Libro dei sei princìpi
 9788858761892

Table of contents :
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INTRODUZIONE......Page 5
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2.1......Page 15
2.2......Page 19
3.1......Page 22
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4.3.1......Page 62
4.4.1......Page 68
4.4.2......Page 72
4.5.1......Page 81
4.6.1......Page 84
4.6.2......Page 87
4.6.3......Page 90
4.6.4......Page 95
4.6.5......Page 99
4.7.1......Page 104
4.7.2......Page 107
4.7.3......Page 111
5......Page 115
5.1......Page 116
5.2......Page 117
5.3......Page 120
5.4......Page 124
NOTE ALL’INTRODUZIONE......Page 127
NOTA EDITORIALE......Page 165
LIBRO DEI SEI PRINCÌPI......Page 167
I......Page 169
II......Page 177
III......Page 183
IV......Page 185
V......Page 193
VI......Page 201
VII......Page 207
VIII......Page 213
APPARATI......Page 220
NOTE AL TESTO......Page 221
BIBLIOGRAFIA......Page 233

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Testo latino a fronte

A cura di Francesco Paparella

[Gilberto Porretano]

Libro dei sei princìpi

BOMPIANI TESTI A FRONTE

BOMPIANI TESTI A FRONTE direttore

GIOVANNI REALE

segretari: Alberto Bellanti Vincenzo Cicero Diego Fusaro Giuseppe Girgenti Roberto Radice

[GILBERTO PORRETANO] LIBRO DEI SEI PRINCÌPI Testo latino a fronte

Introduzione, traduzione, note e apparati di Francesco Paparella

BOMPIANI TESTI A FRONTE

ISBN 978-88-58-76189-2 © 2009 R.C.S. Libri S.p.A., Milano I edizione digitale 2013 Testi a fronte settembre 2009

INTRODUZIONE

Il destino del Liber de sex principiis o, come sembra più corretto chiamare l’opera, Liber sex principiorum, è quanto meno singolare1. Opera breve, attribuita inizialmente a Gilberto Porreta ma considerata anonima dalla critica moderna, scritta in uno stile oscuro2, il Liber sex principiorum ha goduto di una certa fortuna nel corso dei secoli. Il Liber, infatti, divenne parte integrante dei curricula medievali di logica alla pari dell’Isagoge porfiriana e degli scritti boeziani e aristotelici e, in quanto tale, ricevette l’attenzione di importanti pensatori, quali Alberto Magno che lo commentò diffusamente, oppure Dante Alighieri che ad esso fa riferimento nel primo libro della sua Monarchia3. Testimonianza di tale fortuna del Liber sex principiorum è il perdurante interesse suscitato, durante l’epoca di mezzo e i primi secoli del mondo moderno, dalle dottrine in esso contenute e l’attenzione che l’anonimo opuscolo seppe catturare. Il problema del quando o predicamentum durationis, ad esempio, tema analizzato nel IV capitoletto del Liber, viene ampiamente discusso ancora nel commentario conimbricense sulla logica aristotelica del 1606 (il In universam dialecticam Aristotelis) dove si fa esplicito riferimento al De sex principiis4. In tale opera, infatti, si sottolineava come la natura del quando fosse una questione estremamente complessa tale da sconsigliare una sua trattazione sistematica. I maestri gesuiti autori della summa, tuttavia, forniscono alcune indicazioni in merito

a tale problema filosofico, segnalando le due più importanti opinioni sull’argomento: la prima afferma che “la forma specifica della categoria consiste nella durata intrinseca di qualsiasi ente creato”5, mentre una differente posizione asserisce che il quando non è “qualcosa di sostanzialmente diverso dal tempo del movimento primo come misura estrinseca di tutti i movimenti inferiori”6. Tale seconda opinione, rifiutata dai Conimbricensi, sebbene in modo alquanto sfumato, è identificata dallo stesso commentario gesuita con la dottrina del quando sviluppata nel De sex principiis. In modo analogo Edward Grant, passando in rassegna le diverse dottrine sul luogo e il predicamento “dove” nel mondo medievale, osserva che mentre l’influenza del commentario di Simplicio alle Categorie aristoteliche, tradotto dal greco in latino da Guglielmo di Moerbeke nel 1266, è stata, almeno in un primo momento, limitata, grande importanza per tale questione ebbe, invece, il Liber sex principiorum7. Grant afferma persino che le più importanti dottrine elaborate tra tardo Medioevo ed età moderna sulla natura del dove e sulla sua relazione con il luogo possono essere considerate come una riflessione intorno alla definizione che il Liber dà dell’ubi (ubi vero est circumscriptio corporis a loci circumscriptione procedens8). In questo modo Grant afferma che le considerazioni di Suarez sul problema della categoria “dove”, con la ripresa della distinzione tra un ubi circumscriptivum e un ubi definitivum, considerazioni che, osserva ancora Grant, rappresentano la più lunga analisi conservataci intorno alla questione dell’ubi nel mondo moderno, possono essere ricondotte alla trattazione di questo predicamento nel Liber sex principiorum9. Ancora in epoca rinascimentale l’umanista Ermolao Barbaro preparò una parafrasi del testo originale del

Liber nel tentativo di migliorarne il latino (in certi casi, come già osservato, pressoché inintelligibile) e di renderne più comprensibile il contenuto. È nella traduzione di Barbaro che il Liber viene poi ancora studiato e analizzato sino a entrare, come osservava già Gilson, nel 48° capitoletto della Monadologia leibniziana10. Nonostante tale successo, tuttavia, il Liber sex principiorum risulta un’opera complessa e di difficile interpretazione, ancor oggi poco conosciuta. 1. Il Liber sex principiorum La stessa fisionomia e la reale natura del Liber risultano ambigue, come mostra chiaramente l’analisi condotta da Lorenzo Minio-Paluello alla quale faremo qui riferimento11. Le parti iniziale e finale del testo del Liber (conservatesi nei manoscritti più antichi) suggeriscono di considerare quest’opera come un opuscolo frutto della manipolazione di una preesistente opera filosofica, più sistematica e ampia. Il Liber, infatti, inizia con una congiunzione correlativa di seconda posizione, ovvero il vero, posto subito dopo al lemma forma; un simile incipit, conservato in almeno dieci delle copie più antiche del De sex principiis, suggerisce la presenza di un testo precedente che le trascrizioni dell’opera in questione hanno lasciato cadere e che è andato per qualche ragione perduto. In modo analogo la frase con cui termina il Liber, una volta che siano state rimosse in quanto spurie le ultime righe del testo conservate nelle precedenti edizioni critiche di Heysse e di Van den Eynden, ovvero porrigi impossibile est, appare diversa dall’espressione formulare con cui l’autore del De sex principiis conclude generalmente i precedenti paragrafi del suo scritto12. Questi fatti possono condurre a pensare che l’opera in questione sia stata ricavata da un testo più ampio, la

cui conclusione fosse diversa da quella tramandata dai manoscritti più recenti del Liber stesso, e comprendesse ulteriori parti non inserite nella redazione del De sex principiis13. Neppure la definizione di una data approssimativa nella quale collocare la stesura del Liber rappresenta una facile operazione. Il codice più antico nel quale il Liber viene tramandato è il Vaticano latino 2982; questo manoscritto è anche uno dei primi a ricostituire nel mondo latino medievale il corpus di testi utilizzati nelle scuole greche del V-VI secolo, con i testi latini d’Aristotele (Categorie e De interpretatione ai quali andava aggiunta l’Isagoge) e le opere boeziane, insieme ai testi logici aristotelici di più recente scoperta (Elenchi sofistici, Primi e Secondi Analitici, Topici). L’origine di tale codice, nel quale il testo del Liber appare particolarmente “puro”, può essere collocata nella seconda metà del XII secolo all’interno dell’area nord-italiana, forse emiliana. Al medesimo periodo e zona geografica appartiene anche la più antica testimonianza sull’uso e la diffusione del Liber, ovvero un commento anonimo alle Categorie di Aristotele, nel quale alcuni elementi dottrinali del Liber stesso (le definizioni di actio, passio e quando) sono riprese in modo pressoché letterale14. Più chiaro, almeno nelle sue linee generali, invece, appare il problema discusso nel Liber; l’opuscolo, infatti, si presenta come un’articolata analisi delle sei categorie aristoteliche dell’azione, passione, quando, dove, posizione e avere; l’opera si conclude poi con uno studio delle cause che producono il magis et minus, ovvero i fenomeni di crescita e diminuzione ai quali lo Stagirita faceva riferimento proprio nelle Categorie (discutendo se e in quale modo i predicamenti potessero partecipare del più e del meno)15.

Tali temi, oggetto dell’indagine del Liber sex principiorum, rappresentano anche le ragioni del suo successo: fornendo un’analisi del più e del meno e di quei predicamenti che ricevevano una sommaria trattazione nelle Categorie aristoteliche, il Liber permetteva di colmare una lacuna dottrinale presente nel corpus della logica vetus. Come tale lo scritto fu studiato insieme alle opere logiche fondamentali per il primo Medioevo, continuando a venire utilizzato e copiato anche dopo l’affermarsi della logica nova. La complessità delle dottrine presentate dal Liber unitamente all’oscurità dello stile e della lingua impiegate, tuttavia, richiedono un’articolata indagine per identificare la scuola filosofica da cui l’opuscolo proverrebbe e chiarire così la sua origine. 1.1 Lo studio del Liber Una indagine critica che voglia cercare di comprendere meglio il complesso contenuto del Liber e definirne i possibili rapporti con le altre scuole del XI e XII secolo, quindi, dovrà innanzitutto prendere le mosse da una preliminare ricostruzione dello stato dell’ars logica tra l’alto Medioevo e l’inizio della tradizione della logica nova (periodo nel quale compaiono i primi codici che tramandano il testo del Liber stesso16), per definire il contesto storico-culturale nel quale il Liber sex principiorum vide probabilmente la luce. Si potrà a questo punto iniziare la ricostruzione dei contenuti teorici del Liber per definire con maggiore precisione natura e fisionomia della dottrina elaborata in questo testo. Si procederà, infine, ad una analisi comparata che esamini le dottrine presenti nel Liber mettendole a confronto con i contenuti di diverse opere e trattati. Si ri-

