Manuale di storia romana

Table of contents :
Premessa......Page 13
AVVERTENZA......Page 15
1.1 Le fasi più antiche della storia d'Italia......Page 19
1.2 Le più antiche popolazioni dell'Italia......Page 21
1.3 Gli Etruschi......Page 23
1.4 La civiltà etrusca......Page 25
2.1 Caratteri della tradizione sulla più antica storia di Roma......Page 29
2.2 Gli storici delle origini di Roma......Page 31
2.3 La fondazione di Roma: la leggenda e la realtà......Page 32
2.4 I re di Roma......Page 34
2.5 Le istituzioni sociali e politiche del periodo regio......Page 37
2.6 Gli acquisti territoriali di Roma durante la monarchia......Page 40
3.1 La primitiva costituzione repubblicana......Page 42
3.2 La reazione della plebe contro il governo patrizio......Page 43
3.3 Il decemvirato......Page 45
3.4 L'ascesa della plebe......Page 47
3.5 L'ordinamento centuriato e la censura......Page 48
3.6 Caratteri dello Stato romano arcaico......Page 50
4.1 Dalla fine della monarchia alla presa di Veio (396 a.C.)......Page 56
4.2 La rotta davanti ai Galli e la restaurazione del prestigio di Roma (353 a.C.)......Page 58
4.3 La prima guerra sannitica e l'ultima ribellione dei Latini (338 a.C.)......Page 59
4.4 La seconda guerra sannitica: le lotte con gli Etruschi (327-304 a.C.)......Page 61
4.5 La terza guerra sannitica o prima guerra italica......Page 63
5.1 Roma e la Magna Grecia......Page 65
5.2 Pirro in Italia......Page 66
5.3 Struttura dello Stato federale romano......Page 68
6.1 Roma e Cartagine......Page 71
6.2 La prima guerra punica (264-241)......Page 72
6.3 Le conseguenze della guerra......Page 74
6.4 La tregua tra Roma e Cartagine. Le guerre con i Galli e gli Illiri......Page 75
6.5 La conquista cartaginese della Spagna......Page 77
6.6 La seconda guerra punica: le forze in contrasto......Page 78
6.7 Lo svolgimento della guerra fino dopo Canne......Page 79
6.8 La fase decisiva della lotta......Page 80
6.9 La vittoria finale di Scipione......Page 83
7.1 I nuovi problemi della pOlitica estera romana......Page 85
7.2 La guerra contro Filippo di Macedonia (200-196 a.C.)......Page 86
7.3 La guerra contro Antioco di Siria (192-188 a.C.)......Page 88
7.4 La riconquista dell'Italia settentrionale e la sua romanizzazione......Page 90
7.5 La fine della autonomia della Macedonia e della Grecia......Page 92
7.6 Le ribellioni in Spagna e la presa di Numanzia (133 a.C.)......Page 95
7.7 La distruzione di Cartagine (146 a.C.)......Page 96
7.8 L'annessione del regno di Pergamo (133 a.C.)......Page 98
8.1 La trasformazione politica......Page 100
8.2 La trasformazione economica......Page 103
8.3 La trasformazione culturale......Page 104
8.4 La trasformazione religiosa......Page 107
9.1 La questione dell'agro pubblico e la legge di Tiberio Gracco (133-132 a.C.)......Page 111
9.2 Gaio Gracco: la fine del moto agrario (131-121 a.C.)......Page 113
9.3 La conquista della Gallia meridionale e la guerra di Giugurta (121-105 a.C.)......Page 116
9.4 La guerra contro i Cimbri e i Teutoni (105-102 a.C.)......Page 118
9.5 Il conflitto interno dei partiti e la questione degli Italici (103-92 a.C.)......Page 119
9.6 La guerra sociale e la concessione della cittadinanza agli Italici (92-89 a.C.)......Page 121
10.1 La guerra civile tra Mario e Silla e la guerra contro Mitridate......Page 123
10.2 La vittoria su Mitridate e il ritorno di Silla a Roma......Page 125
10.3 Silla al governo......Page 127
10.4 La rovina della costituzione sillana......Page 129
10.5 Il potere personale di Pompeo......Page 130
10.6 Dalla congiura di Catilina al primo triumvirato......Page 132
10.7 Le sorti del triumvirato......Page 134
11.1 La conquista della Gallia......Page 137
11.2 La Gallia e Cesare: il conflitto con Pompeo......Page 138
11.3 La vittoria su Pompeo......Page 141
11.4 Il dominio sull'impero......Page 143
11.5 Verso il regno......Page 144
11.6 Il significato di Cesare......Page 146
12.1 Dalla morte di Cesare (44 a.C.) alla battaglia di Filippi (42 a.C.)......Page 151
12.2 Dalla battaglia di Filippi al patto di Miseno (39 a.C.)......Page 153
12.3 Dal patto di Miseno alle guerre con i Parti (34 circa)......Page 154
12.4 Il conflitto definitivo fra Antonio e Ottaviano......Page 155
13.1 La situazione dell'impero dopo la battaglia di Azio e il programma di Ottaviano......Page 158
13.2 Le fasi della costituzione augustea......Page 159
13.3 La struttura dello Stato romano al tempo di Augusto......Page 161
13.4 Le guerre di Augusto......Page 166
13.5 La riorganizzazione sociale e morale......Page 168
13.7 La famiglia di Augusto: sua morte......Page 170
14.1 L'eredità di Augusto e i suoi problemi......Page 172
14.2 Tiberio (14-37 d.C.)......Page 173
14.3 Caligola (37-41 d.C.)......Page 176
14.4 Claudio (41-54 d.C)......Page 177
14.5 Nerone (54-68 d.C.)......Page 179
15.2 Gaiba, Otone, Vitellio (68-69 d.C.)......Page 183
15.3 Vespasiano (69-79 d.C.)......Page 185
15.4 Tito (79-81 d.C.) e Domiziano (81-96)......Page 187
16.1 Caratteri generali del secondo secolo dell'impero......Page 190
16.2 Nerva (96-98) e Traiano (98-117)......Page 191
16.3 Adriano (117-138 d.C.)......Page 194
16.4 Antonino Pio (138-161) e Marco Aurelio (161-180)......Page 195
16.5 Commodo (180-192)......Page 197
17.1 Elvio Pertinace (gennaio-marzo 193 d.C.) e la situazione generale del momento alla morte di Commodo......Page 199
17.2 Settimio Severo (193-211 d.C.)......Page 200
17.3 Caracalla (211-217 d.C.); Macrino (217-218); Elagabalo (218-222); Severo Alessandro (222-235)......Page 201
18.2 Italia e province: urbanizzazione, cittadinanza romana......Page 204
18.3 Sintomi di decadenza......Page 208
18.4 Il problema dell'esercito......Page 211
19.1 La letteratura e il diritto......Page 214
19.2 L'orientalizzazione della religione......Page 217
19.3 La diffusione del Cristianesimo......Page 219
20.1 Parti e Germani......Page 223
20.2 Il periodo delle rivoluzioni militari: 1) Fino a Decio (235-249 d.C.)......Page 225
20.3 Il periodo delle rivoluzioni militari: 2) Da Decio a Gallieno (249-268)......Page 227
20.4 Verso la restaurazione: Claudio il gotico, Aureliano, Caro, Probo (268-285)......Page 229
20.5 Diocleziano e la sua successione (285-312)......Page 230
20.6 Costantino (312-337)......Page 234
21.1 Gli eredi di Costantino (337-361)......Page 241
21.2 Giuliano l'Apostata. Gioviano. Valentiniano e Valente Graziano (361-378)......Page 243
21.3 Teodosio (378-395)......Page 244
21.4 La divisione definitiva tra Oriente e Occidente. Caratteri dello svolgimento delle due parti (395 d.C.)......Page 246
21.5 Dal tramonto di Stilicone all'awento di Valentiniano III (406-425)......Page 249
21.6 La fine dell'autorità imperiale in Occidente (425-476 d.C.)......Page 250
21.7 La tradizione imperiale romana in Occidente......Page 254
22.2 Il regno romano-barbarico d'Italia sotto Teodorico......Page 256
22.3 Le conseguenze dell'insediamento dei Germani: gli altri regni barbarici di Occidente......Page 258
22.4 La riconquista dell'Occidente da parte di Giustiniano......Page 260
22.5 La situazione economica e spirituale dell'Italia sotto il governo di Giustiniano. S. Benedetto......Page 261
22.6 L'opera di Giustiniano e il fallimento della riunificazione dell'impero......Page 263
22.7 Taluni aspetti della civiltà bizantina......Page 265
Appendice......Page 267
Imperatori romani d'Occidente e d'Oriente e principali usurpatori......Page 270
Nota bibliografica......Page 273

Citation preview

Arnaldo Momigliano

MANUALE DI STORIA ROMANA

A cura di Attilio Mastrocinque

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Proprietà letteraria riservata © 2011 De Agostini Scuola SpA - Novara 1a edizione: marzo 20 Il Printed in lta/y

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Stampa: Tipografia Gravinese - Torino

Ristampe: o I Anno: 2011

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3

Premessa

Parte prima - Dalle origini a Cesare

5 5 7 9 11 14

Capitolo primo L'Italia preistorica e le sue più antiche genti

15

Capitolo secondo Le origini e le istituzioni antichissime di Roma

15 17 18

2.1 Caratteri della tradizione sulla più antica storia di Roma 2.2 Gli storici delle origini di Roma 2.3 La fondazione di Roma: la leggenda e la realtà 2.4 I re di Roma 2.5 Le istituzioni sociali e politiche del periodo regio 2.6 Gli acquisti territoriali di Roma durante la monarchia Bibliografia

20

23 25 27

1.1 Le fasi più antiche della storia d'Italia 1.2 Le più antiche popolazioni dell 'Italia 1.3 Gli Etruschi 1.4 La civiltà etrusca Bibliografia

28

Capitolo terzo Le riforme costituzionali nel primo secolo della Repubblica

28 29 31 33 34 36 40

3.1 La primitiva costituzione repubblicana 3.2 La reazione della plebe contro il governo patrizio 3.3 Il decemvirato 3.4 L'ascesa della plebe 3.5 L'ordinamento centuriato e la censura 3.6 Caratteri dello Stato romano arcaico Bibliografia

42 42 44 46

4.1 4.2 4.3

Capitolo quarto La conquista dell'Italia centrale Dalla fine della monarchia alla presa di Veio (396 a.c.) La rotta davanti ai Galli e la restaurazione del prestigio di Roma (353 a.c.) La prima guerra sannitica e l'ultima ribellione dei Latini (338 a.C.)

Indice

VI

47 49 50

4.4 La seconda guerra sannitica: le lotte con gli Etruschi (327-304 a.c.) 4.5 La terza guerra sannitica o prima guerra italica Bibliografia

51 51 52 54 56

Capitolo quinto La lotta con Pirro -l'assestamento della conquista

57 57 58 60 61 63 64 65 67 69 70

Capitolo sesto Le prime due guerre puniche

5.1 Roma e la Magna Grecia 5.2 Pirro in Italia 5.3 Struttura dello Stato federale romano Bibliografia

6.1 Roma e Cartagine 6.2 La prima guerra punica (264-241) 6.3 Le conseguenze della guerra 6.4 La tregua tra Roma e Cartagine. Le guerre con i Galli e gli Illiri 6.5 La conquista cartaginese della Spagna 6.6 La seconda guerra punica: le forze in contrasto 6.7 Lo svolgimento della guerra fino dopo Canne 6.8 La fase decisiva della lotta 6.9 La vittoria finale di Scipione Bibliografia

Capitolo settimo Il predominio in Oriente e la espansione in Occidente

71 71 72 74 76 78 82 83 84 85

7.1 I nuovi problemi della politica estera romana 7.2 La guerra contro Filippo di Macedonia (200-196 a.c.) 7.3 La guerra contro Antioco di Siria (192-188 a.c.) 7.4 La riconquista dell'Italia settentrionale e la sua romanizzazione 7.5 La fine della autonomia della Macedonia e della Grecia 7.6 Le ribellioni in Spagna e la presa di Numanzia (133 a.c.) 7.7 La distruzione di Cartagine (146 a.c.) 7.8 L'annessione del regno di Pergamo (133 a.C.) Bibliografia

86

Capitolo ottavo La trasformazione interna di Roma

86 89 90 93 95

8.1 La trasformazione politica 8.2 La trasformazione economica 8.3 La trasformazione culturale 8.4 La trasformazione religiosa Bibliografia

97 97 99 102 104 105

Capitolo nono Dai Gracchi alla guerra sociale 9.1 9.2 9.3 9.4 9.5

La questione dell 'agro pubblico e la legge di Tiberio Gracco (133-132 a.c.) Gaio Gracco: la fine del moto agrario (131-121 a.C.) La conquista della Gallia meridionale e la guerra di Giugurta (121-105 a.c.) La guerra contro i Cimbri e i Teutoni (105-102 a.c.) Il conflitto interno dei partiti e la questione degli Italici (103-92 a.c.)

Indice

108

9.6 La guerra sociale e la concessione della cittadinanza agli Italici (92-89 a.c.) Bibliografia

109

Capitolo decimo Da Silla al primo triumvirato

109 111 113 115 116 118

10.1 La guerra civile tra Mario e Silla e la guerra contro Mitridate 10.2 La vittoria su Mitridate e il ritorno di Silla a Roma 10.3 Silla al governo 10.4 La rovina della costituzione sillana 10.5 Il potere personale di Pompeo 10.6 Dalla congiura di Catilina al primo triumvirato 10.7 Le sorti del triumvirato Bibliografia

107

120

122

VII

Capitolo undicesimo Cesare

123 123 124 127 129 130 132 133

Il.1 La conquista della Gallia 11.2 La Gallia e Cesare: il conflitto con Pompeo 11.3 La vittoria su Pompeo 11.4 Il dominio sull'impero Il.5 Verso il regno Il.6 Il significato di Cesare Bibliografia

135

P arte Seconda - L'Impero

137 137 139 140 141 143

Capitolo dodicesimo Dalla morte di Cesare alla battaglia di Azio 12.1 Dalla morte di Cesare (44 a.C.) alla battaglia di Filippi (42 a.c.) 12.2 Dalla battaglia di Filippi al patto di Miseno (39 a.c.) 12.3 Dal patto di Miseno alle guerre con i Parti (34 circa) 12.4 Il conflitto definitivo fra Antonio e Ottaviano Bibliografia

144 144 145 147 152 154 156 156 157

Capitolo tredicesimo La nuova organizzazione dell'Impero

158 158 159 162

Capitolo quattordicesimo Gli imperatori della casa Giulia-Claudia

13.1 La situazione dell'impero dopo la battaglia di Azio e il programma di Ottaviano 13.2 Le fasi della costituzione augustea 13.3 La struttura dello Stato romano al tempo di Augusto 13.4 Le guerre di Augusto 13.5 La riorganizzazione sociale e morale 13.6 Il nuovo significato dell'imperialismo romano 13.7 La famiglia di Augusto: sua morte Bibliografia

14.1 L'eredità di Augusto e i suoi problemi 14.2 Tiberio (14-37 d.C.) 14.3 Caligola (37-41 d.C,)

Indice

VIII

163 165 168

14.4 Claudio (41-54 d.C) 14.5 Nerone (54-68 d.C.) Bibliografia

169 169 169 171 174 175

Capitolo quindicesimo I Flavi 15.1 La situazione dell'impero alla morte di Nerone 15.2 Gaiba, Otone, Vitellio (68-69 d.C.) 15.3 Vespasiano (69-79 d.C.) 15.4 Tito (79-81 d.C.) e Domiziano (81-96) Bibliografia

176 176 177 180 181 183 184

Capitolo sedicesimo Da Nerva a Commodo

185 185

Capitolo diciassettesimo I Severi

186 187

188

16.1 Caratteri generali del secondo secolo dell'impero 16.2 Nerva (96-98) e Traiano (98-117) 16.3 Adriano (1l7-138 d.C.) 16.4 Antonino Pio (138-161) e Marco Aurelio (161-180) 16.5 Commodo (180-192) Bibliografia

17.1 Elvio Pertinace (gennaio-marzo 193 d.C.) e la situazione generale del momento alla morte di Commodo 17.2 Settimio Severo (193-211 d.C.) 17.3 Caracalla (211-217 d.C.); Macrino (217-218); Elagabalo (218-222); Severo Alessandro (222-235) Bibliografia

190 190 190 194 197 199

Capitolo diciottesimo L'evoluzione economica e sociale dell'Impero

200

Capitolo diciannovesimo Problemi spirituali: la diffusione del Cristianesimo

200 203 205 207

19.1 La letteratura e il diritto 19.2 L'orientalizzazione della religione 19.3 La diffusione del Cristianesimo Bibliografia

209 209 211 213 215

Capitolo ventesimo Dall'anarchia militare all'Impero cristiano

18.1 Preliminari 18.2 Italia e province: urbanizzazione, cittadinanza romana 18.3 Sintomi di decadenza 18.4 Il problema dell' esercito Bibliografia

20.1 20.2 20.3 20.4

Parti e Germani Il periodo delle rivoluzioni militari: I) Fino a Decio (235-249 d.C.) Il periodo delle rivoluzioni militari: 2) Da Decio a Gallieno (249-268) Verso la restaurazione: Claudio il gotico, Aureliano, Caro, Probo (268-285)

Indice

216 220 225

20.5 Diocleziano e la sua successione (285-312) 20.6 Costantino (312-337) Bibliografia

227

Capitolo ventunesimo Il tramonto dell'autorità imperiale in Occidente

227 229 230 232

21.1 21.2 21.3 21.4

235 236 240 241

IX

Gli eredi di Costantino (337-361) Giuliano l'Apostata. Gioviano. Valentiniano e Valente Graziano (361-378) Teodosio (378-395) La divisione definitiva tra Oriente e Occidente. Caratteri dello svolgimento delle due parti (395 d.C.) 21.5 Dal tramonto di Stilicone all'avvento di Valentiniano III (406-425) 21.6 La fine dell'autorità imperiale in Occidente (425-476 d.C.) 21.7 La tradizione imperiale romana in Occidente Bibliografia

242

Capitolo ventiduesimo La disgregazione del mondo politico romano e le nuove formazioni politiche e culturali

242 243 244

249 251

22.1 La situazione del mondo romano dopo il 476 d.C. 22.2 Il regno romano-barbarico d'Italia sotto Teodorico 22.3 Le conseguenze dell'insediamento dei Germani: gli altri regni barbarici di Occidente 22.4 La riconquista dell 'Occidente da parte di Giustiniano 22.5 La situazione economica e spirituale dell 'Italia sotto il governo di Giustiniano. S. Benedetto 22.6 L'opera di Giustiniano e il fallimento della riunificazione dell'impero 22.7 Taluni aspetti della civiltà bizantina

253 254 255 256

Gli Scipioni Famiglia Giulio-Claudia Imperatori romani d'Oriente e d'Occidente e principali usurpatori

259

Nota bibliografica

267

Indice dei nomi

246 247

Appendice

L'EDITORE RINGRAZIA

Giovannella Cresci, Università Ca' Foscari di Venezia Cesare Letta, Università degli Studi di Pisa Lucio Troiani, Università degli Studi di Pavia Alfredo Valvo, Università Cattolica del Sacro Cuore

I loro preziosi suggerimenti hanno contribuito alla realizzazione di questa edizione del Manuale di storia romana.

Premessa

Scegliere di pubblicare oggi il testo di Arnaldo Momigliano non nasce solo dal desiderio di far rivivere l'opera di uno dei più grandi studiosi del XX secolo, che ha formato generazioni di studenti. Nasce soprattutto dalla convinzione che questo manuale continui a essere, oggi come allora, un vero e proprio punto di riferimento per la storia antica. Gli anni però hanno lasciato le loro tracce su queste pagine e il nostro lavoro è stato proprio quello di toglierle (come si fa con le opere pittoriche) per riproporre l'opera nella sua freschezza originale. E se per i restauratori questo lento e paziente lavoro consiste nel rimuovere la fuliggine che ha reso meno brillanti i colori, per un libro il lavoro, non meno delicato e laborioso, vede impegnato il curatore nell'aggiornare il testo, cercando di rispettarne lo spirito originario. In particolare per un manuale pensato per la didattica, per trasmettere quindi i concetti chiave di questa disciplina, il curatore deve fare i conti non solo con l'aggiornamento storiografico e bibliografico, ma anche con il nuovo modo che hanno i ragazzi di approcciarsi allo studio e con le esigenze imposte dai crediti universitari ai corsi che vengono impartiti negli Atenei. Per questo si è deciso di intervenire integrando la pagina con box di approfondimento (tutti scritti da chi firma questa premessa) da un lato per ottemperare a queste esigenze e dall'altro perché fosse sempre evidente quali sono state le aggiunte. CosÌ lo studente vi troverà di nuovo tutto quello di cui ha bisogno, mentre chi vorrà potrà rileggere il testo cosÌ come lo pensò Momigliano più di sessant'anni fa. Anche l'aggiornamento bibliografico è stato fatto cercando di rispettare quell'afflato internazionale che animò il Momigliano, il quale voleva fornire agli studenti quegli strumenti bibliografici fondamentali per approfondire e specializzare le loro conoscenze e per abituarli a confrontarsi con il resto del mondo. In questo modo speriamo di aver veramente ridato vita a un classico. Insieme con la casa editrice, si è anche deciso di rendere disponibile on line (sul sito www.utetuniversita.it/momigliano) ulteriore materiale prodotto ad hoc per questa edizione, che speriamo possa aiutare lo studente a prepararsi al meglio, dandogli la possibilità di un apprendimento di carattere multimediale, che impegna un po' meno la concentrazione rispetto alla lettura di un libro ed ha una sua diversa efficacia didattica. Attilio Mastrocinque

Manuale di storia romana

AVVERTENZA

Questo volume ha sostanzialmente i medesimi caratteri di quello che lo precede: intende cioè dare una esposizione semplice e chiara, ma scientificamente fondata, della storia di Roma antica. Sulla difficoltà del compito e sulle più o meno inevitabili deficienze, non occorre insistere. Ciò che mi importa avvertire è che non ho, evidentemente, potuto per la storia romana continuare il sistema, adottato per la storia greca, di dare un minimo posto alla storia arcaica per dare un minimo posto alle ipotesi. Ho cercato solo di dare le ipotesi per tali, e nello stesso tempo di fornire nella bibliografia il mezzo di conoscere ipotesi diverse da quelle accettate nel testo. Che la bibliografia sia più abbondante che nel primo volume non ha perciò bisogno di giustificazione. Del resto, le indicazioni che non potranno servire subito saranno da qualcuno ricercate in seguito: il che fino a quando la storia antica non sarà studiata se non in ginnasio, è forse l'unico modo per rendere possibile a chi abbia buona volontà di non rimanere alle trattazioni elementari. E si sa che la storia di Roma è sempre la prima che suscita veramente l'interesse critico dei giovani. Sono sicuro infine che non mi si rimprovererà di aver dato alla storia del periodo imperiale più posto di quanto abitualmente non si faccia. Arnaldo Momigliano

PARTE

PRIMA

Dalle origini a Cesare

L'Italia preistorica e le su~ più antiche genti CAPITOLO

1.1

PRIMO

Le fasi più antiche della storia d'Italia

L'Italia è stata abitata, salvo che nelle isole, durante il periodo paleolitico, cioè durante il periodo in cui non solo non si conoscevano metalli, ma non si sapeva levigare la pietra. In questo periodo, a parte classificazioni scientificamente più esatte, si possono distinguere almeno due fasi: una in cui gli uomini primitivi non sapevano valersi come arma che di pesanti pietre in forma di ascia (fase dell' ascia impugnata) e una in cui invece già si sapevano usare delle schegge opportunamente ritoccate come arma da taglio e da lancio (fase della cuspide oppure della scheggia ritoccata). In questo secondo periodo sono sicure tracce di una qualche religiosità e di un culto dei morti, perché i morti sono seppelliti, nelle caverne stesse in cui hanno vissuto, presso i vivi. Ornamenti di ossa, rozze incisioni parietali e più rozze statue dimostrano germinali attitudini artistiche. Razze differenti popolano l'Italia: nell'Italia settentrionale è dimostrata in questo periodo anche una razza di tipo negroide. Tuttavia a questa differenza di razze non sembra corrispondere alcuna differenza di civiltà. Un nuovo periodo si inizia coll'apprendimento a levigare la pietra (periodo neolitico), L'uomo non è più soltanto, come nel periodo precedente, cacciatore, ma anche pastore, cioè possiede animali domestici. Inoltre comincia ad apprendere l'agricoltura e in progresso di tempo anche la macinazione dei grani. Egli non vive solo in grotte, ma più spesso in capanne, e le capanne si raggruppano in villaggio, segno che ormai l'individuo si sente legato a una unità superiore, la tribù. Le armi sempre di pietra si fanno più raffinate. Viene imparata l'arte di foggiare l'argilla in vasi, che sono spesso di forma artistica e vengono anche colorati. I morti sono alle volte ancora sepolti in grotte, ma più spesso in tombe allo scoperto, e il cadavere è deposto nella tipica posizione di rannicchiato. Le tombe, come le capanne dei vivi, formano spesso dei vasti villaggi di morti, le necropoli. La civiltà neolitica si diffonde pure nelle isole, almeno in Sicilia, dove assume forme peculiari: ciò conferma che in questo periodo l'uomo conosce la navigazione e quindi può superare tratti di mare.

Il periodo paleolitico

Il periodo neolitico

Manuale di storia romana

6

L'età del Bronzo

La civiltà delle terremare

L'uso del ferro

Col diffondersi dei primi oggetti di rame (asce piatte e pugnali triangolari) si manifesta una fase di trapasso tra l'età della pietra e l'età dei metalli (periodo eneolitico, cioè di rame e pietra). In questa fase di trapasso si perfeziona il sistema di costruire le abitazioni, si costruiscono anche per maggiore sicurezza i primi villaggi entro i laghi a poca distanza dalla costa impiantandoli su sistemi di pali (palafitte). Il commercio si diffonde, avvengono scambi frequenti con paesi stranieri. Colla diffusione di un pratico sistema di mescolare rame e stagno e ottenere il bronzo, sorge una nuova fase: il periodo del Bronzo. In questo periodo la differenziazione tra vari nuclei civili, che già si poteva scorgere in germe nei periodi precedenti, diventa più netta. Non c'è insomma più uniformità di civiltà. Tipi di abitazioni e riti funebri differenti distaccano l'uno dall'altro parecchi gruppi. Nell'Italia settentrionale, e in specie in Veneto e in Lombardia, permane il tipo di abitazione nei laghi a palafitte. Ma accanto a questo, soprattutto in Lombardia e in Emilia, si diffonde il curioso sistema di costruire dei villaggi su palafitte all'asciutto: si trasporta insomma il sistema delle palafitte a luoghi non lacustri e lo si perfeziona dando alla costruzione del villaggio norme ben determinate. Il villaggio è sempre più o meno di forma trapezoidale, circondato da un argine e da una fossa: due strade principali, come si userà negli accampamenti romani, si incrociano nel centro. Uno spazio, volto a oriente, è lasciato libero da abitazioni per compiervi adunate e cerimonie religiose, comprovate dall'esistenza di una così detta fossa rituale, per sacrifici e libagioni. Gli abitanti di questi villaggi (a cui è stato dato il nome di terramare) erano guerrieri e agricoltori, conoscevano l'allevamento del bestiame e la filatura. Essi - e in ciò sta un'altra novità in confronto ai tipi di civiltà finora esaminati - non seppellivano i loro cadaveri (inumazione), ma invece li bruciavano e ne conservavano in tante urne le ceneri (incinerazione). Parecchie altre forme di civiltà ben distinte da quelle delle terramare potrebbero essere notate: basti qui ricordare la civiltà di Sardegna, coi suoi edifici, i nuraghi, e la civiltà delle Puglie, che sola conosce le tipiche grandi tombe di pietra, molto diffuse nelle restanti regioni dell'Europa, dette dolmen. Verso il 1000 a.c., probabilmente, penetra in Italia il ferro prima come oggetto di lusso, poi come oggetto di uso comune. E dà origine a quella fase della civiltà in cui la preistoria si avvia ormai alla storia, e in cui la popolazi~ne dell 'Italia assume la fisionomia che conserverà poi nel complesso fino che Roma non unificherà dopo lotte secolari le genti della penisola in un popolo solo. Di questa età è caratteristico, insieme con l'uso del ferro, l'apprendimento a laminare il bronzo: ciò che rende possibile tecniche più varie di lavorazione. Anche nella più antica fase dell'età del Ferro (XI-VII sec. circa a.C.) non si può affatto par-

L'Italia preistorica e le sue più antiche genti

lare di civiltà uniforme in Italia, bensì di vari nuclei di civiltà. In genere si può notare una profonda differenza dei costumi di seppellimento: nell 'Italia settentrionale e nella parte tirrenica dell 'Italia centrale prevale la incinerazione; nella parte adriatica dell'Italia centrale (dalle Marche in giù) e nell'Italia meridionale prevale l'inumazione. Naturalmente, non si può affatto dire con assoluta certezza che coloro che incineravano i morti erano appartenenti a popoli diversi da quelli che li inumavano, perché vedrem~~he gli Etruschi e i Romani conoscevano entrambi i sistemi. Però, data la prevalenza a nord di incineranti e a sud di inumanti, dato che l'inumazione era il sistema più anticamente in uso in Italia, è lecito supporre che l'incinerazione sia stata diffusa da genti diverse da quelle che inumavano i cadaveri. Tra i più importanti nuclei di civiltà di questo periodo ricorderemo quello dei colli Euganei; quello così detto villano viano da Villanova vicino a Bologna, sede di una necropoli che può ritenersi tipica di questa civiltà; quello toscano-laziale.

1.2

7

I diversi tipi di sepoltura

Le più antiche popolazioni dell'Italia

Abbiamo già avvertito che nel periodo a cui press'a poco siamo giunti con la precedente esposizione (sec. VIII-VII a.c.), l'Italia è ormai popolata da quelle genti che più tardi ritroveremo in lotta con una di loro, diventata più forte di tutte, la gente latina di Roma. Ma noi non abbiamo voluto indicare i nomi di queste popolazioni, perché in realtà è problema non risolto determinare a quale civiltà - come ci è rivelata dagli scavi e soprattutto dalle tombe - corrispondano i popoli a noi noti. S'intende che questa è difficoltà sussistente solo per il periodo arcaico che ora esaminiamo. Ogni archeologo sa sicuramente distinguere una tomba etrusca o una tomba osco-umbra del IV sec. a.c., quando ormai Etruschi od Osci o Umbri sono popoli ben definiti che non solo hanno loro tipiche forme di civiltà, ma soprattutto conoscono la scrittura e quindi ci lasciano tracce non discutibili della loro attività. Ma in età più antica, quando la scrittura era ignota (noi vedremo che essa fu diffusa in Italia dai coloni greci), non è possibile attribuire sicuramente determinate tombe, determinate armi etc. a un popolo piuttosto che a un altro. Di qui discende che mentre tal uno ha ritenuto che la civiltà della terramare sia già in sostanza una civiltà etrusca, che poi avrebbe una seconda fase nella civiltà villanoviana e una terza infine nella etrusca propriamente detta, altri abbia sostenuto che la civiltà della terramare sia propria degli Indo-Europei venuti in Italia o anche di un particolare gruppo indo-europeo, sia quello a cui appartenevano i Latini, sia quello a cui appartenevano gli Osco-Umbri. Analoga incertezza hanno le

Dai Villanoviani agli Etruschi

Manuale di storia romana

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Le genti «Iatino-sicule» e quelle «osco-umbre»

Gli Illiri, i Celti, i Greci

teorie che tendono ad attribuire a uno dei gruppi indo-europei (di regola a quello dei Latini) il sistema della incinerazione, riservando all'altro il sistema della inumazione. È opportuno perciò in questa sede accennare solo brevemente alle più importanti genti dell 'Italia senza preoccuparci di identificare gli aspetti più antichi della loro civiltà. Ci sono intanto i due gruppi principali di Indo-Europei, il gruppo latino-siculo e quello osco-umbro o umbro-sabello. Questi Indo-Europei sono probabilmente emigrati in Italia in due grandi ondate molto distanti l'una dall'altra. Più antichi sono in Italia i Latini e i Siculi con cui erano imparentati gli Ausoni della Campania e gli Enotri diffusi per tutta l'Italia meridionale, entrambi presto spariti. Di questi Enotri facevano parte con verosimiglianza quegli Itali abitanti press' a poco l'odierna Calabria, a cui toccò in sorte di dare il nome all'Italia'. Gli Indo-Europei, venuti in tempo più recente, del gruppo osco-umbro si sono differenziati in parecchi nuclei tra cui i Sabini a nord di Roma, i Volsci a sud, gli Umbri press'a poco nell'odierna Umbria, i Sanniti più o meno nella parte centrale dell'Abruzzo e del Molise nonché più tardi in Campania dove presero il nome di Osci da una popolazione preesistente. Oltre a questi due gruppi principali di Indo-Europei c'erano in Italia almeno tre altre popolazioni indo-europee venute più tardi: gli Illiri, i Celti, i Greci. Con gli Illiri sono imparentati probabilmente tanto i Veneti, che hanno dato il nome alla regione omonima, quanto gli Iapigi detti anche Messapii, press'a poco nell'odierna Puglia. I Celti o Galli sono emigrati in Italia intorno al VI o al V secolo occupando vaste zone della regione padana, donde cacciarono Etruschi, Liguri e Veneti. I Greci hanno mandato colonie in Italia dall'VIII sec. a.C. in poi e hanno predominato in alcune regioni dell'Italia meridionale (cosiddetta Magna Grecia) e in molta parte della Sicilia, dove hanno dovuto contrastare il primato con i Fenici di Cartagine. Oltre ai semitici Fenici penetrati in Sicilia e in Sardegna, tre altre popolazioni almeno (trascurando gruppi minori) erano di origine non indo-europea e in realtà a noi ignota: i Liguri, che occupavano non solo l'odierna Liguria, ma anche grande parte del/Piemonte e la costa tirrenica sino alla foce dell' Arno, i Sardi e infine gli Etruschi.

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Il nome Italia si estese a poco a poco dalla Calabria a tutta la penisola. Il significato del termine non

è chiaro: la supposizione più comune è che il nome sia imparentato con quello di vitello (latino vitulus), quasi a significare terra ricca di vitelli oppure che gli Itali originari avessero come divinità della stirpe il vitello. Cfr più oltre. p. 54

L'Italia preistorica e le sue più antiche genti

L'età del Bronzo finale e l'età del Ferro Il panorama delle culture dell'Italia antica si diversifica significativamente dal 1200 a.C. circa; quando inizia il periodo del Bronzo finale e si manifesta la cultura proto-villanoviana, la quale, a differenza dalla cultura detta appenninica, non usa l'inumazione, ma l'incinerazione in urne biconiche fittili. I Protovillanoviani sono maestri nella lavorazione dei metalli ed hanno contatti con culture geograficamente lontane del Mediterraneo. Molte comunità, particolarmente nel Lazio, in Toscana, ma anche a Timmari (Matera), Lipari e altri siti -adottano questo tipo di cultura. A Roma e presso altre comunità latine compaiono aspetti cultuali affini. Nel corso del X secolo, nel IX e soprattutto nell'VIII, cioè durante l'età del Ferro, molte aree dove era fiorita la cultura proto-villanoviana videro apparire un suo ulteriore sviluppo, costituito dalla cultura villanoviana, che compare quasi sempre in luoghi diversi, ma vicini ai vecchi insediamenti dell'età del Bronzo. L'importanza di questa cultura sta nel fatto che essa si manifesta nei siti, e specialmente sui pianori, sui quali nasceranno le città dell'Etruria tirrenica e del Lazio. Infatti il fenomeno della nascita delle città in queste aree è un appassionante capitolo dell'archeologia che negli ultimi decenni ha permesso di comprendere come gli abitanti dei villaggi distribuiti sul territorio si concentrarono sui pianori (per esempio a Veio e Tarquinia, ma lo stesso fenomeno dev'essere awenuto per Roma), specialmente tra il IX e l'VIII secolo. Questa concentrazione del popolamento dev'essere stata accompagnata da norme che regolavano la convivenza degli abitanti, e queste norme costituirono il fondamento delle città. La fase villanoviana vide infatti nascere le città dell'Etruria meridionale tirrenica e del Lazio e lentamente dalle manifestazioni sostanzialmente uniformi della cultura proto-villanoviana si manifestano caratteri regionali sempre più marcati, che diventeranno i caratteri delle principali popolazioni dell'Italia antica. Si tratta di caratteristiche dell'artigianato, dei riti sepolcrali, dei culti. Quella che noi chiamiamo cultura etrusca si precisò chiaramente in questo periodo, e lo stesso awenne per la cultura laziale o quella venetica. Oltre alla Toscana, all'alto Lazio e parte dell'Umbria, gli Etruschi erano presenti nel VII secolo (ma certamente già precedentemente) in Emilia e in alcune zone della Campania, come provano le iscrizioni rinvenute. La dinamica della costituzione delle città portò alla definizione di confini di territori ampi, nei quali erano comprese anche popolazioni non coinvolte nella fondazione delle città, e perciò prive dei diritti politici tipici dei cittadini. Esse vennero a costituire i ceti subordinati, in semi-servitù, delle città etrusche, che, all'occasione, potevano essere anche chiamati alle armi sotto il comando di specifici magistrati cittadini. Le città laziali devono avere organizzato il loro popolamento in modo diverso. In particolare, Roma non ammise che liberi cittadini o schiavi, ma non popolazioni sottoposte del loro territorio. Anzi, Roma divenne famosa per essere l'unica città che concedeva la cittadinanza anche agli schiavi liberati.

1.3

Gli Etruschi

Intorno agli Etruschi occorre un maggiore indugio per la parte importante che hanno avuto nella storia della civiltà italiana e per la loro diretta influenza su Roma. La loro origine, come dicevamo, è ignota. Chi li crede, conformemente a una tradizione accolta da Erodoto, venuti

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Manuale di storia romana

La lingua degli Etruschi

L'espansione e le principali città etrusche

dall'Asia minore; chi li crede arrivati dal nord scendendo per le Alpi Retiche o anche originari d'Italia, cioè derivati dalle più antiche popolazioni del periodo paleolitico e neolitico. Nulla di positivo sapremo fino a che non sarà stata decifrata la loro lingua, che per ora ci è interamente ignota, salvo poche parole, come hut, quattro, clan figlio, tin, giorno, avil, mese etc. Noi leggiamo l'etrusco, perché gli Etruschi adottarono per scrivere la loro lingua un alfabeto greco con modificazioni proprie, ma non lo comprendiamo. Tutti i tentativi per decifrare la lingua etrusca sono falliti. Questo fallimento dimostra però appunto che l'etrusco non è legato direttamente a nessun'altra lingua conosciuta, perché altrimenti la decifrazione sarebbe abbastanza agevole. È certo quindi che gli Etruschi non sono né indo-europei, né semiti etc. È ovvio poi che essi dovettero sentire fortemente l'influsso delle popolazioni circostanti e soprattutto degli Italici del gruppo osco-umbro, cosÌ come influirono per mutuo scambio su di loro. Gli Etruschi non costituirono mai uno Stato unitario. Furono sempre divisi in città rivali tra di loro e in un primo tempo governate da re, poi da gruppi aristocratici. C'erano tuttavia legami religiosi tra le varie città etrusche per cui un certo numero di esse si riunÌ in una lega che intorno al IV sec. a.c. comprendeva 12 città e aveva il suo centro nel Tempio di Voltumna (Fanum Voltumnae) presso VoI sini. L'odierna Toscana o meglio la zona prospiciente al mar Tirreno delimitata dall' Appennino tosco-emiliano e dal Tevere è la più antica regione in cui troviamo sicuramente gli Etruschi. Là sorgevano le loro città principali, Volterra, Arezzo, Cortona, Perugia, Clusio, Vetulonia, Volsini, Tarquinia, Cere, Veio. Ma gli Etruschi ebbero un'espansione tanto a nord quanto a sud: espansione disordinata, perché organizzata di solito da singole città o anche da singole bande di avventurieri, non da tutto il popolo, ma espansione vigorosa. Gli Etruschi nel VII e nel VI secolo a.c. giunsero a occupare grande parte del Lazio e della Campania: una dinastia etrusca dominò nel VI secolo a Roma, e la tradizione romana ancora ricorda questo predominio, quando ci parla dei due re Tarquini (il cui nome è tipicamente etrusco), di cui il secondo fu cacciato ponendo fine nello stesso tempo alla monarchia e alla prevalenza straniera. Verso nord gli Etruschi si spinsero nella pianura padana, occuparono alcune città, come Mantova, ne fondarono altre, come forse Modena, Parma, Ravenna. Si stabilirono poi anche nell' isola d'Elba e in Corsica e con l'aiuto dei Cartaginesi, di cui furono in quel tempo amici per la comune rivalità coi Greci, sconfissero i Greci di Focea nella battaglia d'Alalia il 540 circa a. C. e li costrinsero ad abbandonare ogni pretesa sulla Corsica. Ma al nord l'espansione etrusca fu troncata dai Celti che nel VI o nel V secolo a.c., come già ricordammo, scesero nella pianura padana:

L'Italia preistorica e le sue più antiche genti

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Le scoperte di Pyrgl

Gli scavi dell'Università di Roma nell'insediamento portuale di Pyrgi, dipendente da Caere, ha permesso di conoscere dei testi quasi coevi al primo trattato fra Roma e Cartagine (509 a.C.). In un sacello fra i due templi maggiori sono state trovate tre lamine d'oro che celebrano la dedica di un tempio, scritte sia in etrusco che in punico, la lingua dei Cartaginesi. Dopo la battaglia di Alalia e il successo cartaginese ed etrusco, il mare Tirreno fu controllato dalle due forti marinerie e divenne degno del suo nome, che significa .il mare degli Etruschi», laddove il mare Adriatico aveva preso il nome da una città etrusca, Adria. Le città della costa laziale entrarono pertanto nella sfera di interessi commerciali cartaginesi.

a sud trovarono infine un ostacolo insuperabile in Roma, che, dopo essersi liberata dal predominio etrusco, cominciò una lotta sistematica contro le città etrusche, la quale a poco a poco, dalla caduta delle città etrusche o etruschizzate Fidene (circa il 425 a.c.) e Veio (circa il 396) fino alla distruzione di Voi sini nel 265 circa, portò alla sottomissione completa degli Etruschi a Roma. A nulla valse che essi via via si alleassero con i vari nemici di Roma, gli stessi Galli, i Sanniti etc. Tuttavia è notevole che gli Etruschi, appena sottomessi, divenissero fedelissimi a Roma e per Roma dessero un enorme contributo di sangue nelle guerre puniche. Perciò l'Etruria fu presto romanizzata, e le vestigia della lingua e della cultura etrusca caddero in dimenticanza. Contribuirono alla decadenza dell'Etruria la diffusione della malaria e il prevalere dei latifondi in molta parte del suo territorio. Ma il territorio etrusco romanizzato, cioè la Toscana, è sempre rimasto poi una delle regioni spiritualmente più vive della civiltà italiana.

1.4

L'Etruria «romanizzata»

La civiltà etrusca

Gli Etruschi hanno sentito fortemente l'influsso della civiltà greca, come dimostrano l'adozione di un alfabeto greco, la penetrazione di molte divinità e leggende greche e infine il forte numero di opere d'arte greche, in ispecie vasi, ritrovate in Etruria. Subirono molto anche l'influsso della civiltà osco-umbra e certo già in periodo arcaico, per tacere dell' ovvio influsso posteriore, assimilarono elementi della civiltà latina. Nonostante questi molteplici influssi, la civiltà etrusca ha una fisionomia inconfondibile, e i suoi elementi più originali sono stati portati in Roma nel periodo del predominio politico nel Lazio e vi sono rimasti, sicché non solo noi possiamo ritrovare in Roma molti elementi di

L'influenza della cultura greca

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Manuale di storia romana

La letteratura e l'arte etrusche

La religione: divinità, riti e luoghi sacri

civiltà etrusca, ma certuni di questi elementi sono conservati esclusivamente in Roma. Noi ora ignoriamo, si può dire, totalmente la produzione letteraria etrusca. E giova subito avvertire che, se anche sapessimo capire l'etrusco, la ignoreremmo quasi ugualmente, perché i testi etruschi da noi posseduti sono soltanto delle brevi, sebbene numerosissime, iscrizioni, salvo un unico lungo testo letterario, forse di carattere religioso, che ci è conservato in modo assai curioso in una tela che ravvolgeva una mummia (così detta mummia di Agram o Zagabria). Perciò noi conosciamo della civiltà etrusca soprattutto la religione e l'arte, l'una documentata da molti accenni di scrittori romani e da rappresentazioni figurate, l'altra appunto conservataci in innumerevoli opere, che gli scavi sono venuti rimettendo alla luce. E poiché tutta l'arte ha una forte impronta religiosa, uno dei caratteri inconfondibili dell'arte etrusca proviene precisamente da questa religiosità grave, rigida, talvolta cupa; la quale però non esclude atteggiamenti diversi, come di liberazione da questa atmosfera, e quindi di una gioia sensuale di vivere, di ironia, ora anche di fine gaiezza: né è da dimenticare il realismo della rappresentazione figurata così diverso dall'idealizzamento dell'arte greca, a cui pure quella etrusca deve molto. Del resto è ovvio che non si può ridurre a poche formule uno sviluppo artistico come l'etrusco. Gli Etruschi adoravano molte divinità, che noi conosciamo però solo nel periodo in cui l'influenza greca e latina le aveva trasformate assimilandole a divinità greche e romane (o anche osco-umbre): di più, molte delle stesse divinità che incontriamo sono di origine straniera. Così la triade suprema degli dei etruschi, Tinia, Uni e Menrva, è costituita da una divinità certo originariamente etrusca, Tinia, che però ha assunto il carattere del Giove latino, da un'altra Uni, che deriva dalla latina Juno (Giunone) e da una terza Menrva che è evidentemente la latina Minerva. Resta tuttavia di specificamente etrusco l'idea della triade suprema, che i Romani imitarono dagli Etruschi: e si sa che gli Etruschi non consideravano vera città quella che non avesse tre santuari o un santuario tripartito dedicato alla triade suprema. Altre divinità sono Fufluns identificato con Dioniso, Turan con Afrodite, Voltumna il dio protettore della lega etrusca, Sethlans, identificato con Efesto, e poi Apollo sotto la forma Aplu, Eracle sotto la forma H ercle etc. etc. Caratteristica della religiosità etrusca era la minuziosità delle prescrizioni per ogni atto religioso, dalla struttura dei templi, cioè dei recinti sacri, alle formule dei riti. Importante soprattutto la convinzione che fosse possibile conoscere la volontà degli dei, cioè il futuro, osservando attentamente i fenomeni naturali, e in specie i prodigi (terremoto, fulmini, mostruosità etc.), il volo degli uccelli e le viscere degli animali, tra le quali viscere aveva valore particolare per ragioni non ben

L'Italia preistorica e le sue più antiche genti

Caratteri delle aristocrazie italiche Negli ultimi decenni si è più precisamente valutato il processo di acculturazione che portò elementi greci nelle tradizioni latine ed etrusche. Nei culti italici l'iconografia, l'architettura e la mitologia dei Greci furono recepite e usate per reinterpretare la religiosità indigena; dal VII secolo in poi la tattica militare oplitica (armatura pesante e formazione serrata a falange) fu imitata dagli eserciti centroitalici; la produzione, il consumo e il commercio del vino furono imitati, e con essi le cerimonie e le suppellettili legate al consumo del vino; l'uso dell'alfabeto fu diffuso dai Greci della Campania a gran parte dei popoli italici. Questi e molti altri elementi culturali modificarono profondamente le culture laziale-ed etrusca. Le scoperte archeologiche hanno mostrato come le comunità laziali non dipendessero culturalmente da influssi di un'Etruria grecizzata, ma avessero sviluppato autonomamente i loro contatti coi Greci. Già dal primo affermarsi delle colonie greche in Italia meridionale, nell'VIII secolo, si trovano importazioni di merci greche presso gli Etruschi e i Latini, Romani compresi, e le trasformazioni che derivarono dal contatto fra culture determinarono una profonda trasformazione socio-economica. Le necropoli dell'età del Ferro non mostrano consistenti disuguaglianze economiche, mentre a partire dall'VIII secolo e soprattutto nel VII esse vedono comparire, in Etruria meridionale e Lazio, i tumuli funerari principeschi, dove venivano sepolti i ricchi e potenti delle nascenti città. Alcuni corredi funerari di Caere (Cerveteri) e Praeneste (Palestrina) di questo periodo mostrano una straordinaria ricchezza, comprendendo raffinati oggetti d'oro o d'avorio, numerosissime suppellettili bronzee. Gli autori antichi ci parlano di stoffe purpuree e vino costoso che venivano usati senza risparmio durante i funerali dei ricchi. Tumuli funerari enormi, simili a quelli d'Asia Minore, furono innalzati a Cortona, nel territorio di Tarquinia, di Caere e di altre città centro-italiche sul versante tirrenico. Alloro interno venivano ricavate serie di camere destinate ad accogliere i membri di singole famiglie, per cui il tumulo era il memoriale di una gens, cioè di un sistema di famiglie che portavano il medesimo nome gentilizio. A differenza dal nome personale, quello gentilizio era ereditario, e quindi funzionale alla trasmissione di un'eredità sia materiale che morale all'interno della società. Il nome gentilizio si diffuse a partire dal VII secolo. Le gentes ricche, che avevano approfittato delle novità tecnologiche e culturali, si posero al vertice delle città e tesero a perpetuare nelle generazioni il loro ruolo dominante. Il VII e parte del VI secolo furono epoca dello stile orientalizzante, ispirato a modelli greci, ma anche egiziani e vicino-orientali, uno stile che differenziava per raffinatezza e lusso le classi dirigenti dal resto della cittadinanza. Verso la metà del VI secolo si vide in atto una tendenza apparentemente inversa: i tumuli diventano più piccoli e compaiono altri tipi di tombe, di ricchezza media. Giovanni Colonna ha dimostrato che questa tendenza fu il risultato di leggi contro il lusso, simili a quelle che avevano adottato molte città greche. Erano i sintomi di un rafforzamento delle funzioni pubbliche (in latino: res publica) che sostituivano le prerogative dei privati più potenti. La res publica (il termine Stato non era usato né aveva un senso allora) si rafforzava, attraverso lo strumento delle leggi. Si credette che non fossero conosciute le sepolture del Lazio del V secolo, mentre invece si trattava della scomparsa, o Quasi, dei corredi funerari. Forse a Roma già gli ultimi re imposero delle norme di questo genere, che privavano i nobili e i ricchi della facoltà di manifestare in pubblico la loro supremazia. La tendenza verso l'uguaglianza, o meglio, verso la creazione di un'estesa classe media, portò poi alla creazione della Repubblica romana"

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Gli «aruspici» e la concezione della morte

Manuale di storia romana

chiare il fegato. L'arte degli aruspici, che ebbero molta autorità anche in Roma, aveva appunto lo scopo di interpretare questi segni della divinità: tale arte è di natura analoga a quella degli auguri, che in Roma prendevano gli auspici per ogni atto importante della vita pubblica e privata, e perciò si venne in parte confondendo con quella degli auguri. Molto preoccupava gli Etruschi anche il problema della morte, e, sebbene in età arcaica prevalessero concezioni piuttosto liete dell'al di là, e si immaginasse che il defunto potesse continuare a godere dei divertimenti della vita, nel complesso la visione etrusca della morte venne sempre più accentuando gli aspetti cupi e orridi fino a immaginare il defunto tormentato da mostri infernali, come Tuchu/cha o Charun, che è il Caronte greco, ma diventato ben più mostruoso e feroce. I morti ora erano seppelliti, ora invece bruciati.

Bibliografia Per le età del Bronzo e del Ferro e sui vari popoli dell 'Italia antica: Popoli e civiltà dell' Italia antica, 9 voli. Roma 1974-1989; Italia omnium terrarum alumna, Milano 1988, rist. 1990; Italia omnium terrarum parens, Milano 1989, rist. 1990; M. PALLOTIINO, Storia della prima Italia, Milano 1984; G .BARTOLONI, La cultura villanoviana, Roma 1989. Per gli Etruschi: M. PALLOTTINO, Etruscologia, Milano VII" ed. 1984; H.H. Scullard, The Etruscan cities and Rome, Ithaca, NY 1967; M. TORELLI, Storia degli Etruschi, Bari 1981; Civiltà degli Etruschi. Cat. della mostra, a cura di M. Cristofani, Milano 1985; Rasenna: storia e civiltà degli Etruschi, Milano 1986, rist. 1990; Etruschi: una nuova immagine, a cura di M. Cristofani, Firenze 2000. Sull'identità etrusca: D. BRIQUEL, Les Pélasges en Italie: recherches sur l' histoire de la légende, Roma 1984. Per gli Osco-Umbri, soprattutto dal punto di vista linguistico: G. DEVOTO, Gli antichi italici, Firenze 1932. Sui Sabini: Identità e civiltà dei Sabini. Atti del XVIII Convegno di Studi Etruschi ed Italici, Rieti - Magliano Sabina, 1993, a cura di G. Maetzke, Firenze 1996. Per il Lazio e Roma: E. GJERSTAD, Early Rome, 6 voi!., Lund 1953-1973; Civiltà del Lazio primitivo, Roma 1976; oltre ai molti volumi editi dal Comitato per l'archeologia laziale. Sui costumi funerari come sintomi di fenomeni sociali: C. AMPOLO, Su alcuni mutamenti sociali nel Lazio tra l'VIII e il V secolo, in «Dialoghi di Archeologia», IV-V.l, 1970-1971, pp. 37-68; G. COLONNA, Un aspetto oscuro del Lazio antico. Le tombe del VI-V secolo a. c., in «La Parola del Passato» XXXII, 1977, pp. 131-165. Per gli ordinamenti politici degli Osco-Umbri e degli Etruschi in rapporto con i Romani cfr. anche A. ROSENBERG, Der Staat der alten Italiker, Berlino 1913; E. CAMPANILE, C. LETIA, Studi sulle magistrature indigene e municipali in area italica, Pisa 1979.

Le origini e le istituzioni antichissime di Roma CAPITOLO

2.1

SECONDO

Caratteri della tradizione sulla più antica storia di Roma

I cenni che finora abbiamo dato sulla più antica storia d'Italia non sono dedotti, nel complesso, da fonti letterarie, ma da attestazioni archeologiche e linguistiche, cioè da rimanenze dirette dei popoli antichi. Solo per le origini di Roma alla documentazione archeologica e linguistica si aggiunge una abbondante produzione letteraria di storici, che ci narrano le vicende più antiche della città. E ciò è ben naturale, perché l'importanza di Roma ha fatto sÌ che con cura particolare se ne raccogliessero le memorie più antiche. Ma questa produzione letteraria, se ha un valore indiscutibile come testimonianza di ciò che si è pensato e creduto sulle origini di Roma, ha valore discutibile come testimonianza di fatti realmente accaduti. Se invero tale tradizione conserva il ricordo di molte cose che l'archeologia e la linguistica ci confermano, ne ricorda altre leggendarie e altre ancora, che possono essere vere, ma di cui noi non abbiamo più mezzo di confermare la verità. Tutto ciò apparirà comprensibile, quando si rifletta sul modo con cui si è potuta formare la tradizione sulle vicende più antiche di Roma. C'erano intanto documenti ufficiali ben noti, come le liste dei magistrati o i trattati con popoli stranieri o le leggi più importanti, che davano a chi volesse alcune notizie sicure anche per tempi molto antichi, ma solo entro certi limiti (VI sec. a.c.) al di là dei quali tacevano. C'erano poi le raccolte di notizie compilate anno per anno dal pontefice massimo, che conservavano il ricordo di molti dei più importanti fatti di ogni anno; ma è assai dubbio che tali raccolte siano state cominciate dai pontefici in età molto antica ed è quindi verosimile che anch'esse per quell'età non potessero offrire nulla di sicuro. C'erano infine le tradizioni gelosamente custodite dalle famiglie nobili sui fatti più importanti a cui avevano partecipato i loro antenati; ma si comprende bene come tendessero ad esagerare i meriti di questi antenati e giungessero anche talvolta in loro onore a falsificare la storia. Tanto più poi quando tali tradizioni erano evocate per celebrare un morto della fami-

La produzione letteraria latina come fonte storiografica

Le raccolte di notizie annuali del pontefice massimo

Manuale di storia romana

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Leorazioni funebri per tramandare la gloria degli avi

glia negli abituali elogi funebri oppure per dare materia a carmi conviviali, che si recitavano in occasione di solennità domestiche. In queste circostanze nessuno più si poteva preoccupare della verità storica, ma solo di esprimere la emozione collettiva di tutti gli astanti. Ne potevano quindi nascere leggende piene di poesia, non ricostruzioni storicamente fedeli. Si pensi del resto all'abitudine costante di tutti i popoli ai primi sviluppi della civiltà di celebrare con canti le glorie dei propri eroi morti o vittoriosi: abitudine che non poté mancare in Roma, anche all'infuori della cerchia dei familiari di un eroe. Già gli stessi Romani sapevano quanto fosse difficile ricostruire la loro più antica storia. Livio lamentava l'abitudine delle famiglie, che volevano attirare su di sé tutta la gloria delle imprese e delle magistrature (VIII, 40) e Cicerone dichiarava addirittura che «le orazioni funebri hanno riempito la nostra storia di menzogne» (Bruto 16, 62). Essi anzi esageravano perché noi oggi sappiamo riconoscere meglio di loro anche il valore delle leggende. Le quali sono sempre, come già dicemmo, testimonianze importantissime per conoscere coloro che le crearono. E perciò, se anche l'eroismo di un Muzio Scevola o di un Attilio Regolo, cosÌ come ci è raccontato, è leggendario, nulla può meglio farci intendere l'alto concetto che i Romani si facevano dell' amor di patria che l'aver immaginato cosÌ tipiche forme di coraggio e di dedizione. L'oscurità dunque rimane e rimarrà forse sempre su grande parte delle vicende più antiche di Roma. Ma la stessa leggenda è preziosa fonte d'informazioni. E se non è possibile ricostruire minutamente quelle vicende, è però sempre più agevole - via via che le indagini procedono - intuire le grandi linee della più antica storia di Roma.

Incertezza della tradizione

Livio 11.21.3-4: Ogni storico adotta un criterio arbitrario in materia di cronologie e di liste di magistrati, e da ciò consegue che è quasi impossibile riferire con esattezza la successione dei consoli e le date degli eventi, quando non solo i fatti ma anche gli autori stessi sono avvolti nelle nebbie del passato. Livio VII1.40A-5: Non è facile scegliere tra le varie versioni e i diversi autori. Ho l'impressione che i fatti siano stati alterati dagli elogi funebri o da false iscrizioni collocate sotto i busti, dato che ogni famiglia cerca di attribuirsi il merito di gesta gloriose con menzogne che traggono in inganno. Da quella pratica discendono sicuramente sia le confusioni nelle gesta dei singoli individui, sia quelle relative alle documentazioni pubbliche. Per quegli anni non disponiamo di autori contemporanei agli eventi, sui quali ci si possa quindi basare con certezza.

Le origini e le istituzioni antichissime di Roma

2.2

Gli storici delle origini di Roma

Gli scrittori maggiori a noi pervenuti che trattano delle origini di Roma sono Tito Livio e Dionigi di Alicarnasso, entrambi vissuti nell'età di Augusto e l'uno scrivente in latino e l'altro in greco. Le storie di Livio andavano da Enea al9 a.c. in 142 libri, dei quali solo 35 ci sono pervenuti e precisamente i libri l-IO che comprendono la storia romana fino al 293 a.C., e quelli 21-45, che narrano il periodo 218-167. Di quasi tutti i libri perduti abbiamo brevi sommari, le così dette periochae che ci danno un'idea del contenuto. Di Dionigi di Alicamasso, che scrisse 20 libri sulla storia di Roma dalle origini alla prima guerra punica (Antichità romane), ci restano solo i primi dieci libri e una parte dell'undicesimo: la sua opera fu pubblicata il 7 a.C. Per quanto Livio e Dionigi si valgano spesso delle medesime fonti o di fonti affini, siano dotati entrambi di scarso senso critico, e vivano nella medesima atmosfera, sono però lontanissimi di spirito: Livio è un Romano che partecipa intimamente alla restaurazione augustea e ha un senso profondo del destino di Roma, che anima tutta la narrazione e le dà una nobile efficacia non più raggiunta; Dionigi è invece un retore, preoccupato specialmente di scrivere un' opera retoricamente perfetta. Notizie importanti sulla storia romana arcaica si trovano pure nella cosiddetta Biblioteca storica del siculo Diodoro, anch'egli un contemporaneo di Augusto. Nella Biblioteca Diodoro dava in greco un riassunto della storia universale secondo buone fonti greche e romane. Dei quaranta libri, ne possediamo, oltre a piccoli frammenti, solo 15, cioè i primi cinque, che comprendono la storia mitica, e i libri 10-20 in cui è narrata la storia dal 479 al 301 a.c. Qualche notizia possiamo pure trarre dal riassunto che nel XII sec. d.C. il bizantino Giovanni Zonara fece dei primi 35 libri ora perduti della storia romana scritta nella prima metà del III sec. d.C. da Cassio Dione. Dell'opera di Cassio Dione, che era completa in 80 libri e andava dalle origini all'imperatore Severo Alessandro, possediamo invece ancora più o meno completi i libri 36-60, comprendenti il periodo dal 69 a.c. al 44 d.C., e i libri 78-79 che parlano degli anni 216-219 d.C. E, infine, non sono da trascurare i riassunti pervenutici dei capitoli che Appiano, vissuto nel II d.C., dedicava alla storia romana arcaica in una sua opera generale sulle guerre dei Romani, di cui altre parti ci restano integre. Ci sono pure conservati tre brevi schizzi di tutta la storia romana, uno scritto da Floro al principio del II sec. d.C., uno da Eutropio nel IV sec. e uno dal cristiano Orosio al principio del V. Livio, Dionigi di Alicarnasso, Diodoro, probabilmente anche in parte Cassio Dione e Appiano, si valsero per redigere le loro storie delle opere di annalisti, cioè di storici che dalla fine del III sec. al I sec.

Tito Livio

Dionigi di Alicarnasso

Cassio Dione

18

Manuale di storia romana

Gli «Annali» di Fabio Pittore

Ennio e Catone

a.c. elaborarono i ricordi tradizionali, le notizie contenute negli annali dei pontefici, nelle memorie familiari etc. distribuendole, ad imitazione appunto degli annali dei pontefici, anno per anno. Il più antico di questi annalisti è forse Q. Fabio Pittore, che intorno al 200 a.c. scrisse brevi annali in greco, che si dubita siano la fonte di Diodoro. Un annalista a lui contemporaneo è L. Cincio Alimento, anch' egli scrittore in greco. Il primo annalista che scrisse in lingua latina fu forse L. Cassio Emina vissuto intorno al 150 a.c. Gli annalisti del I sec. a.c., quali Q. Claudio Quadrigario, Valerio Anziate e Licinio Macro, che furono le fonti maggiori di Livio e di Dionisio, davano narrazioni assai più estese e quindi più ricche di particolari leggendari. Narrazioni storiche erano anche le opere dei due contemporanei Ennio e Catone il vecchio. Ennio (239-165 a.c.) narrava nei suoi poetici Annali in esametri la storia di Roma fino al suo tempo; e così Catone (234-149 a.C.) nelle Origini in prosa, che in realtà non raccontavano solo, come il titolo sembra promettere, le origini di Roma e dei municipi d'Italia, ma anche la successiva storia fino al suo tempo. Queste opere, di cui sono giunti a noi solo brevi frammenti, hanno però influito poco sugli storici successivi.

