elaborata da Polanyi, infra, § 5.7.1. 204 Ivi, p. 432.

6. IL LATO OSCURO DELLA MODERNITÀ: I FASCISMI E LA VIOLENZA ETNICA

In questo capitolo andremo a trattare due volumi, strettamente legati tra loro, che Mann pubblica rispettivamente nel 2004 e nel 2005: Fascists e The Dark Side of Democracy, tradotto in italiano con il titolo Il lato oscuro della democrazia. Entrambi i libri nascono dalle ricerche che Mann intraprende per il terzo volume di The Sources of Social Power: dal momento che il capitolo sui fascismi che avrebbe dovuto trovare posto all’interno di esso assumeva proporzioni sempre più ampie, l’autore decise di svilupparlo, ampliandolo ulteriormente, nella forma di un volume a sé stante, che adesso raccoglie i risultati di uno studio durato sette anni.1 Il testo del 2005 sulla violenza etnica rappresenta la continuazione ideale di Fascists. Non solo la sua parte centrale è dedicata a un’analisi del regime nazista come regime genocida, ma la pulizia etnica viene caratterizzata, in generale, quale fenomeno che trova le sue radici nella riproposizione di determinati elementi fondativi dei movimenti fascisti e, ancor prima, del nazionalismo aggressivo. I fascismi europei e i casi di pulizia etnica succedutisi a partire dal 1900 vengono per lo più, scrive Mann, «collocati sia dalla ricerca scientifica che dalla percezione popolare in compartimenti separati, contraddistinti da teorie differenti, dati differenti, metodi differenti»; eppure, «tutte queste sconcertanti forme di comportamento umano – il fascismo, l’Olocausto, e la pulizia etnica e politica più in generale – condividono una somiglianza di famiglia».2 Fascists e Il lato oscuro della democrazia andrebbero pertanto, spiega Mann, considerati come un unico studio: la loro tesi di fondo è che tanto i fascismi quanto la pulizia etnica sono fenomeni prettamente moderni, che hanno come loro contesto di nascita l’identificazione esclusivista ed essenzialistica delle popolazioni con un territorio nazionale, come anche il desiderio delle masse, sviato su percorsi non democratici, 1 2

M. Mann, Fascists, Cambridge University Press, New York 2004, p. ix. Ibid.

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di salire alla ribalta della storia. Il libro del 2004 ripercorre l’affermazione dei movimenti fascisti in Europa, mentre quello del 2005 tratta i crimini di pulizia etnica compiuti non solo da questi ultimi, ma altresì il genocidio armeno, i massacri in ex-Jugoslavia e il caso ruandese: la finalità di Mann è indagare analogie e differenze tra di essi, fare luce sui motivi di fondo dei perpetratori, ed esaminare se vi siano delle escalation di violenza che, al di là di ogni premeditazione, conducano al genocidio. Entrambi i volumi si servono dell’analisi storico-sociologica basata sul modello delle quattro fonti del potere sociale, e grazie ad essa, non da ultimo, mirano a trarre conclusioni riguardo alla probabilità che i fenomeni analizzati si ripresentino o continuino nel presente, e alle misure da prendere per scongiurare questa possibilità. 6.1. Una sociologia dei movimenti fascisti In Fascists Mann analizza l’ascesa al potere, tra le due guerre mondiali, dei movimenti fascisti italiano, tedesco, austriaco, ungherese, romeno e spagnolo, ripercorrendo dettagliatamente ogni singolo caso nazionale, ma anche, in chiave comparativa, individuando le similarità e i parallelismi tra di essi. Tutti questi movimenti, nonostante presentino aspetti di unicità, possono secondo Mann essere accomunati sotto una singola definizione di «fascismo»: esso consiste in una «forma di nazionalismo statalista che mira a un cambiamento sociale radicale e “purificante”, da ottenersi mediante il ricorso al militarismo e al paramilitarismo».3 L’obiettivo di Fascists è quello di conoscere da vicino i fascisti: chi erano, da quali strati sociali e regioni provenivano, quali erano le loro motivazioni, come sono saliti al potere. L’atteggiamento dello studioso, afferma Mann, deve essere quello di «prendere sul serio i fascisti»:4 nelle interpretazioni prevalenti del fenomeno, gli attivisti e i sostenitori dei movimenti fascisti sono dipinti, per la maggior parte, come persone facilmente manipolabili, con visioni semplicistiche della politica e della società, o come soggetti marginalizzati e 3 4

Ivi, p. 13. Nel giungere alla sua definizione, Mann accoglie selettivamente elementi da quelle presentate dai maggiori storici e sociologi del fascismo: S. Payne, J. Linz, R. Eatwell, R. Griffin, G. Mosse e A. J. Gregor (cfr. ivi, pp. 5-13). Ivi, p. 1. Su questo punto Mann si pone in esplicita consonanza con quanto affermato da G. Mosse in Il fascismo. Verso una teoria generale, trad. it. Laterza, Bari 1996, e Z. Sternhell, che in Né destra né sinistra (trad. it. Akropolis, Napoli 1984) afferma che il fascismo aveva «un corpo dottrinario non meno solido o logicamente difendibile di quello di ogni altro movimento politico».

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risentiti, o ancora come «tipi psicologici» affetti da sadismo o semiautomi pronti a conformarsi acriticamente all’autorità. Analogamente ad ogni altro caso di movimento di massa, persone di questo genere avranno sicuramente fatto parte anche dei gruppi fascisti; ma in nessun modo ne costituivano una porzione particolarmente significativa. Il fascismo, sostiene Mann, fu un movimento capace di offrire risposte plausibili ai problemi della modernità che caratterizzavano l’Europa tra le due guerre; esso riuscì a fare appello sia alla parte razionale che a quella emotiva di due generazioni, conquistando un sostegno che oltrepassava le barriere di classe, di cultura e di istruzione, e che veniva per la maggior parte da persone «ordinarie», ben inserite nella società.5 Mann, nella sua indagine, si muove su tre principali assi metodologici: un’analisi qualitativa delle motivazioni, convinzioni e situazioni sociali di singoli appartenenti ai movimenti e partiti fascisti; l’esame di tipo quantitativo dei principali bacini di sostegno di tali forze politiche; e lo studio delle loro forme di strutturazione ed organizzazione, considerato in rapporto ai tipi di gratificazione e di rinforzo identitario che esse erano in grado di offrire ai loro appartenenti. In Fascists Mann potenzia quindi la sua attenzione verso l’azione sociale e le motivazioni individuali, senza però trascurare, al contempo, l’aspetto strutturale e organizzativo. Egli intende così, ancora una volta, compenetrare idealismo e materialismo:6 se le teorie dei fascismi che si basano sul primo approccio si concentrano soprattutto sulle ideologie dei movimenti fascisti e sulle credenze dei loro sostenitori, dando scarsa considerazione all’organizzazione di tali gruppi e alle basi di classe dei loro membri, le teorie materialiste mettono a fuoco in prima istanza questi ultimi aspetti, lasciando in ombra, o svalutando quale copertura ideologica, i princìpi ideali attorno ai quali i fascisti si raccoglievano. Entrambe le dimensioni hanno importanza per Mann, e non solo: in base al modello delle quattro fonti del potere sociale, anche il potere politico e quello militare sono fondamentali nel determinare una spiegazione non riduzionistica dei movimenti fascisti. «Prendere seriamente i fascisti» significa, in prima istanza, sgombrare il campo da interpretazioni che, nella cultura accademica o popolare, di5

6

M. Mann, Fascists, cit., p. 3. Questa impostazione dell’opera di Mann è efficacemente riassunta da Peter Baher nella sua recensione al volume (in «Critical Review of International Social and Political Philosophy», X, 2007, n. 1, p. 100): «rifuggire da interpretazioni caricaturizzanti, guardare il mondo come le persone direttamente implicate potevano vederlo, ricostruire le esperienze e le istituzioni che resero la loro condotta plausibile, e, dal loro punto di vista, morale». Ivi, pp. 4-5.

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pingono i movimenti fascisti come manifestazioni di un’improvvisa follia collettiva, del ritorno di sentimenti e pulsioni primitive, o come il risultato dell’ignoranza e della manipolabilità delle masse. Queste interpretazioni sortiscono l’effetto di allontanare, idealmente ancor prima che temporalmente, l’era dei totalitarismi dal nostro presente, che viene concepito come epoca della razionalità e della democrazia. Spiegazioni di questo tipo possono riuscire confortanti agli occhi della contemporaneità, ma sono inesatte; nel mancare di comprendere gli elementi di plausibilità su cui i fascismi potevano contare, esse non sono in grado di giungere a una precisa comprensione storica del fenomeno né di valutare correttamente il rischio che quest’ultimo si riproponga, eventualmente in forme variate, nel presente.7 Una delle più comuni interpretazioni che «non prendono sul serio i fascismi» è quella che vede l’emergere di essi come la manifestazione di un’improvvisa ondata di follia collettiva che si sarebbe impadronita di molti Paesi occidentali.8 Niente di meno vero. La difficile situazione economica lasciata dalla prima guerra mondiale aveva determinato un forte aumento del conflitto di classe, come anche della paura, da parte delle classi medie e proprietarie, di una rivoluzione socialista. Il capitalismo transnazionale, al contempo, dopo la grande depressione e le crisi intermittenti degli anni successivi, si poneva agli occhi della maggioranza della popolazione come foriero di instabilità e di sfruttamento delle nazioni economicamente più deboli da parte di quelle più forti, le quali, essendo uscite vincitrici dalla guerra, avevano imposto alle prime il pagamento di gravosi risarcimenti. I movimenti fascisti, con la loro impostazione statalista, nazionalista e autoritaria, si presentavano come la risposta a questo nesso di problemi: avrebbero garantito la difesa della proprietà, dell’ordine e della sicurezza, reprimendo il conflitto di classe per la gioia di quei settori di popolazione che, non direttamente implicati in esso, lo vedevano come fattore di instabilità e di pericolo.9 Vi sarebbero riusciti, promettevano, applicando il pugno di ferro contro socialisti e movimenti operai, e, allo stesso tempo, depotenziando il capitale finanziario e transnazionale che, diretto dalle potenze straniere, «nazioni borghesi», era reo di sfruttare le «nazioni proletarie».10 Il conflitto di classe sarebbe stato quindi spazzato via dal piano nazionale e sostituito da un consociativismo autoritario a direzione statalista, «oltre

7 8 9 10

Ivi, p. 4. Cfr. ad es. E. Todd, Le fou et le proletaire, cit. M. Mann, Fascists, cit., pp. 63-64. Ivi, p. 74.

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destra e sinistra»:11 lo Stato avrebbe fermamente amministrato e orientato gli interessi che si contrapponevano nella società.12 Capitale e lavoro sarebbero tornati in armonia, per il bene delle classi produttive, che, contrapposte a quelle improduttive (capitale finanziario, socialisti, comunisti, nemici interni «alleati» delle potenze straniere), avrebbero reso grande la potenza economica della nazione. Quest’ultima veniva concepita quindi come un’unità organicista che doveva superare le sue divisioni interne per tornare a essere grande. La democrazia si palesava come un regime inadatto a questo scopo, privo di nerbo, incapace di liberare il campo dai conflitti e dalle deviazioni dalla morale, in quanto orientato a una «decadente» tolleranza verso di essi.13 Una nazione forte e coesa, saldamente unita intorno ai propri princìpi morali, poteva risultare solo dalla comunità, intesa come omogenea e priva di differenze ideologiche, e non dalla competizione sul mercato o alle urne. La lotta di classe, dal piano nazionale, si sarebbe trasferita su quello internazionale, come rivalsa delle «nazioni proletarie» e dei «lavoratori di ogni classe» contro le «classi improduttive» (capitale finanziario, oppositori politici, minoranze) e le «nazioni sfruttatrici». Dal punto di vista politico, le stesse élite politiche conservatrici che detenevano il potere prima dell’ascesa dei fascismi erano scarsamente socializzate ai princìpi democratici, pur essendo state elette in base a questi ultimi. Grande peso, tra di esse, avevano in quel periodo le idee di Carl Schmitt:14 l’ampliamento del suffragio aveva fatto sì che i parlamentari non fossero più liberi, come in precedenza, di prendere posizione sui temi oggetto di discussione senza essere sottoposti a pressioni dal basso, nella forma dei voti che avrebbero potuto essere loro dati o negati alla successiva tornata elettorale. In tal modo, lo Stato non poteva più porsi come il difensore di quello che le élite, ideologicamente, ritenevano essere un equo compromesso tra le classi: ora esso era soggetto, nelle sue scelte, al prevalere dei partiti politici che le masse incompetenti avrebbero votato. Vi era quindi, secondo le élite conservatrici, la necessità di ripristinare un ordine 11

12 13 14

Nella loro prassi, la maggior parte dei regimi fascisti (con l’eccezione di quello ungherese e di quello romeno) si rivelarono però orientati verso quella che tradizionalmente viene considerata la destra, mediante politiche fortemente anticomuniste, strategie socialmente conservatrici e compromessi con le classi capitalistiche. Cfr. ivi, p. 15. Ivi, p. 6. Ivi, p. 7. Aspetto, questo, enfatizzato da O’Sullivan, Fascism, Dent, London 1983. M. Mann, Fascists, cit., p. 75. C. Schmitt, La condizione storico-spirituale dell’odierno parlamentarismo, trad. it. Giappichelli, Napoli 2004, e Id., Le categorie del «politico», trad. it. Il Mulino, Bologna 1998.

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che, fatto applicare da uno Stato inteso come al disopra della divisioni politiche e sociali, scongiurasse per sempre il rischio di un’avanzata delle sinistre e di una possibile rivoluzione. Le élite al governo nelle più giovani democrazie, in larga misura, non erano democratiche. Non molto diverse erano, però, le convinzioni di gran parte della popolazione, a prescindere dalla classe sociale di appartenenza: la democrazia si associava, nella loro esperienza, a crisi economiche che i governi non erano riusciti a gestire adeguatamente, all’aumento del conflitto sociale, e al diffuso clima di incertezza ideologica che, avente le sue reali ragioni nel combinarsi di crisi relative a tutte e quattro le fonti del potere, i cittadini attribuivano all’eccessiva liberalità del regime democratico.15 A tutto questo si sommavano fattori militari: la prima guerra mondiale aveva portato alla determinazione di nuovi confini, svantaggiosa per i perdenti e non del tutto soddisfacente nemmeno per alcuni vincitori (si pensi alla «vittoria mutilata» di dannunziana memoria); i movimenti di popolazione derivanti da questa riorganizzazione geopolitica avevano accresciuto l’instabilità e le difficoltà degli Stati, in particolare nelle zone di confine, mentre la guerra aveva lasciato dietro di sé milioni di veterani che faticavano a reinserirsi nella società civile e provavano nostalgia per il cameratismo, per i valori e i rituali militari (forme di caging in piena regola) che avevano esperito durante il conflitto.16 La guerra aveva inoltre contribuito a esasperare il nazionalismo delle popolazioni, ulteriormente acuito, nel caso tedesco, da condizioni di pace gravose e percepite come punitive. Di fronte a tutto questo, i fascismi si proponevano come difensori e promotori di un nazionalismo organicista che trovava ampia risonanza tra i cittadini: dal punto di vista ideologico, esso si basava sull’idea che ogni popolo avesse un carattere nazionale, uno spirito, un’anima profondamente distinta da quella delle altre nazioni;17 da questo veniva fatto derivare il diritto di ogni popolo ad avere uno Stato che fosse espressione di tale carattere nazionale e che si estendesse fin dove vi erano membri della medesima nazione; come anche la legittimità ad escludere dallo Stato minoranze con caratteri diversi o non conformi allo spirito nazionale, le quali avrebbero altrimenti indebolito la coesione della comunità.18 Politicamente, lo Stato, 15 16 17 18

M. Mann, Fascists, cit., p. 79. Ivi, pp. 67-69. Cfr. P. Brooker, The Faces of Fraternalism, Clarendon, Oxford 1991. M. Mann, Fascists, cit., p. 34. Ivi, p. 35.