leggerà così il Liber sia in relazione con le opere logiche più importanti per lo sviluppo della dialectica medievale sino al XII secolo e maggiormente pertinenti con il tema discusso dal Liber (le Categorie aristoteliche, i relativi commentari boeziani, le Categoriae decem e il De Dialectica di Alcuino), sia con i trattati logici che al pari del Liber furono redatti, a partire da queste medesime fonti, nel XI e XII secolo (in particolare con le opere di Pietro Abelardo). Il De sex principiis, inoltre, verrà messo a confronto con le opere di Gilberto Porreta, nel quale la tradizione ha indicato, sebbene in modo non univoco, l’autore del Liber, e con le testimonianze a noi giunte dei cosiddetti Porretani, ovvero i pensatori che alla dottrina gilbertina si richiamarono nella loro attività di teoresi. Si prenderanno in considerazione per un’analisi comparata del Liber, poi, anche gli scritti più significativi della scuola di Chartres alla quale lo stesso Porreta fu strettamente legato. Il Liber, infine, verrà esaminato alla luce delle teorie dei testi di natura enciclopedica che costituiscono punti di riferimento essenziali per l’intera storia del pensiero medievale quali le Etymologiae di Isidoro di Siviglia, il De nuptiis Philologiae et Mercurii di Marziano Capella, i Saturnalia e il commentario al Somnium Scipionis macrobiani, fonti di un sapere dialettico che nei secoli alto-medievali avrà frequentazioni limitate con le opere logiche antiche e tardo-antiche. Risultato di tale operazione di lettura comparata sarà l’individuazione della scuola abelardiana come contesto logico-speculativo in cui il Liber sex principiorum può essere inserito, elemento che fornisce sebbene in via preliminare preziose indicazioni sul complesso tema della paternità di questo scritto.

2. L’eredità della logica antica e lo stato della logica in Occidente sino al XII secolo Sten Ebbesen sottolinea come il mondo greco e quello latino avessero sviluppato in epoca tardo-antica un diverso curriculum per l’insegnamento della logica. Nel mondo greco, infatti, si era andata formando a partire dalla metà del II secolo d. C. una scolastica con un proprio corpus di testi che copriva ogni settore del sapere “scientifico”. La nascita di tale nuova tipologia di ricerca ed educazione richiedeva un superamento della forma di istruzione tradizionale nel mondo antico, fondata sulle diverse scuole filosofiche ciascuna più o meno nettamente contrapposta alle altre. Si andava sviluppando, quindi, la necessità di un’attività di ricerca e collazione dei testi, a partire da quelli dei grandi pensatori (Platone e Aristotele, ma anche Epicuro, Zenone e Crisippo), che fornisse una base dottrinale omogenea per ognuna delle parti del sapere. Questa attività portò a identificare alcune delle discipline del nuovo curriculum di studi con l’insegnamento che su di esse avevano sviluppato le singole scuole filosofiche antiche o ellenistiche; in questo modo Platone assunse progressivamente il ruolo di autorità di riferimento per la metafisica, mentre la disciplina logica venne quasi interamente desunta dagli insegnamenti aristotelici integrati con elementi tratti dalla dialettica stoica. In questo modo l’Organon divenne il corpus testuale fondamentale per l’apprendimento della logica. Tale riforma “del sistema d’istruzione” prevedeva per lo meno due livelli: uno di preparazione elementare e uno per studenti più progrediti. Il curriculum logico d’istruzione elementare nel mondo greco si articolava in: una teoria della divisione

con lo studio dei predicabili, alla quale corrispondeva come testo fondamentale l’Isagoge di Porfirio (il trattato Sulla divisione che Andronico di Rodi, primo editore del corpus aristotelico, compose cercando di colmare quella che appariva come una lacuna nel percorso teorico dello Stagirita non venne mai utilizzato in maniera significativa); la dottrina delle espressioni semplici intorno alla quale vertevano le Categorie; la struttura della proposizione, tema del De interpretatione; poi lo studio dei sillogismi divisi in categorici e ipotetici la cui trattazione si poteva trovare negli Analitici primi; e, infine, il ragionamento eristico che veniva discusso negli Elenchi sofistici. Nel cursus logico costruito sulla dottrina aristotelica trovavano poi posto anche gli Analitici secondi e i Topici (generalmente collocati all’interno dello studio del sillogismo), sebbene le discussioni sul giusto ordine nel quale porre gli scritti dello Stagirita rivelino come questi due trattati suscitassero delle perplessità tassonomiche a molti degli studiosi tardo-antichi. La differenza che distingueva il mondo latino-romano e quello greco per l’insegnamento della logica è indicata da Ebbesen nell’assenza all’interno del panorama didattico latino di alcune delle voci curriculari che comparivano invece nella tradizione greca; nel mondo romano, infatti, erano assenti gli Analitici primi, gli Analitici secondi, i Topici e gli Elenchi sofistici17. Si deve ricordare a questo proposito, d’altra parte, che l’attività di ricerca e innovazione in campo logico avveniva quasi esclusivamente nel mondo di lingua greca, sicché la tradizione latina risultava sempre dipendente da quest’ultimo e la produzione scrittoria romana (manuali, commenti, raccolte di testi etc.) aveva una funzione riepilogativa e didascalica rispetto ai nuovi risultati ottenuti nel mondo orientale; tale situazione probabilmente fu la causa del

fatto che nel mondo latino si producessero pochi manuali di logica, generalmente ad intervalli di tempo abbastanza lunghi, e che queste opere, datate rispetto alle innovazioni dottrinali greche, risultassero comunque validi strumenti di insegnamento per gli standard culturali latini, come accadde per le Disciplinae di Varrone18. Queste differenze tra mondo latino e mondo greco ebbero importanti conseguenze sul corpus di testi logici che il Medioevo latino conobbe e poté utilizzare. La tradizione didattica romana, infatti, conservò solamente alcuni scritti di logica: l’Isagoge di Porfirio, le Categorie di Aristotele insieme al suo De interpretatione e agli Analitici primi, e poi i Topica ciceroniani, i Topica aristotelici e gli Elenchi sofistici sempre di Aristotele. Va ricordato che questi fondamentali scritti logici greci furono tradotti e introdotti nel mondo romano da Boezio; egli approntò una versione latina dell’Isagoge, una delle Categorie (delle quali però circolarono nel mondo medievale due versioni: la prima condotta sul greco e la seconda prodotto di una interpolazione della prima con un testo composito e meno preciso la quale ebbe la maggiore fortuna nella tradizione manoscritta medievale19), una del De interpretatione, una ancora degli Analitici primi anch’essa conosciuta in due distinte versioni (la recensio Carnutensis e la recensio Florentina riveduta sul greco), una dei Topica (di cui sopravvisse anche un frammento di una diversa versione, anch’essa riveduta sul greco) e, infine, una di un commento incompleto dello Pseudo-Filopono agli Analitici primi20. A questi testi, che possono essere considerati un primo gruppo di scritti dialettici tramandanti al Medioevo latino, si devono aggiungere alcuni commenti, ovvero alcune opere nelle quali si studiavano e si cercavano di

spiegare i testi del primo gruppo. Tali scritti, tutti opera di Boezio, possono essere individuati in: due commenti all’Isagoge, un commento alle Categorie, due commenti al De interpretatione e un commento ai Topica di Cicerone. Infine un terzo gruppo di scritti logici conosciuti nel mondo alto medievale può essere individuato in alcune monografie, ovvero in trattati tardo antichi non strutturati come commenti alle opere dialettiche più importanti; si tratta del De definitionibus di Mario Vittorino e del De divisione di Boezio (entrambi relativi al plesso di questioni trattate dall’Isagoge), del De dialectica di Agostino e dello pseudo-agostiniano Categoriae decem (che vertevano sul tema delle Categorie di Aristotele), del Peri hermeneias di Apuleio (il cui tema era quello del De interpretatione aristotelico), dei due trattati boeziani sul sillogismo (De syllogismis categoricis e il De hypotheticis syllogismis ai quali vanno aggiunti i Prolegomeni, probabile rielaborazione post-boeziana del De syllogismis categoricis; si tratta di testi relativi alle dottrine degli Analitici primi21) e, infine, del De topicis differentiis, sempre boeziano (il quale discuteva le dottrine dei Topica di Cicerone)22. La conoscenza che il mondo medievale ebbe della dialettica può essere fatta risalire, inoltre, anche ad alcuni altri scritti, il cui oggetto non è prettamente di natura logica. Si tratta di opere enciclopediche, scritte nel mondo tardo antico con il fine di fissare e tramandare un repertorio minimo di dottrine e concetti. Possiamo ricordare in questo gruppo di testi il quarto libro del De nuptiis Philologiae et Mercurii di Marziano Capella, parti delle Institutiones di Cassiodoro e, infine, parti delle Etymologiae di Isidoro di Siviglia che dipendono dallo stesso Cassiodoro. Tale elenco di scritti logici che il mondo latino tardo antico tramandò alla nascente cultura medievale, tutta-

via, non è ancora sufficiente a delineare la fisionomia dell’insegnamento della dialettica nei primi secoli dell’epoca di mezzo. Il patrimonio librario e dottrinale intorno all’arte del ragionare correttamente che la tradizione romana aveva conservato, infatti, non venne immediatamente e integralmente conosciuto dal mondo medievale, ma iniziò a frammentarsi e ciascuno dei testi che lo componevano ebbe una storia e una fortuna particolari. Lorenzo Minio-Paluello individua tre fasi nella diffusione di questi testi, ciascuna definita dalla minore o dalla maggiore fortuna di uno o più degli scritti che costituiscono l’eredità logica tardo antica; la prima fase va dalla fine del VIII all’inizio del X secolo, la seconda dal 945 circa alla metà dell’XI secolo, la terza dal principio alla fine del XII secolo (continuando anche nel XIII secolo)23. 2.1 L’inizio della acculturazione logica del mondo medievale: Boezio vs. Agostino La prima fase fra quelle individuate da Lorenzo Minio-Paluello è caratterizzata da una limitata conoscenza e utilizzo sia dei testi originali aristotelici sia di quelli boeziani; lo stesso Lorenzo Minio-Paluello sottolinea l’importanza, quale documento paradigmatico dello stato delle conoscenze logiche in questo periodo della storia alto medievale, del codice di Leidrat di Lione (morto nell’818), arcivescovo della cattedrale cittadina e amico di Alcuino (legato, quindi, alla scuola palatina). In questa fase Aristotele è conosciuto solo attraverso le Categorie (nella versione originale e in quella composita) e il De interpretatione; questi testi tuttavia cominciano solo ora a diffondersi e il loro peso nei curricula dell’epoca è molto limitato. Boezio, invece, era conosciuto, oltre che indirettamente attraverso le traduzioni delle opere