2.3

La leggenda di Troia come mito delle origini

La fondazione di Roma: la leggenda e la realtà

Tutti gli scrittori ora ricordati, pure con differenze nei particolari profondissime, accettavano per vera la leggenda che la fondazione di Roma fosse collegata con la distruzione di Troia. Tale leggenda è di origine greca e si trova già in scrittori greci della fine del V sec. a.c., come Ellanico di Mitilene e Damaste di Sigeo, che la narravano nella forma più semplice secondo cui Enea fondò senz'altro Roma. Ma la distruzione di Troia posta dalla tradizione anteriormente al 1000 a.c. era troppo antica per potersi conciliare con i ricordi dei Romani, che non conoscevano se non sette o al più otto re prima dell'inizio della repubblica, che essi, basandosi sulle liste dei consoli ponevano, press' a poco esattamente, alla fine del VI sec. a.c. (di solito nel 509 a.c.). Per ciò e per altre ragioni, non si poteva accettare che Enea avesse fondato Roma e si immaginò quindi che Enea, giunto in Italia, avesse fondato Lavinio e che suo figlio Ascanio avesse poi fondato Alba Longa. In Alba Longa dopo una lunga serie di altri re discendenti da Ascanio, sarebbe salito al trono Amulio spodestando il fratello Numitore. Ma da una figlia di Numitore, Rea Silvia, sarebbero nati due gemelli, Romolo e Remo, che, salvati dalla morte a cui Amulio li aveva destinati, perché nutriti da una lupa, avrebbero poi fondato Roma nel luogo ove erano stati salvati. Venuti quindi a discordia i due fratelli, Romolo avrebbe ucciso Remo e

Le origini e le istituzioni antichissime di Roma

avrebbe regnato solo sulla nuova città popolata con avventurieri accorsi d'ogni parte. La fondazione della città era posta in anni diversi, secondo i diversi storici: e la data che prevalse fu quella accettata dall'erudito Varrone nel I sec. a.c. del 753 a.C. Si immaginò poi che la fondazione fosse avvenuta il 21 aprile, giorno della festa Palilie, una solennità agricola. Che questa sia leggenda, e leggenda di origine sostanzialmente non romana, non c'è bisogno di insistere. Basti ricordare che la leggenda più antica non conosceva due fondatori di Roma, ma uno solo, Romolo o anche Romo, entrambi nomi che evidentemente dovevano spiegare il nome di Roma. Più tardi, per ragioni non ben chiare, a Romolo fu attribuito un fratello, che però non aveva alcuna importanza nella storia delle origini se lo si faceva eliminare da Romolo. La realtà sulle origini di Roma, quale almeno si può verosimilmente ricostruire, è nello stesso tempo più semplice e più complicata. Dei Latini, la gente che prendeva il nome dalla pianura del Lazio, alcuni gruppi occuparono un tempo assai antico, forse tra il X e l 'VIII sec. a.C., i colli che noi ora chiamiamo romani e fondarono tante piccole comunità autonome. Alcune di tali comunità costituivano tra loro una lega sacra, il cosiddetto Settimonzio, che riuniva gli abitanti delle tre cime del Palatino, delle tre alture dell'Esquilino e infine del colle Celio. Un passo decisivo verso la costituzione di una città si ebbe quando gli abitanti delle tre cime del Palatino si fusero in una comunità sola, i cui confini erano esattamente delimitati da un circuito di carattere sacro, detto pomerio. È indubbio infatti che nella comunità del Palatino c'è la Roma primitiva ed è anzi verosimile che appunto questa comunità unificata abbia assunto per la prima volta il nome di Roma l . A poco a poco poi Roma si estese verso gli altri colli e correlativamente si spostò il pomerio: così essa venne a comprendere i colli Celio, Esquilino, Viminale, Quirinale e Capitolino, mentre invece rimase a lungo fuori della città l'Aventino, che infatti per tutto il periodo repubblicano non fu compreso entro i limiti del pomerio, segno che fu aggregato alla città dopo che il pomerio era ormai diventato una linea fissa. Per quanto allargata, Roma non ebbe tuttavia per molto tempo importanza tra le città latine. Noi sappiamo che già almeno nel VII sec. a.c. esisteva una lega che comprendeva grande parte di queste città sotto l'egemonia di Alba Longa e radunava tutti i membri intorno al culto di Giove Laziare. A questa lega Roma partecipò senza dubbio presto, ma solo in condizioni di subordinata. La supremazia che a poco a poco

I

I Romani si chiamavano anche Quiriti. È probabile che Quiriti fosse il nome più antico di coloro che. avendo poi fondato Roma, si vennero a chiamare Romani. In altri termini: Quiriti dovette essere il nome di quella parte dei Latini che fondò Roma.

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21 aprile 753 a.c.: la nascita di Roma

I primi abitanti del colle Palatino

20

Manuale di storia romana

Roma venne acquistando sulla lega è una delle più immediate espressioni della lenta ascesa della città sotto i re.

2.4

I re di Roma

È inutile domandarci quando è sorta la monarchia in Roma. I re sono tanto antichi quanto la città. Ma la tradizione ha potuto solo ricordare i più famosi di questi re. Tali sono gli otto il cui nome si conserva: RoI re di Roma

La fase della monarchia tra storia e leggenda

molo, Tito Tazio, Numa Pompilio, Tullo Osti/io, Anca Marcio, Tarquinia Prisco, Servio Tullio, Tarquinia i/ Superbo. Essi - a prescindere da Romolo, il mitico fondatore - sono probabilmente tutti esistiti, ma non è detto che si siano succeduti in quell' ordine che lo schema consacrato loro attribuisce. Tanto meno poi dovremo prendere sul serio tutte le notizie che la leggenda ci tramanda per ciascun re, se anche non è da negare che qualcuno di questi fatti rappresenta un ricordo esatto. Le cose stanno semplicemente in questo modo: si ricordavano nomi e gesta di re, ma con inevitabili confusioni. Non negheremo dunque che possa essere esistito un re Tito Tazio e non negheremo nemmeno d'altra parte la possibilità che sul Quirinale esistesse un gruppo di Sabini, che fu assorbito dai Romani del Palatino e venne a costituire una parte della cittadinanza romana. Solo non porremo in rapporto i due fatti, come vuole la leggenda, la quale immagina che Romolo abbia associato a sé nel regno Tito Tazio capo di un gruppo di Sabini, già nemico e poi, dopo la pacificazione, trasferito sul Quirinale. Tanto meno c'è da credere che Numa Pompilio abbia creato ex novo tutte le istituzioni religiose, che la tradizione gli attribuisce; e se è indubbio che ci fu un re Tullo Ostilio e che Roma a un certo punto dell'età regia cominciò ad elevarsi in potenza fino a poter distruggere Alba Longa, resterà molto incerto se la distruzione di Alba sia avvenuta proprio al tempo di Tullo Ostilio, e nessuno poi vorrà prendere sul serio che la lotta tra Roma e Alba sia stata decisa da un duello tra i tre albani Curiazi e i tre romani Orazio Infine anche di Anca Marcio non sarà probabilmente da negarsi la storicità, sebbene essa sia stata spesso contestata; si dovrà solo concedere che le imprese attribuite a lui o sono mal sicure o sono certamente di età posteriore, e tra queste ultime porremo senza esitazione la fondazione della colonia romana a Ostia, che sarebbe secondo la tradizione opera sua mentre è del IV secolo a.c. Ma i più gravi problemi sono offerti dagli ultimi tre re conosciuti dalla tradizione: Tarquinia Prisco, Servio Tullio e Tarquinia il Superbo. Poiché il primo e il terzo sono ritenuti dalla tradizione unanime etruschi, mentre il secondo è di solito creduto un romano (benché non mancasse una tradizione che lo identificava con un avventuriero etrusco.

Le origini e le istituzioni antichissime di Roma

Mastarna), la questione della realtà di questi sovrani si complica con quella degli influssi etruschi in Roma. In linea generale possiamo dire quanto segue. Non c'è dubbio che gli Etruschi hanno avuto fortissima influenza nel Lazio in genere e su Roma in ispecie nel periodo regio. Alcune città vicine, come Veio, sono state etrusche; in Roma è documentabile l'influenza etrusca in tanti particolari, per es. nei fasci littori dei magistrati, che sono certamente stati imitati dagli Etruschi. Se quindi la tradizione asserisce che ci sono stati dei sovrani etruschi in Roma, bisognerà crederci. A un patto però: che non si creda che Roma sia stata una città veramente etrusca o etruschizzata. Basti dire che a Roma, con tanti scavi, non si è trovata ancora un'iscrizione etrusca. Ne concluderemo che delle bande di avventurieri etruschi hanno dominato in Roma e hanno anche, col prestigio della loro civiltà, influito notevolmente sullo sviluppo politico e culturale di Roma; ma Roma non fu mai realmente una città etrusca. La stessa tradizione lo confessa quando ammette che tra due re etruschi abbia regnato un romano, Servio Tullio. Sull'esistenza di questo re nessun dubbio è possibile e nemmeno che egli abbia concluso con i Latini un trattato che era conservato nel tempio di Diana sull' Aventino. Più difficile è ammettere la tradizione che a lui vada attribuito il profondo rivolgimento costituzionale, che va sotto il nome di ordinamento centuriato, e che egli abbia costruito le prime mura (mura serviane) intorno alla città; entrambe queste cose sembrano di età più tarda del VI secolo a.c., benché una certezza non sia raggiungibile. Ma insomma anche questo re è una figura storica. Numerosi problemi particolari sono sorti intorno ai due Tarquini, e non è mancato pure chi ha sospettato che la tradizione abbia sdoppiato per errore la personalità di un solo re Tarquinio in due Tarquini. Ma a noi interessa specialmente un problema: se davvero, come vuole la tradizione con Tarquinio il Superbo sia finita la monarchia in Roma. È famosa la leggenda romana. Mentre Tarquinio era fuori di Roma, uno dei suoi figli, Sesto, offese una matrona romana, Lucrezia, moglie di Tarquinio Collatino. Lucrezia si uccise e, per vendicarla, il marito con due altri patrizi, Giunio Bruto e Lucio Valerio, iniziò una ribellione che portò alla cacciata di Tarquinio e alla fondazione della repubblica governata da due consoli. Primi consoli sarebbero stati Giunio Bruto e Tarquino Collatino. Invano Tarquinio si rivolse per aiuto agli Etruschi suoi connazionali, e invano Porsenna, re etrusco di Chiusi, venne contro Roma. Egli, secondo la tradizione più comune, abbandonò l'assedio della città perché impressionato dall'eroismo di Clelia, una fanciulla romana, che mandata in ostaggio a lui, fuggì a Roma traversando il Tevere a cavallo, e soprattutto di Muzio Scevola, che, dopo aver invano tentato di trucidare Porsenna, sorpreso e portato al re nemico, si bruciò una mano senza

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L'influenza etrusca su Roma

Servio Thllio

Tarquinio Prisco e Tarquinio il Superbo

Muzio Scevola e Orazio Coclite

Manuale di storia romana

22

Porsenna, re di Chiusi, attacca Roma

La fine della monarchia e l'origine del «rex sacrificulus»

spasimo per mostrare al re l'ardire romano, e infine di Orazio Cadile, che da solo difese sino all'ultimo il ponte Sublicio, dando modo ai suoi compagni di tagliarlo e così impedire agli Etruschi di penetrare in Roma. La tradizione è unanime nell'ammettere che Tarquinio non poté più ritornare in Roma, cioè che egli fu l'ultimo re della città. Ora, non sono da confondersi due avvenimenti diversi: la cacciata di Tarquinio e l'impresa di Porsenna. Che fra i molti tentativi, riusciti e non riusciti, da parte di bande etrusche di dominare in Roma ce ne sia stato uno di un sovrano, il cui nome i Romani pensarono a torto o a ragione fosse Porsenna, non c'è dubbio: se poi la tradizione più comune riteneva questo tentativo fallito, è però da ricordare che una tradizione più oscura affermava invece che esso era riuscito, cioè che per breve tempo gli Etruschi di Porsenna avevano dominato in Roma. E questa è senza dubbio la versione esatta: non si poteva inventare l'occupazione di Roma. Ma è allora anche evidente che la impresa di Porsenna non ha alcuna relazione con la cacciata di Tarquinio perché Porsenna, conquistata Roma, non ripose sul trono Tarquinio. Solo più tardi l'un fatto è stato connesso artificialmente con l'altro: perciò nello studiare la fine della monarchia si dovrà prescindere da Porsenna e dalla sua probabile conquista di Roma durata poco tempo. Restano allora due elementi in contrasto. Da un lato i Romani avevano un ricordo vivo della fine della monarchia con la cacciata di Tarquinio e, se pure la loro tradizione era abbellita di leggende, non si può asserire frettolosamente che essa sia senz'altro falsa. D'altro lato esisteva ancora in Roma nel periodo repubblicano il così detto rex sacrificulus, cioè un sacerdote sopraintendente a tal une cerimonie religiose chiamato rex. Poiché in origine toccava al re-capo dello Stato sopraintendere a tali cerimonie, si è con verisimiglianza supposto che il rex sacrificulus non sia che l'antico re-capo dello Stato, privato di tutti gli altri poteri e ridotto a semplice sopraintendente religioso. Così in Atene l'antico basileus si venne a ridurre ad arconte-basileus, press'a poco sfornito di autorità. Secondo questa ipotesi dunque, la monarchia non sarebbe cessata violentemente, ma sarebbe stata desautorata a poco a poco fino a ridurre il re in condizione di rex sacrificulus. L'ipotesi evidentemente non nega che Tarquinio sia stato cacciato, esclude solo che la sua cacciata possa dirsi la fine della monarchia. È difficile poter asserire con certezza se l'esistenza di un rex sacrificulus basti a escludere che con Tarquinio il Superbo sia finita la monarchia in Roma. Possiamo però almeno concludere che chi vuole studiare criticamente la storia arcaica di Roma deve tenere conto anche di queste eventualità: che la leggenda di Tarquinio rappresenti erroneamente la cacciata di un re di famiglia etrusca come la fine della monarchia in Roma.

Le origini e le istituzioni antichissime di Roma

2.5

23

Le istituzioni sociali e politiche del periodo regio

Esisteva indubbiamente già nel periodo regio la distinzione della popolazione romana in due classi: patrizi e plebei. I patrizi erano un numero ristretto di famiglie, dalle quali soltanto il re traeva i suoi consiglieri, cioè i senatori, detti anche pall·es (donde appunto ai membri delle famiglie dei patres il nome di patricii). Solo i patrizi insomma avevano cariche nello Stato: e tale caratteristica si conservò, come vedremo, anche nel primo periodo della repubblica. Tra patrizi e plebei era vietato il matrimonio. Le famiglie patrizie appunto perché ci tenevano alla loro discendenza conservavano esatta memoria della loro genealogia: tutte le famiglie che si consideravano tra loro congiunte, perché discendenti da un unico antenato, costituivano una gente (gens), legata da vincoli religiosi e giuridici. S'intende che anche le famiglie plebee più distinte avranno tenuto a ricordare i loro antenati, e così anche queste si saranno considerate appartenenti a genti o stirpi. Il sistema gentilizio divenne pertanto generale, e perciò ogni Romano finì col portare accanto al nome proprio, il così detto prenome (Gaio, Manlio, Marco etc.), il nome gentilizio (Fabio, Tullio, Giulio etc.). Per distinguere poi coloro che, oltre a portare lo stesso gentilizio, avevano uguale prenome, si venne diffondendo più tardi l'uso di aggiungere un soprannome, il così detto cognomen (Cesare, Cicerone etc.): sicché in età classica ogni cittadino Romano aveva i tria nomina (per es. Marco Tullio Cicerone). Si comprende pure molto facilmente che ogni famiglia patrizia, appunto per la sua autorità, avesse molte persone povere intorno, che ne desideravano la protezione. Da questo stato di fatto sorse la categoria dei così detti clienti, cioè di quelle persone, che, mentre sostenevano in ogni azione politica e militare i loro patroni, ne avevano in cambio aiuti finanziari e appoggio nelle cause giudiziarie. Va da sé che i clienti erano dei plebei, ma non tutti i plebei erano clienti dei patrizi. Sull' origine della distinzione tra il patriziato e la plebe si è discusso moltissimo, e non si è ancora potuto fare l'accordo. Ma sembra ormai l'opinione più verosimile che, come nella repubblica di Venezia un ristretto numero di famiglie si arrogò a poco a poco il diritto di governare lo Stato, così a Roma le famiglie più potenti si siano a poco a poco separate dal resto della popolazione e abbiano costituito il patriziato. Patrizi e plebei erano però ugualmente compresi nelle tre tribù, in cui la popolazione di Roma era divisa: i Tizii, i Ramni e i Luceri. Il significato di questi nomi è ignoto. Ogni tribù comprendeva lO curie. Le 30 curie, radunandosi insieme, costituivano un'assemblea, i comizi cur-iati. che prima della creazione dei comizi centuriati (v. oltre) era l'unica assemblea dell'intero popolo romano. Quali fossero in questo perio-

I patrizi

I plebei

La popolazione suddivisa in «tribù» e «curie»

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Manuale di storia romana

La composizione della legione

I «senatus consulta»

Il pontefice massimo

do più antico i compiti dei comizi curiati non sappiamo; deduciamo però la loro importanza dal fatto che più tardi, pur decaduti, avevano sempre il compito di conferire il potere ai magistrati, sanzionandone la nomina, di riconoscere il passaggio di un individuo da una famiglia o da una gente a un'altra (adozione) etc. Dalle curie e dalle tribù erano poi prelevati i soldati in guerra. Ogni curia dava una centuria di soldati, cioè ogni tribù dava IO centurie o 1000 uomini: così l'insieme dell'esercito romano, la legione, era costituita da 3000 uomini divisi in 30 centurie. Di più c'era un certo numero di cavalieri, probabilmente in origine 300, di cui ogni tribù ne dava 100. I cavalieri erano naturalmente tutti patrizi. Più tardi ogni tribù dette due centurie di cavalieri. Anche quando l'esercito romano si accrebbe ed ebbe 18 centurie di cavalieri, ne restarono sei, di cui due si chiamavano dei Tizii, due dei Ramni e due dei Luceri. Erano evidentemente le sei più antiche centurie dei cavalieri. Il re comandava l'esercito, giudicava nei processi e deliberava in ogni altra questione che riguardava lo Stato. Ma la sua autorità, fuori che in guerra, quando il suo comando (imperium) era assoluto, era limitata. Intanto ogni capo di famiglia (pater familias) aveva un'autorità dispotica sui membri di essa, fino a poterli condannare a morte: ciò che naturalmente limitava l'autorità del re. Poi il re non era tale per diritto divino, ma per elezione dei comizi curiati. La sua autorità non era valida se non sancita dai comizi. Infine egli era circondato da un consiglio - il senato, prima forse di 100 membri, poi certo di trecento - che, essendo costituito da potenti patrizi, aveva molta forza. Il senato non decretava, dava solo pareri, i senatus consulta, ma essi ebbero sempre più autorità, fino ad acquistare più tardi, in età repubblicana, pieno valore di leggi. Quando il re moriva, prima dell'elezione di un altro re, il Senato aveva autorità sovrana ed eleggeva nel suo seno un interrè (interrex), che non poteva durare in carica più di cinque giorni, dopo dei quali o il re era nominato o si doveva scegliere un altro interrè. Il re era anche il capo religioso del popolo: egli doveva custodire la pace con gli dei (pax deorum) evitando che essi in qualunque modo fossero offesi. Come tale era assistito da sacerdoti, che, conoscendo le norme per ogni occasione, evitavano appunto l'offesa agli dei. I più importanti dei sacerdoti erano i pontefici, ifeziali, gli auguri, le vestali, i flamiuni e i salii. I pontefici, con alla testa il pontefice massimo, erano gli interpreti del diritto sacro: essi ebbero importanza però soprattutto dopo la cacciata dei re, quando il pontefice massimo si insediò in quella che era stata la reggia. I feziali erano gli interpreti delle norme regolanti i rapporti con gli altri popoli e perciò presiedevano alle cerimonie dell'aper-

Le origini e le istituzioni antichissime di Roma

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Archeologia del riti di fondazione Le scoperte archeologiche hanno modificato il panorama della storia romana delle origini. Scavi diretti da Andrea Carandini hanno messo in luce resti di un muro che correva ai piedi del Palatino e che risale all'VIII secolo, un muro poco funzionale alla difesa delle capanne coeve che sorgevano sulla sommità del colle, di cui si sono trovate parecchie tracce, ma che serviva a delimitare uno spazio urbano da uno extra-urbano. I riti di fondazione, che segnavano ritualmente la fondazione delle città e che a Roma furono attribuiti ad un personaggio simbolico, Romolo, hanno lasciato tracce archeologi~ che. Una sepoltura di bambino rinvenuta nel centro di Tarquinia era accompagnata da un corredo di oggetti rituali, risalenti alle prime fasi di vita della città, mentre sul Palatino, nella zona dove si ubicava la capanna di Romolo, una sepoltura fu collegata con la saga del fondatore e sempre rispettata dai successivi interventi edilizi. Anche a Lavinio è stata rinvenuta la sepoltura di un eroe fondatore o capostipite: si trattava di una tomba arcaica, che poi fu monumentalizzata e posta entro un tumulo nel IV secolo. I riti augurali, consistenti nell'osservazione del volo degli uccelli mandati dagli dèi, hanno trovato un riscontro archeologico in un rettangolo delimitato sul terreno da cippi, rinvenuti a Bantia (odierna Banzi), in Basilicata. Nell'VIII secolo si devono essere precisate le norme sacrali che accompagnavano la costituzione delle città: delimitazione dello spazio attraverso una linea detta Pomerio, consultazione del volere divino attraverso gli auspici, sepoltura di un eroe protettore.

tura della guerra e dell 'instaurazione della pace. Gli auguri erano gli interpreti dei segni che le divinità mandavano agli uomini per fare conoscere il loro volere: essi insomma erano incaricati di trarre gli auspici. Le vestali erano le sacerdotesse della dea Vesta e custodi del fuoco sacro. Iflamini erano sacerdoti addetti alle singole divinità. I più autorevoli erano ilflamine diale, il marziale e il quirinale, rispettivamente addetti a Giove, Marte e Quirino (il dio protettore dei Quiriti, cioè dei Romani). Tra di essi il flamine diale conservava in una quantità di prescrizioni a cui doveva sottomettersi (per es. non poteva andare a cavallo, non poteva portare vestiti con nodi, non radersi se non con rasoio di bronzo etc.), tracce di tempi antichissimi. Infine i salii erano sacerdoti di Marte, che con le loro danze sacre, armati di lancia e scudo, si propiziavano il dio della guerra.

2.6

Gli acquisti territoriali di Roma durante la monarchia

Non c'è dubbio che durante la monarchia il potere di Roma si estese fuori dei limiti della città. Basterebbe a provarlo la distruzione di Alba Longa, nelle vicinanze dell' odierno lago di Albano, che la tradizione attribuisce a Tullo Ostilio. Più difficile è precisare, reagendo all'opinione

I sacerdoti («auguri» e «flamini») e le sacerdotesse («vestali» )

Manuale di storia romana

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La supremazia di Roma sul Lazio

degli antichi che della potenza romana nel periodo dei re si facevano una idea esagerata, fino a che punto Roma si sia estesa. Ma certo il territorio originario di Roma che doveva abbracciare circa 100 kmq. si era all'inizio della repubblica allargato almeno a circa 900 kmq. acquistando una specie di supremazia sul Lazio, che dovette culminare al tempo di Servio Tullio. Questi fondò infatti un tempio di Diana sull' Aventino perché fosse santuario federale dei Latini, cioè trasferì a Roma la supremazia che un tempo aveva avuto Alba Longa. Allora probabilmente,

La «Grande Roma" dei Tarquinl La Roma del VI secolo, cioè quella degli ultimi re, è stata definita "la grande Roma dei Tarquini .. dal filologo Giorgio Pasquali, e questa definizione è stata sempre più confermata dagli scavi archeologici. Recentemente il podio del Capitolio, cioè del tempio di Giove Ottimo Massimo, Giunone e Minerva, è stato messo in luce e reso visibile al pubblico. Esso ha rivelato le sue misure veramente colossali, i materiali di costruzione provenienti dal Lazio, e confermato la cronologia al VI secolo. Uno fra i capitoli più importanti dell'archeologia urbana degli ultimi tempi è stato lo scavo del tempio arcaico presso la chiesa di S. Omobono, nel Foro Boario. Si tratta di un tempio, probabilmente della dea Fortuna, con decorazione architettonica fittile di stile orientaleggiante, all'incirca dell'epoca di Servio Tullio, e un gruppo fittile di Ercole e Minerva, che decorò la sommità dell'edificio al tempo di Tarquinio il Superbo. Poi ci sono i monumenti di particolare rilevanza politica: la Regia e il Comizio. La prima, nel Foro romano, ha rivelato una residenza dell'epoca degli ultimi re, vicina al tempio di Vesta e alla casa delle Vestali. La Regia era decorata da bassorilievi ispirati alla mitologia greca e ospitava un altare di Marte e uno di Ops, la sposa di Saturno. Nei pressi della casa delle Vestali sono state messe in luce residenze di prestigio del tempo dei Tarquini. La tipologia della Regia rinvia a residenze principesche arcaiche dell'Etruria [Aquarossa e Murlo (Siena)] e del Lazio (Gabi). Il Comizio era stato scavato all'inizio del XX secolo da Giacomo Boni, restituendo molti materiali votivi e la famosa iscrizione latina arcaica relativa a rituali che dovevano essere compiuti dal re. La cronologia del cippo che reca l'iscrizione e della coeva pavimentazione del Comizio è stata fissata da Filippo Coarelli al 570 a.C. circa. Regia e Comizio erano, rispettivamente, la sede del re (e poi del rex sacrorum) e quella dell'assemblea popolare, le quali assunsero un carattere monumentale nel VI secolo, evidentemente perché avevano assunto una grande importanza e solennità. Il passaggio dalla monarchia alla repubblica e la coeva conquista ad opera di Porsenna lasciarono tracce, che sono state riconosciute dagli archeologi sia nella Regia, che nel Comizio e nel tempio presso S. Omobono. La natura esclusivamente patrizia della rivoluzione repubblicana, sostenuta con entusiasmo dai moderni più ancora che dagli antichi, è stata riconsiderata, anche alla luce del fatto che i re di Roma non portano nomi patrizi e fra i consoli dei primi decenni della repubblica si incontrano parecchi nomi plebei. Per questo si ritiene che la definizione giuridica del patriziato fosse stata il risultato di una dinamica propria della repubblica, più che della monarchia.

Le origini e le istituzioni antichissime di Roma

se non già prima, le varie città latine, Roma compresa, riconobbero a ciascun membro di una città latina il diritto di sposarsi, di possedere immobili e di fare affari nelle altre città come nella propria: anzi ogni membro di una città aveva il diritto di voto nelle altre città e vi poteva diventare senz'altro cittadino quando vi si trasferisse. L'inizio del periodo repubblicano segnò invece, come vedremo, una certa decadenza nel potere di Roma, soprattutto nei riguardi della lega latina.

Bibliografia Oltre le opere generali (si v. specialmente PAIS e DE SANCTIS) si cfr. per esempio di vari punti di vista: C. BARBAGALLO, Il problema delle origini di Roma da Vico a noi, Milano 1926; A. MOMIGLIANO, An Interim Report on the Origins of Rome, in «Joumal ofRoman Studies» LIII, 1963, pp. 95-121 = Terzo Contributo alla storia degli studi classici e del mondo antico, Roma 1966, pp. 545-598; Id., How to reconcile Greeks and Trojans, in «Mededelingen Kon. NederI.Akad.» N.R. 45.9, 1982, pp. 231-254 = Settimo Contributo, Roma 1984, pp. 437-462. I Contributi di A. Momigliano sono in parte consultabili on line. J.-c. RICHARD, Les origines de la plèbe romaine. Essai sur la formation du dualisme patricio-plébéien, Roma 1978; J. H. RosE, Patricians and Plebeians at Rome, in «Joumal ofRoman Studies» XII, 1922, p. 126; G. SAEFLUND, Le mura di Roma repubblicana, Lund 1932; J. CARCOPINO, Virgile et les origines d'Ostie, Parigi 1919; Le terramare -la più antica civiltà padana, cat. della mostra a cura di M. Bemabò Brea, Milano 1997. A. MASTROCINQUE, Romolo. La fondazione di Roma tra storia e leggenda, Este 1990. R. THoMsEN, King Servius Tullius, Copenhagen 1980. Alba longa: mito, storia, archeologia. Atti dell'incontro di studio, a cura di A. Pasqualini, Roma 1996. Sulle scoperte archeologiche si veda il catalogo della mostra La Grande Roma dei Tarquini, Roma 1990. C. AMPOLO, Presenze etrusche, koinè culturale o dominio etrusco a Roma e nel Latium vetus in età arcaica?, in «Annali della Fondazione C. Faina» XVI, 2009, pp. 9-41. A. MASTROCINQUE, Lucio Giunio Bruto. Ricerche di storia, religione e diritto sulle origini della repubblica romana, Trento 1988. I frammenti degli storici romani repubblicani (gli annalisti) sono editi in H. PETER, Historicorum Romanorumfragmenta. M. CHASSIGNET, L'annalistique romaine, 3 voli., Parigi 2004.

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Le riforme costituzionali nel primo secolo della Repubblica CAPITOLO

3.1

La fine della fase monarchica (509 a.c.)

Pretori e consoli

Il consolato

TERZO

La primitiva costituzione repubblicana

La sparizione della monarchia, comunque avvenuta, portò alla costituzione a Roma di un governo aristocratico detenuto esclusivamente dalle famiglie patrizie. Circa nel 509 a.c., la data che la tradizione assegna alla fine della monarchia, Roma era governata da magistrati annui, di identico potere, chiamati pretori e più tardi consoli. L'origine di questa magistratura è immersa nell' oscurità; ma la congettura più probabile per spiegarla è la seguente. In origine i pretori erano tre ed erano i comandanti dei contingenti di mille uomini, che ciascuna delle tre tribù - come sappiamo - dava per formare la legione. Caduta la monarchia, questi tre pretori divennero i capi dello Stato; ma a poco a poco le loro funzioni si differenziarono. Due dei tre pretori conservarono il comando dell'esercito in guerra, e il terzo rimase invece in Roma a decidere delle cause civili. Ne conseguì che i pretori, i quali comandavano l'esercito, ebbero maggiore autorità del loro terzo collega e perciò divennero i capi effettivi dello Stato e cambiarono anche il loro nome in quello di consoli, mentre il terzo pretore (ormai rimasto isolato) conservò sempre il suo nome antico. Questa congettura si basa essenzialmente sui seguenti fatti: 1) è certo che in tempo più antico i consoli non si chiamavano consoli, ma pretori; 2) il pretore fu sempre considerato collega dei consoli, benché per la sua minore importanza fosse detto il collega minore; 3) il nome pretore (praetor), che viene da prae-itor, «colui che va davanti (all'esercito)>>, conviene solo a un comandante militare e perciò anche il terzo pretore dovette essere in origine un generale. Comunque del resto si pensi che sia sorto il consolato, certo esso restò per tutto il periodo della repubblica la magistratura suprema dello Stato romano, e continuò poi a sussistere anche durante l'impero come la più importante carica onorifica. I due consoli davano insieme il nome all'anno: i loro nomi erano registrati in un elenco, i così detti fasti consolari. Ciascun console aveva diritto di veto sulle iniziative del collega; in altri termini, ogni iniziativa poteva essere presa solo d'accordo tra i due.

Le riforme costituzionali nel primo secolo della Repubblica

I consoli erano eletti dai comizi: in tempo più antico dai comizi curiati, più tardi, come vedremo, dai comizi centuriati. Ai comizi curiati restò allora solo più il compito di omologare la nomina dei comizi centuriati conferendo agli eletti l'imperio. I consoli avevano diritto assoluto di vita e di morte su ognuno fuori del pomerio della città: entro il pomerio invece i cittadini avevano il diritto di appello ai comizi (provocatio). Appunto per questa differenza i consoli potevano essere preceduti solo fuori della città dai dodici littori muniti di fascio con la scure. Dentro il pomerio i fasci dovevano restare senza scure. Al di sotto dei consoli e del pretore stavano i due questori (quaestores), in origine, come dice il nome, incaricati di inchieste giudiziarie, ma poi addetti soprattutto all'amministrazione dell'erario, cioè della cassa dello Stato. Più tardi, altri due questori, furono creati per seguire gli eserciti e amministrare le loro finanze. Magistratura speciale dei momenti di pericolo era la dittatura. Quando la patria era ritenuta gravemente minacciata, uno dei consoli nominava un dittatore, che non poteva rimanere in carica più di sei mesi, cioè più della normale durata di una impresa bellica. Questi assommava in sé il potere dei due consoli - evitando ogni dissidio di propositi e inoltre, almeno nei tempi più antichi, non era legato nemmeno entro il pomerio dal diritto di appello dei cittadini. Egli - detto anche magister populi - aveva sotto di sé come collaboratore, per il comando della cavalleria, il magister equitum. Le origini di questa tipica istituzione sono assai oscure; ma è verosimile che esse si ricolleghino con la dittatura, che troveremo come istituzione in una nuova forma della lega latina (v. cap. IV). Poiché i Romani sono stati a lungo alleati della lega latina in questa nuova forma, e hanno avuto come tali diritto di partecipare alla nomina del dittatore della lega, non farebbe meraviglia che avessero pensato poi di servirsi della dittatura anche per loro uso particolare. Il Senato rimaneva sempre come Consiglio dei capi dello Stato, cioè dei consoli, che ne designavano i membri. Esso era certo costituito tutto di patrizi.

3.2

La reazione della plebe contro il governo patrizio

Era naturale che la maggioranza della popolazione, cioè la plebe, cercasse di reagire contro questo sistema, in cui un ristretto numero di famiglie, approfittando delle sue ricchezze e del vasto numero di clienti che le ricchezze permettevano di attrarre, monopolizzava tutte le cariche dello Stato ed esercitava la giustizia a vantaggio suo. La situazione diventava per i plebei tanto più insopportabile quanto più si richiedeva

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I questori

Il «magister

populi»

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Manuale di storia romana

Lo scontro tra patrizi e plebei

I tribuni della plebe

La riorganizzazione delle tribù su base territoriale

il loro contributo di denari e di sangue nelle guerre che Roma era costretta a sostenere continuamente contro i vicini (vedi cap. IV): ciò che naturalmente accresceva la miseria della maggior parte dei plebei, li costringeva a contrarre dei debiti coi patrizi e li riduceva in schiavitù dei creditori nei casi frequenti in cui non potessero pagare. La lotta tra patrizi e plebei fu dunque politica, in quanto i plebei mirarono sempre più consapevolmente ad avere uguaglianza di diritti politici con i patrizi, ma fu anche economica, perché essi pretesero non solo la riduzione dei debiti esistenti, ma anche distribuzione di terre e di viveri (frumento), che impedisse di dover contrarre in futuro nuovi debiti. I particolari della lotta sono estremamente oscuri. In genere gli autori, come Livio, che ci danno maggiori notizie sul suo svolgimento, fanno delle confusioni con le posteriori lotte del periodo dei Gracchi. Ma le linee generali sono abbastanza chiare. La plebe cominciò col darsi, al principio del V secolo, dei capi propri, i tribuni (della plebe), il cui numero originario non conosciamo bene, ma che erano più tardi sicuramente dieci per anno. Questi tribuni erano naturalmente dei magistrati rivoluzionari, che cercavano in ogni modo di ledere l'autorità dei magistrati normali dello Stato: e poiché essi erano sostenuti dalla forza della plebe, giunsero a poco a poco a farsi riconoscere anche dai patrizi come invio/abili e ad acquistare il diritto di intercessione, cioè di sospendere i decreti dei magistrati, opporsi alle votazioni nei comizi e alle deliberazioni del Senato; di più essi potevano anche ad arbitrio multare e, sembra, perfino condannare a morte i cittadini. Come bene s'intende, nessuna legge in origine autorizzava i tribuni a compiere tutte queste cose: solo con la violenza la loro autorità poté essere imposta e fatta rispettare. Accanto ai tribuni, troviamo come funzionari della plebe gli edili, che, custodi da principio, a quanto sembra, del santuario della plebe, quello di Cerere presso il Circo Massimo, diventarono i cassieri delle finanze della plebe, poi gli organizzatori delle feste plebee e infine gli aiutanti dei tribuni e i sopraintendenti a tutte le iniziative che la plebe prendeva per il miglioramento della vita cittadina, senza più curarsi della volontà dei magistrati patrizio Inoltre la plebe - sia per deliberare sia per eleggere regolarmente i suoi funzionari - si diede una assemblea propria. Continuavano i plebei a partecipare ai comizi di tutto il popolo, ma in questi, come vedemmo, avevano poca autorità. Offrì loro il sistema per crearsi l'assemblea propria la istituzione delle così dette tribù territoriali. Invece di continuare a far le leve dei soldati secondo le tre tribù dei Ramni, Tizii e Luceri, tutta la cittadinanza fu distribuita in un certo momento in tribù di nuovo tipo (in origine probabilmente 17), differenti dalle antiche non solo per il loro maggiore numero, che facilitava i controlli, ma anche perché

Le riforme costituzionali nel primo secolo della Repubblica

i membri di ciascuna di esse abitavano tutti la stessa porzione di territorio. Quando sia avvenuta tale trasformazione, che tal uno attribuiva a Servio Tullio, non sappiamo. Certo essa non aveva altro scopo che di favorire il migliore reclutamento dell'esercito e non abolì le tre tribù antiche. Ma poiché spartiva le famiglie patrizie fra un numero rilevante di tribù diminuiva anche conseguentemente l'autorità loro in ciascuna, sicché indirettamente favoriva l'accrescersi del prestigio della plebe. Si comprende quindi che la plebe si servisse di queste tribù come di un quadro per organizzare la propria assemblea, in conformità dell'abitudine romana, la quale non concepiva che individui singoli partecipassero ad assemblee, ma solo gruppi organizzati (curie, centurie, tribù). Nacquero perciò i concilia plebis tributa, l'assemblea in cui la plebe si raccoglieva secondo le tribù territoriali. Più tardi si ebbero poi anche assemblee di tutto il popolo ordinate con questo sistema (comitia tributa), ma ebbero sempre poca importanza e servirono al più per eleggere minori magistrati, come i questori. Al contrario, i concili della plebe del periodo più antico furono il centro di tutto il movimento plebeo. Le deliberazioni di tali concilii si chiamarono plebisciti, che, se non avevano valore legale, erano però dai plebei, almeno nei casi più gravi, considerati sacrosanti, cioè posti sotto la tutela della divinità, precisamente come l'autorità dei tribuni non era legale, ma era però sacrosanta. E tale carattere sacrosanto delle proprie deliberazioni la plebe riusCÌ a poco a poco a imporre anche ai patrizi, costringendoli a subire la validità dei plebisciti, prima ancora che si decidesse a riconoscere il loro valore legale. In tal modo, per reazione all'ordinamento che dava tutto lo Stato in mano ai patrizi, i plebei avevano saputo costituire uno Stato nello Stato, con magistrati e leggi proprie. La situazione era assurda e non poteva risolversi se non quando i patrizi aderissero alle richieste della plebe per la parità dei diritti. Valse ad affrettare il rinnovamento, oltre l'opera quotidiana dei tribuni in favore della plebe, la minaccia di secessione, cioè di allontanarsi da Roma e di non prestar servizio militare, che la plebe ripeté più volte, raccogliendosi fuori del pomerio, sull' Aventino.

3.3

Il decemvi rato

Se noi, come abbiamo già detto, non conosciamo esattamente le fasi della riscossa plebea, è però assai verosimile che già nella prima metà del V secolo i plebei ottenessero diminuzioni di debiti, distribuzioni a basso prezzo di frumento, assegnazioni di ager publicus, cioè di terra di proprietà dello Stato (frutto delle conquiste in guerra), e infine forse l'invio di coloni, cioè, in altri termini, l'assegnazione di terre non a sin-

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I «concilia plebis tributa»

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I «decemviri» codificano le leggi in dodici tavole

Appio Claudio provoca la ribellione «dell' Aventino»

Manuale di storia romana

goli individui, ma collettivamente a un vasto gruppo di persone, in modo da formare una città nuova 1• Tuttavia, la maggiore conquista della plebe in questo periodo fu di ottenere che le leggi principali regolanti la vita dello Stato fossero scritte, così da toglierle all'arbitrio dei patrizio Fu questa l'opera dei decemviri, e la codificazione loro fu raccolta in dodici tavole, che divennero i fondamenti di tutto lo sviluppo posteriore del diritto romano. Come precisamente si sia giunti alla codificazione non sappiamo. La tradizione racconta che, in seguito a una lunga agitazione della plebe capeggiata dal tribuno C. Terentilio Arsa, fu deciso di mandare una commissione in Grecia a studiare le leggi di Solone e altre costituzioni. Al ritorno dei commissari nel 451 fu sospesa la costituzione normale, non si nominarono cioè né consoli né tribuni, e tutto il potere fu dato a dieci patrizi, i decemviri, con l'incarico di redigere un codice di leggi. Poiché alla fine dell'anno i decemviri avevano solo elaborato dieci tavole di leggi, un nuovo collegio di decemviri fu nominato per il 450 con l'incarico di completare l'opera del precedente. Di questo collegio (in cui furono ammessi alcuni plebei) la persona più autorevole divenne Appio Claudio, che era già stato decemviro l'anno precedente. Egli cercò di dare alle due tavole di leggi, che ancora restavano da elaborare, un contenuto sfavorevole alla plebe, e tra l'altro vi codificò il divieto di matrimonio tra patrizi e plebei. Poi, alla fine dell'anno, persuase i colleghi a non deporre il potere e a costituire insomma una tirannide collettiva sotto la sua direzione. Ma intanto un ultimo sopruso provocò la ribellione della plebe. Appio Claudio, per impadronirsi di una fanciulla, Virginia, fidanzata all'ex tribuno della plebe Icilio, persuase un suo cliente a dichiarare che era una schiava e impose fosse consegnata a quel cliente. Ma il padre di Virginia (Virginio) uccise la fanciulla, piuttosto di lasciarla trascinare in schiavitù, provocando in tal modo la solidale ribellione della plebe romana, che si ritirò sull' Aventino e poi sul monte Sacro. I decemviri dovettero rassegnarsi ad abdicare: Appio Claudio anzi si uccise, e le magistrature normali - compresa la magistratura plebea dei tribuni - furono restaurate (449 a.c.). CosÌ la tradizione, ma c'è qualche grave motivo per dubitare che i suoi ricordi siano esatti. Colpisce soprattutto il fatto che essa presenti come nemici della plebe proprio quei secondi decemviri, tra cui c'erano dei plebei. Può essere vero che la plebe abbia voluto la fine del decemvirato, quando per la prima volta nella sua storia aveva potuto partecipare a una magistratura dello Stato? Si noti poi che, restaurata la normale costituzione, solo i patrizi tornarono a essere consoli: il che

l

Per più precise notizie sulla struttura giuridica delle colonie, v. oltre.

Le riforme costituzionali nel primo secolo della Repubblica

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vuole dire che i plebei perdettero una delle posizioni che già avevano conquistato. Questo e altri argomenti fanno dunque sospettare che la narrazione tradizionale abbia gravi inesattezze e che forse non la plebe, ma il patriziato abbia voluto la fine del decemvirato. Ma su di ciò non sono possibili che congetture. Certo è solo che un permanente guadagno venne alla plebe dall'opera dei decemviri: le leggi infine erano state scritte, cioè rese note a tutti.

3.4

L'ascesa della plebe

La lotta contro i privilegi dei patrizi poteva continuare in migliore condizioni. Secondo la tradizione, nello stesso anno in cui furono cacciati i decemviri, nel 449, i consoli Valerio ed Orazio avrebbero proposto una serie di leggi decisamente favorevoli all'autorità della plebe. Quali fossero però queste leggi la tradizione non è concorde nel dirci; la loro autenticità è quindi da considerarsi molto dubbia. La prima sicura conquista della plebe dopo la fine del decemvirato è dunque del 445, quando il tribuno della plebe C. Canuleio ottenne con sua proposta (rogazione Canuleia) l'abolizione del divieto di matrimonio tra patrizi e plebei. L'anno dopo (444 a.c.), la plebe poteva ottenere un trionfo ancora più decisivo. Poiché i patrizi si ostinavano a rendere inaccessibile il consolato ai plebei, la plebe otteneva l'abolizione del consolato. Invece dei consoli divennero capi dello Stato i tribuni militari, cioè i capi dei contingenti di 1000 uomini, che costituivano - come sappiamo - la legione romana ed erano i più alti ufficiali dopo i consoli. Aboliti i consoli, i tribuni divennero automaticamente i capi dello Stato ed ebbero perciò potere consolare (tribuni militum consulari potestate). Tribuni militari potevano anche essere i plebei, e perciò la plebe ebbe ora parte nella suprema magistratura. La quale non contò numero uguale di membri per ogni anno. La ragione più probabile è la seguente. Ormai l'esercito romano aveva più dei 3000 uomini dell'esercito dei re, giungeva anzi spesso per le più gravi necessità a metteme in campo 6000 e in genere oscillava tra leve annue di 4000 e 6000; perciò i tribuni furono di regola da 4 a 6 per anno. Il patriziato finì col persuadersi che tanto valeva ormai restaurare il consolato e concedere che i plebei vi partecipassero. Senza stare qui a raccontare le lotte, i tentativi di reazione in un senso o nell'altro, le dittature di parte patrizia che si succedettero per poco meno di un secolo, basterà dire che nel 367 furono accolte le proposte dei tribuni C. Licinio Stolone e di L. Sestio, per cui si restaurava il consolato, dando diritto ai plebei di occupare uno dei due posti. Per la prima volta nel 366 ci fu quindi un console plebeo.

La cacciata dei «decemviri» e l'abolizione del divieto di matrimonio tra patrizi e plebei

Il consolato aperto ai plebei

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Manuale di storia romana

Gli «edili curuli»

La «Iex Hortensia» dà valore di legge ai plebisciti

Già intorno al 421 la questura era diventata accessibile alla plebe, e probabilmente già da tempo i plebei erano riusciti a penetrare nel Senato. Più o meno nello stesso periodo gli edili diventavano dei veri funzionari pubblici, tanto è vero che nel 366, vista la loro utilità, se ne crearono altri due, detti curuli, eletti dai comizi tributi, che dovevano essere un anno patrizi e un anno plebei. I quattro edili ebbero l'incarico di sorvegliare i mercanti, di esercitare la polizia urbana, di custodire l'archivio della città presso il tempio di Saturno etc. Ora poi, dopo l'ammissione al consolato, la via della parificazione totale fu percorsa sempre più rapidamente. Si dubita se sia autentica la legge che la tradizione vorrebbe proposta dal tribuno Genucio nel 342 di rendere accessibili ai plebei entrambi i posti di console, perché in realtà solo nel 172 ci furono due consoli plebei. Ma è sicuro che nel 339 i plebisciti per iniziativa del dittatore Q. Publilio Filone, divennero leggi dello Stato, previa approvazione del Senato. Nel 300 i plebei furono ammessi nei collegi sacerdotali dei pontefici e degli auguri e almeno dal 220 vi ebbero anche la maggioranza, perché ciascuno dei due collegi appare in quel tempo composto di quattro patrizi e cinque plebei. Infine nel 287, dopo un 'ultima secessione, per la legge proposta dal dittatore Q. Ortensio (les Hortensia), i plebisciti ebbero valore di legge senza bisogno della ratifica del Senato, ma solo con l'autorizzazione senatoria preventiva di proporli. In tal modo la plebe non solo acquistava la parità dei diritti, ma in certo modo si assicurava una superiorità sul patriziato, perché poteva deliberare senza i patrizi, mentre i patrizi non potevano deliberare senza i plebei.

3.5

L' «ordinamento

centuriato»

L'ordinamento centuriato e la censura

Mentre la plebe strappava ad uno ad uno tutti i privilegi ai patrizi, un altro elemento interveniva a diminuire il prestigio del patriziato e nello stesso tempo a trasformare gli ordinamenti militari romani. Alludiamo alla costituzione dell' ordinamento centuriato. Gli antichi attribuiscono questo ordinamento al re Servio Tullio, e non sono mancati dei moderni, che hanno difeso, anche di recente, con forti argomenti la esattezza di questa attribuzione. A noi pare tuttavia più probabile che l'ordinamento sia della fine del V secolo a.c., sia, cioè, posteriore di parecchi decenni alla costituzione dei concilia plebis tributa 2•

2

Le ragioni pro e contro l'attribuzione alla fine del V secolo dell'ordinamento serviano potranno essere trovate facilmente negli scritti del De Sanctis e del Fraccaro citati in fondo al capitolo.

Le riforme costituzionali nel primo secolo della Repubblica

In sostanza questo ordinamento suddivideva il popolo romano in cinque classi, e 193 centurie. La prima classe comprendeva 80 centurie, di cui 40 di iuniori (cioè inferiori ai 45 o 46 anni) e 40 di seniori; la seconda, la terza e la quarta erano di 20 centurie ciascuna (lOdi iuniori e lO di seniori); la quinta comprendeva 30 centurie (15 di iuniori e 15 di seniori). Al di sopra della prima classe stavano 18 centurie di cavalieri, al di fuori dell 'ultima stavano i così detti inermi o proletari, divisi in cinque centurie: dei falegnami (fabri [ignarii), dei fabbri (jabri aerarii), dei trombettieri (tubicines), dei suonatori di como (cornicines) e infine di coloro che non avevano nessun mestiere speciale (accensi). Ognuno vede subito che questo ordinamento era militare: esso suddivideva i Romani in classi, secondo il servizio che dovevano prestare. E l'appartenenza a ciascuna classe era determinata non dalla nobiltà di nascita, ma dal censo, cioè dalla ricchezza. Noi non sappiamo le cifre che fossero richieste nel tempo più antico, ma a metà del terzo secolo per appartenere alla prima classe si richiedevano 125.000 assi, per la seconda 75.000, per la terza 50.000, per la quarta 25.000, per la quinta 12.500. Più tardi queste cifre furono ancora diminuite. La differenza tra le classi consisteva in ciò: che esse erano diversamente armate; più precisamente (a prescindere dalla cavalleria) le tre prime classi costituivano, con differenze di armatura, la fanteria pesante che formava la legione, mentre le altre due classi costituivano truppe ausiliarie armate solo di archi, fionde e simili. Coloro che non appartenevano a nessuna classe disimpegnavano servizi inerenti alloro mestiere o altri servizi analoghi o restavano a casa. Gli iuniori di ciascuna classe erano naturalmente le forze dell'esercito normale, i seniori le riserve, la milizia territoriale, noi diremmo. Si comprende bene che lo Stato imponesse ai più ricchi il compito più grave nella difesa dello Stato, poiché toccava ai singoli cittadini di procurarsi le armi, e non si poteva pretendere che gli sforniti di capitale acquistassero le costose armature del legionario. Inoltre non si soleva pretendere, salvo casi eccezionali, che colui che non aveva un qualche capitale lasciasse la famiglia in totale miseria per andare in guerra. Ma era poi logico che i proprietari, i quali si addossavano il compito più gravoso di difendere la patria nelle legioni, pretendessero anche di avere il predominio nel governo. Si spiega quindi che l'ordinamento centuriato - ordinamento militare - diventasse anche ordinamento politico e desse il modo di costituire un'assemblea, in cui prevalessero i più ricchi. Nell'assemblea centuriata infatti bastava che i cavalieri (18 centurie) e la prima classe (80 centurie) fossero d'accordo, perché la votazione - fatta, come sappiamo, non per individui, ma per gruppi assicurasse loro la maggioranza; tutte le altre classi non potevano disporre che di 95 voti. L'assemblea centuriata, che conservò sempre il

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Il «censo» base della suddivisione del popolo romano in classi

La struttura politica ricalca l'ordinamento miliare

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Manuale di storia romana

L'importanza dei «censori»

carattere di assemblea militare e perciò si adunava fuori del pomerio, in Campo Marzio, mentre sul Gianicolo e il Campidoglio erano fatti sventolare i segnali usati un tempo per indicare pericolo di guerra, divenne quindi l'assemblea che proteggeva le classi ricche contro i poco abbienti. Essa strappò le prerogative della assemblea curiata e finÌ per sostituirla quasi totalmente. Come già sappiamo, i consoli furono eletti dai comizi centuriati e solo formalmente confermati da quelli curiati. La necessità che l'ordinamento centuriato comportava di redigere esatte liste delle ricchezze (del censo) dei cittadini provocò forse la costituzione di speciali magistrati, i censori; e in ogni caso diede loro, che compaiono nella seconda metà del V secolo, particolare autorità. I censori, in numero di due, erano eletti ogni cinque anni, ma duravano in carica solo diciotto mesi. Essi non solo redigevano le liste dei contribuenti, ma tutelavano le proprietà dello Stato, appaltavano lavori pubblici e riscuotevano gabelle. Poi ebbero anche l'incarico, in sostituzione dei consoli, di scegliere i nuovi senatori (lectio senatus), nel qual compito essi dovettero sempre di più tenere conto dell'abitudine che fossero eletti di preferenza senatori coloro che erano già stati magistrati. Ma se da questo punto di vista la loro scelta era limitata, essi avevano potere illimitato nel decidere della onorabilità necessaria perché un cittadino potesse esercitare le cariche e specialmente potesse entrare in Senato. Di qui si sviluppò il diritto dei censori a controllare i costumi dei cittadini (censura morum) col correlativo diritto di colpire di biasimo (nota) coloro che si allontanavano dalle consuetudini morali vigenti.

3.6

Le quattro assemblee legislative

Caratteri dello Stato romano arcaico

A tutta prima può dare una curiosa impressione questo Stato romano della fine del IV secolo, in cui si erano venuti o sovrapporre istituti cosÌ differenti e contraddittori. Quattro assemblee raccoglievano i cittadini: i comizi curiati, centuriati, tributi e i concilii tributi della plebe. Tre forme diverse di deliberazione avevano praticamente valore identico, le leggi votate da tutto il popolo, i plebisciti e i pareri (consulta) del Senato. I consoli potevano essere sostituiti da dittatori: sempre dovevano fare i conti con l'autorità dei tribuni. Nella scelta dei senatori e in genere nella determinazione della moralità necessaria per le cariche, i censori avevano potere esclusivo, indipendente da quello dei capi dello Stato. Infine anche nella semplice polizia urbana, i quattro funzionari che stavano alla testa, gli edili, erano eletti da due assemblee differenti: gli uni, gli edili plebei, dai concili i tributi della plebe, gli altri dai comizi tributi di tutto il popolo.

Le riforme costituzionali nel primo secolo della Repubblica

Le magistrature romane Roma si differenziava da molti popoli barbari e dalle monarchie ellenistiche perché non era governata da principi che si tramandavano il potere di padre in figlio per un loro privilegio ancestrale, ma da magistrati scelti dal popolo. Tutto ciò che costituiva l'aggregazione sociale era publicus, cioè «del populus»: i magistrati, i templi, gli spazi pubblici, gli auspici (cioè le consultazioni del volere divino), i cavalli da guerra ecc. I magistrati avevano varie prerogative, fra cui l'imperium, cioè il potere coercitivo (dei consoli e dei pretori, poi anche dei questori), lo ius agendi cum populo, che permetteva di convocare i comizi, l'intercessio, che permetteva di bloccare prowedimenti di altri magistrati, la sanctitas, che rendeva inviolabili (tipiche dei tribuni della plebe). Le loro disposizioni erano una delle fonti del diritto romano. A parte la carica straordinaria del dittatore, tutte le magistrature erano collegiali (almeno due magistrati) e di regola annuali. La magistratura suprema, tipicamente repubblicana, era il consolato, ricoperto annualmente da due romani eletti dai comizi centuriati, perché comandassero gli eserciti, mentre la loro prerogativa di giudici fu trasferita ai pretori nel IV secolo, dopo le leggi Licinie Sestie. I pretori (il cui numero fu accresciuto nel corso del tempo per far fronte ad esigenze sempre più articolate) avevano poteri analoghi a quelli dei consoli, ma erano gerarchicamente inferiori a questi. Alle dipendenze dei consoli erano i questori, dapprima incaricati di ricercare i criminali e riscuotere le tasse o le multe; in caso di necessità potevano assumere comandi militari. I magistrati, nelle loro campagne militari, potevano nominare dei legati, vale a dire dei luogotenenti, che svolgessero compiti specifici. Il coronamento di una carriera curule (cioè originariamente patrizia) era costituito dalla censura. Nel corso di un quinquennio due censori, che risiedevano nella «villa pubblica», in Campo Marzio, ricevevano, uno alla volta, tutti i Romani, e ne verificavano il diritto di cittadinanza, il censo, la residenza e il rango sociale. Così potevano registrare nel loro albo la composizione della Romanità per i successivi Cinque anni. Così i nuovi liberti venivano iscritti fra i cittadini, i ricchi e i poveri venivano assegnati alle cinque classi censitarie e, di conseguenza, alle diverse centurie che costituivano le unità di voto nei comizi centuriati, i senatori venivano designati, confermati o rimossi dal sommo Consiglio. Alla fine del loro quinquennio riunivano tutti i Romani in Campo Marzio per il rito purificatorio del lustrum. A partire dal IV secolo i censori ebbero un ruolo importante nell'edilizia e nelle altre opere pubbliche. Una carica antichissima era quella degli edili, che costituiva il coronamento di una carriera pubblica di un plebeo, tanto è vero che, quando le leggi Licinie Sestie aprirono il consolato ai plebei, ai patrizi fu aperto l'accesso all'edilità (furono creati così gli edili curuli, a fianco di quelli plebei). Essi vigilavano contro gli abusi nell'uso del suolo pubblico, e con le multe comminate organizzavano i ludi Romani, la massima festa della Roma repubblicana; erano sovrintendenti dei templi e sorvegliavano la morale pubblica. Il tribunato della plebe fu l'unica magistratura che rimase appannaggio di uno solo degli ordini sociali: la plebe, perché aveva la funzione di proteggere i plebei contro i soprusi dei magistrati e dei potenti. Il loro potere è definito come «negativo», perché loro prerogativa era quella di bloccare i prowedimenti degli altri magistrati, compresi i loro colleghi. Ma i tribuni presiedevano le assemblee della plebe, che in potenza erano assemblee legislative della romanità, e che vennero dette comizi tributi quandO ottennero la qualifica ufficiale di comizi. Queste assemblee giudicavano i processi capitali in appello (quando il condannato ricorreva alla provocatio, chiedendo di essere giudicato dal popOlO), ma varavano anche prowedimenti di legge importanti, tanto è vero che già

Manuale di storia romana

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prima del loro riconoscimento come comizi nel 287 parecchie decisioni segnarono le pietre miliari della costituzione romana (si pensi alle «leggi» Licinie Sestie, che furono un plebiscito proposto dai tribuni della plebe). Solo colui che presiedeva le assemblee legislative poteva proporre le leggi: i consoli nei comizi centuriati, i tribuni in quelli tributi. Accanto a questi magistrati principali, ve n'erano parecchi altri per funzioni di minore importanza. Anche molti sacerdozi erano pubblici, perché i sacerdoti più importanti svolgevano funzioni pubbliche. Essi formavano collegi che cooptavano i loro membri in seguito alla morte di qualcuno di loro. Nella tarda repubblica si decise di far eleggere i pontefici massimi dai comizi. I pontefici, oltre che occuparsi degli dei, erano anche i custodi delle norme procedurali del diritto. Gli dèi erano considerati dai Romani loro concittadini, dotati di maggiore potere ed autorità dei mortali, per cui si riteneva che anche da loro provenisse il diritto e che il rispetto delle norme da loro dettate procurasse giovamento ed aiuto alla città. Per contro, i malanni e le sciagure pubbliche erano ritenute la conseguenza della trasgressione di quelle norme e dell'abbandono dell'intesa con gli dèi.

L'equilibrio tra i poteri

Cresce l'importanza del Senato

Disordine dunque, ma disordine apparente. Innanzi tutto le attribuzioni di ciascun organo dello Stato, e la gerarchia dei magistrati erano cosÌ rigorosamente determinate che i conflitti di potere erano rari e facilmente eliminabili. In secondo luogo il potere era sÌ conferito ai magistrati dal popolo, ma, quando era conferito, il popolo non poteva più revocarlo fino a scadenza del mandato. Nessun voto di sfiducia poteva abbattere i consoli o il dittatore prima della fine del loro mandato. Perciò essi non potevano essere impacciati dalla volontà popolare. Infine solo i magistrati a ciò autorizzati (aventi il ius agendi cum populo) potevano convocare le assemblee e fare loro proposte (assimilati a questi erano i tribuni di fronte ai concilii tributi): donde l'impossibilità che i singoli cittadini prendessero iniziative disordinate. Anzi da questa esclusiva facoltà dei magistrati di convocare le assemblee derivava rigidità e conservatorismo nel loro funzionamento. D'altra parte, per l'ingrandirsi del territorio dello Stato romano, che rendeva difficile il convocare spesso le assemblee; per il complicarsi dei problemi politici, che rendeva necessarie persone specializzate a trattarli; per la frequente assenza da Roma dei consoli impegnati nei comandi militari, il Senato diventava sempre più l'organo effettivo dirigente della politica romana. Tutte le più gravi deliberazioni erano prese da questa assemblea di persone particolarmente autorevoli, le quali erano tratte sempre più regolarmente dagli ex-magistrati (finché saranno tratte solo da queste categorie) e perciò avevano molta esperienza. La potenza tutta speciale della ristretta aristocrazia senatoria conferma quel che si può indurre da una semplice lettura dei fasti consolari: la di-

Le riforme costituzionali nel primo secolo della Repubblica

rezione dello Stato era limitata in Roma a un cerchio di famiglie ricche e potenti sia patrizie, sia plebee. Il patriziato perdette assai meno di importanza di quanto potrebbe far supporre il successo esteriore della plebe, perché in realtà di quel successo approfittarono solo le famiglie più ricche tra i plebei, che vennero a condividere con i patrizi l'esclusività delle cariche dello Stato. S'intende che anche uomini nuovi potevano giungere alle alte cariche, ma in quanto si assimilavano alla classe dirigente. Perciò Roma non fu mai uno Stato democratico e perciò il trionfo della plebe si poté accompagnare con l'istituzione dei comizi centuriati, in cui, come sappiamo, i ricchi dominavano. Non che venissero meno le agitazioni degli strati inferiori della plebe. Ma si cercò in genere di evitare che dessero luogo a gravi disordini accontentando in qualche misura le richieste. Un patrizio di singolare tempra democratica - Appio C [audio Cieco - divenuto censore intorno al 310, pensò di dare maggiore importanza pratica alla plebe cittadina, che non aveva proprietà immobiliare distribuendola fra le tribù locali, in cui finora non era stata ammessa, non avendo beni stabili in nessuna parte del territorio romano. La deliberazione suscitò fortissime resistenze, ma sei anni dopo, nel 304, si venne al compromesso di permettere a questa plebe di essere iscritta in sole quattro tribù, le tribù dette urbane, in contrapposto alle altre tribù, che furono chiamate rustiche. È incerto se le quattro tribù urbane furono allora per la prima volta istituite oppure già preesistevano. Comunque, è evidente che dato il sistema romano di votare per tribù, la plebe nullatenente poteva contare assai meno se influiva sul voto di quattro tribù sole che non se era suddivisa fra tutte le tribù, partecipando alle votazioni in ciascuna. Un'altra concessione alla plebe più ignorante fu che nel 304 Gneo Flavio, divenuto edile, pubblicasse una specie di manualetto in cui erano registrate tutte le formule (le cosÌ dette actiones) che si richiedevano per poter correttamente agire dinnanzi ai magistrati romani. Non rivelava nessun speciale segreto, ma dava modo anche ai più umili di conoscere bene la procedura civile e perciò completava in certo modo l'opera di divulgazione del diritto, che avevano iniziato i decemviri con la pubblicazione delle dodici tavole. Infine ci è giunta anche per questo periodo notizia di provvedimenti di carattere economico in favore dei proletari. Se le più antiche colonie attribuite a Roma non sono sicuramente storiche, sono storiche la fondazione della colonia di Ostia nel IV secolo, di Anzio più precisamente nel 338, di Terracina nel 329, di Minturne e Sinuessa nel 296 etc. Tutte queste colonie servivano naturalmente ad allontanare da Roma la parte più miserabile della popolazione. Non sappiamo invece di distribuzioni sicure di agro pubblico, ma è certo che esse dovettero av-

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Le riforme di Appio Claudio Cieco

Le basi del diritto romano: il testo di Gneo Flavio

La fondazione delle prime colonie: Ostia e Anzio

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Le prime leggi agrarie

La fine dei contrasti tra patrizi e plebei

Manuale di storia romana

venire. Si è dubitato se sia da riferirsi al 367, cioè a proposta di Licinio e Sestio la legge che nessun Romano potesse avere più di 500 iugeri 3 di agro pubblico. Una tale legge suppone che ci fossero nel IV sec. in Roma molti ricchi che potessero avere usurpato grandi estensioni di agro pubblico a danno dei plebei poveri, a cui l'assegnazione dell'agro pubblico si faceva in genere nella misura di 2-4 iugeri a testa: e tali usurpazioni dei ricchi si moltiplicarono solo più tardi, via via che Roma estese il suo dominio sull 'Italia, e diedero poi origine alle agitazioni del periodo dei Gracchi. Ma non sembra che questa sia ragione sufficiente per negare che già nel IV secolo ci fossero delle persone, che riuscissero ad appropriarsi vaste zone di agro pubblico. Sarà da ricordare inoltre che si ebbero provvedimenti per diminuire i debiti. Alla iniziativa di Licinio e Sestio si dovette la concessione ai debitori di pagare i creditori a rate deducendo dal capitale gli interessi già pagati. Il tasso di interesse fu ridotto ripetutamente, prima imponendo che non superasse annualmente l' 1/12 del capitale, poi l' 1/24. E nel 326 furono poste serie limitazioni al diritto del creditore di impadronirsi senz'altro del debitore moroso. In tal modo erano evitate sempre più attentamente le agitazioni interne; e perciò patriziato e plebe potevano costituire sempre meglio, durante i secoli IV e III, quel formidabile blocco di volontà concordi, temprate da rigida disciplina e da inconcussa fede nel proprio diritto di dominio e di espansione, che portò Roma alla unificazione dell 'Italia. Ma la stessa storia di questa conquista dimostra, pure nelle sue fasi più antiche, che le lotte interne non tolsero quasi mai ai Romani la solidarietà di fronte ai nemici esterni: in tale solidarietà, insieme con la volontà di potenza e con l'abilità di farsi amici i vinti, sta la ragione della fortuna di Roma.

Bibliografia Da confrontarsi innanzi tutto lo Staatsrecht del Mommsen, le storie del diritto romano, la Storia dei Romani del De Sanctis. Inoltre la Romische Geschichte di J. BELOcH (dove si potranno trovare ulteriori indicazioni). Sulle classi dirigenti di Roma repubblicana M. GELZER, Die Nobilitiit der romischen Republik, Lipsia e Berlino 1912; F. MUENZER, Romische Adelsparteien und Adelsfanilien, Stoccarda 1920; F. CÀSSOLA, I Gruppi politici romani nel3 secolo a.c., Trieste 1962, rist. Roma 1968; H. H. SCULLARD, Roman Politics: 220 - 150 B.C., 2~ ed. Oxford 1973.

3

Uno iugero = m' 2518 circa.