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mediante la sua élite di partito, doveva porsi a guida del benessere della nazione; una nazione armonica e coesa, la quale, libera da «parassiti» e «nemici interni», avrebbe finalmente ritrovato il posto che le competeva a livello internazionale: non solo nella concorrenza con gli altri Stati, ma anche mediante l’espansione territoriale sul suolo europeo, al fine di ricongiungere le sue minoranze disperse, o attraverso la conquista di imperi coloniali. I movimenti fascisti promuovevano, presso i loro militanti, una visione della politica come attivismo illimitato, cameratesco, orientato a princìpi morali assoluti e ad una concezione eroica della propria azione.19 Tutto questo trovava facile risonanza non solo presso molti veterani, ma anche tra giovani di tutte le classi alla ricerca di appartenenza, di status, di aggregazione in base a ideali. I movimenti fascisti, prima attraverso i corpi paramilitari e poi, una volta raggiunto il potere, mediante la loro penetrazione capillare nelle istituzioni della società civile e le manifestazioni di massa, davano potenzialmente modo a ogni soggetto di sentirsi protagonista della società e del momento storico. Le masse, ora condotte alla ribalta, recitavano copioni scritti da altri; ciononostante, da parte del singolo, la percezione di una comunione di ideali e di azioni in seno a una società priva di divisioni era fortissima. Il fascismo quindi, scrive Mann discostandosi dalle interpretazioni di esso come movimento antimoderno, si faceva portatore di una visione della modernità alternativa a quella liberale e democratica: richiamandosi agli ideali di nazionalismo e statalismo che, proprio come liberalismo e democrazia, sono un portato della modernità, rispondeva al bisogno di partecipazione delle masse integrandole in un’organizzazione intensiva e dalle forti implicazioni emotive.20 Comune a ogni movimento fascista era l’idea di una «risacralizzazione dello Stato»21 mediante la rievocazione di antiche origini nazionali, ad esempio mediante l’istituzionalizzazione di ricorrenze e rituali, come anche la riscoperta di antichi miti e leggende che esemplificassero lo spirito nazionale del popolo: ma non di antimodernità si trattava, bensì di un utilizzo di riferimenti premoderni in favore di obiettivi e finalità spiccatamente moderne. Dal punto di vista ideologico, i movimenti fascisti non si basavano su una teoria sistematica, come il marxismo per i comunisti; la loro era una visione del mondo più generale, ma ben chiara quanto alla sua 19 20 21

Ivi, p. 8. Ivi, pp. 11-12. Ivi, p. 79. Cfr. E. Gentile, Il culto del littorio, Laterza, Roma-Bari 2009, e J. Herf, Il modernismo reazionario, trad. it. Il Mulino, Bologna 1988.

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impostazione nazional-statalista di fondo e ai princìpi che la ispiravano.22 Vi erano naturalmente delle differenze nazionali, in primo luogo nel carattere maggiormente etnico e nazionalista del movimento tedesco rispetto a quello più statalista e meno etnicamente connotato di quello italiano;23 la «somiglianza di famiglia» era comunque notevole. Con l’imporsi di partiti e movimenti fascisti o autoritari in Italia, Germania, Austria, Ungheria, Romania e Spagna, l’Europa si ritrova divisa in due: i Paesi dell’Europa nord-occidentale reagiscono alle crisi economiche, politiche, ideologiche e militari che colpiscono le loro società consolidando e rendendo più inclusivi i regimi democratici già vigenti; in Europa centrale, meridionale e orientale prendono invece piede i fascismi. La ragione di questa scissione è presto detta per Mann, il quale non ritiene dimostrate le tesi che attribuiscono lo sviluppo totalitario di alcuni Paesi a particolari «caratteri nazionali» o a forme di eccezionalismo:24 in questi Paesi vi erano i regimi democratici più recenti, meno consolidati; i loro leader conservatori, scarsamente socializzati ai valori democratici, danno appoggio ai fascisti per proteggersi dalle crisi che investono il loro Paese, pensando poi di riuscire facilmente a controllarli; mentre le popolazioni nazionali, da parte loro, guardavano alla democrazia con diffidenza, quando non con ostilità, imputando a essa le difficoltà e le instabilità del presente. 6.2. Prendere i fascisti sul serio: chi erano, e perché? A livello generale, l’imporsi dei movimenti fascisti in Europa non è quindi attribuibile a una sorta di follia collettiva, né alle scelte irrazionali di masse politicamente semianalfabete, dalla testa piena di slogan e idee confuse: i fascisti proponevano soluzioni dotate di plausibilità alle crisi del presente, oltre a porsi in linea con valori (come il nazionalismo, lo statalismo e il principio d’autorità) che, nell’Europa tra le due guerre, godevano di rispetto e approvazione quasi universale ed erano ben radicati nella vita quotidiana dei soggetti. L’ideologia fascista non era confusa né contraddi-

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M. Mann, Fascists, cit., p. 10. Cfr. G. Mosse, The Fascist Revolution, cit., e K. D. Bracher, La dittatura tedesca, trad. it. Il Mulino, Bologna 1983. M. Mann, Fascists, cit., p. 43. Sostenitori di queste tesi sono K. Newman, European Democracy between the Wars, Allen & Unwin, London 1970, e I. Berend, Decades of Crisis: Central and Eastern Europe before World War II, University of California Press, Los Angeles 1998.

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toria, come spesso è stato affermato;25 al pari di ogni movimento di massa, anche il fascismo, nei diversi Paesi in cui si impose, poteva contare sul sostegno di persone attratte da esso per motivi vaghi e indeterminati; le ragioni che motivavano la maggioranza dei suoi sostenitori, tuttavia, erano chiare e da questi ben comprese.26 Lo stesso antisemitismo, oggi considerato come il tratto più folle e disumano di tali regimi, era una caratteristica ordinaria della società europea tra le due guerre.27 Nel periodo della loro ascesa, per di più, i nazisti non insistettero sull’estremismo antisemita come mezzo di propaganda politica, ben consapevoli che esso avrebbe fatto perdere loro voti: l’antisemitismo che essi inizialmente mostravano non era dissimile da quello diffuso in ampia parte della popolazione, non solo in Germania. Inoltre, come vedremo trattando Il lato oscuro della democrazia, esso veniva razionalizzato tramite l’argomentazione, fondata sugli ideali del nazionalismo organicista e sul progetto di un’espansione territoriale della Germania verso est, che gli ebrei, fossero anche stati ancor meno numerosi (contavano solo lo 0,7 % della popolazione tedesca), costituivano pur sempre un «corpo estraneo» all’interno della nazione e un possibile alleato della Russia bolscevica. «La politica», scrive Mann, «spesso non ha a che fare con la verità, ma con la risonanza minimamente plausibile di determinati programmi con le convinzioni di massa»:28 i tedeschi che all’inizio degli anni ’30 dettero il loro sostegno al partito nazionalsocialista erano, per la maggior parte, cittadini europei normalmente nazionalisti, statalisti e antisemiti, portati da tali diffuse ideologie ad associare gli ebrei alternativamente con il capitale finanziario e usurario o con il bolscevismo. Oltre alla concezione liquidatoria dei fascisti e dei loro sostenitori come vittime di un’inspiegabile follia collettiva, vi è quella che fa derivare l’ascesa dei movimenti fascisti pressoché unicamente dal sostegno delle classi medie:29 esse, spinte dalla paura del declassamento sociale, che si faceva più reale a ogni nuova crisi economica, dai timori derivanti da un aumento del conflitto di classe e da valori tradizionali di ordine, disciplina e rispet25 26 27 28 29

M. Mann, Fascists, cit., p. 83. Cfr. anche A. J. Gregor, L’ideologia del fascismo, trad. it. Il Borghese, Milano 1974. Ivi, p. 146. Ivi, p. 33. Ivi, p. 141. Ivi, pp. 18-20. Cfr. F. L. Carsten, La genesi del fascismo, cit.; S. M. Lipset, L’uomo e la politica, trad. it. Edizioni di Comunità, Milano 1963; K. D. Bracher, La dittatura tedesca, cit.; M. Kater, The Nazi Party, Harvard University Press, Cambridge (MA) 1975.

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to delle gerarchie, avrebbero costituito la maggiore base di supporto dei movimenti fascisti europei. In Fascists Mann svolge un’accurata analisi quantitativa dei bacini di sostegno di questi ultimi, volta a determinare la classe sociale, la regione, la religione e il contesto di vita di militanti, votanti e simpatizzanti. Essa viene arricchita inoltre da un esame qualitativo, basato su risposte a questionari di partito, verbali di processi e interviste, delle motivazioni che, a detta dei soggetti stessi, erano state cruciali nel farli schierare a fianco dei fascisti. Da questa indagine emerge che, in tutti i Paesi in cui vanno a imporsi regimi fascisti, tanto gli attivisti quanto i sostenitori più convinti provenivano da tutte le classi sociali, senza che la borghesia o la piccola borghesia avessero un ruolo sostanzialmente preminente. Sovrarappresentati, sia tra gli attivisti che tra i sostenitori, erano alcuni settori della classe lavoratrice: non gli operai industriali generici del settore privato, i quali erano per la maggior parte di radicate convinzioni socialiste data l’ampia penetrazione sindacale nel loro ambito, quanto i lavoratori non qualificati del settore pubblico e quelli specializzati (l’«aristocrazia della classe lavoratrice», tendenzialmente meno implicata nel conflitto capitale-lavoro).30 Essi vedevano nell’idea di un’«unione delle classi produttive» per il bene della nazione una nuova considerazione positiva del loro status, non più come classi subordinate, bensì come motore e cuore pulsante della nuova gloria nazionale. A determinare l’adesione dei lavoratori del settore pubblico ai movimenti fascisti intervenivano altresì consolidate convinzioni di tipo statalista: come le classi medie operanti nelle istituzioni statali (insegnanti, professori, impiegati), questi lavoratori erano stati lungamente socializzati a concepire lo Stato, dal quale derivavano il loro sostentamento, quale centro ordinatore della società. Era lo Stato, nelle loro convinzioni politico-ideologiche, che avrebbe dovuto disporre delle forze necessarie per riportare nei ranghi il conflitto di classe e operare per la ripresa nazionale, oltre che arginare la disunione e il licenzioso pluralismo di valori che la democrazia sembrava esasperare. Nel caso italiano, specifica Mann, gli appartenenti a borghesia e piccola borghesia erano effettivamente presenti tra attivisti e sostenitori in percentuali più alte di quelle tedesche:31 egli fa derivare questa specificità nazionale dall’ideologia maggiormente consociativista del fascismo italiano rispetto al nazismo tedesco, la quale meglio si adattava al tradizionale moderatismo di queste classi. Se il nazismo hitleriano prospettava l’ideale di 30 31

M. Mann, Fascists, cit., pp. 158-159. Ivi, p. 216.

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una nazione organicista da ottenersi mediante la repressione violenta delle differenze, il fascismo, pur non mancando di tratti repressivi, mirava piuttosto a inglobare i gruppi e le fazioni anche solo minimamente compatibili con esso attraverso l’apparato di uno Stato che Mann definisce «pluralista senza libertà»:32 Mussolini accordava alternativamente concessioni alle diverse anime dello Stato-partito e della società civile, tendendo in pugno con fermezza i diversi gruppi d’interesse ma al contempo assicurandosene il favore. Il compromesso istituzionalizzato vigente nelle democrazie liberali mediante il meccanismo elettorale era sostituito da un divide et impera a porte chiuse, di carattere autoritario, che non mancava però di garantire al regime il consenso delle principali componenti della società e, in particolare, delle classi tradizionalmente più moderate; questo avveniva nonostante il fatto che il trattamento riservato dallo Stato-partito alle minoranze che esso non intendeva tollerare fosse tutt’altro che moderato. Sottorappresentati, in tutti i movimenti fascisti, erano i capitalisti industriali, i grandi proprietari terrieri e i lavoratori agricoli: ossia, insieme al proletariato industriale del settore privato, gli appartenenti a tutti quegli ambiti direttamente coinvolti nel conflitto di classe, e desiderosi quindi non tanto di trascenderlo in chiave statalista, quanto di risolverlo in proprio favore. Per i capitalisti giocava un ruolo importante anche l’ideologia transnazionalista e l’interesse economico ai commerci internazionali, che, era chiaro, non avrebbe avuto vita facile sotto il fascismo. Questo dato smentisce le «teorie di classe del fascismo» avanzate da autori come Poulantzas e Hobsbawm: in base ad esse, i partiti fascisti non sarebbero stati altro che gli alleati o le pedine delle classi capitalistiche, le quali, nel periodo tra le due guerre, necessitavano di uno Stato autoritario per proteggersi dall’ascesa delle sinistre.33 Altro bacino di supporto fondamentale erano i giovani di tutti gli strati sociali. Attirati dall’ideologia «eroica», dalle connotazioni identitarie e cameratesche delle organizzazioni fasciste, dalla penetrazione di esse nei loro ambienti di riferimento (scuole, università, tempo libero), erano ben felici di assaporare la libertà dal nucleo famigliare e lo spirito di gruppo che da queste promanava,34 rendendosi così soggetti ideali per il caging. Insieme ai giovani, militari e veterani costituivano il nerbo dei gruppi paramilitari fascisti, poiché, in questi ultimi, essi potevano ritrovare i valori e il senso 32 33 34

Ivi, p. 135. Ivi, p. 20. N. Poulantzas, Fascismo e dittatura, trad. it. Jaca Book, Milano 1974; E. Hobsbawn, L’età degli estremi, cit. M. Mann, Fascists, cit., p. 87, pp. 147-148.