aristoteliche da lui preparate, per i commenti alle Categorie e al De interpretatione stessi, nonché per il commento ai Topica di Cicerone, il cui testo comincia a circolare tra l’820 e l’860. La fonte principale del sapere logico, in particolare per quanto riguarda i termini non combinati e la loro semantica (l’oggetto proprio delle Categorie), in tale primo momento della ricezione della logica antica da parte della cultura medievale, è rappresentata oltre che dal De nuptiis di Marziano Capella, dalle Institutiones cassiodoree, dalle Etymologiae di Isidoro da Siviglia e dalle Categoriae decem pseudo-agostiniane. Le Institutiones e le Etymologiae, quali repertori di differenti saperi semplificati e ordinati per una più facile consultazione, ebbero una vastissima influenza sulla cultura medievale, come dimostra la presenza di estratti di tali opere (in particolare le Institutiones) in volumi dove erano conservati anche importanti testi dialettici antichi e tardo-antichi24. Il quarto libro del De nuptiis di Marziano Capella venne anch’esso letto ampiamente e inserito in raccolte di testi logici, attirando su di sé l’attenzione di studiosi particolarmente interessati alle questioni dialettiche25. A differenza delle Institutiones o del De nuptiis, le Categoriae decem, invece, rappresentano un trattato in molte sue parti originale rispetto alle Categorie aristoteliche; le Categoriae decem, infatti, pur riprendendo le dottrine dello Stagirita propongono “sviluppi non aristotelici”, con critiche all’impostazione aristotelica stessa e nuove prospettive dottrinali26. L’opera, come è suggerito anche in un suo passo dall’anonimo autore, rappresenta una parafrasi e traduzione in latino di un compendio delle Categorie redatto in ambiente temistiano nel tardo IV secolo27. L’importanza di questo testo per la

formazione dialettica dell’alto Medioevo è notevole. Fonte insieme a Cassiodoro della logica delle Etymologiae, il testo venne riscoperto da Alcuino (al quale si deve anche la sua prima ed erronea attribuzione ad Agostino, forse per un errore di lettura o forse per continuità con i testi con in quali era stato tramandato all’interno del codice che Alcuino lesse); Alcuino se ne servì ampiamente nel suo De Dialectica dedicato a Carlo Magno e lo fece diventare base dell’istruzione logica carolingia. La prima fase della diffusione dei testi logici nel mondo medievale è così segnata in gran parte dall’interazione tra la tradizione autenticamente aristotelica (con la diffusione dei testi d’Aristotele nella traduzione boeziana e la circolazione dei commenti a questi testi dello stesso Boezio) e quella temistiana della parafrasi pseudoagostiniana. Tale dialettica, come già osservato, vede un iniziale primato delle Categoriae decem che sino al X secolo rappresentano la base principale delle conoscenze logiche nel Medioevo latino. Il successo delle Categoriae decem in questo periodo di tempo è ben riassunto dalla diffusione dei manoscritti che conservano l’opera temistiana; Lorenzo Minio-Paluello, infatti, rileva come 19 manoscritti dei 43 che contengono le Categoriae decem siano anteriori all’XI secolo. In questo senso, di particolare importanza è il codice Parigino bibl. Nation. lat. 12949 proveniente da Corbie e forse posseduto da Eirico d’Auxerre; il codice contiene numerose glosse forse proprio di Eirico le quali, modificate e manipolate, hanno accompagnato a lungo le Categoriae decem28. Il progressivo affermarsi della tradizione boeziana e aristotelica, che coincide con la perdita di importanza della parafrasi temistiana, costituisce l’evento centrale

della seconda fase della storia della logica medievale (dalla seconda metà del X secolo sino al 1040 circa). Lorenzo Minio-Paluello, infatti, osserva come solo pochissimi (all’incirca tre) dei 300 manoscritti che conservano la traduzione boeziana delle Categorie siano anteriori al X secolo, mentre la presenza di scoli e commenti a tale traduzione non può essere fatta risalire a prima della fine del X o dell’inizio dell’XI secolo29; sorte analoga è quella del commento boeziano alle Categorie che comincia a diffondersi solo verso la fine del X secolo. Già nell’XI secolo la proporzione tra i manoscritti contenenti le Categoriae decem e quelli contenenti la parafrasi temistiana è invertita: 25 codici recano la versione boeziana delle Categorie (si tratta sempre della versione composita) e 21 il commento di Boezio, mentre solamente 6 sono i manoscritti delle Categoriae decem30. I documenti giunti sino a noi permettono anche di individuare il momento in cui la tradizione aristotelica e quella temistiana convissero quali fonti del sapere dialettico. Lorenzo Minio-Paluello individua 6 codici in cui sono presenti sia le Categorie sia le Categoriae decem; il più antico, anteriore alla fine del IX secolo, è un manoscritto di Leningrado (Bibl. Pubblica Class. Lat. F.V.7 prodotto a Corbie) dove, oltre all’Isagoge di Porfirio e la Dialectica di Agostino31, compaiono proprio le Categorie e la parafrasi temistiana, la quale è già presentata non come fedele riproposizione della dottrina aristotelica ma come translatio sensus ex sensu32. In questo periodo la contaminazione tra le due tradizioni è notevole: si comincia ad utilizzare la versione boeziana delle Categorie ma al tempo stesso le glosse a tale opera vengono condotte utilizzando come testo di riferimento le Categoriae decem.

Nel giro di circa un secolo, tuttavia, l’affermazione della tradizione aristotelica sarà totale. In questa seconda fase dell’acculturazione logica del mondo medievale l’imporsi delle Categorie e dei commenti boeziani (oltre che alle Categorie stesse anche all’Isagoge e al De interpretatione) si accompagna con un altro fondamentale fenomeno, ovvero la riscoperta dei trattati boeziani: gli scritti sui sillogismi categorici e ipotetici, lo scritto sui sillogismi dialettico-persuasivi (il De differentis topicis) e il De divisione (dedicato ai predicabili e al tema della descrizione)33. L’introduzione di questi documenti nella biblioteca logica medievale produce non solo un arricchimento in termini di contenuti e dottrine, ma funge da stimolo per l’elaborazione di nuove metodologie di ricerca; queste si sviluppano nel senso del commento sistematico, delle glosse scolastiche, dell’utilizzo della confutazione del sofisma quale sistema per dimostrare teorie valide (come accade per le Regule Magistri Gerlandi super Dialecticam, datate dall’editore, Lambertus De Rijk, alla metà dell’XI secolo e attribuite a Garlando Compotista) sino alla maturazione delle dottrine originali della Dialectica abelardiana e dell’Ars disserendi di Adamo di Balsham34. 2.2 L’inizio della logica nova e la fine dell’influenza boeziana L’ultima fase della diffusione dei testi dialettici tardoantichi nel mondo medievale vede l’introduzione negli ambienti latini occidentali dei trattati dialettici che il mondo romano non aveva inserito nel suo curriculum di studio, ovvero gli Analitici secondi e gli Elenchi sofistici. A partire dal 1115 il mondo occidentale conosce la versione boeziana degli Elenchi sofistici e degli Analitici primi (insieme con parti del commento di Filopono a

quest’ultima opera). Verso la metà del secolo, inoltre, Giacomo Veneto traduce gli Analitici secondi e ritraduce gli Elenchi sofistici, rendendo poi disponibili anche i commenti a queste opere che la tradizione aveva attribuito ad un certo Alessandro35. Il ruolo di questi commenti fu di fondamentale importanza in quanto permise al mondo occidentale di iniziare a studiare i complessi testi aristotelici sino ad allora mai letti dal Medioevo latino. Tra il 1160 e il 1170, invece, Gerardo da Cremona traduce dall’arabo nuovamente gli Analitici secondi con l’esposizione preparata da Temistio. La conoscenza della logica delle proposizioni semplici, inoltre, venne arricchita dall’introduzione in Occidente delle opere di Avicenna e Al-farabi, tradotte sempre nel XII secolo, e dalla nuova versione delle Categorie di Guglielmo di Moerbeke (1266), con il commento di Simplicio. Nel XIV secolo, infine, Guglielmo di Luna traduce l’Esposizione media di Averroé. Sia la traduzione di Moerbeke che quella dell’Esposizione, tuttavia, non riescono a sostituire la versione composita boeziana (sebbene la presenza di nove codici contenenti la traduzione moerbekiana delle Categorie risalenti all’incirca ad un secolo dopo la sua realizzazione testimonino un certo interesse per questa versione36); analogamente il commento temistiano agli Analitici secondi e quello di Simplicio alle Categorie, ai quali va aggiunto il commento al De interpretatione di Ammonio (reso accessibile in latino nel 1268), ebbero una importanza ridotta, in quanto la tradizione logica medievale aveva già definito una propria metodologia di indagine e studio intorno alle questioni trattate in quelle opere aristoteliche. Il primo e più significativo effetto di tale nuovo corso della dialettica del Medioevo latino è la progressiva perdita di importanza e la conseguente scomparsa dei com-

menti e dei trattati boeziani, unitamente agli scritti tardoantichi che avevano costituito fonti preziose nel periodo alto-medievale per la conoscenza della logica antica37. Nel XI e nel XII secolo all’affermarsi della tradizione aristotelica con le Categorie, l’Isagoge e il De interpretatione segue uno scarso utilizzo dei commenti boeziani38; solo alcuni dei trattati di Boezio, poi, continuano ad essere impiegati e comunque in maniera limitata, in particolare il De divisione e il De topicis differentis. La nuova stagione della logica medievale prevede, come già osservato, una maggiore “autonomia” dei magistri nell’approccio ai testi chiave del sapere dialettico (ovvero le opere logiche aristoteliche che divengono via via tutte accessibili al mondo latino). Le indicazioni che vengono dallo studio dei codici e dei manoscritti nei quali sono conservate, secondo la ricostruzione di Lorenzo Minio-Paluello, le copie più antiche del Liber sex principiorum suggeriscono di collocare proprio all’interno di questa complessa congiuntura storico-culturale, in un periodo di pieno recupero della tradizione aristotelico-boeziana e di progressivo abbandono delle fonti logiche agostiniane ed enciclopediche, la stesura del De sex principiis. Una ricostruzione della dottrina del Liber e un’analisi delle analogie tra tale dottrina e quelle dei testi più importanti per la riflessione logica nel mondo latino sino al XII secolo permetteranno di confermare tale collocazione temporale e di comprendere meglio l’origine del Liber stesso.