Le riforme costituzionali nel primo secolo della Repubblica

Sul tribunato, l'edilità della plebe, e sul dictator cfr. A. MOMIGLIANO, in Quarto Contributo alla storia degli studi classici e del mondo antico, Roma 1969, pp. 273-329; Id., L'ascesa della plebe nella storia arcaica di Roma, in Rivista Storica Italiana 79, 1967, pp. 297-312 = Quarto Contributo, pp. 437454; G. NICCOLINI, Il tribunato della plebe, Milano 1932; J. BLEICKEN, Das Volkstribunat der klassischen Republik. Studien zu seiner Entwicklung zwischen 287 und 133 v. Chr., Monaco 1955; G. LOBRANo, Il potere dei tribuni della plebe, Milano 1982. Sulla edilità A. ROSENBERG, Der Staat der alten Italiker, Berlino 1913. Sulla censura G. PIERI, L' histoire du cens jusqu' a la fin de la République romaine, Parigi 1968. Sul decemvirato E. TAEuBLER, Untersuchungen zur Geschichte des Dezemvirats, Berlino 1921. Sull'ordinamento centuriato A. RoSENBERG, Untersuchungen zur romischen Centurienverfassung, Berlino 1911; P. FRACCARO, La storia dell' antichissimo esercito romano e l'età dell'ordinamento centuriato, in Atti II Congresso Studi Romani, Roma 1931; Ancora sull' età dell' ordinamento centuriato, in «Athenaeum» XII, 1934, pp. 57-71): G. DE SANCTIS, Le origini dell' ordinamento centuriato, in «Rivista di Filologia» LXI, 1933, pp. 289-98. Sul consolato e le insegne del potere si cfr. anche E. TASSI SCANDONE, Verghe, scuri efasci littori in Etruria: contributi allo studio degli insignia imperii, Pisa 200 l. E.S. STAVELEY, Greek and Roman Voting and Elections, Londra 1972. Sulle magistrature e gli ordinamenti repubblicani: S. MAZZARINO, Dalla monarchia allo stato repubblicano, Catania 1945; Les origines de la République romaine, Genève-Vandoeuvres 1967. Per la cronologia dei magistrati: T.R.S. BROUGHTON, The Magistrates ofthe Roman Republic, 3 volI., New York 1951-1960.

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La conquista dell'Italia centrale CAPITOLO

4.1

La lega dei latini contro Roma

Il «foedus Cassianum» (493 a.C.)

Le invasioni dei Volsci e degli Equi

QUARTO

Dalla fine della monarchia alla presa di Veio (396 a.C.)

La fine della monarchia, provocando gravi contese nell'interno di Roma per l'avvento di un governo esclusivamente patrizio, indebolì di conseguenza i Romani nel loro predominio sul Lazio. I Latini cercarono di liberarsi dalla egemonia di Roma e otto città (Tusculo, Ariccia, Lanuvio, Laurento, Cora, Tivoli, Pomezia e Ardea) costituirono una lega militare contro Roma, alla cui testa stava un dittatore. Ne succedette un periodo di ostilità, che si concluse con una grande vittoria dei Romani presso il Lago Regillo nelle vicinanze di Frascati. I membri della lega latina si decisero quindi a venire ad accordi con Roma, che furono conclusi probabilmente nel 493 a.C. con un patto che dal nome del console Spurio Cassio che lo firmò, si suole chiamare foedus Cassianum. Esso stabiliva che tra Roma e la lega latina doveva durare pace e alleanza perpetua e garantiva parità di diritti e di doveri tra i due contraenti. Da allora i Romani dovettero alternarsi con i Latini nel comando delle guerre in comune, cioè dovettero alternatamente con i Latini nominare il dittatore per le imprese federali: di qui probabilmente l'introduzione della dittatura in Roma (v. cap. III). Aderì poco dopo a quest'alleanza - con analoghe condizioni - il popolo degli Emici, che abitava nel Lazio nella regione di Anagni. La solidarietà tra Latini, Romani ed Emici era necessaria per resistere alle invasioni dei Volsci e degli Equi. I Volsci erano discesi dalla regione dell' alto Liri, che prima abitavano, nella pianura Laziale occupando Anzio, distruggendo forse Pomezia e fondando Velletri. I confederati ebbero da lottare per decenni contro di loro e nelle fasi alterne della contesa ebbero sempre valido appoggio in alcune fortezze che essi fondarono - sotto forma di colonia nei punti strategici più importanti, fra cui Norba e Signia. Senza stare a raccontare i molti episodi del conflitto, si ricorderà però che con la lotta con i Volsci si connette la leggenda famosa di Coriolano. Del quale in sostanza si narrava che, dopo aver strappato ai Volsci la città di Co-

La conquista dell'Italia centrale

rioli (donde prese il nome), si fosse inimicato la plebe romana rifiutando di fare eseguire una distribuzione gratuita di frumento: condannato, egli si sarebbe rifugiato presso i Volsci stessi e li avrebbe persuasi a marciare con lui contro Roma, ma sarebbe stato fermato a poca distanza dalla città dall'apparire della moglie e della madre, alle cui preghiere non seppe resistere. È difficile dire quanto ci sia di vero in questa leggenda: comunque essa offre un vivo esempio di quell'interferire delle contese interne nelle lotte con i nemici esterni, che, se non fu frequente, non poté mancare a Roma durante il V secolo, Altrettanto gravi i conflitti che i Romani e i Latini ebbero a sostenere con gli Equi, gli alleati dei Volsci, che devastavano la regione dell'alto Aniene e minacciavano specialmente Tusculo. Con queste guerre è notoriamente connessa la figura di T. Quinzio Cincinnato, il modesto contadino che, nel momento della patria in pericolo, viene eletto dittatore, abbandona il suo campo, vince in breve gli avversari e, dopo aver deposta la dittatura tenuta per 16 giorni, ritorna al suo lavoro agricolo. Seppure la leggenda ha abbellito la figura di questo tipico Romano, la sostanza dei fatti che essa narra è certamente autentica. Come è autentica la notizia che nel 431 i Romani riportarono una decisiva vittoria sugli Equi presso il monte Algido, vicino a Tuscolo, dopo la quale gli Equi furono ricacciati sui monti dei dintorni di Rieti, donde erano discesi. È facile comprendere che la tradizione romana, l'unica a noi pervenuta, esagera probabilmente la parte avuta dai Romani in confronto ai Latini in queste lotte. Ma non si può negare che i Romani ben presto si assicurassero una certa superiorità sui loro alleati e finissero quindi per esser considerati come egemoni. Ciò è confermato dalle lotte che Roma sostenne quasi da sola con l'etrusca Veio, che a nord di Roma le contendeva il dominio della valle del basso Tevere e più specialmente il dominio della città di Fidene. La lotta fu secolare. Due episodi ne sono particolarmente famosi. Nel 477, in un momento in cui Roma era impegnata in molteplici guerre, la famiglia nobile dei Fabii addossò su di sé e sui propri clienti il compito di tenere a bada i Veienti, ma fu sconfitta e quasi annichilita presso il fiume Cremera, non lontano da Fidene. La tradizione vuole che 300 Fabii cadessero in battaglia, e se anche questo particolare è una imitazione dei 300 Spartani caduti alle Termopili, la sostanza del racconto anche questa volta è senza dubbio esatta. Essa ci riporta a un periodo di tempi, in cui, pur essendosi ormai perfezionato il sistema militare, non era tuttavia ancora escluso che una famiglia nobile raccogliesse un piccolo esercito di clienti intorno a sé. Un altro episodio celebre è la sconfitta che nel 428 il console A. Cornelio Cosso inflisse ai Veienti, di cui uccise il re Tolunnio. In seguito a questa sconfitta Fidene, allora alleata di Veio, fu distrutta. Ma la lotta decisiva con Veio cominciò solo più tardi, intorno al 407

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Il tradimento di Coriolano

Cincinnato sconfigge gli Equi

La lotta secolare tra Roma e Veio

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Manuale di storia romana

Furio Camillo occupa Ve io

Roma consolida il suo primato sul Lazio

o al 406 e durò, con sorti alterne, fino al 396 in cui M. Furio Camillo, nominato dittatore, riuscì a occupare la città. Veio fu spopolata uccidendo o vendendo schiavi gli abitanti, e il suo territorio fu diviso fra i cittadini romani, più che reduplicando il territorio dello Stato. La vittoria sopra Veio, oltre a liberare Roma dalla sua più pericolosa competitrice, ebbe appunto soprattutto importanza per questo incremento del territorio, che permise ai Romani di guardare senza timore gli aumenti territoriali dei loro alleati Latini. Infatti i territori nuovi che erano stati acquistati nelle lotte comuni contro gli Equi e in ispecie contro i Volsci (costretti a concludere la pace press'a poco contemporaneamente alla distruzione di Veio) erano passati quasi tutti a far parte non dello Stato romano, ma della lega latina. Anche le colonie fondate con larga compartecipazione dei Romani nel territorio strappato agli Equi e ai Volsci vennero poste quasi tutte alla dipendenza non dei Romani, ma della lega. La quale perciò venne a incorporare tutta la pianura del Lazio sino a Terracina al di là del promontorio Circeo e comprese un territorio di almeno 2500 kmq. Di fronte a questi lo Stato romano con l'aggregazione di Veio raggiunse 2200 Kmq. circa. La piccola differenza in meno era di gran lunga compensata dalla maggiore omogeneità in confronto ai territori della lega latina senza contare che i Romani passati nelle colonie latine dovevano conservare vivo il ricordo della patria e perciò favorirne la politica. La distruzione di Veio consolidò quindi per sempre il primato di Roma sul Lazio.

4.2

I Galli di Brenno saccheggiano Roma (386 a.c.)

La rotta davanti ai Galli e la restaurazione del prestigio di Roma (353 a.C.)

L'ascesa della potenza romana fu di colpo arrestata intorno al 390 da un'irruzione di Galli nell'Italia centrale. Lungo tutto il secolo V a.c. i Galli (o Celti) erano penetrati nell 'Italia settentrionale e nel litorale adriatico dell 'Italia centrale press' a poco fino ad Ancona. Essi avevano sommerso l'elemento etrusco, salvo in poche città (come Mantova), che conservarono per molto tempo carattere etrusco, e avevano respinto ai margini dei territori da loro occupati i Liguri (presso le Alpi Marittime) e i Vene ti (presso i Colli Euganei). Per quanto diventati di massima sedentari e dediti all'agricoltura, conservarono tuttavia una certa tendenza alle razzie nei paesi vicini. In una di queste una massa di Galli sotto il comando di Brenno assediò l'etrusca Chiusi e di lì per ragione non ben precisa marciò contro Roma. A pochi chilometri dalla città, sulla sinistra del Tevere, presso il fiumiciattolo Allia, le truppe romane furono sbaragliate. Roma, forse non ancora difesa da un sistema di mura, fu aperta all'invasore.

La conquista dell'Italia centrale

Solo la rocca del Campidoglio ben munita poté apprestare una difesa; il resto della città fu preda, ricca preda, dei Galli. I quali per altro, non avendo nessuna intenzione di indugiarsi in Roma, dopo un vano tentativo di occupare anche il Campidoglio, si lasciarono persuadere da una abbondante offerta di oro a ritirarsi dalla città e a ritornarsene donde erano venuti. Una parte della tradizione romana cerca di attenuare la gravità del disastro raccontando che i Galli furono respinti non dall'oro, ma dalla spada del distruttore di Veio, Camillo, allora in esilio e sopraggiunto con un esercito da lui costituito. L'aneddoto è evidentemente inventato; ma rispecchia una certa verità nel senso che il principale artefice della restituzione della potenza romana dopo l'umiliazione fu appunto Camillo. In seguito al disastro gallico i Latini avevano di fatto, se non formalmente, disciolto i loro vincoli con i Romani, non inviando più contingenti militari in soccorso dell'alleata. Anzi, qualche città, come Tusculo, si ribellò apertamente, mentre alcune città volsche aggregate di forza alla lega latina, quali Anzio e Velletri, ne approfittarono per riprendere la loro libertà d'azione ai danni di Roma. Occorsero guerre durate fino al 358 per rimettere ordine nel Lazio e restaurarvi la egemonia romana. Ilfoedus Cassianum fu rinnovato, vi fu ammessa anche qualche città, come Preneste, che prima non vi partecipava. Ma nel complesso la parità di diritti dei Latini divenne sempre più formale: Roma ormai teneva con la forza intorno a sé le città latine; e ne è una conferma che essa cominciava a trattarle differentemente l'una dall'altra per dividerle: sistema che avrà numerose applicazioni nei decenni successivi. Già intorno al 380 circa, Tusculo ebbe il diritto di cittadinanza romana, cioè fu incorporato nello Stato romano. Un analogo incorporamento, ma con diverso scopo, si ebbe nel 358 in seguito alla sottomissione di Anzio. Una parte del territorio della città fu aggregato a Roma e con lo stanziamento di cittadini romani servì a costituire le due nuove tribù territoriali Pontina e Poplilia. Altri tentativi di insidiare Roma si avevano avuti per opera degli Etruschi, in ispecie delle città di Tarquini e Caere; ma anche questi fallirono, e Caere fu costretta a sottomettersi a Roma in una forma che ebbe poi, con qualche perfezionamento ampio sviluppo sotto il nome di civitas sine suffragio (353 d.C.). In altri termini, gli abitanti di Caere dovettero rinunciare al diritto di pace e di guerra, al potere legislativo e giudiziario e dovettero sottoporsi all'autorità dei magistrati romani e pagare i tributi e compiere il servizio militare imposto ai Romani, ma non ebbero il diritto di voto (suffragium) in Roma. Essi ebbero insomma i diritti e doveri civili di cittadini romani, ma non i diritti politici.

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«Vae victis»

La ribellione degli ex alleati latini

I Romani sconfiggono gli Etruschi

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Manuale di storia romana

4.3

Ricomincia l'espansione di Roma verso Sud

La prima guerra sannitica

La prima guerra sannitica e l'ultima ribellione dei Latini (338 a.C.)

La strenua energia dei Romani era riuscita quindi a capovolgere la situazione e ad accrescere lo Stato romano, che ormai superava i 3000 Kmq. Perciò le molte irruzioni dei Galli, che si succedettero a quella del 390, non ebbero più nessun grave effetto. Roma era ben preparata a riceverli e aveva anche munito la città di solide mura per impedire il rinnovarsi della sorpresa. La espansione ricominciò verso il sud, dove le due città (forse volsche) di Fondi e di Formia furono incluse nella lega latina, mentre i vicini Aurunci furono debellati e costretti all'amicizia con i Romani. L'avanzata verso sud apriva ai Romani e ai Latini la ricca e fertile terra della Campania, ma li poneva anche di fronte ai Sanniti. Questi formavano un gruppo omogeneo di pastori e agricoltori sulle montagne dell' Abruzzo; le loro tribù costituivano una federazione. Più civili erano invece i Sanniti che erano penetrati nella pianura campana, cacciando quasi da ogni luogo gli Etruschi e talvolta anche i Greci '. Essi costituivano nella regione una serie di confederazioni, tra cui la più importante, quella che si strinse intorno a Capua, diede, sembra, il nome alla regione Campania. Poiché i vari Stati sannitici erano spesso in lotta tra loro, un conflitto tra la lega di Capua e i Sanniti dell'Abruzzo offrì appunto a Roma un'occasione di intervento, che provocò circa nel 343 la prima guerra sannitica. Di questa guerra tutto è oscuro, e non sono mancati critici i quali hanno dubitato perfino che sia avvenuta: ciò che è esagerato. La guerra, a quel che sembra, ebbe lo scopo di impedire che i Sanniti veri e propri si annettessero la lega di Capua e certo riuscì in un modo o nell' altro a persuadere i Campani all'alleanza latino-romana. Ma l'adesione dei Campani alla lega ebbe una conseguenza che i Romani non si sarebbero attesi: favorì le simpatie tra Campani e Latini e in definitiva provocò un loro tentativo di spezzare l'egemonia romana. La lotta durata dal 340 al 338 fu asprissima. La disciplina estrema e lo spirito di sacrificio che richiese ai Romani sono ancora testimoniati dai due famosi aneddoti sul console T Manlio Torquato, che condannò a morte il figlio uscito dalle file contro il suo ordine, e sull'altro console P. Decio Mure, che si fece uccidere dai nemici, quando seppe dagli auguri che solo la sua morte avrebbe reso possibile la vittoria. Nel 338 i Romani avevano vinto e potevano regolare in modo nuovo la sorte degli ex alleati.

I

I Sanniti della Campania si chiamarono anche asci (greco Opichòi); cfr. cap. I.

La conquista dell'Italia centrale

La lega latina fu disciolta. I membri delle città latine perdettero il diritto di connubio e di commercio tra di loro, ma lo conservarono con Roma. Alcune città, come Tivoli e Preneste, e le colonie latine furono lasciate autonome, sebbene ormai di fatto soggette alla volontà di Roma. Altre (fra cui Ariccia, Lanuvio e Tusculo, che, per quanto già prima annessa a Roma, aveva partecipato alla ribellione) ebbero o riebbero la cittadinanza romana. Due nuove tribù furono fondate nel Lazio con i nuovi acquisti territoriali, la Mecia e la Scaptia. Le città volsche di Anzio e di Terracina furono trasformate in colonie romane, dando però modo a una parte degli indigeni di diventare essi stessi coloni. In altre città, come Velletri, furono espulsi gli elementi ostili a Roma. Fondi e Formia ebbero ora la cittadinanza senza suffragio. Altre città del territorio degli Aurunci furono collegate a Roma con alleanza. Nel loro territorio fu fondata però anche la colonia latina di Cales. Infine i Campani vennero privati di una parte del loro territorio, in cui fu fondata la tribù Falerna, ma ebbero la cittadinanza senza suffragio con annessi parecchi privilegi; sembra anzi che l'aristocrazia di Capua ottenesse già allora la cittadinanza romana di pieno diritto. La sistemazione era nel complesso favorevolissima per i vinti. Roma si era preoccupata di dividerli, mettendo li in tante situazioni diverse, ma si era anche preoccupata di non infierire contro nessuno, o, per meglio dire, di creare la possibilità di una collaborazione futura con i vinti. In tale modo, evitando ogni vendetta, gettava in questo momento le basi del suo impero. Con un territorio proprio di circa 6000 Kmq. e con un territorio di alleati quasi tutti fedeli di circa 5000 Kmq., Roma era ormai già, se non lo Stato più vasto, lo Stato più forte d'Italia, in ispecie dopo la rovina dell'impero siciliano di Dionisio I di Siracusa.

4.4

47

La lega latina viene sciolta

Roma diventa lo Stato più forte d'Italia

La seconda guerra sannitica: le lotte con gli Etruschi (327-304 a.C.)

Il tentativo dei Romani di conquistare per assedio Napoli nel 327 fece riardere la guerra con i Sanniti, che già negli anni precedenti si erano sentiti minacciati dalla nuova espansione romana verso la Campania, che portò, tra l'altro, alla fondazione della colonia fortificata di Fregelle. I Romani si accordarono con Napoli, concedendole una alleanza a condizioni favorevolissime, e attaccarono i Sanniti. Le sorti della lotta furono incerte per lunghi anni. La rigida struttura della legione romana non si rivelava adatta a combattere per le montagne del Sannio contro nemici che invece conoscevano una tattica molto più sciolta. Infine due legioni romane furono sorprese in una gola presso Caudio (le così dette forche caudine) di ubicazione mal certa e furono, dopo viva resi-

Le «forche caudine»

48

Manuale di storia romana

La riforma della legione e l'impiego di nuove armi

Gli Etruschi si ribellano ancora

La pace con i Sanniti

stenza, imprigionate. Esse non poterono ottenere libertà, se non pattuendo pace a nome di Roma, deponendo le armi e passando sotto il giogo (321 a.c.). La tradizione leggendaria vuole che il Senato romano si rifiutasse di accettare la pace che costringeva, tra l'altro, ad abbandonare ai Sanniti Fregelle. In realtà per parecchi anni non si poté riprendere la guerra, sebbene non ci sia da dubitare che subito i Romani si preparassero alla riscossa. Di tale preparazione il frutto maggiore fu verosimilmente la riforma della legione. Per evitarne il difetto di rigidità essa fu come spezzata in unità minori, i manipoli, dotati di larga autonomia. E fu pure adottata un'arma dei Sanniti, il pilo, una specie di lunga lancia da scagliare contro il nemico a distanza prima di giungere alla lotta a corpo a corpo con la spada. Più precisamente, la nuova organizzazione della legione (almeno come ci appare dalle informazioni dei secoli posteriori) fu questa: i manipoli, furono distribuiti in tre file (dieci per fila) di hastati, principes e triarii, le prime due armate di pili, l'ultima di lance comuni. I manipoli delle prime due file erano di 120 uomini, quelli dei triarii di 60. È certo però che in un primo tempo, come suggerisce il nome, i principi stessero non dietro, ma avanti gli astati. Anche la nuova lotta, iniziata circa il 316, non risparmiò ai Romani delle gravi sconfitte. E più grave si aggiunse la necessità di doversi difendere anche a nord dagli Etruschi. Allora i Romani furono per la prima volta costretti a mettere in campo non già solo due legioni, come da molti anni facevan0 2 , ma talvolta tre legioni e perfino quattro. Una marcia rimasta famosa del console Fabio Rulliano al di là della selva Ciminia in Etruria nel 310 sorprese gli Etruschi e li spinse a concludere la pace l'anno dopo: pace, che dava leggeri vantaggi territoriali ai Romani, ma aveva, come è ovvio, l'inestimabile valore di lasciarli liberi nella guerra contro i Sanniti e nella repressione della rivolta degli Ernici, venuta improvvisa dopo quasi due secoli di ininterrotta fedeltà all'alleanza con Roma. Nel 304 i Romani erano riusciti a domare quella rivolta e avevano costretto i Sanniti alla pace. Apparentemente i Sanniti ne uscivano bene, perché conservavano intatta la loro autonomia, solo rinunciando a Fregelle e a pochi altri territori; ma dovettero abbandonare ogni ingerenza nella Campania, in Apulia e presso gli altri vicini (Marsi, Peligni, Frentani etc.). Perciò Roma ebbe agio di fare o rinnovare con tutti questi popoli trattati che assicurassero la sua supremazia. Il territorio ro-

2

Quando due legioni si siano sostituite all'unica legione del periodo regio e degli inizi della repubblica, è ignoto: sembra tuttavia probabile che l'antica legione, originariamente di tremila uomini si sia a poco a poco accresciuta fino a sei mila, e allora sia stata spezzata in due legioni.

La conquista dell'Italia centrale

49

Flg.4.1 L'espansione di Roma nella penisola italica

M A R TIRRENO

mano era direttamente allargato sia con l'inclusione di una parte del territorio degli Emici e degli Equi (venutisi ad aggiungere agli Emici nella ribellione), che formò le due tribù Teretina e Aniense, sia con la concessione della cittadinanza senza suffragio a parecchie città (Arpino, Frosinone, Anagni etc.). Nuove colonie erano fondate, sia di diritto latino sia di cittadini romani. In conclusione, dopo la seconda guerra sannitica il territorio romano ascendeva a circa 8000 kmq. e aveva alleati in altri 20000 circa.

4.5

La terza guerra sannitica o prima guerra italica

Nel 298 i Sanniti, alleandosi con i Galli Senani (che occupavano press'a poco le odierne Marche), con i Sabini, con gli Etruschi e con gli Umbri cercarono di scuotere la supremazia di Roma. Ebbe così inizio quella che si vuole chiamare la terza guerra sannitica, che però ebbe il suo momento decisivo nel 295, fuori del Sannio, a Sentina in Umbria. I Romani, sbaragliando i Sanniti e i Galli là concentratisi, si assicurarono il predominio duraturo su tutta l'Italia Centrale. I Galli dovettero fare

Vittoria su Galli, Etruschi e Sanniti a Sentino (295 a.c.)

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Manuale di storia romana

subito pace e cedere ampie zone del loro territorio su cui fu poi fondata la colonia romana di Sena Gallica (Senigallia). Li seguirono gli Umbri e gli Etruschi, che furono legati a Roma da trattati di alleanza. Più tenaci, i Sanniti e i Sabini resistettero fino al 290. I primi non perdettero che poco territorio, ma furono ormai interamente circondati dai vecchi e nuovi alleati di Roma (Lucani, Apuli, Frentani etc.), e per la loro sorveglianza fu fondata in Apulia una grande colonia di diritto latino, Venosa. I secondi furono senz'altro annessi a Roma come cittadini senza suffragio. L'espansione di Roma aveva fatto enormi progressi. Il territorio dello Stato venne a comprendere circa 20000 Kmq. (di cui la quarta parte occupato da cittadini di pieno diritto, il resto da cittadini senza suffragio); il territorio degli alleati ascese a più di 60000 Kmq.

Bibliografia Delle storie romane specialmente Pais, De Sanctis, Beloch (l'ultimo di particolare importanza per gli accrescimenti territoriali di Roma). Del Pais anche Serie cronologica delle colonie romane e latine I Dall' età regia al tempo dei Gracchi in «Memorie Accad. Lincei», XVII 1924. Fra i lavori particolari più recenti: A. ROSENBERG, Zur Geschichte des Latinerbundes in Hermes, UV 1919; ID., Die Entstehung des sogenannten Foedus Cassianum und des latinischen Rechts in Hermes, LV 1920; G. DE SANCTIS, Sulfoedus Cassianum, in l Congresso Studi Romani, Roma 1928; A. ALFOLDI, Early Rome and the Latins, Ann Arbor 1963 (troppo riduttivo sul ruolo di Roma nel VI secolo). Per i trattati di Roma, E. TAEUBLER, Imperium romanum, I, Lipsia 1913; K.E. PETZOLD, Die beiden ersten romisch-karthagischen Vertrage und das foedus Cassianum, in Aufstieg und Niedergang der romischen Welt, I, l, Berlino 1972. pp. 364-411; B. SCARDIGLI, I trattati romano-cartaginesi, Pisa 1991. Sui Celti in Italia: Celti ed etruschi nell' Italia centro-settentrionale dal 5. secolo a.c. alla romanizzazione. Colloquio, Bologna 1985, a cura di D.Vitali. Bologna 1985; I Celti. Catalogo della mostra Venezia 1991, Milano 1991; D. BRIQUEL, La prise de Rome par les Gaulois: lecture mythique d'un événement historique, Paris 2008. Su Roma fra Celti ed Etruschi: M. SORDI, I rapporti romano-ceriti e [' origine della civitas sine suffragio, Roma 1960. Per i problemi artistici e culturali: Hellenismus in Mittelitalien, a cura di P. Zanker, Gottinga 1976. Sui Sanniti: Italia dei Sanniti. Catalogo della mostra Roma, Milano 2000; Studi sull' Italia dei Sanniti, Milano 2000.

La lotta con Pirro - l'assestamento della conquista CAPITOLO

5.1

QUINTO

Roma e la Magna Grecia

Fino alla fine del IV secolo i Romani non si erano mai politicamente occupati della Grecia, per quanto la cultura greca - e in ispecie la religione greca - penetrasse già largamente in Roma. L'unica personalità del mondo greco che non li lasciò indifferenti fu Alessandro Magno, a cui mandarono forse un'ambasciata quando si trovava a Babilonia nel 323, poco prima della morte: ambasciata su cui nulla sappiamo di preCISO.

Altrettanto poco essi si occuparono per lungo tempo dei Greci d'Italia. Il loro orizzonte era limitato all'Italia centrale. Ma la vittoria nelle guerre sannitiche li metteva ormai a diretto contatto con i problemi dell'Italia meridionale, dove i Greci resistevano sempre più debolmente contro la riscossa degli indigeni (Apuli, Lucani, Sanniti stessi etc.). Essi avevano dovuto invocare più volte l'aiuto degli Stati della madre-patria, e il re di Sparta Archidamo e il re di Epiro Alessandro, zio di Alessandro Magno, si erano succeduti tra il 340 e il 330 in vani tentativi di ridare vitalità alla Magna Grecia. A questa rimaneva come unica salvezza l'aiuto dei Romani, che infatti fu chiesto e ottenuto da Turi, Locri e Reggio intorno al 282 a.c. Si comprende però che l'avanzarsi dei Romani nella regione occupasse quelle città che tenevano di più alla loro indipendenza, come Taranto, allora la più potente di tutte. Taranto infatti, per garantirsi da interventi dei Romani, era riuscita in un momento impreciso (forse nel 303) a concludere un accordo per cui i Romani si impegnavano a non penetrare con le loro navi nel mar Ionio oltre il promontorio Lacinio (odierno Capo Colonna). Ma i Romani, come dimostravano gli stessi presidi inviati nelle città greche che li avevano richiesti, erano in un momento di rinnovata espansione. La federazione che si erano creati aveva resistito assai bene negli anni precedenti al tentativo dei Galli Senoni, con l'aiuto dei Galli Boi, di scuoterla (284 a.C.). Nonostante una iniziale vittoria dei Galli vicino ad Arezzo, solo poche città etrusche e alcuni gruppi sannitici e lucani avevano accolto il loro invito alla ribellione ed erano stati

I primi contatti politici tra Roma e il mondo greco

Taranto preoccupata per l'espansione romana

52

Manuale di storia romana

Pirro giunge in aiuto di Taranto

del resto sbaragliati al Lago Vadimone (odierno lago di Bassano) in Etruria nel 283. Tutto il territorio dei Senoni fino al fiume Rubicone presso Rimini era stato annesso allo Stato romano; e anche le città etrusche ribelli avevano dovuto cedere una parte delle loro terre. In tale momento parve naturale ai Romani di rompere l'impegno di non varcare il promontorio Lacinio mandando dieci navi da guerra davanti a Taranto. La reazione dei Tarentini fu immediata. Essi affondarono quattro delle navi e si precipitarono su Turii per cacciarne il presidio romano. Poi, consapevoli di non poter resistere da soli ai Romani, invitarono in Italia il re di Epiro, Pirro.

5.2

Gli elefanti sbaragliano le truppe romane a Eraclea

Le «vittorie» di Pirro

Pirro in Italia

I progetti che l'anima irrequieta di Pirro portava con sé sbarcando in Italia nel 280 ci sono ignoti. Non è però difficile supporli. Egli abbandonava la Grecia poco dopo che vi era avvenuto un vasto rivolgimento, per cui, dopo la morte di Lisimaco nella battaglia di Curupedio nel 281 e l'assassinio di Seleuco I, Tolomeo Cerauno era riuscito a impadronirsi del regno di Tracia e Macedonia, che appunto Pirro ambiva. Egli dunque veniva a cercare in Italia quel compenso alle disillusioni in patria, che il suo eccezionale talento militare gli permetteva di credere agevole. Per quanto la Magna Grecia non costituisse una solida base per lottare contro Roma, la sua abilità strategica riuscì per il momento a supplire, e due volte in campo aperto, a Eraclea presso Taranto nel 280 e ad Ascoli di Puglia nel 279, batté i Romani. Già dopo Eraclea gruppi di Sanniti, Bruzi e Lucani si erano schierati con lui, ma nel complesso gli alleati di Roma rimasero fedeli: e con ciò la sorte di Pirro fu anche segnata. Non potevano bastare alcune vittorie, pagate per di più a caro prezzo, a fiaccare l'eccezionale capacità di resistenza dei Romani. E Pirro era troppo avveduto per non accorgersi presto che i suoi successi erano dovuti per la massima parte ai suoi sistemi di battaglia - comuni nel mondo ellenistico, ma ignoti ancora a Roma - in cui avevano parte importante la cavalleria e gli elefanti. Era evidente che i Romani avrebbero saputo fare tesoro delle prime infelici esperienze e avrebbero evitato ulteriori sorprese. Perciò Pirro cercò ripetutamente di fare pace con i Romani per andare a tentare nuova fortuna in Sicilia e ci sarebbe anche riuscito, se i Cartaginesi, prevedendo un attacco di Pirro in Sicilia contro di loro, non avessero fatto forti pressioni sui Romani perché non cedessero. Una flotta cartaginese approdata nel 279 a Ostia venne appunto a promettere ai Romani aiuto in denaro e navi. I Romani si lasciarono persuadere e strinsero con Cartagine un nuovo trattato (per i trattati precedenti v. cap. VI).

La lotta con Pirro -l'assestamento della conquista

Pirro tuttavia non desistette dal passare in Sicilia, che dalla morte del tiranno di Siracusa Agatocle, era nel massimo disordine. Parve in un primo momento che egli riuscisse a creare un forte Stato unitario e infatti si fece proclamare re di Sicilia. Poi i dissensi ritornarono a prevalere tra i Greci, e a lui non restò che ritornare in Italia per riprendere la lotta interrotta con i Romani (275 a.c.). I quali si erano naturalmente preparati a riceverlo, come si vide nello scontro presso Malvento (dai Romani chiamata più tardi Benevento). Pirro non vinse più, anzi, sebbene non decisamente sconfitto, dovette ritirarsi. Riprendere la lotta per il momento gli parve impossibile. Non rinunciò tuttavia ancora alla sua speranza di trovare forze sufficienti per vincere Roma, ma credette ora di potersele procurare solo ritentando la conquista della Grecia e perciò riprese la via della patria. La morte che lo sorprese ad Argo nel 273, in un tentativo appunto di sottomettere il Peloponneso, privò la Magna Grecia del suo ultimo difensore. Essa restava alla mercè dei Romani, ai quali fu ora assai facile di domare le ultime resistenze. La lega sannita fu disciolta, e patti separati furono conclusi con le tribù principali dei Pentri e degli Irpini. Una colonia latina fu impiantata a Benevento, un' altra più tardi in Esernia, e altri territori furono confiscati per rendere più reciso lo spezzettamento della regione. Taranto dovette arrendersi, accettare una guarnigione romana e mettere una parte della sua flotta a disposizione di Roma (essere cioè socia navalis). Le altre città greche si allearono e rinnovarono l'alleanze tutte con Roma; e da Reggio furono cacciati via i mercenari campani che se ne erano impadroniti. I Bruzii dovettero rinnovare a peggiori condizioni l'alleanza, i Lucani perdettero il territorio dell' antica città greca di Posidonia, dove fu eretta la colonia latina Paestum; nel territorio dei Messapii fu fondata la colonia latina di Brindisi. Anche a nord avveniva un forte rimaneggiamento. Intanto nel 269 era occupato il territorio dei Piceni, di cui solo la città di Ascoli (odierna Ascoli Piceno) era riconosciuta indipendente e fatta alleata; il resto del territorio era confiscato allontanandovi gli abitanti o era ridotto alla cittadinanza senza suffragio. Nel territorio dei Piceni era fondata la colonia latina di Fermo. Ai Sabini, fino allora nella condizione di cittadini senza suffragio, erano concessi nel 268 i diritti politici. A Caere nel 265 fu confiscata metà del territorio; e, sorta una piccola guerra con l'altra città etrusca, Volsini, gli abitanti (così ci vien detto) furono costretti a sloggiare e ad andare a risiedere presso il lago di Bolsena. Ciò avveniva nel 264, l'anno in cui aveva inizio la prima guerra punica. Lo Stato romano comprendeva allora circa 25.000 Kmq. e aveva alleati in altri 100.000 circa, di cui 12.000 costituiti dalle città e dalle colonie latine. La popolazione dello Stato romano comprendeva allora circa un milione di persone, a prescindere dagli schiavi che non dove-

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La sconfitta e la morte di Pirro

L'alleanza con le città della Magna Grecia

Anche i Piceni si piegano aRoma

Manuale di storia romana

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Il nome di Italia I Greci chiamavano Italìa la parte meridionale della Magna Grecia (attuale Calabria). Quando i Romani presero sotto la loro protezione le città di Magna Grecia e poi, con la vittoria su Pirro, assunsero il controllo politico e militare fino allo Stretto di Messina, usarono il termine geografico greco per indicare l'area sulla quale si estendeva il diritto romano e l'autorità religiosa dei Romani. Ad esempio, solo in Italia vigeva la proprietà fondiaria secondo il diritto romano, non in quelle che saranno le province, e i decreti del Senato o delle altre autorità romane in materia religiosa valevano fino allo Stretto di Messina. P. CATALANO, Appunti sopra il più antico concetto giuridico di Italia, in «Atti Accademia Torino» XCVI, 1961-62, pp. 1-31

Cresce la popolazione romana

vano essere molto numerosi. Ce lo dice, opportunamente moltiplicata, la cifra dei maschi adulti computata, secondo l'uso, dal censimento del 265-4 a circa 300.000. E un elenco di forze degli alleati, che abbiamo, ci fa sapere che nel 225 a.c. misero a disposizione di Roma circa 340.000 fanti e 30.000 cavalieri. Ne consegue che l'esercito di cui Roma poteva disporre complessivamente era all'inizio della prima guerra punica di almeno mezzo milione di uomini.

5.3

I «municipi» e le «colonie»

Struttura dello Stato federale romano

Gioverà ora riepilogare gli elementi di cui la compagine dello Stato romano venne a consistere in seguito alla complicata storia, che siamo venuti riassumendo. C'erano innanzi tutto i cittadini di pieno diritto - i veri Romani distribuiti in tribù. Questi cittadini abitavano o nel territorio della città di Roma o in municipi o in colonie. Municipi erano città preesistenti al dominio romano a cui erano stati concessi pieni diritti di cittadinanza: per es. Tusculo. Colonie le città fondate con cittadini romani, che conservavano i diritti di cittadinanza: per es. Ostia. Municipi e colonie costituite da cittadini romani differivano dunque per l'origine, non per la posizione nell' interno dello Stato. Gli abitanti degli uni e delle altre avevano diritto di voto in Roma; ma si comprende che lo potessero esercitare difficilmente, data la lontananza. E appunto perché il cittadino romano che andava in colonia perdeva praticamente il diritto di intervenire negli affari in Roma (sebbene lo conservasse teoricamente). le colonie di pieno diritto furono prima delle guerre puniche poche e tutte sul mare, dove Roma aveva particolare bisogno di porre nuclei fedeli a custodia dei porti. Tanto i municipi quanto le colonie avevano

La lotta con Pirro -l'assestamento della conquista

magistrati propri solo per il disbrigo dell' ordinaria amministrazione: del resto dipendevano da Roma. Nel fondare un municipio o una colonia lo Stato romano gli dava anche uno Statuto, che doveva regolarne la vita: tali Statuti venivano approvati dai comizi. I membri delle colonie erano in tempo più antico esentati dal servizio militare, considerandosi che erano in permanente servizio, in quanto coloni. Al di sotto dei cittadini con pieno diritto, stavano i cittadini senza suffragio, con i diritti civili, ma non politici. Anch'essi costituivano dei municipi, regolati da Statuti imposti da Roma. Conservavano, con modificazioni, i loro propri magistrati; ma intervenivano pure i magistrati romani; la giurisdizione era per es. spesso riservata, non sappiamo in quale misura, al pretore di Roma e, per esso, a un prefetto. Quattro speciali prefetti erano scelti ogni anno con voto dei comizi per la giurisdizione in Campania: erano i cosÌ detti prefetti di Capua e Cuma. I socii latini conservavano, in quanto non erano stati ridotti in una delle condizioni ora ricordate, la loro posizione speciale (di diritto latino), continuavano a costituire Stati autonomi, con diritto di connubio e commercio con Roma, ma non tra di loro (almeno per qualche tempo). Potevano non solo possedere beni sul territorio romano, ma, stabilendosi in Roma, divenivano senz'altro cittadini romani. Diritto reciproco era concesso ai Romani, ma era evidentemente di assai minor valore. I Latini dovevano dare contingenti militari a Roma. Condizioni pari alle città latine avevano le colonie di diritto latino, sia quelle fondate dalla antica lega latina sia quelle fondate dai soli Romani, dopo lo scioglimento della lega, attribuendo ai coloni i diritti propri dei Latini nei riguardi di Roma. Più tardi fu limitato ai coloni latini il privilegio troppo comodo di prendere la cittadinanza romana trasferendosi in Roma. Al di sotto ancora dei socii latini stavano gli altri socii, alleati di Roma, ma non alleati tra loro, cioè legati solo dalla comune dipendenza a Roma. Le condizioni dell' alleanza erano varie secondo la causa che li aveva spinti a entrare in quel rapporto con Roma, secondo il grado di civiltà, secondo la maggiore affinità etnica con i Romani. I trattati di alleanza con i socii si sogliono dividere in due categorie: ifoedera aequa, in cui Romani e alleati hanno uguali diritti e doveri; gli altrifoedera, in cui gli alleati riconoscono esplicitamente la supremazia di Roma. La maggioranza dei trattati era di questa seconda categoria. Comunque, gli alleati erano obbligati a inviare contingenti militari all'esercito romano; qualche città era obbligata a fornire anche o invece navi da guerra. I contingenti degli alleati non erano fusi senz' altro nelle legioni, ma costituivano delle ali aggregate alle legioni e all'incirca ugualmente numerose: comandavano le ali degli ufficiali romani (prefetti dei soci). Roma concludeva i suoi accordi internazionali anche a nome dei socii.

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L'organizzazione delle «colonie»

I «socii latini»

I «foedera»

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Il diritto di monetazione

Manuale di storia romana

Il diritto di monetazione, che non esisteva per i municipi romani di pieno diritto, esisteva solo eccezionalmente per quelli senza suffragio; in teoria esisteva per i Latini e per gli altri socii (almeno sembra), ma si diffuse presto sovrana tra tutti la moneta romana, in ispecie dopo che dal 269 (ma la data è contestata) si comincia a coniare regolarmente in Roma l'argento, e si crea la nuova unità, il denario equivalente a lO assi, a quattro sesterzi e a due quinarii.

Bibliografia Sull'epoca delle conquiste romane: Cl. NICOLET, Rome et la conquéte du monde méditerranéen, Paris 1977; trad.it.: Strutture dell' Italia romana (sec. 111-1 a.c.), Roma 1984.

Su Pirro, oltre le storie generali, P. LÉVÈQUE, Pyrrhos, Parigi 1957; J. KROMAYER, Antike Schlachtfelder, III, Berlino 1912. Sulle origini del denario romano: M.H. CRAWFORD, Roman Republican Coinage, Cambridge 1971.

Le prime due guerre puniche CAPITOLO

6.1

SESTO

Roma e Cartagine

La guerra contro Pirro aveva resa più stretta la solidarietà d'interessi tra Roma e Cartagine, che sussisteva da lungo tempo. Polibio afferma che un trattato fra le due città fu concluso il primo anno della repubblica, cioè circa il 509 a.c., e per quanto Diodoro e Livio non sappiano nulla di questo accordo e pongano invece il primo trattato nel 348 a.c., non sembra che ci siano ragioni sufficienti per negare fede a Polibio. Illungo periodo di concordia fra le due città si spiega. Roma non era né una potenza navale né una potenza commerciale: non costituiva dunque una minaccia per Cartagine, né si vedeva minacciata. D'altra parte aveva interesse a tenersi amica Cartagine, perché questa con la sua flotta non impedisse i rifornimenti marittimi del Lazio. E Cartagine aveva evidentemente interesse a mantenersi aperti i mercati dell 'Italia sempre più sottoposti al controllo romano. C'erano naturalmente delle ombre in questa concordia, tra le altre l'amicizia romana per Massalia, la colonia greca di Gallia rivale di Cartagine; ma non erano sufficienti a scuotere la solidarietà degli interessi romano-cartaginesi. Perciò, mentre Roma estendeva indisturbata il suo dominio sull'Italia centrale e meridionale, Cartagine altrettanto indisturbata aveva assoggettato, oltre le tribù libiche e le città fenicie di Africa, dalla Cirenaica allo stretto di Gibilterra, anche la parte occidentale della Sicilia, la Sardegna, la Corsica, le coste della Spagna meridionale. La situazione mutò dopo la guerra di Pirro. Sebbene in Roma non ci fosse alcuna precisa intenzione di estendere la conquista alla Sicilia, tuttavia il contatto in cui si venivano a trovare il dominio romano e il dominio cartaginese insinuava una irrequietezza nuova nei rapporti tra le due potenze. Si aggiungeva che, se Roma non era potenza navale e commerciale, lo erano parecchie città greche cadute sotto la sua egemonia (per es. Napoli e Taranto), di cui si doveva tutelare, negli stessi interessi di Roma, la floridezza. Una politica anticartaginese era, pertanto, già imposta dalla semplice trasformazione della compagine dello Stato romano. Bastò una occasione - non cercata da Roma - perché

Le sfere di influenza romana e cartaginese

Roma si affaccia sul Mediterraneo

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Le diverse caratteristiche di Roma e Cartagine

I motivi della vittoria finale di Roma

Manuale di storia romana

l'ostilità latente si manifestasse e desse luogo, per uno sviluppo impreveduto e imprevedibile di fatti, a uno dei più lunghi e importanti conflitti della storia antica, paragonabile solo per importanza al conflitto tra la Grecia e la Persia, perché, come questo, significa il definitivo trionfo di una civiltà su un'altra. Stavano di fronte due organizzazioni statali analoghe in apparenza, ma di fatto differenti. L'impero di Roma era fino allora fondato sulla stretta e volenterosa cooperazione di alleati, mentre quello di Cartagine si basava sul dispotico dominio di popoli assoggettati. Tanto è vero che Roma non conosceva ancora il prelievo di un tributo nei territori a lei sottomessi, mentre il sistema del tributo era abituale nello Stato cartaginese. Roma era una potenza militare: Cartagine una potenza navale, in cui l'esercito terrestre era costituito da sudditi e mercenari, cioè da elementi poco fidi e non omogenei. L'esperienza dimostrò non solo che la leale cooperazione degli alleati nello Stato romano era - come si doveva attendere - superiore a quella forzata dei sudditi di Cartagine, ma che una potenza militare poteva trasformarsi in potenza navale ben più facilmente che non una potenza navale in terrestre. Restano, oltre queste differenze strutturali più evidenti, che spiegano il trionfo finale di Roma, altre, meno precise, eppure tuttavia reali, le quali giustificano la comune impressione che il trionfo di Roma fu anche trionfo di una civiltà superiore. Nel momento in cui si iniziarono le guerre puniche, Roma era meno raffinatamente organizzata di Cartagine; ma nella sua salda compagine c'era latente uno spirito di umanità, un senso di dignità, una coscienza rigorosa del diritto individuale, che saranno più tardi le forze morali della civiltà romana.

6.2

I Mamertini contro i Cartaginesi per il prodominio della Sicilia

La prima guerra punica (264-241)

I mercenari campani (Mamertini), che tenevano dal 289 il dominio di Messina, erano stati costretti a chiedere l'aiuto di Cartagine per salvarsi da Siracusa, che sotto il comando del tiranno lerone (un generale venuto al potere dopo l'allontanamento di Pirro) cercava di riprendere l'unificazione della Sicilia greca. Ammesso nella città un presidio cartaginese, i Mamertini pensarono di potersene liberare e di rivolgersi invece ai Romani, i quali, deliberando dopo molte esitazioni nel 264 a.c. di inviare soccorsi, iniziarono di fatto la prima guerra punica. Ierone si alleò dapprima con i Cartaginesi, ma, quando si accorse che i Romani non solo tenevano solidamente presidiata Messina, ma minacciavano Siracusa stessa, si accordò con loro e fu riconosciuto re. Con l'aiuto suo i Romani riportarono molti successi (tra cui l'occupazione di Agrigento); ma non si poteva sperare vittoria definitiva senza

Le prime due guerre puniche

una flotta, che togliesse ai Cartaginesi il dominio del mare e impedisse quindi l'arrivo dei rinforzi dall'Africa. Questa fu costruita nel 260 e perfezionata con un sistema di ponti a uncini per l'abbordaggio, che permetteva alle navi romane di afferrare quelle cartaginesi e di farvi passare rapidamente i soldati. Nello stesso 260 il console Gaio Duilio conquistava per Roma presso Mite (Milazzo) la prima grande vittoria navale: l'anno dopo, valendosi della superiorità cosÌ acquisita, i Romani mettevano piede, ma non durevolmente, in Sardegna e Corsica. Intanto la guerra si trascinava in Sicilia per la volontà dei Cartaginesi di evitare le battaglie campali. Perciò il console Marco Attilio Regolo deliberò nel 256 di riprendere il vecchio audace programma di Agatocle e portare la guerra in Africa. Apertosi la strada con la flotta nella battaglia di Ecnomo sbarcò in Africa, donde rimandò una parte delle forze in Sicilia. Il successo dapprima gli arrise; gli riuscì, come era nelle sue intenzioni, di sollevare i Libici e Numidi contro Cartagine, tanto che questa chiese la pace, salvo rifiutarla per le condizioni troppo gravose poste da Regolo. Con l'arruolamento di nuove truppe mercenarie greche, al comando dello spartano Santippo, Cartagine distrusse l'esercito di Regolo e prese prigioniero il generale stesso l . La guerra fu riportata in Sicilia, dove si prolungò ancora per quattordici anni fino al 241 a.c. I Romani non riuscirono mai a impedire che i Cartaginesi conservassero libere le comunicazioni con la Sicilia e quindi potessero sostenere i presidi cartaginesi asserragliati nella parte occidentale, a Trapani e a Lilibeo. Solo dopo che il console Gaio Lutazio nel 242 distrusse grande parte dei rinforzi che in un supremo sforzo i Cartaginesi avevano inviato, questi si decisero alla pace. I Cartaginesi dovettero abbandonare la Sicilia e le isole minori e obbligarsi a pagare ratealmente 3200 talenti, cioè circa 20 milioni di lire oro2 • La fine della guerra provocò una rivolta dei mercenari cartaginesi, che mise in pericolo la stessa Cartagine e non fu domata se non con estrema difficoltà. Cartagine perdette, in conseguenza della rivolta, il controllo sulla Sardegna e sulla Corsica e, quando si accinse a ricuperarle, i Romani la prevennero e, dopo aver dichiarato nuovamente guerra, la costrinsero a cedere loro le isole e per di più pagare altri 1200 talenti (238 a.c.).

l

È noto che secondo Livio e altre fonti di minore importanza Attilio Regolo sarebbe stato inviato a Roma per consigliare la pace ai Romani. Egli avrebbe consigliato il contrario e, tornato a Cartagine, sarebbe stato ucciso fra i tormenti. La tradizione - ignota a Polibio e a Diodoro - è ritenuta leggendaria da molti critici. Si tratta di 3200 talenti euboici d'argento, del peso di Kg 26 ciascuno, equivalenti a quasi 27 milioni di euro nel 20 I O. All' epoca lo standard monetale di questo tipo era il più diffuso nel Mediterraneo [N.d.C.].

59

I Romani costruiscono una flotta e inventano i «corvi»

Attilio Regolo porta la guerra in Africa

I Cartaginesi costretti ad abbandonare la Sicilia

60

Manuale di storia romana

6.3

Problemi nel dopoguerra

Le due prime «province» di Sicilia e Sardegna

L'imperialismo romano

Le conseguenze della guerra

Roma uscì quindi dalla guerra con un incremento territoriale di incalcolabile valore; ma era stremata dopo la quasi trentennale contesa. La popolazione era diminuita. I piccoli proprietari di campagna superstiti, costretti per tanti anni ad abbandonare i loro poderi per combattere, erano rovinati. Nonostante la vittoria, il dopo-guerra romano fu quindi inquieto, e ne fu un segno la rivolta di F alerii domata in pochi giorni con la distruzione della città e il trasporto dei cittadini in posizione meno forte. Va probabilmente anche messo in relazione con la diminuzione della popolazione l'ordinamento dei Sabini e dei Picenti nelle due tribù Velina e Quirina, che furono le ultime delle trentacinque tribù territoriali create dai Romani. I territori più tardi dotati della cittadinanza romana furono tutti aggregati alle tribù già preesistenti. Ma la depressione fu presto superata, e rimase ai Romani il compito di sfruttare adeguatamente i nuovi acquisti, in specie la Sicilia. Fino allora i Romani non avevano conosciuto vere forme di dominio, ma solo di predominio. Ora si trovarono di fronte a territori, che erano abituati a pagare tributi in decime di prodotti a Cartagine. Essi, mutando la politica fino allora seguita, conservarono tali forme di sudditanza, eccetto per pochi popoli della Sicilia, che avevano riconosciuto alleati 3 . Il peso del tributo era del resto comparativamente lieve e compensato dalla pace che Roma assicurava. Furono insomma costituite le due prime province di Sicilia e di Sardegna, alla testa di ciascuna delle quali stava un pretore, che vi aveva potere assoluto militare e civile, durante l'anno del suo governo, senza nessuno di quei limiti a cui era sottoposta l'autorità dei magistrati in Roma. I provinciali potevano ricorrere a Roma contro l'operato del pretore solo dopo che era finito il suo anno di carica. La principale conseguenza della prima guerra punica fu perciò di dare un nuovo indirizzo alla politica romana: indirizzo imperialistico. Ma tre altre conseguenze vanno notate: essa cementò nella lotta contro Cartagine l'unione delle città italiche; mise in intimo contatto i Romani, in Sicilia, con la civiltà greca; diede infine un prestigio nuovo al Senato che, per la lontananza quasi abituale dei consoli, dovette assumere la intera direzione della politica romana.

3

Restava naturalmente escluso dal dominio romano il regno di Ierone.

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Le prime due guerre puniche

6.4

La tregua tra Roma e Cartagine. Le guerre con i Galli e gli Illiri

La vittoria su Cartagine aveva dunque dato ai Romani una consapevolezza nuova delle loro forze e delle loro possibilità. Il che non significa però che essi si avventurassero da allora facilmente in nuove imprese. Li tratteneva innanzi tutto lo scrupolo di intraprendere guerre, che non apparissero giustificate, poi il timore di coinvolgere lo Stato in responsabilità eccessive. Ciò sarà evidente soprattutto nella politica verso la Macedonia e la Grecia e gli Stati ellenistici, in cui Roma esitò sempre a impegnarsi a fondo. Ma se i Romani continuarono ad essere lenti nelle decisioni, anzi furono lenti più di prima, per quel che concerne la politica con l'Oriente greco, furono estremamente energici nel trarre dalle loro vittorie i vantaggi possibili: nel che sta appunto il segno che essi erano consapevoli della loro supremazia. Due furono le questioni che dovettero essere affrontate poco dopo la fine della prima punica: le agitazioni dei Galli dell 'Italia settentrionale e la pirateria degli Illiri. I Galli, rimasti pacifici durante tutta la guerra di Roma contro Cartagine, rafforzati da loro connazionali d'Oltr'Alpe arruolati come mercenari, si misero in moto nel 225 verso Roma. Si dice che essi fossero stati offesi dalla distribuzione al popolo ordinata dal Governo romano del cosÌ detto ager gallicus cioè di una larga estensione di terreno già appartenuta ai Galli al sud del Rubicone; ma la spiegazione non ha valore, perché la divisione dell' ager gallicus avvenne nel 233, otto anni prima che i Galli decidessero di muoversi. Comunque, essi furono battuti in una grande battaglia nelle vicinanze di Telamone in Etruria, dopo cui i Romani iniziarono la sottomissione dell 'Italia settentrionale. Nel 222 il console M. Claudio Marcello sconfiggeva a Clastidio (Casteggio, in provincia di Pavia) la principale tribù gallica, quella degli Insubri, e in tal modo assicurava a Roma il dominio su press'a poco tutta l'Italia settentrionale. L'anno dopo erano assoggettati anche gli Istriani. Due colonie, a Cremona e a Piacenza, rafforzarono in seguito l'occupazione militare del territorio, senza peraltro, come vedremo, poter impedire che l'ostilità contro Roma riardesse nella seconda guerra punica. In quegli stessi anni Roma affrontava il problema illirico. La necessità di dover combattere in due campi, senza nello stesso tempo perdere d'occhio Cartagine, spiega la lentezza romana in questa impresa. Gli alleati italici che avevano interessi commerciali nel mare Adriatico superiori a quelli romani richiedevano che Roma facesse cessare la pirateria degli Illiri, allora costituiti in regno sotto la regina Teuta. I Romani intervennero solo dopo che un loro ambasciatore invitato a Teuta

Si consolida la supremazia di Roma

L'agitazione dei Galli

La fondazione delle nuove colonie di Piacenza e Cremona

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Manuale di storia romana

La pirateria degli Illiri

I «giochi istmici»: il primo contatto ufficiale con la Grecia

Demetrio di Faro

fu assassinato in modo da far sospettare che il governo illirico fosse responsabile. Nel 229 passarono l'Adriatico con 200 navi, e nel 228 Teuta dovette chiedere la pace. Gli Illiri divennero tributari di Roma e si dovettero impegnare a non navigare con più di due navi insieme a sud di Lissio (Alessio). Le città greche allora sottomesse alla supremazia illirica - da quando più nessuno grande Stato greco, come quello di Dionisio di Siracusa, le difendeva - ebbero dai Romani libertà a condizioni varie, ma tutte abbastanza favorevoli: cosÌ Issa (Lissa), Dirrachio (Durazzo), Apollonia e Corcira (Corfù). Un avventuriero, Demetrio di Faro, che era passato al momento opportuno ai Romani ottenne un piccolo regno di estensione non bene determinata. Alcune tribù, infine, furono distaccate dallo Stato illirico. Il predominio in Illiria portava con sé l'ostilità della Macedonia, che per tradizione secolare considerava quella regione come sottomessa alla sua influenza. I Romani ne ebbero qualche coscienza perché, subito dopo la vittoria, inviarono ambasciatori agli Achei, agli Etoli, ai Corinzi e agli Ateniesi, cioè appunto ai Greci nemici della Macedonia, per fare conoscere i risultati della loro impresa, vantaggiosi anche ai Greci, in quanto li liberavano dalla pirateria illirica. Le accoglienze furono infatti assai favorevoli, tanto che i Romani furono ammessi ai giochi istmici, il che implicava una specie di riconoscimento della loro affinità etnica con i Greci. Ma più in là non si andò né da parte dei Greci né da parte dei Romani; sicché questo che fu (a parte qualche ambasciata romana precedente di non sicura storicità) il primo contatto ufficiale tra Roma e la Grecia non ebbe per allora risultati tangibili. Roma, impegnata nelle guerre contro i Galli, non poteva pensare a impedire che Antigono Dosone re di Macedonia, battendo a Sellasia nel 222 gli Spartani, costituisse una grande federazione greca intorno a sé. Alla Macedonia i Romani tornarono a pensare indirettamente solo nel 220, quando Demetrio di Faro, che intanto aveva assai ingrandito il suo Stato, ruppe l'amicizia con loro e si gettò verso la Macedonia. Nel 219 una flotta romana avanzò contro Faro e costrinse in breve Demetrio alla fuga: Faro divenne città libera. Nemmeno questa volta i Romani procedettero a fondo, sebbene non potesse essere loro ignoto che si erano irrimediabilmente inimicata la Macedonia e più precisamente il re Filippo V, successo ad Antigono Dosone. Ma stava ormai per iniziarsi una nuova guerra con Cartagine.

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Le prime due guerre puniche

6.5

La conquista cartaginese della Spagna

A Cartagine non si era tardato a decidere una espansione militare ed economica, che valesse a compensare della perdita della Sicilia e assicurasse nuovi sbocchi alla intraprendenza punica. Due tendenze - a quanto pare - vi si manifestarono nella scelta degli obiettivi: una capeggiata da Annone, che preferiva l'estensione del dominio in Africa e perciò era favorevole al capitalismo agrario; l'altra, diretta da Amilcare Barca, che indicava la Spagna come il territorio da sfruttare e si preoccupava quindi piuttosto dei commerci cartaginesi. Vinse Amilcare Barca, che ebbe poteri quasi sovrani per la conquista della Spagna. In Spagna, come sappiamo, i Cartaginesi avevano da secoli domini costieri di non certa estensione. È verosimile che essi fossero diminuiti durante la prima guerra punica, sicché Amilcare dovette pensare innanzi tutto a ricuperare il perduto. Ma presto la sua attività si svolse verso il pieno controllo dei bacini minerari - di rame e argento, in ispecie - e verso la sottomissione delle tribù indigene. Dopo la sua morte (229 a.c.), la sua opera fu continuata dal genero Asdrubale. I Romani per parecchi anni non intervennero, distratti da altre più urgenti questioni. Poi, nel 226, in un momento in cui premeva loro di assicurarsi che i Galli dell 'Italia settentrionale non sarebbero stati aiutati dai Cartaginesi, strinsero con Asdrubale un accordo, il così detto trattato dell' Ebro. Del suo contenuto non siamo bene informati. Sembra tuttavia che esso riconoscesse soltanto ai Cartaginesi il diritto di conquistare la Spagna a sud dell 'Ebro: cioè nello stesso tempo legittimasse e limitasse l'espansione cartaginese. Resta soprattutto incerto se i Romani avessero diritto di conservare alleati a sud di quel fiume e se questi alleati, in quanto tali, dovessero essere rispettati dai Cartaginesi. Certo, intorno alla interpretazione di questo diritto, sorse la contesa che portò alla guerra. Nel 221, ad Asdrubale ucciso, era succeduto nel comando Annibale, il figlio di Amilcare Barca, a cui il padre aveva fatto giurare odio eterno a Roma. La sua azione prese un carattere nettamente ostile ai Romani, come se la conquista della Spagna non dovesse solo ricompensare Cartagine della perdita della Sicilia, ma dovesse servire di base per una nuova guerra contro Roma. In conseguenza egli attaccò la città di Sagunto alleata dei Romani. Questi intimarono ad Annibale di abbandonare l'assedio. Se ne avessero o meno il diritto è discutibile; ma Annibale sapeva che perseverando nell'assedio avrebbe provocato la guerra con i Romani e perciò lo continuò fino alla presa della città. Da Roma si chiese a Cartagine la consegna di Annibale e dei suoi consiglieri: il rifiuto significò l'apertura delle ostilità.

La famiglia «Barca» alla guida di Cartagine

Cartagine conquista la Spagna

Amilcare Barca attacca Sagunto

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Manuale di storia romana

Flg.6.1 I territori di Roma e di Cartagine prima delle guerre puniche, l'itinerario di Annibale durante la seconda guerra punica e i luoghi dei più importanti scontri tra le due città navali

OCEAN(J

D

Territori di Roma

_

Territori di Cartagine

~ ~

Itinerario di Annibale durante la seconda guerra punica

6.6

Le tattiche innovative di Annibale

La seconda guerra punica: le forze in contrasto

Annibale si era avviato alla guerra con un programma preciso. Egli poteva contare su quella sua genialità di generale, che poi ebbe piena conferma durante tutta la guerra, e sul fascino che la sua indomita personalità sapeva esercitare sui soldati. La tattica da lui adoperata in tutte le battaglie combattute in Italia darà infatti la misura della sua superiorità militare: egli, servendosi del sistema ellenistico di combinare opportunamente nella battaglia la cavalleria e la fanteria, lo perfezionerà fino a renderlo capace di aggirare i nemici e cosÌ di distruggerli. Aggiramento e conseguente annichilimento degli avversari saranno i principi fondamentali della sua arte della guerra. Ma, evidentemente, egli attribuiva valore, più ancora che a questo sistema militare, alla novità del suo piano politico: portare la guerra in Italia e provocare con la sua presenza la dissoluzione della federazione stretta intorno a Roma. In questo audacissimo piano sta la grandezza, ma anche il limite della grandezza di Annibale. Perché egli, abituato al sistema cartaginese della oppressione dei sudditi, non si accorse né allora né parecchi anni poi

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Le prime due guerre puniche

che la federazione italica aveva per la sua struttura una solidità tutta particolare. La fedeltà a Roma era ormai radicata nelle convinzioni e negli interessi della maggioranza, e infatti, anche nei momenti peggiori, non venne meno. Annibale perciò, arrivato in Italia, ebbe dapprima quel vantaggio che gli veniva dalla sorpresa e più dalla sua superiorità di stratega, che non trovò a lungo rivale nei Romani. Ma quando i Romani impararono a evitare le sconfitte in campo aperto, la loro forza di resistenza, la possibilità di sostituire con forze fresche quelle esauste, mentre Annibale aveva una limitata capacità di rinnovo delle proprie truppe, infine il dominio del mare (che essi seppero mantenere) assicurarono loro la vittoria finale. Roma trionfò su Annibale perché seppe contrapporre alla sua superiorità di generale la superiorità del proprio ordinamento politico.

6.7

Lo svolgimento della guerra fino dopo Canne

I Romani credettero dapprima di poter fare una guerra offensiva e quindi allestirono due eserciti, uno destinato a invadere la Spagna, l'altro a sbarcare in Africa. La notizia che Annibale, sorpassati i Pirenei, marciava rapidamente verso l'Itali(j. li costrinse a ridurre il primo piano e a sospendere il secondo. Il console Publio Cornelio Scipione, che si trovava già in Gallia alle foci del Rodano con un esercito in marcia per la Spagna, dovette ritornare indietro, ma inviò suo fratello Gneo in Spagna con un corpo di spedizione, che diede in seguito sviluppi impreveduti alla guerra. L'altro console Tiberio Sempronio non ebbe che da ripassare dalla Sicilia in Italia. Le due colonie latine di Piacenza e Cremona, già predisposte in precedenza, furono allora fondate e si dimostrarono poi i più saldi baluardi romani. Cornelio Scipione, per quanto lanciatosi all'inseguimento di Annibale, non poté impedirgli di traversare le Alpi 4 e di giungere sino al Ticino. Qui avvenne un primo scontro con i Cartaginesi, limitato alla cavalleria e alle truppe leggere, che si risolse in una sconfitta per i Romani. Dopo la quale, il moto di ribellione tra i Galli Insubri e Boi, che già era in atto dall'arrivo di Annibale, prese, come era da attendersi, nuovo slancio. Scipione si ritirò sulla destra della Trebbia, dove attese di collegarsi con Sempronio. Effettuato il collegamento, che portava a quattro le legioni presenti, i Romani passarono il fiume e sulla sinistra di esso attaccarono i Cartaginesi. La rotta romana fu questa volta piena. Solo la vicinanza di Piacenza poté salvare i resti delle legioni.