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di appartenenza che non riuscivano a recuperare nella società civile. Con lo strutturarsi in senso carrieristico di tali organizzazioni, anche considerazioni economiche e di status giocarono la loro parte nel mantenere queste persone strettamente legate ai gruppi paramilitari di appartenenza, in un contesto di complicità cameratesca in cui scrupoli morali individuali che si discostassero dall’orientamento generale avevano sempre meno peso. Tutte le classi, quindi, con l’eccezione dei settori più direttamente coinvolti nel conflitto capitale-lavoro, erano pressoché parimenti rappresentate, per ragioni politiche, economiche, ideologiche o militari. Ma le classi sociali non sono l’unico asse, sostiene Mann discostandosi dalle interpretazioni prevalenti dei movimenti fascisti, lungo il quale la partecipazione a essi vada indagata. Non solo l’età, ma anche regione e religione erano variabili importanti. Molto forte era il sostegno che movimenti e partiti fascisti ottenevano nelle zone di confine minacciate, nelle aree di frontiera dove la nazionalità maggioritaria nel resto dello Stato si trovava in minoranza, e nelle regioni che erano state interessate, con il riassestamento dei confini successivo alla guerra, dai maggiori trasferimenti di popolazione:35 in tutte queste zone, una forza politica a marcata connotazione nazionalista e statalista non solo si poneva in consonanza con i sentimenti di gran parte della popolazione, esacerbati dalla situazione di insicurezza, ma sembrava oltretutto poter garantire stabilità geopolitica e miglioramenti concreti allo status degli abitanti. In Paesi a doppia religione, inoltre, prima fra tutti la Germania, Mann nota come il sostegno ai movimenti fascisti venisse in maggior misura dai protestanti piuttosto che dai cattolici: mentre questi ultimi erano meno statalisti e nazionalisti, trovando il loro centro ideale a Roma, i primi si identificavano più fortemente con lo Stato e con l’idea di una promozione «terrena» della prosperità nazionale.36 Dal momento, quindi, che l’Europa tra le due guerre mondiali era attraversata da crisi multiple, relative a tutte e quattro le fonti del potere sociale, multipli erano anche i bacini di supporto su cui i fascisti, proponendo soluzioni plausibili a tali crisi, potevano contare. Sono riduzioniste, conclude pertanto Mann, tutte quelle teorie che attribuiscono il successo di tali movimenti al sostegno sproporzionato da parte di una sola classe (la borghesia o la piccola borghesia), agli interessi dei capitalisti, o alle debolezze e all’inadeguatezza dell’ancien régime politico: questi fattori e attori sociali ebbero tutti un peso, ma a fianco di molti altri. Nella modernità, un movimento può guadagnare supporto di massa solo se riesce ad 35 36

Ivi, pp. 105-106 e 155-156. Ivi, pp. 186-187.

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agire, contemporaneamente, lungo tutti gli assi relativi alle quattro fonti del potere sociale. 6.3. La psicologia fascista È stato spesso sostenuto, non da ultimo da alcuni dei principali rappresentanti della Scuola di Francoforte, che i movimenti fascisti traessero la maggior parte dei propri attivisti e sostenitori da fasce di popolazione che condividevano un’esperienza di deprivazione economica, psicologica, culturale o di status. Talvolta questa caratterizzazione viene riferita al proletariato e al sottoproletariato: disoccupati cronici, persone marginalizzate, piccoli criminali, soggetti provenienti da ambienti degradati o con storie di violenza famigliare, veterani usciti traumatizzati dal fronte, individui soli e risentiti verso il mondo che li aveva rifiutati.37 In altri casi, le teorie psicologiche del fascismo assumono a proprio soggetto privilegiato le classi piccolo-borghesi:38 in preda al terrore di decadere economicamente, preoccupate di conservare il loro status mediano tra capitalisti e proletari, socializzate nella famiglia (spesso in maniera autoritaria) ai valori del risparmio, del lavoro e del rispetto delle gerarchie, queste classi avrebbero trovato nei movimenti fascisti rassicurazione ai loro timori. In base a queste interpretazioni, siano esse riferite alle classi medie o al proletariato, i soggetti in questione individuavano quindi nei leader dei movimenti fascisti figure d’autorità nelle quali identificarsi psicologicamente, idealizzandole e compensando così, a livello inconscio, la propria vulnerabilità. Al contempo, le forme di organizzazione intensiva dei partiti fascisti permettevano ai loro aderenti di entrare in una comunità coesa e cementata da forti rapporti di solidarietà; grazie ad essa i suoi membri, soggetti atomizzati e risentiti, ritrovavano uno spirito di appartenenza, fonti di autostima e, nel caso dei gruppi paramilitari, la possibilità di sfogare su vittime deboli e indifese le proprie pulsioni sadomasochistiche, risultanti da pregresse esperienze sociali o famigliari traumatiche. 37 38

Cfr. in particolare L. Löwenthal, N. Guterman, Prophets of Deceit, Harper, New York 1949; A. Thalheimer, Über den Faschismus, in Faschismus und Kapitalismus, a cura di O. Bauer, M. Marcuse, A. Thalheimer, Abendroth, Frankfurt a. M. 1967. M. Mann, Fascists, cit., p. 19 e 112. Cfr. ad es. M. Horkheimer, con la collaborazione di E. Fromm, H. Marcuse e altri, Studi sull’autorità e la famiglia, trad. it. UTET, Torino 1976; W. Reich, Psicologia di massa del fascismo, trad. it. Einaudi, Torino 2002; F. L. Carsten, La genesi del fascismo, cit.; Th. W. Adorno, Contro l’antisemitismo, a cura di S. Petrucciani, Manifestolibri, Roma 2007.

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Mann non concorda con nessuna di queste interpretazioni. Esse, sostiene, altro non sono che l’ennesimo modo in cui i fascisti non vengono presi sul serio, dal momento che le loro convinzioni e azioni sono attribuite a dinamiche psicologiche irrazionali, scaturenti da fragilità materiali ed emotive. La maggior parte dei sostenitori e dei militanti dei movimenti fascisti, fatta eccezione per i gruppi paramilitari,39 in cui effettivamente era più alta la percentuale di ex disoccupati e soggetti marginalizzati, non soffriva di deprivazione sociale o economica. Avevano lavori sicuri in ambito pubblico o privato, oppure carriere ben avviate nell’esercito; in base ai dati che Mann riporta facendo riferimento agli studi di Rogowski e Merkl,40 un quarto degli attivisti tedeschi, nel corso degli anni, migliorò la propria posizione lavorativa, mentre solo un settimo scivolò verso il basso della scala sociale (spesso, nota l’autore sulla base dei resoconti autobiografici, questo accadeva a causa del troppo tempo che l’individuo dedicava all’attività politica, sottraendolo al lavoro). Rispetto ai propri padri, il 40% dei militanti migliorò la propria collocazione sociale, il 21% la peggiorò: la mobilità sociale ascendente di questi soggetti era doppia rispetto alla media tedesca.41 Il partito che attraeva il maggior numero di disoccupati non era quello nazista, bensì l’SPD.42 Non vi sono quindi le basi per parlare di deprivazione economica o di status. Nemmeno forme di marginalizzazione sociale, al confronto con i dati empirici (di cui disponiamo in particolare per il caso tedesco), sembrano aver giocato un ruolo significativo: la Germania che divenne nazista era tutt’altro che un contesto sociale massificato e privo di realtà associative. Al contrario, le associazioni della società civile erano numerose, e molti di coloro che poi entrarono nel movimento guidato da Hitler avevano partecipato ad esse.43 Inoltre, nota Mann sulla base di uno studio sugli elettori nazisti, spesso furono intere comunità, e non singole persone, a venire at-

39 40 41 42 43

Ivi, p. 168. R. Rogowski, The Gauleiter and the Social Origins of Fascism, in «Comparative Studies in Society and History», XIX (1977), n. 4, pp. 399-430, e P. Merkl, Political Violence under the Swastika, Princeton University Press, Princeton 1975. M. Mann, Fascists, cit., p. 169. Ivi, p. 159. Ivi, p. 170. Cfr. B. Hagtvet, La teoria della società di massa e il collasso della Repubblica di Weimar, in I fascisti: le radici e le cause di un fenomeno europeo, a cura di S. U. Larsen, B. Hagtvet e J. P. Myklebust, trad. it. Ponte alle Grazie, Firenze 1996; e R. Koshar, Social Life, Local Politics, and Nazism, University of North Carolina Press, Chapel Hill 1986.

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tratte dal partito: interi villaggi rurali protestanti votarono «in massa», senza poter essere stati eterodiretti mediaticamente, per il partito del Führer.44 Ne Il lato oscuro della democrazia, basandosi su un campione da lui stesso ricavato (il più esteso finora disponibile) di 1500 criminali di guerra nazisti, responsabili di atrocità nei campi di concentramento, Mann evidenzia come «solo 30 persone (il 4,6%), tra le 650 con storie familiari adeguatamente documentate, avevano perso un genitore o avuto un genitore con gravi danni psicologici riportati in guerra», o avevano vissuto esperienze di violenza o abbandono famigliare.45 La maggior parte dei criminali nazisti erano «assassini ideologici», che agivano sulla base di convinzioni che ritenevano giustificate, e non di spinte psicologiche in gran parte sottratte al loro stesso controllo: si trattava di estremisti nazionalsocialisti, da lungo tempo inquadrati all’interno delle istituzioni paramilitari del partito, che avevano avuto il tempo di assuefarsi a dosi crescenti di violenza. Proprio nell’organizzazione carrieristica, per Mann, si trova la risposta al quesito su come degli esseri umani abbiano potuto commettere atti tanto atroci verso altri esseri umani: «l’escalation della violenza portava assuefazione»,46 e, in breve tempo, l’organizzazione paramilitare andava a rappresentare l’intero mondo dei suoi appartenenti; l’ideologia nazista, radicalizzata in questo processo di caging ma già alla base delle convinzioni dei futuri perpetratori, plasmava ogni loro azione e pensiero.47 Essi, provenienti da regioni di confine e dai gruppi sociali presso i quali l’appoggio al nazismo era più forte (lavoratori non qualificati del settore pubblico, militari, polizia), «erano “veri nazisti”, non “persone qualunque”».48 A partire dal suo

44 45 46 47

48

M. Mann, Fascists, cit., p. 170. Cfr. R. Hamilton, Who Voted for Hitler ?, Princeton University Press, Princeton 1982. M. Mann, Il lato oscuro della democrazia, cit., p. 272. Ivi, p. 338. Cfr. ivi, p. 244; lo stesso Eichmann, ritratto da Hannah Arendt come un freddo e distaccato burocrate, era fortemente antisemita; egli nutriva radicate convinzioni antiebraiche e, come emerge da resoconti e testimonianze storiche, era pienamente consapevole della sua azione. Mann, facendo riferimento a La banalità del male di H. Arendt (trad. it. Feltrinelli, Milano 2014) scrive a riguardo: «solo la sua tecnica in tribunale fu banale, nel tentativo di nascondersi dietro al dovere e agli ordini. Ma spesso prese personalmente l’iniziativa. […] Il male di Eichmann non era né inavveduto né banale, bensì innovativo, spietato e ideologico» (ivi, p. 299). A facilitare le azioni dei criminali nazisti vi era anche la deresponsabilizzazione personale che, nella maggioranza dei funzionari, conseguiva dall’adozione radicale del principio dell’autorità. Cfr. M. Mann, Were the Perpetrators of Genocide «Ordinary Men» or «Real Nazis»?, in «Holocaust and Genocide Studies», XIV (2000), n. 3, pp. 331-366: 357.

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primo inquadramento nell’organizzazione paramilitare nazista, la recluta era inoltre portata a compiere crimini sempre più gravi, a gestire livelli di violenza sempre maggiori, a ricacciare indietro, tra la solidarietà dei camerati, ogni precedente scrupolo morale.49 Il tutto veniva reso più semplice non solo dal caging prodotto dall’enorme penetrazione delle routine collettive del movimento nella vita del singolo, ma anche dalla deresponsabilizzazione individuale conseguente all’adozione del principio dell’autorità: il perpetratore, maschio o femmina che fosse, subordinava se stesso ai princìpi, al Volk, al Führer, alla scienza e al futuro: […] ebrei e slavi erano il nemico, erano responsabili della guerra, provocavano un’autodifesa giustificata. Per quanto perversi possano apparire, molti credevano sinceramente che le uccisioni fossero giustificate. La responsabilità individuale veniva stemperata sulla collettività: su un movimento che imponeva il principio del comando, sull’“ordine del terrore” nei campi, su una professione medica che incarnava verità scientifica e status sociale.50

Gli «assassini da scrivania», nota Mann contrapponendosi all’interpretazione dell’Olocausto come «genocidio burocratico», erano pochi in proporzione agli esecutori materiali, e occupavano posizioni al vertice alle quali erano giunti, essi stessi, tramite una carriera di violenza. Mann, dunque, destituisce di validità le interpretazioni psicologiche tanto dell’adesione al fascismo di determinati settori di popolazione quanto dei crimini compiuti dai movimenti fascisti. Egli torna a più riprese su questo punto, ribadendo in vario modo come «nessuna delle interpretazioni psicologiche del fascismo è ben supportata dal punto di vista empirico»:51 tra i fascisti non vi erano proporzioni particolari di disoccupati, soggetti ai margini della società, vittime di traumi biografici, individui soggetti a deprivazione economica o decadenza di status. Eppure, per quanto Mann nella sua esposizione teorica generale insista esplicitamente a sgombrare il campo dalle teorie psicologiche, esse ritornano più volte, in maniera asistematica e intermittente, all’interno delle analisi e narrazioni storiche che egli stesso dedica ai singoli movimenti fascisti nazionali. Nel caso tedesco, analizzando le risposte che 581 militanti diedero nel 1934 alla domanda «perché sono un nazista», egli deve notare, ad esempio, che 49 50 51

Cfr. H. Jäger, Verbrechen unter totalitäre Herrschaft, Walter Verlag, Olten 1967, p. 381. M. Mann, Il lato oscuro della democrazia, cit., pp. 338-339. M. Mann, Fascists, cit., p. 19. Egli concorda qui con S. Payne, Il fascismo, trad. it. Newton Compton, Roma 2010.