3. Il contenuto del Liber: discussione sulla forma e analisi delle sei categorie “minori” Per poter procedere ad una ricognizione critica intorno all’ambiente storico-dottrinale al quale il Liber può essere ricondotto e per poter, quindi, sebbene in modo puramente indicativo, formulare una ipotesi sulla sua origine e sul suo autore è necessario fornire una preliminare ricostruzione delle principali dottrine esposte nello stesso De sex principiis; una simile operazione, infatti, permette di organizzare il materiale del Liber facilitandone così una lettura comparata. Se tentare una presentazione del contenuto di un testo costituisce una operazione non del tutto neutra, sempre segnata da un certo grado di interpretazione e resa possibile da alcune scelte teoriche di fondo, la sintesi delle dottrine del Liber sex principiorum implica una operazione ermeneutica e dottrinale di considerevoli proporzioni. Vista la complessità del Liber, infatti, una ricostruzione delle sue dottrine è possibile solo grazie a certe scelte interpretative, a volte radicali. In ragione proprio della complessità del De sex principiis, d’altra parte, una sintesi del suo contenuto si presenta come una operazione indispensabile alla comprensione e analisi di questa singolare opera. 3.1 Primo capitolo: la nozione di forma Il primo capitoletto del Liber39 appare come il più denso e articolato, quanto a numero e natura delle dottrine esposte, dell’intero scritto; in esso, infatti, l’autore prima discute diverse questioni e poi, al suo termine, introduce la tematica la cui disamina occuperà tutti gli altri sette capitoli del Liber stesso, ovvero i sei predicamenti che Aristotele aveva trattato solo in modo molto sommario nelle sue Categorie.

Il tema che inaugura la riflessione del De sex principiis è quello della forma. Il Liber definisce la forma, nella prima riga del primo capitolo, come ciò che consistendo di una essenza semplice e invariabile si unisce al composto in modo del tutto contingente (forma…est compositioni contingens, semplici et invariabili consistens40). Il primo carattere che il Liber, in questo modo, attribuisce alla forma è la sua differenza dal composto; la natura del composto, infatti, prevede che esso una volta unito con un altro composto (una res concreta, dotata di materia) subisca una crescita. L’inerenza di una forma al composto stesso, invece, non produce una tale crescita; la qualità “bianco” non produce un incremento del corpo al quale inerisce né il suo venir meno comporta una destructio o minoratio del composto stesso41. L’autore per qualificare con più precisione la nozione di forma e per distinguerla da quella di altri autori, tuttavia, aveva aggiunto anche, come seconda caratteristica della forma stessa, l’essere una invariabilis essentia; la necessità di questa ulteriore qualificazione è motivata dall’autore del De sex principiis con il riferimento al fatto che altre determinazioni con caratteristiche analoghe alla forma possono essere affette da qualche alteratio, come accade per l’anima nella quale si possono trovare gioia e tristezza. Tale secondo carattere della forma risulta completato e chiarito dalla terza e ultima parte della definizione della forma; essa, spiega il Liber, è compositioni contingens e, quindi, libera da qualsiasi forma di variatio. Per spiegare tale carattere della forma l’autore del De sex principiis la paragona all’anima del mondo, spiegando che essa è sciolta da ogni rapporto con realtà altre42. Il Liber, d’altra parte, chiarisce ulteriormente tale tema dell’invariabilità e immutabilità della forma nel capoverso immediatamente successivo nel quale si discutono alcuni

esempi che sembrano contraddire la dottrina dell’assenza di variatio nella forma stessa. Un discorso, infatti, osserva l’autore del De sex principiis, può essere vero o falso, la bianchezza può essere chiara oppure più scura, ovvero può avere diversi gradi di intensità, un principio può operare oppure non operare nella realtà; queste situazioni sembrano suggerire che una forma (come la qualità “bianco” alla quale il primo capoverso del Liber faceva riferimento) può subire un’alterazione e, quindi, non è immutabile. L’autore risolve questa difficoltà facendo notare come la realtà autenticamente soggetta all’alterazione nei casi sopraindicati non sia la forma, bensì il soggetto al quale la forma inerisce: è il composto, quindi, a divenire più o meno bianco, non la bianchezza stessa a subire tale variatio. In modo analogo la possibilità della presenza di due contrari nel discorso o la possibilità che una ratio sia presente e non sia presente in una certa realtà non riguardano il discorso e la ratio stessi, bensì l’anima (vero soggetto che è susceptivus contrariorum) e le sue reazioni cognitive alle res concrete con le quali viene in contatto43. La riflessione sulla forma e sulla sua natura viene poi articolata ulteriormente mediante la distinzione tra due tipologie di formae: quella di cui l’autore ha discusso sino ad adesso, identificabile con una forma accidentale, e la forma substantialis (dall’autore indicata al neutro come substantiale). Tale elemento sostanziale viene identificato con ciò che conferisce l’essere al composto e che, quindi, non può essere mai assente da esso. Esempi di tale substantiale sono, secondo il Liber, il corpo e la ragione; ad essi, infatti, devono venir ricondotti la materia (il corpo) e la forma (l’anima caratterizzata dalla razionalità), ovvero gli elementi fondamentali che concorrono a costituire l’uomo. D’altra parte anche l’uomo stesso è indicato come specie del genere substantiale44.

Il Liber tratta poi dell’origine delle forme. Queste, infatti, possono essere prodotte dalla natura o dall’azione: fra le prime si possono indicare ad esempio la ragione, mentre tra le seconde possono essere annoverate il calore e la passione. Una regola per definire la forma che deriva dall’azione potrebbe essere, suggerisce l’autore, la presenza di una coniunctio, ovvero di una unione di parti così come accade per la casa, sebbene vi siano dei casi particolari che possono suscitare alcune perplessità a questo proposito (secondo il modo di procedere tipico del Liber molto attento alle situazioni aporetiche e alle conseguenze paradossali prodotte da una certa dottrina); infatti una figura creata per incisione, nonostante si produca non mediante unione di parti ma mediante una loro separazione appare come prodotto dell’azione45. La difficoltà teorica più rilevante individuata dall’autore del De sex principiis nello studio delle forme, tuttavia, è quella relativa alla natura delle forme que in pluribus sunt, che si trovano in molteplici realtà (i termini universali); esse, infatti, non sembrano derivare né dall’azione né dalla natura. Si tratta, quindi, di un tema molto delicato, autentica questione capitale nella filosofia e nella logica medievali. L’autore del Liber inizia a chiarire subito la propria posizione su questo punto correggendo l’apparente aporeticità della condizione delle formae in questione. Il rifiuto di identificare gli universali con le realtà naturali, infatti, appare motivato in maniera netta ricorrendo all’argomento secondo il quale le realtà naturali (e, quindi, verosimilmente le forme che dalla natura discendono) devono sempre avere la causa della propria origine in una precedente creatura46. Partendo da tale constatazione, l’autore del De sex principiis afferma decisamente che le forme universali non possono essere creaturae e, quindi, derivare a natura.

Il Liber continua l’indagine intorno a questo problema elaborando quella che pare essere una dottrina sulla creazione delle realtà concrete. La creatio, infatti, consiste nell’unione di diversi elementi; essa è superiore agli elementi primi che l’hanno prodotta, così come i singoli elementi una volta separati possiedono una unità che è superiore a quella della loro predicazione (eorum predicatio). La creazione si dà come una communitas di termini uniti gli uni agli altri ed è in grado di mostrare il principio dal quale essa dipende e che agisce secondo il numero47. Il Liber si avvia a concludere la sua analisi sulla forma distinguendo le forme che sono in un soggetto e quelle che si dicono del soggetto: prendendo come caso l’anima, esempio della prima tipologia di forme è la scienza (la quale si trova nell’anima), mentre esempio della seconda è la grammatica (che si dice dell’anima). Il Liber sottolinea come tutte le forme che appartengono al primo gruppo non possano appartenere al secondo e aggiunge che le formae in subiecto possono essere sia sensibili che immateriali (coglibili, precisa l’autore, solamente con la ragione) mentre le formae de subiecto sono solamente immateriali. Solo a questo punto l’autore del De sex principiis introduce la tematica che verrà sviluppata nelle restanti parti dell’opera, ovvero la natura delle sei categorie aristoteliche “minori”48. Il Liber, dopo aver ricordato come il discorso derivi dalla connessione di elementi singoli incomplexi, distingue unità semplici “sussistenti” e “contingenti”; la dicotomia che viene sviluppata, quindi, è relativa a quelle categorie che sono sostanziali e quelle che invece hanno una natura di accidente rispetto alla realtà esistente. Tale distinzione viene ulteriormente articolata mediante l’introduzione di una nuova sotto-divisione interna alle categorie accidentali; il Liber, infatti,