4

La capacità di resistenza dei Romani

È altrettanto famoso quanto ozioso il problema del valico per cui Annibale giunse in Italia: l'ipotesi più probabile è forse il Monginevro, ma sono state difese bene anche le ipotesi che preferiscono il Piccolo San Bernardo e il Moncenisio.

Gli elefanti di Annibale varcano le Alpi

Le sconfitte al Ticino, alla Trebbia e al Trasimeno

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Manuale di storia romana

Il dittatore Fabio Massimo, «il temporeggiatore»

La disfatta di Canne

I Romani salvati dagli alleati

L'anno dopo, in seguito all'avanzata di Annibale nell'Italia centrale, la difesa romana, distribuita fra i consoli Servilio Gemino e Gaio Flaminio, si preoccupò specialmente di tagliare ad Annibale la strada di Roma. Ma Annibale, deviando, seppe trascinare uno dei due eserciti consolari, quello di Flaminio, nella odierna Umbria presso il lago Trasimeno e distruggerlo: lo stesso console cadde sul campo. La sconfitta fu completata dalla distruzione della cavalleria che Servilio aveva inviato in rinforzo del collega. Mentre tutta l'Italia centrale - eccetto le piazze forti (tra cui Roma stessa) - restava aperta al saccheggio cartaginese, in Roma si nominava dittatore Fabio Massimo, che la tattica di prudenza fece chiamare «temporeggiatore» (cunctator). Ma già nello stesso 217 e poi nel 216, con la elezione dei due consoli Emilio Paolo e Terenzio Varrone, riprese vigore il programma offensivo. In Puglia, presso Canne, probabilmente sulla sinistra dell'Ofanto, otto (?) legioni romane furono aggirate e attanagliate dai Cartaginesi con una manovra che divenne classica - e praticamente annichilite: uno dei consoli, Emilio Paolo, restò sul campo. Poco dopo nell 'Italia settentrionale altre due legioni erano distrutte dai Galli, sicché tutta la regione - salvo le due colonie di Cremona e Piacenza - andò perduta. Nemmeno questo duplice enorme disastro spezzò la fedeltà della maggioranza degli alleati a Roma. Tutta l'Italia centrale rimase unita intorno all'egemone. Si ribellò invece gran parte dell'Italia meridionale, non però senza contrasti. La prima ribelle fu Arpi in Puglia; la seguirono la maggioranza dei Sanniti. I Bruzi e i Lucani, finché si diede ad Annibale Capua: e fu naturalmente quest'ultimo il maggiore trionfo dei Cartaginesi. Nel 215 dovettero poi aprire le porte anche Cosenza, Locri, Caulonia e Crotone. Rimasero ai Romani, tra le altre, Napoli e Nola, le colonie di Benevento, Venosa, Luceria e altre minori. La fedeltà della maggioranza degli alleati salvò Roma. Alla quale l'esperienza insegnava che l'unica possibilità di vincere Annibale era di riprendere la strategia del logoramento già iniziata nel 217 da Fabio Massimo, che ora divenne infatti il più influente consigliere militare del Senato. Il programma fu di evitare battaglie in campo aperto e costringere Annibale ad abbandonare la lotta per la lenta riduzione degli effettivi militari e delle vettovaglie. Il programma presupponeva che egli non potesse essere efficacemente soccorso né da Cartagine né dalla Spagna. E il presupposto era, in limiti ragionevoli, legittimo, perché i Romani da un lato mantenevano pieno il dominio del mare, sicché i soccorsi cartaginesi non potevano essere che irregolari, dall' altra per opera di Gneo Scipione (a cui fu aggiunto più tardi il fratello Publio) tenevano impegnate le forze puniche in Spagna e anzi nel 215 avevano inflitto loro una dura sconfitta sulle sponde dell 'Ebro.

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Le prime due guerre puniche

6.8

La fase decisiva della lotta

La vittoria finale, che i Romani riuscirono a ottenere, dimostra che i loro piani erano ben fondati e specialmente che la loro fiducia nella perseveranza delle popolazioni italiche era esatta. Ma una serie di vicende diverse valse a prolungare più del credibile la guerra. Innanzitutto in Sicilia, dopo la morte di lerone nel 215, il nipote Jeronimo, suo erede, passò ad Annibale. Per quanto egli fosse l'anno dopo assassinato e per il momento riprendesse la prevalenza un partito favorevole a Roma, infine Siracusa restò in mano del partito contrario. Claudio Marcello, il vincitore di Clastidio, che era stato inviato a domare la ribellione, dovette porre l'assedio a Siracusa. Ma la sua posizione si fece difficile quando i Cartaginesi comparsi con una flotta occuparono Agrigento e fecero sollevare altre città contro Roma, mentre sorreggevano Siracusa assediata. Tuttavia, approfittando delle discordie interne, il comandante romano riuscì ad occupare la città nel 212. È noto che nel saccheggio, da cui fu portato a Roma un larghissimo bottino, fu ucciso lo scienziato Archimede, che aveva cooperato alla difesa della città. Siracusa e il suo territorio furono incorporati nella provincia romana, e due anni dopo - nel 210 - per il tradimento di un generale libico al servizio di Cartagine, Muttine, ritornava ai Romani anche Agrigento, sicché le altre città ribelli dovevano cessare dalla resistenza e sottomettersi. In quegli stessi anni i Romani tornavano a essere impegnati in Illiria. Filippo di Macedonia aveva colto l'occasione per tentare di strappare loro la regione, dopo essersi assicurata la pace in Grecia col trattato di Naupatto del 217 a.c. Egli dopo Canne stringeva un'alleanza con Annibale, in cui si prevedeva appunto la cessione del possedimento romano in Illiria alla Macedonia. Quest'alleanza avrebbe potuto avere conseguenze gravissime per Roma, se Filippo V si fosse deciso ad aiutare Annibale in Italia; ma egli non lo fece, e i Romani, passato il periodo di maggiore depressione, trovarono il modo di impedirgli per parecchi anni di intervenire anche solo in Illiria suscitandogli una guerra in Grecia in cui ebbero alleati gli Etoli e alcune città greche minori. Infine i Romani, che erano stati favoriti dalla rivolta del numida Siface, per cui i Cartaginesi erano stati costretti a trasferire in Africa una parte delle truppe dislocate in Spagna, si trovarono qui in grave difficoltà dopo che quelle truppe, domata la ribellione, ritornarono. Tanto Publio quanto Gneo Scipione furono uccisi nei combattimenti del 211, e una parte delle loro conquiste andò perduta. Eppure anche in Spagna i Romani riuscirono a sormontare le difficoltà e trovarono nel giovane figlio di Publio Scipione - chiamato come il padre (Publio Cornelio Scipione) - non solo un degno continuatore dell' opera familiare, ma il primo grande generale che le guerre puniche mettessero in evidenza.

L'assedio di Siracusa e la morte di Archimede

La Macedonia si allea con Annibale

Publio Cornelio Scipione guida la riscossa romana in Spagna

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Manuale di storia romana

Rinforzi dalla Spagna per Annibale

Asdrubale sconfitto e ucciso al Metauro

Sarà questo il futuro vincitore di Annibale, che fin d'allora portava nella sua eccezionale cultura greca, nella aristocratica finezza del suo spirito, nella fede mistica nel suo compito, qualcosa di nuovo non solo come generale, ma come uomo. La sua nomina aveva valore eccezionale oltre che per la personalità che metteva in evidenza, anche per il modo con cui avveniva: Scipione infatti, essendo stato solo edile, non avrebbe avuto alcun diritto di comandare un esercito, fu, cioè, in Spagna un privato con comando militare (privatus cum imperio). Il che in parte dipendeva dalla fiducia che si aveva in lui, in parte dalla necessità sempre più grande di opporre ai Cartaginesi, guidati da generali che tenevano il comando per lunghi anni, generali altrettanto indipendenti dalla rotazione annuale delle cariche. Scipione fu dunque il primo Romano, che fosse generale senza essere magistrato. Egli già nel 209 riusciva ad occupare di sorpresa il principale arsenale militare della Spagna cartaginese, Cartagine nuova (odierna Cartagena). E negli anni seguenti si adoperò con geniale tenacia, valendosi delle sue truppe sceltissime, a creare un sistema tattico, che potesse permettere di vincere anche in battaglia aperta Annibale: ciò che gli riuscirà, come confermerà la campagna in Africa. Tutte queste vicende spiegano come la guerra in Italia dovesse procedere con maggiore lentezza di quanto pretendesse la stessa strategia del logoramento; ma spiegano pure come, per la prevalenza dei Romani in tutti i campi fuori d'Italia, il cerchio intorno ad Annibale si venisse stringendo. Arpi era ripresa nel 213, e se nel 212 cadeva in mano dei Cartaginesi Taranto, nel 211 era rioccupata Capua, né valeva che Annibale per liberarla, durante l'assedio, facesse una improvvisa apparizione davanti a Roma, così impressionante come in definitiva senza conseguenze. I Capuani erano puniti in modo esemplare: privati di ogni autonomia, mentre ogni loro bene era confiscato, sicché di quanto loro fu concesso l'uso, dovettero pagare affitto. Nel 209 era ripresa anche Taranto. Annibale si vide costretto a far venire in Italia dalla Spagna il fratello Asdrubale col suo esercito (208 a.C.). Questi riuscì, benché sconfitto poco prima da Scipione presso Becula (non lontano da Cordova), a passare in Gallia e poi, attraverso le Alpi, in Italia. Il console Livio Salinatore poté però impedirgli di congiungersi al fratello sconfiggendolo e uccidendolo sul Metauro presso Sena Gallica. Questa vittoria decise infine la guerra così in Spagna come in Italia. Più rapidamente in Spagna, dove Scipione aveva ormai agio di sconfiggere presso Ilipe (sempre nella regione di Cordova) i Cartaginesi e occupare a poco a poco tutta la Spagna, finché un altro fratello di Annibale, Magone, per portare aiuto in Italia, abbandonò l'ultima città, Cadice. Ma nemmeno l'arrivo di Magone nell'Italia settentrionale nel 205, benché desse nuovo vigore all'ostilità dei Galli, poté modificare la situazione. E nemmeno po-

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Le prime due guerre puniche

té nuocere durevolmente ai Romani che l'anno prima (206 a.c.) gli Etoli concludessero la pace separata con Filippo di Macedonia e gli dessero quindi agio di riportare la guerra in Illiria: perché nello stesso 205 essi riuscivano a concludere la pace di Fenice (in Epiro) con Filippo, per cui arrivavano a conservare i possessi più importanti in Illiria, cioè le città greche, solo facendo concessioni minori al sovrano macedone.

6.9

La vittoria finale di Scipione

I Romani poterono quindi pensare allo sforzo decisivo, cioè a portare la guerra in Africa. Due ragioni ovvie suggerivano il piano: che solo in tal modo si sarebbe costretto Annibale a lasciare l'Italia e che si sarebbe colpita direttamente Cartagine, rimasta fino allora quasi non toccata dalla guerra combattuta in terra nemica con mezzi prevalentemente offerti da quella terra e dalla Spagna. Scipione fu scelto nel 204 a comandare la spedizione in Africa (donde ebbe poi l'epiteto di Africano); fu nuovo riconoscimento non solo del suo valore personale, ma anche della necessità di contrapporre ad Annibale, non dei comuni consoli, ma una individualità che valesse quella del nemico. E Scipione fu pari all'attesa. Negli anni di Spagna aveva elaborato una tattica nuova. Invece di far servire la seconda e la terza fila dei manipoli (i principi e i triari) a semplice rincalzo della prima fila (gli astati) li distaccò da quella in modo che avessero maggiore autonomia, sia per attaccare i fianchi dell' avversario, sia anche come riserva. Così alla tattica di accerchiamento di Annibale contrapponeva un'altra tattica analoga, ma più perfetta, che sarà da allora tipica delle legioni romane. Perciò Scipione, se incontrò in Africa forti difficoltà per il suo isolamento, fu invitto in campo aperto e anzi batté i Cartaginesi in una grande battaglia ai Campi Magni. Fu conseguenza di questa battaglia che il principe numida Massinissa - rivale di Siface allora riconciliatosi con i Cartaginesi - strappasse a Siface il suo regno e ne facesse un alleato di Roma. I Cartaginesi chiesero e ottennero pace, le cui condizioni provvisorie furono il ritiro di Annibale e Magone dall 'Italia e la rinunzia alla Spagna. Si spiega per altro che i Cartaginesi, richiamato Annibale e ritrovatolo quindi accanto a loro con l'esercito invitto e il prestigio non scosso, pensassero di poter tentare la sorte di una ulteriore lotta piuttosto che cedere la Spagna e riaprissero le ostilità. Lo scontro fra le truppe di Annibale e di Scipione avvenne in posizione incerta, non lontano da un luogo detto Zama (202 a.c.). La vittoria fu dei Romani. Con la vittoria venne la pace, durissima. Rinuncia non solo alla Spagna, ma ai domini extra-punici in Africa, per cui Massinissa fu costituito in regno autonomo: dieci-

Scipione attacca direttamente Cartagine

La battaglia ai «Campi Magni»

Annibale sconfitto aZama

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Roma impone un duro trattato di pace

Manuale di storia romana

mila talenti di indennità, la consegna di tutta la flotta, eccetto dieci triremi, divieto di fare guerra fuori dell'Africa e di farla nell'Africa senza il consenso di Roma (201 a.C.). Era la pace più dura che i Romani avessero mai imposto, tale da rendere praticamente la vita impossibile a un grande Stato commerciale come il cartaginese, ma non poteva essere attesa diversamente da un popolo che per vent' anni aveva lottato con disperata energia, mettendo in campo fino a venticinque legioni, facendo senza sosta i più gravi sacrifici di uomini e di denari, vedendosi ripetutamente saccheggiata quasi ogni parte del suo territorio. Comunque, la vittoria dava incontrastato dominio all'Italia sul Mediterraneo occidentale, la portava naturalmente a sostituire Cartagine anche come Stato commerciale e faceva sorgere - maggiore incognitail problema dei rapporti tra Roma e i grandi Stati ellenistici.

Bibliografia Sui trattati fra Roma e Cartagine vedi p. 50. Per le due guerre puniche, delle opere generali: DE SANCTIS, PAIS (Storia di Roma durante le guerre puniche), Cambridge Ancient History VII-VIII. Inoltre S. GSELL, Histoire ancienne de l'Afrique du Nord, I-IV, Parigi 1913-20; U. KAHRSTEDT, Geschichte der Karthager, III, Berlino 1913 (volume III della storia iniziata dal Melzer); H.H. SCULLARD, Scipio Africanus in the Secund Punic War, Cambridge 1930; R. M. HAYWOOD, Studies on Scipio Africanus, Baltimore 1933; L. LORETO, La grande strategia di Roma nell' età della prima guerra punica (ca. 273 - ca. 229 a.c.), Napoli 2007; G. MARAsco,

Economia, commerci e politica nel Mediterraneo fra il III e il II secolo a.c.. Firenze 1988; G.Ch. PICARD e C. PICARD, Vie et mort de Carthage, Parigi rist. 1970 (in inglese: Life and Death of Carthage, New York 1968); S. MOSCATI. Cartaginesi, Milano 1982; Dizionario della civiltà fenicia, a cura di M.G. Amadasi Guzzo, C. Bonnet, S.M. Cecchini, P. Xella, Roma 1992; W. Huss. Karthago, Monaco 1995. G. BRIZZI, Scipione e Annibale, la guerra per salvare Roma, Roma-Bari 2007. Bibliografia sulla provincia di Sicilia a p. 253.

Il predominio in Oriente e la espansione in Occidente CAPITOLO

7.1

SETTIMO

I nuovi problemi della pOlitica estera romana

Una grande vittoria, come quella su Annibale, non poteva non agire decisamente sulla struttura militare, politica, sociale, economica dello Stato vincitore (cfr. il cap. VIII). Ma queste furono conseguenze più lontane. Immediato era il problema di organizzare una nuova politica estera, che sfruttasse e difendesse la vittoria. Il ricupero dell'Italia settentrionale - perduta dal 216 - e il soggiogamento di tutta la Spagna parevano i più ovvii compiti; e infatti Roma attese a entrambi. Ma non costituirono gli obiettivi principali della politica romana dopo la seconda punica, che fu rivolta invece ad assicurarsi il predominio nell'Oriente ellenico ed ellenistico e fu inoltre preoccupata nel rifiorire di Cartagine più di quanto le limitate possibilità della rivale paressero rendere necessario. Tutto ciò costituisce uno dei più interessanti problemi della storia romana. In sostanza si assiste a un improvviso superamento dei limiti di una politica, anche imperialistica, ma circoscritta in una determinata sfera: si afferma invece una politica di supremazia assoluta, su tutto il mondo civile. Roma, quasi d'un tratto, non tollera più che esistano accanto a lei Stati capaci di agire autonomi: si prepara cioè alla unificazione del mondo civile. S'intende che questa nuova tendenza - che diede origine alla universalità della potenza romana, cosÌ come la tendenza nata alla fine della prima guerra punica aveva dato origine all'imperialismo - non sorse nei Romani con quella precisa consapevolezza con cui noi ora la enunciamo. Essa si manifestò piuttosto come desiderio di prevenire ogni possibile minaccia degli Stati ellenistici contro Roma: una preoccupazione suggerita dai recenti attacchi di Filippo di Macedonia e accentuata dalla scarsa conoscenza che in Roma si aveva delle forze reali di quegli Stati. Perciò la politica romana fu volta in un primo tempo solo a indebolire gli Stati ellenistici, per renderli innocui. Aiutò contro gli Stati più forti - Macedonia e Siria - gli Stati più deboli (Egitto), o minori (Pergamo, Rodi); distaccò la Grecia dalla Macedonia e nella Grecia contrappose Stato a Stato; infine estese alla Grecia la politica adottata

Una nuova politica estera

L' «universalità» della potenza romana

Manuale di storia romana

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La volontà di supremazia economica e culturale

Marco Porcio Catone

in Italia di proteggere le classi possidenti contro il proletariato, che voleva rivoluzioni economiche, e si fece perciò desiderare dovunque l'ordine costituito sembrasse minacciato. Intervenivano a suggerire questa politica anche due nuovi fattori (cfr. cap. VIII): uno di carattere culturale, l'altro economico. Poiché, dalla conquista della Sicilia in poi, la cultura greca era penetrata sempre più fortemente in Roma, c'era chi desiderava di imporre il prestigio di Roma su queste terre civilissime, quasi in tal modo la cultura greca potesse diventare più direttamente patrimonio romano e, d'altra parte, l'autorità di Roma diventasse maggiore perché rispettata dai Greci. In secondo luogo, la supremazia economica, che le guerre puniche diedero ai Romani, li spingeva a imporre il nome di Roma dovunque potesse essere vantaggioso per i traffici. Un simile rivolgimento nella politica non poteva avvenire senza contrasti interni in Roma. Non è facile giudicare tali contrasti, perché spesso essi rivelano, più che diversità di programmi, rivalità di uomini. Ma uno almeno è di significato non equivoco. Alla famiglia di Scipione Africano -la quale rappresentava la tendenza a una egemonia sostenuta da un forte filellenismo e da un correlativo assorbimento di cultura greca, sino a trasformare le vecchie abitudini romane - si oppose Marco Porcia Catone, un rude e aggressivo contadino di Tuscolo, che voleva come gli avversari la espansione di Roma, senza però che essa implicasse una accettazione di costumi stranieri e senza che per amore dei Greci si rinunciasse al benché minimo profitto di Roma. Tendenza l'una a rinnovare, insieme con la politica estera, anche la vita spirituale di Roma; tendenza l'altra a conservare, pur nella espansione politica, le tradizioni di semplicità, onestà, rozzezza, che avevano creato i legionari vincitori di Annibale. Tuttavia, come si vede, questa diversità di tendenze poteva provocare forti conflitti nella classe dominante (e costrinse infatti Scipione al ritiro dalla vita pubblica, nel 184 a.c., dopo che un clamoroso processo contro il fratello mise in causa lui stesso), non implicava modificazioni nelle linee essenziali della politica romana.

7.2

Debolezza del regno d'Egitto

La guerra contro Filippo di Macedonia (200-196 a.C.)

Circa il 204 a.c. moriva Tolomeo IV Filopatore, re di Egitto: gli succedeva il figlio fanciullo Tolomeo V o meglio una schiera indegna di cortigiani. La morte di Tolomeo IV manifestava in pieno la crisi di decadenza dello Stato tolemaico, corroso dal conflitto insanato tra GrecoMacedoni conquistatori ed indigeni sottomessi, dalle vecchie tradizioni separatistiche dell' Alto Egitto, da una burocrazia immensa e parassita-

Il predominio in Oriente e la espansione in Occidente

ria. Volle approfittare della occasione Antioco III di Siria, che, per quanto battuto dall 'Egitto nel 217 nella battaglia di Rafia, aveva ripreso con il massimo vigore la riorganizzazione del suo Stato ed era riuscito a riportare sotto il suo controllo le regioni di Armenia, Parti a e Battriana da lungo tempo fattesi indipendenti. Ma Antioco III temeva di avere contro di sé la Macedonia e perciò, dopo lungo patteggiare, si accordò con Filippo Vallo scopo di spogliare l'Egitto di tutti i suoi possedimenti extra-africani. Antioco III avrebbe occupato Fenicia, Palestina, Cipro e gli altri minori possessi asiatici dell 'Egitto; Filippo avrebbe occupato quelle tra le isole Cicladi e le città della Tracia che erano tolemaiche. CosÌ press'a poco l'accordo tra i due sovrani: disturbato solo dalla reciproca diffidenza, nonostante la quale, gli Stati minori - come Rodi e Pergamo - che avevano tutto da perdere dalla rottura dell' attuale equilibrio politico nel Mediterraneo orientale, furono allarmati. Rodi, appunto giovandosi di questo equilibrio, da tempo dominava i mari come centro fiorentissimo di commerci; Pergamo si poteva sostenere contro il maggiore regno di Siria solo a patto che questo fosse continuamente impegnato sul fronte egiziano. Poiché Antioco combatteva per terra sulla costa fenicia e invece Filippo di Macedonia percorreva l'Egeo a sottomettere le isole dipendenti o no dall 'Egitto, i Rodii - a cui si unirono i Pergameni - cercarono di opporsi a lui, forti della loro flotta. Ma furono battuti due volte a Chio e a Lade (201 a.c.). Dopo di che, essi, insieme con i Pergameni, inviarono ambasciatori a chiedere l'aiuto di Roma. I Romani nel 200 decisero l'intervento. Un loro ultimatum a Filippo poneva tali condizioni -l'abbandono della Grecia e di tutte le conquiste a danno dell'Egitto - che la guerra fu inevitabile. Nello stesso tempo però i Romani evitavano di portare all'estremo il conflitto incipiente con Antioco, in modo da aver da combattere solo con la Macedonia. Ciò che per il momento conveniva anche ad Antioco, il quale, vittorioso circa lo stesso anno al Panion, aveva ricuperato Fenicia e Palestina e territori finitimi. In Grecia i Romani trovarono poco entusiasmo. Nonostante i loro programmi filo-ellenici si diffidava di loro. Solo Atene si schierò dalla parte dei Romani, ma è caratteristico che nel prendere la deliberazione esaltasse non loro, ma il re Attalo di Pergamo e i Rodii alleati di Roma. Presto tuttavia le disposizioni mutarono col delinearsi della situazione. Nel 199 i Romani invadevano la Macedonia e gli Etoli si schieravano dalla loro parte. Nel 198 compariva una flotta romana sull'Egeo, e la lega achea aderiva a Roma. Al principio del 197, con uno di quei suoi repentini mutamenti che sconvolgevano gli avversari, si accordava anche con Roma l'avversario

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La Siria attacca l'Egitto

La Macedonia cerca di sottomettere l'Egeo

Ultimatum di Roma a Filippo di Macedonia

I Greci si schierano con Roma

Manuale di storia romana

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La battaglia di Cinoscefale

Fine del controllo macedone in Grecia

L'illusione della libertà concessa ai Greci

accanito della lega achea, il re Nabide di Sparta, il tiranno rivoluzionario, che, liberando una parte degli Iloti e ridistribuendo la proprietà, aveva ridato forza nuova alle decadenti istituzioni spartane. Nello stesso 197 sui campi di Cinoscefale in Tessaglia Filippo ormai quasi isolato non poteva resistere alle truppe romane comandate dal proconsole Tito Quinzio Flaminino, che già dall'inizio del 198 erano passate dalla Macedonia in Grecia e dopo averla press'a poco tutta occupata ora ritornavano verso nord. La tattica ormai perfezionata dei manipoli romani nel suo confronto con la tattica delle falangi macedoniche - quelle che pure avevano assicurato la vittoria ad Alessandro Magno - rivelò la piena superiorità, che al tempo di Pirro non aveva ancora potuto manifestare. Filippo dovette abbandonare tutti i possessi extra-macedonici, dovette cedere a Roma tutta la sua flotta da guerra, eccetto cinque navi; e pagare 1000 talenti di indennità. Nel luglio circa del 196, alle feste istmiche di Corinto, Tito Quinzio Flaminino poteva attuare il programma degli ambienti filo-ellenistici da cui proveniva, benché avversario di Scipione - e nello stesso tempo affermare la supremazia di Roma proclamando solennemente la libertà «senza guarnigioni, né tributi» di tutti i Greci. Egli sceglieva per la proclamazione il luogo dove nel 338 Filippo II di Macedonia aveva per la prima volta legato i Greci alla politica macedonica. Anche i Greci - pure diffidenti e malcontenti dei Romani - credettero per un momento che la libertà ridata dallo straniero potesse cancellare un secolo e mezzo di storia e restaurare la piena vita autonoma di tutti gli Stati greci. La proclamazione fu accolta quindi con immenso entusiasmo. Entusiasmo stolto non perché i Romani non pensassero seriamente a mantenere fede alloro impegno, ma perché ciò che aveva sollecitato lo straniero a intervenire in Grecia era appunto quella permanente agitazione di Stato contro Stato ed entro i singoli Stati di classe contro classe, che ora, per la ricuperata autonomia, sarebbe riarsa ancora più violentemente.

7.3

Lo scontro tra la lega etolica e quella achea

La guerra contro Antioco di Siria (192-188 a.C.)

Fu un primo segno l'agitazione della lega etolica, che si riteneva mal ricompensata per gli aiuti dati a Roma nella guerra contro Filippo. La lega si sforzò di estendere la propria sfera di influenza occupando altre città, tra cui Sparta, ma in tal modo si urtò contro la rivale lega achea. togliendosi ogni possibilità di un futuro accordo, che era la condizione per una lotta seria contro i Romani. Difatti in un tentativo che gli Etoli fecero di impadronirsi di Sparta, dopo aver assassinato Nabide, gli

Il predominio in Oriente e la espansione in Occidente

Achei giunsero in tempo a sostituirsi loro e cosÌ aggregare Sparta alla propria lega e unificare il Peloponneso: che era il vecchio ideale acheo, ora più che mai sostenuto dal loro uomo politico più influente Filopemene, tanto valoroso generale quanto uomo politico di corta vista. Gli Etoli non avevano altra speranza se non in Antioco. Speranza giustificata, perché il re di Siria aveva relazioni sempre più tese con i Romani. Del resto si era compromesso irrimediabilmente con loro accogliendo nel 195 alla sua corte Annibale, costretto a fuggire da Cartagine dopo un tentativo - subito troncato dai Romani - di rinvigorire lo Stato con una riforma in senso democratico. E nello stesso anno aveva concluso una pace con l'Egitto, che gliene assicurava il controllo: ciò che non poteva se non accrescere i timori dei Romani. Antioco infatti decise di prevenirli portando la guerra in Grecia, trascurando, per quel che raccontano (ma è racconto di discussa autenticità), di seguire il consiglio di Annibale, che avrebbe voluto riportare la guerra in Italia. Non pare, d'altronde, che né allora né poi Antioco si giovasse molto della esperienza fatta dal Cartaginese. In Grecia si recò con un esercito insufficiente, né seppe con abile propaganda sollevare le masse popolari, che pure odiavano i Romani, sia come stranieri, sia soprattutto come protettori dei ricchi, che le opprimevano. Infine, poiché la vecchia gelosia tra le due potenze ellenistiche fece rimanere la Macedonia dalla parte di Roma, cosÌ come aveva lasciato qualche anno prima Antioco indifferente di fronte alla sorte di Filippo, restò preclusa ad Antioco ogni effettiva possibilità di conquistare la Grecia. I Romani ebbero agio di apprestare quell' esercito, che nel 192 batteva alle Termopili il re di Siria e lo costringeva ad abbandonare la Grecia. Prevalse allora in Roma il partito di Scipione l'Africano, che voleva trasferire la guerra nel territorio del nemico, in Asia, riprendendo il sistema che aveva assicurato la vittoria contro Annibale. Al fratello di Publio Scipione, Lucio, fu quindi affidato il comando, che egli - di poco valore personale - tenne, assistito da Publio. I Romani seppero assicurarsi una opportuna tregua con gli Etoli, ancora sempre in arme, e poi con una serie di scontri vittoriosi conquistarono il dominio del mare - e in ispecie dello stretto dei Dardanelli - che era la condizione indispensabile per trasportare le truppe romane in Asia. Nel 189 sulla pianura di Magnesia in Asia Minore i Romani, opportunamente aiutati dal re Eumene di Pergamo, sbaragliavano Antioco. Nel trattato di pace (pace di Apamea) i Romani si preoccuparono non di distruggere la potenza di Antioco - ciò che avrebbe forse richiesto un ulteriore proseguimento della lotta - ma di ridurla nel modo più assoluto a potenza asiatica e nello stesso tempo affiancarle, a custodi, Rodi e il regno di Pergamo, come in Africa il regno di Numidia sorvegliava, con sistemi sempre più petulanti, Cartagine. Lo Stato siriaco fu

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La guerra siriaca

Vittoria romana alle Termopili

Lucio Cornelio Scipione batte Antioco III a Magnesia

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La pace di Apamea: espansione di Pergamo in Asia minore

Il Mediterraneo diventa il «mare nostro»

Manuale di storia romana

confinato al di là del fiume Halys e del Tauro: dovette consegnare tutta la flotta, meno dieci navi, pagare una indennità di 15.000 talenti. I territori tolti ad Antioco furono assegnati in dono per grande parte al re di Pergamo e in minor parte a Rodi. Le città greche di Asia minore furono lasciate autonome, se non erano già appartenute al regno di Pergamo e non erano state contro Roma durante la guerra. I Romani non ebbero dunque alcun incremento territoriale. L'unico vantaggio materiale immediato fu l'immenso bottino, accresciuto da una fortunata campagna contro le tribù galliche accampate in Asia minore (188 a.c.) e da imposizioni di taglie alle città più ricche. Poco prima anche l' Etolia, rimasta isolata, aveva dovuto cedere: a condizioni relativamente miti. Un trattato le impose di rispettare la maestà del popolo romano e di combatterne i nemici, senza aver garanzia reciproca; ebbe ridotto il proprio territorio; dovette pagare 500 talenti di indennità. Nel 188 Roma aveva affermato la sua supremazia su tutto il bacino del Mediterraneo. L'unico Stato, che non aveva dovuto riconoscerla formalmente, l'Egitto, sapeva però che solo Roma poteva impedirgli di cadere totalmente in mano della Siria: un fato, a cui la pace del 195 con Antioco III sembrava preludere. La egemonia romana aveva già fin da questo suo primo inizio la duplice caratteristica, che le rimarrà propria: di voler essere universale e di pretendere una condizione stabile di pace. La pax romana che costituirà nei secoli seguenti il maggiore tentativo di risolvere i problemi politici del mondo antico, era già nella volontà di costruire nel mondo ellenistico un sistema permanente di equilibrio governato da Roma, che si sostituiva all'equilibrio, rivelatosi troppo instabile, creato dopo la morte di Alessandro Magno, con la costituzione dei vari Stati eredi del suo impero. Il prossimo avvenire rivelò solo che la pax non poteva essere conservata da lontano, bensÌ esigeva, oltre la tutela delle legioni romane, la costituzione di un uniforme organismo politico ed economico.

7.4

Nuovi coloni nel nord Italia

La riconquista dell'Italia settentrionale e la sua romanizzazione

Quelle terre, di cui in Roma si sentiva il bisogno per stanziarvi cittadini e alleati, furono trovate nell 'Italia settentrionale. In realtà, dopo la seconda guerra punica l'Italia non soffriva certo per sovrapopolazione. ma gli squilibri economici avevano trasformato un grande numero di piccoli possidenti in proletari, che cercavano nuove terre. Per quanto le numerose confische ai danni di coloro che erano passati ad Annibale permettessero al governo romano di disporre di vaste zone nell 'Italia

Il predominio in Oriente e la espansione in Occidente

meridionale, gli stanziamenti in quelle regioni non furono né cercati dai proletari - a cui parevano forse troppo disagiati e troppo poco redditizi - né curati dal governo, per cui non avevano interesse militare. La colonizzazione fu avviata invece verso l'Italia settentrionale, via via che se ne procedette alla riconquista, con quelle soste che le più importanti campagne in Oriente e in Spagna rendevano inevitabili. Dopo la seconda guerra punica era rimasto tra i Galli un ufficiale Cartaginese, Amilcare, che continuò a dirigere la loro ribellione contro Roma. Riuscì infatti ai Galli Insubri di prendere di sorpresa la colonia di Piacenza, che era rimasta con Cremona un' isola romana in terra nemica (200 a.c.). Ma i Romani in due campagne del 197 e del 196 poterono abbastanza facilmente assoggettare gli Insubri e ristabilire l' ordine. Più lento fu l'assoggettamento dei Galli Boi, che stavano a sud del Po tra Piacenza e Rimini. Solo nel 191 esso fu completato, e ne conseguì la confisca di metà del territorio a vantaggio dello Stato Romano. Più lunga ancora la riconquista dell 'Istria protrattasi fino al 177 e seguita poi dall'assoggettamento di gran parte della Dalmazia, il quale, essendo avvenuto da sud a nord, cioè partendo dall'Illiria, non si estese in un primo tempo (155) fino a connettersi con l'Istria, e fu completato solo un trentennio (129) più tardi. Nel 197 cominciò anche l'assoggettamento dei Liguri, che occupavano di qua e di là delle Alpi il territorio litorale fino presso a poco alla foce dell'Amo. La lotta con i Liguri d'Italia durò decenni, nonostante che nel 180 una delle tribù più bellicose, gli Apuani, fosse per gran parte sradicata dalla sua terra e collocata nel Sannio, a nord di Benevento, dove ancora risiedeva al tempo di Traiano. Intorno al 175 la sottomissione era nella sostanza compiuta. Dal 166 al 156 circa i Romani ebbero poi anche da combattere con i Liguri d' oltr' Alpe con lo scopo di assicurarsi la via libera per le comunicazioni con l'alleata Marsiglia e quindi con la Spagna. Per questa serie di guerre tutta l'Italia settentrionale, eccetto alcune zone specialmente piemontesi, ai piedi delle Alpi, fu sottoposta a quella influenza di Roma a cui non doveva sottrarsi più. La romanizzazione procedette rapida per le colonie, le strade, gli insediamenti privati di cittadini romani. Cremona e Piacenza furono rafforzate nel 190 con 6000 nuovi coloni e conservarono il loro rango di colonie di diritto latino. Nel 189 una colonia latina di 3000 coloni fu insediata a Bologna. Nel 183 due colonie romane di 2800 cittadini ciascuna furono insediate a Parma e a Modena. Nel 181 era fondata la colonia latina di Aquileia, in cui la distribuzione di terreno fu inusualmente ampia (50 iugeri ai cittadini ordinari; 100 ai centurioni, 140 ai cavalieri), mentre di regola oscillava fra i 3 e gli 8 iugeri: questa colonia diventerà presto il centro degli scambi dell 'Italia con la zona danubiana. Nel 180 era fondata la colonia latina di

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La resistenza dei Galli Insubri

La lotta contro i Liguri

La «romanizzazione» dell'Emilia

Manuale di storia romana

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Sorgono le grandi strade: «l'Emilia» e la «Flaminia»

Lucca, nel 172 era insediata una colonia cittadina nel porto di Luni (oggi probabilmente golfo della Spezia). Più tardi, circa il 120, fu fondata la colonia romana di Dertona (odierna Tortona). Ma altri numerosissimi centri - senza diritti coloniali e municipali - si vennero ad aggiungere o spontaneamente o per iniziativa ufficiale alla serie delle colonie. Contemporaneamente, sorgevano le grandi strade militari e commerciali, che qui come altrove furono strumenti essenziali della romanizzazione: strade che presero il nome dai magistrati che le vollero. Nel 187 furono iniziate la via Emilia, da Rimini a Piacenza (che darà il nome alla regione) e la via Flaminia da Arezzo a Bologna; nel 148 fu tracciata la via Postumia da Genova ad Aquileia per Cremona e Piacenza; nel 106 la Emilia Scaura da Pisa a Genova a Tortona: e qui si citano solo alcune tra le principali di queste vie. Intorno le quali occorre appena avvertire che costituirono la linea su cui vennero a disporsi nuovi centri abitati. Sulla via Flaminia sorse ad esempio già nel II sec. a.c. Firenze (antica Florentia).

7.5

La situazione turbolenta in Macedonia

La terza guerra macedonica

La fine della autonomia della Macedonia e della Grecia

La politica di egemonia senza dominio militare, che i Romani avevano creduto di poter instaurare, si rivelava sempre più impossibile in tutto il mondo ellenistico. Troppi erano i malcontenti, troppi i conflitti politici e sociali in cui i Romani dovevano intervenire, richiesti o no, come arbitri. Essi dovettero per qualche decennio durare la fatica di cercare di tutelare con la sola forza del loro prestigio, da lontano, la loro situazione economica e finirono col convincersi, prima sporadicamente poi sistematicamente, che il trapasso alla conquista era inevitabile. Il primo passo fu una nuova guerra con la Macedonia. Filippo \' aveva cercato di riorganizzare il proprio stato, coll'estendere i domini verso la Tracia. I Romani cercarono di limitame l'azione preparando la successione al suo figlio minore Demetrio, che era stato ostaggio a lungo in Roma e pareva ben disposto. Ma l'altro figlio, Perseo, a cui questa malcelata volontà accresceva solo l'ostilità contro Roma, persuase il padre a fare uccidere Demetrio, sicché alla morte di Filippo, nel 179. gli succedette sul trono e ne continuò lo sforzo di ridare dignità e vigore al suo Stato, ma con insufficiente energia e senza consapevolezza dei rischi a cui andava incontro. Non mancarono accuse di altri Stati ellenistici e incidenti vari, che potessero precipitare gli eventi. E furono i Romani a decidere una guerra preventiva, che ebbe inizio nel 171. Ma la guerra, male preparata e svogliatamente condotta, offrì loro assai più difficoltà di quanto nor:

Il predominio in Oriente e la espansione in Occidente

pensassero, sebbene Perseo si rivelasse immediatamente un generale di poco valore. Il che favorì la ribellione contro i Romani dell 'Epiro e del re illirio loro alleato, Genzio, mentre diffuse irrequietezza per tutta la Grecia e a Rodi. Solo nel 168 il console L. Emilio Paolo riuscì ad aggirare l'esercito Macedonico fortificatosi ai piedi dell 'Olimpo, posizione imprendibile, e a costringerlo a ritirarsi verso Pidna. Nelle vicinanze di questa città avvenne lo scontro tra i due eserciti, che diede in men di due ore la Macedonia in mano ai Romani. Perseo stesso, in conseguenza della sconfitta totale, dovette arrendersi. La Macedonia fu divisa in quattro repubbliche, senza diritti di connubio e di commercio reciproci. Fu abolito il suo esercito, quasi totalmente. I Romani si attribuirono i diritti dei re, cioè il prelievo del tributo, che fu però ridotto del 50 per cento, e i terreni e le miniere demaniali; ma le miniere d'oro e d'argento furono, almeno per alcuni anni, chiuse. L'ordinamento era, tenuto conto dei sistemi antichi, eccezionalmente umano e confermava l'intenzione dei Romani di volere evitare la costituzione di un dominio diretto: che per altro, con il prelievo dei tributi e con l'amministrazione dei beni demaniali, già si introduceva implicitamente. Analoga sorte ebbe l'Illiria, divisa in tre repubbliche e parzialmente sottoposta a tributo. I Romani procedettero invece in modo assai diverso con i Greci che erano passati a Perseo e in genere con tutti coloro che non si erano dimostrati interamente fidi. La durezza della repressione fu anche accresciuta dalla irrequietezza che dava loro in quel momento la situazione orientale. In Egitto, morto Tolomeo V Epifane, e succedutogli il fanciullo Tolomeo VI Filometore, i cortigiani pensarono di poter riprendere la tradizionale lotta con la Siria (169 a.c.); ma Antioco IV Epifane di Siria li sconfisse, conquistò l'Egitto fino a Menfi e si accordò con Tolomeo VI a condizione che dovesse di fatto rimanere sotto il suo protettorato. Tutto sarebbe andato bene, se il popolo di Alessandria non si fosse ribellato eleggendo a re il fratello di Tolomeo VI, cioè Tolomeo VII Euergete. Tolomeo VI, richiamato al senso della realtà da questa ferma presa di posizione, troncò l'accordo con Antioco IV e si divise il regno col fratello. Antioco dovette pensare a riconquistare l'Egitto con la forza e lo fece tanto più a cuore leggero, al principio del 168, perché sapeva i Romani impegnati contro la Macedonia. Il calcolo era sbagliato. I Romani, appena vincitore a Pidna, sicuri di sé, mandarono a intimare ad Antioco, che aveva nuovamente conquistato tutto l'Egitto eccetto Alessandria, di abbandonare ogni sua conquista. Il legato romano Popilio Lenate non permise di discutere il suo ordine: tracciando un cerchio attorno alla persona del re e dicendogli le note parole: «Qui delibera», impose l'obbedienza immediata. E il re, che conosceva la sorte di Perseo, cedette.

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Lucio Emilio Paolo sconfigge i Macedonia Pidna

La Macedonia viene suddivisa in quattro repubbliche

Antioco IV di Siria approfitta della debolezza dell'Egitto

Il cerchio di Popilio Lenate

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Manuale di storia romana

I Romani umiliano gli Achei, Rodi ed Eumenell di Pergamo

La rivolta dei Macedoni

Una parola dell'ambasciatore di Roma era bastata a salvare l'indipendenza dell 'Egitto. Tuttavia l'episodio dava ai Romani non tanto tranquillità, quanto piuttosto coscienza di sé e sfiducia negli altri: il che li portava a premere la mano. Lo provarono le città beotiche passate come ribelli a Perseo, durante la guerra, e soprattutto i Molossi di Epiro, che nel 167 furono spogliati, uccisi o venduti schiavi in massa. Anche la lega etolica sospetta fu nuovamente ridotta del suo territorio, fino a renderla incapace di nuocere. E la lega achea, benché non direttamente implicata, dovette consegnare a Roma mille tra i suoi personaggi più autorevoli, che vennero trasferiti in Italia: uno di questi fu, come è noto, Polibio figlio di Licorta, uno dei capi più autorevoli della lega achea, dopo la morte di Filopemene (183 a.c.), e uomo politico e generale egli stesso. Fu appunto l'esilio in Italia, durato per i compagni sino al 151 e per lui trasfonnato subito in libero soggiorno, che gli pennise di acquistare quella conoscenza della organizzazione politica e militare romana, che si rifletterà nella sua storia delle guerre puniche. Eumene di Pergamo, ugualmente, non si sottrasse al sospetto, fu quasi cacciato dall'Italia, allorché vi venne a giustificarsi, e si trovò molestato dai Romani dovunque cercasse di tenere saldo il suo potere sui popoli a lui soggetti e perciò perdette il dominio sui territori delle tribù galliche stanziate in Asia. Arrivò infine anche la volta di Rodi, al cui riguardo il sospetto si complicava con la rivalità commerciale, perché gli Italici, avviatisi alla conquista dei mercati orientali (cfr. Cap. ottavo), male ne tolleravano la concorrenza fortunata. Accadde quindi che Rodi non solo fosse privata con cavilli giuridici dei suoi possessi in Licia e in Caria, ma fosse rovinata economicamente con la trasfonnazione dell 'isola di Delo (allora ridata ad Atene) in porto franco; una misura, che vi fece convergere tutto il commercio del mondo ellenistico e pennise ai mercanti italici di riorganizzarlo nelle loro mani. Intanto, la vittoria del 168 non era bastata a mettere tranquilla né la Macedonia né la Grecia, nella quale ultima si venivano anche accentuando i moti sociali contro i ricchi protetti dai Romani. D'altro lato i Romani, per sfiducia contro le leghe, e in particolare contro l'ultima. che potesse continuare a fare una politica indipendente, l'achea, tendevano a favorire i separatismi delle singole città. Nel 149 si ribellava la Macedonia per incitamento di un certo Andrisco, che si dava per figlio di Perseo. La repressione romana, sotto il comando di Quinto Cecilia Metello, fu pronta e portò all'unica soluzione logica: l'assorbimento della Macedonia nello Stato romano come provincia (148 a.c.). Il magistrato con potestà proconsolare (dapprima un pretore) a cui ne fu affidato il governo ebbe anche la giurisdizione sull'Illiria e l'Epiro. La via Egnazia da Durazzo (dove sbarcavano le

Il predominio in Oriente e la espansione in Occidente

navi provenienti da Brindisi) a Tessalonica collegò presto la nuova provincia con l'Italia. Sorte analoga subì la Grecia due anni dopo (146). Sparta si era ribellata alla lega achea, e questa, guidata da Dieo, si apprestava a ricuperarla. Il divieto romano non fu ascoltato, come non fu tenuto conto della volontà dei Romani che fossero lasciate libere anche altre città: ciò portò alla guerra. Le legioni romane, che penetrarono in Grecia nel 146, venendo dalla Macedonia con Cecilio Metello e dall'Italia con Lucio Mummio, non ebbero difficoltà a reprimere la resistenza che si era estesa alla Beozia e all'Eubea. L'esercito acheo fu battuto prima nella Locride a Scarfia da Metello, poi da Mummio a Leucòpetra sull 'istmo di Corinto, e Corinto dovette aprire le porte. Era la resa. Tutte le leghe greche furono demolite. Tebe e Calcide di Eubea semidistrutte; Corinto poi interamente saccheggiata e bruciata, mentre i suoi tesori d'arte passavano in Italia. Parte della Grecia fu sottoposta a tributo. Tutta (anche gli Stati, come Atene, che erano rimasti fedeli e perciò continuarono a essere formalmente autonomi) fu sottoposta al controllo del proconsole risiedente in Macedonia. Alla vera costituzione di una provincia di Achaia (come si chiamerà ufficialmente da allora la Grecia) non si arriverà che al tempo di Augusto.

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Lucio Mummio sconfigge gli Achei e distrugge Corinto

La Grecia diventa provincia romana

Fig.7.1 I possedimenti romani dopo la fine delle guerre puniche e la conquista della Grecia e della Macedonia (146 a.C.)

82

Manuale di storia romana

7.6

La Spagna viene divisa in due province

La Spagna si rivolta

La sconfitta di Lusitani e Celtiberi

La Spagna diventa la provincia più romanizzata

Le ribellioni in Spagna e la presa di Numanzia (133 a.C.)

La zona meridionale della Spagna occupata dai Romani fu ordinata nel 206 a.c. in due province (Hispania citerior e Hispania ulterior), ciascuna pochi anni dopo sottoposta a un magistrato (pretore) con potestà proconsolare. Nella Hispania ulterior fu fondata con cittadini romani ftalica. Gli indigeni erano sottoposti a tributo fisso (stipendium), non a decime: i Romani potevano inoltre sfruttare i bacini minerari ricchissimi. Il servizio militare nei corpi degli ausiliari fu reso obbligatorio. Ma i funzionari romani, trovatisi in un terra cosÌ ricca, non seppero astenersi da violenze e rapine di ogni genere, invano combattute dal governo centrale, che, sotto l'influenza di Catone, si preoccupava del diffondersi di questi sistemi: furono appunto alcuni episodi dell' amministrazione in Spagna, che fecero istituire le cause per concussione (repetundae) a carico dei funzionari. Tutto ciò, come non bastò a reprimere gli abusi, non poté trattenere gli indigeni dalla rivolta, che si estese fuori dei limiti delle due province tra i Lusitani (press'a poco odierno Portogallo) e i Celtiberi (sulla destra dell'Ebro). Le due ribellioni si svolsero parallele lungo decenni. La fase più acuta di quella dei Lusitani fu tra il 154 e il 138 a.c., di quella dei Celtiberi tra il 143 e il 133. E fu fortuna per Roma che le due ribellioni non confluissero in un'azione comune. Esse, non pertanto, costarono ai Romani enormi sacrifici di forze umane e rivelarono in pieno la deficienza del sistema di mutare ogni anno i comandanti delle truppe. Quasi ogni nuovo generale, che giungeva inesperto, toccava sconfitte. Due volte, una per ciascuna ribellione, intere armate romane furono costrette alla resa: quattro volte la pace già accettata dai Romani in momenti di speciale difficoltà fu rotta dal Senato. Infine la rivolta dei Lusitani fu domata nel 138 facendo uccidere il loro capo invitto, Viriato; e la rivolta dei Celtiberi si concluse quando fu messo a capo dell'esercito il generale, che aveva conquistato pochi anni prima Cartagine (vedi paragr. 7.7), Scipione Emiliano. Questi, assunto nel 134 il comando, dopo aver ristabilito la disciplina delle sue truppe, pose l'assedio alla fortezza dei Celtiberi, Numanzia, circondandola di una serie di campi fortificati, che sono stati ritrovati dagli scavatori moderni e costituiscono forse il più notevole documento di vita militare della Roma repubblicana. Nel 133 Numanzia cadde per fame. Da allora le due province spagnole e i territori dei Lusitani e dei Celtiberi, che furono sottoposti al loro controllo, rimasero per secoli sottomessi. L'amministrazione venne lentamente migliorando fin a che la Spagna diventò, con l'inizio dell'impero, la provincia extra-italica più romanizzata.

Il predominio in Oriente e la espansione in Occidente

7.7

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La distruzione di Cartagine (146 a.C.)

È verosimile che il timore che Cartagine potesse approfittare delle ribellioni spagnole per rimettere piede nei suoi vecchi domini contribuisse ad avviare i Romani verso la politica di disgregazione totale dello Stato cartaginese conclusasi tragicamente nel 146, otto anni prima della distruzione di Numanzia. I Romani, come sappiamo, avevano aiutato la oligarchia dominante a Cartagine a liberarsi di Annibale, quando nel 195 egli aveva tentato di rinnovare gli ornamenti della città in senso più democratico. E poiché Annibale continuò anche in esilio ad aiutare tutti i nemici di Roma con una rigida fedeltà al giuramento della sua infanzia, il Senato lo ricercò presso Antioco di Siria e quindi presso Prusia re di Bitinia, dove si era rifugiato dopo la sconfitta di Antioco (188 a.c.), costringendolo al suicidio per evitare di essere catturato (182 a.c.). L' oligarchia di Cartagine per conto suo non venne mai meno agli impegni verso Roma, aiutandola con la flotta in tutte le guerre in Oriente. Ciò non impedì che i Romani permettessero a Massinissa re di Numidia di approfittare largamente della clausola del trattato romano-cartaginese che gli concedeva di rivendicare tutte le terre cartaginesi, che fossero state una volta dei suoi antenati. Il territorio di Cartagine venne quindi ripetutamente ridotto, fino a che nel 151, durante una delle solite contestazioni, la città esasperata dichiarò guerra a Massinissa violando l'altra clausola del trattato che le impediva di entrare in guerra senza l'autorizzazione di Roma. Roma aveva quindi un motivo legalmente ineccepibile per dichiarare guerra a Cartagine. Persuasa dal vecchio Catone, ritornato da poco da un viaggio a Cartagine, che gli aveva lasciato una profonda impressione della floridezza della città, si preparò alla guerra. I Cartaginesi, che compresero di non poter resistere, cedettero a tutte le richieste romane, anche a quella di consegnare le armi, ma, sebbene già disarmati, si ribellarono all'ulteriore intimazione di abbandonare la loro città (che avrebbe dovuto essere distrutta) e fondame una nuova a dieci miglia dal mare. Con l'energia della disperazione si riarmarono quanto poterono e si prepararono a subire l'assedio. Quali motivi abbiano suggerito tale estrema decisione di Roma nel volere la rovina della rivale non sappiamo. Già accennavamo alla possibile preoccupazione di interventi in Spagna: possiamo anche supporre sospetti di relazioni fra Cartagine e gli Stati ellenistici ancora ostili a Roma. E infine è evidente che i commerci punici sempre fiorenti eccitavano la gelosia dei mercanti italici, così come le terre africane, rese fertili da Cartagine, erano desiderate dai latifondisti romani. Né è impossibile che Roma, dopo essersi lasciata trascinare a concedere troppo

Il suicidio di Annibale

Massinissa provoca i Cartaginesi

«Delenda Carthago!»

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Manuale di storia romana

Scipione Emiliano distrugge Cartagine

a Massinissa, ora desiderasse di sostituirsi direttamente in Africa a Cartagine per impedire l'eccessivo rafforzarsi del regno numidico, che si veniva avviando rapidamente a forme di vita civili. E forse più ancora di tutti questi motivi precisi avrà contribuito l'antico odio romano per la rivale. Ma non si deve dimenticare che tutte queste sono congetture. Solo i fatti sono sicuri, e questi, ridotti nella loro linea più schematica, ci dicono che i Cartaginesi seppero resistere circa tre anni (149146), pur abbandonati da Utica, l'altra colonia fenicia di Africa, finché Scipione Emiliano - figlio di Paolo Emilio, il vincitore di Pidna e figlio adottivo di un figlio di Scipione l'Africano - nominato console anzi tempo nel 147, appunto per affrettare la conclusione della guerra, seppe prender d'assalto la città (inizio del 146). La città fu distrutta, e fu giurato che non avrebbe mai più potuto essere ricostruita: i cittadini furono uccisi o resi schiavi. Il territorio, salvo qualche piccola concessione ai figli di Massinissa (morto nel frattempo), fu trasformato nella provincia romana dell' Africa governata da un pretore con sede in Utica.

7.8

Il testamento di re Attalo III

L'annessione del regno di Pergamo (133 a.C.)

Conclude il periodo delle grandi conquiste, proprio mentre già ferveva la rivoluzione graccana, l'annessione del regno di Pergamo: la quale estende in Asia il processo di trapasso dalla egemonia alla occupazione militare che era già avvenuto per la Macedonia e la Grecia. L'annessione, già di per sé contraria alla sfiducia che dopo la morte di Eumene i Romani sembravano aver restituito al regno di Pergamo, accadde nella forma più strana. Il re Atta/o III di Pergamo, morendo, nel 133 a.c. lasciò erede il popolo romano del suo Stato, eccetto la città di Pergamo e forse qualche altra di costituzione greca, che era da lui dichiarata libera. Noi ignoriamo assolutamente che cosa abbia spinto Attalo a questa deliberazione. Ma un documento scoperto pochi anni fa a Cirene ci impedisce di credere che essa sia stata spontanea. L'iscrizione di Cirene prova infatti che, prima di Attalo, un altro re amico dei Romani, Tolomeo VIII, il quale, dopo aver condiviso per un certo tempo il regno col fratello in Egitto, era passato a governare Cirene, lasciò per testamento il suo Stato ai Romani nel 155 a.c. Il testamento di Tolomeo VIII non ebbe effetto, perché egli ritornò sul trono di Egitto; ma. comunque, dimostra che Attalo non faceva se non ripetere l'analoga iniziativa del re di Cirene, cioè che l'uno e l'altro agivano secondo suggerimenti venuti da Roma per facilitare l'acquisto dei territori che si credevano maturi per il dominio diretto. Tuttavia i Romani non poterono cogliere facilmente l'eredità. Le

Il predominio in Oriente e la espansione in Occidente

classi sociali più basse del regno di Pergamo, organizzate da un tale Aristonico, iniziarono una ribellione di carattere politico ed economi-

co, che non fu domata se non nel 130. Quasi tutto il regno fu allora annesso allo Stato romano sotto il nome di provincia di Asia: le zone di minore importanza furono attribuite a sovrani vicini fedeli a Roma (Cappadocia, Bitinia ePanto), non senza che nascessero complicazioni.

Bibliografia Oltre le storie generali (di particolare importanza DE SANCTIS, IV, I, e Cambridge Ancient History, VIII): M. HOLLEAux, Rome, la Grèce et les monarchies hellénistiques au III siècle avant l.-e., Parigi 1921. Sulla politica romana nel mondo ellenistico: T. FRANK, Roman imperialism, New York 1914; E. BADIAN, Titus Quinctius Flamininus: Philhellenism and Realpolitik, Cincinnati 1970; Éd. WILL, Histoire politique du monde hellénistique: (323 - 30 avo f.-e.), II voI., 2~ ed., Nancy 1982; E.S. GRUEN, The Hellenistic World and the Coming of Rome, Berkeley 1984; I.-L. FERRARY, Philhellénisme et impérialisme: aspects idéologiques de la conquéte romaine du monde héllenistique, de la seconde guerre de Macédoine à la guerre contre Mithridate, Roma 1988; R. MORSTEIN KALLET-MARx, Hegemony to Empire: the Development of the Roman Imperium in the East from 148 to 62 B .e., Berkeley 1995; F.w. WALBANK, Polybius, Rome, and the Hellenistic World: Essays and Reflections, Cambridge 2002. Sulla Macedonia: F.w. WALBANK, Philip V of Macedon, Cambridge 1940; P. MELONI, Perseo e lafine della monarchia macedone, Roma 1953; sulla provincializzazione della Macedonia e della Grecia: S. ACCAME, II dominio romano in Grecia dalla guerra acaica ad Augusto, Roma 1946; sul sistema di prelievo fiscale nelle province: E. BADIAN, Publicans and Sinners: Private Enterprise in the Service ofthe Roman Republic, Oxford 1972. Su Roma e i Seleucidi: A. MASTROCINQUE, Manipolazione della storia in età ellenistica: I Seleucidi e Roma, Roma 1983. Sul regno di Pergamo: G. CARDINALI, Il regno di Pergamo, Roma 1906; E.V. HANsEN, The Attalids of Pergamon, 2~ ed., Ithaca 1971. Sull'Iberia: A. SCHULTEN, Geschichte von Numantia, Monaco 1933. Il testamento di Tolomeo VIII è pubblicato da G. OLIVERIO, La stele di Tolomeo Neoteros re di Cirene, Bergamo 1932. Su Aquileia e la colonizzazione nella Cisalpina: G. BANDELLI, Ricerche sulla colonizzazione romana della Gallia Cisalpina: le fasi iniziali e il caso aquileiese, Roma 1988.

85

La rivolta di Aristonico e la creazione della provincia d'Asia

La trasformazione interna di Roma CAPITOLO

8.1

L'oligarchia senatoria

Cresce il potere del Senato

OTTAVO

La trasformazione politica

Circa il 241 a.c. era ancora avvenuta in Roma una riforma dei comizi centuriati. Tale riforma, in cui si mettevano in rapporto le tribù locali ormai fissate in numero di 35 - con le cinque classi in cui si dividevano i comizi centuriati, è del tutto oscura nei particolari: né giova qui indugiare sulle varie ipotesi degli studiosi moderni. Importava ricordare questa riforma solo per notare che essa - a qualunque scopo tendesse - non ebbe alcuna efficacia nell'arrestare il processo di trasformazione dello Stato romano in oligarchia senatoria già evidente fin dalla prima guerra punica. La ragione essenziale è quella che si è detto altre volte: solo il Senato, in un periodo in cui la politica estera romana si complicava sempre più e in cui i magistrati in carica erano di solito fuori di Roma, poteva tenere in mano il Governo. Il Senato era costituito ormai esclusivamente di ex-magistrati e di ex-tribuni della plebe (che avevano ottenuto il diritto di essere eleggibili al Senato): era quindi costituito da persone di lunga pratica nelle questioni politiche. Infatti, poiché alle magistrature arrivavano sempre più di rado uomini nuovi, cioè appartenenti a famiglie, che non avessero già avuto altrimenti magistrati (e ne vedremo tosto la ragione), il Senato finiva con l'essere costituito in maggioranza da membri di un certo numero di famiglie e aveva quindi una omogeneità e uno spirito di corpo. che gli permettevano un'azione conseguente e di lunga portata. Al Senato spettava di condurre le trattative diplomatiche con gli altri Stati. sicché il voto di comizi che deliberava la guerra finiva non di rado per essere solo più una formalità, il conflitto essendo stato già portato all'estremo dal Senato. Il Senato aveva una sempre più larga parte nell'amministrazione finanziaria. I giudici venivano di regola scelti tra i Senatori, e perciò l'influenza del Senato si estese al potere giudiziario. Il Senato, con l'apparenza di assistere i magistrati per mezzo di suoi rappresentanti (legati), li controllava anche non di rado da vicino. L'autorità del Senato non poteva essere scossa dai comizi. Intanto. con l'estendersi dello Stato romano, l'autorità dei comizi era scaduta.

87

La trasformazione interna di Roma

perché molta parte degli elettori non poteva venire a Roma a votare, come il sistema antiquato pretendeva, e gli elettori di Roma, come del resto anche molti di fuori, erano troppo legati alle famiglie più nobili e ricche - da cui dipendevano economicamente - per non votare di regola a favore dei provvedimenti voluti da quelle. Le clientele delle famiglie più nobili erano insomma talmente estese da togliere ogni libertà di voto. Ma poi non si vede quale efficacia potessero aspirare di avere comizi chiamati solo ad approvare o disapprovare iniziative dei magistrati, senza nessuna autonomia di convocazione, con limitatissima facoltà di discussione, in cui per di più si era stabilito l'uso che il voto dato da una centuria di iuniori tratta a sorte dalla prima classe (la così detta centuria prerogativa) avesse valore quasi religioso di indicazione per le centurie seguenti. Una minaccia all'autorità del Senato era invece senza dubbio il prestigio particolare di certi nobili, come Scipione Africano e Scipione Emiliano, che per il loro fascino sull' esercito e sulla folla avrebbero potuto aspirare a sostituire un potere dittatoriale all' oligarchia dominante (intendendo dittatura nel senso moderno, perché la vecchia dittatura romana era di fatto abolita). Il pericolo era tanto reale che di fatti la dittatura in Roma sorgerà appunto dalla contrapposizione dei generali vittoriosi all'autorità della nobilitas senatoria. Ma per lungo tempo il pericolo fu tenuto lontano. Coloro che, come Scipione Africano, sembravano più vicini alla dittatura, furono stroncati dopo tenaci lotte dai loro colleghi della nobilitas. Una serie di leggi impedì che un nobile avesse troppo a lungo e troppo spesso cariche pubbliche. Non si poteva essere consoli una seconda volta se non a distanza di dieci anni dalla prima (salvo eccezioni rare); era fatto divieto di presentarsi candidato a una magistratura essendo in carica per un'altra, sicché era impossibile essere magistrato per due anni di seguito; le proroghe di potere di un magistrato uscente, dopo essere estese durante le guerre puniche per necessità imprescindibili, furono sempre più limitate. Si stabilì anche, a ritardare la carriera, che non si potesse essere consoli senza essere stati pretori, né pretori senza essere stati questori: e l'edilità, pur non entrando obbligatoriamente nella carriera, era però una condizione quasi indispensabile per passare da questori a pretori. Con queste misure il Senato riusCÌ quindi a mantenere a lungo la sua egemonia: in altre parole la nobilitas, non come individui singoli, ma come corpo, ebbe il potere in Roma. E di questa nobilitas di magistrati ed ex-magistrati facevano oramai parte tanto i patrizi quanto i più ricchi dei plebei, essendo venuta meno quasi ogni disuguaglianza tra patriziato e plebe. Dal 172 a.c. in poi sono eletti spesso due consoli plebei. Perciò i tribuni della plebe, scelti tra la nobilitas plebea, diventano sempre più

Il

«clientelismo» condiziona le elezioni

Emergono alcune famiglie nobili

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La contrapposizione tra nobili e cavalieri

I nuovi rapporti tra Romani e alleati italici

Manuale di storia romana

conservatori e si valgono dell'arma del veto per impedire che siano votate leggi sfavorevoli alla oligarchia senatoria . . Di più, la nobilitas riuscì anche, valendosi delle sue clientele, a evitare che troppi nuovi ricchi penetrassero nelle sue file come eletti alle magistrature e quindi destinati al Senato. E riuscì specialmente nei riguardi dei cavalieri, cioè di coloro che avevano il censo per andare in guerra con un cavallo proprio. S'intende che in teoria tutti i senatori erano cavalieri; ma cavalieri si chiamarono solo quelli tra i fomiti di censo equestre, che non appartenevano al Senato ed erano generalmente uomini di affari, impresari di lavori pubblici, appaltatori di tasse etc. Lo sforzo rigoroso della nobilitas di non lasciare entrare nelle sue file i cavalieri ebbe anche le sue espressioni esteriori: come illaticlavio, cioè la larga striscia di porpora che i senatori portavano per differenziarsi dall'angusticlavio, la striscia ristretta dei cavalieri. Non solo: lo sforzo di differenziarsi dai cavalieri ebbe soprattutto la grave conseguenza politica ed economica che i senatori si mantennero di regola lontani da quei traffici, che caratterizzavano i cavalieri, e anzi fu loro proibito di trafficare: per quanto non mancassero modi di violare il divieto, i senatori impegnarono di solito la loro ricchezza in possessi immobiliari (latifondi), mentre i cavalieri avevano la ricchezza mobile necessaria alle loro imprese commerciali. Mutò pure, in seguito alle grandi conquiste, il rapporto tra Roma e gli alleati italici. La politica romana fu senza dubbio loro favorevole nel senso che aprì loro i mercati di Oriente e li liberò dalla concorrenza cartaginese. Non solo, nell 'Oriente ellenistico, tutti gli Italici valevano ormai come Romani e ne condividevano il prestigio. ·Ma l'oligarchia senatoria tendeva a imporre la sua autorità tra gli alleati, come entro lo Stato romano, violandone i diritti di autonomia. E poiché ogni impresa era compiuta nel nome di Roma e diretta da Romani, gli alleati furono messi tanto più in subordine, quanto più le guerre diventarono facili e di esito sicuro. La coscienza della propria invincibilità fece dimenticare ai Romani che la forza del loro Stato stava nella solidarietà con gli Italici. Si cominciarono a usare disuguaglianze nella distribuzione del bottino di guerra e nell'assegnazione dei lotti nelle colonie, che prima non erano abituali. Mentre s'impedì ai generali di condannare a morte e anche di battere con verghe un soldato che fosse cittadino romano, rimase loro facoltà di infliggere queste punizioni ai non cittadini: cioè si creò una disparità insopportabile. Si comprende che la cittadinanza romana fosse sempre più desiderata e che in ispecie cercassero di ottenerla i Latini, a cui restava il vecchio diritto di ottenerla trasferendosi in Roma o in colonie romane. Ma, appunto perché era più desiderata, i Romani opposero sempre nuovi impedimenti all' ottenerla.