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ben il 48% di essi «aveva preso parte ad atti violenti implicanti sadismo o masochismo».52 Poche pagine dopo, Mann si pone in sostanziale accordo con la «teoria generazionale» attraverso cui autori come Merkl, Wohl e Loewenberg53 hanno mirato a spiegare, in chiave psicologica, come le giovani generazioni si fossero disaffiliate dalla democrazia di Weimar e avessero abbracciato l’ideologia nazionalsocialista: La generazione che aveva combattuto la prima guerra mondiale aveva guardato la morte in faccia ogni giorno, sviluppando legami camerateschi intensi ed egualitari; ma il loro sacrificio era stato “tradito” dalle élite civili di mezza età, rimaste in patria. Gli appartenenti alla generazione che durante la guerra era troppo giovane per combattere erano andati avanti coltivando un nazionalismo e militarismo voyeuristico. La loro immagine romantica della guerra era stata poi distrutta dalla resa e dal ritorno dal fronte di quelli che vedevano come figure paterne, sconfitti. Nella prosaica e debole democrazia civile, la disoccupazione colpiva, inoltre, soprattutto i giovani. Essi aspiravano a una comunità più coesa e a una forte figura paterna – e le trovarono nel Volk e nel Führer.54

In questi e altri passaggi, quindi, Mann sembra implicitamente integrare, nella sua analisi storica, elementi desunti dalle interpretazioni psicologiche del fascismo, sebbene a livello esplicito egli neghi ogni validità a queste ultime. Anche nel caso in cui egli non attuasse questa implicita integrazione, oltretutto, vi sarebbe un altro motivo per cui la sua esclusione di motivi psicologici sembra essere troppo netta e affrettata: l’autore, basandosi sui dati empirici di cui dispone, può dirci qual era la situazione effettiva della popolazione negli anni tra le due guerre, ma non quella percepita; non può fare luce, se non in maniera molto limitata, sulle ansie, le paure e le speranze delle persone in un contesto storico attraversato da crisi e instabilità. E difatti il tema del timore, dell’ansia e della paura (paura del conflitto di classe, della rivoluzione, della crisi economica) è ricorrente nelle spiegazioni che Mann offre riguardo all’imporsi dei singoli movimenti fascisti nazionali. Pertanto, sebbene nella realtà gli aderenti ai movimenti fascisti non fossero effettivamente colpiti da particolare deprivazione economica, decadenza di status e atomizzazione sociale, il timore di queste ultime poteva essere più reale che mai nella percezione degli individui, ingenerando 52 53 54

Ivi, p. 144. Cfr. P. Merkl, Political Violence under the Swastika, cit., e Id., The Making of a Stormtrooper, Princeton University Press, Princeton 1980. R. Whol, 1914. Storia di una generazione, trad. it. Jaca Book, Milano 1984; P. Loewenberg, The Psychohistorical Origins of the Nazi Youth Cohort, in «American Historical Review», LXXVI (1971), n. 5. M. Mann, Fascists, cit., p. 149.

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in essi una fragilità psicologica, un bisogno di rassicurazione e di soddisfazione compensatoria che l’identificazione idealizzante con un leader carismatico e un gruppo coeso e solidale potevano fornire. Come scrive lo stesso Mann, i tedeschi avevano assistito ai turbolenti scontri di classe del dopoguerra, alla perdita di territori nazionali, erano gravati dal fardello delle riparazioni richieste dalle potenze straniere […], e avevano vissuto due disastri economici internazionali – la crisi d’inflazione e specialmente la grande depressione – le quali avevano in parte rinfocolato il conflitto di classe.55

Vi era abbastanza per creare un clima di incertezza, di ansia per il futuro, di solitudine di fronte a una minaccia imminente e imprecisata: quella che Staub chiama la «psicologia dei tempi duri»,56 foriera di reazioni esasperate, di timori paranoici verso nemici immaginari, e di acritica ricerca di un salvatore individuato in figure di autorità. 6.4. I fascismi oggi Successivamente alla sua dettagliata analisi dei movimenti fascisti in sei Paesi europei (che qui, per ragioni di spazio, non possiamo ripercorrere), Mann conclude che essi, senza eccezione, erano il risultato di una deviazione, in senso autoritario e statalista, dell’idea democratica di «governo del popolo». In democrazie recenti, fragili e interessate da crisi riguardanti tutte e quattro le fonti del potere sociale, tanto le élite politiche quanto le masse erano state facilmente attirate da movimenti capaci di offrire soluzioni innovative ai problemi del presente, di sfruttare il moderno desiderio di partecipazione politica della popolazione, e di far uso di nuove modalità di organizzazione e comunicazione politica: «i fascisti sono, e rimangono, parte del lato oscuro della modernità».57 In Europa, attualmente, vi sono due tipologie di gruppi politici che riproducono elementi dei passati movimenti fascisti. I parenti più stretti di questi ultimi, improntati a una prospettiva nostalgica, imitano lo stile, la retorica e le parole d’ordine dei fascismi tradizionali:58 si fanno sostenitori di un nazionalismo estremista basato su biologismi razziali e di uno 55 56 57 58

Ivi, p. 204. Cfr. E. Staub, The Roots of Evil, Cambridge University Press, Cambridge 1992. M. Mann, Fascists, cit., p. 365. Cfr. F. Ferraresi (a cura di), La destra radicale, Feltrinelli, Milano 1984.

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statalismo antidemocratico, fondandosi sull’attivismo esasperato di un ristretto numero di militanti e spesso compiendo circoscritti atti di violenza di gruppo contro simboli o attivisti di estrema sinistra. Si tratta di movimenti estremamente ridotti, a pressoché esclusiva composizione giovanile, frazionati gli uni rispetto agli altri e privi di sostegno popolare. Essi non costituiscono una minaccia per la democrazia.59 Non molto diverso è, attualmente, il grado di pericolosità dei partiti neofascisti.60 Essi sono dotati di una struttura maggiormente istituzionalizzata, che permette loro di competere alle elezioni, ma si collocano oggi ai margini del panorama politico europeo. Durante gli anni ’90 queste forze politiche, con l’avvento dell’era post-ideologica, hanno infatti subìto un declino dal quale non si sono più riprese, o, in alternativa, sono andate evolvendosi in partiti di destra ben integrati nel sistema politico (si pensi al caso dell’MSI italiano, trasformatosi in Alleanza Nazionale e poi in Fratelli d’Italia). I partiti che hanno conservato la loro impostazione originaria presentano alcune delle caratteristiche, ma non tutte, dei fascismi tradizionali: assente, il più delle volte, è l’elemento paramilitare, come anche l’esplicito richiamo a teorie razziali.61 Essi, in ogni caso, godono attualmente di basse percentuali di sostegno. Più ampie fortune vantano, al momento, i partiti populisti a impostazione nazionalista e xenofoba.62 Essi ripropongono solo alcuni elementi dell’ideologia fascista, rifiutando comunque ogni esplicito riferimento ad essa e mirando, piuttosto, a porsi come partiti post-ideologici. Non si contrappongono alla democrazia, autocomprendendosi anzi come attori elettorali, né includono elementi paramilitari; la loro proposta politica si fonda su risposte radicali e spesso semplicistiche ai problemi che, risultanti dalla globalizzazione, sono andati a colpire le fasce di popolazione più deboli, meno abbienti, meno istruite, tra le quali essi trovano la maggioranza dei loro votanti.63 Tra questi problemi, in primo luogo, vi sono l’attuale crisi economica e le delocalizzazioni industriali, che hanno portato a un aumen59 60 61 62

63

M. Mann, Fascists, cit., p. 366. P. Ignazi, L’estrema destra in Europa, Il Mulino, Bologna 2000. Ivi, p. 367. Cfr. M. Wieviorka, Racisme et xenophobie en Europe: Une comparaison internationale, La Découverte, Paris 1994; H.-G. Betz, Radical Right-Wing Populism in Western Europe, MacMillian, London 1994 ; R. Eatwell, Universal fascism? Approaches and definitions, in Fascism outside Europe, a cura di S. U. Larsen, Columbia University Press, New York 2001; sul populismo, cfr. anche il recente volume monografico de «La società degli individui», 2015, n. 52. M. Mann, Fascists, cit., p. 369.

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to della disoccupazione tra i lavoratori meno qualificati, e i massicci flussi migratori che, mal gestiti da governi e amministrazioni pubbliche, hanno reso ancor più difficili le condizioni di vita nelle periferie urbane, intensificando quella che viene percepita come una concorrenza tra cittadini nazionali e immigrati per gli alloggi popolari, i posti di lavoro, i sussidi.64 Le rivendicazioni di tipo economico dei partiti nazional-populisti vanno a fondersi con motivi politici, ideologici e militari: la richiesta di uno status privilegiato per i cittadini nazionali nell’accesso alle prestazioni dello Stato sociale; la difesa, sconfinante in una logica esclusivista, della religione, della cultura, delle tradizioni locali; la preoccupazione per la sicurezza del territorio rispetto all’aumento della criminalità, unilateralmente imputato agli immigrati, o a minacce di tipo terroristico, fatte discendere da quella che si ritiene un’eccessiva apertura delle frontiere. Questi partiti esprimono quindi un nazionalismo di destra con elementi di xenofobia, ma presentano caratteristiche diverse rispetto ai fascisti tradizionali. Essi chiedono allo Stato ordine, sicurezza, imposizione di valori morali tradizionali e più ampie politiche di welfare per i cittadini che formano il loro bacino di sostegno elettorale;65 ma, al contempo, concepiscono lo Stato come dominato da grandi gruppi affaristici, dai partiti politici più affermati, dai maggiori sindacati: il loro atteggiamento verso di esso è quindi ambivalente. Quanto alla xenofobia di questi partiti, essa, a differenza che per i fascisti tradizionali, non si basa su gerarchie assolute in base alle quali le identità razziali vengono ordinate e categorizzate in superiori e inferiori: «tutto ciò che essi affermano», di solito, «è che gli immigrati sono incompatibili con la cultura e le tradizioni francesi, tedesche, austriache, danesi, eccetera, e che quindi dovrebbero andarsene o essere costretti a farlo».66 Non vi è alcun desiderio di dominare su altre etnie o su popoli stranieri, solo di allontanarli dal proprio suolo nazionale e di chiudere le frontiere a ulteriori accessi. L’ascesa dei populismi di carattere nazionalista e xenofobo, afferma Mann in Power in the 21st Century, «non configura una riproposizione del fascismo, ma del nativismo».67 Il tipo di pulizia etnica che tali movimenti si prefiggono consiste, il più delle volte, nell’istituzionalizzazione di politiche discriminatorie che dovrebbero portare i gruppi indesiderati all’emigrazione volontaria, e, se questo piano dovesse fallire, l’espulsione coatta. Si tratta, chiaramente, 64 65 66 67

Ivi, p. 368. Ivi, p. 367. Ivi, p. 368. M. Mann, Power in the 21st Century, cit., p. 150.

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di pseudosoluzioni propagandistiche, tese a intercettare il risentimento di persone che si sentono tradite «in quanto cittadini» dalla classe politica e lasciate sole dalle istituzioni di fronte a un ampio spettro di forme di disagio sociale. Oggi, a convogliare su di sé le tensioni risultanti da fattori economici, politici, ideologici e militari non è più, come nell’Europa tra le due guerre, il conflitto di classe, che è stato istituzionalizzato e depotenziato con successo dalla fine degli anni ’70, bensì il tema dell’immigrazione:68 essa viene incoraggiata dalle forze capitalistiche, che ottengono in tal modo manodopera a basso costo, ricattabile e poco consapevole dei suoi diritti, mentre le sinistre, a causa del loro stesso bagaglio ideologico, non possono pronunciarsi per una chiusura delle frontiere o una forte limitazione dei flussi, lasciando il monopolio di questi temi alle destre nazionaliste, populiste e xenofobe e perdendo, così, il sostegno di alcuni tra i propri maggiori bacini elettorali.69 Solo se i partiti politici dominanti imponessero una limitazione significativa dei flussi migratori in entrata, al contempo cessando la politica di tagli di bilancio a Stato sociale e pubblici servizi, la quale va colpire i settori di popolazione più svantaggiati, le destre populiste e xenofobe vedrebbero con molta probabilità i propri consensi crollare. In caso contrario, le cicliche ascese elettorali di queste forze politiche potrebbero continuare a farsi sempre più minacciose. Nel Sud del mondo nazionalismo e statalismo sono attualmente ideologie molto più significative che nel Nord. In Africa, in particolare, continente fortemente multietnico i cui Stati hanno raggiunto l’indipendenza in tempi relativamente recenti e stanno ora, in parte, attraversando un difficile processo di democratizzazione, vanno emergendo rivendicazioni di tipo etnonazionalistico e forme di revisionismo territoriale. Il contesto in cui questo avviene è spesso quello di Stati deboli e frazionati, o di democrazie recenti in cui il potere dell’esecutivo sopravanza largamente quello del legislativo. Tutte queste condizioni favoriscono l’emergere di movimenti fascisti, ma esse raramente, allo stato attuale, si presentano insieme: «il “pacchetto fascista” di statalismo, nazionalismo e paramilitarismo, nel complesso, è assente».70 Tuttavia, come vedremo trattando Il lato oscuro della democrazia, movimenti etnonazionalisti che mostrano alcuni aspetti caratteristici del fascismo sono oggi più diffusi che mai; essi vengono resi più radicali dalle sempre maggiori diseguaglianze sociali e dalla contrapposizione alla democrazia liberale, che, per effetto della politica estera 68 69 70

M. Mann, Fascists, cit., p. 370. Ibid. Ivi, p. 372.

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statunitense, in alcuni degli Stati più poveri del mondo viene equiparata, da élite e masse, allo sfruttamento capitalistico e all’imperialismo militare. 6.5. La violenza etnica come «lato oscuro della democrazia» «La pulizia etnica omicida è un problema centrale della nostra civiltà, della nostra modernità, dei nostri concetti di progresso e dei nostri tentativi di introdurre la democrazia. È il nostro lato oscuro».71 Questa è la tesi principale de Il lato oscuro della democrazia: la violenza su basi etnonazionaliste non deriva dal ritorno di pulsioni primitive, né è il prodotto dell’azione di pochi individui psicologicamente disturbati, che, giunti a posizioni di comando nelle istituzioni politiche o militari, riescono a manipolare le masse ai fini del perseguimento dei loro piani. Essa promana da conflitti propri a tutte le società moderne in via di democratizzazione, ed è compiuta da persone che, afferma Mann sulla stessa linea di pensiero che contraddistingueva Fascists, «nella maggior parte dei casi non sono diverse da noi stessi»;72 molti tra coloro che prendono parte a piani di pulizia etnica agiscono in tal modo poiché si ritrovano all’interno di un contesto ideologico, politico, economico e militare i cui caratteri principali l’Occidente democratico e pluralista si è ormai lasciato alle spalle, dopo essere stato però, a sua volta, punto d’origine e teatro di genocidi e pulizie etniche a partire dall’età delle guerre di religione, passando per il periodo coloniale, fino al Novecento. È proprio nel frangente in cui popolazioni precedentemente prive di coscienza nazionale e di senso di coappartenenza a uno stesso «popolo» si riconoscono come nazione, e premono per una maggiore partecipazione democratica alle scelte statali, che, a determinate condizioni, possono prodursi fenomeni di pulizia etnica. In altre parole, la pulizia etnica è il portato di una frequente distorsione nel modo in cui il concetto democratico di «governo del popolo sovrano» può venire inteso, sostiene Mann.73 Quando una popolazione giunge a riconoscersi come unitaria e legata a uno stesso territorio, rivendicando diritti civili, politici e sociali su base nazionale, si produce il più delle volte una «fase di rischio» in cui demos ed ethnos vanno a coincidere: il demos, ossia l’insieme dei cittadini titolati a partecipare dei diritti garantiti dallo Stato e a co-determinare le decisioni collettive che in esso vengono prese, viene inteso in senso organi71 72 73