distingue categorie accidentali estrinseche, ovvero categorie che hanno un debolissimo rapporto con la sostanza, e categorie accidentali intrasostanziali che risultano, invece, più intimamente legate all’essere della res (singulum extrinsecus advenit e intra substantiam consideratur49). Il Liber si occuperà delle categorie accidentali estrinseche; esse vengono individuate in azione (actio)50, passione (passio), stare in una posizione (dispositio, poi indicata con l’espressione positio51), dove (esse alicubi, poi indicata semplicemente con ubi52), quando (in mora, successivamente indicata con quando53), avere (habere, introdotta successivamente con il termine habitus54). Le altre categorie trovano già un’adeguata trattazione negli scritti dello Stagirita e per questo non necessitano di una particolare analisi. 3.2 Secondo capitolo: la categoria dell’azione L’azione viene identificata dal Liber come quella categoria che permette di dire che qualcosa compie un’azione su un’altra realtà, come nel caso del tagliare55. Per tale ragione, afferma poco dopo l’autore del De sex principiis, l’azione è sempre legata al movimento ed è in movimento sia colui che agisce sia colui che è oggetto dell’azione stessa56. Il Liber precisa, però, che il movimento è una qualità, adducendo come esempio lo stare in quiete che deve essere considerato un quale. L’azione, quindi, sembra debba essere considerata, in virtù della sua relazione con il moto, una qualità57. Tale rapporto tra qualità e azione appare riconfermato successivamente, sempre all’interno del secondo capitoletto del Liber, quando viene sviluppata la dottrina secondo la quale la qualità produce il fare (facere); prova di tale teoria è, per l’autore del De sex principiis, il fatto che il calore, indubbiamente una qualità, produce l’azione che consiste nel

riscaldare58. La qualità stessa, alla quale si può ridurre il movimento e che produce il fare stesso, tuttavia, deve essere ricondotta ad un’altra categoria di fenomeni, ovvero alla positio quale disposizione e organizzazione delle parti; la prova di tale nuova teoria deriva dall’analisi di qualità come l’essere ruvido o liscio le quali dipendono dalla reciproca disposizione delle parti che compongono l’oggetto in questione (tale dottrina verrà ripresa e discussa più diffusamente nel capitolo del Liber dedicato proprio alla positio)59. Il Liber, in realtà, individua nella disposizione delle parti l’origine anche della quantità e introduce, in questo modo, una dottrina sulla genesi delle diverse categorie definendo per ciascuna il principio che sta a suo fondamento. Se la positio produce la qualità e la quantità, il situs è responsabile dell’agire e del patire in quanto, spiega il Liber, la generazione delle cose semplici consiste in una azione che deriva da una certa organizzazione relativa alla dispositio stessa (questo riconfermerebbe la dipendenza dell’agire dalla positio, qui chiamata situs e dispositio); il dove, invece, produce il luogo e il corpo l’avere60. Tale riflessione, tuttavia, viene introdotta da un’ulteriore, peculiare analisi sulle categorie di qualità e quantità; riprendendo l’analisi di questi predicamenti, il Liber sottolineava come ogni determinazione concreta che poteva cadere sotto la categoria della quantità e della qualità fosse il fondamento di queste stesse categorie: la linea produce la lunghezza, il piano la larghezza, il corpo solido lo spessore così come il calore (calor) fonda la proprietà dell’essere caldo (caliditas)61. La trattazione della categoria dell’azione si conclude, secondo uno schema che sarà presente nell’analisi di tutte le categorie esaminate dal Liber, con l’indagine sulla possibilità di predicare dell’agire (facere) la contra-

rietas e il magis et minus; l’agire può ammettere sia l’opposizione (in quanto il bruciare come azione si contrappone al bagnare) sia il più e il meno (il riscaldare come facere può essere più o meno intenso)62. All’interno di tale dottrina relativa alla categoria di azione il Liber inserisce alcune altre riflessioni e osservazioni che completano l’indagine condotta intorno a tale predicamento. L’autore del De sex principiis distingue l’azione dell’anima da quella del corpo: nella seconda colui che muove e agisce (il corpo che esercita la propria azione su un altro corpo) è mosso al pari dell’oggetto su cui l’azione si esercita, mentre nella prima la realtà che è origine del movimento non può essere essa stessa mossa (la sostanza psichica trasmette semplicemente il movimento a ciò che è a essa unito). L’anima, infatti, è una realtà immateriale e, come tale, non può essere coinvolta in nessuna forma di movimento o trasformazione63. Questa dottrina pare contraddetta, osserva l’autore del De sex principiis, da quanto accade nelle immagini riflesse; l’imago catottrica, infatti, si può muovere da un lato all’altro dello specchio sebbene questo rimanga immobile. In questo caso la difficoltà consisterebbe, se si interpreta bene il confuso passaggio del Liber, nel fatto che l’immagine si muove di un movimento di traslazione all’interno di uno spazio corporeo benché essa sia dotata di qualità immateriali e prossime a quelle dell’anima (l’origine del movimento di tale immagine, d’altronde, non può essere individuato nel movimento dello specchio in quanto la traslazione dell’imago speculare avviene anche se questo resta fermo)64. Un’analoga contraddizione è individuata e discussa all’interno della dottrina sulla relazione tra movimento e azione. Parlando del legame tra moto e azione, in ragione

del fatto che tutto ciò è in movimento è un’azione, il Liber osserva che sembra prodursi una sorta di contraddizione se si pensa al caso di un’azione che ha come conseguenza non la creazione di qualcosa ma la sua distruzione; in questo caso si dà un produrre, tipico dell’azione, ma ciò che è prodotto viene distrutto, o meglio, ciò che è prodotto è un nulla. Presupposto implicito che opera alla base di tale aporia è la relazione tra azione, movimento e oggetto sul quale l’azione stessa si esercita: l’annichilimento di una realtà come conseguenza dell’azione sembra contraddire la necessaria relazione tra soggetto e oggetto dell’agire. Il Liber risolve tale difficoltà precisando che l’azione si dà in relazione alla realtà sulla quale essa si esercita e non in relazione a qualcosa in generale65. Tale chiarimento teorico conduce il Liber a formulare la dottrina per la quale ogni azione produce una certa passio: l’agire produce una passio nella res sulla quale esso si esercita. Unica eccezione a tale dottrina è quella rappresentata dall’autocinetismo; in questo caso, infatti, l’azione compiuta dall’essere animato ha come sua causa un’azione (quella proveniente dallo stesso essere animato in quanto dotato di movimento indipendente) e, quindi, l’azione non produce un subire ma una nuova azione66. Un’interessante dottrina esposta nel secondo capitolo del Liber, infine, è quella sulla corruzione e generazione delle realtà individuali e di quelle che di esse si predicano: le prime si producono in relazione al venir meno di certe forme, le seconde invece dipendono dalle prime, descritte come quelle realtà che, in quanto individuali, non possono essere predicate di nulla. Questa teoria conduce ad una dottrina anti-realista degli universali per la quale, come sembra si possa interpretare il periodo tra parentesi con cui si conclude il capoverso, sono gli uomini concreti a generare la nozione comune e universale di uomo67.

3.3 Terzo capitolo: il patire Le riflessioni e considerazioni presenti nella trattazione della categoria dell’azione vengono riprese nel successivo capitolo del Liber dedicato al predicamento della passio: azione e passione, infatti, sono strettamente connesse e l’autore del De sex principiis riafferma tale legame all’inizio della sua riflessione sulla passio68. La passio, quindi, viene descritta come la prima conseguenza dell’azione che si produce non in colui che agisce ma in ciò su cui l’azione si esercita69. Il terzo capitolo del Liber, tuttavia, inserisce, accanto a dottrine già enucleate, alcune indicazioni inedite sul predicamento della passio. In particolare l’autore del De sex principiis afferma la natura multivoca della passione stessa: la passione appartiene al numero delle cose che multipliciter dicuntur70. “Passione”, infatti, sono le malattie naturali come la febbre, ma “passione” sono anche amore e odio, tristezza e gioia, prima annoverate dal Liber stesso tra le azioni; queste ultime, dice l’autore del De sex principiis, possono come tali essere definite passibiles actiones dell’anima71. Se l’azione produce sempre una corrispondente passione nella res oggetto dell’azione medesima, allora tanto più una realtà è dotata della capacità di agire tanto meno potrà trovarsi in una condizione di passività; viene così creata una gerarchia di realtà animantiora (più animate e, quindi, maggiormente capaci di agire) che vede al vertice gli essere razionali, poi gli animali bruti e, infine, i vegetali72. La trattazione di questa categoria si conclude con un rimando al De generatione et corruptione aristotelico.

3.4 Quarto capitolo: il quando Il quarto capitolo si apre immediatamente con la definizione della categoria del quando: il quando è ciò che rimane dalla prossimità del tempo (quando vero est quod ex temporis adiacentia relinquitur)73. Il quando, pertanto, è definito come ciò che dipende dallo scorrere del tempo derivando dalla “contiguità”74 con il tempo stesso; come tale il quando rappresenta quella categoria che permette di esprimere il momento (il quando appunto), all’interno della linea temporale, in cui un certo evento si è verificato75. Il Liber fornisce a questo proposito una definizione del presente e del futuro: il primo è descritto come ciò che permette di decidere l’uguaglianza o la diversità di una realtà, mentre il secondo corrisponde a ciò che accadrà necessariamente in quanto si dice che accadrà76. Il passato e il futuro, in seguito, vengono descritti come quantità congiunte al presente che appare inteso dal Liber come tempo della sostanza, ovvero momento temporale del darsi dell’essere della res. Il passato può mantenere un rapporto con il presente/sostanza in quanto esso non è ancora del tutto passato; il futuro, invece, ha tale rapporto con il presente perché alcuni eventi si verificano con una certa regolarità e sono quindi prevedibili. La relazione tra passato e futuro, da un lato, e presente come tempo della sostanzialità, dall’altro, è, quindi, determinata dal grado di consistenza ontologica a del passato e del futuro stessi; il passato continua ad esistere quando la sua distanza dal presente è piccola (condizione che determina il non essere del tutto trascorso di un evento che si avvia a divenire passato), mentre il futuro è già esistente se il verificarsi di un fatto non ancora avvenuto può essere considerato certo (questione che introduce nel Liber una breve riflessione sul tema dei futuri contingenti)77.