La trasformazione interna di Roma

Trasfonnazioni, meno rilevanti, ma significative dal punto di vista politico, accaddero anche nell' esercito. Oltre la tendenza dei cittadini romani a far rilassare la disciplina militare e la durata della fenna, si scorge la tendenza di molti giovani nobili o ricchi a non più militare nei manipoli, ma costituire dei gruppi privilegiati, «distaccati» presso il Comando Supremo come osservatori. Era abitudine, che facilitava la fonnazione dei futuri comandanti, ma dava maggiore rilievo al processo di proletarizzazione dell'esercito che avveniva contemporaneamente. In tempi più antichi, i proletari - cioè i nulla tenenti esclusi dalle cinque classi serviane - non militavano nell' esercito che nei casi più gravi. Ora, col ridursi del ceto medio (cfr. il paragrafo seguente), i proletari divennero sempre più numerosi in quanto chi partiva piccolo possidente rischiava di ritornare proletario. Anche le esenzioni dal servizio militare dei membri delle classi alte si fecero più frequenti.

8.2

89

I poveri aumentano nell' esercito

La trasformazione economica

Le guerre avevano decimato i piccoli possidenti che le avevano combattute, li avevano inoltre ridotti in miseria. Per quanto, con la fondazione delle colonie nell'Italia settentrionale, si fosse anche cercato di porre qualche rimedio a questo depauperamento della classe, su cui fino allora si era fondata la fortuna di Roma, i benefici furono scarsi. Si accrebbe a dismisura il proletariato; e d'altro lato le piccole proprietà furono assorbite sempre di più dai grandi proprietari, cioè il latifondo si moltiplicò. Se infatti la maggioranza dei Romani, anzi degli Italici, decadde economicamente, le classi alte accrebbero enonnemente le proprie ricchezze. I comandanti degli eserciti, i governatori delle nuove province fecero immensi bottini; i commercianti e appaltatori ebbero nuovi vasti campi per la loro attività. Nei mercati d'Oriente gli Italici, sostenuti dal prestigio morale e anche da privilegi concreti, fecero una concorrenza fortunata ai mercanti levantini e spesso li soppiantarono. Delo, il nuovo porto franco, fu invaso dagli Italici e più tardi il centro della vita commerciale si sposterà addirittura in Italia, rendendo inutili le franchigie di Delo stessa, che infatti nel I sec. dovettero essere abolite. La sproporzione tra le alte classi - di continuo progredienti - e le basse divenne più profonda. Si aggiunse che le guerre diedero la possibilità di introdurre in Italia centinaia di migliaia di schiavi e quindi il lavoro servile sostituì il lavoro libero, in ispecie nella agricoltura, con le conseguenze che facilmente si intendono per il fenomeno della proletarizzazione. Erano schiavi avuti per nulla o al più comperati a vilissimo

La crisi dei piccoli possidenti

Cresce il divario tra poveri e ricchi

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La «prima guerra servile»

Il Senato trascura i problemi sociali

Manuale di storia romana

prezzo e tenuti così male da provocare la loro rivolta. Una prima ribellione, che per la sua estensione merita il titolo datole di prima guerra servite si ebbe appunto circa il 135 a.c. in Sicilia. Uno schiavo siriaco Eunus si impadronì di Enna con un gruppo di rivoltosi, si proclamò re col nome di Antioco ed ebbe modo di estendere il suo governo terroristico ad Agrigento, Catania e Tauromenio: solo nel 132 fu domato. Ma una seconda ribellione durò tra il 104 e il lO l a.C. sempre in Sicilia (seconda guerra servi/e) a riconfermare la gravità del pericolo. L'accentramento dei terreni nel latifondo rese anche più facile la trasformazione della produzione agricola. Un tempo il prodotto principale era il grano; ora si dimostrò più redditizio per i grandi latifondisti la coltivazione dell'ulivo e della vite e l'allevamento del gregge - che davano merci largamente esportabili fuori d'Italia - mentre il grano si poteva importare con facilità dalla Sicilia e dall'Africa e anzi era in parte fornito direttamente allo Stato romano dal tributo in natura dei provinciali. Non c'è dubbio che lo Stato romano, appunto per i tributi che gli venivano dalle province sia in natura sia in denaro, aveva potuto facilmente rimettere in sesto le sue finanze: tant'è vero che non solo pagò i debiti contratti durante la seconda guerra punica, ma dal 167 a.c. abolì ogni tributo per i cittadini romani. Mancava però alle classi dirigenti ogni volontà e ogni capacità di fare una politica che giovasse sistematicamente ai piccoli proprietari in decadenza. E dicevamo che mancava non solo la volontà, bensì anche la capacità, perché lo Stato romano era allora troppo impegnato in guerre e questioni diplomatiche, perché i problemi economici apparissero così urgenti da sembrare degni di essere studiati a lungo. Quando un aristocratico imbevuto di cultura greca, Tiberio Gracco, porrà all'ordine del giorno la restaurazione economica della classe dei piccoli proprietari, provocherà la rivoluzione.

8.3

La cultura Greca influenza Roma

La trasformazione culturale

Non si intende certo tracciare qui l'evoluzione dello spirito romano nei suoi contatti col mondo greco. Ma basta il fatto che gli Scipioni e i Gracchi, nella loro politica diversissima (Scipione Emiliano sarà il maggiore avversario di Tiberio Gracco), partissero da presupposti venuti loro dalla cultura greca, perché appaia necessario almeno un cenno di quello che fu in realtà l'aspetto più profondo della trasformazione di Roma. Era la prima volta nella storia antica che un popolo assorbiva così intimamente la cultura di un altro popolo senza perdere la sua originalità. La cultura greca passò in Roma senza distruggere né i limiti dello spirito romano - scarso senso per i problemi logici e metafisici e per

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La trasformazione interna di Roma

la ricerca scientifica - né le sue forze - senso giuridico ed etico, consapevolezza del valore della tradizione, volontà di realizzazione. Accadde quindi che i Romani potessero assorbire la cultura greca fino a farla diventare parte di se stessi, senza mai sentirsi perciò identici ai Greci. Una tale situazione rese possibile quella collaborazione con i Greci, che, soprattutto nei primi secoli dell'impero, fu uno dei sostegni dello Stato romano, ma non pennise la piena fusione dei due elementi: ciò che, venuta la crisi, provocherà la divisione della parte di cultura greca e della parte di cultura latina nei due Imperi di Oriente e di Occidente dai figli di Teodosio in poi. Elementi della civiltà greca penetrarono in Roma prestissimo, sia attraverso gli Etruschi, sia direttamente nei contatti con le colonie greche d'Italia, da una delle quali, Cuma, giunse a Roma l'alfabeto. Ma non furono elementi singoli, in ispecie divinità (v. il paragrafo seguente), che incisero profondamente la vita romana. Ben diverso fu l'influsso che cominciò a manifestarsi nel III secolo a.c. con la conquista dell'Italia meridionale. Allora, tutte le abitudini, tutti gli schemi mentali, tutte le convinzioni dei Romani furono scossi dal confronto con la civiltà greca. L'attrazione dovette combattere con la repulsione di chi pensava che la raffinatezza greca avrebbe distrutto le antiche virtù indigene; ma è caratteristico che lo stesso campione dell' antiellenismo, Catone, non potesse sottrarsi alla influenza di quella cultura e imparasse anche (a quanto sembra) i rudimenti della lingua greca: il suo trattato sull'agricoltura e la sua opera storica sulle Origini (v. p. 18) imitano indirettamente tipi letterari ellenistici. In definitiva la cultura greca vinse e dominò in Roma; la reazione non fu tuttavia inutile perché impedì che fosse accettata supinamente. Alla sua vittoria contribuì la massa dei Greci, che come schiavi, ostaggi o anche temporaneamente come ambasciatori confluì in Italia. Schiavi, come Livio Andronico; ostaggi, come Polibio; ambasciatori, come Panezio e Carneade, furono appunto gli introduttori della cultura greca. La cultura latina più antica era stata estremamente semplice. Carmi religiosi e conviviali, nenie per i morti, improvvisazioni dialogiche in versi satirici (fescennini), elogi, registrazioni annalistiche dei sacerdoti, laudazioni funebri, composizioni teatrali importate dagli Osci della Campania (favole atellane) o forse anche di origine indigena (se composizioni teatrali sono le più antiche saturae, ciò di cui si discute): tali le più antiche produzioni letterarie, che siano state conosciute nel Lazio. Un greco condotto schiavo da Taranto il 272 a.c., Andronico (detto Livio dal nome del suo proprietario che lo liberò), traduceva nell'antico verso romano saturnio l'Odissea e componeva tragedie e commedie e inni ispirandosi a modelli greci. Egli, primo, dava l'avvio a quella penetrazione della letteratura greca, che sarà però immediatamente ripen-

L'ellenizzazione di Roma

Gli intellettuali Greci in Italia

Livio Andronico

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Manuale di storia romana

La «contaminazione» culturale

L'interesse per la filosofia greca

sata con sentimenti romani da Cn. Nevio, un campano cosÌ romanizzato da prendere viva parte alle contese fra gli aristocratici romani (egli stette contro gli Scipioni e i Metelli) e da scrivere un poema sulle lotte tra Roma e Cartagine (Bellum Poenicum) e una tragedia sulla vittoria di Marcello sui Galli (Clastidium). E che appunto un campano come Nevio o un iapigio come Quinto Ennio -l'autore degli Annali (v. p. 18) - o un umbro come Plauto, il commediografo che trasformò le sue imitazioni e traduzioni di commedie greche con un evidente spirito indigeno - divenissero i maggiori rappresentanti della letteratura latina arcaica, è il più elevato segno della unità spirituale che Roma aveva già saputo creare in Italia: si può dire forse inoltre che sotto la spinta della cultura greca gli Italici si rivolsero ancora di più a Roma per trovarvi una tradizione storica che impedisse loro di sentirsi privi di originalità e dignità di fronte ai Greci. I Romani, attraverso alla letteratura, si assuefacevano ai modi di pensare greci, alla complicata casistica sulla vita sentimentale e morale, che era propria delle opere ellenistiche. Penetravano in Roma non solo nuovi gusti artistici e nuove abitudini di vita, ma anche nuove irrequietudini, nuove aspirazioni. Estranei ai problemi logici della filosofia greca, i Romani non rimasero però altrettanto indifferenti alle teorie sulla morale e la religione. Il pitagorismo, sempre vivo nell 'Italia meridionale, era divulgato in Roma da alcuni scritti di Ennio ed era corrispondente a certe esigenze mistiche della religiosità contemporanea. Sarebbe però erroneo ritenere che abbia avuto allora molta importanza: era troppo lontano dai problemi più immediati che offriva la politica del tempo, e avrà perciò successo più tardi, tra la fine della repubblica e il principio dell 'impero, quando il bisogno di rinnovamento religioso sarà più accentuato. Stoici, epicurei e scettici erano invece i filosofi, che esprimevano i problemi del momento: problemi dei rapporti fra l'individuo e lo Stato, della giustizia, del diritto di conquista etc. Nel 173 due filosofi epicurei erano espulsi da Roma per ordine del Senato, timoroso delle conseguenze del nuovo insegnamento; ma nel 159 otteneva grande successo il filosofo stoico Cratete di Mallo, e quattro anni dopo Carneade, l'accademico con tendenze scettiche, scandalizzava i Romani con la sua asserzione che non esisteva una giustizia assoluta: intorno al 144 assumeva parte predominante, accanto a Polibio, nel circolo degli Scipioni lo stoico Panezio, di cui era allievo lo storico e filosofo Posidonio, il continuatore di Polibio nell 'indagine sulla natura dello Stato romano con più precisa tendenza a comprenderne l'imperialismo. Nei gruppi che si raccoglievano intorno a questi pensatori il problema principale era sempre il medesimo: su quale diritto si fondava o si poteva fondare la supremazia di Roma. La risposta di Carneade era ovvia: sull'inesistenza del diritto, cioè sul diritto del più forte. Risposta.

La trasformazione interna di Roma

che non avrà mancato di influire, in un momento di disorientamento, come quella che stava passando Roma nel II sec., a spingere molti giovani romani sulla via dell' assenza di scrupoli. Ma la risposta, che diventerà il credo dell 'imperialismo romano, sarà invece quella di Panezio, per cui la supremazia era tutela di giustizia e diritto del più saggio. Da questa teoria, che richiamava i Romani al senso della responsabilità della loro situazione e nello stesso tempo faceva presa sul sentimento del dovere e del diritto cosÌ radicato in loro, si svolgerà tutto il lento e penoso sforzo di parificazione di vincitori e vinti, dominatori e dominati, che costituisce il motivo più profondo della storia romana. Né è caso che queste teorie si diffondessero in Roma proprio negli anni in cui, come vedremo, si proponevano il problema della parificazione degli Italici e l'altro della ridistribuzione dell' agro pubblico.

8.4

93

Le basi teoriche dell'Impero romano

La trasformazione religiosa

Il rinnovamento religioso è un aspetto della trasformazione culturale. Tuttavia, non solo per ragioni esteriori di opportunità, può essere trattato separatamente. Infatti, mentre la letteratura e la filosofia greca penetrarono in Roma per iniziativa privata e spesso contro la volontà dello Stato, la religione greca - anche prima del periodo di cui stiamo parlando - è introdotta in Roma specialmente per iniziativa ufficiale, quale misura atta a conservare la pax deorum. La religione romana più antica era stata caratterizzata dal riconoscimento di una quantità di forze divine inerenti a ogni aspetto della vita umana. Non c'era atto nella vita quotidiana che non fosse presidiato da un numen, una entità reale, ma vaga, non mai antropomorfizzata. Gli stessi morti erano vaghe entità divine (mani; larve); gli spiriti degli antenati erano pure altre divinità (fari), e divinità erano gli spiriti della casa (penati): ogni individuo maschio era posseduto o protetto da una forza soprannaturale, il genio, a cui imitazione (per quel che sembra) si attribUÌ a ogni donna per protettrice una giunone, il cui rapporto con la ben nota dea protettrice della vita femminile Giunone - sposa di Giove - è incerto, supponendo alcuni che Giunone non sia altro che l' astrazione delle varie personali giunoni e altri invece il contrario. Tra i numi che presiedevano a singole cose avevano particolare importanza Giano, il dio delle porte, e Termine, il dio dei termini dei campi. C'era poi una divinità per ogni singolo mestiere, come Minerva per gli artigiani e Mercurio per i mercanti. E infine i grandi fenomeni naturali avevano le loro divinità, ma con importanza ben minore che non presso altri popoli indoeuropei: Giove era il vecchio dio indo-europeo della luce celeste; Tellure la personificazione divina della terra. È discussa l'origine di

L'influsso della religione Greca

I «Iari» e le antiche divinità italiche

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Manuale di storia romana

I riti privati e le divinità familiari

L'influsso etrusco nei culti

Gli dei greci aRoma

Vulcano, il dio del fuoco, che taluno, forse a torto, vorrebbe di provenienza etrusca, e di Vesta, la dea del focolare domestico, chiaramente corrispondente alla greca Hestia e perciò da taluno ritenuta importata dalla Grecia. C'era inoltre una divinità della germinazione, Cerere, un'altra, che in tempo più antico oscillava tra il carattere guerriero e la protezione dei campi, Marte etc. Comunque sia nei particolari, fra queste forze vaghe che pervadevano ogni momento della vita, si svolgeva l'attività dell'antico Romano; appunto perché egli si sentiva circondato da tante forze divine semiignote, era portato ad affidare a collegi speciali di sacerdoti la cura che esse non fossero offese (v. p. 24). Ma anche nella sua vita privata non mancava di ricorrere a tutte quelle formule, incantesimi, purificazioni, sacrifici che potessero propiziargli gli dei buoni e allontanare da lui gli dei cattivi. Particolare importanza e significato avevano poi i culti gentilizi, cioè quelli che raccoglievano nella venerazione di una determinata divinità o nell'adempimento di speciali cerimonie tutti i membri di una gente. Nel sentirsi accompagnato in tutta la vita da forze divine, nello scorgere nel culto un legame familiare e gentilizio, stava una delle più profonde radici della serietà del Romano antico. In questo fondo religioso indigeno si vennero a sovrapporre gli elementi introdotti dalla Etruria e dalla Grecia (questi ultimi, almeno in un primo tempo, trasmessi pure in parte dalla Etruria). Il concetto della triade divina, il perfezionamento delle pratiche degli auguri con l' apporto delle più elevate dottrine degli aruspici etruschi, la pratica religiosa-militare dei trionfi, forse la stessa forma del tempio (che risale per altro nelle più lontane origini alla disposizione della terramare) erano di origine etrusca: e per influenza etrusca i Romani impararono a incarnare le forze divine in figure umane. Il grande tempio a Giove Capitolino costruito agli inizi della repubblica conteneva statue dell'etrusco Volca di Veio. Attraverso l'Etruria arrivò probabilmente a Roma il culto di Eracle, che divenne Ercole, di Castore e Polideuce (che divenne Polluce) e forse di Persefone (che divenne Proserpina). Altre divinità furono invece introdotte dal mondo greco direttamente: così Apollo, il cui culto è già presupposto dai libri sibillini, che. giunsero da Cuma a Roma al principio del V sec. a.c. e vi godettero sempre - come libro di consultazione, quasi un oracolo -la più grande autorità. Nel 496 fu introdotto il culto della triade Demetria, Bacco (Dioniso), Core già conosciuta in Roma sotto l'altro nome di Persefone. Demetra fu identificata con Cerere, Bacco fu detto Libero e Core (non scorgendo chiaramente la sua identità con Persefone) fu detta Libera. cioè rispettivamente figlio e figlia. Ancora nel III sec. si nota l'introduzione del culto di Asclepio, il dio della medicina (che divenne Esculapio); mentre precisamente nel 204.

La trasformazione interna di Roma

alla fine della seconda punica, fu introdotto dall' Asia minore il culto orgiastico di Cibele, la Magna Mater. Intanto erano accolti in Roma anche i culti specifici delle città italiche via via vinte e sottomesse per la norma di propiziarsi le divinità dei vinti affinché non volessero vendicare la sconfitta dei loro protetti: il culto di Giunone come regina, fu, ad esempio, introdotto da Veio, quando Veio fu distrutta. E venivano pure adottate forme di culto greche, come i lettisterni, cioè i banchetti alle divinità in occasione di pericoli, pestilenze etc. Ma ancora non era la piena identificazione del mondo degli dei romani con l'Olimpo greco, che si effettuerà a poco a poco tra il II e il I sec. a.C., trasferendo alle divinità romane i caratteri degli dei Greci: la divinità agreste Venere diventerà una copia di Afrodite, Vulcano sarà Efesto, Giove lo Zeus olimpio, Giunone sarà Hera, Minerva Atena etc. La religione si eleverà formalmente, acquisterà la plasticità delle forme divine greche, ma perderà quella intensità interiore, che era propria della religione romana più antica. Forse il processo era inevitabile, perché tutte quelle vaghe forze divine potevano reggere a una riflessione più matura, che cercasse di dare ordine e gerarchia alle divinità: ciò che si trovava già fatto da secoli in Grecia. Ma resta che il predominio delle forme greche coincide con la decadenza della religiosità romana.

Bibliografia Per la trasformazione economica T. FRANK, An economie History of Rome, 2~ ed., Baltimora 1927 (trad. it. Storia economica di Roma, Firenze 1924; J. HATZFELD, Les trafiquants italiens dans l'Orient hellénique, Parigi 1919. Le conseguenze della guerra annibalica sull' economia e la società dell 'Italia antica sono state focalizzate in un libro famoso: A.J. TOYNBEE, Hannibal's Legacy: the Hannibalic War's Effects on Roman life, London 1965, trad. it. L'eredità di Annibale: le conseguenze della guerra annibalica nella vita romana, Torino 1981-1983. Per la romanizzazione delle comunità indigene locali dell 'Italia centro-settentrionale: E. SERENI, Comunità rurali nell' Italia antica, Roma 1955; R. CHEVALLIER, La romanisation de la Celtique du Po, Roma 1983; D. FORABOSCHI,

Lineamenti di storia della Cisalpina romana: antropologia di una conquista, Roma 1992; W. V. HARRIS, Rome in Etruria and Umbria, Oxford 1971. Sull'influenza del pensiero greco sull'imperialismo romano si v. per esempio W. CAPELLE, Griechische Ethik und romischer Imperialismus, in «Klio», XXV, 1932, pp. 86-113; G. GARBARINO, Roma e lafilosofia greca dalle origi-

ni alla fine del 2. secolo a.c.: raccolta di testi con introduzione e commento, Torino 1973. Su Roma e la cultura greca: E.S. GRUEN, Culture and National Identity in Republican Rome, Ithaca, N.Y. 1992; E. GABBA, Aspetti culturali dell' imperialismo romano, Firenze 1993.

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L'identificazione con l'Olimpo greco

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Manuale di storia romana

Sull' ellenizzazione della religione romana resta sempre importante F. ALTHEIM, Grieehisehe Gotter in alten Rom, Giessen 1940; su specifiche divinità cfr. per es.: J. BAYET, Les origines de l' Hereule romain, Paris 1926; R. SCHILLING, La religion romaine de Vénus, Parigi 1954; H. LE BONNIEC, Le eulte de Cérès à Rome, Parigi 1958; M. TORELLI, Lavinio e Roma, Roma 1984.

Dai Gracchi alla guerra sociale CAPITOLO

9.1

NONO

La questione dell'agro pubblico e la legge di Tiberio Gracco (133-132 a.C.)

Dei molti problemi, che la trasformazione dello Stato romano - quale abbiamo delineato nel precedente capitolo - coinvolgeva, due si imposero con particolare gravità tra gli ultimi decenni del II sec. a.c. e l'inizio del I a.c.: il problema agrario, che significava poi la restaurazione della classe dei piccoli possidenti, e il problema dei socii italici, i quali esigevano la parificazione, cioè la concessione della cittadinanza romana. E poiché un aspetto del problema agrario era quello se si dovessero ammettere i non cittadini ai benefici che si ritenevano necessari per i Romani, la connessione dei due problemi era, anche a prima vista, strettissima. Sappiamo che le terre confiscate al nemico costituivano l'agro pubblico. Lo Stato romano poteva venderlo, poteva servirsene per fondare delle colonie o per assegnazioni individuali (viritane) di terre, poteva anche appaltarlo; ma di solito lo concedeva in uso a chi volesse occuparlo, purché pagasse una tassa, vectigal, che consisteva nella decima dei profitti dei campi e nella quinta di quelli dei terreni arborati e delle vigne. L'unica limitazione all'occupazione era, probabilmente dal tempo della legge Licinia Sestia del 367 a.C., che nessuno poteva occupare più di 500 iugeri. Ma si comprende che riuscisse facile in molti modi ai capitalisti di procurarsi dell' agro pubblico per misure ben maggiori: la possibilità di fare occupare il terreno da un presta-nome qualunque, che poi lo avrebbe ceduto, la tendenza dei funzionari romani a chiudere entrambi gli occhi per le prevaricazioni di membri della medesima aristocrazia, l'impoverimento dei detentori di piccole porzioni, che erano costretti a cederle, erano tanti fattori dell' accentramento dell'agro pubblico in mano di pochi. Per ridare terre ai contadini che ormai ne erano privi, Tiberio Sempronio Gracco, divenuto tribuno della plebe, propose nel 133 a.c. che fossero revocati tutti quei possessi di agro pubblico che si rivelassero abusivi, fosse impedito di averne più di 500 iugeri, eccetto nel caso che

Il problema agrario

L'organizzazione dell'«agro pubblico»

Tiberio Gracco

98

Manuale di storia romana

Le riforme di Tiberio Gracco

L'ostilità degli ottimati

Tiberio Gracco assassinato

il detentore avesse uno o più figli nel quale caso poteva rispettivamente giungere a possedere 750 o 1000 iugeri. Ogni possesso inferiore a 500 iugeri non sarebbe stato sottoposto più a tributo e sarebbe stato valido per sempre. I terreni recuperati, togliendoli agli illegittimi possessori, dovevano essere distribuiti a cittadini poveri, che non li avrebbero mai potuti cedere ad altri; questi terreni dovevano pagare un tributo. L'ager campanus risultante dalle confische nel territorio di Capua al tempo della seconda guerra punica non doveva essere sottoposto a nuova distribuzione, perché già fin d'allora troppo redditizio allo Stato romano. Sembra accertato che gli Italici avrebbero dovuto subire i danni della legge, in quanto anche le porzioni di agro pubblico che fossero venute in loro mani dovevano essere sottoposte a revisione, ma non i vantaggi, perché non era contemplata una redistribuzione a loro favore. Il proponente - Tiberio Gracco - apparteneva a una famiglia imparentata strettamente con gli Scipioni (sua madre era figlia dell' Africano), che aveva portato alle estreme conseguenze il filellenismo dei medesimi adottando gli ideali democratici della Grecia: e perciò con gli Scipioni non andava d'accordo. Tiberio Gracco e suo fratello Gaio saranno gli unici veri democratici di Roma antica: educati a queste convinzioni da celebri maestri greci, Diofane di Mitilene e Blossio di Cuma. Alla proposta di Tiberio si oppose l'aristocrazia senatoria, che trovò il suo strumento in un tribuno collega di Tiberio, Marco Ottavio. Questi oppose il veto alla proposta: Gracco cercò di farlo ritirare opponendo veto a veto e paralizzando la vita dello Stato. Ma quando il veto contro di lui fu rinnovato, si valse della sua autorità presso la folla per far destituire Ottavio, violando la norma che i tribuni non potevano essere rimossi dalla loro carica. Con la illegalità fu dunque fatta approvare la legge, e i triumviri furono scelti per attuarla nelle persone di T. Gracco, suo fratello Gaio e suo suocero Appio Claudio. Il Senato cercò di fare ostruzionismo ulteriore alla esecuzione della legge ormai votata; e Tiberio rispose, contro l'abitudine che delle province si occupasse il Senato, rivendicando al popolo il diritto di disporre del regno pergameno, ceduto proprio in quell'anno da Attalo III ai Romani per testamento. Poi pretese che il tribunato gli fosse rinnovato per l'anno seguente: ciò che, se non era illegale, era per lo meno contrario alle consuetudini. Egli voleva, evidentemente, impedire che la sua attività fosse messa in pericolo dalla cessazione della carica, che gli forniva le armi per la lotta. Gli avversari negarono la validità della candidatura di Tiberio: e trovarono nuovamente nei colleghi suoi i loro alleati. Ne nacquero conflitti. Alla violenza dei graccani si oppose la violenza ben altrimenti decisa degli oligarchici, guidati da P. Scipione Nasica. E Tiberio cadde ucciso. Ma non si osò abolire la legge da lui proposta (132 a.C.).

Dai Gracchi alla guerra sociale

99

Crisi sociale del Il secolo

La società romana repubblicana era costituita da soldati-contadini, che disponevano di appezzamenti sufficienti al loro mantenimento, ma non per aprire le loro merci al mercato internazionale. Nel Il secolo la società risulta profondamente trasformata in seguito alla guerra annibalica. La conquista dell'Italia e le confische di terre alle città che avevano parteggiato per· Annibale fecero sì che Roma disponesse di enormi estensioni di agro pubblico. Non aveva nemmeno avuto il tempo e il modo di organizzarlo tutto attraverso assegnazioni ai veterani e agli indigenti nell'ambito di deduzioni di colonie. Fu così che i potenti e i furbi riuscirono a farsi assegnare grandi latifondi, specie in Etruria e nel Meridione, che furono adibiti a colture curate da schiavi o all'allevamento, pure gestito attraverso gli schiavi. Questo fenomeno procurò ai latifondisti nuove fonti di guadagno e di incremento delle loro terre, anche a spese dei piccoli proprietari o affittuari. La piccola e media proprietà si ridusse in percentuale e molti soldati-contadini caddero in povertà. La questione emerse in tutta la sua gravità nel 133, al tempo di Tiberio Gracco. Questo fu il primo tribuno della plebe che ruppe l'equilibrio e la solidarietà fra la classe senatoriale e la funzione tribunizia. In favore dei Romani poveri, Gracco fece approvare una legge che permetteva di espropriare le terre di coloro che se ne erano appropriati in modo abusivo ed eccessivo (oltre 500 iugeri). L'applicazione della legge fu affidata ad una commissione di tre esperti, uno dei quali era lo stesso Gracco, e si è ritrovata finora, specie nel Meridione, una decina di cippi confinari posti in base all'opera della commissione. Dopo una dozzina di anni il lavoro della riassegnazione delle terre cessò e si decise che ognuno detenesse in proprietà quanto agro pubblico si trovava allora ad avere in possesso.

9.2

Gaio Gracco: la fine del moto agrario (131-121 a.C.)

Rivoluzionario contro le sue intenzioni prime, Tiberio Gracco aveva iniziato un moto, che egli certo non prevedeva. Non solo aveva provocato l'ostilità degli oligarchici, che non volevano rinunciare alle terre di cui si erano impadroniti, ma aveva anche suscitato l'agitazione degli alleati italici, soltanto danneggiati dalle sue proposte. Gli oligarchici, combattendo contro la sua legge, combattevano in fondo anche in favore degli Italici. Di fatto, il principale oppositore della legislazione graccana, Scipione Emiliano, si preoccupò appunto di impedire che le misure previste avessero applicazione tra gli Italici. Ma egli morÌ improvvisamente nel 129 prima di aver potuto fare approvare le sue proposte. Il partito graccano, rapidamente risorto dopo le prime persecuzioni, comprese - sia per opportunità, sia per convinzione - di dover modificare l'atteggiamento verso gli Italici. Iniziò quindi una decisa politica per introdurli nella cittadinanza romana. Nel 125 il console del partito

Il fronte contro le riforme agrarie

100

Il tentativo di concedere la cittadinanza agli Italici

Gaio Gracco

Un intellettuale dalla parte del popolo

Manuale di storia romana

graccano Fulvio Fiacco, propose di concedere la cittadinanza romana a tutti gli Italici che la volessero e di riconoscere a quelli che non la volessero il principale diritto dei cittadini romani, cioè il diritto di appello ai comizi contro l'imperio dei magistrati. La legge non fu approvata, ma fu - a quanto sembra - per lo meno impedito che fosse approvata la proposta in senso contrario di un tribuno della plebe favorevole all'oligarchia, Giulio Penno, che voleva cacciare da Roma tutti gli stranieri per impedire che vi potessero ottenere la cittadinanza romana. La protesta di Penno dimostra come l'oligarchia, giunto il momento di favorire sul serio gli Italici, si ritirasse precipitosamente indietro. La reazione tra gli Italici delusi fu immediata. La colonia latina di Fregelle, si ribellò, e fu domata solo con la strage. La colonia fu annullata e sostituita con una nuova romana, Fabrateria. Toccava a Gaio Gracco, eletto tribuna della plebe nel 123, di riprendere la politica agraria del fratello e a,ssociarla strettamente con la nuova politica di pacificazione tra Romani e alleati italici. Gaio era entusiasta come Tiberio, di cui era di nove anni più giovane; altrettanto imbevuto di cultura greca, di mente aperta e lucida come pochi, oratore tra i più grandi di Roma, disinteressato, se anche, come era quasi inevitabile nelle sue condizioni, fazioso. E, a differenza del fratello, era un rivoluzionario per davvero: che dal problema dell' agro pubblico sapeva elevarsi alla visione di una totale riforma dello Stato romano. Se i particolari della sua attività sono incertissimi, per le scarse notizie delle fonti, il complesso - cioè quel che conta veramente - è sicuro: egli tentò di trasformare lo Stato romano in senso democratico. Dopo aver fatto dichiarare illegali le condanne dei partigiani di suo fratello, perché avvenute senza deliberazione del popolo, Gaio, per lenire la miseria del proletariato e per accattivarsene il favore, fece decretare che ogni cittadino potesse prelevare a prezzo di favore dai granai dello Stato una certa quantità mensile di frumento. In tal modo veniva anche stabilito quasi automaticamente un calmiere sul prezzo del grano. Il favore ottenuto gli permise di avere senza difficoltà ciò che non era riuscito al fratello: la rielezione a tribuno per un secondo anno. È probabile però che una legge avesse sancito qualche anno prima esplicitamente la legittimità di questa rielezione. Alla fine del primo anno di tribunato e al principio del secondo appartengono - sembra - molte delle principali proposte di Gaio: riconferma della legge agraria nella sua piena estensione; creazione di alcune colonie, tra cui una sul territorio dell'antica Cartagine (col nome di Junonia) per dare al proletariato un nuovo sbocco oltremare; costruzione di grandi vie per alleviare la disoccupazione e permettere il rapido trasporto degli alimenti, senza eccessivi aggravi di spesa; introduzione del sistema che le centurie nei comizi centuriati fossero chiamate a votare secondo l'ordine stabilito volta per

Dai Gracchi alla guerra sociale

volta dalla sorte e non secondo l'ordine delle classi; attribuzione ai cavalieri di una parte preponderante o esclusiva nelle giurie, che dovevano giudicare le cause di corruzione (de repetundis) contro i governatori delle province, mentre, come sappiamo, queste giurie erano fino allora esclusivamente costituite da senatori; attribuzione ai cavalieri dell'esclusivo diritto di appaltare la riscossione delle imposte nella nuova provincia di Asia etc. Con queste due ultime proposte Gaio intendeva evidentemente acquistarsi l'appoggio dei cavalieri e contrapporli alla strapotenza dei senatori, mentre con la riforma del sistema di votazione (che fu accompagnata, per quel che sembra, dall'estensione del diritto di voto agli Italici che si trovassero in Roma e dall'attribuire maggior valore al voto dei Latini che già possedevano quel diritto) si dava la possibilità alle classi inferiori di contare nel confronto delle classi superiori, che fino allora, votando prime, bastavano a costituire la maggioranza. Gaio ritenne allora il tempo maturo per la sua proposta più rivoluzionaria, l'attribuzione ai Latini della cittadinanza romana e - forse agli altri Italici del diritto latino. Ma il suo collega Livio Druso, un avversario, fece delle controproposte che riuscirono più accette al popolo: fondazione di dodici colonie nuove, liberazione dei terreni distribuiti per la legge agraria da ogni tributo, concessione ai Latini della semplice parità di trattamento nella disciplina militare. Si capisce che la plebe romana, la quale non poteva vedere di buon occhio la estensione della cittadinanza romana, fosse lieta di una soluzione che, dando ai Latini un contentino, evitasse di trasformarli in Romani. Con il fallimento della proposta sulla cittadinanza, comincia la decadenza del prestigio di Gaio. Nel 121 non fu più rieletto tribuno. Nello stesso anno gli avversari vollero fare abolire alcuni suoi provvedimenti, tra cui la fondazione della colonia a Cartagine. Bande armate dei due partiti si organizzarono. Il Senato dichiarò con il così detto senatus consultum ultimum - allora per la prima volta promulgato - lo stato d'assedio. In uno scontro, i Graccani furono battuti, e Gaio, rifugiatosi in un bosco sacro, si fece uccidere da uno schiavo. I suoi partigiani furono perseguitati: alcuni suoi provvedimenti aboliti fra cui la fondazione della colonia a Cartagine. La legge agraria fu solo sottoposta a modificazioni, che apparentemente non ne cambiavano il carattere. Tra queste la più importante fu la trasformazione in piena proprietà privata dei lotti di agro pubblico fino allora concessi in usufrutto. Ma fu praticamente ottenuto che non si dovesse procedere a ulteriori revisioni dell'agro: cioè si pose di fatto fine al moto voluto dai Gracchi. E perciò il loro sforzo di ricostituire la classe dei piccoli possidenti non ebbe vera realizzazione se non in misura insufficiente. La reazione - pur procedendo con cautela e moderazione - era riuscita a soffocare il moto democratico, cioè il rivolgimento sociale. La

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Proposte di riforma per una maggiore democrazia

Gaio Gracco sostiene l'allargamento della cittadinanza

Sconfitta e morte di Gaio Gracco

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Nasce l'esercito «di mestiere»

Manuale di storia romana

conseguenza fu naturalmente che i proletari dovettero essere ammessi sempre in maggior misura nell'esercito per compensare i vuoti delle file dei possidenti. Ma il predominio dei proletari nell' esercito significò la trasformazione dell'esercito romano in esercito di mestiere, perché i proletari, senza altro mezzo di sussistenza che quello fornito dallo Stato, avevano, al contrario dei possidenti, interesse a essere tenuti sotto le armi, dove erano stipendiati. E la costituzione dell' esercito di mestiere ebbe l'ulteriore conseguenza di creare dei soldati devoti solo ai propri comandanti cioè di porre le basi per quella supremazia del singolo generale, che il Senato aveva cercato accuratamente di evitare dalla seconda guerra punica in poi. Il risultato fu quindi che l'oligarchia senatoria, combattendo quelle leggi agrarie che dovevano ricostituire la classe dei piccoli possidenti, preparò la trasformazione della repubblica in impero, cioè preparò la propria rovina. I primi sintomi si ebbero nella guerra giugurtina e nella lotta contro le invasioni dei Teutoni e dei Cimbri.

9.3

La campagna militare in Provenza

La conquista della Gallia meridionale e la guerra di Giugurta (121-105 a.C.)

Negli anni delle agitazioni graccane Roma faceva con relativa rapidità uno dei suoi più preziosi acquisti: la Gallia meridionale, quella che anche oggi chiamiamo Provenza, cioè provincia, in ricordo della sua posizione nell'impero. I Romani intervennero una prima volta negli anni 125-24 a.c. in aiuto dei loro amici e alleati di Massilia contro alcune tribù galliche; ma non fecero estese annessioni al di là delle Alpi: fondarono solo una piazza forte ad Aquae Sextiae. Ma nel 122 la guerra fu ripresa contro le tribù degli Allobrogi e degli Arverni, mentre fu assicurata l'amicizia degli Edui. Prima gli Allobrogi e poi gli Arvemi, comandati dal re Bituito, furono sconfitti. Nel 121 la Gallia a sud delle Cevenne - eccettuato il vasto territorio di Massilia - fu ridotta in una provincia, che sarà presto così totalmente romanizzata da poter essere definita da Plinio il vecchio «Italia verius quam provincia». Tre furono gli strumenti principali della romanizzazione: la fondazione di una grossa colonia romana a N arbona nel 118 (donde la provincia prese il nome di Gallia Narbonese); la costruzione della Via Domitia, che giungeva da Col du Perthus a Tarascona; le intense relazioni commercialI che immediatamente si stabilirono. Roma si assicurava con la costituzione della nuova provincia le comunicazioni dirette con la Spagna I. l

Nel 123 a.c. furono occupate anche le isole Baleari, e a Maiorca furono impiantati due stanZI,,' menti di cittadini romani.

Dai Gracchi alla guerra sociale

Non è da escludere che interessi commerciali avessero parte nella conquista della Gallia Narbonese: certo ne ebbero nella guerra contro il re di Numidia, Giugurta, guerra di cui Sallustio - un partigiano di Cesare - comprese l'importanza per la storia interna di Roma, quando le dedicò una opera speciale, ma di cui non indicò con esattezza i moventi. Micipsa, figlio di Massinissa, che aveva regnato dopo la morte del padre, lasciò il suo regno (118 a.c.) ai due figli Aderbale e lempsale e al nipote e figlio adottivo Giugurta. Giugurta uccise lempsale, poi cacciò dal trono anche Aderbale, contando sulle simpatie che egli godeva tra l'aristocrazia romana. Ma il Senato impose che il regno fosse diviso nuovamente tra Aderbale e Giugurta (116 a.c.). Pochi anni dopo Giugurta aggrediva una seconda volta il cugino, lo assediava in Cirta, capitale del suo regno, e lo costringeva alla resa: poi lo uccideva e con lui massacrava i commercianti italici residenti in Cirta, che lo avevano aiutato nella difesa della città (112 a.c.). L'intervento romano era inevitabile, e non si fece attendere; ma non fu tale da spingere le cose all'estremo. Il console del 111 Calpurnio Bestia, venuto in Africa con un esercito, fece pace con Giugurta a miti condizioni. Gli avversari della fazione dominante del Senato - della quale era capo Emilio Scauro - gridarono alla corruzione, impedirono che la pace fosse ratificata, pretesero che Giugurta venisse in Italia a fare i nomi delle persone da lui corrotte e, quando il Senato con il suo solito atteggiamento di acquiescenza, gli permise di tornarsene tranquillamente in patria, imposero, tra rinnovate accuse di corruzione, la ripresa della guerra. Può essere che Giugurta prima e dopo il suo arrivo a Roma avesse elargito del denaro, ma l'atteggiamento della maggioranza del Senato fu sempre coerente nel voler evitare una guerra a fondo, di cui non sentiva la necessità. Furono invece portavoce della ostilità contro la politica senatoria e nello stesso tempo espressione degli interessi dei commercianti romani danneggiati dai massacri di Cirta coloro che pretesero la guerra a fondo: e forse in loro la volontà di umiliare l' oligarchia dominante fu anche superiore alla considerazione di qualsiasi interesse concreto. La guerra fu lunga, sia per l'indecisione del Senato, sia per la scarsa abilità dei primi comandanti, sia infine per la difficoltà intrinseca delle operazioni militari. Le quali avevano la medesima difficoltà delle odierne campagne coloniali, in cui si combatte non contro eserciti regolari, ma contro bande armate sfuggenti. I Romani dovettero lentamente modificare la loro strategia: e lo fecero soprattutto dopo che assunse il comando della guerra Quinto Cecilia Metello, succedendo al generale Aulo Postumio, che si era lasciato vergognosamente battere e costringere a pace non riconosciuta dal governo romano.

103

La guerra contro Giugurta, re di Numidia

Giugurta corrompe il Senato

La nuova strategia militare di Metello

104

Manuale di storia romana

Con Metello la guerra fu avviata alla vittoria cacciando di luogo in luogo il nemico: e la vittoria venne col suo successore Gaio Mario, già suo legato, che ne proseguì il metodo con quella larghezza di mezzi che gli fu concessa dall'arruolamento volontario e stipendiato dei proletari italici, allora predisposto per la prima volta. Al principio del 105 la situazione era così disperata per Giugurta che il re di Mauretania, Bocco, suo suocero e alleato, si decise a tradirlo pur di avere salvo il proprio regno. Le trattative in proposito furono condotte dal legato di Mario, Lucio Silla, e portarono a prendere prigioniero Giugurta. La guerra era finita. Il regno di Numidia fu per grande parte lasciato autonomo sotto un nuovo re: solo una parte fu ceduta a Bocco di Mauretania.

9.4

Emerge Gaio Mario

La campagna contro i Cimbri e i Teutoni

Gaio Mario riforma la struttura della legione

La guerra contro i Cimbri e i Teutoni (105-102 a.C.)

Ignoriamo se il commercio romano ebbe, dopo la sconfitta di Giugurta, l'incremento che probabilmente si attendevano i partigiani della guerra. Il risultato più notevole della Giugurtina fu in ogni caso che Mario tornò in Italia con la fama di grande generale e con il seguito di un esercito di proletari fedelmente devoto. Il prestigio che lo aveva portato - homo novus - al consolato, si centuplicò e lo fece designare naturalmente come l'unico generale che potesse tenere testa alle tribù germaniche dei Cimbri e dei Teutoni, che emigrando dal nord e peregrinando in cerca di nuove terre, avevano invaso la Gallia e minacciavano di invadere l'Italia. Già nel 113 esse avevano battuto a Noreia presso il fiume Sava il console romano Papirio Carbone, ma invece di discendere in Italia, avevano fatto un lungo giro al di là delle Alpi per poi traversare il Reno e penetrare in Gallia (110 a.c.). Qui parecchi eserciti romani, inviati alla difesa della nuova provincia narbonese, furono ripetutamente battuti: più grave di tutte fu la sconfitta presso Arausio (Orange) nel 105, in cui due eserciti consolari - forse 60.000 uomini - furono distrutti. Tale era la situazione che Mario rieletto console nel 104 - e poi riconfermato nella carica fino al 100 con cinque rielezioni di seguito - fu chiamato a fronteggiare. Egli procedette a una energica riorganizzazione dell'esercito, raccogliendo molte truppe dagli Stati vassalli di Roma e soprattutto accrescendo il numero dei proletari. Inoltre modificò la stessa struttura tattica della legione. Oggi non si crede più che egli sia stato il primo a raccogliere i manipoli delle legioni a tre a tre (uno di hastati, uno di principes e uno di triarii) in coorti, imitando l'ordinamento degli ausiliari che già da tempo erano distribuiti con buon esito in coorti: ma sembra indubbio che egli portò all'estremo questa riforma, che da tempo si andava svolgendo, col togliere ogni differenza di armamento tra astati, principi e triari, e tutti armandoli di pilo e spada. Il che dava una

Dai Gracchi alla guerra sociale

superiore omogeneità alla legione, senza togliere i vantaggi della mobilità propria della tattica manipolare. Le circostanze favorirono i preparativi di Mario. I Germani fecero una deviazione in Spagna che li trattenne fino al 102. E nel 102, quando decisero di passare in Italia, commisero l'altro errore di dividersi: i Teutoni e gli Ambroni, che erano con loro, si avviarono attraverso la Gallia Meridionale; i Cimbri invece decisero di scendere attraverso il Brennero e i Tigurini - un'altra tribù congiuntasi con loro - scelsero la via delle Alpi Giulie. Il risultato fu che Mario poté battere ad Aquae Sextiae in Gallia Ambroni e Teutoni; poi scendere in Italia, dove il suo collega Lutazio Catulo non aveva saputo trattenere i Cimbri, e distruggerli ai Campi Raudii presso VercellF. I Tigurini rinunciarono a passare le Alpi. L'Italia era salva: salva per opera di un homo novus, che fondandosi sul prestigio nell'esercito, che egli aveva rinnovato (e dall'esercito proveniva la massa degli elettori), aveva ottenuto per ben cinque volte di seguito il consolato: una specie di dittatura quinquennale, fuori di ogni tradizione. Per la prima volta l'esercito si rivelava fattore perturbatore della costituzione romana, come entità a sé stante, non dipendente dal resto dello Stato.

9.5

Le vittorie di «Aquae Sextiae» e dei «Campi Raudii»

Il conflitto interno dei partiti e la questione degli Italici (103-92 a.C.)

La guerra giugurtina, poi l'ascesa di Mario sono fatti che bastano a dimostrare come la vittoria dell'oligarchia fosse limitata e corresse pericoli. La guerra di Giugurta era stata voluta essenzialmente dai cavalieri, cioè dagli uomini di affari, contro il Senato; l'ascesa di Mario che apparteneva alla classe dei cavalieri, era una conferma della potenza di questa classe e insieme rappresentava l'intervento nella lotta politica dei proletari arruolati negli eserciti. Del resto le riforme della votazione nei comizi centuriati - che la oligarchia non aveva osato annullare permettevano sempre più che le masse proletarie facessero udire la loro voce: e non era detto che gli aristocratici riuscissero loro a chiudere la bocca in ogni occasione per mezzo della estesissima corruzione elettorale. L'oligarchia senatoria era dunque tutt'altro che sicura: era anche troppo corrotta, troppo rosa da contese interne, per poterlo essere. Ma, spariti i Gracchi, non ci sarà più una vera democrazia contro di lei. Contro di lei ci sarà veramente solo la classe dei cavalieri con le sue ambi-

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105

La localizzazione di questa battaglia non è assolutamente sicura.

L'ascesa dei cavalieri

Lastrumentalizzazione delle masse

Manuale di storia romana

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Le riforme del tribuno Saturnino

La repressione del Senato

La parabola politica di Livio Druso

zioni e con le diverse finalità della sua politica; e ci saranno taluni dei generali col seguito dei loro eserciti. Nessuno farà più una politica favorevole al popolo per convinzione e per sistema. Piuttosto, i partiti avversi cercheranno ora l'uno ora l'altro di attrarre il popolo al proprio seguito con proposte a lui favorevoli. E insomma, la lotta che al tempo dei Gracchi era per il sollevamento delle classi popolari ora sarà tra senatori e cavalieri e capi di eserciti con tutte quelle avversioni personali e complicazioni nell 'interno di ciascun gruppo che ogni lotta ristretta porta con sé. Anche la concessione della cittadinanza agli Italici sarà per molti un semplice strumento di questa lotta, finché il brusco risveglio della rivolta degli alleati italici verrà a dimostrare in che conto invece andasse tenuta. Queste avvertenze permettono di comprendere senz'altro la politica iniziata nel 103 e ripresa nel 100 dal tribuno della plebe Appuleio Satumino con la solidarietà di Servilio Glaucia: politica che, riconnettendosi ai provvedimenti graccani, intendeva stabilire nuovi ribassi nei prezzi dei grani per il popolo, nuove distribuzioni di terre a favore dei veterani di Mario, sia nell 'Italia settentrionale, sia in Sicilia, sia altrove, mentre una legge che permetteva di condannare genericamente per offesa alla maestà del nome romano dava l'arbitrio di eliminare quegli avversari che si volessero. I provvedimenti erano democratici: l'animo semplicemente ostile alla nobilitas. Mario, che doveva pure provvedere ai suoi veterani - che, proletari, non potevano essere mandati a casa senza attribuire loro un pezzo di terra - stette un certo tempo con Satumino: poi lo abbandonò, quando vide che Satumino e Glaucia si valevano di metodi illegali (tra cui l'imposizione ai senatori di vincolarsi con giuramento a mantenere le leggi agrarie) a cui egli ripugnava o che gli sembravano pericolosi per la sua posizione personale. Il senato si poté quindi sentire, con l'appoggio di Mario, abbastanza forte per proclamare nuovamente, verso la fine del 100 a.c., lo stato d'assedio. E Mario si incaricò di eliminare con le armi gli amici di ieri, che si erano chiusi in Campidoglio. Nel 91 Livio Druso il giovane, figlio dell'avversario di Gaio Gracco, fece un nuovo tentativo di spostamento delle forze politiche, con la speranza di poter assidere il proprio potere personale su una serie di provvedimenti che gli conciliassero il favore di tutte le classi sociali. Per il popolo destinava una proposta per la fondazione di nuove colonie e una delle solite misure sul prezzo del frumento, per i cavalieri l'introduzione in senato di 300 loro nuovi membri; e infine per la classe senatoria - da cui proveniva e al cui appoggio particolarmente teneva - la restituzione (in modo che a noi non è chiaro) del predominio nelle corti di giurati per i processi di corruzione nell' amministrazione provinciale (de repetundis). Ma col voler accontentare tutti, Druso finì con il

107

Dai Gracchi alla guerra sociale

sollevare l'ostilità di futti. E compromise ulteriormente la sorte delle sue proposte col farsi campione della concessione della cittadinanza agli Italici, o per sincera convinzione o per evitare che gli Italici si opponessero, come al solito, a leggi agrarie da cui - dal tempo dei Gracchi - avevano solo da perdere. La conclusione fu che le leggi imposte da Druso furono annullate, appena approvate, e poco dopo Druso fu assassinato. Gli Italici, o almeno quelli di loro, che avevano visto in Druso il 10ro campione, si sollevarono. Roma, dopo più di un secolo, tornava ad avere i nemici intorno a sé, in Italia.

9.6

La guerra sociale e la concessione della cittadinanza agli Italici (92-89 a.C.)

Così bruscamente gli Italici richiamarono i politici di Roma a quella considerazione dei loro diritti, che solo Gaio Gracco, forse, aveva compreso intimamente. La maggior parte dell'Italia meridionale (eccettuato le città greche) insorse: i Marsi e i Sanniti furono alla testa della ribellione, a cui rimasero invece estranei Umbri ed Etruschi. La sede della lega costituita dai ribelli fu Corfinio, ribattezzata Italia. Due consoli e dodici pretori stettero alla testa della lega, coadiuvati da un senato di 500 membri: i particolari della costituzione sono però incerti. Educati agli ordinamenti militari romani, i ribelli poterono nel 90 infliggere ripetute sconfitte ai Romani, per quanto questi si giovassero del consiglio di generali come Mario e Silla. I Romani si decisero allora a concedere la cittadinanza richiesta. La concessero prima a quegli italici che erano ancora rimasti fedeli, poi a quelli che la chiedessero entro sessanta giorni dalla promulgazione della legge, cioè che desistessero dalla ribellione: infine si assicurarono la fedeltà dell 'Italia traspadana (provincia della Gallia cisalpina) concedendole la cittadinanza di diritto latino. Isolati e ridotti in tal modo i ribelli, meglio organizzata la lotta contro di loro, essi furono cacciati ad una ad una dalle loro posizioni. Nell'88 Silla, eletto console, poteva iniziare l'assedio di Nola, uno degli ultimi loro baluardi. E per quanto la presa della città fosse ritardata dalla guerra civile scoppiata tra i Romani (v. capitolo seguente), nell'88 la guerra sociale poteva dirsi conclusa. Vincitori erano i Romani; ma i vinti avevano più realmente vinto, perché avevano ottenuto nella maggior parte la cittadinanza romana, che era stata causa della lotta. L'enorme incremento della estensione del territorio romano (nel senso vero della parola) che conseguì a questa trasformazione degli al-

La ribellione degli alleati Italici

La concessione della cittadinanza romana

Silla eletto Console

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Manuale di storia romana

leati in cittadini non portò nessuna modificazione esteriore alla costituzione romana. Le città italiche furono costituite in municipi romani a sistema piuttosto uniforme: di regola i municipi costituiti dopo la guerra sociale si riconoscono subito perché stanno a loro testa quattro magistrati, i quattuorviri, divisi in due giudici, quattuorviri iure dicundo e in due soprintendenti all'amministrazione, quattuorviri aedi/es. Ma se nulla era modificato esteriormente nella struttura dello Stato romano, è ovvio che si rivelava sempre più la inconciliabilità tra una costituzione atta a governare una città con ristretto territorio e i compiti attuali dello Stato romano. Perciò la guerra sociale è un passo verso l'Impero.

Bibliografia Sulla nobilitas: F. MONZER, Romische Adelsparteien und Adelsjamilien, Stoccarda 1920. Per la questione agraria e i Gracchi E. MEYER in Kleine Schriften, I, 2~ ed., Halle 1924; G. CARDINALI, Studi graccani, Genova 1912; P. FRACCARO, Studi sul/' età dei Gracchi, Città di Castello 1913-14; M.A. LEVI, La costituzione romana dai Gracchi a Giulio Cesare, Firenze 1928; J. CARCOPINO, Autour des Gracques, Parigi 1928; G. CARDINALI, Capisaldi della legislazione agraria nel periodo graccano, in «Historia» 1933, pp. 517-37. Per la guerra giugurtina S. GSELL, Histoire ancienne de /' Ajrique du Nord, VII, Parigi 1928; G. DE SANCTIS, in Problemi di storia antica, Bari 1932. Si cfr. anche G. BLOcH, M. Aemilius Scaurus, Parigi 1909, e E. PAIS, M. Emilio Scauro in Dalle guerre puniche a Cesare Augusto, I, Roma 1918. Per la guerra sociale: G. DE SANCTIS, La guerra sociale, a cura di L. Polverini, Firenze 1976; E. GABBA, Le origini della guerra sociale e la vita politica romana dopo /'89 a.c., in «Athenaeum» 32, 1954,41-112. Per i municipi romani dopo la guerra sociale U. LAFFI, Colonie e municipi nello Stato romano, Roma 2007 (anche i suoi Studi di storia romana e di diritto, Roma 2001. Sull'organizzazione sociale: P.A. BRUNT, Italian Manpower. 225 B.C. - AD. 14, Oxford 1971. Sulle costituzioni municipali conservate in iscrizioni: Roman Statutes, a cura di M. Crawford, Londra 1996. Per le tribù e i sistemi di votazione dei comizi: L. Ross TAYLOR, The Voting Districts oj the Roman Republic, Roma 1960. Sull' esercito: E. GABBA, Esercito e società nella tarda repubblica romana, Firenze 1973.

Da Silla al primo triumvirato CAPITOLO

10.1

DECIMO

La guerra civile tra Mario e Silla e la guerra contro Mitridate

La guerra sociale aveva lasciato inevitabili strascichi. Le condizioni economiche dello Stato romano e dei privati avevano portato a leggi sulla riduzione dei debiti tali da suscitare gravi conflitti in Roma. Non si era poi d'accordo sul sistema secondo cui si sarebbero inclusi nelle tribù romane i nuovi cittadini italici: la nobilitas dominante pensava di limitare la loro influenza inscrivendoli in poche tribù (forse otto); gli avversari, che avevano ritrovato in Mario il loro campione, volevano invece la distribuzione in tutte le 35 tribù. Infine, nuovo e più grave motivo di invidia e di rivalità, venne la guerra contro Mitridate, re del Ponto. Anche questa era conseguenza delle contese interne di Roma e della guerra sociale nel senso che le preoccupazioni interne avevano impedito al Senato romano di sorvegliare con attenzione sufficiente ciò che stava avvenendo intorno alla provincia di Asia. Mitridate VI Eupatore, il re di uno Stato fortemente ellenizzato, nella Cappadocia settentrionale, aveva dal 115 circa in poi esteso il suo potere da ogni parte. Occupò la costa settentrionale del mar Nero, sottomettendo le città greche; e appunto dall'essere diventato re del Ponto Eussino, cioè del mar Nero, egli è di solito chiamato re del Ponto. Poi occupò la Armenia minore e, infine, s'impadronì della Paflagonia e della Cappadocia meridionale. Poiché i Romani si opposero (e con loro il re Nicomede III di Bitinia, in un primo momento suo alleato) Mitridate cedette, ma trovò modo di eludere il loro divieto e riaffermare la propria supremazia su quelle regioni: dopo la morte di Nicomede III intervenne anche in Bitinia. I Romani imposero nuovamente a Mitridate di ritirarsi, e questo accondiscese, ma appena Nicomede IV di Bitinia, succeduto al padre, fece una scorreria nel territorio pontico, egli decise di giuocare il tutto per tutto e partì in guerra contro Roma. Tutto l'elemento greco dell' Asia minore fu per lui. Era la reazione della civiltà ellenistica, che aveva trovato un nuovo campione; era nello stesso tempo l'espressione di un malessere economico aggravato, ma

Le conseguenze della guerra sociale

Mitridate, re del Ponto, occupa le coste del MarNero

Manuale di storia romana

110

La «pulizia etnica» degli Italici in Asia

La concorrenza tra Mario eSilia per guidare la guerra mitridatica

Scoppia la prima guerra civile

non provocato dai sistemi amministrativi romani. Le truppe romane della provincia non poterono resistere. Mitridate si avanzò come trionfatore. Ma non bastava a lui e non bastava ai Greci, che sentivano fortemente la concorrenza dei commercianti italici e odiavano con loro anche gli appaltatori dei tributi di Roma, aver cacciato i soldati. Si vollero eliminare tutti gli Italici residenti in Asia e, a un dato segnale, ne furono ammazzati 80.000, una delle più atroci stragi della storia. Intanto Mitridate aveva allacciato, ma con poco esito, relazioni con gli ultimi ribelli della guerra sociale e, con ben altro successo, aveva pensato di estendere la ribellione in Grecia. Atene gli aprì le porte, e parve in quel momento che tutta la Grecia dovesse riprendere la lotta contro Roma (88 a.c.). Qui intanto le opposte ambizioni si urtavano. Il comando della guerra contro Mitridate toccava al console Silla, ma lo desiderava ugualmente Mario, che, fino alla guerra sociale considerato il più grande generale della repubblica e abituato a vedersi affidati i comandi più delicati, non poteva sopportare di essere posposto a Silla, che era stato per molti anni ai suoi ordini. La rivalità si complicò con la questione degli Italici. Il tribuno Sulpicio Rufo, che propose la distribuzione degli Italici nelle 35 tribù, propose anche la sostituzione di Mario a Silla nel comando in Oriente e fece approvare entrambe le leggi. Silla, dopo esser tornato tra i suoi soldati all'assedio di Nola, si ribellò e marciò con le sue legioni su Roma. Agli avversari non restò che fuggire, e Silla fu padrone del campo. Se Mario aveva trasformato la compagine dello Stato romano, accogliendo i proletari nelle sue legioni, ora Silla ne coglieva l'estremo frutto. I legionari erano pronti a marciare dietro il loro generale anche contro i loro concittadini. A Roma Silla restò poco. Ma quel poco gli bastò non solo a cassare le leggi degli avversari, ma anche ad abbozzare una nuova costituzione. Per quanto i particolari siano incerti, sembra probabile che Silla volle allargare l'autorità del Senato e dei comizi centuriati a spese rispettivamente dei tribuni e dei concilii tributi della plebe. Poi Silla partì con le sue legioni per la Grecia (87 a.c.). Ma egli non prevedeva che uno dei due consoli eletti con il suo appoggio per 1'87. Lucio Cornelio Cinna, si sarebbe schierato dalla parte di Mario fuggitivo. Se il collega Gneo Ottavio riuscì per un momento a cacciarlo dalla città, Cinna seppe assicurarsi la fedeltà di un'armata che era in Campania, poi si riunì con Mario, che aveva trovato il modo di organizzare un esercito di schiavi fuggitivi in Etruria, e marciò su Roma. A distanza di circa un anno, Roma fu occupata una seconda volta. in mezzo alle stragi. Cinna e Mario diventarono consoli per 1'86, ma il 13 gennaio di quell'anno il vecchio Mario moriva, restando col desiderio inappagato di strappare a Silla il comando in Oriente. Moriva la-

Da Silla al primo triumvirato

sciando partigiani fedeli, ma nessun programma appunto perché tutta la sua forza era stata nel comando degli eserciti e tutta la sua ambizione nel dominare lo Stato per mezzo loro. Cinna restò il padrone di Roma e, con nuovo atto arbitrario, quell'anno e i due anni seguenti scelse di volontà sua, senza nomina dei comizi, il console che doveva essergli collega. Nulla poteva meglio esprimere il desautoramento di tutti gli organi normali dello Stato.

10.2

111

Cinna padrone di Roma

La vittoria su Mitridate e il ritorno di Silla a Roma

In Grecia Silla aveva ottenuto rapidi successi. Solo Atene resistette a lungo nell 'inverno 87/86 e fu occupata nell' 86 con strage spaventevole, che segnò la decadenza definitiva della città. Poi nello stesso anno Silla batté a Cheronea un esercito inviato da Mitridate e ad Orcomeno un secondo molto più forte. Ma tra le due battaglie era arrivato in Grecia con sue truppe il console Valeria Fiacco, inviato da Cinna a sostituire Silla nel comando della guerra. La sostituzione era evidentemente impossibile, né Fiacco era così privo di senso di responsabilità da suscitare una guerra fratricida davanti al nemico comune. Si limitò perciò ad agire per conto suo, riconquistando la Macedonia occupata da Mitridate e di là avviandosi verso l'Asia. Per quanto, arrivato a Bisanzio, fosse ucciso in una sommossa organizzata dal suo legato Flavio Fimbria, l'efficienza dell'azione da lui predisposta non diminuì. L'esercito di Fimbria procedette a ricuperare l'Asia minore portandovi la volontà di vendetta per i massacri ordinati da Mitridate e ricambiando di pari misura. La sconfitta di Orcomeno, la marcia vittoriosa di Fimbria, le felici operazioni navali di un partigiano di Silla, Licinio Lucullo, persuasero Mitridate a venire a patti con Silla. Giuocando sulla posizione precaria di questo in Grecia, tra l'Italia e l'Asia occupate dai suoi nemici, poté avere la pace a buone condizioni solo rinunciando a tutte le sue conquiste in Asia minore, cedendo una parte della sua flotta e pagando 2000 talenti (85 a.C.). Silla ebbe quindi agio di persuadere l'esercito di Fimbria a passare al suo seguito: e Fimbria si uccise. La provincia dell' Asia fu duramente punita della sua ribellione con l'imposizione di una indennità, che peserà su tutto il suo sviluppo economico. Ora Silla poteva riconquistare l'Italia. Cinna aveva pensato di precederlo portando la guerra in Grecia, ma le truppe si ammutinarono ed egli fu ucciso (84 a.c.). Nell'83 Silla sbarcava in Italia e imprendeva una guerra, che doveva durare due anni. Egli ritrovò l'appoggio di molti della nobilitas, tra cui il giovane Gneo Pompeo, che gli portò i soldati da lui arruolati nelle sue vaste te-

Silla saccheggia Atene e batte Mitridate

L'esercito di Silla rientra aRoma

--+ Campagne di Mitridate --+ Campagne di Mario --+ Campagne di Silla

I territori romani intorno al 120 a.C. - - " . Invasioni di ~ Cimbri e Teutoni

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Fig.10.1 Le campagne di Mario, di Silla e la guerra civile

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Da Silla al primo triumvirato

nute del Piceno; ma ebbe contro di sé la maggioranza degli Italici, che temevano in lui un reazionario ostile alla loro parificazione nello Stato romano. Gli Italici costituirono appunto i suoi ultimi avversari, quando egli nell'82 aveva già ridotto pressoché all'impotenza le truppe comandate dai consoli Papirio Carbone e Mario il giovine, figlio di Gaio Mario, e aveva occupato Roma. In un supremo sforzo gli Italici marciarono su Roma e stavano per occuparla, quando Silla, che combatteva allora presso Preneste, sopraggiungeva (lo novembre 82 a.c.). Alla porta Collina, le truppe italiche furono distrutte da Silla. Nello stesso anno Gneo Pompeo, per conto di Silla, abbatteva i Mariani che ancora predominavano in Sicilia e in Africa e otteneva il titolo di Magno, che gli rimarrà.