M. Mann, Il lato oscuro della democrazia, cit., p. ix. Ivi, p. x. Ivi, p. 4.

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cistico ed esclusivistico, come ethnos. Molte volte questa fase è superata in maniera incruenta attraverso la progressiva istituzionalizzazione delle procedure e delle strutture di un regime democratico inclusivo; in altri casi, tuttavia, qualora si diano una serie di condizioni sfavorevoli alla democrazia pluralista, può rafforzarsi una concezione etnonazionalista dello Stato. Gli appartenenti all’etnia, al gruppo linguistico, alla cultura maggioritaria all’interno di un determinato territorio nazionale vanno quindi a concepire se stessi come gli unici soggetti aventi diritto a fare parte della nazione, a partecipare alle decisioni comuni ed a beneficiare delle tutele messe a disposizione dallo Stato, come anche di risorse economiche quali posti di lavoro e misure di welfare. Gli appartenenti a gruppi etnici, linguistici, religiosi o culturali minoritari vengono percepiti come «corpi estranei», e, solitamente attraverso un processo costituito da successive escalation di violenza, possono essere discriminati, allontanati dal territorio nazionale, fatti oggetto di violenze occasionali o, nei casi peggiori, risultare vittime di piani volti al loro sterminio. Ne Il lato oscuro della democrazia Mann ripercorre storicamente i quattro principali casi di pulizia etnica novecenteschi (genocidio armeno, Olocausto, conflitto in ex Jugoslavia e Ruanda), dedicando attenzione anche ai casi di pulizia etnica nelle colonie ad opera dei Paesi conquistatori (in particolare Stati Uniti e Australia, ai danni dei nativi americani e degli aborigeni australiani), e ai «classicidi» messi in atto dai regimi comunisti dell’Unione Sovietica, della Repubblica Popolare Cinese e della Cambogia. La pulizia etnica deriva quindi, come Mann mira a dimostrare mediante la dettagliata analisi empirica dei casi storici appena richiamati, dal congiungersi di ideologie nazionaliste-organiciste e di tensioni alla democratizzazione, intesa come desiderio delle masse di partecipare alla politica nazionale: quando il demos viene definito in termini etnici, il principio dell’unità etnica può soverchiare il pluralismo che è una delle condizioni fondamentali di una reale democrazia. Si afferma quindi il «lato oscuro» di quest’ultima, la sua altra faccia degenerata: il gruppo etnico che costituisce la maggioranza può governare «democraticamente», ma di fatto tirannicamente, sulle minoranze, escludendo queste ultime dal godimento dei diritti e delle tutele costituzionali. È chiaro, sebbene questo punto sia stato frainteso da alcuni critici,74 che nel parlare di «lato oscuro della democrazia» 74

Cfr. D. Laitin, Mann’s Dark Side: Linking Democracy and Genocide, in An Anatomy of Power, cit., pp. 328-339; P. Baher, Fascism, Ethnic Cleansing and the «New Militarism», in «Critical Review of International Social and Political Philosophy», X (2007), n. 1, pp. 99-113; I. Magid, recensione a The Dark Side of

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Mann non intende definire come «democratici» regimi che mettano in atto politiche discriminatorie o forme di pulizia etnica nei confronti delle etnie minoritarie, né sostenere un legame intrinseco tra democrazia e pulizia etnica: «i regimi che perpetrano pulizie etniche omicide non sono mai democratici: si tratterebbe di una contraddizione in termini».75 Piuttosto, l’autore intende far luce sulle deviazioni che, in determinate circostanze, frequentemente si verificano nel corso dei processi di democratizzazione:76 essi, come abbiamo visto trattando il secondo e il terzo volume di The Sources of Social Power, sono strettamente legati all’emergere, presso gli abitanti di un determinato territorio statale, di una coscienza nazionale e della volontà di avere voce nelle decisioni dello Stato, il quale, ampliando le sue funzioni, penetra sempre più a fondo nella vita quotidiana dei cittadini. «La pulizia etnica omicida», quindi, «si è andata spostando nel mondo via via che questo si modernizzava e si democratizzava […]. I Paesi europei oggi sono solidamente democratici, ma molti di essi in passato sono stati sottoposti a pulizia etnica», a partire dal periodo delle guerre di religione; «oggi l’epicentro della pulizia etnica si è spostato verso il Sud del mondo».77 È proprio con l’imporsi della percezione diffusa di un’appartenenza nazionale e con il prodursi delle spinte a una maggiore partecipazione della popolazione ai processi politici che, storicamente, sono andate a determinarsi le democrazie pluraliste che oggi conosciamo; tuttavia questo è anche il processo attraverso cui spesso ha luogo quella minacciosa fusione di demos ed ethnos che, determinando l’appartenenza nazionale in chiave organicista ed esclusivista, costituisce il punto di partenza della vio-

75 76

77

Democracy, in «Amsterdam Law Forum», II (2010), n. 3. D. Riley scrive quindi che «nonostante, o forse a causa dell’estensione comparativa del libro e della sua ampiezza di dettagli storici, poche tra le reazioni che esso ha suscitato gli hanno reso giustizia. Le recensioni, finora, sono state di due tipi principali: valutazioni rispettose e attente di tesi specifiche, e più generici attacchi all’idea che la pulizia etnica sia il lato oscuro della democrazia. […] Una seria considerazione critica del libro richiede una ricostruzione esaustiva della tesi fondamentale di Mann […] oltre che la consapevolezza di come il lavoro di Mann sulla pulizia etnica debba essere inteso nel contesto della più ampia traiettoria intellettuale dell’autore» (cfr. D. Riley, Democracy’s Graveyards?, in «New Left Review», XLVIII, 2007, pp. 125-136: 126). M. Mann, Il lato oscuro della democrazia, cit., p. 5. Cfr. la replica di Mann alle obiezioni di B. Neuberger in J. Breuilly, D. Cesarani, S. Malesevic, B. Neuberger e M. Mann, Debate on Michel Mann’s «The Dark Side of Democracy», in «Nations and Nationalism», XII (2006), n. 3, pp. 389411: «Neuberger ha ragione quando dice che avrei fatto meglio a parlare del lato oscuro della democratizzazione – eccetto che per i casi coloniali». M. Mann, Il lato oscuro della democrazia, cit., p. 5; trad. leggermente modificata.

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lenza etnica. Per definire le condizioni a partire dalle quali un territorio può entrare nella «zona di pericolo» della pulizia etnica Mann enuncia otto tesi preliminari, che mira poi a dimostrare a confronto con il materiale storico sui singoli casi considerati nel volume.78 La prima di esse, naturalmente, è: «la pulizia etnica è moderna. È il lato oscuro della democrazia».79 Prima di andare a considerare le otto tesi nello specifico, continuiamo però a tracciare i fondamenti dell’analisi che Mann svolge nel suo volume. Innanzitutto, la definizione di etnia: «un’etnia», scrive l’autore, «è un gruppo che definisce se stesso o è definito da altri per la sua comune discendenza o cultura».80 La definizione data da Mann mette quindi in primo piano la soggettività di chi identifica un’etnia come tale, piuttosto che specifici caratteri oggettivi di quest’ultima, i quali sono molto difficili da determinare univocamente: ad esempio, una lingua comune è importante nell’unire i tedeschi, ma non i serbi (la lingua di questi ultimi è la stessa dei croati e dei bosniaci). La religione è importante per i serbi (il loro cristianesimo ortodosso li distingue dai croati cattolici, dai musulmani bosniaci e dagli albanesi), ma non per i tedeschi (divisi in cattolici e protestanti). […] La dominanza e la subordinazione economica possono creare identità, e altrettanto può fare la subordinazione militare.81

Tutte e quattro le fonti del potere sociale sono implicate nell’elaborazione di identità etniche, le quali sono poi suscettibili di essere radicalizzate nella «zona di pericolo» che può condurre ad atti di discriminazione o di pulizia omicida. Il potere ideologico è fondamentale nel fornire a élite e masse, mediante concezioni collettive quali il nazionalismo, la percezione di una comune appartenenza etnica. Spesso il legame etnico e nazionale viene fatto risalire ad antichi avvenimenti, miti o leggende, frequentemente rielaborati, travisati o rimaneggiati a bella posta: è il caso, ad esempio, della battaglia del Campo di Kosovo del 1389. Essa viene portata dai nazionalisti serbi come prova del fatto che i serbi, cristiani, hanno combattuto contro i bosniaci, musulmani, fin dalla notte dei tempi; eppure, l’esercito 78

79 80 81

Cfr. M. J. Easman, recensione a The Dark Side of Democracy, in «The International History Review», XXVIII (2006), n. 1, pp. 234-235: «la principale virtù del libro è il suo tracciare una serie di proposizioni dimostrabili che sono poi valutate non attraverso un singolo caso di studio o un’analisi statistica, bensì considerando in modo empiricamente fondato una serie di eventi recenti accaduti in diversi continenti». M. Mann, Il lato oscuro della democrazia, cit. p. 2. Ivi, p. 13. Ibid.; trad. leggermente modificata.

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balcanico che in quell’occasione venne sconfitto dai turchi ottomani era, sì, guidato dal principe serbo Lazzaro, ma comprendeva serbi, croati, ungheresi, valacchi, albanesi e altri ancora. Non vi era, quindi, alcuna identità etnopolitica serba già definita e consolidata.82 Rituali di memoria collettiva che rievochino ossessivamente antichi torti e traumi di carattere etnico possono perpetuare pericolosi processi di accumulazione del risentimento; la minaccia di un rinnovarsi del conflitto etnico è presente ovunque il ricordo di dissidi, scontri o violenze del passato non sia stato adeguatamente elaborato a livello collettivo dalle parti in causa, o sia oggetto di manipolazione, censura o rimozione.83 Il potere ideologico, sostiene Mann sulla base del suo materialismo organizzativo, può costituire una forza sociale effettiva se è in grado di fare affidamento, per la sua trasmissione, su efficaci reti di comunicazione: scuole, media, movimenti sociali. Da questo deriva che i gruppi etnici maggioritari o dotati di più ampie risorse economiche o comunicative, in un dato territorio, saranno anche quelli che con più facilità potranno mobilitare le masse in base alla propria ideologia d’elezione.84 Per quanto riguarda il potere economico, tutti i casi di contrapposizione, e poi di discriminazione o pulizia etnica, coinvolgono interessi materiali.85 Gli scenari principali sono tre: in territori bi-etnici, l’etnia economicamente più debole giunge a concepirsi come «nazione proletaria», sfruttata dall’etnia più forte, e in tal modo accumula contro di essa un risentimento che può sfociare in violenze. Oppure, l’etnia che fino a poco tempo prima deteneva una posizione di privilegio, vede la sua supremazia messa in questione da eventi quali sconfitte in guerra o rovesci economici, e, sentendosi spodestata e accerchiata, reagisce con aggressività verso coloro che considera suoi concorrenti e usurpatori. Un esempio di entrambe queste situazioni è offerto dalla guerra civile tra hutu (nazione maggioritaria e «proletaria») e tutsi (nazione privilegiata in decadenza, minoritaria) in Ruanda.86 Ancora, una nazione imperiale, le cui risorse di potere siano molto maggiori di quelle delle popolazioni colonizzate, può imporre il proprio dominio e il proprio sfruttamento economico, spesso legittimandolo come opera di civilizzazione. Alla base delle violenze etniche possono altresì esserci diretti interessi materiali dei perpetratori, per esempio all’appropriazione dei beni delle vittime; tuttavia, sulla base dei casi analizzati e delle testimonianze di 82 83 84 85 86

Ivi, p. 444. Su questi temi, cfr. Passioni violente e memorie contrastate, a cura di P. P. Portinaro, Mimesis, Milano-Udine 2014. M. Mann, Il lato oscuro della democrazia, cit. p. 37. Ivi, pp. 37-38. Cfr. ivi, pp. 533-534.

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persone in essi implicate, Mann conclude che questa motivazione è tutt’al più secondaria.87 Politicamente, la radicalizzazione delle identità e la stessa violenza etnica subiscono la loro massima escalation a causa di rivendicazioni di sovranità territoriali contrapposte. Le relazioni politiche sono, in ultima istanza, l’aspetto decisivo nel determinare i casi di pulizia etnica:88 come vedremo analizzando le tesi di Mann, la pulizia etnica cruenta ha le maggiori possibilità di verificarsi nel caso in cui, in uno Stato bi-etnico, entrambi i gruppi mirino a costituire una nazione monoetnica ed esclusivista sul medesimo territorio, e ad entrambi l’obiettivo appaia legittimo e concretamente realizzabile, o perché essi dispongono di risorse economiche, ideologiche e militari reciprocamente paragonabili, oppure perché il gruppo etnico più debole può ottenere aiuto da uno Stato estero alleato. La probabilità di un conflitto etnico violento aumenta ulteriormente quando lo Stato nel quale entrambi i gruppi convivono è debole, frazionato, instabile.89 Questo spesso avviene negli Stati del Sud del mondo, che sono quelli in cui con più frequenza, nel momento storico attuale, si verificano casi di pulizia etnica: essi sono anche i più dilaniati da guerre e conflitti. Il potere militare è importante nel determinare le condizioni di instabilità che rendono più probabili episodi di violenza etnica, e, naturalmente, è una componente fondamentale di quest’ultima, il più delle volte nella forma di organizzazioni paramilitari. Se tuttavia esso è saldamente nelle mani dello Stato, può costituire la risorsa fondamentale per reprimere entrambi i gruppi etnici in contrapposizione, evitando così un’escalation.90 C’è chi sostiene che il genocidio e la violenza etnica siano esistite in tutte le epoche storiche, citando come esempio gli Assiri, la popolazione più militarizzata dell’antichità.91 Tuttavia, nota Mann, nell’antichità si veniva uccisi per dove ci si trovava, non per chi si era:92 uccidere per liquidare spe87 88 89 90 91

92

Ivi, p. 39. Ivi, p. 40. Cfr. ad es. J. Snyder, From Voting to Violence, Norton, New York 2000, e B. Harff, No Lessons Learned from the Holocaust?, in «American Political Science Review», XCVII (2003), n. 1, pp. 57-73. M. Mann, Il lato oscuro della democrazia, cit., p. 39 e, per i «casi controfattuali», in cui uno Stato ben saldo riesce a impedire che tensioni etniche si trasformino in conflitti di lunga durata con uccisioni di massa, cfr. pp. 585-619. Cfr. F. Chalk, K. Jonassohn, The History and Sociology of Genocide, Yale University Press, New Haven 1990; P. Du Preez, Genocide: The Psychology of Mass Murder, Boyars-Bowerdean, London 1994; M. Freeman, Genocide, Civilization and Modernity, in «British Journal of Sociology», XLVI (1994), n. 2, pp. 207-223. M. Mann, Il lato oscuro della democrazia, cit., p. 41.