L’autore del De sex principiis afferma poi che per primo si dà il futuro, poi il presente e infine il passato78. Tali definizioni introducono al tema della complessa relazione che intercorre tra quando e tempo. Quando e scorrere temporale, infatti, non possono essere identificati, ma non devono neppure venire del tutto separati in quanto essi hanno un medesimo principio (utriusque…ratio coniuncta est)79. La ratio comune che unisce tempo e quando, quindi, permette di intendere il quando come determinazione prodotta dal tempo; il Liber precisa, infatti, che il quando è un effectus et infectio, ovvero un prodotto e una conseguenza, del tempo. La differenza tra tempo e quando, invece, si manifesta nel fatto che il tempo permette di misurare qualcosa e di instaurare una comparazione (si può dire che qualcosa dura molto tempo e che un fatto si è protratto per un tempo maggiore di un altro), mentre il quando non permette di compiere simili misurazioni ma unicamente di indicare il momento in cui qualcosa è avvenuto, definendone così la natura temporalis e variabilis80. Poiché il quando agisce come “indicatore” che rivela l’appartenenza di una certa realtà alla dimensione del divenire, solamente ciò che inizia ad essere (quod cepit esse) può partecipare della categoria del quando81; anche l’anima, d’altra parte, nella sua relazione costante con il corpo, subisce determinate alterazioni nel corso delle stagioni a causa della mutazione del rapporto reciproco tra gli umori del corpo stesso82. L’autore del De sex principiis asserisce, d’altra parte, che ad ogni momento dello scorrere temporale (presente, passato e futuro) può essere associata una manifestazione del quando: esiste un quando che deriva dal passato, uno che nasce dal presente e un altro che è prodotto del tempo futuro83. Tali manifestazioni del quando,

tuttavia, differiscono le une dalle altre; il quando che deriva dal presente è sempre contemporaneo al presente stesso, mentre tale condizione di simultaneità non si può mai dare per il quando prodotto dal passato e per quello derivante dal futuro84. La relazione tra tempo e quando, nel caso del passato e del futuro, si sviluppa, precisa poco dopo l’autore del De sex principiis, in un costante sfasamento del quando stesso rispetto alla temporalità che lo ha prodotto: il quando che si genera dal passato è precedente al passato stesso, mentre quello che deriva dal futuro risulta antecedente al futuro stesso85. Il Liber, infatti, ha definito il quando come ciò che permette di indicare il punto, nello scorrere temporale, in cui un evento accade; in quanto tale, quindi, il quando dipende dall’orizzonte temporale nel quale è inserito, ma è anche sempre legato al presente quale tempo nel quale si decide l’appartenenza di un fatto a un momento dello stesso scorrere del tempo e si individua il punto temporale del suo verificarsi. Il quando, pertanto, è contemporaneo solo al presente (l’unico momento in cui sia possibile formulare un giudizio sulla relazione tra un fatto e il tempo in cui esso avviene), mentre è successivo al passato e precedente al futuro nella stessa misura in cui ciascuno di questi due momenti del tempo è rispettivamente anteriore e posteriore al presente. L’ordine con cui si avvicendano le diverse manifestazioni del quando rispetta quello che il Liber individua per la relazione tra i diversi orizzonti temporali: per primo si dà il quando che deriva dal futuro, poi quello del presente e infine quello del passato. La relazione tra temporalità e quando fa sì anche che il quando stesso, al pari del tempo, possa essere distinto in semplice e composto: semplice è il quando che viene determinato da coordinate temporali come in momento

o nunc; complesso, invece, è il quando che fa riferimento all’ora, al giorno o alla settimana (come nel caso “un’ora fa” o “tra un’ora” etc.). Anche la riflessione sul quando termina con un’analisi sulla possibilità di predicare il più e il meno di tale categoria e sulla presenza nel quando stesso della contrarietas. Il quando, osserva il Liber, non può accettare gradi al suo interno in quanto due giorni non possono essere uno più lungo dell’altro. Il quando, inoltre, non può essere contrario ad un altro quando: poiché il quando che deriva dal passato, quello che deriva dal presente e quello che deriva dal futuro, argomenta infatti il Liber, sono tutti presenti nella medesima realtà (infatti la stessa cosa è stata, è e sarà e partecipa così delle diverse manifestazioni di tale categoria), se la relazione di contrarietà fosse presente nel quando allora la stessa realtà possiederebbe determinazioni opposte, il che è contraddittorio86. 3.5 Quinto capitolo: il dove Anche il quinto capitolo si apre con la definizione della categoria alla cui analisi il capitolo stesso è dedicato. L’autore del De sex principiis afferma che il dove (ubi) può essere definito come la condizione, propria del corpo, dell’essere circoscritto da un luogo (ubi…est circumscriptio corporis a loci circumscriptione procedens)87. Il dove, quindi, è il prodotto della relazione tra un corpo e un luogo: il primo è ciò che si trova nel luogo e da esso viene contenuto, il secondo, invece, è la realtà che contiene e chiude il corpo stesso. Tale definizione del dove permette al Liber, così come era accaduto per la categoria del quando nella sua relazione con il tempo, di distinguere il dove dal luogo. Ubi e locus, infatti, non possono essere identificati, sebbene tra di essi vi sia uno stretto rapporto (ancora più

intenso forse di quello che lega quando e tempus: poco più avanti, infatti, il Liber afferma che non si dà dove senza luogo né luogo senza dove88). Il luogo ha una funzione “attiva”, in quanto circoscrive e contiene, mentre il dove ha natura “passiva”, essendo identificabile con quanto è circoscritto e contenuto (in questo modo il Liber chiarisce l’ambiguità prodotta dall’impiego per definire sia l’ubi sia il locus del termine circumscriptio, al quale si attribuisce un valore enantisemico)89. L’autore del De sex principiis, tuttavia, propone, secondo un metodo espositivo sistematicamente utilizzato lungo l’intero Liber, un caso che sembra confutare la dottrina della stretta relazione tra locus e ubi. La difficoltà teorica in questione consiste nella natura del limite estremo della sfera celeste e nella possibilità o meno di definirlo come locus. Il passo del quinto capitoletto del Liber dove si discute tale problema appare estremamente complesso sia in ragione della delicatezza della questione teorica analizzata sia per le ambiguità sintatticolessicali del discorso. L’argomentazione proposta dal Liber, secondo una ricostruzione che cerchi di restituire il senso del passaggio del De sex principiis, prende le mosse dall’affermazione che nulla può esistere al di fuori dell’estremità della sfera celeste, in quanto essa è il limite che contiene ogni altra realtà90. A partire da tale dato teorico il Liber deduce che la sfera non può essere essa stessa in un luogo: quale limite che circonda la totalità delle cose che sono, l’estremità della sfera celeste non potrà avere natura locale91. Il Liber procede, poi, a definire la differenza tra realtà materiali e realtà immateriali in relazione alla categoria del dove: solamente le prime possono partecipare del predicamento in questione mentre le seconde, in particolare l’anima, non occupano nessun luogo e, quindi, di

esse non si predica il dove. Le realtà fisico-concrete, d’altra parte, possono occupare un luogo solamente se esso non è occupato da un’altra realtà (come l’esempio del moggio e del grano chiarisce): i corpi sono reciprocamente impenetrabili e come due realtà non possono trovarsi nel medesimo luogo così la medesima realtà non può occupare luoghi differenti92. A tale dottrina, tuttavia, il Liber contrappone, ancora una volta, l’esperienza di un caso particolare che sembra contraddire la regola appena enunciata. Se la voce è composta di aria e se la medesima voce può essere sentita da diverse persone e, quindi, essere presente (come aer emessa dalla bocca del locutore) in diversi luoghi (le orecchie di coloro che la percepiscono), allora il medesimo corpo si trova contemporaneamente in diversi luoghi. Il Liber non dà una risposta definitiva per sciogliere l’aporia così individuata. Il testo del De sex principiis, infatti, afferma che la percezione sensoriale della voce da parte delle diverse persone si produce ymaginabiliter, ovvero per l’attività fantastico-immaginativo della sostanza psichica individuale. Subito dopo, però, il Liber stesso rifiuta questa dottrina, argomentando che in base a essa non tutte le voces proverrebbero da esseri animati, mentre l’esperienza ci insegna che non può darsi suono articolato disgiuntamente dagli animales. La discussione si chiude, quindi, con la semplice affermazione che non si può dare la presenza di una et eadem vox nelle orecchie di diverse persone93. Il Liber, poi, individua diverse tipologie di ubi, ovvero un “dove” semplice e un “dove” composto, le quali derivano dalle corrispondenti forme del locus: il locus simplex produce l’ubi simplex mentre il locus coniunctus produce l’ubi compositum. Il luogo composto viene poi definito come ciò che si produce per l’unione di una

serie di parti le quali sono a contatto con le parti del corpo che è circondato dal luogo stesso; le parti del corpo, invece, sono unite al punto che diviene l’unità fondamentale anche per il luogo. L’analisi dell’ubi si conclude con una riflessione sulla possibilità di predicare di tale categoria la contrarietas e il più e il meno. Il Liber afferma che il dove non è suscettibile né di crescita e di diminuzione e, quindi, che non ci possono essere manifestazioni dell’ubi maggiori o minori di altre; l’autore del De sex principiis in modo analogo osserva che la categoria del dove non può entrare in nessun modo in un rapporto di contrarietà. Per dimostrare quest’ultimo asserto il Liber osserva che se fosse possibile opporre al dove qualche determinazione appartenente alla medesima categoria si produrrebbe l’aporetica conseguenza di predicare alla medesima realtà condizioni tra loro contrarie. Una medesima realtà, infatti, può essere al tempo stesso in alto e in basso (la parte sommitale di una torre è in alto per chi la guarda dal basso e in basso se paragonata all’estremità della sfera celeste). In questo modo, però, si contravverrebbe ad un importante principio logico in quanto alla medesima realtà apparterrebbero al tempo stesso attributi contrari. Il Liber conclude che per evitare un simile esito aporetico è necessario ammettere che le due differenti determinazioni appartenenti alla categoria del dove (lo “stare in alto” e lo “stare in basso”) non sono in realtà contrarie94. 3.6 Sesto capitolo: la posizione La positio viene definita dal Liber come un situs partium e una generationis ordinatio, ovvero una organizzazione delle parti che si produce nella generazione della cosa95. Come anticipato nel primo capitolo del Liber, la positio è strettamente legata alla sfera della qualità; la