10.3

113

Silla occupa Roma

Silla al governo

I primi tempi dopo la vittoria furono riempiti dall'eccidio degli avversari. Oltre i capi dell'esercito mariano e i prigionieri italici, furono uccise migliaia di persone, sia che fossero regolarmente inserite nelle liste di proscrizione (in cui ci si dice che fossero iscritti 4700 nomi) sia che fossero colpite all'infuori di ogni formalità. L'Etruria e il Sannio, che avevano alimentato le file dei Mariani, furono sottoposte a sistematica distruzione. D'altro lato Silla liberava 10.000 schiavi di proscritti, che, col nome di Cornelii, diventeranno i suoi più forti sostenitori; e, per offrire terre ai suoi soldati, procedette a vaste confische, le quali mutarono le condizioni della proprietà in Italia. Se si aggiunge che tutta la Grecia e l'Asia minore subirono una trasformazione sociale profonda per le vicende della guerra mitridatica, si scorgerà facilmente lo stato di fatto davanti a cui Silla si venne a trovare quando volle procedere a una ricostruzione, stato di fatto in parte consapevolmente voluto, in parte subito per le vicende di una lotta, che trascendeva la sua persona. Gli Italici, come forza politica autonoma, erano annichiliti. Con tutti i suoi aspetti negativi (decadenza economica e sociale di vaste regioni dell'Italia) ciò significava per altro la effettiva unificazione della penisola a sud del Po. I soldati erano sempre più uno degli elementi fondamentali della compagine statale: bisognava decidere se lo Stato romano doveva o no diventare uno Stato militare. Infine, il mondo greco era sconvolto a tal punto che non se ne poteva aspettare se non ribellione o inerzia completa: e perciò, come gli Italici, poteva essere trascurato in una riforma politica. Silla, per quanto raffinato, per quanto educato alla cultura greca tanto da poter lasciare un'autobiografia in greco, era rimasto pienamente ligio all'ideale di un governo della nobilitas romana. La sua implacabilità contro gli avversari non era, a differenza di quella di

Le liste di proscrizione

Cresce il potere dei militari

Manuale di storia romana

114

La dittatura di Silla

La riforma delle magistrature

Mario, suggerita da ambizione personale. Perciò il suo governo, se come aspetto distruttivo era stato l'annichilimento di tutte le forze avverse alla oligarchia, come aspetto costruttivo non poteva se non rappresentare la restaurazione del Senato. Egli però non aveva nessuna meschinità di adepto a una consorteria aristocratica: e perciò intendeva che il Senato avesse stretta relazione col popolo e avesse larghe prospettive nel suo governo. A tale scopo egli, prendendo occasione dalla morte dei due consoli in carica, fece nominare alla fine dell'82 un interrè e impose a questo interrè di scegliere lui, Silla, a dittatore a tempo indeterminato con lo scopo di riordinare lo Stato (rei publicae constituendae). E la riforma della costituzione procedette rapida negli anni 81-80. Il Senato fu allargato a 600 membri e riservato di diritto a coloro che avessero raggiunto il grado di questore, sicché non ci fu nemmeno più bisogno che il censore scegliesse tra gli ex-magistrati. Il Senato era in tal modo implicitamente eletto dal popolo, ma poiché nei comizi fu restaurata l'elezione per classi e non già l'estrazione a sorte voluta da G. Gracco pareva non ci fosse rischio che la demagqgia vi prendesse il sopravvento. Al Senato fu riaffidata appunto l'approvazione preventiva di tutte le proposte ai comizi. La carriera dei magistrati fu ritardata a evitare il pericolo che un singolo potesse acquistare troppa somma di poteri: non si poteva essere che a trent'anni questori e a quaranta pretori. A tale scopo servì però specialmente l'abitudine (se non la norma legale) instaurata per i comandi militari. Divenne regola che consoli e pretori non potessero tenere comandi militari durante l'anno di carica, ma che invece dopo quell'anno ne avessero uno in provincia in qualità di proconsoli o propretori. Poiché le province erano allora dieci, i pretori furono elevati al numero di otto, in modo che insieme con i due consoli bastassero a fornire i dieci ex-magistrati per tali comandi provinciali. L'autorità dei tribuni fu press'a poco annullata con lo stabilire che chi era stato tribuno non potesse rivestire magistrature e col togliere loro. almeno parzialmente, il diritto di intercessione. Infine al senato non solo fu di nuovo affidato di giudicare nelle cause di concussione (de repetundis), ma gli furono anche demandate le più importanti cause d'altro genere (lesa maestà, peculato, violenza etc.), in modo che il potere giudiziario passò al Senato. È facile osservare che, nonostante questa riforma in favore dell 'oligarchia senatoria, il potere di Silla era assoluto, che egli quindi era il primo a negare con la sua stessa opera la possibilità di un ritorno a un governo del Senato. È ovvio che appunto la contraddizione di Silla sta nell' aver voluto restaurare l'autorità dell' oligarchia fondando la propria personale autorità sull'esercito. Silla perciò non potrà opporsi all'inevitabile svolgimento della storia romana, che portava al principato, cioè alla franca accettazione di un potere politico sostenuto dall'esercito.

Da Silla al primo triumvirato

Nella sua stessa persona Silla portava i segni di una forma di governo non aristocratica, ma monarchica. Egli infatti non solo ebbe autorità dispotica, ma fu esaltato dai suoi seguaci in modo che ricorda quello usato poi per gli imperatori. Fu soprannominato F e/ix, un attributo quasi divino, e fu considerato il protetto di Venere, che, come madre di Enea, stava già allora diventando la dea nazionale di Roma. Ma altra è la realtà implicita, altre sono le intenzioni esplicite. Quali fossero quest'ultime Silla dimostrò definitivamente nel 79 abdicando dalla dittatura. Egli riteneva di aver finito il suo compito di restauratore dello Stato e si ritirò a Pozzuoli in una sua tenuta di campagna dove morÌ poco dopo (78 a.c.).

10.4

115

Abdicazione e morte di Silla

La rovina della costituzione sillana

La costituzione sillana, che cercava di mutare uno stato di fatto -la prevalenza degli eserciti e dei loro generali - con alcune misure legislative, non poté reggere. La minavano in fondo tanto coloro che la volevano distruggere quanto coloro che la volevano difendere, perché gli uni e gli altri, usando le armi, non potevano che accrescere l'importanza del fattore militare nella vita dello Stato romano. In Spagna aveva organizzato la ribellione degli indigeni, in ispecie dei Lusitani, un seguace di Mario Quinto Sertorio, cercando di costituire uno Stato romano-iberico (romano di costituzione, ma iberico per la larga compartecipazione di elementi indigeni) da opporre a Roma in attesa, s'intende, di tornare a Roma vittorioso. In Italia stessa nel 77 Emilio Lepido, proconsole della Gallia narbonese, che già l'anno precedente aveva tentato di abbattere per vie legali la costituzione sillana, falliva in un colpo di mano armato per raggiungere lo stesso scopo. Il Senato, per combattere Lepido, aveva dovuto valersi di Pompeo, il giovane generale di Silla. E, dopo, affidava a lui, che non aveva ancora nemmeno iniziato la carriera delle magistrature, il comando della guerra contro Sertorio. Tale guerra durò sino al 72, quando Sertorio fu assassinato da un suo subordinato, M. Perperna, già coinvolto nel colpo di mano di Lepido, e Perperna a sua volta diventato il capo dei ribelli si lasciò facilmente sconfiggere da Pompeo. Intanto l'Italia era sconvolta da una nuova ribellione di schiavi (terza guerra servite), comandati dal tracio Spartaco, che era riuscito a impadronirsi di quasi tutto il Mezzogiorno, attraendo intorno di sé le vittime di una crisi sociale sempre crescente. Il Senato anche questa volta non era riuscito a evitare un comando eccezionale, preponendo nel 72 ai consoli il pretore M. Licinio Crasso, un partigiano di Silla, che si era costituita la fortuna economica più colos-

Sertorio e i Mariani in Spagna

Spartaco guida la rivolta degli schiavi

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Il potere nelle mani di Crasso e Pompeo

Manuale di storia romana

sale di Roma e già per ciò - nonché per le sue molteplici aderenze aveva una posizione individuale preminente. Forse appunto perché il Senato temeva di lasciare un comando di parecchie legioni'(probabilmente dieci) al solo Crasso, Pompeo, tornato in Italia, ebbe l'incarico di cooperare nella guerra con lui: e infatti i due generali riuscirono abbastanza rapidamente, nel 71, a restaurare l'ordine. Ma in tal modo si era solo favorita la coalizione di Pompeo e di Crasso, che si trovarono, con l'esercito a loro disposizione, nella possibilità di imporre la loro volontà aRoma. Per quanto entrambi provenissero dalle file sillane, la stessa loro intenzione di sovrapporsi al Senato li portava ad assumere il programma di riforma della costituzione di Silla. Ma anche un altro fatto li poneva inevitabilmente sulla medesima via. Se Crasso, già pretore un biennio prima, aveva il diritto legale di ambire il consolato per il 70, Pompeo. che intendeva procurarsi la medesima carica, mancava dei requisiti legali, non avendo ancora ricoperto le magistrature minori. La sua stessa nomina era ipso facto una violazione della costituzione di Silla. E infatti Pompeo la impose portando le sue legioni alle porte di Roma. L'esercito, come era da attendersi, distruggeva l'opera di Silla. La legislazione di Pompeo e Crasso nel loro consolato del 70 non farà che sanzionare la rovina. Se già nel 75 era stato abolito il divieto per i tribuni della plebe di adire ad altre cariche, ora il potere dei tribuni fu restaurato in tutta la sua estensione. E fu ritolta ai senatori l'esclusività nei tribunali stabilendo che i giurati dovessero essere tratti in parti eguali dai senatori, dai cavalieri e dai tribuni erarii (una categoria non ben certa, forse di coloro che, quando ancora i Romani dovevano pagare i tributi, li raccoglievano nell 'interno di ciascuna tribù per conto dello Stato).

10.5

Pompeo sbaraglia i pirati del Mediterraneo

1\ potere personale di Pompeo

I contrasti fra Pompeo e Crasso poterono un momento favorire la restaurazione di un' apparente normalità dopo la fine del loro consolato nel 70; ma già nel 67 la pressione di vicende esterne e più ancora la convinzione, che ormai penetrava lentamente, della inevitabilità dei comandi personali, fece fare un nuovo passo sulla via del principato. La pirateria, che aveva i suoi nidi in Cilicia e Creta, era diventata realmente una piaga gravissima del Mediterraneo, dopo che Rodi non esercitava più il suo controllo sul mare. Negli ultimi decenni il favore di Mitridate del Ponto e di Sertorio in Spagna avevano contribuito ad estenderne l'azione, minacciando anche gli approvvigionamenti di Roma, Ma la decisione che si prese in Roma per combatterla, su proposta del tri-

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Da Silla al primo triumvirato

buno Aulo Gabinio, superava di gran lunga le necessità immediate. Ad un consolare - cioè, in concreto, a Pompeo - si concedeva per la lotta contro i pirati un potere straordinario di tre anni, che si estendeva su tutto il Mediterraneo, pari a quello dei governatori delle province fino a cinquanta miglia dal mare, dotato di una flotta di 500 navi, di un esercito di 120.000 uomini, di un ricco fondo di denaro: infine era concessa a Pompeo di esercitarlo non solo personalmente, ma anche per mezzo di 24 legati ai suoi ordini. Un tale comando straordinario dava praticamente lo Stato romano in potere di Pompeo. Non è da stupire se egli, appena adempiuto rapidamente e brillantemente il compito assegnatoli (per cui anche la Cilicia e Creta passavano in breve sotto il dominio romano), si facesse allargare la sfera del suo imperio con l'attribuzione della guerra, da tempo ripresa, contro Mitridate. La pace segnata da Silla con Mitridate, e non mai realmente ratificata dal Senato romano, aveva corso pericolo più volte: negli anni 8382 era anche avvenuto uno scambio di ostilità finite nel nulla. Infine nel 75, quando il re di Bitinia Nicomede IV morendo lasciò in eredità lo Stato a Roma, Mitridate decise di ritentare ancora una volta la grande avventura di farsi campione del mondo ellenistico La situazione era molto favorevole: un alleato fu trovato facilmente in Sertorio, ma un alleato che non dimenticava gli interessi romani, perché non riconobbe mai qualsiasi pretesa di Mitridate sulla provincia di Asia; un altro alleato era già in Tigrane di Armenia, che in quegli anni aveva esteso enormemente il suo regno ai danni della monarchia siriaca ormai in dissolvimento, tanto che egli aveva potuto prendere il titolo di re dei re come successore dei Seleucidi. Tigrane aveva anche invaso, d'accordo con Mitridate, la Cappadocia, donde trasse, dicono, trecentomila abitanti per popolare la sua nuova capitale, Tigranocerta. Ma la netta superiorità militare romana troncò presto i sogni di Mitridate. Lucullo - il collaboratore di Silla - inviato nel 74 a dirigere la nuova guerra ricacciò rapidamente il re dalla provincia d'Asia e dalla Bitinia, che egli aveva invaso, e poi lo costrinse a fuggire anche dal suo regno pontico (71). Mitridate dovette cercare rifugio in Armenia, provocando in tal modo l'invasione romana di quella regione (69). Con una delle più memorabili avanzate che la storia militare antica ricordi, Lucullo giunse ad assediare e poi catturare Tigranocerta. Ma, mentre egli indugiava a conquistare l'Armenia, tra il malcontento dei suoi soldati e la diffidenza del governo romano - ora passato in mano ad avversari del partito Sillano e quindi di Lucullo - Mitridate poteva rioccupare il suo regno, costringeva Lucullo ad abbandonare l'Armenia e insomma, con la cooperazione del malcontento dei soldati, riduceva al disfacimento l'esercito romano.

Riscoppia la guerra contro Mitridate

Fallisce la strategia di Lucullo

Manuale di storia romana

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Pompeo conquista la Siria e le coste del MarNero

Roma si espande in Asia

A questo punto, Lucullo fu sostituito da Pompeo. Il quale, dopo aver paralizzato l'Armenia, sollevandole contro la Parti a, in due anni conquistò il regno del Ponto. Poi negli anni 64 e 63 si dedicò, senza perdere d'occhio Mitridate che si era ritirato nei suoi ultimi possessi sulla costa europea del mar Nero (regno bosforano), a ordinare le condizioni del regno seleucidico. Liberato da Tigrane per opera di Lucullo, esso era caduto in una anarchia solo formalmente nascosta dalla restaurazione del governo dei Seleucidi. Pompeo trasformò la Siria propriamente detta in provincia romana ed ordinò come Stati vas salii i numerosi principati, che preesistevano o che erano di recente sorti sul territorio seleucidico: tra queste sistemazioni va ricordata quella che egli impose in Giudea a favore dell' asmoneo I rcano contro il fratello Aristobulo assediando il tempio di Gerusalemme e costringendolo alla resa. Mentre era intento a questa opera, Pompeo riceveva la notizia che Mitridate, il quale, per quel che sembra, aveva concepito l'idea di portare la guerra in Italia attraverso la zona danubiana, era stato ucciso dal figlio Farnace. Ponto e Bitinia vennero uniti in una provincia sola, mentre a Farnace restò il territorio bosforano. Dopo il 146 nessuno aveva più allargato i confini dello Stato romano come aveva fatto Pompeo. Il possesso romano in Asia era esteso ora a raccogliere l'eredità quasi integrale (eccettuato specialmente il territorio partico) del regno dei Seleucidi, quale era stato nel suo massimo fiore. Se ora l'Asia minore era economicamente esaurita dalle guerre, rappresentava per il futuro un 'immensa riserva di energie e attribuiva a Roma il compito storico di tutelare la civiltà ellenistica in tutta la regIOne. Ma per il momento il problema che si ponevano i Romani era un altro: che cosa avrebbe fatto Pompeo col suo esercito, ora che la guerra era finita.

10.6

Catone e Cicerone sostengono Pompeo

Dalla congiura di Catilina al primo triumvirato

Durante l'assenza di Pompeo si erano delineate sempre meglio diverse tendenze, difficili da caratterizzare perché i loro programmi politici si confondevano o si incrociavano con ambizioni personali o familiari. Il Senato pareva allora riconciliato nel complesso con Pompeo. Marco Porcio Catone, un discendente del censore, continuava la tradizione di quello come aspro e integerrimo difensore dell' autorità senatoria, non senza per altro intendere che essa non poteva reggersi in quel momento senza Pompeo e perciò in definitiva sostenendolo. Dalla parte di Pompeo e del Senato stava anche Marco Tullio Cicerone, un avvocato di Arpino, resosi noto come oratore potente, e celante nel suo intimo -

Da Silla al primo triumvirato

tra le vanità e ingenuità superficiali - uno spirito ricco di cultura e di convinzioni. Per contro, avversavano Pompeo e soprattutto la maggioranza del Senato che lo sosteneva, Marco Licinio Crasso, ormai definitivamente passato all'opposizione, e Gaio Giulio Cesare, che, genero di Cinna, lontano congiunto con Mario, era portato non solo dall'ambizione personale, ma anche da questi legami a favorire una politica antisenatoria. Crasso e Cesare saranno più o meno direttamente implicati in tutti i moti antisenatori di quegli anni. Crasso volle far decretare l' annessione dell 'Egitto, che un testamento di Tolomeo Alessandro II (80 a.c.) - sospettato però gravemente di falsità - sembrava avere lasciato ai Romani (come un testamento di Tolomeo Apione aveva da poco permesso di annettere la Cirenaica). Ma la proposta fu rigettata, appunto perché si comprese che Crasso intendeva fare dell 'Egitto una piattaforma per i suoi progetti (65 a.C.). E fu ugualmente rigettata l'altra proposta, di ispirazione di Crasso e Cesare, per una nuova legge agraria, che avrebbe dato ai funzionari incaricati di attuarla vastissimi poteri (63). Ma il più grosso incidente di quegli anni fu la cosiddetta congiura di L. Sergio Catilina, un nobile corrotto, che, dopo avere già nel 65 fatto sorgere sospetti sul proprio conto, organizzò nel 63 -l'anno in cui Cicerone era console - una agitazione. Cicerone, che allora sperava di poter salvare le istituzioni repubblicane con la sua opera, vide in questo tentativo l'occasione per un suo successo personale, si fece conferire i pieni poteri dal Senato e portò le cose all'estremo. I partigiani di Catilina in Roma furono uccisi, e Catilina, con la truppa che aveva raccolto in Toscana, fu vinto in battaglia presso Pistoia. Che Cesare avesse partecipato direttamente alla congiura non sembra probabile: certo non ne portò alcuna conseguenza. Ma Catilina aveva lavorato in senso non dissimile dal suo. Ora Pompeo, ritornando nel 62 dall'Oriente, venne a portare nella vita politica il peso decisivo della sua presenza. Fino allora i suoi scopi erano rimasti enigmatici: col farsi conferire poteri vastissimi egli sembrava però tendere a una dittatura militare. Ma al ritorno in Italia egli disciolse il suo esercito, con l'intenzione, come è ovvio, di mostrare che a una tale dittatura non tendeva, che insomma non voleva mettersi sulla linea di Mario e Silla. Da allora in poi il suo scopo sarà infatti di acquistarsi una supremazia civile, dominando il Senato. Qualunque sia il motivo del rivolgimento, in sé tutt'altro che chiaro, esso è indubitabile. L'effetto fu però contrario al previsto. Il Senato, ora che Pompeo aveva disciolto il suo esercito e perciò non sembrava più temibile, non era disposto a subirne l'autorità e respinse la proposta di concedere ai suoi veterani l'ormai abituale distribuzione di terre. Pompeo si trovò quindi disarmato e non poté trovare altra via che riavvicinarsi a Crasso e a Cesare pattuendo con loro un ac-

119

Emerge l'astro di Cesare

La congiura di Catilina

Pompeo non ottiene l'appoggio del Senato

120

Manuale di storia romana

Il primo triumvirato

Cesare assume il consolato

cordo prima segreto e poi palese, di carattere privato, che fu detto triumvirato. Nel triumvirato la persona più autorevole sembrava Pompeo, di fatto era Cesare, non solo perché poteva giocare sul contrasto appena esteriormente mitigato tra Pompeo e Crasso, ma perché non aveva gli scrupoli costituzionali di Pompeo (60 a.c.). La conseguenza fu che nel 59 Cesare assunse il consolato e fece passare la legge che garantiva la distribuzione di terre per i veterani di Pompeo. Anche tutti i provvedimenti da lui presi in Oriente furono ratificati. E per conto suo Cesare si fece assegnare come provincia proconsolare a partire dal 58 per un quinquennio la Gallia Cisalpina e l'Illirico. Il suo potere fu poco dopo esteso anche alla Gallia Narbonese.

10.7

Publio Clodio

ARoma riesplode la lotta tra fazioni politiche

Le sorti del triumvirato

Chi aveva guadagnato più dall'accordo in conformità della sua reale preminenza era evidentemente Cesare, che si era assicurato un comando militare alle porte di Roma e la possibilità di larghe imprese in Gallia. Crasso e Pompeo restavano per il momento inermi: l'abilità di Cesare era consistita precisamente nellasCÌarli in quelle condizioni. Tutto ciò non poteva non creare ostilità fra i triumviri, anche prescindendo dal fatto che essi agivano d'accordo solo perché prevedevano i danni di un disaccordo, ma senza ideali comuni. Nel 58 Cesare, pur assente da Roma, riuscì a prevalere per mezzo di un suo seguace senza scrupoli, il tribuno della plebe, Publio elodio (un patrizio fattosi adottare da una famiglia plebea appunto per poter rivestire il tribunato), sicché fu esiliato Cicerone, sotto l'accusa di aver fatto uccidere i seguaci di Catilina senza giudizio del popolo, e fu allontanato da Roma anche Catone col pretesto di affidargli la riduzione a provincia romana di Cipro, già appartenente all'Egitto. Ma nel 57 cominciò la reazione. Cicerone fu richiamato, si accordò con Pompeo, a cui propose fossero dati ampi poteri per assicurare l'approvvigionamento allora manchevole di Roma. Intanto in Roma le bande cesariane di Clodio erano controbattute da altre di Annio Milone. Nonostante che l'autorità di Cesare crescesse per le sue vittorie in Gallia (v. capitolo seguente), si rivelò la necessità di creare un maggiore equilibrio fra i tre contraenti per evitare la fine dell'accordo. Tale equilibrio fu ristabilito nel convegno di Lucca del 56 in cui fu deciso che Crasso e Pompeo divenuti consoli nel 55 avrebbero fatto confermare a Cesare per altri 5 anni il governo in Gallia, avrebbero fatto assegnare a Crasso la provincia di Siria e a Pompeo il governo di Spagna per uguale tempo. Così di fatto avvenne, ma nel 53 l'equilibrio era rotto inopinata-

121

Da Silla al primo triumvirato

La crisi delle Istituzioni L'epoca dei Gracchi mise in luce l'inadeguatezza delle magistrature e delle altre istituzioni a reggere una compagine vasta e poco armonica come quella romana. Il tribunato della plebe rivestì un ruolo chiave. I tribuni tradizionalmente presiedevano i comizi tributi, che avevano compiti elettorali (eleggevano tribuni, edili e questori), giudiziari (giudicavano i processi capitali in appello) e legislativi (emettevano i plèbisciti, che avevano il medesimo valore delle leggi emesse dai comizi centuriati). I tribuni dell'epoca dei Gracchi e di Mario usarono questi comizi per riformare profondamente lo Stato e per condurre la politica estera ed interna. Fu così che Caio Gracco o Apuleio Saturnino vararono prowedimenti che in passato erano stati appannaggio degli altri comizi o, ancor più, del Senato. Per di più, tali prowedimenti stravolgevano radicalmente le linee guida che avevano retto la politica romana nel Il secolo. Lo Stato romano non era più armonico come in passato, ma aveva visto concentrarsi le proprietà, le risorse e il potere nelle mani di una ristretta oligarchia e - cosa molto peggiore - le masse numerosissime di Romani ed Italici impoverirsi a dismisura. I Gracchi pensarono di risolvere il problema usando il tribunato e l'assemblea legislativa, mentre Mario affiancò i suoi legionari e il ceto dei cavalieri all'azione legislativa dei comizi. Il consolato era una magistratura che non era più adeguata per rispondere alle esigenze dei Romani, non solo in campo sociale, ma anche militare. Tra l'epoca dei Gracchi e quella di Augusto si ricorse sempre più frequentemente a cariche magistratuali straordinarie e anche a prowedimenti straordinari (si pensi al Senatus consultum ultimum, che autorizzava i magistrati ad agire con qualunque mezzo per salvare la repubblica in pericolo). Silla e, più tardi, i triumviri ottennero poteri straordinari per riformare la repubblica (rei publicae constituendae). Tali poteri non erano annuali o semestrali (come per i dittatori), ma a tempo indeterminato. Pompeo ebbe poteri straordinari di carattere militare per combattere i pirati e Mitridate. Per loro natura, i poteri dei magistrati tornavano al popolo (o al Senato) alla fine del mandato annuale. Le cariche straordinarie della tarda repubblica tendevano invece a non essere rimesse al popolo. Con la creazione dell'impero si arriverà ad una nuova formulazione costituzionale, che diede risposte a questi problemi.

mente dalla morte di Crasso. Questi aveva voluto avventurarsi in una guerra di conquista in Parti a, ma era stato sconfitto a Carre in Mesopotamia e ucciso, mentre una parte del suo esercito si arrendeva. La sconfitta aveva la conseguenza di provocare una rivalità tra Parti e Romani, che durerà per tutto l'Impero, ma ebbe intanto l'effetto immediato di mettere di fronte sempre più Pompeo, che era rimasto a Roma pur governando nominalmente la Spagna, e Cesare. Intanto in Roma i disordini tra le bande di partigiani opposti crescevano, fino a che nel 52 Clodio era assassinato dalla banda di Milone.

Crasso ucciso dai Parti

122

Manuale di storia romana

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Cesare CAPITOLO

11.1

UNDICESIMO

La conquista della Gallia

Le popolazioni celtiche occupanti la Gallia erano divise in tribù in conflitto tra di loro: legame unitario era la religione, governata da una corporazione di sacerdoti, i druidi, ma non bastava a eliminare le rivalità fra tribù e i contrasti sociali fra un'aristocrazia ricca e potente e un contadiname ridotto quasi alla servitù della gleba. Dopo la sottomissione della Gallia narbonese a Roma, i tre nuclei principali della Gallia libera restavano i Galli propriamente detti, nel centro, tra cui primeggiavano gli Edui, amici di Roma, gli Arverni e i Sequani loro avversari; gli Aquitani a sud-ovest e i Belgi a nord-est. La rivalità fra gli Edui e i Sequani fece sì che questi ultimi chiedessero aiuto alla tribù germanica dei Suebi, comandata da Ariovisto, a cui cedettero una parte del loro territorio in Alsazia. Così i Celti stessi per le loro contese favorivano quella penetrazione germanica, di cui le irruzioni dei Cimbri e dei Teutoni erano state il primo segno. Alla sua volta un partito degli Edui trattò per l'emigrazione dalla Svizzera di una grossa tribù celtica, gli Elvezii. Gli Elvezii nel 58 chiesero a Cesare il permesso di passare attraverso la Gallia già romana per raggiungere le loro nuove sedi; ma questi lo proibì e riuscì anche a procurarsi il pretesto per intervenire fuori dei limiti della provincia contro gli emigranti. In tal modo egli iniziava, quasi inavvertitamente, la unificazione della Gallia sotto il dominio romano. Nel 56, dopo vittorie sugli Elvezii, costretti a tornare alle loro sedi, sui Germani di Ariovisto e sui Belgi, nonché su altri popoli minori, la sottomissione poteva dirsi compiuta nelle sue grandi linee. E Cesare poteva raccogliere immense sostanze, che gli serviranno per la sua propaganda politica e per la restaurazione del suo patrimonio privato in rovina. Tanto credeva Cesare di aver sottomesso la Gallia che pensava alla conquista della Britannia, in cui fece due spedizioni poco conclusive nel 55 e nel 54 a.c. Ma la sua penetrazione in Britannia non poté essere continuata, perché in Gallia, prima una rivolta parziale nel 54-53, poi un'altra, che divenne presto generale, scoppiata nel 52 e durata sino al 50, im-

Lo scontro tra Roma e i Galli

Cesare in Britannia

124

Manuale di storia romana

Fig. ll.1 Le campagne condotte in Gallia da Cesare tra il 59 e il 50 a.C.

Vercingetorige sconfitto adAlesia

pegnò tutte le sue forze. Dalla prima fase di questa ultima ribellione fu eroe un arvemo, Vercingetorige, un organizzatore e un guerriero di qualità eccezionali, che però già nello stesso 52 doveva cedere alla superiorità militare romana e, assediato in Alesia, arrendersi. Nel 50 Cesare poteva ordinare il territorio da lui occupato. I particolari non ci sono noti. Certo egli impose un tributo su tutto il territorio e fece trattati in alleanza con alcune tribù, altre invece considerò semplici suddite di Roma.

11.2

La Gallia e Cesare: il conflitto con Pompeo

Di colpo, con la conquista della Gallia, Cesare aveva affermato la sua personalità dominatrice. Prima di partire per il proconsolato era stato solo un abile fazioso. Ora non solo si era rivelato grande generale, ma, coll'assicurare all'impero di Roma, la Gallia, aveva anche saputo identificare la grandezza dello Stato romano con la propria grandezza. La con-

125

Cesare

quista della Gallia significherà per i secoli futuri la sua appartenenza alla civiltà latina, di contro al pericolo che la minacciava per le sue scissioni interne di essere sommersa da invasioni germaniche. Ma già appena conquistata, essa apportò a Roma una forza economica, militare e politica, che sarà la forza di Cesare, di cui egli potrà giovarsi sempre: senza contare che egli nel 50, concludendo la sottomissione del territorio, aveva a sua disposizione dieci legioni, in grande parte di veterani, che costituiranno la sua arma irresistibile nel conflitto con Pompeo. Il conflitto scoppiò nello stesso 50. Esso ha una causa immediata di natura giuridica, che ha dato luogo a varie interpretazioni. La migliore pare nelle grandi linee la seguente. Con la proroga stabilita nel 56, Cesare aveva diritto non solo a tenere il comando in Gallia fino al marzo del 50 (secondo altri fino al marzo del 49) ma anche a non lasciare di-

La Gallia, base del potere cesariano

Cesare e Pompeo La chiave di lettura fondamentale per capire il passaggio dalla repubblica al principato sta nel rapporto fra l'aristocrazia senatoriale e i grandi statisti e generali del I secolo a.C. Nei confronti dei nemici della fazione popolare, graccana o mariana, il Senato aveva concesso poteri straordinari di carattere militare e politico. Prima Silla e poi soprattutto Pompeo rivestirono cariche diverse dal consolato per la loro durata e per il comando di legioni e flotte. Il prOblema stava nella cessazione di tali cariche. La tentazione di mantenerle a vita e trasformarle in un potere personale costituiva un grave pericolo per le istituzioni repubblicane. Il potere veniva dal Senato e dal popolo e i magistrati dovevano deporlo e rimetterlo a questi due consessi alla fine del mandato. Silla depose formalmente la dittatura solo quando seppe di controllare in modo ferreo la vita politica romana, mentre Pompeo fece temere il Senato e il popolo quando tornò dalle sue campagne in Oriente contro Mitridate, ma i timori furono sciolti quando egli congedò tutte le truppe che aveva ai suoi ordini e rimise al Senato e al popolo la scelta dei nuovi magistrati. La questione del potere politico e militare si riaprì quando Cesare e Pompeo si allearono e dettero vita, insieme a Crasso, al primo triumvirato. Pompeo non era stato onorato né gratificato dal Senato per le sue conquiste, a causa del dissidio fra lui e Lucullo, un altro grande generale di quello che era stato un tempo lo statomaggiore di Silla. La sistemazione dell'Oriente decisa da Pompeo non fu ratificata dal Senato e i suoi veterani non furono ricompensati. Il rancore di Pompeo nei confronti dell'ala conservatrice del Senato lo spinse ad awicinarsi alla fazione dei populares, di cui era capo indiscusso Cesare. La creazione di un'intesa privata, detta comunemente triumvirato, dette luogo alla creazione di poteri che sfuggivano al controllo del Senato. Nel 59 Cesare rivestì il consolato e varò una serie di leggi volte a favorire il popolo e i veterani di Pompeo. Col terrore gli awersari politici furono ridotti al silenzio. Poi i poteri più pericolosi per la stabilità della repubblica furono quelli proconsolari, in base ai quali i tre triumviri ebbero molte legioni ai loro ordini, e per parecchi anni. La rottura fra i grandi statisti e l'aristocrazia senatoriale fu così celebrata ed essa determinò l'inizio di un confronto durissimo che modificò profondamente l'assetto del mondo romano.

126

Manuale di storia romana

Le cause della nuova guerra civile

Pompeo si allea col Senato

Sul Rubicone «il dado è tratto»

scutere della successione prima di questa scadenza. Ciò equivaleva a dire che egli avrebbe potuto tenere il comando sino alla fine del 49, perché la norma voleva che l'assegnazione delle province precedesse la nomina a consoli di coloro che poi le avrebbero dovute governare come proconsoli: sicché l'assegnazione della Gallia per il 50 avrebbe dovuto essere fatta prima delle elezioni consolari per il 51, cioè nel 52. Ma poiché nel 52, come nel 51, era ancora proibito discutere della successione a Cesare, solo nel 50 si sarebbe potuto nominare un successore per i148. Quindi Cesare, secondo la consuetudine, avrebbe potuto tenere la Gallia in via straordinaria per circa due anni di più in attesa che fosse nominato il successore. Ora egli pensava di presentarsi candidato al consolato per il 48, cioè di passare dal comando in Gallia direttamente alla supremazia in Roma, senza dover trascorrere un periodo da privato che avrebbe potuto facilmente essere sfruttato dai suoi nemici. A tale giuoco sarebbe ostato però l'altra norma che i candidati al consolato dovevano essere presenti in Roma, mentre Cesare come proconsole non ci poteva ritornare. Ma tale difficoltà era stata evitata nel 52 facendo votare una disposizione che liberava Cesare dall'obbligo di essere presente in Roma. Ora però l'edificio che Cesare si era pazientemente costruito per instaurare il suo potere personale veniva minato: e per opera proprio del suo collega Pompeo. Il quale, pure tra le oscillazioni del suo spirito incerto, tendeva sempre più a differenziarsi da Cesare facendosi campione del Senato. Mentre insomma Cesare mirava direttamente a un'autocrazia che avesse solo nell'esercito la sua base, Pompeo voleva raggiungere un primato che avesse non solo la sanzione, ma anche il consenso del Senato. La rivalità, già sopita, ma non mai spenta, con Cesare, riprendeva maggiore vigore per questa più decisa consapevolezza di poter essere non un generale, che si imponesse con le sue armi, ma il princeps senatus. Vennero messi in dubbio con successive disposizioni tanto il diritto di Cesare di poter pretendere al consolato da lontano quanto la possibilità che egli rimanesse in Gallia sino alla fine del 49, mentre il potere proconsolare di Pompeo era prolungato nel 52 per altri 5 anni in modo da renderlo più lungo di quello di Cesare. La rottura si venne preparando. Durante tutto il 50 Cesare si oppose per mezzo del veto di tribuni suoi amici a ogni discussione sulla sua successione, proponendo nello stesso tempo che egli e Pompeo dovessero lasciare il potere insieme. Ogni accordo venne rifiutato. E infine ai primi di gennaio del 49 il Senato decise la sostituzione di Cesare nel comando della Gallia con l'avvertenza che se entro un dato termine egli non aveva abbandonato la sua provincia sarebbe stato considerato pubblico nemico. A Roma fu intanto ordinato lo stato d'assedio. E i tribuni della plebe Marco Antonio e Quinto Cassio che si erano opposti a questo provvedimento dovettero fuggire.

Cesare

127

Fig. U..2 L'espansione di Roma con Giulio Cesare

AFRICA

D _

Territori all'epoca del primo triumvirato (60 a.C.) Territori alla morte di Cesare (44 a.C.)

Per Cesare, non c'era possibilità di scelta se egli voleva mantenere il suo potere: ribellarsi. Con l'unica legione che egli aveva presso di sé a Ravenna, dove stava attendendo notizie da Roma, egli varcò la notte dellO gennaio il Rubicone, che segnava il confine tra la provincia della Gallia Cisalpina e l'Italia, e occupò Rimini. Qui lo raggiunsero i tribuni fuggitivi, del cui diritto violato egli si fece difensore.

11.3

La vittoria su Pompeo

Per quanto accompagnato da una sola legione e con la prospettiva di non poter essere rafforzato da qua1cuna delle legioni, che stavano nella Gallia transalpina, prima di una quindicina di giorni, Cesare trovava un'Italia impreparata a contrastargli il passo. La difesa di Pompeo, che pure disponeva di almeno due legioni, fu inefficiente. E quando sopraggiunsero a Cesare i primi rinforzi, non restò al Senato che di seguire il consiglio di Pompeo e sgombrare l'Italia, lasciando in mano al ri-

Pompeo e il Senato fuggono in Macedonia

128

Manuale di storia romana

Cesare dittatore

La battaglia di Farsalo

vale Roma. I Pompei ani passarono in Illiria e di lì poi in Macedonia, dove, a Tessalonica, si trasportò il Senato. Pompeo sperava forse di poter ripetere l'impresa di Silla che con le forze ammassate in Oriente era riuscito facilmente a riconquistare l'Italia. Ma Cesare aveva una organizzazione militare ben più efficiente di quella dei Mariani al tempo di Silla. Egli del resto evitò di assalire subito i Pompeiani. Preferì, dopo aver occupato tutta l'Italia e le isole, domare la Spagna e Marsiglia (Massalia), Stato alleato di Roma nella Gallia, ribellatosi contro di lui. L'uno e l'altra cosa gli riuscirono, e Marsiglia fu privata non della libertà, ma di quella condizione di privilegio che godeva da secoli nell'ambito dell'impero romano. Non riuscì invece la conquista dell' Africa, tentata a nome di Cesare, da Curione, il cui esercito fu quasi interamente distrutto dai Pompeiani con l'aiuto di Giuba re di Numidia. Tuttavia, il possesso ormai incontrastato dell'Italia, della Gallia e della Spagna bastava a Cesare per potere attaccare direttamente Pompeo. Tornò per poco tempo a Roma e si fece nominare dittatore con lo scopo di indire le elezioni per l'anno seguente: mancavano infatti in Roma i magistrati regolari per convocare i comizi. Assicurata la nomina di se stesso a console, dopo undici giorni depose la dittatura e marciò contro Pompeo. Aveva, con nuove leve, portato il suo esercito a dodici legioni, a cui Pompeo poteva opporne nove, nettamente inferiori come preparazione militare. Ma Cesare fu costretto a sbarcare sulle coste dell'Epiro in due spedizioni separate, ebbe gravi difficoltà per il ve ttovagliamento dei soldati e soprattutto si trovò di fronte a un esercito che lo attendeva da tempo tranquillamente organizzato a riceverlo. Perciò da principio la campagna, che si svolse intorno a Durazzo, fu infruttuosa per lui. Il successo venne solo quando egli si spostò in Tessaglia, trascinando Pompeo a seguirlo. Presso Farsalo si svolse lo scontro decisivo. La vittoria fu del generale e dei soldati migliori (giugno 48). Pompeo fuggì verso l'Egitto, dove sperava che il re (Tolemeo XIV) figlio di Tolemeo Aulete da lui protetto, l'avrebbe accolto bene. Ma quegli, per cercare di rendersi favorevole il vincitore, Cesare, fece uccidere Pompeo a tradimento. Dei suoi partigiani un certo numero fuggì in Africa. Gli altri passarono a Cesare attratti dalla mitezza verso i nemici - così contraria al sistema sillano delle persecuzioni - che egli affermò con le parole e coi fatti. Tra i Pompeiani, che passarono in Africa, era Catone; tra quelli che si accodarono a Cesare un nipote di Catone, un giovane stoico, Marco Giunio Bruto.

Cesare

11.4

129

Il dominio sull'impero

Prima di conoscere la sorte di Pompeo, Cesare si era avviato verso l'Egitto per inseguirlo. Vicino ad Alessandria gli fu portata la testa dell'antico amico. Nonostante che ormai uno sbarco in Egitto fosse inutile, Cesare non volle trascurare l'occasione di approfittare delle contese fra Tolemeo XIV e sua sorella Cleopatra per creare un ordinamento a lui favorevole. Ma Cleopatra attrasse il suo amore: forse anche egli intravvide in lei la sovrana del regno che egli intendeva instaurare. E decise naturalmente in favore di Cleopatra, suscitando la ribellione degli Alessandrini che, guidati da Tolemeo XIV, assediarono lui e i suoi pochi soldati in un quartiere della loro città; e solo a stento, dopo che gli giunsero rinforzi, Cesare poté liberarsi e sconfiggere gli avversari. Il regno di Egitto restò a Cleopatra, sostenuta da un presidio romano, sicché effettivamente fu preparata la via a una posteriore annessione. Cesare, dopo alcuni mesi di indugio, che servirono ai Pompeiani per riorganizzarsi, riprese le sue campagne militari. Una, assai breve, in Oriente gli permise di vincere il figlio di Mitridate Eupatore, Farnace, allora re del regno bosforano, che aveva approfittato del momento per cercare di ricuperare i possessi patemi. La vittoria di Zela contro Farnace fu annunciata con il famoso «veni, vidi, vici». Cesare tornò quindi in Italia. Già dopo la vittoria di Farsalo egli si era fatto nominare, pur distante, dittatore a tempo indeterminato col diritto di pace e guerra, con la facoltà di nominare tutti i magistrati meno i tribuni della plebe. Ma, per il prolungarsi della sua assenza, erano sopravvenuti disordini, che il suo rappresentante, il magister equitum Marco Antonio, non era riuscito a domare: disordini soprattutto di carattere economico. Al suo arrivo il malcontento fu in breve sedato, e la disciplina restaurata fra le truppe. Poi fu intrapresa (settembre 47) la sottomissione dell' Africa. La campagna breve, ma dura, finÌ con la piena vittoria di Cesare a Tapso nel febbraio del 46. Molti dei più nobili romani furono uccisi, altri (fra cui i figli di Pompeo e Labieno, già legato di Cesare nelle guerre galliche) fuggirono in Spagna in cui riorganizzarono la lotta anticesariana. Catone, a cui era stata affidata la difesa di Utica, si uccise alla notizia della vittoria avversaria illuminando di una luce di martirio una vita tutta dedita alla difesa dei propri ideali. Nonostante che in Spagna ci fosse ancora un focolaio pericoloso di ribellione, Cesare poteva dirsi dopo Tapso padrone dello Stato. Gli fu conferita la dittatura per dieci anni e probabilmente anche la praefectura morum che spettava ai censori, dandogli cosÌ la possibilità di controllo su tutti i cittadini, anche nella vita privata. Nella incertezza di

Cesare conquistato da Cleopatra

«Veni, vidi, vici»

L'Africa si piega alle legioni romane

130

La mancata riforma dello Stato

Le riforme in campo economico

Manuale di storia romana

quello che sarebbe stato il suo programma definitivo, da ogni parte ci si rivolgeva a lui. Anche Cicerone, pur oscillando nel suo pensiero, non disperava di poterlo vedere restauratore della repubblica. E Sallustio gli scriveva degli appelli ancora giunti a noi (Epistulae ad Caesarem), in cui invocava una riforma del costume quale condizione del rinnovamento dello Stato. Cesare per conto suo non accennava ancora a svolgere un programma, che andasse determinatamente al di là di una restaurazione dell' ordine e dell'autorità nello Stato. Se egli aveva già concesso i pieni diritti di cittadinanza romana ai Galli dell'Italia traspadana (provvedimento che fu poi ratificato dopo la sua morte) ciò rientrava solo in quel moto di allargamento della cittadinanza a tutta l'Italia che era in corso dalla guerra sociale. Ora dopo Tapso ridava i tribunali in mano esclusivamente a senatori e cavalieri, faceva leggi per limitare il lusso, diminuiva il numero dei proletari che avevano il diritto di ricevere distribuzioni gratuite di frumento, cercava di tutelare il lavoro libero di fronte alla concorrenza degli schiavi, prendeva misure per assicurare l'ordine pubblico, precisava meglio le condizioni dei municipi, faceva la famosa riforma del calendario romano per metterlo in regola con l'anno solare etc. Anche il grande piano di colonizzazione in Italia e soprattutto fuori d'Italia (nella Gallia narbonese, in Africa, dove veniva ricostruita Cartagine, a Corinto in Grecia, a Sinope ed Eraclea sul Mar Nero etc.) che egli abbozzava e cominciava ad attuare sembrava, guardato in sé, non superiore se non per vastità al vecchio programma graccano e reso necessario dalla esigenza di collocare i veterani. Lo stesso si può dire della politica finanziaria. Le confische dei beni dei Pompeiani che rinnovarono la distribuzione della ricchezza, fortemente diminuendo la forza economica della vecchia aristocrazia, potevano sembrare al momento imposte dalle condizioni del bilancio e, comunque, normali conseguenze della guerra. Cesare creava, senza dare una precisa impronta alla sua creazione. La sua stessa mitezza verso i nemici pareva impedire che egli si irrigidisse in un programma. Quando le condizioni della Spagna lo spinsero ad allontanarsi nuovamente da Roma egli era in definitiva una incognita: la nuova vittoria di Munda (marzo 45) sopra i Pompei ani era ancora una vittoria di carattere imprecisabile.

11.5

Verso il regno

E tuttavia la sua posizione era già allora nel fondo senza equivoci: e senza equivoci si rivelò poi palesemente nell'ultimo anno della sua vita (45-44). Cesare, come Silla, come Pompeo stesso, aveva il suo pote-

Cesare

re fondato sull'esercito; ma, a differenza di Silla e di Pompeo, non aveva legami con nessuna tendenza politica tradizionale. Rassomigliava forse in ciò a Mario, con questa differenza però che Mario non seppe essere nulla di più che un capo di esercito: Cesare si valse della sua stessa libertà di fronte ai partiti per costituire un ordine nuovo, in cui la sua persona fosse elevata a regolatrice della vita dell'impero secondo una misura superiore a quella delle tendenze in contrasto. Il fatto nuovo di Cesare è semplice e pure complicatissimo: è quella identificazione, a cui già accennavamo a proposito delle guerre belliche, tra la sua persona e l'impero. Si è discusso spesso se Cesare volesse o no diventare re, con tutti gli aspetti divini che la tradizione ellenistica attribuiva al re. La risposta deve verosimilmente essere affermativa, appunto per quel che avvenne dopo Munda. La sua dittatura decennale fu dapprima cumulata con un consolato decennale, poi nel febbraio del 44 trasformata in dittatura a vita e innalzata con l'attributo della sacrosantità l. Egli aveva già avuto nel 46 il diritto di portare in permanenza l'abito del trionfatore (porpora e lauro) e di chiamarsi imperatore in permanenza, e si erano creati anche dei sacerdoti (luperci Iulii) intitolati al suo nome. Dopo Munda gli attributi divini furono moltiplicati: un flamine fu creato per lui, pari ai flamini per Giove, Marte e Quirino; la sua statua fu messa nei templi di Quirino e della Clemenza; gli furono decretate offerte (lectisternia) come a un dio: ebbe il diritto di coniare monete con propria effige; un mese, il Quintile, fu chiamato del suo nome (Luglio =Julius) etc. Si aggiunga poi che il suo amore per Cleopatra continuava: la regina di Egitto stava accanto a lui a Roma, ed è difficile che non influisse su di lui per fargli accettare quelle forme regali, che le erano familiari. È vero che già nel 46 Cesare fece cancellare una' iscrizione che lo chiamava «semidio», che nel 44 a chi lo salutava re, rispose di non essere re, ma Cesare, che infine un mese prima di morire non accettò in una pubblica solenne cerimonia di mettersi sul capo la corona regale che Antonio gli offriva. Ma tutto ciò conferma intanto che il passaggio alla monarchia era nell'aria e dice solo che Cesare non si arrischiava ancora a fare l'estremo passo, che egli sapeva non gradito a molti in Roma. Che egli personalmente amasse richiamare la sua presunta origine divina (da Venere) per parte di padre e la sua presunta origine regale (da Anco Marzio) per parte di madre aveva dimostrato ripetutamente, fin dal 68 commemorando in pubblico una zia morta. Certo non occorre dare valore eccessivo a questa questione della re-

I

È incerto se la sacrosantità dei tribuni della plebe sia stata solo allora conferita a Cesare: e se allora o prima non sia stata attribuito a lui anche il diritto di intercessione.

131

Cesare cerca di creare un «ordine nuovo»

La divinizzazione di Cesare e la tentazione di una nuova monarchia

132

Manuale di storia romana

Cesare letterato e scrittore

galità divina di Cesare: lo scrittore limpido ed elegante dei Commentarii alle guerre in Gallia e alle guerre civili, il polemista tagliente contro l'esaltazione repubblicana di Catone (in uno scritto Anticato composto prima della battaglia di Munda), illetterato e uomo di mondo Cesare era privo di ogni esaltazione mistica. Per lui la regalità era forma politica anche nei suoi aspetti religiosi. Ma è assai verosimile che egli la considerasse l'unico mezzo per raggiungere quella omogeneità dell'Impero, nell' accentramento nella sua persona, com'era nei suoi ideali. Perciò non sembra che si possa trascurare la notizia dataci dalle nostre fonti secondo cui nella seduta del Senato del 15 marzo 44, in cui Cesare fu ucciso, egli avrebbe voluto farsi proclamare re per i barbari, cioè per i provinciali, restando semplice dittatore per i cittadini romani. Una tale soluzione di compromesso era infatti bene aderente alla situazione. Si spiega del resto che in quel giomoCesare, alla vigilia di partire per una grande spedizione progettata contro i Parti e contro i Daci che avrebbe dovuto porre le basi di un vero impero universale - volesse avere la consacrazione della regalità: l'esempio di Alessandro Magno stava davanti a lui. Si spiega pure che in quell' occasione decidesse di tentare la sua carta estrema l'opposizione repubblicana, capeggiata dai due dottrinari Marco Giunio Bruto e Caio Cassio. Erano appunto repubblicani, che dopo essersi avvicinati per un certo tempo a Cesare (come del resto Cicerone, che però rimase estraneo alla congiura) erano ormai ben consapevoli della incompatibilità dei loro programmi con quelli del dittatore. Il 15 marzo Cesare fu ucciso a colpi di pugnale.

Le Idi di marzo

11.6

Cesare precursore dell'impero

Il significato di Cesare

È inutile discutere come Cesare avrebbe regolato la posizione dell 'Italia e di Roma nell'impero se fosse sopravvissuto. Certo egli largheggiò in vita nel concedere ad elementi extra-italici la cittadinanza romana, fece entrare la Gallia cisalpina nell 'Italia, volle conferire alla Sicilia la cittadinanza di diritto latino, trasformò largamente la compagine del Senato (che raggiunse 900 membri) con suoi ex-ufficiali e con provinciali, dimostrò una tolleranza religiosa e politica, che è testimone del suo spirito universalistico. Ma non aveva ancora prima di morire preso nessuna decisione che provasse veramente la sua intenzione di parificare gli Italici e i provinciali. Tuttavia il significato più profondo della sua figura sta appunto, possiamo dire paradossalmente, in ciò che non gli possiamo attribuire con sicurezza, ma che pure era implicito nel suo programma e infatti fu realizzato dai suoi successori. L'elevazione di una persona sopra ogni altra come il simbolo e la vita stessa dell'impero non poteva mantenere a lungo la differenza tra i dominatori e i do-

Cesare

minati, perché non i Romani, non gli Italici, ma uno solo, l'imperatore, era ormai il dominatore. Cesare creerà quindi per i secoli compiutamente la figura del sovrano che impersona lo Stato e perciò fonde e unifica in sé gli elementi diversi che sono nello Stato. Cesare sarà veramente il creatore del cesarismo e perciò diventerà un mito, e a lui si richiameranno sempre - nel medio evo, come nell' età moderna - tutti coloro che riprenderanno un'idea imperiale. E Cesare diventerà fin dal motto evangelico di dare a Cesare quello che è di Cesare (in contrapposto a quello che è di Dio) il nome più consono dell'autorità imperiale: nei popoli di lingua germanica e slava assumerà anzi senz'altro il valore di nome comune dell'imperatore. Perciò se Augusto fu colui che organizzò di fatto l'impero di Roma - e lo organizzò, come vedremo, tenendo conto di quella reazione repubblicana che uccise Cesare e quindi con maggiore rispetto per la tradizione della nobilitas romana - il creatore dell'impero fu Cesare.

Bibliografia Tra le storie generali conserva per Cesare valore particolarissimo quella del Mommsen. Cfr. M. GELZER, Casar der Politiker und Staatsmann, Stoccarda e Berlino 1921 (tr. ingl.: Caesar: Politician and Statesman, Cambridge, Mass. 1968); L. Ross TAYLOR, Party Politics in the Age ojCeasar, Los Angeles 1948; C. MEIER, Res publica amissa, 2~ ed., Wiesbaden 1980; C. MEIER, Caesar, Berlin 1982 (tr. ingl.: Caesar: A Biography, New York 1982); L. CANFORA, Cesare. Il dittatore democratico, Bari 1999 (trad. ingl. Julius Caesar: The People's Dictator, Edinburgo 2007); G. ZECCHINI, Cesare e il mos maiorum, Stoccarda 2001; Id., Vercingetorige, Roma-Bari 2002; A Companion to Julius Caesar, a cura di M. Griffin, Oxford 2009. Per la questione dei comandi di Cesare e altri aspetti dei suoi ultimi due anni, cfr. Cesare: precursore o visionario? Atti del conv. Cividale del Friuli, 17 -19 settembre 2009 (http://www.fondazionecanussio.org/indexl.htm); L' ultimo Cesare: scritti, riforme, progetti, poteri, congiure, Atti del conv. Cividale del Friuli, 16-18 settembre 1999, a cura di G. Urso, Roma 2000 (http://www.fondazionecanussio.org/indexl.htm). Per la fortuna di Cesare nei secoli: Giulio Cesare. L'uomo, le imprese, il mito. Catalogo della mostra, Roma 2009. Per Sallustio: R. SYME, Sallust, Berkeley 1964 (trad. iL: Sallustio, Brescia 1968). Per Catone: R. FEHRLE, Cato Uticensis, Darrnstadt 1983; R.J. GOAR, The Legend oj Cato Uticensis jrom the jirst Century B.e. to thejifth Century AD., Bruxelles 1987.

133

PARTE

SECONDA

L'Impero

Dalla morte di Cesare alla battaglia di Azio CAPITOLO

12.1

DODICESIMO

Dalla morte di Cesare (44 a.C.) alla battaglia di Filippi (42 a.C.)

Gli uccisori di Cesare non provocarono quella pubblica insurrezione in favore degli ordinamenti repubblicani che essi speravano. Se il Senato era nella maggioranza a loro favorevole, se molta della borghesia italica aveva sempre osteggiato i provvedimenti economici del dittatore a lei dannosi; i soldati - soprattutto i veterani sparsi per l'Italia - e il popolo di Roma erano per Cesare che li aveva beneficati e protetti, cioè per la vendetta del suo assassinio. Dei soldati e del popolo di Roma seppe abilmente valersi il console Marco Antonio, collaboratore tra i più avveduti di Cesare, per mettere senz' altro in posizione di difesa - e non di offesa, come essi contavano - Bruto e Cassio e i loro seguaci. Dopo opportuno temporeggiare, i funerali del dittatore diedero infine la possibilità ad Antonio di sollevare l'indignazione popolare contro gli uccisori e costringerli ad allontanarsi da Roma. Ma Antonio non poteva dirsi l'incontrastato erede politico di Cesare. Appena conosciuta la notizia dell' assassinio si era affrettato a ritornare in Italia Gaio Ottavio, il diciannovenne nipote!, figlio della sorella Giulia, che Cesare aveva adottato nel suo testamento, intuendone l'ingegno e il carattere singolari. Gaio Ottavio - che per questa adozione venne a chiamarsi G. Giulio Cesare Ottaviano - avrebbe dovuto accompagnare Cesare nella progettata campagna contro i Parti e si trovava allora in Epiro; ma giunse in tempo a sequestrare la maggior parte dei tesori di Cesare e cosÌ assicurarsi il danaro necessario per le lotte future e intanto per soddisfare a tutte le condizioni del testamento di Cesare, che lo lasciava erede, e in specie allegato di trecento se sterzi a testa per ogni proletario romano. Si comprende come il legame di parentela con Cesare, la giovinezza, la premura di soddisfare ai doveri di pietà verso il padre adottivo, finissero dopo le prime esitazioni per conciliare simpatie intorno di lui,

I

Era nato nel 63 a.c.

La difficile successione a Cesare

Antonio e Ottaviano

Manuale di storia romana

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Lo scontro tra gli eredi di Cesare

L'accordo per un nuovo triurnvirato

che non potevano non mettere in allarme Antonio. E Ottaviano, rendendosi conto dell'ostilità di Antonio, seppe anche con cautela riavvicinarsi a quei repubblicani, come Cicerone, che, se non avevano mancato di subire il fascino di Cesare, ora erano smarriti tra la fuga di Bruto e Cassio e la minaccia di una nuova dittatura per parte di Antonio. L'ostilità tra Antonio e Ottaviano giunse a tale punto da dare luogo a un conflitto armato. Ne fu occasione il tentativo di Antonio di imporre a Decimo Bruto (da non confondersi con Marco Bruto) governatore della Gallia Cisalpina e partecipe del moto contro Cesare, di abbandonare la sua carica: perché il Senato e i consoli in carica del 43, Irzio e Pansa, si dichiararono favorevoli a Bruto, e Ottaviano si schierò dalla loro stessa parte con le truppe che si era raccolto e con le altre che da Antonio erano disertate a lui. Antonio fu sconfitto davanti a Modena (così detta guerra di Modena) e Ottaviano restò in apparenza trionfatore, tanto più che i suoi collaboratori Irzio e Pansa morirono in seguito a ferite riportate negli scontri. Ma il Senato ora diffidava di lui per le stesse misure illegali che egli aveva adottato nel raccogliere il suo esercito e gli rifiutò il trionfo mentre lo concesse a Decimo Bruto. Ottaviano vide che era impossibile per lui mantenere il compromesso con i repubblicani e arditamente marciò con le sue legioni su Roma imponendo con la forza di essere nominato console. Con questo atto l'ambigua situazione mantenutasi fino allora inalterata dalla morte di Cesare era dissolta: era chiaro che Ottaviano non voleva una restaurazione repubblicana, a vantaggio dell' autorità del Senato. Ma già per ciò solo era naturale che egli si riavvicinasse ad Antonio col quale aveva almeno in comune l'ostilità ai repubblicani. E tanto più urgeva questo accordo in quanto M. Bruto e Cassio si erano insignoriti rispettivamente della Macedonia e della Siria e da queste province avevano potuto rendersi padroni di quasi tutta la parte orientale dell 'Impero. E poiché a sua volta Antonio si era accordato con Lepido, già comandante della cavalleria di Cesare e ora governatore in Gallia e in Spagna, fu dopo molte trattative deciso che i tre - Antonio, Ottaviano e Lepido - avrebbero formato un triumvirato. Questo triumvirato era certo una imitazione di quello già costituito da Cesare, Pompeo e Crasso; ma a differenza del primo, che era un accordo privato, fu pubblicamente riconosciuto come una magistratura al di sopra delle altre (consolato, pretura etc.) e i triumviri si chiamarono precisamente triumviri reipublicae constituendae, cioè col compito di creare una nuova costituzione per lo Stato romano (novembre 43). Il nuovo triumvirato proclamò nel modo più significativo la sua devozione a Cesare facendolo ufficialmente riconoscere come dio (divus Iulius). E poi procedette a compilare quelle terribili proscrizioni, cioè

Dalla morte di Cesare alla battaglia di Azio

liste di condannati a morte, con cui cercò di liberarsi da tutti i nemici di ciascuno dei triumviri e confiscarne i beni. È noto che di queste proscrizioni fu vittima Cicerone, che, amico di Ottaviano, era stato invece fieramente ostile ad Antonio, colpendolo con l'oratoria sanguinosa delle sue Filippiche, così dette perché analoghe alle orazioni Filippiche lanciate da Demostene contro Filippo il Macedone. Presto poi, nel 42, si venne allo scontro decisivo con Bruto e Cassio. In Macedonia, nella pianura di Filippi, i due eserciti avversari si scontrarono in due azioni successive: nella prima Antonio sconfisse Cassio, che si uccise; nella seconda Bruto, che pure era riuscito per conto suo a superare brillantemente il primo scontro, era a sua volta sconfitto e anch'egli si uccideva. Le forze dei repubblicani erano quindi colpite nel loro centro. Restava solo la potente flotta di Sesto Pompeo, figlio di Pompeo il Grande, che pirateggiava in odio ai Cesariani e di fatto dominava sulla Sicilia, sulla Sardegna e sulla Corsica. Ma Sesto Pompeo poteva ostacolare i triumviri, mettere persino in pericolo il vettovagliamento dell 'Italia, impedendo che le giungessero i viveri necessari, non poteva impedire che già fin d'allora i triumviri si sentissero signori dell'impero.

12.2

139

L'uccisione di Cicerone

La battaglia di Filippi

Dalla battaglia di Filippi al patto di Miseno (39 a.C.)

Alla costituzione del triumvirato, Ottaviano aveva avuto da governare, tra le province, l'Africa, la Corsica, la Sardegna e la Sicilia (ma queste ultime, come già dicemmo, erano di fatto in mano di Pompeo); Antonio aveva avuto la Gallia cisalpina e quella transalpina eccetto la Narbonese, Lepido la Spagna e la Gallia Narbonese. Il resto dell'impero era allora in mano ai repubblicani e non poteva essere diviso. Dopo Filippi tenuto anche conto dell'atteggiamento sospetto di Lepido - si venne a una nuova divisione: Antonio, il vero vincitore, si prese la parte del leone; tutto l'Oriente, la Gallia transalpina con la Narbonese tolta a Lepido. Ottaviano ebbe la Spagna tolta pure a Lepido, ma rinunciò - dopo esitazioni - all'Africa in favore di Lepido. La Gallia cisalpina, mettendo in pratica un decreto di Cesare, non fu più considerata provincia, ma parte dell 'Italia: un atto di incalcolabile portata per la nostra storia, perché estendeva i confini dell 'Italia fino alle Alpi, comprendendovi quella che ora, appunto per un remoto effetto di questo provvedimento, a noi pare la cosa più naturale chiamare Italia settentrionale e non già Gallia cisalpina. L'Italia rimase indivisa, ma di fatto restò in mano di Ottaviano, mentre Antonio era in Oriente. Il compito di Antonio in Oriente era ora di riordinare le province e gli Stati vassalli, nonché di raccogliere danari. Il compito di Ottaviano in Italia era di distribuire terre ai veterani (più di 150.000). Ognuno ca-

Antonio e Ottaviano si spartiscono le province

Manuale di storia romana

140

La «guerra di Perugia»

Il patto di Brindisi

Il patto di Miseno

pisce che il compito di Ottaviano era ingratissimo, dovendo egli portare via le terre a coloro che, sia pure solo per concessione precaria dello Stato romano, le detenevano, per darle ai soldati. Ma il compito divenne ancora più arduo, perché egli fu fortemente osteggiato dal fratello di Marco Antonio, Lucio Antonio, e dalla moglie di Antonio stesso, Fulvia, che cercarono di valersi dei malcontenti per togliergli il potere. Anche questa volta si venne a un conflitto armato, la cosÌ detta guerra di Perugia, perché Lucio Antonio vi fu assediato in quella città da Ottaviano e dovette capitolare (40 a.C.). Marco Antonio era rimasto estraneo al conflitto, sia che non volesse compromettersi, sia che di fatto non lo approvasse. Dopo la sua conclusione, credette necessario venire in Italia ad accordarsi nuovamente con Ottaviano. L'accordo stretto a Brindisi, nell' ottobre del 40, stabiliva che Antonio rinunziava a favore di Ottaviano alla Gallia transalpina e alla Narbonese e teneva per sé tutto l'Oriente. E poiché gli era morta la moglie Fulvia, sposava in segno di concordia la sorella di Ottaviano, Ottavia. L'accordo tra i due sembrava garanzia di pace e fu salutato con grandissima gioia da tutto l'impero; gioia di cui ci tramanda l'eco in versi solenni la quarta Bucolica di Virgilio, scritta appunto in quella occasione. E può considerarsi un perfezionamento di questo accordo il patto di Miseno stretto nel 39, per cui Antonio e Ottaviano si riconciliavano con Sesto Pompeo e gli riconoscevano il governo della Corsica, della Sardegna e Sicilia, nonché gli promettevano il governo del Peloponneso.