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cifiche identità è un’azione specificamente moderna; le uccisioni di massa in epoca antica avevano il significato di punizioni esemplari contro popolazioni che si ribellavano al dominio, o erano finalizzate all’appropriazione delle risorse materiali delle vittime. Peraltro, come abbiamo visto trattando il primo volume di The Sources of Social Power, allora le invasioni seguivano spesso la dialettica di centralizzazione e decentralizzazione: a venire invasa da gruppi «periferici» era la popolazione del «centro» maggiormente civilizzato, dalla quale questi ultimi avevano mutuato, adattandoli, strumenti e tecniche di potere. Una volta invasi i territori, l’obiettivo dei conquistatori non era quello di fare piazza pulita dei precedenti abitanti, bensì di continuare a utilizzare le loro conoscenze, oltre che la loro manodopera, per incrementare il benessere economico.93 Nemmeno, se si risale ancor più indietro nella storia, la pulizia etnica può venire considerata un fenomeno primitivo: basandosi sulle ricerche di Dolukhanov,94 Mann osserva come nel neolitico gli esseri umani fossero organizzati in piccoli gruppi all’interno di ampie e duttili «reti socioculturali».95 La percezione di appartenere a unità separate era molto debole, pressoché assente, tanto che chi voleva cambiare gruppo non aveva difficoltà a farlo. Tra il 4000 e il 3000 a.C. le unità di base si fanno più compatte e coese, parallelamente all’incremento della separazione tra di esse. A questo punto potrebbe essere emersa qualche forma di autocoscienza etnica, ma quando queste reti di aggregazione vengono assorbite da più avanzate civiltà, che già conoscono la scrittura, i confini etnici si indeboliscono di nuovo. Con l’inizio della «storia» propriamente detta va a determinarsi la stratificazione socioculturale che caratterizzerà il mondo antico e parte del medioevo: si origina la separazione culturale e di vita quotidiana tra un’élite dominante cosmopolitica, dotata di una cultura e molto spesso anche di una lingua comune, e la massa della popolazione. Dominanti e dominati, nell’antichità, non condividevano la medesima società; mancando un tramite significativo tra lo Stato e le masse, non poteva nascere nemmeno (se non in casi peculiari, come la Grecia e il periodo repubblicano della civiltà romana) una percezione comune e condivisa di coappartenenza «democratica» a uno stesso territorio. Nel medioevo, la diffusione delle religioni di salvezza fa sì che masse ed élite si ritrovino unificate sotto un unico credo, il quale diviene altresì 93 94 95

Ivi, p. 45-47. P. Dolukhanov, Environment and Ethnicity in the Middle East, Averbury, Aldershot 1994. M. Mann, Il lato oscuro della democrazia, cit., p. 45.

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il principale fattore di contrapposizione tra una popolazione e l’altra:96 i conflitti non sono ancora determinati dall’etnia, bensì dalla religione, sebbene con dinamiche molto simili a quelle che vedremo sorgere a partire dal 1800, in seguito all’imporsi delle ideologie nazionaliste. La differenza cruciale tra i conflitti di religione che hanno insanguinato l’Europa e le diverse forme di violenza etnica è, naturalmente, che nella maggior parte dei casi (ma non in tutti) la persecuzione religiosa degli «infedeli» mirava alla conversione di essi, non al loro annientamento fisico.97 Con il propagarsi del nazionalismo e delle concezioni organicistiche di Stato nazione, che si diffondono solo una volta che quest’ultimo, secondo il processo che abbiamo ripercorso nei capitoli precedenti, acquisisce un ruolo maggiore nella vita dei cittadini, va ad affermarsi un’idea di appartenenza nazionale come legame di sangue. In questo caso non può esserci conversione che assicuri la salvezza del corpo, prima ancora che dell’anima; essere parte di un «popolo» vuol dire condividere lo stesso sangue, lo stesso spirito nazionale, le stesse virtù essenzializzate con tutti gli altri membri di esso. Trovarsi a far parte di un’etnia di minoranza in uno Stato organicista, per la prima volta nella storia, diventa motivo quasi certo di discriminazione, di allontanamento coatto, o, nei casi peggiori, di aggressione violenta. La pulizia etnica è moderna. 6.6. Le otto tesi sulla pulizia etnica La prima tesi formulata da Mann, lo abbiamo visto, è «la pulizia etnica omicida è un fenomeno moderno. Essa è il lato oscuro della democrazia». Alcuni dei regimi che si macchiarono di pulizie etniche erano democratici solo limitatamente all’ethnos, come ad esempio gli imperi coloniali:98 tanto in America quanto in Australia, i colonizzatori tra di loro applicavano la rule of law e si concepivano reciprocamente come titolari di diritti; le popolazioni indigene erano escluse dall’appartenenza al demos in quanto estranee all’ethnos dei colonizzatori, e come tali erano considerare inferiori, subumane, da ricacciare indietro con la forza nei territori più inospitali quando non da massacrare nel corso di attacchi militari e spedizioni punitive. Parallelamente ai metodi più violenti, come Mann spiega nel dettaglio all’interno del capitolo che dedica alle «pulizie coloniali», vi era la cini96 97 98

Ivi, p. 51. Ivi, pp. 51-52. Ivi, pp. 85-135.

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ca noncuranza dei conquistatori di fronte alle malattie che, da essi stessi importate, facevano strage delle popolazioni locali, come anche l’indifferenza per la diffusione dell’alcolismo tra gli indigeni. La colonizzazione, una volta stabilizzati i territori di insediamento europeo, implicava anche forme di imperialismo culturale: la cultura dei nativi venne in gran parte spazzata via dai colonizzatori, che legittimavano i loro atti nei termini di una «civilizzazione dei popoli selvaggi». I regimi coloniali erano quindi etnocrazie, democratici solo all’interno dell’ethnos. Molti regimi non-coloniali cominciarono invece a scivolare verso la pulizia etnica nel tentativo di democratizzarsi, divenendo partitiStato nazionalisti, come l’Impero ottomano. Libere elezioni a suffragio limitato si tennero pochi anni prima del genocidio armeno; la forza politica emergente, i Giovani turchi, era inizialmente a favore di un’estensione della democrazia rappresentativa e del suffragio. Una serie di sconfitte militari dell’Impero ottomano, di colpi di Stato e di conflitti etnici portò tuttavia i Giovani turchi ad abbracciare con sempre maggiore convinzione posizioni di nazionalismo organicista.99 Pur avendo preso le mosse da un’ideologia di riformismo democratico inclusivo, in seguito a questi accadimenti essi giunsero a vedere la minoranza armena come minacciosa, in quanto avrebbe potuto costituire un alleato, interno alla Turchia, per le mire espansionistiche russe: arrivati al potere con il colpo di Stato del 1908, furono loro i maggiori perpetratori del genocidio armeno del 1915. Un tentativo di democratizzazione, in tempi più recenti, è stato all’origine di violenze etniche anche in Jugoslavia. Le elezioni si tennero, in tutte le repubbliche della confederazione, solo poche settimane prima dell’inizio del conflitto. I partiti etnonazionalisti, che includevano coloro che poi divennero i principali perpetratori provenienti dalle élite, riportarono vittoria in tutte le consultazioni elettorali, che, eccetto in Serbia (dove sono stati dimostrati i brogli commessi da Milosevic), ebbero luogo in modo libero e democratico.100 Forze politiche etnonazionaliste si trovarono quindi a controllare il governo di ogni repubblica jugoslava, conducendo a una rapida radicalizzazione delle rivendicazioni contrapposte e, successivamente, al conflitto. Un corollario della prima tesi è che regimi instabili, in quanto in via di democratizzazione, più probabilmente commetteranno pulizie etniche rispetto ai regimi autoritari stabili: «quando regimi autoritari si indeboliscono all’interno di un ambiente multietnico, demos e ethnos hanno maggiori 99 Ivi, pp. 145-158. 100 Ivi, pp. 450-454.

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probabilità di finire intrecciati», mentre, quando essi sono stabili, tendono a governare con il metodo del divide et impera o della repressione.101 Jugoslavia e Ruanda sono esempi perfetti per questo corollario. In Ruanda, le tensioni etniche tra hutu e tutsi subirono una notevole recrudescenza a ridosso delle elezioni convocate in seguito a pressioni internazionali dopo ventun anni di dittatura hutu: il contesto era di crisi economica e instabilità geopolitica (nel 1990 aveva avuto luogo il tentato colpo di Stato ad opera dell’RPF, gruppo politico-militare tutsi precedentemente rifugiatosi in Uganda), politica (nel 1993 il presidente della repubblica era stato ucciso in un attentato), e militare (in seguito all’invasione tutsi dall’Uganda, una guerra civile dilaniava il Paese). Ma fu la chiamata alle urne che portò la situazione, già compromessa, nella zona di pericolo della pulizia etnica: «se i partiti politici si organizzano sulla base dell’etnia, la democrazia può incoraggiare le tensioni e dare il via alla violenza etnica».102 L’indizione delle elezioni portò i diversi gruppi politici hutu a sentire la loro supremazia minacciata dalla minoranza tutsi, la quale, da parte sua, deteneva maggiori risorse economiche e posti chiave nelle istituzioni statali e nell’esercito.103 Gli hutu si compattarono quindi intorno alla fazione più radicale, il «Potere hutu», facente uso di slogan «etnodemocratici» quali «il potere alla grande maggioranza» o «la democrazia è della maggioranza».104 Il genocidio, che Mann, contrariamente a molti commentatori, non ritiene pianificato ex ante nel dettaglio, bensì risultante da una serie di radicalizzazioni progressive,105 ebbe luogo nel nome dell’etnodemocrazia. Gli unici perpetratori di pulizia etnica che presero le mosse da posizioni antidemocratiche furono i nazisti, votati al principio del Führer, organizzati fin dall’inizio in corpi paramilitari e fieri oppositori della repubblica di Weimar, che consideravano corrotta e inefficace.106 La seconda tesi enunciata da Mann è che «l’ostilità etnica sorge là dove l’etnia ha la meglio sulla classe come principale forma di stratificazione sociale, catturando e incanalando sentimenti di classe in direzione dell’etnonazionalismo».107 Le differenze etniche si intrecciano difatti con altre differenze sociali, specialmente di classe e di regione; la semplice diversità di etnia non basta a generare il conflitto. Popoli etnicamente diversi 101 102 103 104 105 106 107

Ivi, p. 4. Ivi, p. 544. Ivi, pp. 544-545. Ivi, pp. 584 e 572. Ivi, pp. 546-554. Ivi, pp. 219 e cfr. anche il Rejoinder di Mann in An Anatomy of Power, cit., p. 362. M. Mann, Il lato oscuro della democrazia, cit., p. 5.

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ma su un piano economico-politico di parità molto raramente si scontrano, mentre lo scontro, o il determinarsi di rancori etnici, è praticamente sicuro nei casi in cui un’etnia si senta economicamente o politicamente sfruttata dall’altra; e a sua volta, continua Mann, «l’oppressore imperiale reagirà con lo sdegno della virtù offesa contro la minaccia che il “primitivismo” travolga la sua “civiltà”».108 Questo è stato il caso, già ricordato, degli hutu e dei tutsi, ma anche l’ex «Stato imperiale» serbo era concepito delle altre nazionalità jugoslave come oppressore.109 Durante il genocidio armeno, i perpetratori ai vertici miravano a ottenere l’appoggio delle masse contrapponendo i contadini poveri dell’Anatolia, di nazionalità turca e religione islamica, facenti parte dell’ethnos, ai «ricchi» armeni, impegnati soprattutto nel commercio, estranei all’ethnos in quanto popolo senza Stato e di religione cristiana.110 Gli stessi ebrei erano messi in relazione da molti tedeschi al capitale finanziario straniero e a quello usurario, e considerati quindi, allo stesso tempo, «parassiti» e «sfruttatori».111 In alcuni casi, «il popolo [l’ethnos] viene identificato con il proletariato, e dopo la rivoluzione si possono verificare pulizie di classe e contro altri nemici dello Stato»:112 questo fu il caso dei regimi comunisti in Unione Sovietica, Cina e Cambogia.113 La terza tesi recita: «si entra nella zona di pericolo della pulizia omicida quando (a) movimenti che sostengono di rappresentare due gruppi etnici consolidati rivendicano entrambi il diritto a un proprio Stato su tutto o parte del medesimo territorio e (b) tale rivendicazione sembra loro avere legittimità sostanziale e buona probabilità di venire imposta».114 La più seria eccezione a questa tesi, in apparenza, è costituita dal genocidio nazista degli ebrei: solo in apparenza però, sostiene Mann, in quanto Hitler e i vertici nazisti erano fermamente convinti che gli ebrei fossero alleati dei popoli slavi e dei bolscevichi. Molti ebrei residenti in Germania erano originari dei Paesi dell’est, nei quali le comunità ebraiche erano numerose; un ampio numero di essi militava inoltre, prima dell’avvento del nazismo, in gruppi e movimenti di estrema sinistra. Gli ebrei, secondo i nazisti, rappresentavano quindi un nemico interno per tre

108 109 110 111 112 113 114

Ivi, p. 7. Ivi, pp. 445-447. Ivi, p. 141. Ivi, p. 223. Ivi, p. 621. Ivi, pp. 389-432. Ivi, p. 7.