ruvidezza o l’omogeneità, il grande e piccolo e il corto o lungo ma anche l’essere curvo o diritto, triangolare o quadrangolare, di due o tre cubiti vengono descritte dal Liber come condizioni determinate dalla positio stessa96. L’autore del De sex principiis in realtà precisa che tali attributi devono essere considerati non semplicemente delle positiones ma qualia circa positiones, ovvero qualità che si producono “intorno” alla posizione. Tali qualità si producono, infatti, a causa della particolare reciproca posizione delle parti di un oggetto; in questo modo è la positio a determinare la presenza di certe qualità e non la presenza di certe qualità a produrre una certa risposta sensoriale97. Il Liber propone un’analoga precisazione dottrinale proprio all’inizio del sesto capitoletto. L’autore del De sex principiis sottolinea come anche lo stare seduti e lo stare distesi (sedere, iacere) siano determinazioni appartenenti alla categoria della positio; queste condizioni, tuttavia, devono essere considerate positiones in maniera denominativa, ovvero in maniera derivata rispetto ad altre determinazioni che partecipano in modo più diretto di tale predicamento98. Il Liber dedica poi grande spazio alla trattazione della positio nella sua relazione con la contrarietas e con il magis et minus. Il problema della possibilità di predicare della categoria in questione il più e il meno viene velocemente discusso e risolto dall’autore del De sex principiis: nessuna positio può essere considerata minore o maggiore di un’altra (la condizione dello stare seduto è sempre identica e non può essere maggiore o minore di un’altra positio anch’essa definibile come “stare seduto”). Il Liber afferma che la posizione non partecipa neppure della contrarietas; se, infatti, due positiones potessero dirsi l’una contraria all’altra si sarebbe costretti ad ammettere

che uno stesso termine è contrario a più determinazioni, cosa in sé impossibile, in quanto lo stare seduti è ugualmente contrario sia allo stare in piedi che allo stare sdraiati99. L’autore del Liber fornisce un’ulteriore prova intorno alla natura aporetica della condizione di simultanea opposizione di un medesimo termine a più contrari prendendo in considerazione la relazione del colore giallo (pallidum) con il bianco e il nero; un colore come il giallo, infatti, essendo diverso tanto dal nero quanto dal bianco, appare contrario nello stesso tempo a due differenti termini99bis. Il Liber risolve l’apparente difficoltà osservando come in realtà bianco e nero siano presenti in ogni colore quali elementi che rendono possibile la sua esistenza; il giallo, pertanto, differisce sia dal bianco che dal nero ma propriamente non si oppone loro100. Il Liber chiude la sua riflessione sulla positio con una dottrina abbastanza originale. L’autore del De sex principiis, infatti, afferma che la positio rappresenta fra tutte le forme superpositae quella che è più prossima alla sostanza. Tale peculiare carattere della posizione viene spiegato nel Liber con la relazione che sussiste tra la positio stessa e la condizione della substantia di una realtà. La positio può essere relativa alla disposizione delle parti (come positio innata o a principio), oppure può prodursi per un movimento naturale più volte ripetuto (come lo stare seduto o lo stare disteso); in quanto tale questo predicamento definisce in maniera forte la condizione di una res e il suo stato ontologico. Il Liber afferma, quindi, che ogni determinazione che sia substantie assistens deve identificarsi con una positio101. 3.7 Settimo capitolo: l’avere Il Liber definisce la categoria dell’habitus come ciò che è relativo al corpo (est corporum) e a quanto risulta

ad esso collegato (circa corpus adiacentia)102. Ciò che contraddistingue in maniera particolare la categoria dell’avere, tuttavia, è il fatto che essa si predichi non della totalità, ma delle singole parti di una res e che, quindi, sia presente in realtà in sé molteplici (habitus fit secundum divisionem)103: il possedere delle armi, ad esempio, è relativo solo a certe parti del corpo e in maniera analoga lo stesso si può dire del possedere delle calzature (fatto che riguarda unicamente i piedi). Questa peculiarità accomuna l’habitus con le categorie della quantità, che con il numero appare infinitamente divisibile e distribuibile, e della relazione intesa in senso traslato, come nel caso della somiglianza e dissomiglianza, le quali si possono predicare di molteplici realtà104. Il Liber afferma, poi, che l’avere ammette il più e il meno (un cavaliere è più armato di un fante) ma non l’opposizione (si può sia essere armati sia possedere dei calzari). L’autore del De sex principiis definisce, infine, l’avere come una categoria polivoca, dai molteplici significati: avere, infatti, può essere detto in riferimento alla qualità (avere una certa caratteristica come la bianchezza), alla presenza di una realtà in un’altra (il moggio possiede il frumento), al possesso (avere un anello al dito) oppure alla relazione tra persone (il rapporto tra marito e moglie può essere definito come il fatto che un uomo ha una donna). Secondo il Liber tali molteplici significati della categoria dell’avere si riducono a cinque. 3.8 Ottavo capitolo: il più e il meno Il Liber una volta terminata l’analisi intorno alle categorie aristoteliche “minori” propone una articolata riflessione sui concetti di maggiore e minore i quali erano già stati indirettamente presi in considerazione

dallo Stagirita nelle Categorie (in occasione dell’indagine sulla relazione che ciascun predicamento aveva proprio con il magis e il minus). L’autore del De sex principiis espone inizialmente tre teorie, presentate come le differenti dottrine filosofiche per spiegare il fenomeno della crescita e della decrescita. Una prima posizione riduce il magis e il minus all’effetto di una alterazione del sostrato al quale ineriscono i diversi accidenti e attributi di una realtà; una seconda posizione, invece, attribuisce i fenomeni di crescita o diminuzione a mutazioni relative a ciò che inerisce al soggetto; infine esiste, dice il Liber, una terza posizione che deriva dalla combinazione delle prime due e individua le cause della crescita e della decrescita tanto nel sostrato quanto nei suoi accidenti105. L’autore del De sex principiis si impegna a sottoporre queste dottrine ad una attenta verifica per stabilire quale delle prime due sia la più vera (la confutazione di entrambe, infatti, porterà alla negazione anche della terza)106. Il Liber procede alla confutazione delle teorie sull’origine del magis e minus osservando, innanzitutto, come la crescita e decrescita di una realtà non possa essere attribuita al crementum e decrementum delle realtà che agiscono come sostrato. La prova di ciò sta nel fatto che si possono mettere a confronto due realtà definendo una delle due più piccola o più grande dell’altra senza che esse siano soggette a fenomeni di crescita o diminuzione; è questo il caso sia di due montagne, le quali osserva il Liber, benché non possano diventare più grandi e più piccole (in quanto esseri inanimati privi di vita propria), possono risultare l’una più grande o più piccola dell’altra, sia di una pietra e di un cavallo fra i quali la prima, pur non subendo alterazione di sorta, può essere detta

più grande del cavallo (soggetto, invece, a processi di crescita e decrescita)107. Un’analoga dimostrazione della falsità della dottrina che attribuisce l’origine del maggiore e del minore alla grandezza del soggetto o ai processi di crescita e decrescita108 si può ricavare dal confronto tra una perla e un cavallo che abbia una parte del corpo, anche piccola, bianca. La perla, infatti, è di certo più bianca del cavallo anche se la sua dimensione è inferiore a quella del cavallo; la perla, d’altra parte, non può essere maggiore (quanto alla bianchezza) del cavallo per la dimensione del soggetto né si può dire che il cavallo è inferiore alla perla quanto all’essenza. Si deve concludere, allora, che, poiché la perla è maggiore (sotto il rispetto della bianchezza) del cavallo, la dimensione del soggetto non può costituire il fattore capace di spiegare il darsi del più e del meno. In modo analogo anche la dottrina che individua nella variazione degli accidenti la causa del divenire maggiore o minore di un soggetto viene criticata dal Liber. La crescita o la decrescita di una qualità che inerisce ad una realtà conferendole un certo carattere (ad esempio la bianchezza) non può rendere il soggetto stesso maggiore o minore (in rapporto al carattere medesimo da tale qualità determinato); queste variazioni della qualità, infatti, sono interpretate dall’autore del De sex principiis come accrescimento o decremento quantitativo della qualità in questione, come dimostra chiaramente ancora l’esempio del cavallo e della perla. Se il divenire più grande di un accidente come la bianchezza potesse determinare il divenire maggiore del soggetto a cui esso inerisce, allora la perla non potrebbe essere più grande quanto alla bianchezza del cavallo, in quanto la quantità della qualità in questione presente nella perla stessa non potrebbe mai risultare superiore a quella del

cavallo (anche se questo avesse solamente una parte del corpo bianca)109. Analogamente la variazione della quantità dell’accidente e della sostanza non possono produrre il decremento del soggetto e, quindi, il suo divenire più piccolo. Infatti, si argomenta nel Liber, la quantità di una qualità è legata all’estensione del corpo al quale essa inerisce; il divenire più piccolo del corpo stesso comporta una riduzione della quantità possibile per ogni accidente che si lega al corpo in questione e, quindi, anche dell’attributo della piccolezza. Tanto più decresce il corpo tanto più diventa piccolo anche l’attributo della piccolezza e, quindi, tanto più aumenta la grandezza del corpo stesso (un decremento della piccolezza, argomenta implicitamente l’autore del De sex principiis, significa una crescita del soggetto). Tale esito aporetico, pertanto, porta a concludere che il divenire minus et parvius di una realtà non sia legato alla grandezza del soggetto e dei suoi accidenti ma ad un altro insieme di fattori110. Tale confutazione delle tre dottrine esposte all’inizio del capitolo apre la strada nel Liber alla definizione della vera natura dei fenomeni di crescita e decremento. L’autore del De sex principiis inizia la sua analisi indicando l’autentico referente dei processi di crescita e diminuzione, ovvero quanto è in voce e nell’impositio in voce (il termine significante e l’imposizione di un certo nome ad una realtà determinata)111. Il maggiore e il minore vengono così interpretati come fenomeni relativi alla vox di un determinato oggetto. In questo modo una realtà può essere definita più bianca di un’altra nella misura in cui in essa la qualità “bianco” è più prossima, secondo l’impositio vocis, alla pienezza di tale qualità, ovvero nel caso in cui la realtà in questione possieda un grado di bianchezza che la rende prossima alla vox “bianco” nella sua

purezza112. Una realtà bianca è tale perché ad essa si può imporre, sulla base di concrete caratteristiche da lei possedute, il nome bianco; tale realtà sarà più bianca di un’altra se rispetto ad essa sarà più prossima al nome e alla nozione di bianchezza113. La trattazione del problema del più e del meno termina con una riflessione sulle categorie e le determinazioni che non ammettono il più e il meno. Tali elementi vengono identificati innanzitutto nella sostanza; l’impositio della sostanza, infatti, è indicata come una sorta di limite al di là del quale non si può procedere oltre. Analogamente alcuni accidenti non ammettono il più e il meno perché possiedono un peculiare rapporto con la sostanza stessa (come nel caso di quadrato o triangolare). Ultimo caso nel quale il maggiore e il minore non si possono utilizzare sono i superlativi, in quanto, spiega il Liber, in essi opera la medesima regola che opera nelle sostanze, ovvero l’impossibilità di superare il limite ultimo imposto alla cosa114.