12.3

I dissensi tra i triurnviri

Dal patto di Miseno alle guerre con i Parti (34 circa)

Ma in realtà non c'era accordo profondo tra Ottaviano, Antonio, Sesto Pompeo e Lepido: c'era solo compromesso. Ognuno aveva ambizioni diverse e tendenze politiche diverse, che per Antonio e Ottaviano si chiariranno negli anni successivi, per Sesto Pompeo e Lepido non avranno tempo di chiarirsi mai. Il primo contrasto sorse tra Sesto Pompeo e Ottaviano. Quello continuava a fare il pirata e inoltre suscitava. come figlio del grande Pompeo, pericolose simpatie in Italia. Dopo molte e burrascose trattative, con gli accordi di Taranto del 37, Ottaviano ottenne da Antonio aiuti in navi e soprattutto mano libera nel combattere Sesto. La spedizione, accuratamente organizzata da quello che sarà poi per lunghi anni il più fedele collaboratore di Ottaviano. Agrippa, riUSCÌ vittoriosa; presso Naulòco nel 36 Sesto Pompeo era interamente sbaragliato e costretto a prendere la fuga verso l'Asia, dove poco dopo moriva.

Dalla morte di Cesare alla battaglia di Azio

Ma l'occupazione della Sicilia dava tosto luogo a un conflitto con Lepido. Questi aveva aiutato Ottaviano, ma ora pretendeva tener per sé la Sicilia. Dopo una breve lotta, egli fu vinto e spossessato, oltre che del suo governo in Africa, anche del titolo di triumviro, e visse poi molti anni ancora con la sola, per altro insigne, funzione di pontefice massimo, di cui non fu privato. Ottaviano era ormai padrone assoluto dell'Occidente. Intanto Antonio aveva un grosso problema da risolvere in Oriente. Nel 40 i Parti, che erano stati tempo prima chiamati in aiuto da Cassio ed erano guidati da un repubblicano romano fuggiasco, Labieno, invadevano la Siria, e mettevano il disordine anche negli Stati vassalli vicini, fino allora fedeli a Roma. Ci volle già molto tempo a ricacciarli al di là dei confini dell'impero, ma poi nel 37 Antonio volle organizzare una spedizione contro i Parti stessi per colpirli nel cuore del loro impero. Forse egli voleva imitare la spedizione di Alessandro contro la Persia, ma fallì miseramente e fu messo in rotta dai Parti, che non invasero di nuovo la Siria perché divisi in contese interne (36 a.c.). Solo nel 34 Antonio si prenderà una parziale rivincita, occupando l'Armenia, stato vassallo dei Parti, la quale però pochi anni dopo sarà di nuovo riconqui stata dai Parti (31 a.c.).

12.4

141

A Ottaviano l'Occidente; ad Antonio l'Oriente

Il conflitto definitivo fra Antonio e Ottaviano

Intanto un altro fatto approfondiva il distacco tra Antonio e Ottaviano e valeva a definire in modo irrevocabile il diverso orientamento dei loro spiriti. Antonio, preso di passione per la regina di Egitto, Cleopatra, la sposava nel 37 a.c., senza curarsi del suo matrimonio con Ottavia, che solo più tardi formalmente ripudiava. Aderendo all'abitudine ellenistica di divinizzare i sovrani, egli si faceva riconoscere quale Dioniso od Osiride, mentre Cleopatra era salutata come Iside o Afrodite, e dei due loro figli Alessandro era soprannominato Helios, cioè Sole, mentre la femmina, Cleopatra, era soprannominata Selene, cioè Luna, quasi a identificarli con questi due esseri ritenuti anch'essi divini. Un altro figlio fu chiamato Tolemeo Filadelfo per ricordo del più glorioso antenato di Cleopatra. Poi, verso la fine del 34, con cerimonie solenni ad Alessandro e Cleopatra Se lene erano assegnati rispettivamente il regno di Armenia e il regno di Cirene e Libia, mentre all'altro figlio Tolomeo Filadelfo era assegnata una serie di territori in Siria e Cilicia, che Antonio, togliendo alle province romane e agli Stati vassalli di Roma, aveva dato poco prima in dono a Cleopatra. Cleopatra stessa era proclamata, come tutrice di questi figli, «regina dei re» e le era associato al trono d'Egitto il figlio che si diceva avesse avuto da Cesare, Cesarione, col ti-

Cleopatra conquista anche Antonio

142

Ottaviano a Roma restaura i costumi tradizionali

Antonio e Cleopatra si suicidano dopo la sconfitta di Azio

Manuale di storia romana

tolo di «re dei re». Benché, come si vede, Antonio non assumesse personalmente nessuna dignità reale, cioè si mantenesse semplice triumviro romano, questi fatti e altri analoghi non potevano non sollevare sdegno nell'opinione pubblica italiana, che vedeva abbandonati, in favore di costumi e di persone orientali, le sue tradizioni e i suoi stessi dominii in Oriente. Invece Ottaviano andava accentuando sempre più, con sicura consapevolezza, la sua opera di restaurazione dei valori religiosi e morali propri della tradizione romana, la pietà verso gli dèi, la serietà dei costumi, l'amore per il lavoro, soprattutto per l'agricoltura da lui esaltata in mille modi. E con lui collaboravano fervidamente i suoi amici, tra cui Agrippa e Mecenate. Per incitamento di Mecenate, in quegli anni Virgilio scriveva le Georgiche, in cui cantava il lavoro dei campi come opera di elevamento spirituale. Moltissimi ormai vedevano in Ottaviano chi avrebbe garantita la pace, salvando, pur negli inevitabili sconvolgimenti economici dovuti alla necessità di accontentare i veterani con distribuzione di terre, l'essenziale della tradizione romana. Una fortunata spedizione in Dalmazia e Illiria tra il 35 e il 34 a.c., che, tra l'altro rafforzava il dominio romano nella Dalmazia, accresceva il suo prestigio. Non mancavano naturalmente anche a lui difficoltà, soprattutto dopo che alla fine del 33, scadde il suo mandato di triumviro ed egli (come Antonio) avrebbe dovuto ritornare privato. Ma ciò avrebbe significato rinunciare alla propria opera, perché Ottaviano non aveva fino allora altro privilegio personale che quello dell'inviolabilità, largitagli nel 36. Di più le popolazioni protestavano per le dure tasse imposte. Ma Ottaviano seppe con forza e destrezza impedire di essere deposto da triumviro e legare a sé con solenne giuramento i cittadini d'Italia e i sudditi delle province occidentali. Poté quindi affrontare con tranquillità Antonio, quando il conflitto si presentò inevitabile. La guerra fu dichiarata, con molta avvedutezza, non ad Antonio, ma a Cleopatra. Di fatto la lotta era ancora una volta tra Roma e il mondo ellenistico, a cui Antonio si era assimilato: in ciò appunto, nell'avere dietro di sé, con l'Italia, le energie più vive dello Stato romano, stava la forza di Ottaviano. E quando, il 2 settembre del 31, le due flotte avversarie si scontrarono presso il promontorio di Azio in Epiro, la vittoria fu di Ottaviano: una parte della flotta di Antonio si era ritirata senza combattere. Antonio e Cleopatra si rifugiarono in Egitto, ma una vera resistenza non fu tentata. Entrambi si uccisero. Ottaviano fu signore assoluto dell'impero.

Dalla morte di Cesare alla battaglia di Alio

Bibliografia M. A. LEVI, Ottaviano capoparte, Firenze 1933; R. SYME, The Roman revolution, Oxford 1939 (trad. it.: La rivoluzione romana, Torino 1962); Id., The Augustan Aristocracy, Oxford 1986; Between Republic and Empire: Interpretations oJ Augustus and his Principate, a cura di K.A. Raaflaub, Berkeley 1990; G. CRESCI MARRONE, Ecumene augustea, Roma 1993; A. FRASCHETTI, Roma e il principe, Bari 2005; The Cambridge Companion to the Age oJ Augustus, a cura di K. Galinsky, Cambridge 2005; W. ECK, Augustus und seine Zeit, 4~ ed., Monaco 2006 (trad. it.: Augusto e il suo tempo, Bologna 2000). Sulle popolazioni alpine, escluse dalla concessione della cittadinanza ai Cisalpini nel 49 a.c.: U. LAFFI, Contributio e adtributio, problemi del sistema politico-amministrativo dello Stato romano, Pisa 1966; sulla fine dell'amministrazione provinciale della Gallia Cisalpina e la sua integrazione nell 'Italia: F. CÀSSOLA, La colonizzazione romana della Transpadana, in Die Stadt in Oberitaien und in den nordwestlischen Provinzen des romischen Reiches, Atti conv. Colonia 1989, a cura di W. Eck eH. Galsterer, Mainz am Rhein 1991, pp. 17-44. Sull'identità italica cfr. i saggi di A. GIARDINA, L'Italia romana: storie di un' identità incompiuta, Bari 1997.

143

La nuova organizzazione dell'Impero CAPITOLO

13.1

La riforma dello Stato

TREDICESIMO

La situazione dell'impero dopo la battaglia di Azio e il programma di Ottaviano

Dalla vittoria di Azio era intanto derivata una prima conseguenza: che l'Egitto era passato non sotto il dominio romano, ma sotto il dominio personale di Ottaviano, che lo governerà per mezzo di un funzionario, il prefetto di Egitto. Già questo fatto solo indicava che egli non intendeva ridare al Senato il potere sovrano, che le guerre civili gli avevano tolto. Di più la stessa vittoria, vittoria militare, non poteva se non confermare Ottaviano nella convinzione che i soldati erano elemento essenziale della sua potenza e che quindi egli doveva assicurarsi la loro devozione, sia con privilegi, sia impedendo che essi passassero alle dipendenze di altri. In fondo il principio che aveva guidato Cesare - costituire una dittatura sulla forza militare - guidava anche il suo erede. Solo che questi. (come già avvertimmo), per l'esperienza della lotta contro le tendenze orientaleggianti di Antonio, era inoltre convinto che la tradizione di Roma con i suoi molti secoli di ininterrotta grandezza non poteva essere abbandonata e che quindi non potevano essere nemmeno distrutte quelle istituzioni romane e quelle categorie di persone che avevano rappresentato, anzi creato, questa tradizione. Di qui lo sforzo di Ottaviano. dalla battaglia di Azio in poi: trovare il modo di utilizzare il più possibile nel nuovo Stato i vecchi uomini e le vecchie cose, ma nello stesso tempo, dare a sé, con l'appoggio dell'esercito, la più ampia somma di poteri. Era un 'impresa delicatissima, che impegnerà per molti anni l'intelligenza di Ottaviano e dei suoi collaboratori e subirà naturalmente trasformazioni e correzioni prima di giungere a un assetto almeno relativamente stabile: ed è appunto questa impresa, da cui è stata modellata la Roma imperiale, che costituisce la vera grandezza di Ottaviano. per la novità e originalità delle istituzioni che egli seppe creare, contemperando il nuovo e l'antico.

145

La nuova organizzazione dell'Impero

13.2

Le fasi della costituzione augustea

Dopo Azio, per qualche anno, Ottaviano ritenne di poter fondare il suo potere prendendo a base l'antica autorità consolare, allargata per lui con alcuni privilegi sino allora inerenti ai tribuni della plebe. Di fatto dal 31 al 23 a.C. egli fu ininterrottamente ogni anno console con un collega a lui devoto, e se già nel 36 si era fatto conferire la prerogativa tribunizia della inviolabilità, nel 30 si faceva conferire un altro privilegio tribunizio iljus auxilii, cioè il diritto di intercessione su appello della persona lesa. Di più, ad accennare la sua autorità militare, egli portava abitualmente come prenome l'appellativo imperator, come già Cesare, e perciò imperatore divenne uno dei nomi più abituali per designare in genere i capi dello Stato romano. Ma la base costituzionale era ancora troppo fragile: in definitiva Ottaviano deteneva il potere illegalmente. Perciò nel 27 a.c. si decise a una riforma più radicale pur senza ancora rinunziare al consolato. Nella solenne seduta del 13 Gennaio con l'apparenza di deporre ogni suo potere nelle mani del Senato e del popolo romano, egli venne a una sistemazione più precisa della sua autorità. Se egli formalmente rinunciava al potere, il Senato lo investiva per la durata di dieci anni del governo di una parte delle province, quelle in cui era stanziato quasi tutto l'esercito; sicché per questo potere che fu detto proconsolare, in quanto era analogo a quello che ogni proconsole aveva nella sua provincia, Ottaviano aveva direttamente a sua disposizione pressoché tutto l'esercito. In definitiva quindi egli aggiungeva al potere che gli veniva dal consolato il potere proconsolare, cioè accresceva la sua precedente autorità: e questa particolarissima autorità (auctoritas) che in tale modo egli acquisiva, faceva sancire solennemente tre giorni più tardi, il 16 gennaio 27, col farsi conferire dal Senato il titolo di Augusto, che era imparentato strettamente con la parola auctoritas, derivando ugualmente dalla radice del verbo aug-eo e significando la religiosa elevazione del principe sopra gli altri uomini l . Augusto sarà ormai il termine con cui Ottaviano passerà alla storia, appunto perché sarà il termine specifico e quasi intraducibile della sua dignità imperiale: anche noi, da ora in poi, lo indicheremo sempre con questo nome. Ma ancora la trasformazione non era completa. I poteri di cui Augusto poteva disporre erano diversi secondo le varie parti dello Stato. Nell'Italia e nelle province lasciate all'amministrazione del Senato egli era dotato di autorità consolare, limitata naturalmente, oltre che dal Se-

l

Per questa interpretazione, che credo sicura, ma è contestata, sia permesso di rimandare ad A. von Premerstein, «Phil. Wochenschrift» 1929,845 segg.; S. Reiter, «ib.» 1930, 1199 segg.

Ottaviano diventa «imperator»

Il Senato gli conferisce il titolo di «augustus»

146

Manuale di storia romana

La riforma dei poteri

Le caratteristiche dell'autorità imperiale

nato, dai singoli proconsoli delle province. Nelle province lasciate alla sua amministrazione diretta, egli aveva invece autorità proconsolare non limitata né dal Senato né da altri magistrati e quindi di gran lunga superiore. Di più egli come console doveva sempre avere un collega teoricamente uguale. La maggior parte di questi difetti inerenti alla costituzione del 27 fu annullata con le riforme del 23, per cui Augusto deponeva il consolato, ma otteneva l'estensione del potere proconsolare per tutto l'impero e la sua elevazione forse in Italia e certo nelle province senatorie al di sopra del potere dei consoli, dei proconsoli e del Senato. Il potere proconsolare insomma, esteso a tutto l'impero, privato del suo limite di dieci anni, si conformava in un imperium maius, superiore agli imperia degli altri magistrati. Inoltre le due prerogative trasferite ad Augusto dai tribuni -l'inviolabilità e l'ausilio - erano completate con la terza prerogativa tribunizia, il diritto di veto per ogni provvedimento che spiacesse all'imperatore, sicché d'allora in poi egli avrà anche la potestà tribunizia nel pieno sens0 2 • Questo potere sembra fosse ancora accresciuto nel 19 dando ad Augusto una facoltà non ben precisabile di legislazione, e poiché già egli fungeva da presidente del Senato (princeps senatus) e aveva il diritto di votare per primo in tutte le proposte di legge che fossero presentate al Senato (sicché naturalmente tutti gli altri Senatori si affrettavano a seguire il suo esempio) e poiché d'altro lato egli aveva anche il diritto di presiedere i comizi, tutta la legislazione restava praticamene in mano sua: sia quella che emanava personalmente (editti), sia quella che era formalmente emanata dal Senato (senatus consulta), sia infine quella che era emanata da tutto il popolo nei comizi (leggi nel senso stretto della parola). E da ultimo nel 12 a.C., morto Lepido, ad Augusto era conferita anche la carica di POI/tefice massimo, cioè di massima autorità religiosa in Roma. Si aggiunga poi che, rivestendo ripetutamente la potestà censoria, Augusto ebbe la piena possibilità di nominare nuovi senatori e destituire antichi, che non gli paressero degni. Riassumendo, il 12 a.c. l'autorità imperiale di Augusto risultava: 1) dall'avere un'autorità superiore a tutti gli altri magistrati romani (imperio proconsolare), che gli dava anche in mano direttamente quasi tutto l'esercito; 2) dall'avere la facoltà di controllo sugli altri magistrati. propria dei tribuni della plebe (potestà tribunizia) ma senza i limiti di tempo (un anno) e di spazio (in Roma) propria dei tribuni; 3) dall'avere per il diritto personale di stabilire norme giuridiche, per il controllo

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Poiché la potestà tribunizia si intendeva teoricamente rinnovata anno per anno, il numero degli ano ni della potestà tribunizia di un imperatore serviranno a designare i suoi anni di regno. Giova qu: inoltre avvertire che la interpretazione dei poteri conferiti ad Augusto nel 23 è estremamente in· certa e discussa.

147

La nuova organizzazione dell'Impero

sul Senato e sui Comizi, piena facoltà di legiferare su tutto l'impero; 4) dall'essere il capo religioso del popolo romano (pontefice massimo). Altre prerogative minori si verranno via via aggiungendo; così per es. il 6 a.c. gli edili curuli eletti dai Comizi ebbero le incombenze limitate da un prefetto dei vigili, capo della polizia in Roma, nominato dall'imperatore, cioè suo diretto dipendente.

13.3

La struttura dello Stato romano al tempo di Augusto

In seguito a questo rinnovamento costituzionale Augusto diveniva, come è ovvio, non solo di fatto, ma anche di diritto, il capo dello Stato romano. Egli era assistito nelle sue deliberazioni e anche in processi sottoposti al suo giudizio da un Consiglio (consilium principis), costituito da suoi amici (Agrippa, Mecenate), da membri della sua famiglia e da altri funzionari dello Stato, che però non avevano alcuna autorità specifica. Gran parte delle entrate dello Stato, a cominciare dai tributi delle province imperiali, confluiva nella cassa dell 'imperatore, il fisc0 3 , tenuto ben distinto dall'antica cassa dello Stato romano, l'erario, ora limitato soltanto più alle entrate ed uscite dipendenti dal Senato. All'imperatore spettava anche il diritto esclusivo di battere monete d'oro e d'argento, mentre il Senato poteva solo battere monete di bronzo. I Comizi continuavano ad eleggere i magistrati dell'antica repubblica e a votare delle leggi, ma non avevano più nessuna importanza. Molta importanza invece aveva il Senato, sebbene esso non potesse svolgere un'azione politica indipendente da quella voluta da Augusto. Rinnovato nei suoi membri per severe selezioni operate dall 'imperatore fra gli antichi membri e per nuove nomine, esso era un grande corpo amministrativo. Alle sue dirette dipendenze stava una parte delle province, di cui nominava i funzionari e le cui entrate confluivano nell' erario. L'imperatore convocava spesso il Senato per udirne il parere in questioni importanti, per fare votare consulti e infine per costituirlo in alta corte di giustizia in cause di particolare rilievo. Ma soprattutto fu di grande peso che Augusto considerasse privilegio dei senatori la maggior parte delle alte cariche dello Stato, cioè quasi tutti i governi delle province e conservasse ai discendenti di senatori che avessero un censo di almeno un milione di sesterzi la carriera della magistratura (questura, pretura, consolato) e quindi anche la successione ai loro padri nel senato, essendo appunto i

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In realtà una cassa unica dell' imperatore non ci fu che dal tempo di Claudio in poi, prima c' eran parecchie casse (ciascuna dettafisco) per le varie entrate dell'imperatore. Ma la cosa non cambia.

Il «consilium principis»

La riforma del Senato

148

Manuale di storia romana

La riorganizzazione dell'esercito: nascono i «pretoriani»

Le legioni mandate a presidiare i confini

senatori esclusivamente degli ex-magistrati. Fu così costituita in modo rigoroso la carriera senatoriale, al di sotto della quale Augusto organizzò la carriera degli appartenenti alla classe equestre, cioè di coloro che possedessero quattrocento mila sesterzi e fossero discendenti di cavalieri o fossero elevati dall'imperatore a questo rango. Ai cavalieri erano riservate le cariche di prefetto di Egitto, di comandante della guardia dell'imperatore (cioè di prefetto di pretoriani), di governatore di certe province minori, di rappresentanti del fisco nelle province (nei quali ultimi due casi prendevano il nome di procuratori) etc. L'esercito ebbe naturalmente continue cure, ma ciò non impedì che Augusto si preoccupasse principalmente di ridurre il numero delle legioni, che durante il periodo delle guerre civili era cresciuto a dismisura a pregiudizio, non a difesa, della sicurezza dello Stato e con forte aggravio dei bilanci. Con prudenza ed energia le legioni furono ridotte da sessanta circa fino a diciotto; poi, perché la riduzione si dimostrò eccessiva, dopo varie modificazioni furono portate a venticinque. La guardia personale che l'imperatore, come ogni generale del periodo repubblicano, aveva nel suo quartiere generale (il pretorio) fu invece da Augusto accresciuta in modo da costituire un corpo speciale e privilegiato di truppe, i pretoriani, che risiedevano a Roma e avevano il compito di difendere l'imperatore da ogni ribellione. A capo dei pretoriani fu posto, come già dicemmo, un prefetto4 , che ebbe in seguito nella storia dell 'impero una grande importanza, potendo giungere con le forze che aveva a disposizione a minacciare lo stesso imperatore. Il reclutamento dei soldati fu riorganizzato, tenendo però fermo che i soldati delle legioni potevano essere di regola soltanto dei cittadini romani, non dei provinciali: la durata della ferma fu stabilita a vent'anni per ogni legionario, a sedici per i pretoriani. Le leve da obbligatorie diventarono sempre più spesso, salvo casi eccezionali di bisogno, volontarie. Come prima, i veterani congedati continuarono a ricevere premi in denaro e in terre, ma Augusto creò una cassa speciale, l'erario militare (da non confondersi con l'erario sottoposto all'amministrazione del Senato), il cui compito era di pagare i premi ai soldati congedati. L'ordinamento augusteo dell'esercito che durò per due secoli, fu decisivo per la storia dell'impero: esso si basava sul principio di distribuire le legioni ai confini e di non mantenere una truppa unitaria al centro come massa di manovra. Basterà quindi finché i confini potranno essere custoditi facilmente: non resisterà agli attacchi concentrati in un solo punto.

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Spesso, appunto per limitare l' onnipotenza del prefetto, la carica fu raddoppiata: i prefetti furonQ due.

La nuova organizzazione dell'Impero

Molte colonie furono create per collocare veterani, ventotto nella sola Italia; poi molte nelle province: delle prime basti ricordare Augusta Taurinorum (Torino), delle seconde Nemausus (Nimes) in Francia; Caesaraugusta (Saragozza) in Spagna. Le province subirono naturalmente la trasformazione maggiore. Abbiamo già ricordato che esse furono divise in due categorie, quelle sottoposte al Senato e quelle dipendenti direttamente dall'imperatore. Furono province senatorie la Spagna Betica, la Sardegna con la Corsica, la Sicilia, l'Illirico, la Macedonia, l' Acaia (Grecia), l'Asia, la Bitinia col Ponto, Creta con la Cirenaica, l'Africa. Furono province imperiali la Spagna Terraconense e la Lusitania, la Gallia narbonese, la Gallia cornata o transalpina (poi divisa in tre province, la Belgica, la Lugdunense e l'Aquitania), la Siria e in condizioni particolari l'Egitto: nell' Il a.c. anche l'Illirico passò all'amministrazione imperiale. Tutte le legioni erano nelle province imperiali, salvo una legione che era nell'Africa. I maggiori concentramenti di legioni erano, in Occidente, in Spagna e in Gallia e sul Danubio; in Oriente, in Siria e in Egitto.

Fig.13.1 Le province romane durante l'impero di Augusto

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Nuove colonie e province

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Manuale di storia romana

I poteri di Augusto Nessuno meglio di Tacito ha trattato la questione del passaggio dal sistema repubblicano all'impero. Facendo un consuntivo dei cambiamenti politici, morali, sociali e costituzionali che connotarono il principato augusteo scrive lo storico, nei suoi Anna/es (1.2): Dopo che, uccisi Bruto e Cassio, lo stato restò disarmato e, con la disfatta di Pompeo in Sicilia, l'emarginazione di Lepido e l'uccisione di Antonio, non rimase a capo delle forze cesariane se non Cesare Ottaviano; costui, deposto il nome di triumviro, si presentò come console, pago della tribunicia potestà a difesa della plebe. Quando ebbe adescato i soldati con donativi, il popolo con distribuzione di grano, e tutti con la dolcezza della pace, cominciò passo dopo passo la sua ascesa, cominciò a concentrare su di sé le competenze del senato, dei magistrati, delle leggi, senza opposizione alcuna: gli awersari più decisi erano scomparsi o sui campi di battaglia o nelle proscrizioni, mentre gli altri nobili, quanto più pronti a servire, tanto più salivano di ricchezza o in cariche pubbliche, e, divenuti più potenti col nuovo regime, preferivano la sicurezza del presente ai rischi del passato. Già Giulio Cesare aveva ottenuto la tribunicia potestas, cioè il potere di tribuno della plebe, senza ricoprire la carica di tribuna, visto che era un patriziO e tale carica era vietata ai patrizi. Anche il figlio adottivo Ottaviano fu insignito della medesima potestà tribunizia. Lo storico Appiano (1.132), parlando delle misure adottate dopo la sconfitta di Sesto Pompeo nel 36 e dopo la deposizione di Lepido dal triumvirato, scrive quanto segue: per acclamazione, lo elessero tribuno a vita, sollecitandolo con una magistratura perpetua a deporre la precedente. La carica precedente era quella di triumviro, che in effetti Ottaviano abbandonò, per ricoprire cariche nuove, perpetue come la potestà tribunizia, ed estese su ogni ambito della vita politica e militare di Roma. La potestà tribunizia lo rendeva capo del popolo, responsabile del benessere della plebe e di un trattamento equo da parte delle autorità. Suo padre adottivo, Cesare, era stato il capo del partito dei popu/ares, erede della politica di Caio Mario, e Ottaviano seguiva l'esempio di questi suoi predecessori. Inoltre la potestà tribunizia conferiva l'inviolabilità alla persona di chi la rivestiva. Scrive infatti Cassio Diane (L111.17): La cosiddetta potestà tribunizia, che un tempo assumevano solo gli uomini di particolare prestigio, concede agli imperatori la facoltà di annullare le misure decise da un altro magistrato, nel caso in cui non l'approvino, e l'inviolabilità della persona; inoltre, qualora appaia che subiscano qualche ingiustizia anche di lieve entità, non solo in caso di aggressione fisica ma anche verbale, hanno il potere di mandare a morte senza processo l'aggressore con l'accusa di empietà. Lo stesso Augusto fa riferimento al conferimento della tribunicia potestas a vita, con rinnovo annuale automatico, che fu deciso nel 23, e scrive nelle sue Res gestae (cap. 10): Per legge è stato deciso che la mia persona fosse sacra in perpetuo, e per tutta la mia vita io ricoprissi la potestà tribunicia. Ho rifiutato di essere nominato pontefice massimo, succedendo ad un collega che era ancora in vita, allorquando il popolo mi offriva il sacerdozio che mio padre aveva ricoperto. Alcuni anni dopo io accettai questo sacerdozio quando morì colui che, approfittando dell'occasione dei disordini, lo aveva avuto; e allora una moltitudine che mai si ricorda di aver visto prima a Roma venne in assemblea per la mia elezione da tutta l'Italia.

La nuova organizzazione dell'Impero

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Qui Augusto fa riferimento ad un'altra carica che costituì un altro fondamento dei nuovi poteri imperiali, e che sarà caratteristica di ogni futuro imperatore, quella di pontefice massimo. Scrive, a proposito degli imperatori romani, lo storico Cassio Dione (LlI1.17): assumono la carica di pontefice massimo, detengono l'autorità suprema in materia religiosa su tutte le questioni sacre e profane. Nel 12 a.C. Augusto succedette al defunto Lepido al sommo pontificato e sui rilievi dell'Ara Pacis egli compare in mezzo ai sacerdoti, fra i quali già rivestiva la massima carica. Anche molte statue lo raffigurano con un lembo della toga sul capo, com'era costume per i ritratti dei pontefici massimi. Altre prerogative di Augusto e, dopo di lui, degli altri imperatori romani, sono descritte nello stesso brano di Cassio Dione: essi hanno il potere di compilare le liste della leva, di raccogliere fondi, di dichiarare la guerra e di trattare la pace, di avere la piena autorità sui cittadini e sulle genti straniere dovunque e sempre, sino al punto di poter mettere a morte anche cavalieri e senatori all'interno del pomerio e, infine, possiedono anche tutti gli altri poteri concessi un tempo ai consoli e agli altri magistrati con autorità indipendente. Per quanto riguarda invece le funzioni che essi esercitano in virtù del potere censorio, essi tengono sotto controllo il tenore delle nostre vite e dei nostri costumi e svolgono il censimento incorporando alcuni cittadini nell'ordine equestre o in quello senatorio ed escludendo altri da queste classi, a seconda della loro decisione. La prima e più importante definizione dei nuovi poteri dell'imperatore awenne nel 27 a.C. E il più importante fra questi poteri fu quello proconsulare maius, cioè il comando delle truppe nelle province al di sopra dei vari governatori delle singole province. Essendo l'Italia in gran parte smilitarizzata, erano infatti le province ad ospitare le legioni, e specialmente le province in cui l'imperatore nominava direttamente i governatori, vaIe a dire quelle in cui c'era maggiore bisogno di truppe, laddove le province pacificate erano affidate a governatori nominati dal Senato. Cassio Diono LIII, 32 scrive in proposito: il Senato gli diede l'imperium proconsulare maius a vita (non rinnovandolo come prima a ogni uscita dal pomerio) Nel 23 i poteri del principe furono ulteriormente definiti, assumendo un carattere vitalizio, e anche il comando militare proconsulare maius fu conferito a vita ad Augusto. Nel 27, per suggerimento di Munazio Planco, Ottaviano ricevette il titolo onorifico di Augustus. Scrive in proposito Cassio Dione (LlI1.16): Quando allora Cesare ebbe assunto di fatto tali privilegi, gli venne conferito il titolo di Augusto da parte del Senato e del popolo romano. [ ... ) Lui assunse il titolo di Augusto, come significativo di una condizione superiore alla umana: infatti tutti gli oggetti di maggiore valore e piÙ sacri sono definiti -augusti ...

Anche il sistema delle tasse dovute dai provinciali fu notevolmente modificato sia con il diminuire la entità delle imposte, sia con il dare più importanza ai pagamenti di tributi fissi che non ai pagamenti di tributi a percentuale sui prodotti del suolo (decime): e poiché gli uni e gli altri si limitavano fino allora a colpire i proprietari dei terreni, stabilì

La riforma delle tasse

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Manuale di storia romana

Il nuovo ordinamento dell'Italia

che i non possessori di terre dovevano pagare una tassa speciale per persona, il cosiddetto tributum capitis. Accurate opere di misurazione e censimento diedero la possibilità di tassare con più equità e conoscenza di causa che non prima. Anche l'ordinamento dell 'Italia subì modificazione. L'Italia fu divisa in undici regioni; Roma, allargata di suburbi, in quattordici quartieri (detti, anch 'essi, regioni). Entrambe le divisioni avevano, come è ovvio, lo scopo di assicurare una migliore ripartizione dei servizi pubblici. Questi servizi furono del resto riorganizzati con norme nuove di funzionamento: così per es. le distribuzioni gratuite del frumento al proletariato di Roma furono affidate a un prefetto e a un altro prefetto fu affidata la organizzazione della importazione delle sostanze alimentari (praefectura annonae). Poiché tutti gli Italiani erano da tempo esenti da ogni tassa, impose loro due tasse, la tassa di successione (5 per 100) e la tassa sulle vendite (dapprima l per 100) che dovevano alimentare l'erario militare; ma la tassa di successione non colpiva l'eredità da padre in figlio e di altri parenti prossimi e le piccole fortune.

13.4

I confini occidentali dell'impero

L'area del basso Danubio

Le guerre di Augusto

La politica di Augusto fu naturalmente pacifica: il suo stesso impero era espressione di un profondo bisogno di pace e di riassetto dopo le guerre civili. Egli si compiacque di chiudere più d'una volta le porte del tempio di Giano, che era il religioso segno della pace perfetta. Ma la preoccupazione di dare confini più sicuri allo Stato romano portò a guerre che ebbero poi talvolta sviluppi superiori e diversi di quelli che i piani originari supponessero. La idea direttrice di Augusto fu di avere per confini le Alpi in tutta la loro estensione, il Danubio e l'Elba (quest'ultimo a sostituzione del Reno). La conquista dei confini delle Alpi, benché lunga, fu la più facile. Nel 16 a.c. il Norico (cioè con larga approssimazione gran parte dell'odierna Austria) fu ridotto a provincia, nel 15 ebbero uguale sorte la Rezia (press'a poco Alto Adige, Trentino, Cantone dei Grigioni, alta Lombardia) e la Vindelicia (parte nord-est della Svizzera, del Baden e del Wiirtemberg) dopo una abile impresa guidata da Druso e da Tiberio: nel 141a regione delle Alpi Marittime fu ordinata a provincia. Nelle Alpi che furono da lui dette Cozie, il re Cozio dovette riconoscersi vassallo di Roma. Già assai più difficile fu condurre avanti lo spostamento dei confini romani nel medio e basso Danubio. Solo nell' 8 a.c. dopo lunghe lotte la Pannonia (press' a poco parte orientale dell' Austria, Croazia, Bo-

153

La nuova organizzazione dell'Impero

snia, Ungheria) fu sottomessa, ma non durevolmente. Nel 6 d.C. Tiberio per conto di Augusto si accinse a sottomettere la regione che dai Galli Boi che l'avevano occupata prese il nome di Boemia, ma che allora era occupata dalla tribù dei Marcomanni, sotto il comando di Maroboduo, che aveva un ambiguo atteggiamento verso Roma: una rivolta in Pannonia, prendendo alle spalle i Romani, li costrinse a recedere e solo dopo circa tre anni poté elevare la Pannonia, pienamente sottomessa, a provincia romana. A est della Pannonia, la Mesia fu ridotta a provincia, mentre la Tracia fu lasciata a un re vassallo fedele. L'avanzata verso l'Elba invece non riuscì, costò anzi all'Impero uno dei più gravi sacrifici di uomini e di denari. Druso, che diresse la prima fase di quest'impresa con molta perizia, morì nel 9 a.C. avendo appena raggiunto l'Elba, ma senza avere costituito un solido sistema difensivo. Ne conseguÌ una serie di sforzi inefficaci per mettere in atto la linea Elba-Danubio progettata, finché nel 9 d.C., il capo della tribù dei Cherusci, Arminio, che aveva organizzato una vasta insurrezione contro Roma, riuscì ad attrarre in un agguato nella selva di Teutoburgo il generale romano Quintilio Varo e le sue tre legioni e le distrusse interamente. L'entità enorme del disastro convinse Augusto a rinunciare ad estendere oltre il Reno il confine dello Stato romano: perciò anche la conquista della Boemia, che avrebbe dovuto servire al collegamento tra il confine dell 'Elba e quello del Danubio, fu abbandonata come superflua. Ciò ebbe conseguenze incalcolabili per la storia della civiltà, perché stabilì al Reno il limite della romanizzazione dell'Europa: i Germani assimileranno la cultura latina solo in modo indiretto, per la maggior parte. Sarebbe molto lungo anche solo ricordare le altre iniziative di Augusto per il riordinamento delle regioni confinarie. Diremo delle principali. Uno dei punti più vulnerabili dell 'impero si era dimostrato da tempo la frontiera orientale verso i Parti. Appunto perciò Parti e Romani si disputavano la supremazia sul regno di Armenia, che stava inserito tra i loro confini: e inoltre i Parti avevano dimostrato dopo la morte di Cesare di non voler trascurare la possibilità di estendersi verso la Siria romana, mentre era nelle ambizioni di Roma di ottenere il protettorato sui Parti stessi. Augusto seppe però evitare una guerra. Con accorta diplomazia nei primi anni del suo governo seppe imporre sovrani amici di Roma in Armenia e seppe perfino ottenere che la Parti a riconoscesse la supremazia di Roma, e il suo re Fraate IV in segno di sottomissione restituisse (20 a.C.) ai Romani le insegne prese a Crasso quando era stato sconfitto a Carre. Ma assai presto in Parti a si manifestò una reazione e salirono al trono sovrani ostili a Roma, che cercarono anche di strapparle la supremazia sull'Armenia. Augusto non insistette eccessivamente. FinÌ con il rinunciare a ogni protettorato sui Parti e ad accontentarsi che il re imposto dai Parti sull' Armenia riconoscesse la formale

«Varo, rendimi le mie legioni» (la disfatta di Teutoburgo)

Gli accordi diplomatici con i Parti

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Gerusalemme e la Palestina

Manuale di storia romana

supremazia di Roma sul suo Stato. Certo, come è ovvio, il problema dell' Annenia non poteva dirsi risolto: e infatti darà luogo a nuove contese con i Parti al tempo degli imperatori successivi; ma si evitò una guerra logorante proprio negli anni in cui gli eserciti romani erano già duramente provati in Gennania. In Oriente nel 25 a.c. il regno vassallo di Galazia fu trasfonnato in una provincia romana poi allargata alle spese del vicino Stato vassallo del Ponto. In Palestina fu dapprima favorito il fonnarsi di uno Stato vassallo potente sotto l'idumeo Erode (37 a.c. - 4 a.c.) ma quando Erode morì il suo Stato fu diviso in tre parti: nel 6 d.C. la più importante di queste tre parti, la Giudea, con capitale Gerusalemme, fino allora governata da uno dei figli di Erode, Arche/ao, fu sottoposta al diretto dominio romano e trasfonnata in provincia. In Africa la Mauretania, dopo qualche tempo di vassallaggio, fu nel 25 a.c. data a Giuba II mentre la Numidia era già passata al tempo di Cesare alla provincia di Africa.

13.5

Augusto visita le province

Il cuIto dell'imperatore

La riorganizzazione sociale e morale

Non è necessario esporre quali fossero i provvedimenti del governo augusteo nell' interno di ogni provincia per risanare le finanze, placarvi le ostilità a Roma, renderne efficienti i contributi militari etc. Del resto quest'opera ci sfugge in molta parte; ma basti ricordare che per anni inten Augusto risiedette in certe province per conoscerne i bisogni e vederne da vicino le deficienze. Soprattutto la Gallia in cui egli riconobbe una delle maggiori forze del 'impero, ebbe da lui, in cooperazione con Druso, cure particolari: egli risiedette tre anni di seguito dal 16 al 13 a Lugduno (Lione), il centro del complesso delle province in cui la Gallia era suddivisa. La romanizzazione della Gallia fece nel periodo di Augusto un passo decisivo: già al suo tempo essa poteva dare uno storico, Trogo Pompeo, che in latino scriveva una storia universale. In Italia, come in quasi tutte le altre province, prese molto sviluppo il culto imperiale, cioè l'adorazione ora dell'imperatore senz'altro, ora del genio protettore dell'imperatore: templi furono elevati per questo culto, in parte spontaneamente, in parte per precisa volontà di Augusto. Egli ebbe l'idea di costituire delle assemblee provinciali per il mantenimento di questo culto che da un lato dovevano servire ad alimentare il lealismo di ogni singola provincia verso Roma e dall'altro dovevano servire a dare il modo ai provinciali di maggiore importanza di radunarsi e fare sentire i loro desideri al governo. Ma la preoccupazione maggiore di Augusto fu il rinvigorimento spirituale dell'Italia. Nessun imperatore sentirà più come lui 1'Italia quale centro dell'impero, le tradizioni italiane quale sorgente della po-

La nuova organizzazione dell'Impero

tenza imperiale romana. Agli Italiani, ormai tutti cittadini romani, egli attribuiva il compito di governare l'impero e perciò cercava di combattere la costante diminuzione di nascite, èhe si riscontrava da tempo in Italia, con il concedere privilegi ai padri di almeno tre figli (quattro se liberti), con il multare i celibi e gli sposi senza figli etc. Questi provvedimenti valsero però a diminuire, non ad annullare la denatalità dell'Italia nel mondo antico che, accompagnata da abbondanti emigrazioni nelle province, fu primo dei fattori della sua decadenza. All'Italia soprattutto (e in particolare naturalmente a Roma) Augusto riservò la maggior parte delle grandi costruzioni pubbliche, le quali, se intendevano dare lavoro al proletariato, erano poi specialmente destinate a celebrare il nuovo ordine di cose e i nuovi ideali di pace e grandezza imperiale, imponendo una fisionomia nuova alle città e soprattutto a Roma. A Roma archi, fontane monumentali, templi nuovi o restaurati, palazzi, teatri, rinnovavano l'edilizia della città; il Pantheon, il teatro di Marcello, il portico di Ottavia, lo stesso mausoleo di Augusto fattosi costruire per sua tomba testimoniano ancor oggi ai visitatori delle iniziative di Augusto e dei suoi amici. Il mirabile altare della Pace in Campo Marzio (Ara Pacis Augustae) celebrava con non superata elevazione religiosa il bene della nuova armoniosa disciplina morale offerta al mondo. Fuori di Roma in Italia, gli archi di Susa e di Aosta, di Pola (il cosiddetto arco dei Sergii) e di Rimini dicono ancora di questo fervore di opere: e così fuori d'Italia per es. la così detta «casa quadrata» di Nimes in Gallia. Nella religione Augusto era naturalmente favorevole alla conservazione dei vecchi culti tradizionali di Roma, perché strettamente associati con la fortuna della città. Egli anzi cercò di ridare nuova vita a molte cerimonie dimenticate, così come ricostruì vecchi templi andati in rovina. Tra le cerimonie risuscitate basti ricordare i Giuochi secolari, celebrati nel 17 a.c. che, secondo le buone norme, avrebbero dovuto essere celebrati ogni 110 anni: fu in questi giuochi che una schiera di giovani e fanciulle cantò il Carme Secolare di Orazio, in cui il poeta pregava che il Sole non potesse mai veder nulla di più grande di Roma. Ad Augusto si deve pure la riorganizzazione di antichi collegi sacerdotali, come quello dei fratelli Arvali, dei Salii, dei Sodales Titii, ai quali egli stesso volle essere aggregato. Nonostante ciò Augusto non fu profondamente avverso a culti nuovi e stranieri: egli si limitò a impedire che i culti egiziani fossero celebrati nell'interno di Roma. E, come già dicemmo, si deve a lui l'organizzazione del culto imperiale, per cui lo stesso imperatore era elevato in vari modi a personalità divina, secondo una concezione diffusa soprattutto in Oriente.

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Nuove infrastrutture e opere architettoniche

La riorganizzazione dei collegi sacerdotali

156

Manuale di storia romana

13.6

La «missione» imperiale di Roma

«L'Eneide»

Le storie di Tito Livio e Dionigi di Alicarnasso

Fu insomma scopo di Augusto creare un' atmosfera di passione morale e religiosa, nonché di serietà politica, intorno al fatto che ormai Roma era signora di gran parte del mondo conosciuto. Con Augusto l'imperialismo romano acquista una profonda consapevolezza di avere una missione da compiere nel mondo: riprendendo un concetto che dal pensiero stoico era già passato nel circolo degli Scipioni, la conquista non è più un fatto bruto, il dominio del più forte, ma diventa il dominio del migliore, che sa assicurare ai popoli soggetti giustizia e pace. Non c'è nessuna tracotanza nell' orgoglio, perché anzi si teme che le virtù più antiche si siano perdute e che Roma corra il pericolo di essere rovinata, se la forza morale dei suoi figli non la sostenga. A questa formulazione dei compiti di Roma nel mondo, collaborarono intensamente, intorno ad Augusto, i poeti e gli storici della sua età; quasi tutti uomini che avevano avute simpatie repubblicane, ma che ora si volsero verso il nuovo ordine di cose: Virgilio, Orazio, Properzio, Livio. Virgilio che già nelle Georgiche aveva cantato il ritorno ai campi voluto da Augusto, sarà nell'Eneide quasi il poeta ufficiale dell'età augustea. Egli scriverà il poema delle più lontane origini di Roma, al tempo della guerra di Troia, quando Enea per volere dei fati si volse in Italia e divenne progenitore di Romolo, il fondatore di Roma, con una delicatezza e umanità quale non sarà mai più dato di riscontrare in un' opera di esaltazione nazionale. Orazio Fiacco riprenderà nelle odi accanto a motivi poetici venutigli dalla tradizione lirica greca e da lui riplasmati con novità di ispirazione, motivi patriottici e civili di attualità; Properzio rievocherà antiche leggende italiche nelle sue poesie; Livio narrerà in una grande opera di 141 libri tutta la storia romana dalle origini con una sconfinata ammirazione per le virtù morali degli antenati, con riverenza per la tradizione, con un melanconico timore che stesse per approssimarsi la rovina dopo tanta grandezza. E in greco altri scrittori, come Dionisio di Alicarnasso, autore, come sappiamo, di una storia delle origini romane, diffonderanno, seppure con minore efficacia, idee analoghe.

13.7

La famiglia imperiale

Il nuovo significato dell'imperialismo romano

La famiglia di Augusto: sua morte

Le vicende famigliari di Augusto sono estremamente complicate. Ciò ha importanza anche per la storia in quanto, se in teoria il Senato solo poteva nominare il successore nell 'impero, in realtà era chiaro che toccava ad Augusto di designarlo per il caso di morte. Augusto aveva avuto dalla moglie Sempronia una figlia sola, Giulia, che gli darà gravi dolori per la sua condotta scandalosa, tanto che a un certo punto la man-

La nuova organizzazione dell'Impero

derà in esilio; dalla seconda moglie, Livia, che sarà la compagna di gran parte della sua vita, non ebbe figli, ma Livia aveva avuto da un primo marito due figli, Tiberio e Druso. Augusto non pensò dapprima di scegliere suoi eredi Tiberio e Druso, pensò invece al nipote Marcello, figlio della sorella Ottavia, ma questi morì, dopo aver assai promesso di sé, non ancora ventenne (23 a.C.). Allora Augusto diede in moglie al suo fedele collaboratore Agrippa la figlia Giulia con l'intenzione di nominare suoi eredi i figli che ne nascessero. E infatti adottò i due figli che Agrippa ebbe da questo matrimonio, Gaio e Lucio. Ma entrambi morirono in giovane età, uno il 2, l'altro il4 d.C. Poiché Druso era morto, non restava ad Augusto altro che adottare Tiberio, nonostante che questi si fosse guastato con lui e già da parecchi anni vivesse in una specie di esilio a Rodi. Tiberio quindi nel 4 d.C. non solo fu adottato, ma anche parzialmente associato al trono con il concedere anche a lui la podestà tribunicia. Egli, che pure aveva un figlio di nome Druso, dovette adottare il figlio del fratello Druso, Germanico, al quale avrebbe dovuto toccare la successione. Così nel 14 d.C., quando Augusto morì all'età di 76 anni, Tiberio gli succedette. Augusto, annesso al suo testamento, aveva lasciato, con incarico che si pubblicasse, un elenco delle sue imprese (Res Gestae) che noi ora diciamo Monumento Ancirano perché tra le copie purtroppo frammentarie, che abbiamo, la prima e più completa fu scoperta ad Ancira (odierna Ancara) in Asia minore. In una obiettiva assai rapida esposizione Augusto fissa in questo documento le varie tappe della trasformazione che la sua opera instancabile fece subire all'impero.

Bibliografia V. GARDTHAUSEN, Augustus und seine Zeit, 6 volI., Lipsia 1891-1904; E. MEYER, Kaiser Augustus, in Kleinen Schriften, I, 2~ ed., Halle 1924; M. ROSTOVZEV, Storia economica e sociale dell' impero romano, trad. it., Firenze 1933, pp. l segg.; M. A. LEVI, Augusto (profilo), Roma 1929; T. RICE HOLMES, The Architect oj the Roman Empire, Oxford 1928-32; ; G.W. BOWERSOCK, Augustus and the Greek World, Oxford 1965; P. ZANKER, Augustus und die Macht der Bilder, Monaco 1987 (trad. it: Augusto e il potere delle immagini, Torino 1989); M. PANI, Roma e i re d'Oriente da Augusto a Tiberio: Cappadocia, Armenia, Media Atrapatene, Bari 1972. Il monumento ancirano con gli altri frammenti delle opere di Augusto in MALCOVATI, Imperatoris Caesaris Augusti operumjragmenta, 2~ ed., Torino 1928; testo, traduzione e commento in inglese: http://penelope. uchicago .edu/Thayer/E/Roman/Tex ts/ A ugus tus/ Res_Gestae/home.html.

157

La morte di Augusto

Gli imperatori della casa Giulia-Claudia CAPITOLO

14.1

Esercito e aristocrazia alla base dell'Impero

I principali problemi del sistema imperiale

Il culto della «libertà repubblicana»

QUATTORDICESIMO

L'eredità di Augusto e i suoi problemi

Augusto aveva profondamente trasfonnato l'impero romano, ma non aveva potuto fare sì che i due elementi su cui si sosteneva il suo sistema - da un lato l'aristocrazia romana, dall'altro l'esercito tratto dalla piccola borghesia e dal proletariato italiano - si amalgamassero a tale punto da non dare più occasione a contrasti. In secondo luogo, se egli aveva per un lato favorito l'Italia col mantenerla, anzi rafforzarla nel primato sull'impero, dall'altro lato non aveva mancato di favorire l'incremento della vita delle province, con il risultato che queste, di nuovo fiorenti, cercavano sempre più di diminuire il loro distacco dalle condizioni dell 'Italia. I problemi interni essenziali erano dunque due: l) tendenza del Senato a imporre la sua autorità e dell'esercito, e in ispecie dei pretoriani a Roma, a contrapporre la sua; 2) contrasti politici ed economici tra Italia e province. Il problema che diede più da pensare ai successori immediati di Augusto fu il primo. In teoria l'aristocrazia romana, che dava i Senatori, non avrebbe dovuto essere malcontenta del nuovo ordine di cose, che le assicurava occasione di così brillanti carriere nelle province. Di più, poiché dipendeva sempre maggionnente dagli imperatori essere fatto pretore o console, e poiché a coloro che erano stati pretori e soprattutto consoli, spettavano i migliori posti nell' amministrazione provinciale (senza contare che ai loro figli erano aperte maggiori probabilità di carriera) potrà sembrare naturale che la aristocrazia romana dovesse cercare di accattivarsi il favore dell'imperatore. Ma intanto c'era l'ostilità delle famiglie, che si vedevano o si credevano trascurate dall'imperatore nelle cariche, e poi effettivamente l'aristocrazia romana nel complesso, nonostante la condizione di privilegio mantenutale nel nuovo ordine di cose, non dimenticava di essere stata signora dello Stato romano e perciò si piegava solo con difficoltà, e spesso resistendo, ai voleri dell'imperatore. Con Tiberio comincia il culto per la libertà repubblicana in certe famiglie romane, soprattutto in quelle su cui influiva la teoria filosofica dello Stoicismo, con la sua esaltazione

Gli imperatori della casa Giulia-Claudia

della libertà interiore e della impassibilità davanti al male e al terrore della morte. Tacito ci ha descritto mirabilmente questi tipi fieri di repubblicani stoici, intolleranti sino al fanatismo. D'altra parte era naturale che l'esercito o per meglio dire le truppe stanziate in una determinata regione (sul Reno o sul Danubio o in Oriente) cercassero di imporre imperatori scelti tra i loro comandanti, che assicurassero loro privilegi, vita più facile etc. In particolare poi i pretori ani stanziati a Roma avevano agio di imporre il loro volere, sia allo stesso imperatore, sia al Senato, ma destavano anche l'invidia degli altri corpi armati per il tempo più breve della ferma, per la residenza privilegiata, per tutti i donativi di cui gli imperatori, per averli devoti, li ricoprivano.

14.2

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Il potere dei pretoriani

Tiberio (14-37 d.C.)

Le difficoltà della gloriosa eredità augustea si fecero sentire subito a Tiberio. Uomo già anziano, sperimentato nel governo a cui era stato associato da Augusto negli ultimi anni, aristocratico d'animo, freddo e tagliente di modi, ligio al dovere e onesto fino allo scrupolo, ma incline al pessimismo, egli assunse la sua carica senza entusiasmo e solo dopo che il Senato insistette, di fronte alle sue esitazioni, perché egli diventasse imperatore. Un seguito di rivolte militari gli fece immediatamente sentire che egli aveva ragione nel ritenere gravoso il suo compito. Nell'esercito erano stati accolti, soprattutto dopo il disastro di Varo in Germania, molti elementi infidi; d'altra parte si aveva avuto il torto, per ritardare il pagamento del premio che spettava ai veterani mandati in congedo, di prolungare arbitrariamente la loro ferma: perciò si ribellarono prima le legioni di Pannonia, poi quelle di Germania, ma le prime furono abilmente placate dal figlio di Tiberio, Druso, le seconde dall'erede presuntivo del trono, Germanico, idolo dei suo soldati. Intanto Tiberio aveva proceduto alla chiara formulazione del suo programma. Dal punto di vista della costituzione egli si mantenne fedele alle direttive di Augusto, e lo dichiarò solennemente; solo volle accentuare l'autorità del Senato, di cui desiderava la intima collaborazione, e perciò tolse ai comizi, cioè al popolo, il diritto di eleggere i magistrati e lo attribuì al Senato medesimo, che divenne l'unico corpo elettorale di Roma. Tutte le questioni importanti furono sempre portate da Tiberio al Senato per la discussione. Non volle onori speciali e rifuggì dal culto imperiale, proclamandosi uomo degno di essere trattato da uomo, ma non poté impedire che in parecchi luoghi lo si adorasse ugualmente. Nelle finanze volle la più assoluta economia e riusCÌ infatti, pur evitando eccessi fiscali e atti di avarizia, a portare il bilancio in buone

Tiberio nuovo imperatore

La rinnovata importanza del Senato

Manuale di storia romana

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Le campagne militari contro i Germani e i Traci

La morte di Germanico

Elio Seiano prefetto del pretorio

condizioni, quali Roma avrà di rado. Nelle province ritenne opportuno evitare ogni estensione di confini e perciò permise a Germanico di compiere tra il 14 e il 17 una serie di spedizioni punitive in Germania solo per rinstaurare il prestigio delle armi romane, ma quando Germanico, inorgoglito di questi successi, pensò a effettuare conquiste al di là del Reno, egli lo richiamò. Del resto, nella politica con i Germani, lo aiutarono i loro dissidi interni, i quali portarono alla rapida disparizione delle leghe di due rivali, Arminio e Maroboduo, dei quali il primo fu ucciso e il secondo si rifugiò in Italia a chiedere ospitalità a Tiberio, che gliela concedette in Ravenna per tutto il resto della vita. In Tracia seppe mantenere, contro tutti i tentativi di ribellione, la divisione in due stati vassalli, che già Augusto aveva predisposto. Per le questioni di Oriente infine mandò in missione straordinaria con poteri speciali il nipote Germanico, nel 17, appena lo richiamò dal Reno, e infatti Germanico seppe assai bene accomodare i vari problemi insoluti, tra l'altro assicurare all'Armenia un re vassallo ligio a Roma. Ma il viaggio di Gerrilanico diede luogo a una tragedia familiare, che doveva influire per sempre sull'imperatore. Germanico, popolarissimo tra i soldati e in Roma, era uno spirito irrequieto e ambizioso. Perciò Tiberio, sebbene lo stimasse, non poteva non guardarlo con una certa ansietà e credette quindi opportuno di farlo controllare in Oriente da un uomo di sua fiducia, il governatore di Siria, Pisone. Ne sorse un feroce contrasto tra Germanico indignato e Pisone, aggravato dal fatto che il primo volle fare un viaggio in Egitto contro il divieto che Augusto, per assicurare meglio a se stesso l'assoluta sovranità in quel paese, aveva vietato a ogni senatore romano di introdursi. Insomma, quando Germanico venne di lì a poco a morte (19 d.C.), molti credettero che egli fosse stato avvelenato e molti credettero pure che non fosse stato estraneo l'imperatore per assicurare la successione al figlio Druso. Pisone fu trascinato in giudizio e costretto a sottrarsi col suicidio alla condanna, ciò che implicitamente parve una conferma dei sospetti su Tiberio. È probabile che tutto ciò fosse falso, ma non mancò di sollevare l'opinione pubblica contro l'imperatore ed' altra parte rendere più cupo e amaro il suo carattere. Sorse allora la potenza di Elio Seiano, prefetto del pretorio. Tiberio non mancava di continuare a interessarsi con senso del dovere per la sorte dell'impero; reprimeva alcune rivolte in Gallia e un'altra ben più pericolosa in Africa, guidata da Tacfarinas, capo tribù dei Mauretani (17-24 d.C.); cercava anche di trarre profitto da torbidi interni in Partia per imporre un sovrano a lui favorevole (Tiridate III), ma quando vedeva che era impossibile mantenerlo sul trono trovava un modo abile per riconoscere senza diminuzione di prestigio il ritorno del sovrano legittimo Artabano III. Nonostante tutto ciò, era indubbio che egli non ave-

161

Gli imperatori della casa Giulia-Claudia

va più gusto al comando e sentiva il bisogno di solitudine. Perciò lasciò sempre più mano libera a questo prefetto del pretorio e nel 26 giunse con deliberazione stranissima ad abbandonare Roma e ad andare a risiedere nell'isola di Capri, dove, salvo brevi allontanamenti, dimorerà sino alla morte. Seiano poteva dirsi assai forte, non però padrone, perché Tiberio continuava per mezzo di lettere a far udire la sua volontà al Senato. Ora Seiano, che era di pochi scrupoli, voleva succedere sul trono a Tiberio. Perciò egli doveva da una parte eliminare il figlio di Tiberio, Druso, dall'altra la vedova e i figli di Germanico. Certo Druso morì nel 23, e la fama che egli fosse avvelenato da Seiano merita qualche credito. Non difficile era poi attaccare la famiglia di Germanico, che era necessariamente divenuta un centro di intrighi da parte di coloro che volevano speculare sulla pretesa uccisione di Germanico. Tiberio poté quindi finalmente essere persuaso a lasciare condannare Agrippina, la vedova di Germanico, e il figlio maggiore Nerone alla relegazione nell'isola Pandataria. Un secondo figlio fu imprigionato a Roma, e solo un terzo figlio, Gaio, soprannominato Caligola', poté scampare perché troppo giovane per dare ombra a Seiano. Il quale così giunse al limitare dell'impero: Tiberio, vecchio, lontano, sembra non comprendere il gioco e nel 30 associa Seiano nella potestà proconsolare, nel 31 lo nomina suo collega nel consolato. La potenza di Seiano è al culmine. Ma, a quanto sembra, egli commise l'errore di voler affrettare la successione congiurando contro Tiberio. In ogni caso ci fu chi giunse ad aprire gli occhi all'imperatore, e a persuaderlo che suo figlio Druso era stato ucciso da lui. E Tiberio, persuaso, procedette, com'era suo costume, implacabile. Assicuratasi la fedeltà delle truppe pretoriane, sostituendo abilmente Seiano con altro prefetto devoto, fece poi condannare a morte il suo ministro dal Senato. Era inevitabile che anche parecchi dei fedeli di Seiano fossero travolti nella rovina, né Tiberio, inasprito, cercò in alcun modo di salvarli; anzi i processi di lesa maestà, a cui anche già prima egli aveva dato molta importanza, furono resi più frequenti. E poiché la famiglia di Germanico gli continuava a dare sospetti, - a torto o a ragione - infierì anche contro di questa. Agrippina e uno dei figli furono spinti dalla disperazione a lasciarsi morire di fame, il secondogenito fu ugualmente fatto morire, e rimase quindi vivo il solo Gaio. Non si può dire tuttavia, a parte questa persecuzione in ristretti limiti - di cui non possiamo sapere

l

Caligola significa propriamente piccola caliga. cioè piccola scarpa militare. È l'epiteto che i soldati di Germanico avevano dato al piccolo figlio del loro generale quando lo vedevano fra di loro in tenuta militare.

Tiberio si ritira a Capri

Le congiure di palazzo

I sospetti dell'anziano Tiberio

Manuale di storia romana

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Gaio «Caligola» nuovo imperatore

I giudizi su Tiberio

quanto precisamente fosse giustificata - che nemmeno allora il governo di Tiberio fosse veramente tirannico. La collaborazione col Senato, l' interesse per il benessere dell'impero non furono mai dimenticati. Di eredi restava a Tiberio solo il figlio del figlio Druso, Tiberio Gemello, ancora troppo giovine per l'impero. Perciò egli non poté trascurare (a parte altre possibili ragioni di pietà e di simpatia che non conosciamo bene) di prendersi cura di Gaio (Caligola): egli comprendeva bene che se anche non si fosse curato di lui, il Senato e il popolo, per l'affetto che conservavano alla memoria del padre, lo avrebbero voluto imperatore. Tra Tiberio Gemello e Gaio, Tiberio non volle però decidere, lasciando quindi la via libera a tutti e due, ma senza certo farsi illusioni. CosÌ stranamente nel morire a Capri il37 d.C. a 78 anni, Tiberio lasciava per effettivo successore il venticinquenne figlio di Germanico, Caligola. Il giudizio di Tiberio è già in tutto quello che abbiamo detto. Non ipocrita feroce, come lo vuole descrivere in pagine famose Tacito, ma imperatore suo malgrado, tormentato dallo scrupolo di adempiere bene il suo dovere e dalla incapacità di sapere trattare con gli uomini senza prendere posizioni decise ed estreme che spesso inevitabilmente cadevano nella crudeltà. Egli ad ogni modo tramandava al suo successore un impero rassodato contro tutte le ribellioni e finanziariamente sano; ma aveva inasprito le relazioni del potere imperiale col Senato.

14.3

Caligola impone il culto dell'imperatore

Caligola (37-41 d.C.)

Tiberio, come dicemmo, era sicuro che il Senato avrebbe scelto a successore Caligola, e questi infatti, anche per l'aiuto del prefetto del pretorio, Macrone, fu nominato imperatore. I Senatori evidentemente speravano che il figlio di Germanico avrebbe continuato la tradizione patema e sarebbe stato favorevole alla loro autorità; ma invece il giovane sovrano vagheggiava di instaurare una monarchia assoluta come quella che aveva cercato di instaurare Antonio, di cui egli era pronipote. Caligola dunque si distaccava risolutamente dalla tradizione augustea: egli voleva non il rispetto della tradizione romana, ma invece introduzione di forme orientali, tra cui principalissimo il culto divino del sovrano e dei suoi congiunti, non più semplicemente tollerato, come avevano fatto i predecessori, ma imposto a quelli stessi che non ne volevano sapere. L'urto col Senato e con tutti i fedeli alle idee tradizionali fu di conseguenza tanto più forte quanto più ci si era illusi sulle intenzioni di Caligola. Si aggiunse poi l'abitudine alle spese senza mi-

Gli imperatori della casa Giulia-Claudia

sure, che mise in seri imbarazzi le finanze romane già assestate da Tiberio e, costringendo a espedienti fiscali antipatici, accrebbe la impopolarità dell'imperatore. A questa impopolarità egli cercò rimedio con alcune spedizioni militari, progettando la conquista della Britannia (Inghilterra) e una avanzata in Germania, ma senza pratica di cose militari, incapace di scegliersi buoni generali, non concluse nulla di buono e cadde nel ridicolo. Cominciarono le congiure: alcune furono scoperte; ma infine una, organizzata dall'ufficiale Cherea, riusciva a sorprendere Caligola e a ucciderlo nel41 d.C. dopo poco più di tre anni di regno.