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ragioni principali:115 rendevano impossibile la purezza etnica della nazione, indebolendo lo «spirito nazionale» che era alla base della prosperità di quest’ultima; incarnavano la minaccia di una rivoluzione comunista (o meglio, secondo il linguaggio nazista, «giudeobolscevica»), nel corso della quale avrebbero contare sul sostegno dell’Unione Sovietica grazie ai legami di discendenza etnica e di vicinanza ideologica che intrattenevano con essa; e, infine, avrebbero costituito un ostacolo tanto etnico quanto politico alla progettata espansione tedesca verso est. Non erano quindi gli ebrei a volere uno Stato in territorio tedesco, bensì i tedeschi a volersi espandere in regioni più fortemente popolate da ebrei di quanto non lo fosse la Germania, ed a concepire questi ultimi come attori di una cospirazione internazionale ai loro danni: «Hitler credeva alla propria paranoia sulla minaccia costituita dal nemico giudeobolscevico, che a suo parere univa gli ebrei agli slavi».116 In base alla quarta tesi, «la soglia della pulizia etnica omicida si supera quando prende corpo uno dei due seguenti scenari alternativi: (4a) la parte meno potente decide di combattere piuttosto che sottomettersi, nella convinzione che giungerà un aiuto esterno; (4b) La parte più forte ritiene di avere una potenza militare e una legittimazione ideologica tali da riuscire a imporre il proprio Stato etnicamente pacificato senza incorrere in eccessivi rischi fisici o morali».117 Esempi del caso (4a) sono la Jugoslavia e il Ruanda, mentre il caso (4b) è esemplificato dai regimi coloniali. Il caso degli armeni e quello degli ebrei si pongono a metà tra questi due scenari: le parti dominanti (turchi e tedeschi) ritenevano di dover colpire per prime, per impedire che le parti più deboli (armeni ed ebrei) si alleassero con forze esterne molto più minacciose. La quinta tesi afferma che «il superamento della soglia della pulizia etnica e l’ingresso nella zona oscura della pulizia omicida si verificano quando lo Stato che esercita la sovranità sul territorio conteso è frazionato e radicalizzato, nel contesto di un ambiente geopolitico instabile, improntato alla guerra».118 È in questo frangente, infatti, che lo Stato si ritrova in condizioni di debolezza tali da non poter più applicare le politiche di conciliazione e repressione che hanno assicurato la pace fino a quel momento. L’Impero ottomano, all’epoca del genocidio armeno, era stato destabilizzato da due colpi di Stato, da perdite territoriali e, soprattutto, avvertiva 115 116 117 118

Ivi, p. 224. Ivi, p. 622. Ivi, p. 7. Ivi, p. 8.

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la minaccia di una possibile collaborazione armeno-russa, che avrebbe significato la sua distruzione.119 Lo Stato hutu, in Ruanda, era frammentato e suddiviso in fazioni, a causa dell’invasione dei tutsi dall’Uganda, della guerra civile da questa risultante, e dell’attentato all’aereo presidenziale.120 La Federazione jugoslava si stava sfaldando, e lo scontro per la sovranità dei diversi Stati su territori contesi radicalizzò le identità etniche.121 Il caso tedesco, ancora una volta, rappresenta una parziale eccezione a questa tesi: lo Stato nazista intraprese forme di pulizia etnica a partire dal 1939, in una fase di stabilità politica e di espansione territoriale; tuttavia fu solo con la guerra mondiale che la pulizia etnica messa in atto contro gli ebrei e altre minoranze assunse il carattere e le proporzioni della «soluzione finale».122 Questo ci porta a considerare la sesta tesi: «raramente la pulizia etnica omicida è l’intento iniziale dei perpetratori».123 Il caso tedesco, che Mann ricostruisce con grande accuratezza, dimostra molto bene questa tesi. Già dal 1919 Hitler intendeva eliminare ebrei e bolscevichi da quello che, nei suoi piani, doveva diventare il Grande Reich tedesco.124 Tuttavia, alla «soluzione finale», consistente nello sterminio organizzato di milioni di ebrei, si giunse solo attraverso successive radicalizzazioni, man mano che le misure prese precedentemente incontravano ostacoli o non si rivelavano risolutive.125 Il piano A consisteva nell’indurre gli ebrei a emigrare dalla Germania mediante la creazione di un ambiente a loro ostile, e cioè attraverso le leggi razziali e altre forme di pesanti discriminazioni, inframezzate da esplosioni di violenza ai loro danni.126 Questa fase coincise con il primo periodo del potere nazista, quando la nuova forma organizzativa dello Stato era ancora in via di istituzionalizzazione. Le fazioni più estreme all’interno del partito nazista avrebbero preferito metodi maggiormente radicali, che vennero prontamente attuati una volta eliminate le opposizioni politiche e iniziata l’espansione territoriale in Austria e verso est.127 L’an119 120 121 122 123 124 125

Ivi, p. 617. Ivi, p. 618. Ivi, pp. 450-452. Ivi, pp. 256 e 618. Ivi, p. 8. Ivi, p. 233. Sul ruolo delle escalation nei conflitti etnici, cfr. anche T. R. Gurr, A Risk Assessment Model of Ethnopolitical Rebellion, in Preventive Measures, a cura di J. L. Davies e T. R. Gurr, Rowman & Littlefield, Lanham 1998, e, nello stesso volume, B. Harff, Early Warning of Humanitarian Crises; cfr. anche T. R. Gurr, People versus States, United States Institute of Peace, Washington 2000. 126 M. Mann, Il lato oscuro della democrazia, cit., pp. 233-235. 127 Ivi, p. 236.

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nessione dell’Austria fu lo stimolo per un violento pogrom ad opera dei nazisti austriaci, mentre l’occupazione della Cecoslovacchia e l’invasione della Polonia, nel galvanizzare gli animi dei sostenitori hitleriani (i quali avevano visto come una terribile onta la cessione, imposta dal trattato di Versailles, di parte del territorio tedesco a favore di tali Stati), resero però più reale la loro paura di una reazione «giudeobolscevica». Si impose quindi, brevemente, un piano B basato sulla deportazione forzata degli ebrei tedeschi in Polonia, nazione in gran parte popolata anch’essa da una razza slava inferiore, da usare come forza-lavoro: il terzo occidentale del Paese sarebbe stato incorporato nel Reich, ma ripulito da polacchi ed ebrei. Il terzo mediano sarebbe diventato un protettorato, contenente polacchi, ma solo come manodopera stagionale abitante in quartieri di schiavi segregati. I suoi ebrei sarebbero stati radunati in ghetti, dove li avrebbero raggiunti gli ebrei del Reich […]. Il terzo orientale sarebbe stato ceduto all’Unione Sovietica e quindi, per il momento, non era un problema tedesco.128

Questo progetto trovò subito ostacoli davanti a sé: mancavano le infrastrutture per trasferire e ospitare oltre un milione di ebrei e centinaia di migliaia di polacchi nel protettorato, mentre gli ufficiali che avrebbero dovuto governare su di esso protestavano che «i loro feudi sarebbero diventati delle discariche di Untermenschen».129 La soluzione concordata fu quella di spingere i deportati ancora più a est, verso la Russia, e nel frattempo procedere con uccisioni asistematiche (piano C). In questo periodo furono addirittura elaborati ambiziosi e irrealizzabili progetti di deportazione degli ebrei in Palestina o in Madagascar.130 Alla fine del 1941, l’irrigidimento della resistenza sovietica e il consolidamento delle linee del fronte resero chiaro che anche il piano di una deportazione sempre più a est era impraticabile, e solo a questo punto il piano D, il genocidio, divenne la soluzione prescelta.131 Esso, quindi, «più che una serie ordinata di decisioni, fu un processo generale di escalation, ad opera di élite in sintonia tra loro che si erano viste frustrare i piani iniziali».132 Il caso della ex Jugoslavia, se si considerano le azioni di Milosevic, costituisce anch’esso il prodotto di un’escalation tra corsi d’azione adottati in

128 129 130 131 132

Ivi, p. 254. Ivi, p. 255. Ivi, pp. 254-255. Ivi, p. 257. Ibid.

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rapida successione e presto abbandonati,133 e lo stesso genocidio dei tutsi fu il risultato di «escalation vagamente connesse, provocate da focolai di conflitto diffusi e da complesse interazioni all’interno di uno Stato sempre più frazionato».134 Il genocidio armeno si produsse anch’esso mediante escalation, le quali portarono a una «soluzione finale» altamente contingente: la scelta di procedere allo sterminio di massa degli armeni fu presa nel momento in cui, nel 1915, la situazione geopolitica era ormai disperata.135 Ridurre in questo modo il peso dell’intenzionalità, – scrive Mann – è moralmente disagevole, perché spesso mi porta ad argomentare contro coloro che parlano in nome delle vittime. Il genocidio degli ebrei, degli armeni, dei tutsi, di alcuni popoli indigeni colonizzati e di altri fu perpetrato deliberatamente. […] Ma le vittime sopravvissute sono portate a sottolineare la premeditazione dei loro oppressori. Questo deriva in gran parte dall’esigenza di trovare un senso alle loro sofferenze: cosa ci può essere di peggio che considerare quelle sofferenze come accidentali? […] Non voglio affatto dire che la pulizia etnica sia accidentale, ma solo che è qualcosa di molto più complesso e contingente di quanto non ammettano le teorie incentrate sulla colpa. In ultima analisi viene perpetrata deliberatamente; ma la via alla deliberazione è di solito tortuosa.136

La settima tesi afferma che «vi sono tre categorie principali di perpetratori: le élite radicali alla guida del partito-Stato; le formazioni militanti strutturate in bande paramilitari violente; le basi popolari di consenso che forniscono un sostegno di massa, ma non maggioritario».137 In nessun caso è possibile dare la colpa semplicemente a leader politici o militari oppure a interi gruppi etnici, come sostengono le visioni dominanti. Le élite costituiscono il più delle volte i pianificatori, gli «assassini da scrivania»,138 mentre il lavoro sporco viene compiuto da appartenenti agli strati sociali inferiori. I perpetratori, a tutti i livelli, provengono in maggior misura dai bacini di consenso favorevoli all’etnonazionalismo violento, e nelle loro azioni si mescolano solitamente motivi ideologici (quella che Weber139 denomina azione razionale rispetto al valore) ed emotivi (azione affettiva), quali paura o odio verso il gruppo etnicamente contrapposto. Questi sentimenti 133 134 135 136 137 138 139

Ivi, p. 390. Ivi, p. 553; trad. leggermente modificata. Ivi, p. 9. Ibid. Ibid. Ivi, p. 28. Cfr. M. Weber, Economia e società, trad. it. Edizioni di Comunità, Milano 1961, vol. 1, p. 20.

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sono più frequenti quando le ostilità etniche sono già entrate nel vivo, e individui precedentemente moderati radicalizzano la loro identità per effetto dei torti, dei lutti o dei timori subìti ad opera della fazione opposta. In alcuni casi, anche l’azione abituale può giocare un ruolo: è questo il caso, già esaminato, delle «carriere di violenza» dei perpetratori nazisti. L’azione razionale rispetto allo scopo, afferma invece Mann, è complessivamente poco rilevante: «la teoria razionale esige un livello di rigore e di semplicità che non si riscontra nel mondo reale»; le azioni collettive connesse all’identità etnica raramente seguono schemi di calcolo strumentale dei vantaggi e degli svantaggi.140 La maggioranza della popolazione resta in disparte, indifferente o timorosa: intere nazioni non agiscono mai collettivamente, bensì i perpetratori sono alcuni tedeschi, alcuni serbi, alcuni croati, alcuni hutu, ecc.141 Talvolta, individui che non vorrebbero partecipare ai massacri etnici sono costretti con la forza dalle autorità o da cittadini come loro: la pulizia etnica si compone di pressioni dall’alto, dal basso e orizzontali.142 L’ottava e ultima tesi afferma quindi che «l’intero gruppo dei perpetratori è trascinato da tanti motivi che normalmente si ritrovano tra la gente comune che partecipa a più ordinari movimenti sociali».143 La maggioranza dei perpetratori di forme di violenza etnica sono persone normali sottoposte a un accumulo di circostanze in cui la loro azione va ad assumere i contorni di un’apparente legittimità, normalità o convenienza; non si tratta di soggetti disturbati o assassini predestinati. «Collocati in situazioni paragonabili e in ambienti sociali simili», nota Mann, «anche io e voi potremmo partecipare a pulizie etniche omicide».144 Esse risultano dalla fusione ideologica di ethnos e demos, oltre che da motivi di carrierismo, patriottismo, cameratismo, routine lavorativa.145 Il male è qualcosa di molto più alla nostra portata di quanto, spesso, non ci piaccia considerare. 6.7. Combattere la pulizia etnica nel mondo di oggi L’Europa, in seguito a secoli di lotte religiose, pulizie etniche, guerre territoriali e sterminii di massa ai danni di minoranze, è oggi costituita da Stati-nazione dall’impostazione pluralistica e democratica, oltre che, per la 140 141 142 143 144 145

M. Mann, Il lato oscuro della democrazia, cit., p. 31. Ivi, p. 24. Ivi, p. 27. Ivi, pp. 10 e 624. Ivi, p. 11. Ivi, p. 624.

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maggior parte, dotati di forte omogeneità etnica.146 L’unico Stato sostanzialmente bietnico è rimasto la Macedonia, ma in esso il sostegno agli etnonazionalisti è debole, a causa dell’insegnamento che la popolazione ha ricavato dai terribili eventi svoltisi appena fuori dei confini nazionali. Vi sono altresì alcuni Stati multietnici: il Regno Unito, il Belgio, la Svizzera e la Spagna. Si tratta però di Stati in cui la prospettiva multiculturalista e pluralista è da tempo consolidata in istituzioni democratiche; gli scoppi di violenza etnica che talvolta ancora avvengono in Irlanda del Nord e nei Paesi Baschi mantengono proporzioni ridotte, senza poter rappresentare una minaccia per la pace. L’Europa, essendo con successo divenuta ormai un continente democratico, sembra essere fuori dall’era della pulizia etnica. Se però si presta orecchio alle rivendicazioni delle destre populiste, le quali al momento sono in ascesa nei risultati elettorali, la minaccia sembra venire da fuori: sarebbero gli immigrati provenienti da altri Paesi e continenti a importare tradizioni incompatibili con quelle della nazione ospitante, a rappresentare un pericolo per la coesione sociale di essa, per il godimento da parte dei cittadini nazionali delle sue risorse materiali, e per la sicurezza interna.147 Al di là della propaganda elettorale e di facili demagogie, che però intercettano il disagio molto concreto di fasce di popolazione che stanno vedendo rapidamente peggiorare le proprie condizioni di vita a causa di politiche inadeguate, gli immigrati non rappresentano una minaccia politica concreta per gli Stati europei. Essi costituiscono al massimo il 10% della popolazione totale, non richiedono un proprio Stato né, generalmente, presentano rivendicazioni politiche o economiche collettive,148 trovandosi peraltro in una condizione strutturale di debolezza all’interno del Paese ospitante e provenendo da molte aree differenti. Al contrario, in stragrande maggioranza, gli immigrati mirano a un’assimilazione parziale volontaria nel Paese in cui risiedono, tale da permettere loro di integrarsi nelle istituzioni di esso e con la popolazione locale, conservando, al contempo, le proprie principali tradizioni culturali e il legame con la propria comunità nazionale.149 Al di là della retorica dello «scontro di civiltà», del razzismo che caratterizzerebbe fasce di popolazione poco istruite, o della competizione per posti di lavoro, sussidi statali o assegnazione di alloggi (che pure è presente), l’ostilità nei confronti degli immigrati deriva per Mann dal fatto che gli strati più deboli delle popolazioni nazionali si ritengono 146 147 148 149

Ivi, p. 627. Ivi, pp. 627-628. Ivi, p. 628. Ivi, pp. 628-629.