14.4

163

La congiura contro Caligola

Claudio (41-54 d.C)

Caligola aveva fatto uccidere durante il suo regno il cugino Tiberio Gemello nipote di Tiberio. CosÌ di appartenenti alla famiglia Giulia, capaci di succedergli sul trono, non restava più nessuno. C'era solo un fratello di Germanico, Claudio, che, debole di salute e timido tanto da essere ritenuto deficiente, non aveva mai preso parte alla politica e non era stato adottato da Tiberio, sicché in realtà egli non era passato alla famiglia Giulia, come il fratello, bensÌ era rimasto nella famiglia Claudia e non poteva quindi dirsi in qualche modo destinato alla successione. Ma i pretoriani, affezionati alla memoria di Germanico, preferirono Claudio a ogni altro candidato e costrinsero il Senato a riconoscere l'imperatore. Claudio aveva ormai 51 anni, era vissuto sempre in mezzo agli studi e aveva scritto poderose opere sugli Etruschi e sui Cartaginesi, nonché una storia del regno di Augusto, aveva pure scritto un libretto per caldeggiare la riforma dell'alfabeto romano. Era dunque in realtà non un deficiente, come molti lo ritenevano, ma un uomo meditativo e un po' pedante, che, giunto sul trono, dimostrò anche di avere energia e serietà nell' adempimento del suo dovere. La fine tragica di Caligola gli aveva dimostrato che la tradizione romana era assai forte e che cercare di imporre in Roma una monarchia assoluta era un errore. Perciò egli proclamò di voler ritornare al programma di Augusto, desiderando assicurarsi cosÌ la fiducia del Senato come quella dell'esercito. Di qui il suo sforzo per avere l'aiuto del Senato, verso cui si espresse più volte in modo molto deferente, di qui la restaurazione di antichi usi religiosi romani, come per es. le formule dei feziali per concludere i trattati di pace. Claudio restaurò anche la censura, che dai primi tempi di Augusto non era più nominata e, per difendere l'antica fede dei Romani, allontanò da Roma gli astrologi che diffondevano dottrine orientali e, a

I pretoriani acclamano Claudio

Uno studioso debole di salute

Claudio riprende il programma di Augusto

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L'opposizione dei nobili al potere dei «liberti im periali»

La restaurazione di Claudio

Manuale di storia romana

quanto pare, cercò di sopprimere i primi germi della propaganda cristiana svolgentesi nell'interno della comunità giudaica di Roma. Ma Claudio non voleva solo accontentare l'aristocrazia romana e conservare le antiche tradizioni: voleva anche rendere sempre migliore il governo delle province, cercando di rendere meno forte la differenza tra le loro condizioni e quelle dell'Italia; voleva inoltre che il Senato, il quale, come sappiamo, aveva conservato ancora il governo di circa metà delle province romane, facesse in queste province una politica tutto affatto sottomessa ai suoi voleri. Tutto ciò irritava la suscettibilità dell'aristocrazia romana e portò molte ostilità con singoli senatori e cavalieri romani, a portò soprattutto in progresso di tempo a una certa sfiducia di Claudio verso quelle categorie di persone con la tendenza a diminuirne il potere e a sostituirle. Tra i provvedimenti più notevoli presi in questo senso è da ricordare che egli assegnò grande autorità a liberti appartenenti alla propria casa, col fame dei veri e propri i ministri. Così, invece di nobili romani, erano chiamati alle più delicate cariche exschiavi, quasi tutti di origine provinciale. Sono famosi i nomi di Pallante diventato ministro delle finanze e Narcisso, capo della cancelleria imperiale, cioè incaricato di sbrigare la corrispondenza ufficiale dell'imperatore. Altri provvedimenti furono intesi a diminuire l'economia dell'erario di fronte al fisco. Ed è poi da notare che egli cercò di allargare il cerchio di persone da cui si potevano eleggere i senatori, introducendo, a determinate condizioni, alcune categorie di provinciali. Al suo rispetto per le condizioni dei provinciali si deve pure che egli, in contrasto con i provvedimenti citati più sopra, in altri casi si preoccupasse dell' organizzazione di culti non romani e così riconoscesse ufficialmente il culto del dio orientale Attis, ottenendo nello stesso tempo di moralizzarlo. Si sarà insomma ormai capito, senza bisogno di scendere ad altri particolari, che c'è una specie di contrasto nell'interno del governo di Claudio: per un lato egli volle favorire la conservazione dei privilegi dell'aristocrazia romana, per un altro lato egli cercò di dare un nuovo assetto all'impero più unitario e senza tante disuguaglianze con i provinciali; mettendosi così inevitabilmente in contrasto con l'aristocrazia che egli pure voleva proteggere. Il contrasto delle sue tendenze gli valse in definitiva una certa impopolarità, sebbene questa fosse molto minore che per Caligola e non gli alienasse mai l'animo dei soldati, i quali, furono a lui devoti soprattutto perché per suo volere compirono alcune imprese vittoriose di cui due devono essere particolarmente ricordate, la conquista della Britannia, fino alla linea costituita dal Trent e dalla Saverna e l'occupazione della Mauritania in Africa in modo che due nuove province vennero aggiunte all'impero. Il governo di Claudio sarebbe tuttavia stato giudicato molto più fa-

Gli imperatori della casa Giulia-Claudia

vorevolmente anche dai contemporanei se molte disavventure domestiche non avessero complicato le vicende della sua vita. Egli aveva sposato una donna, Messalina, dalla quale ebbe un figlio, Britannico, e una figlia, Ottavia; ma egli fu costretto a farla uccidere per la sua immoralità. Si sposò in ulteriori nozze con la nipote Agrippina, figlia di Germanico, che da un precedente marito, aveva avuto già un figlio, Domizio Nerone, e che si preoccupò di assicurare al proprio figlio Nerone la successione a danno del figlio di Claudio e Messalina, Britannico. A questo scopo persuase Claudio di permettere il matrimonio di Nerone con Ottavia e quando poi giudicò che la successione di Nerone era ormai facile a ottenersi, avvelenò, a quanto sembra, Claudio con dei funghi. Certo Claudio morì quasi improvvisamente il 54 d.C. e gli succedette Domizio Nerone.

14.5

165

Messalina e Agrippina

Nerone (54-68 d.C.)

Nerone aveva solo diciassette anni. Per lui governarono da principio la madre Agrippina, e i maestri, Seneca, il filosofo, e Burro, prefetto del pretorio. Il programma di questi si vede in una satira contro Claudio, La trasformazione in zucca del divo Claudio, pubblicata da Seneca subito dopo la morte dell' imperatore, in cui in sostanza si diceva che Claudio aveva finto di continuare il programma di Augusto, ma in realtà l'aveva violato e che invece il nuovo imperatore si proponeva di me tterlo in pratica sul serio. Ma la realtà era più forte delle parole. Per quanto la tradizione di Roma repubblicana fosse sempre vigorosa e impedisse ancora di instaurare un governo assoluto dell 'imperatore, si sentiva sempre più la necessità che la divisione di poteri tra Senato e imperatore, fosse posta da parte; soprattutto i provinciali, che non capivano il Senato romano e avevano poca simpatia per lui, agivano in questo senso per persuadere l'imperatore. Il fatto è che sin dai primi anni del governo di Nerone assistiamo, in contrasto ad apparenti concessioni al Senato, a una continua esaltazione dell'autorità imperiale, definita come salvatrice del mondo, sicché non c'è dubbio che anche per Agrippina, Burro e Seneca, lo scopo era di dare una base sempre più solida al potere dell 'imperatore in confronto a quello del Senato. Ciò divenne ancora più palese appena Nerone cominciò a fare sentire la propria personalità. Nerone era tutt'altro che sfornito d'ingegno e di cultura, anzi era pieno di amore per l'arte e per la letteratura greca: si compiaceva di poetare e declamare egli stesso, non ché di imitare in tanti altri particolari la vita greca. Ma era in sostanza un immorale, senza affetti profondi, desideroso solo di primeggiare senza avere ostacoli nella madre, nel fratellastro Britannico, nei maestri.

Alla morte di Claudio l'impero passa a Nerone

L'ambizione di Nerone

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L'imperatore si invaghisce diPoppea

Di nuovo in guerra contro i Parti

Le stravaganze di Nerone

Manuale di storia romana

A poco a poco egli cercò di eliminare tutte queste persone che gli davano ombra e la inumanità con cui lo fece basta a dimostrare che egli non era del tutto responsabile dei propri atti. Cominciò a fare avvelenare Britannico, poi fece uccidere barbaramente la madre (59 d.C.), infine - morto Burro naturalmente - allontanò Seneca dal governo in modo da restare solo al comando dello Stato (62 d.C.). Nello stesso 62, preso da amore per Poppea e desideroso di sposarla, giunse all'ultimo delitto, di fare uccidere la propria moglie, la nobilissima Ottavia, e di sposare Poppea. Lo Stato romano aveva veramente in questo periodo dei problemi assai seri da risolvere. Già dalla fine del governo di Claudio era sorta un'estenuante guerra col regno di Partia, sempre per il possesso dell'Armenia; era scoppiata poi una ribellione in Britannia guidata dalla regina Boudica; infine nel 66 si ribellarono gli Ebrei in Palestina per il malgoverno dei governatori romani. Ma Nerone si preoccupava poco di queste vicende. Era solo fortunato nel trovare abili generali educati alla più antica tradizione romana, che gli sapessero ben organizzare quelle guerre, che egli trascurava, e basterà qui ricordare: Corbulone, il quale condusse tutta la guerra contro i Parti, fino a che nel 63 essa si concluse con il compromesso che un principe partico era nominato Re di Armenia, ma doveva venire a Roma a farsi incoronare da Nerone, cioè a riconoscergli il suo vassallaggio; Vespasiano, che condusse vittoriosamente la guerra contro gli Ebrei, finché, come vedremo, fu nominato imperatore e sostituito nel comando della spedizione dal figlio Tito. Nerone per conto suo pensava ad altro: a esaltare la sua personalità con tutti gli attributi della divinità, a organizzare grandi rappresentazioni teatrali, a educare i giovani romani (riuniti in una associazione detta degli Augustiani) ai costumi greci e così via. Straordinaria solennità dava alle feste fatte a Roma nel 66 quando il principe partico Tiridate venne a farsi incoronare re di Armenia. E infine, verso la fine del 66, pensò di organizzare un grande viaggio nella terra sua ideale, in Grecia. Arrivato in Grecia, per dimostrarle la sua ammirazione, la liberò dalla condizione di provincia per elevarla a quella difederata, cioè di alleata di Roma e in tal modo privò il bilancio romano delle entrate che la provincia dava: il che, essendo già le finanze in non liete condizioni, non poté che incontrare l'ostilità di tutti coloro che avevano senno. In quel viaggio in Grecia, durato sino alla fine del 67, Nerone prese una quantità di altre iniziative strambe, o per lo meno non effettuabili con i mezzi della tecnica antica, per es. il taglio dell 'istmo di Corinto, che solo dai moderni poté esser compiuto verso la fine del XIX secolo. Ne conseguì una minacciosa irritazione, sia in Italia, sia nelle province occidentali dell 'impero, che erano giustamente invidiose delle

Gli imperatori della casa Giulia-Claudia

condizioni di favore fatte alla Grecia. Nerone già negli anni precedenti aveva dovuto reprimere moti contro di lui. Nel 65 era stata scoperta una congiura detta Pisoniana dal nome del suo capo Calpurnio Pisone, congiura in cui, a quanto sembra, partecipava anche Seneca, che dovette uccidersi. Nel 66 un'altra congiura era stata scoperta, in cui era coinvolto Corbulone, e anch' egli dovette uccidersi. E possiamo anche a questo proposito ricordare un altro clamoroso episodio. Nel luglio 64 era scoppiato un terribile incendio, che aveva distrutto molta parte di Roma. Questo incendio aveva naturalmente cause occasionali, ma il popolo vide che Nerone approfittava delle distruzioni operate dall' incendio per costruirsi un' abitazione estremamente estesa e sontuosa, la così detta casa aurea (domus aurea), e mormorò che Nerone aveva intenzionalmente dato fuoco a Roma. Nerone cercò di liberarsi da questa fama, accusando di aver incendiato Roma i Cristiani, che allora cominciavano ad essere noti, e perseguitando li: sicché appunto nel 64 con la sua persecuzione si inizia il lungo martirologio cristiano. Ma ciò non bastò a far cessare il fermento del popolo, sicché quando al principio del 68 Nerone ritornò a Roma dopo la lunga assenza, trovò in complesso un'atmosfera sfavorevole. Ma questa non sarebbe bastata se molti militari non fossero insorti nelle province. Il Gallo romanizzato Giulio Vindice, governatore della Gallia Lugdunense, diede il segno della ribellione. Represso il suo moto, lo continuò però in Spagna il governatore della Gallia Terraconense, Sulpicio Gaiba, a cui aderì Otone, l'ex-marito di Poppe a (da alcuni anni morta) che Nerone per allontanare da lei aveva mandato governatore nella Lusitania (odierno Portogallo). Nerone non seppe reprimere questo secondo moto, soprattutto non seppe impedire che i pretoriani in Italia parteggiassero per GaIba, sicché nel giugno del 68 egli si trovò interamente abbandonato e fu ucciso. Il Senato proclamava imperatore GaIba. Nerone aveva dunque cercato in sostanza di riprendere il tentativo di Caligola di instaurare la monarchia assoluta in Roma; ma aveva portato in questo tentativo una tale inesperienza e inumanità e ingiustizia, che, per quanto avesse la fortuna di avere generali capaci di condurre guerre vittoriose e quindi di rafforzare il prestigio dell'imperatore presso l'esercito, non poté sottrarsi al destino di vedersi ribellare contro il Senato, popolo e infine molta parte dell'esercito stesso. La sua figura accese le immaginazioni del tempo posteriore, specialmente (ma non sempre), per ciò che di strano e di crudele aveva saputo compiere: i Cristiani soprattutto, colpiti da lui nella prima e feroce persecuzione, lo giudicarono l'incarnazione dell' Anticristo.

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L'incendio di Roma e la persecuzione dei Cristiani

GaIba si ribella contro l'imperatore

Un bilancio del regno di Nerone

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Manuale di storia romana

Bibliografia Per Tiberio: C. BARBAGALLO, Tiberio (profilo), Roma 1922; E. CIACERI, Tiberio successore di Augusto, Roma 1934; R. SEAGER, Tiberius, London 1972; B. LEVICK, Tiberius the Politician, London 1976; Z. YAVETZ, Tiberio dallafinzione alla tirannia, Bari 1999. La morte di Germanico, i suoi onori divini e la repressione di Pisone hanno trovato una preziosa testimonianza in un'iscrizione su bronzo recentemente trovata in Spagna: W. ECK, A. CABALLOS, F. FERNANDEZ, Das Senatus consultum de Cn. Pisone patre, Miinchen 1996 (e A. CABALLOS, W. ECK, F. FERNANDEZ, El Senadoconsulto de Gneo Pison Padre, Sevilla 1996). Per Caligola: A. MOMIGLIANO, La personalità di Caligola, in Annali della R. Scuola Normale di Pisa 1,1932, pp. 205-208; A. WINTERLING, Caligula. Eine Biographie, Monaco 2003 (trad. it.: Caligola: dietro lafollia, Bari 2005). Per Claudio: A. MOMIGLIANO, L'opera dell' imperatore Claudio, Firenze 1932 (2~ ed. accresciuta in inglese: Claudius. The Emperor and his Achievement,Oxford 1934, rist. New York 1961); B. LEVICK, Claudius, London 1990. Per Nerone, B.W. HENDERSON, The Life and Principate of the Emperor Nero, Londra 1903. M.A. LEVI, Nerone e i suoi tempi, Milano 1949. Sui Cristiani: G. JOSSA, I cristiani e l'impero romano: da Tiberio a Marco Aurelio, Roma 2000.

I Flavi CAPITOLO

15.1

QUINDICESIMO

La situazione dell'impero alla morte di Nerone

Durante tutta la serie dei successori di Augusto fino alla morte di Nerone, era avvenuto che il problema della coesistenza di imperatore, Senato ed esercito non era stato durevolmente risolto. Togliere l'autorità ai membri della aristocrazia senatoria non si poteva perché rappresentava tutta una tradizione amministrativa, che non poteva facilmente essere stroncata. Il tentativo più serio era stato fatto da Claudio quando aveva organizzato i liberti della sua casa costituendo per mezzo loro una buona burocrazia, ma, nonostante alcuni esperimenti, né egli né i suoi successori giunsero ad attribuire a questi liberti il governo delle province, sicché l'aristocrazia senatori a rimase da questo punto di vista onnipotente. C'era poi l'esercito rimasto nel complesso fedele agli imperatori, ma dopo aver dato prove sufficienti di sapere pensare a se stesso. Ora dopo la morte di Nerone non aveva più nessun vincolo tradizionale di fedeltà e quindi era naturale che si scatenasse. Ogni sezione dell'esercito, per le ragioni che già spiegavamo, aveva interesse a nominare un proprio imperatore, per assicurare a sé maggiori donativi e altri privilegi. In tal modo l'esercito veniva anche a favorire l'ambizione di quegli aristocratici romani che stavano al suo comando e desideravano raggiungere l'impero. E ne conseguiva poi, a complicare la situazione, che questi aristocratici talvolta fossero d'accordo con il corpo (il Senato) a cui appartenevano, facendo pensare che avrebbero assicurato ai loro colleghi senatori maggiore autorità, talvolta fossero avversati, perché il Senato era geloso di loro. Da tutto questo complesso di azioni e reazioni nasceva la situazione del giugno 68.

15.2

Gaiba, Otone, Vitellio (68-69 d.C.)

GaIba, giunto tosto in Italia, non riuscì a mantenersi a lungo. Il Senato in sostanza era contento di lui, che si proclamava restauratore della «libertà» repubblicana, ma egli non fu abile dimostrandosi severo con i

I problemi dell'impero

Manuale di storia romana

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Le lotte per la successione imperiale

Le legioni d'Oriente sostengono Vespasiano

Scoppia una nuova guerra civile

pretori ani e colpendo troppo coloro che erano stati favoriti da Nerone, richiedendo, tra l'altro, che restituissero i donativi da lui avuti. Ne conseguì che molte nostalgie per il governo di Nerone si rafforzassero, e il paradosso fu che finì coll'attirare a sé queste simpatie proprio l'ex-marito di Poppea, Otone. Egli aveva desiderato di essere nominato da GaIba successore: al suo rifiuto si diede all'opposizione e, approfittando delle molte amicizie conservate nell'ambiente della corte di Nerone, corruppe i pretoriani, fece uccidere GaIba e fu nominato imperatore il 15 gennaio 69. Ma già dal IO gennaio di quel medesimo anno le legioni del Reno si erano risvegliate e avevano preteso di imporre a imperatore uno dei loro generali, Vitellio. Ormai la lotta era ridotta a scontro fratricida di eserciti romani. E perciò le legioni del Reno, assai meglio disciplinate, più numerose e compatte di quelle che Otone potesse trovare in Italia e in regioni vicine (Pannonia, Illiria), avevano la certezza della vittoria. Nella primavera del 69, due schiere al comando rispettivamente di Cecina e di Valente penetrarono in Italia nella pianura padana: Otone cercò di sbarrare loro la strada di Roma, impedendo loro di attraversare il Po, presso Cremona, in una località detta Bedriaco, ma fu sconfitto e preferì uccidersi. Vitellio era ora il nuovo imperatore, anch'egli già accennava a un programma di ossequio al Senato e alle magistrature del tempo repubblicano, tanto da voler esser fatto console perpetuo. Ma non ebbe tempo di precisare il suo programma. Anche le legioni d'Oriente reclamavano un nuovo imperatore e persuadevano Vespasiano a farsi nominare tale. Come Vitellio, nemmeno Vespasiano guidò il suo esercito alla conquista dell 'Italia. Lasciate truppe bastanti per tenere a freno, se non per reprimere, la ribellione giudaica, e affidatele al figlio Tito, egli stesso occupò l'Egitto, cuore dell'Oriente romano, e mandò verso l'Italia alcune legioni comandate da Muciano. Ma la ribellione si era estesa alle province della Mesia e della Pannonia, le quali accettarono la proclamazione di Vespasiano, e, essendo più vicine all'Italia, si affrettarono;;. marciarvi, precedendo le truppe di Muciano. È chiaro che esse volevano arrivare prime in Italia per acquistarsi maggiori benemerenze, mo:. non è improbabile che il generale che le comandava, Antonio Primi'. nutrisse qualche segreta ambizione per sé, che per altro non ebbe mode di esplicarsi. Queste truppe mesiche e pannoniche ebbero il compiI, tanto più facilitato in quanto dei due generali di Vitellio, uno, Valente. era allora malato e l'altro, Cecina, si rivelò disposto al tradimento. L: truppe vitelliane disorganizzate, senza i loro naturali comandanti, attaccarono poco lontano da Cremona nell' ottobre del 69 le truppe di Ant0nio Primo; ma furono sconfitte, poi assediate in Cremona, che fu infint occupata e saccheggiata orrendamente.

171

I Flavi

I partigiani di Vespasiano marciarono su Roma, dove del resto eran già scoppiati violenti moti contro Vitellio, in cui però i Vitelliani avevano avuto il sopravvento. Favorito da ulteriori tradimenti, Antonio Primo poteva entrare in Roma verso la fine di dicembre: Vitellio era ucciso. Muciano giunto poco dopo sapeva impedire che Antonio Primo acquistasse eccessivo potere e allontanava dall'Italia la legione pannonica a lui più devota. Perciò alla fine del 69 Vespasiano poteva dirsi senza suo merito padrone dell'Italia e senza rivali. Le legioni dell'Oriente avevano vinto su quelle dell'Occidente.

15.3

Vespasiano occupa Roma

Vespasiano (69-79 d.C.)

Vespasiano della gente dei Flavi era il primo imperatore non appartenente a famiglia patrizia. Egli era un plebeo della Sabina (nato a Rieti nel 9 d.C.) figlio e nipote di soldati che, come molti soldati, avevano raggiunto con fatica una situazione sociale rispettabile, se non brillante. Egli era dunque il tipico rappresentante di quei legionari italici, che tuttora costituivano il nerbo dell'esercito romano. Eppure uno dei più gravi problemi che egli dovette immediatamente affrontare fu quello di trasformare l'esercito per impedire che in avvenire si ripetessero le ribellioni degli anni 68-69. Per quanto favorito da queste ribellioni, egli era troppo serio per non essere consapevole del pericolo che esse costituivano per l'impero, e quindi, oltre a sciogliere alcune legioni particolarmente responsabili, si decise a un provvedimento gravissimo che era in contrasto con tutta la tradizione della sua famiglia: escluse gli Italiani dalle legioni, cioè decise che solo più i provinciali avrebbero militato nell'esercito romano. Il provvedimento era, come s'intende, di eccezionale gravità in quanto allontanava dall'esercito proprio coloro che con l'esercito avevano creato l'impero. Oggi poi che guardiamo da lontano vediamo in questa misura di Vespasiano uno dei più gravi colpi portati alla supremazia dell'Italia sulle province, e infatti noi dovremo constatare come a poco a poco l'Italia - priva della possibilità di fare udire la sua voce per mezzo dei suoi soldati - diminuisca d'importanza. Ma certo Vespasiano non prevedeva queste conseguenze: egli voleva solo cercare soldati più disciplinati che non gli italici. Tuttavia nemmeno le province potevano tanto facilmente ispirare fiducia a Vespasiano. La parte orientale dell 'Impero, con la sua cultura greca, non si conformava ai suoi piani. E la simpatia che Nerone le aveva dimostrato accresceva la diffidenza del suo rude successore: uno dei suoi primi atti fu di togliere l'autonomia concessa alla Grecia da Nerone e quindi ritornare a obbligarla a pagare i debiti tributi. Non quindi in Oriente egli cercò principalmente di trarre i suoi soldati, bensì in Occi-

Il nuovo imperatore riorganizza l'esercito

Il mondo greco rimpiange Nerone

Manuale di storia romana

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La Gallia si ribella

La «romanizzazione» delle province

I contrasti tra Vespasiano e il Senato

dente. Ma anche qui la situazione non era semplice. Nel 69, Giulio Civile, nobile dei Batavi - un popolo abitante press' a poco l'odierna Olanda, che era in teoria alleato, di fatto suddito di Roma - aveva organizzato una vasta ribellione valendosi dell'esperienza acquistata in molti anni di servizio nell'esercito romano. Il suo piano di sollevare tutta la Gallia contro il dominio romano non gli era riuscito, perché solo poche tribù aderirono, però egli giunse a sgominare le legioni che stavano a guardia del Reno e ad occupare gli accampamenti. Fu necessaria una campagna estremamente decisa nel 70 per poter domare Civile e rimettere la pace nelle regioni della Gallia che erano state turbate. In tali condizioni si comprende che nemmeno in Occidente i provinciali potevano ispirare assoluta fiducia a Vespasiano, sebbene la maggior parte della Gallia avesse dato prova di sincera fedeltà a Roma. Così Vespasiano volle limitare il reclutamento alle parti più civili, cioè più romanizzate, delle province. I legionari venivano tratti soprattuto dai centri urbani e, se non avevano già la cittadinanza romana, la ricevevano arruolandosi. Per poi avere un maggior numero di soldati Vespasiano favorì la formazione di centri urbani e largì volentieri la cittadinanza romana e latina a quelle regioni che si rivelavano meglio indirizzate alla romanizzazione. Il paese da lui prediletto fu a questo riguardo la Spagna, che ebbe in blocco la cittadinanza di diritto latino, mentre vi era favorita la costituzione di nuove città. E in genere si può dire che il grande movimento per cui a poco a poco l'impero sarà trasformato in un complesso di città romanizzate, mentre il contado, la campagna, continuerà a rimanere piuttosto insensibile alla civiltà romana, comincia con Vespasiano, per culminare (come vedremo) con Adriano e gli Antonini. Vespasiano è stato insomma un grande romanizzatore delle province e non esitò a preferire per molti aspetti le province all'Italia. Ma questo problema dell' esercito e delle province, benché assai complicato, fu solo uno dei tanti problemi di cui dovette occuparsi Vespasiano. Innanzi tutto egli doveva regolare il suo atteggiamento di fronte al Senato. Si capisce bene che il Senato non potesse avere molte simpatie per un imperatore che favoriva in tal modo le province, né potevano bastare a tranquillizzarlo le promesse fatte da Vespasiano al principio del regno - e sancite da un'apposita legge (lex de imperio Vespasiani) - per cui l'imperatore non avrebbe dovuto sorpassare i limiti del suo potere fissati da Augusto. L'opposizione quindi era forte, e la alimentavano anche i filosofi e i re tori che pullulavano in Italia e si compiacevano di predicare, magari in mezzo alle strade, l'odio per il dispotismo, colpendo indirettamente l'imperatore. Questi, senza mai abbandonarsi a crudeltà, provvedette però con molta energia. I filosofi furono cacciati dall'Italia, alcuni senatori puniti o almeno esclusi dal

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I Flavi

Senato, infine - cosa ben più importante - furono introdotti in Senato molti nuovi membri, anche provinciali, favorevoli all'imperatore. Un altro problema era quello della successione. Per impedire che la morte dell'imperatore provocasse troppi disordini, non sembrava ci fosse che il principio ereditario, la consuetudine che il figlio o altro prossimo congiunto succedesse all'imperatore morto. Vespasiano infatti decise di scegliere questa via, e già fin da principio associò al trono il figlio maggiore Tito, resosi glorioso per avere nel 70 domata la pericolosa ribellione degli Ebrei, occupando dopo lungo assedio Gerusalemme e distruggendo il famoso tempio che da Salomone in poi era il centro del culto giudaico. A Tito egli concesse anche la prefettura del pretorio sempre per impedire che i pretori ani - del resto diminuiti di numero potessero costituire un pericolo per l'imperatore. Un altro problema ancora era quello del riassetto finanziario. Nerone aveva speso senza misura: la ribellione del 68-69 aveva seminato la miseria in molte zone d'Italia: il deficit del bilancio era fortissimo. Con nuove gravose tasse, col più razionale sfruttamento degli immensi domini terrieri che l'imperatore aveva, colla riduzione delle spese, riuscì a Vespasiano di restaurare il bilancio. Infine c'era la difesa dei confini dell'impero da consolidare. Ricorderemo qui solo alcune importanti trasformazioni. Sappiamo già che i Romani non si erano mai del tutto ritirati sulla sinistra del Reno: essi avevano sempre tenuto qualche testa di ponte anche a destra. Ora Vespasiano fece occupare una vasta zona, che fu detta per ragione non chiara campi decumati press' a poco tra l'odierna Heidelberg e il lago di Costanza, cingendo questa zona, come del resto tutta la striscia transrenana occupata, con un imponente sistema difensivo, l'inizio di quello che sarà illimes di Domiziano (v. più sotto). In tal modo il collegamento tra la regione del Reno e quella del Danubio fu facilitato, e anche la regione del Danubio ebbe a subire notevoli accrescimenti e variazioni nel suo sistema difensivo. In Oriente furono annessi all'impero gli Stati vassalli di Commagene e della piccola Armenia; e la piccola Armenia fu unita con la Cappadocia e con la Galazia in una grande provincia imperatoria sotto il governo di un legato. Questi brevi cenni non possono che dare un'idea assai imperfetta del governo di Vespasiano, ma ognuno vede che egli inizia un'era nuova nella storia dell'impero romano, caratterizzata dalla sempre maggiore importanza delle province, dalla loro intensa romanizzazione, dalla loro riorganizzazione economica e dai grandi lavori ai loro confini per assicurarne le difese. Vespasiano fu uno dei più mirabili organizzatori che l'impero abbia mai avuto.

Nuove regole perla successione imperiale

Il riassetto delle finanze

Il «limes»

Manuale di storia romana

174

15.4

La costruzione del Colosseo

Domiziano «dominus et deus»

Tito (79-81 d.C.) e Domiziano (81-96)

A Vespasiano succedette, secondo le previsioni, il figlio Tito. Il suo regno di nemmeno tre anni, è povero di avvenimenti davvero significativi, ma Tito lasciò ottimo ricordo di sé (fu detto delizia del genere umano) per la mitezza e umanità e anche per il suo sforzo di andare d' accordo con il Senato. Di lui si ricordano specialmente molte costruzioni, come il compimento di quell' Anfiteatro Flavio (Colosseo) che fu eretto spianando una parte della Domus Aurea di Nerone. Si ricorda pure che durante il suo regno (nel 79) una terribile eruzione del Vesuvio distrusse Ercolano, Pompei e Stabia, uccidendo tra le numerose vittime lo storico e naturalista Plinio il Vecchio, mentre l'anno dopo un nuovo incendio bruciò molti quartieri di Roma. Ben più importante è il regno del fratello Domiziano, successo a Tito privo di figli (81-96 d.C.). La tradizione storica ce lo descrive con i colori più foschi, e non c'è del resto dubbio che egli suscitò odi profondi, perché infine venne ucciso da una congiura di aristocratici romani nel 96 d.C. Tuttavia il suo regno è uno dei più importanti. Vespasiano e specialmente Tito, per quanto avessero dato un forte colpo al predominio dell'Italia e dell'aristocrazia senatoria, avevano cercato tuttavia di evitare i caratteri esteriori del dispotismo: donde la loro abitudine di rivestire di regola il consolato per presentarsi quali magistrati normali di Roma. Domiziano continuerà sì in qualche particolare la forma accomodante dei predecessori, perciò anch'egli non mancherà di rivestire spesso il consolato, ma di solito amerà invece essere considerato esplicitamente padrone dell'impero. Egli si farà chiamare dominus e deus, si appoggerà soprattutto sull'armata di cui aumentò il soldo, e sui funzionari suoi privati ai danni dei funzionari senatori, si farà nominare censore perpetuo per poter nominare e destituire a suo piacere i senatori valendosi del diritto che competeva al censore, perseguiterà implacabilmente tutti gli oppositori, soprattutto, come del resto già Vespasiano. i filosofi. Non che Domiziano, come Nerone, inclinasse a forme orientali di governo. Egli era in ciò fedele alla tradizione della sua famiglia e durante il suo regno fece di tutto per ridare autorità ai vecchi culti romani e specialmente dimostrò particolare venerazione per Minerva e per Giove: se egli perseguitò negli ultimi anni del suo regno (93-94) gli Ebrei, lo fece appunto in quanto il loro proselitismo aveva trovato seguaci perfino in alcuni suoi congiunti. Ma egli voleva sottomettere a sé tutte le forze dello Stato. Altrettanto notevole è l'opera di Domiziano nelle province. In Britannia estese il dominio romano verso la Scozia, difendendo i nuovi acquisti con una serie di fortificazioni. Ma questo sistema difensivo ebbe particolare sviluppo in Germania, dove una guerra fortunata contro la

I Flavi

tribù dei Catti e altre imprese minori gli diedero la possibilità di allargare il dominio romano al di là del Reno e trasformare i due comandi militari del basso e dell'alto Reno in due province vere e proprie (la Germania inferiore e la Germania superiore). In tutta questa regione e nella regione attigua del Danubio superiore egli, col perfezionare le difese precedenti, costituì il così detto limes romano. Illimes (letteralmente: confine) era un sistema di palizzate e di fosse, interrotto da torri di guardia e più raramente da vere fortezze e da accampamenti di soldati, che segnava il confine dell'impero romano, impedendo nel modo più preciso che i barbari riuscissero a varcarlo; gli scavi archeologici hanno dimostrato quale opera gigantesca fosse e quali accorgimenti di ingegneria e di arte militare richiedesse per rendere sicura la sorveglianza dei confini. L'opera di Domiziano fu completata e allargata dai successori, soprattutto da Adriano, ma non superata. Finché l'impero avrà vigore, illimes rimarrà il suo maggiore baluardo. Meno fortunato fu Domiziano nelle imprese contro i Daci (odierna Romania e regioni vicine) che sotto il re Decebalo avevano costituito un regno assai forte assimilando la civiltà romana. Dopo molte vicende, Domiziano fu in sostanza non solo costretto a riconoscere l'indipendenza della Dacia, ma anche a comperarne la benevolenza con un forte tributo annuo. Non c'è dubbio che il pessimo risultato di queste campagne daciche - le quali consigliarono Domiziano a rafforzare anche il Danubio inferiore e a dividere in due la provincia di Mesia (Mesi a superiore e Mesia inferiore) per meglio difenderla - contribuì ad accrescere il malcontento dell'aristocrazia romana. Sappiamo già che una congiura di aristocratici (tra cui amici dello stesso imperatore) lo uccise nel 96.

Bibliografia Per la guerra civile, B. W. HENDERSON, Civil war and rebellion in the Roman Empire, Londra 1908; L. BESSONE, La rivolta batavica e la crisi del 69 d. c., Torino, 1972; A. MOMIGLIANO, Vitellio, «Studi Ital. Filologia Classica» IX, 1931, pp. 117-161. Per i tre imperatori Flavii: Atti del congresso internazionale di studi vespasianei, Rieti settembre 1979, Rieti 1981; Atti del Congresso internazionale di studi flaviani, Rieti, settembre 1981, Rieti 1983; B. LEVICK, Vespasian, New York 1999; Divus Vespasianus, Catalogo della mostra, Roma 2009, a cura di F. Coarelli, Milano 2009; S. GSELL, Essai sur le règne de l'empereur Domitien, Parigi 1894.

175

La costruzione di fortificazioni lungo il «limes»

La campagna militare contro i Daci

Da Nerva a Commodo CAPITOLO

16.1

La riscossa del Senato

Nerva designato nuovo imperatore

SEDICESIMO

Caratteri generali del secondo secolo dell'impero

Ancora una volta con Domiziano era avvenuto l'urto tra imperatore e aristocrazia senatoria. Il Senato era sempre geloso della sua autorità tradizionale, era consapevole della sua importanza, in quanto quasi tutte le più alte cariche dello Stato erano riservate ai suoi membri, era desideroso di conservare ed accrescere le sue prerogative e le ricchezze dei suoi membri: Domiziano aveva creduto di poterlo domare con la violenza, perseguitandolo, e ne era caduto vittima. In apparenza inerme, il Senato aveva dunque in sé ancora forza, e questa forza era dovuta all'importanza delle cariche che i membri del Senato tenevano, controllando la maggior parte dell'amministrazione dello Stato. Se insomma il Senato in sé non aveva più molto prestigio, perché la politica era quasi tutta regolata dall'imperatore, i senatori, in quanto normali esecutori della politica dell'imperatore, avevano necessariamente molta influenza. Gli imperatori non potevano in definitiva continuare ad urtare persone di cui dovevano fidarsi in tante incombenze delicate. Né si era dimostrato sufficiente il sistema di sostituire ai senatori più riottosi altri più ligi all'imperatore, perché presto i nuovi senatori venivano permeati dello spirito del corpo a cui appartenevano e perciò diventavano simili ai loro predecessori eliminati. L'imperatore che il Senato scelse alla successione dell' odiato Domiziano - il vecchio Cocceio Nerva - iniziò dunque un periodo di quasi un secolo, in cui il contrasto tra l'imperatore e il Senato si attenua fino quasi a scomparire. Gli imperatori danno garanzie di incolumità e di autorità ai senatori ed essi ricambiano collaborando attivamente nell'amministrazione dell'impero. È questo senza dubbio il periodo più bello della vita dell'impero romano. Ormai saldo nei suoi confini, consapevole della sua grandezza, capace di intimamente romanizzare i provinciali, l'impero è veramente tutto pervaso di giustizia e di umanità. quale nessun altro Stato antico conobbe. Gli imperatori fanno sinceramente professione di mitezza e di generosità: alcuni di essi come Adriano e Marco Aurelio sono fini spiriti, di cultura estremamente aristocra-

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Da Nerva a Commodo

tica. Di regola i successori all'impero vengono scelti non per eredità familiare, ma per adozione, cercando l'uomo più degno. In varia misura, ma costantemente, i provinciali vengono ammessi alle cariche dello Stato, sicché può darsi che una grande uguaglianza di fatto, se non ancora di diritto, si sia stabilita dappertutto. L'impero sa valersi assennatamente di tutti gli uomini abili e onesti. E perciò tutti sentono in Roma la loro patria e dalle più lontane regioni guardano a lei come alla «madre delle genti», e pregano, come nell'orazione del retore asiatico Elio Aristide a Roma, che essa duri eterna. È pure questo il periodo in cui procede instancabile l'opera di trasfonnazione dei centri ancora barbari in tante città romanizzate: quell'opera che si suole dire giustamente di urbanizzazione dell 'impero. Ed è anche il periodo in cui strade, commerci, opere pubbliche, prendono il massimo sviluppo.

16.2

Roma «madre delle genti»

Nerva (96-98) e Traiano (98-117)

Il regno di Nerva, già molto anziano, fu estremamente breve, ma pure importante. Nerva in fondo si trovava a dover consolidare il colpo di Stato del Senato e aveva contro di sé i pretoriani devoti alla memoria di Domiziano. Gli occorse perciò non poca abilità per ridurre costoro ad arrendevolezza e non poté sottrarsi, per ottenerla, a parecchi patteggiamenti in apparenza indecorosi. Appunto perché consapevole che la debolezza del nuovo sistema era nel non poter contare sull'esercito, egli scelse a suo successore un generale, di cui conosceva non solo la gran capacità, ma anche la grande autorità, V/pio Traiano, nato nel municipio di Italica in Spagna e quindi, benché naturalmente cittadino romano, in realtà il primo provinciale che assurgesse all'impero. Nel suo brevissimo regno Nerva ebbe ancora tempo di porre le basi di un'opera mirabile di umanità, le cosÌ dette istituzioni alimentari, l' organizzazione per assicurare il nutrimento ai bambini poveri. Traiano era stato sempre un soldato. Si comprende quindi che egli desiderasse di lasciare traccia di sé nell'impero, specialmente con imprese militari. Con lui quindi Roma riprende quella politica di espansione che in fondo Augusto aveva fatto cessare (se si eccettuano la conquista della Britannia per opera di Claudio e altri acquisti minori). Una impresa era, si direbbe, quasi naturale: quella contro i Daci, che avevano umiliato l'impero al tempo di Domiziano. La questione era però se la Dacia dovesse essere semplicemente punita oppure conquistata. Traiano si decise per la seconda alternativa e forse non fu estraneo alla decisione il desiderio di impadronirsi delle ricchissime miniere della Transilvania allora in mano dei Daci. La guerra si svolse in due fasi ( 101-102 e 105-107 d.C.) e portò all'annessione della Dacia. La colon-

Le riforme di Nerva

Traiano riprende l'offensiva contro i Daci

Manuale di storia romana

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La «colonna traiana»

La guerra contro i Parti

L'agricoltura conosce un nuovo sviluppo

na traiana in Roma illustra ancora oggi le principali fasi della lunga e non facile lotta. La Dacia fu ridotta a provincia e attivamente romanizzata con il farvi immigrare sudditi delle altre province. Perciò la Dacia - nonostante sia rimasta relativamente per poco tempo in potere dei Romani - è ancora oggi un paese di lingua latina, anzi l'unico paese balcanico di tale natura: tanto è vero che oggi porta il nome di Romania, dove il ricordo di Roma è palese. E s'intende che la conquista provocò tutto uno spostamento nel sistema difensivo del basso Danubio. Dopo il prospero successo delle campagne daciche, Traiano tra il 114 e il 117, anno della sua morte, iniziò un'impresa ancor più vasta, la sottomissione del perpetuo rivale di Roma, il regno partico. Disturbato da ribellioni in Oriente, sollevate in ispecie dagli Ebrei, Traiano non poté portare a compimento la conquista e dovette accontentarsi di annettere all'impero l'Annenia e la Mesopotamia (divisa nelle due province di Mesopotamia propriamente detta e di Assiria) e di fare riconoscere al re dei Parti la supremazia di Roma sul resto del suo regno. A Traiano si deve pure la conquista del regno degli Arabi Nabatei ridotto in provincia nel 106 sotto il nome di Arabia: ciò sottomise alla influenza romana tutte le grandi strade carovaniere che attraverso l'Arabia andavano in Oriente e in ispecie in India. 'Forse tuttavia si può dire che la maggior gloria di Traiano non è in queste imprese militari. Esse, che costarono somme enonni e costrinsero a complicare a dismisura il sistema difensivo dell'impero, non poterono essere mantenute: già il successore di Traiano, Adriano, distruggerà per necessità di cose parte dell' opera del suo predecessore. Furono quindi le guerre di Traiano uno splendore effimero, benché lasciassero un durevole risultato nella romanizzazione della Dacia. Ma questa romanizzazione può più giustamente inserirsi tra quelle opere di pace, per cui veramente Traiano diede assetto all'impero. Tanto egli era pronto a guerre audaci, quanto poco era incline a rinnovamenti radicali nell'ordine interno; e perciò egli fu assai parco nell'allargare il cerchio dei cittadini romani, concedendo diritti di cittadinanza ai provinciali. Egli si preoccupò invece soprattutto di ridare energia e prosperità all'Italia decaduta, ripopolandola e proteggendone l'agricoltura. Basti qui dire che egli perfezionò le istituzioni alimentari di Nerva con un sistema che doveva giovare anche a rinvigorire l'agricoltura italiana, perché stabilì che lo Stato desse prestiti ai proprietari rurali, e gli interessi di questi prestiti servissero a mantenere i bambini poveri. Le finanze furono riordinate. evitando di procedere a quelle continue confische, che avevano servito a diminuire il deficit nei predecessori. Molti altri ritocchi furono fatti all'amministrazione dell'Italia e delle province, tra cui l'estensione in larga misura di quei funzionari incaricati di controllare le finanze dei municipi (curatores) già istituiti da Domiziano. Onnai questi curatores

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Manuale di storia romana

Traiano «optimus princeps))

diventano magistrati regolari, che mettono fine all'autonomia dei municipi. Immensi lavori pubblici furono compiuti a Roma (c'è bisogno di ricordare il foro Traiano?) ed altrove: Traiano fu soprattutto grande costruttore di strade ed acquedotti. Quando un suo funzionario, Plinio il Giovane, lo interrogò se dovevano perseguitare i Cristiani, rispose con una relativa mitezza inusitata che solo dovevano perseguitarsi quando fossero stati denunciati e si fossero rifiutati di prestare omaggio agli Dei e all'imperatore: senza denuncia (e anche le denunce anonime erano escluse) dovevano essere lasciati tranquilli. Traiano fu salutato dai contemporanei come optimus princeps, e anche coloro che non si lasciano abbagliare dalla gloria troppo momentanea delle imprese militari, devono acconsentire che il titolo fu meritato. L'impero iniziò con lui un lungo periodo di pace feconda di bene.

16.3

La disciplina imposta da Adriano

La riforma dell'esercito

Adriano (117-138 d.C.)

Successe a Traiano un suo lontano congiunto, pure di origine spagnola. Elio Adriano. È incerto se Traiano l'avesse scelto alla successione: certo il Senato si affrettò a riconoscere in lui illegittimo imperatore. Il quale incominciò subito a dare all'impero un indirizzo assai differente da quello impressogli da Traiano. Le guerre di Traiano avevano stremato le riserve di uomini e di danari dell'impero, e perciò Adriano volle la pace e abbandonò anche le conquiste della Mesopotamia, troppo costose e impossibili a mantenersi senza una decisa volontà di continuare a combattere all'infinito con i Parti, che avrebbero sempre cercato di riprendere questo loro territorio. Ma non per questo Adriano trascurò la sicurezza delle frontiere e la disciplina dell' esercito, chè anzi egli se ne preoccupò in modo particolare. Disciplina fu il suo motto; l'accrescimento delle fortificazioni alle frontiere una delle sue principali cure (e celebre resterà soprattutto il così detto vallo di Adriano in Britannia. cioè il complesso di difese dei confini verso la Scozia). Con un provvedimento che ebbe molta importanza in seguito, egli trasformò in regionale il reclutamento delle truppe, vale a dire, stabilì che i soldati tratti da una provincia dovessero di regola servire in quella provincia o in province vicine. Ciò dava il vantaggio di avere soldati pratici dei luoghi e meno irrequieti, perché vicini alle loro famiglie, ma aveva lo svantaggio di fare di essi il portavoce del malcontento di queste loro famiglie. Ma è notevole soprattutto che Adriano si distaccasse da Traiano nell' atteggiamento di fronte ai provinciali, il che è già ben visibile nei provvedimenti ora citati sul servizio militare. Traiano favorì l'Italia. non allargò di molto la cittadinanza romana. Adriano invece favorì i provinciali. Greco di cultura e di gusti, innamorato delle opere d'arte

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Da Nerva a Commodo

greche, desideroso di rinnovare lo splendore della civiltà ateniese, Adriano non poteva avere particolari riguardi per la posizione privilegiata dell 'Italia e accentuò invece l'importanza degli elementi greci dell 'impero. Egli concesse a molte regioni provinciali la cittadinanza romana e fondò molte città, in ispecie nella parte orientale, cioè greca di cultura, dell' impero con la speranza che queste nuove città potessero contribuire alla solidità economica e militare dell 'impero, prosperando e dando soldati. Invece 1'Italia subì l'umiliazione di essere divisa in quattro distretti, ciascuno governato da un consolare (ex-console) che doveva controllarne l'amministrazione. Era togliere del tutto l'autonomia dell'Italia, e anche offendere il Senato, dal quale fino allora l'Italia era stata amministrata direttamente. Ma forse le precarie condizioni economiche suggerivano la necessità di un controllo maggiore, e in ogni caso Adriano desiderava di avere sotto di sé l'Italia come tutte le altre regioni dell' impero. Certo questo provvedimento provocò qualche contrasto tra Adriano e il Senato, tanto più che Adriano si dimostrò assai favorevole anche alla classe dei cavalieri, a cui affidò la direzione della cancelleria di Stato, accrescendo il prestigio di questa ai danni del Senato. Ma un urto vero tra Senato e Imperatore non ebbe luogo e in complesso Adriano ebbe nella sua opera l'aiuto dei Senatori. Del resto nessuno come lui conosceva così bene tutti i bisogni dell 'impero: in lunghi viaggi egli lo visitò minutamente e in ogni parte prese provvedimento in favore dei provinciali, preoccupandosi di risollevare dappertutto le condizioni dell'agricoltura. Nel suo regno la pace fu in complesso conservata: solo una ribellione degli Ebrei in Palestina e in Africa, duramente repressa, fu causa di preoccupaZIOm. Di Adriano sono degne di ricordo anche le fastose costruzioni: di una sua mirabile villa in cui c'erano tesori di arte greca, restano avanzi presso Tivoli (Villa Adriana) e il Mausoleo, in cui fu seppellito, si ammira ancora oggi (ma trasformato e lontano dalla sua primitiva bellezza) col nome di Castel Sant' Angelo.

16.4

Cresce l'influenza della cultura greca

La «villa Adriana»

Antonino Pio (138-161) e Marco Aurelio (161-180)

Il Senatore che Adriano designò alla successione - Antonino - era nato in Italia, ma anch'egli di origine provinciale (gallica). Era un onesto e saggio uomo, senza la vivace genialità del predecessore, ma di alto senso morale. La mitezza caratterizza tutti i suoi provvedimenti legislativi e fiscali: per non aggravare le tasse fece rigorose economie, per accattivarsi l'animo del Senato abolì la divisione dell'Italia in

Il mite Antonino

Manuale di storia romana

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Marco Aurelio sul trono imperiale

La diarchia

I Barbari varcano i confini sul Danubio

quattro distretti governati da consolari e perciò restituì l'Italia all'amministrazione del Senato. Non fece vere guerre. Solo si preoccupò di portare di qualche km. avanti i confini in Britannia e in Germania per costruire un primo limes che servisse da prima difesa contro i barbari, davanti allimes maggiore. Il tentativo in Britannia fallì, e i limiti della provincia romana rimasero quelli di Adriano; in Germania ebbe maggiore durata. Anche Antonino - che fu detto Pio per il suo zelo religioso verso gli antichi dèi romani sempre più in decadenza - scelse il suo successore per adozione. Il prescelto fu Marco Aurelio, di origine spagnola (161 d.C.). Filosofo stoico, spirito profondamente meditativo - che consegnerà il meglio della sua anima nobilissima in una raccolta di Pensieri, scritti nella vecchiaia tra i soldati - Marco Aurelio trasse dalle sue convinzioni l'energia per un continuo, tenace lavoro in favore dello Stato. Le condizioni dell'impero non erano più così tranquille come al tempo dei predecessori. I Parti avevano ripreso animo a combattere contro Roma, e la guerra che durerà dal 161 al 166, scoppiò appena Marco Aurelio salì sul trono. Fu forse la prospettiva di questa guerra che persuase Marco Aurelio a cercarsi un collaboratore nell 'impero in Lucio Vero. Già altri imperatori si erano associati al potere delle persone di fiducia: per es. Vespasiano il figlio Tito. Ma nessuno aveva dato loro autorità così ampia come Marco Aurelio diede a Vero, associandolo in tutti i poteri meno che nel sommo sacerdozio, sicché per la prima volta si ha un reale esperimento di diarchia nell'impero che - se poteva essere suggerito dalla vastità dell'impero e dalle due civiltà che vi coesistevanoera però denso di pericoli e sarà di fatto più tardi uno dei fattori della scissione fra Oriente e Occidente. Per allora l'esperimento durò solo 8 anni (161-169) e la personalità piuttosto insignificante di Lucio Vero gli diminuì l'importanza. Per quanto egli fosse stato incaricato di condurre la guerra contro i Parti, in realtà il vero generale fu Avidio Cassio, che la portò a fine vittorioso nel 166 col risultato che nuovamente una parte della Mesopotamia fu annessa all'impero, mentre un grande comando militare su tutto l'Oriente era affidato ad Avidio stesso. La guerra partica non ebbe maggiori risultati soprattutto perché nel 166 cominciarono le gravi minacce sul confine del Danubio. In seguito a un vasto movimento di popoli avvenuto alle loro spalle, parecchie tribù germaniche furono spinte a invadere i confini romani: Marcomanni, Quadi e altri minori tribù germaniche, con gli lapidi, di origine sarmatica, invasero la Rezia, il Norico, la Pannonia, la Mesia giungendo in Italia fino ad Aquileia. Marco Aurelio, coadiuvato da Lucio Vero (fino al 169 in cui questi morì), affrontò ripetutamente i nemici, riuscendo a ricacciarli al di là del Danubio e poi attaccò Marcomanni, Quadi e soprattutto gli lapidi nelle loro terre, finché nel 175 furono costretti a fare

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Da Nerva a Commodo

la pace, a restituire bottino e prigionieri e ad allontanarsi di molte miglia dal Danubio l . Ma due cose impedirono a Marco Aurelio di portare a fondo la lotta come egli avrebbe voluto: innanzi tutto una terribile epidemia che infierì per tutto l'impero e poi la ribellione del suo generale prediletto Avidio Cassio nel 175 d.C. Questi si fece proclamare imperatore in Oriente dai suoi soldati e riuscì a difendersi per più di tre mesi; ma poi fu messo a morte. Nel 178 in seguito a un nuovo tentativo dei Marcomanni e degli lapidi contro l'Impero, Marco Aurelio avrebbe voluto riprendere una lotta in grande stile contro di loro, ma la morte lo sorprese nel 180, e il suo successore non continuò la sua opera. Marco Aurelio dovette naturalmente dedicare le sue migliori energie a queste lotte. Perciò egli, l'imperatore pieno dei più nobili ideali umanitari, non poté che in minima parte realizzarli: fu forse questo il segreto sconforto della sua vita. Restano ad ogni modo di lui molte norme giuridiche ispirate a mitezza e si ricorda anche il suo scrupolo nell'amministrare il denaro dello Stato. Per quanto egli desiderasse di restare d'accordo con il Senato, non credette di fare a meno di rimettere l'Italia, divisa in quattro distretti, sotto la tutela di funzionari imperiali, che non erano più di rango consolare, ma di rango pretorio (cioè ex-pretori) e si chiamarono giuridici.

16.5

Commodo (180-192)

Marco Aurelio ebbe una debolezza: non seguÌ il sistema di adozione dei suoi predecessori e lasciò il regno al figlio diciannovenne Commodo. Già in sé questo abbandono di un sistema gradito al Senato e utile per l'impero era pericoloso, ma per di più Commodo non aveva alcuna attitudine a seguire le direttive dei predecessori. Violento e tirannico, egli amava la brutalità, non aveva alcuna simpatia per le classi colte. Urtatosi col Senato, alla congiura dei Senatori da lui scoperta rispose non solo con condanne a confische, ma appoggiandosi sempre di più all'esercito, di cui aumentò il soldo, e dando grande autorità a favoriti, che però cambiava spesso, per timore che lo potessero sostituire. Anche le classi basse, soprattutto di provincia, furono da lui protette e aiutate in odio alle classi alte. Insomma egli ritornò ai sistemi tirannici di Nerone e di Domiziano e come questi pretese anche di essere adorato come dio e precisamente come Ercole. E come di Nerone si disse che voleva cambiare il nome di Roma in Neropolis, cosÌ di Commodo si

I

Le legioni orientali si ribellano a Marco Aurelio

La colonna istoriata. che è ancor oggi in Piazza Colonna a Roma (antico Campo Marzio) ricorda e illustra queste guerre.

Il violento Commodo diventa imperatore

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Il «nuovo Ercole» avvelenato dai pretoriani

Manuale di storia romana

disse che voleva darle il nome di Colonia Commodiana. Vere o false che siano queste dicerie, certo è che il malcontento in Roma crebbe, le province, oppresse da pesi fiscali sempre più forti, divennero più irrequiete, e infine Commodo venne avvelenato da un proprio ciambellano (notte del 31 dicembre 192). L'impero illuminato degli Antonini, precipitato inaspettatamente nella tirannide, finiva cosÌ tragicamente. Si iniziava un periodo di lotte civili e di profonde trasformazioni sociali.

Bibliografia Per Traiano: R. PARIBENI, Optimus princeps, (Messina 1926); P.G. MICHELOTTO, Aspetti e problemi dell' età traianea, Milano 1994; Traiano: ai confini dell'impero, Cat. della mostra, Ancona 1998-1999, a cura di G. Arbore Popescu, Milano 1998; Trajano emperador de Roma. Atti del Convegno, Siviglia 1998, a cura di J. Gonzales, Roma 2000. Per Adriano: B.W. HENDERSON, The Life and Principate ofthe Emperor Hadrian, Londra 1923; P. GRAINDOR, Athènes sous Hadrien, Il Cairo 1934 (ristampato più volte); A.R. BIRLEY, Hadrian: the restless Emperor, London 1997; A. GALIMBERTI, Adriano e l'ideologia del principato, Roma 2007; R. TURcAN, Hadrien: souverain de la romanité, Digione 2008. Per Antonino Pio: E. F. BRYANT, The Reign of Antoninus Pius, Cambridge Historical Essays, III, 1895; S. SEGENNI, Antonino Pio e le città dell' Italia, in «Athenaeum» LXXXIX, 2001, pp. 355-405. Per Marco Aurelio, E. RENAN, Marc-Aurèle et lafin du monde antique, Parigi 1882, A.R. BIRLEY, Marcus Aurelius: a Biography, 2~ ed., Londra 1987. Per Commodo, F. GROSSO, La lotta politica al tempo di Commodo, Torino 1964; G. FIRPO, La congiura di Lucilla: alle origini dell' opposizione senatoria a Commodo, in Fazioni e congiure nel mondo antico, a cura di M. Sordi, Milano 1999, pp. 237-262.

I Severi CAPITOLO

17.1

DICIASSETTESIMO

Elvio Pertinace (gennaio-marzo 193 d.C.) e la situazione generale del momento alla morte di Commodo

Lo stesso prefetto del pretorio che aveva organizzato la congiura contro Commodo riuscì a far accogliere dai suoi sudditi la proclamazione ad imperatore di un candidato favorito dal Senato, illigure Elvio Pertinace, il quale infatti si sforzò sin dai primi giorni del suo brevissimo regno di reagire alle tendenze dispotiche di Commodo e di favorire la classe senatoria. Ma già alla fine del marzo dello stesso anno (193 d.C.) i Pretoriani stanchi del nuovo imperatore lo uccidevano e lo sostituivano con Didio Giuliano, un senatore che aveva loro offerto uno spettacoloso donativo. Nello stesso tempo le truppe delle province, non volendo essere da meno dei pretori ani e desiderando assicurarsi particolari vantaggi col nominare loro un imperatore, proclamavano per conto proprio con iniziative disordinate altri imperatori: in Siria era nominato Pescennio Nigro, in Pannonia Settimio Severo, in Britannia e in Gallia Clodio Albino. Di questi tre candidati il più vicino a Roma, e il più abile, Settimio Severo, nato a Leptis Magna in Africa, riusciva per primo a occupare Roma e a destituire Didio Giuliano. Per un certo aspetto si ripeteva la situazione verificatasi alla morte di Nerone. Gli eserciti delle varie province cercavano di imporre ciascuno un loro generale come imperatore. Ma le conseguenze furono ora molto più gravi, perché durature. Già il regno di Commodo aveva dimostrato che gli ideali di collaborazione tra Senato e imperatore, che avevano dominato per circa cent'anni, erano in declino. Ora le soldatesche, imponendo imperatori loro, daranno un colpo definitivo a questa autorità. Anche se non mancheranno forti resistenze del Senato (soprattutto al tempo di Severo Alessandro), l'impero si avvierà ormai decisamente a una sovranità dispotica dell'imperatore fondata sull'esercito. E poiché questo esercito non era più, come al tempo di Nerone, costituito essenzialmente di soldati italiani, ma invece, nella enorme maggioranza, di provinciali, con la morte di Commodo avremo anche la definitiva

Il potere dei pretoriani

Il potere degli eserciti provinciali

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Finisce il ruolo centrale di Roma e dell 'Italia

Manuale di storia romana

sostituzione delle province all'Italia nel primato dell 'impero. Infine, poiché questi soldati provinciali erano sempre di più tratti dalla campagna piuttosto che dalle città, la crisi di questo tempo significherà anche la decadenza delle classi cittadine più romanizzate a vantaggio delle classi rurali meno romanizzate. In conclusione con la morte di Commodo si attuano tre fatti: instaurazione di una monarchia militare; prevalenza assoluta delle province sull' Italia; relativa prevalenza dell' elemento rurale sull' elemento urbano più romanizzato.

17.2

Dalla guerra civile emerge Settimio Severo

Cresce l'importanza dei «provinciali))

Settimio Severo (193-211 d.C.)

Settimio Severo non poté naturalmente insediarsi in Roma conquistata. Aveva due rivali temibili da eliminare. Cominciò col dividere Albino da Pescennio Nigro adottandolo come suo successore e si accattivò il favore del Senato venerando la memoria di Pertinace. Poi andò in Oriente contro Nigro e riuscì facilmente a batterlo, e quando l'ebbe vinto, ruppe i rapporti contratti con Albino e vinse anche lui in Gallia. Nell'intervallo tra l'una e l'altra guerra (196) nominò suo figlio Bassiano suo successore e per calmare il malumore del Senato, che vedeva al solito malvolentieri il principio della successione familiare sostituito a quello di adozione, fece assumere dal figlio il nome assai caro all'aristocrazia senatoria di M. Aurelio Antonino; ma questo figlio passerà alla storia col soprannome di Caracalla'. In connessione con queste guerre va posta pure quella contro i Parti amici del Pescennio Nigro, che, per quanto combattuta con molto successo dal 197 al 202, non dette però risultati pari allo sforzo militare. Una ulteriore guerra Severo dovette intraprendere verso il 208 contro i Britanni ribelli, ma non poté concluderla prima della morte avvenuta nel 211. Il regno di Settimio Severo è importante non per queste guerre, ma per le trasformazioni interne dell'impero. È intanto già molto significativo che all'impero fosse giunto un africano, i cui familiari avevano scarsa conoscenza del latino, e che aveva una moglie siriaca, Giulia Domna, dal cervello ricolmo di credenze e superstizioni orientali. Ciò avrà importanza soprattutto per i discendenti di Severo. Egli si occupò specialmente di favorire i soldati provinciali. Introdusse i provinciali anche nelle truppe pretoriane fino allora riservate agli Italiani e per diminuire il prestigio dei pretori ani medesimi stanziò alle porte di Roma, ad Albano, una legione che servisse da contrappeso alla loro potenza e

I

Dal nome di un abito gallico che egli portava volentieri.

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I Severi

prepotenza. Ai soldati delle legioni concesse molti privilegi, in ispecie di sposare e forse anche di abitare, se sposati, fuori del campo. Il che, insieme con l'immissione di molti elementi germanici nell'esercito, provocò una certa barbarizzazione nell' ordinamento militare, le cui conseguenze si vedranno più tardi. Settimio Severo ebbe pure la tendenza a spezzare le province in più province minori (per es. la Siria e la Britannia furono divise in due) per impedire la formazione di troppo potenti unità intorno a un governatore. Si deve anche a lui un innalzamento della importanza della classe equestre. Infine egli volle una rigorosa distinzione tra il patrimonio dell'imperatore (fisco) e quello della sua casa privata (patrimonium privatum), ma solo perché in tale modo egli arricchì la sua casa privata a spese del fisco e quindi accrebbe la potenza della sua famiglia. L'autorità proconsolare che l'imperatore aveva almeno esplicitamente fino allora solo fuori d'Italia era estesa anche all'Italia, togliendole così un altro dei suoi privilegi.

17.3

Le riforme di Severo

Caracalla (211-217 d.C.); Macrino (217-218); Elagabalo (218-222); Severo Alessandro (222-235)

Il moto di perfetto conguagliamento d'Italia e province giungeva alla più completa realizzazione con Marco Aurelio Antonino, soprannominato Caracalla, il quale si era liberato, uccidendolo, del fratello minore Geta, che il padre aveva negli ultimi anni pensato di associargli al trono. Di Caracalla il fatto più insigne è appunto che ne12l2 concedeva la cittadinanza romana a tutti i provinciali, salvo alcune eccezioni, su cui gli studiosi moderni non si sono potuti mettere d'accordo. Ma questo atto non bastava a dare stabilità al suo regno. I soldati tornavano a essere irrequieti e durante una guerra con i Parti il prefetto dei pretoriani Opellio Macrino uccideva Caracalla (217 a.c.) e si faceva proclamare imperatore dai soldati. Il partito favorevole alla famiglia di Severo correva però alla riscossa. Non c'era più veramente nessun membro della famiglia di Severo, ma la moglie Giulia Domna aveva parenti in Siria molto autorevoli e ricchi perché appartenenti a famiglia di sacerdoti del Dio Sole Elagabalo nel celebre santuario di Emesa. Un nipote 2 appena quattordicenne, Avito Bassiano, soprannominato Elagabalo dal nome del dio di cui era sacerdote, fu proclamato imperatore e riuscì a sopraffare Ma-

Più precisamente la sorella di Giulia Domna, Giulia Mesa, aveva due figlie, Soemia e Mamea. Di queste la prima aveva per figlio Elagabalo, la seconda Severo Alessandro, che gli succederà.

Caracalla concede la cittadinanza romana ai provinciali

Elagabalo: un ragazzo sacerdote al potere

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Severo Alessandro e il potere delle donne imperiali

Si accentua la crisi finanziaria dell'impero

Manuale di storia romana

crino (218). Trasferitosi a Roma, non pensò ad altro che a diffondere il suo prediletto culto del dio Sole Elagabalo e in genere ad abbandonarsi a tutte le pratiche più eccessive di misticismo orientale. Vi fu una reazione, che costrinse prima Elagabalo ad adottare e a considerare correggente il giovane cugino Severo Alessandro e poi lo uccise (222 d.C.). Severo Alessandro, che succedeva, è una delle più complesse figure di imperatore che la storia romana conosca. Portato all'impero da una reazione contro l' orientalizzazione, egli favorì il Senato e i senatori, anche per consiglio della madre, che fu la sua tutrice nei primi anni di regno. La prefettura del pretori o fu data, a evitare ingerenze militari, al grande giurista Ulpiano: sedici senatori costituirono una specie di supremo consiglio imperiale. Ma per altro lato il prefetto del pretorio,innalzaro ora dal rango equestre a quello senatorio, acquistava nuova autorità; nelle province l'amministrazione senatoria era limitata e soprattutto nelle cose religiose Severo Alessandro portava un largo spirito universalistico, favorevole a tutti i culti (anche al Giudaismo e al Cristianesimo) che era lontano dalle tradizioni della classe senatoria. Ma con Severo Alessandro la crisi si manifestò in tutta la sua gravità nei due suoi aspetti essenziali: crisi finanziaria sempre maggiore, disordine nell' esercito e sua insufficienza a difendere i confini dell' impero. Questa insufficienza era tanto più dannosa in quanto proprio sotto il regno di Severo Alessandro, circa il 224 d.C., avveniva un profondo rivolgimento nello Stato dei Parti. La dinastia dei Sassanidi, espressione di un movimento nazionalista persiano, si sostituiva a quella degli Arsacidi, che aveva una tendenza ellenizzante. Questa tendenza nazionalista (anche nel campo religioso, dove la religione di Zoroastro era restaurata nella sua purezza) portava una maggiore vivacità nella tradizionale ostilità con Roma e diede luogo subito a una nuova guerra, mentre i Germani si facevano minacciosi sul Reno e sul Danubio. Severo riuscì a trattenere gli uni e gli altri; ma cadde nel 235 vittima di una delle tante sommosse militari del suo regno, in una delle quali era già stato ucciso Ulpiano. Cominciava così l'anarchia militare.

Bibliografia Su Pertinace, R. WERNER, Der historische Wert des Pertinax: vita in den Scriptores Historiae Augustae, «Klio», XXVI, (1933). Su Settimio Severo, A. BIRLEY, Septimius Severus: the African Emperor, London 1971; B. LEVICK, Julia Domna: Syrian Empress, London 2007. Per Caracalla, O. TH. SCHULZ, Der romische Kaiser Caracalla, Lipsia 1909; W. REUSCH, Der historische Wert del' Caracalla Vita, Lipsia 1931, (