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«traditi in quanto cittadini» dalle istituzioni; essi si sentono lasciati soli di fronte ai problemi che derivano dalla cattiva gestione dei flussi migratori, i quali, considerati utili dalle tradizionali destre capitalistiche e non ostacolati dalle sinistre per ragioni ideologico-umanitarie, troppo spesso hanno un impatto sproporzionato nelle aree urbane più svantaggiate e sulle condizioni di vita e di lavoro dei cittadini più deboli. È questo risentimento, foriero di una «guerra tra poveri», che apporta voti alle destre xenofobe, le quali si pongono in alternativa alle forze politiche tradizionali. È molto probabile, anche sulla base del precedente verificatosi in Gran Bretagna negli anni ’60, che, se i maggiori partiti politici europei attuassero una sostanziale restrizione dell’immigrazione, il sostegno alle destre populiste crollerebbe.150 Attualmente, tuttavia, aggiunge Mann ne Il lato oscuro della democrazia, «finché la “guerra al terrorismo” americana continuerà a procedere lungo la sua strada controproducente, generando ulteriori ricadute terroristiche, maggiori sono le probabilità che nei Paesi del Nord si verifichino reazioni anti-musulmane. Qui, allora, i conflitti etnico-religiosi potrebbero riattizzarsi».151 Nell’Europa orientale i russi rimangono le uniche consistenti minoranze in Stati di altre etnie, mentre alcune parti della Federazione russa restano multietniche. Ciò dà luogo ad attriti che talvolta assumono le proporzioni di veri e propri conflitti etnopolitici, come quello recentemente scoppiato in Ucraina. In Cecenia ha luogo il caso più antico e preoccupante: tanto i russi quanto i ceceni (i quali si ribellano a quella che dal loro punto di vista altro non è che un’occupazione militare) ritengono di avere un diritto legittimo e realizzabile a imporre la propria sovranità politica sul medesimo territorio. Per quanto riguarda le economie avanzate dell’Asia orientale, si tratta di Paesi sostanzialmente monoetnici. Anche in Australia e negli Stati Uniti, ex colonie di insediamento europee, la classe dominante appartiene a un’unica etnia, e gli immigrati, come in Europa, non sono politicamente minacciosi. Negli Stati Uniti, tuttavia, tensioni etniche affiorano periodicamente, in particolare in connessione con la situazione di svantaggio strutturale in cui versa la minoranza afroamericana. Esse degenerano occasionalmente in sommosse, le quali però sono diventate molto meno violente e frequenti nel corso del XX secolo. «Per quanto serie possano apparire agli occhi dei Paesi coinvolti», valuta Mann, «queste tensioni sono un’inezia rispetto alle spaventose atrocità esaminate in questo libro».152 150 M. Mann, Fascists, cit., p. 370. 151 M. Mann, Il lato oscuro della democrazia, cit., p. 628. 152 Ibid.

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Oggi quasi tutte le pulizie etniche omicide si verificano nel Sud del mondo: in molti Paesi in via di sviluppo, infatti, solo ora stanno avendo luogo le prime spinte alla democratizzazione, le quali attraversano spesso fasi di fusione tra ethnos e demos. Nel farle degenerare in casi di pulizia etnica sono cruciali le forti diseguaglianze, interne e tra Stati, che colpiscono i territori in questione, in primis le regioni dell’Africa subsahariana.153 Le crisi economiche indeboliscono la forza e la legittimità istituzionale degli Stati più poveri, aggravando malcontenti materiali che, in un contesto composto da un alto numero di etnie, assumono facilmente una connotazione etnonazionalista tramite la consueta divisione in «etnie proletarie» ed «etnie imperiali». Mentre in Stati come l’India e l’Indonesia uno Stato forte e stabile riesce a mantenere sotto controllo le occasionali esplosioni di violenza etnica, nel caso dei Paesi africani gli Stati si ritrovano spesso frazionati tra élite a caratterizzazione etnica, capaci di mobilitare le masse al perseguimento dei propri piani. Nei Paesi islamici una seria minaccia è costituita dall’avanzare del fondamentalismo religioso, che rappresenta la diretta negazione del pluralismo liberale.154 Sono frequenti, in questi casi, le richieste di teodemocrazia: ossia rivendicazioni di potere politico da parte di un ethnos identificato con la comunità dei credenti più osservanti, che intende autogovernarsi in base a interpretazioni fondamentaliste del Corano e alla legge islamica. Simili rivendicazioni «teodemocratiche» vengono spesso avanzate dai movimenti fondamentalisti: puntando il dito contro i sovrani autoritari locali e contro le potenze imperiali straniere, essi hanno gioco facile nell’accrescere il proprio seguito; nel tempo rivelano appieno il proprio volto dittatoriale, teocratico e intollerante, tanto verso le minoranze religiose, quanto verso ogni forma di islam più moderato. «L’ideale della democrazia, il governo del popolo», conclude quindi Mann, «è un portato della modernità, ma può diventare organicistico ed esclusivista, creando un pericolo per le minoranze etniche e religiose. Dobbiamo essere realisti riguardo a questa tendenza, essere preparati all’idea che si manifesti, e contribuire a respingerla».155 Grazie alle otto tesi sulla pulizia etnica, afferma l’autore, possiamo identificare le «zone di pericolo» e i casi che si avvicinano al baratro della pulizia etnica, sebbene una previsione esatta degli sviluppi di ogni singola situazione è impossibile: raramente, infatti, la pulizia etnica è l’obiettivo di partenza dei perpetratori; 153 Ivi, p. 631. 154 Ivi, p. 635. 155 Ivi, p. 646.

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essa risulta dal congiungersi di interazioni inizialmente imprevedibili.156 Oltre alle otto tesi, Mann individua alcuni tratti frequenti nel prodursi di fenomeni di pulizia etnica: innanzitutto, i più gravi conflitti etnici solitamente si verificano tra gruppi storicamente sedimentati, non tra identità a recente costituzione; i gruppi etnici più antichi sono infatti anche quelli che intrattengono, con coloro che vedono come i propri oppositori, rivalità e ostilità di vecchia data, e quindi di più difficile soluzione. Nel mondo vi sono al momento una cinquantina di gruppi di questo tipo, privi di diritti collettivi: sarà difficile porre loro un freno.157 Tuttavia, se le tensioni etniche sono gestite adeguatamente dallo Stato e si verificano in un contesto favorevole all’istituzionalizzazione di dispositivi democratici, le aspirazioni autonomiste possono essere soddisfatte all’interno dei confini dati. Questo, naturalmente, richiede che il regime faccia reali concessioni di tipo confederale o consociativo, o assegni quote garantite per le minoranze in parlamento, nel governo, nelle istituzioni statali e nell’esercito, o ancora che dia a esse il potere di veto sulle politiche proposte dai gruppi dominanti. Misure di questo tipo, tuttavia, «non sono la panacea, e in alcuni contesti funzionano meglio che in altri»; in determinati casi, esse possono addirittura rafforzare le tensioni etniche.158 L’attenzione al contesto è essenziale anche nel determinare il sistema elettorale da istituzionalizzare in ogni singolo caso: «[Se] la maggior parte delle persone si identifica con la propria comunità etnica, […] libere elezioni con il sistema maggioritario secco producono dominio etnico, equivalendo di fatto a censimenti etnici».159 In alcuni casi, i più estremi, la separazione delle etnie confliggenti in due Stati è la soluzione più praticabile: è così là dove passati atti di violenza, da entrambe le parti, abbiano creato troppa diffidenza affinché possa instaurarsi una gestione condivisa del potere. A questo punto, però, risulta solitamente molto difficile proteggere coloro che si ritrovano in minoranza all’interno di uno dei due nuovi Stati, e si rendono necessarie garanzie collettive dei diritti delle minoranze, su cui vigilino organismi internazionali.160 «Possiamo noi Paesi del Nord aiutare i Paesi del Sud a evitare gli scenari peggiori, che sono, dopotutto, quelli del nostro passato?».161 In prima istanza, sostiene Mann, dovremmo esercitare molti più controlli sulle nostre 156 157 158 159 160 161

Ivi, p. 647. Ivi, p. 648. Ivi, p. 649. Ibid. Ivi, p. 650. Ibid.

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vendite di armi, sia di quelle usate dagli Stati a scopi repressivi che delle «armi dei deboli», impiegate da movimenti terroristici e gruppi paramilitari.162 Sarebbe fondamentale anche pervenire a un ordinamento internazionale che possa servire da effettivo argine alle tendenze imperialiste degli Stati più potenti sul piano globale, e che porti questi ultimi, insieme a tutti i Paesi sviluppati, ad adoperarsi seriamente per ridurre le diseguaglianze nel Sud del mondo, le quali, come dimostrato, sono un fattore determinante nel prodursi delle tensioni etniche. Questo implicherebbe abbandonare le politiche neoliberiste che molto hanno contribuito, negli ultimi decenni, ad allargare il divario tra ricchi e poveri, sia internamente ai singoli Stati che a livello internazionale.163 Al contempo, i governi dei Paesi più potenti del mondo dovrebbero smettere di subordinare alle proprie finalità geopolitiche le decisioni relative a loro possibili interventi in conflitti etnici, riferendosi al contrario, in queste decisioni, ad agenzie multilaterali, la cui democraticità interna va d’altronde potenziata. Sempre queste ultime dovrebbero incoraggiare l’istituzionalizzazione, nel quadro di ordinamenti democratici, dei conflitti di classe e di etnia che rischiano di evolversi in uccisioni di massa. Vi è inoltre il ruolo dei tribunali internazionali, che possono comminare condanne penali per i crimini commessi nel corso dei conflitti etnici ed esprimere sentenze fissando norme internazionali universalmente obbliganti.164 La loro azione, tuttavia, si esplica soprattutto a posteriori: data l’importanza di corsi d’azione basati sulla razionalità rispetto al valore (ossia sulla convinzione ideologica) o su aspetti emotivi, è altamente improbabile che il rischio di essere condannati giudiziariamente scoraggi gli estremisti etnonazionalisti dal compiere atrocità. Inoltre, potendo processare solo un numero limitato di imputati per crimini di guerra o contro l’umanità, i tribunali internazionali «presuppongono una teoria elitista dei crimini»:165 ad essere messi sotto accusa sono unicamente i vertici politici e militari, poiché la loro azione può essere ricostruita più facilmente ed è possibile contare su una più ampia quantità di testimonianze. Questa necessaria selettività, dal momento che lascia impuniti molti perpetratori, rischia di dare a entrambe le comunità che sono state implicate nel conflitto l’impressione di una «giustizia incompleta», rendendo più difficile la riconciliazione. 162 163 164 165

Ivi, p. 650-651. Ivi, p. 651. Ivi, p. 653. Ibid.

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Proprio perché la pulizia etnica omicida è il lato oscuro della democrazia, è probabile che il Sud del mondo sia condannato a ripetere la dolorosa storia dell’Europa:166 la violenza etnonazionalista ha finito di transitare a Nord, e ora sta interessando soprattutto i Paesi in via di sviluppo impegnati in tentativi di democratizzazione. Lo studio intrapreso da Mann intende essere un contributo al riconoscimento di tutti quei casi in cui le tensioni etniche rischiano di condurre le popolazioni nel baratro dello sterminio di massa. Solo considerando al contempo le regolarità generali dei fenomeni di pulizia etnica e i singoli contesti delle «zone di pericolo» è possibile elaborare soluzioni atte a evitare le conseguenze più spaventose. «La pulizia etnica omicida non è primitiva, né a noi estranea. Appartiene alla nostra civiltà e a noi»:167 per capire la pulizia etnica, quindi, abbiamo bisogno di una sociologia del potere che faccia luce sulle ragioni politiche, economiche, ideologiche e militari alla base del sorgere di concezioni etnonazionaliste, arricchita dalla comprensione storica di come partecipazione di massa, spirito nazionale e Stato moderno siano tre aspetti della modernità strettamente congiunti. Essi, come è successo in passato, possono ancora trovare articolazione su percorsi democratici, inclusivi e pluralisti, o, al contrario, costituire gli elementi di base a partire dai quali si dispiega il lato oscuro della democrazia.

166 Ivi, p. 655. 167 Ivi, p. 3.

7. BIBLIOGRAFIA DEGLI SCRITTI DI MICHAEL MANN

1. Monografie Workers on the Move, Cambridge University Press, Cambridge 1973. Consciousness and Action in the Western Working Class, Macmillian, London 1973. The Working Class in the Labour Market, con R. M. Blackburn, Macmillian, London 1979. Trad. it. di L. Rolle, L’illusione della scelta. Classe operaia e mercato del lavoro, ed. it. a cura di A. Pichierri, Rosenberg & Sellier, Torino 1983. Socialism Can Survive: Social Change and the Labour Party, Fabian Society, Tract No. 502, London 1985. The Sources of Social Power, Volume I: A History of Power from the Beginning to AD 1760, Cambridge University Press, New York 1986. States, War and Capitalism. Studies in Political Sociology, Basil Blackwell, Oxford 1988 (raccolta di articoli e saggi brevi pubblicati tra il 1977 e il 1987). The Sources of Social Power, Volume 2: The Rise of Classes and Nation-States, 1760-1914, Cambridge University Press, New York 1993. Incoherent Empire, Verso, London-New York 2003. Trad. it. di G. Lonza, L’impero impotente. Perché il nuovo imperialismo americano può portare al disastro gli USA e il mondo, Piemme, Casale Monferrato 2004. Fascists, Cambridge University Press, Cambridge 2004. The Dark Side of Democracy: Explaining Ethnic Cleansing, Cambridge University Press, Cambridge 2005. Trad. it. di B. Amato, Il lato oscuro della democrazia. Alle radici della violenza etnica, Università Bocconi Editore, Milano 2005. Power in the 21st Century. Conversations with John A. Hall, Polity Press, Cambridge 2011. The Sources of Social Power, Volume 3: Global Empires and Revolution, 18901945, Cambridge University Press, New York 2012. The Sources of Social Power, Volume 4: Globalizations, 1945-2011, Cambridge University Press, New York 2013. 2. Libri curati A Student Encyclopedia of Sociology, Macmillan, London 1983.

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Michael Mann

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TEORIA CRITICA Collana diretta da Lucio Cortella 1 Lucio Cortella (a cura di), Teoria critica e metafisica 2 Axel Honneth, Riconoscimento e conflitto di classe. Scritti 1979-1989, cura e traduzione di Eleonora Piromalli 3 Eleonora Piromalli, Axel Honneth, Giustizia sociale come riconoscimento 4 Alessandro Bellan (a cura di), Teorie della reificazione. Storia e attualità di un fenomeno sociale 5 Terry Pinkard, La Fenomenologia di Hegel. La socialità della ragione, edizione italiana a cura di Andrea Sartori e Italo Testa, traduzione di Andrea Sartori 6 Federica Gregoratto, Il doppio volto della comunicazione. Normatività, dominio e critica nell’opera di Jürgen Habermas

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