4. Riflessioni critiche sul Liber sex principiorum: analogie dottrinali e tentativi di attribuzione L’analisi e la ricostruzione del contenuto del Liber rende possibile uno studio comparato tra la dottrina elaborata nel Liber stesso e le diverse posizioni teoriche presenti nel dibattito culturale tra XI e XII secolo, relative a questioni analoghe a quelle trattate dall’autore del De sex principiis. Tale analisi comparata potrà rendere più comprensibile lo stesso contenuto del Liber sex principiorum e mostrare, al contempo, come questo opuscolo, pur possedendo caratteristiche dottrinali simili a quelle di alcune sectae filosofiche tra XI e XII secolo,

possa essere avvicinato, per i suoi più significativi tratti teorici, alla tradizione logica abelardiana. Tale analisi comparata si svilupperà mediante il confronto tra i contenuti del Liber e le dottrine logiche presenti sia negli scritti antichi e tardo-antichi conosciuti nel mondo medievale sia nelle opere filosofiche appartenenti allo stesso periodo del Liber. 4.1 Il Liber e Aristotele Fonte fondamentale della logica alto medievale a partire per lo meno dal X secolo sono stati, come visto, alcuni testi aristotelici unitamente ai loro commenti boeziani. Il tema la cui analisi occupa la quasi totalità del Liber, ovvero il problema delle categorie aristoteliche “minori”, suggerisce di verificare innanzitutto il rapporto tra lo stesso De sex principiis e le Categorie dello Stagirita, alle quali d’altra parte lo stesso autore del Liber in alcuni casi rimanda. 4.1.1 Invariabilità della forma Una prima chiara traccia dell’influenza aristotelica nel Liber è presente nella dottrina sull’invariabilità della forma inserita nel primo capitolo dell’opuscolo115. L’autore del De sex principiis si interroga sulla presenza o meno di forme invariabili, in quanto alcuni esempi come quelli della bianchezza (che può essere più o meno intensa e brillante) e dell’oratio (della quale si può predicare il vero e il falso) fanno sorgere il sospetto che ogni forma sia soggetta a mutamento. Il Liber risolve la questione osservando come la mutazione e la presenza dei contrari nei casi considerati non riguardi direttamente la forma, bensì qualcosa d’altro: la variazione di intensità del bianco è relativa al subiectum al quale la bianchezza

come forma inerisce, mentre il discorso è nota di una passione dell’anima. Il Liber riprende in questo caso la parte conclusiva dell’analisi aristotelica sulla sostanza. Aristotele afferma che alla sostanza, in quanto una e individua, possono inerire i contrari come nel caso di un uomo che può essere bianco o nero, giusto o ingiusto, caldo o freddo116 (mentre essa non ammette il più e il meno117); ciò, precisa il testo delle Categorie, non può avvenire per realtà singolari ma non sostanziali (come nel caso del colore) e neppure per quanto riguarda il discorso e l’opinione. Il discorso, in particolare, non potrà essere vero o falso come la sostanza può essere o fredda o calda; quest’ultima diviene da calda fredda (o viceversa) in base ad una trasformazione (permutatio) delle determinazioni che sono in lei, mentre il discorso è sempre lo stesso e la contrarietà non si dà nel discorso stesso118. Aristotele, infine, spiega che il discorso quando è vero o falso è tale perché verte intorno ad una differente passione dell’anima119. Il Liber, inoltre, sembra riprendere dalle Categorie aristoteliche anche l’esempio del colore e dei contrari ai quali esso sembra partecipare120. 4.1.2 La distinzione in subiecto e de subiecto Un’analoga chiara traccia della dottrina aristotelica nel Liber è rilevabile poche righe dopo nella distinzione tra “essere nel soggetto” (in subiecto) e “essere del soggetto” (de subiecto), all’interno dello stesso primo capitolo dell’opuscolo121. La distinzione tra “essere nel soggetto” (in subiecto) e “essere del soggetto” (de subiecto), infatti, è formulata già nelle Categorie aristoteliche122. Il testo aristotelico individua quattro combinazioni possibili tra la condizione dell’

“essere nel soggetto” e quella dell’ “essere del soggetto”; fra le cose che sono (eorum quae sunt) alcune possono essere nel soggetto ma non essere dette del soggetto, altre possono essere dette del soggetto ma non essere nel soggetto, altre ancora possono sia essere nel soggetto sia essere dette del soggetto, altre infine non possono né essere dette del soggetto né essere nel soggetto123. Il testo del Liber, tuttavia, semplifica la dottrina aristotelico-boeziana e non riporta l’ultimo caso, iniziando la propria analisi con la terza possibilità (ciò che può essere detto del soggetto e anche può essere nel soggetto); il Liber riferisce tale condizione ad forma…alia, ovvero a “qualche forma”. Il De sex principiis riprende e parafrasa anche la parte che nelle Categorie chiude il secondo paragrafo dove tale dottrina era stata elaborata: se Aristotele afferma che tutto ciò che è individuale e singolo non può essere detto del soggetto124, il Liber afferma che le cose sensibili (distinte poco prima da quelle non sensibili) non possono essere dette del soggetto125. Infine la parte conclusiva del primo capitolo del Liber riproduce in modo alquanto fedele un corrispettivo passaggio aristotelico. L’elemento singolo (singulum) è dato dai termini nella loro semplicità, al di fuori di una struttura apofantica complessa. Il Liber sottolinea, sempre seguendo Aristotele e Boezio, come tale elemento singolo possa significare o la sostanza o qualcosa di accidentale, introducendo così la distinzione tra elementi subsistentes e contingentes, successivamente articolata nella distinzione delle forme accidentali in estrinseche e intrinseche rispetto alla sostanza della res considerata126. 4.1.3 La relazione tra azione, passione e qualità All’interno del secondo capitolo sull’actio l’autore del De sex principiis elabora la dottrina della relazione tra

qualità e azione (facere) e tra qualità e condizione passiva (passio)127: la qualità produce un’azione che si esercita su una determinata res, conferendole una certa qualità o attributo (come nel caso del calore che è origine dell’azione del riscaldare la quale esercitandosi su una realtà la rende a sua volta calda). Tale dottrina reca in sé tracce sia della riflessione aristotelica sia dell’elaborazione che di questa stessa riflessione fu compiuta da Boezio e dalle Categoriae decem. Se la trattazione aristotelica della categoria del fare (il termine actio non compare, infatti, nella traduzione boeziana dell’opera dello Stagirita e il predicamento in questione è indicato con l’espressione facere) è estremamente veloce (lo Stagirita si limita a sottolineare come del fare e del subire possano essere predicati il più e il meno)128, in alcuni passi di poco precedenti Aristotele parla del facere più diffusamente ponendolo in relazione con il genus qualitatis; egli, infatti, osserva come esista una particolare forma di qualità legata alla potentia naturalis, identificabile con la capacità di fare o subire. Il fare viene così messo in relazione con il possesso di una predisposizione naturale (potentia naturalis) a compiere determinate azioni che può essere considerata una forma di qualità129. Tale relazione tra qualità e azione è chiaramente riaffermata dalle Categoriae decem. La parafrasi temistiana asserisce che fare e patire derivano dalla qualità: ciò che riscalda deve possedere il calore e il calore rappresenta una qualità; in modo analogo la realtà sulla quale si esercita l’azione e che diviene calda acquisisce, tramite il patire, una certa qualità (la parafrasi temistiana porta come esempio anche quello del rapporto tra il discepolo e il maestro: il primo diviene istruito in quanto oggetto dell’azione del maestro che, possedendo la qualità dell’essere doctor, insegna all’allievo)130. Fare e

qualità sono quindi strettamente connessi (l’origine, fons, del fare sembra essere identificabile con la qualità stessa). Alcuino nel suo De Dialectica riprodurrà semplificandola tale dottrina sul fare131. Nelle Categorie aristoteliche e nel commento boeziano al testo dello Stagirita è presente, d’altronde, una dottrina della positio come fattore che è responsabile del formarsi della qualità e della quantità132. Aristotele, infatti, sottolinea, parlando del quarto genere di qualità, che sottile e spesso, ruvido e liscio appartengono ad una differente tipologia della qualità stessa in quanto essi sono prodotti da una particolare disposizione (positio) delle parti di cui sono composti: ciò che è spesso possiede parti che sono più vicine, mentre in ciò che è liscio le diverse porzioni di materia sono tutte disposte in modo uguale. Boezio riprende in più luoghi del suo commento alle Categorie le indicazioni aristoteliche affermando, in continuità con il testo dello Stagirita, che attributi come spesso e liscio non devono essere considerati qualità ma piuttosto elementi determinati dalla posizione133. La relazione tra passione e azione, affermata dal Liber all’inizio del capitolo dedicato all’actio134, è presente anche nelle opere boeziane. Boezio, infatti, nel suo commento alle Categorie sottolinea come nel fare e nel patire sia presente un actus il quale si sviluppa da una realtà e si esercita su una realtà da essa diversa; tale azione che mette in relazione due diverse res può essere considerata dal punto di vista di colui che compie l’azione o da quello di quella realtà sulla quale l’azione si esercita: nel primo caso si ha il fare, mentre nel secondo il patire135. La dottrina aristotelica rielaborata in Boezio e amplificata nelle Categoriae decem sull’actio e la passio, quindi, viene ripresa dal Liber: nonostante la presenza di alcune differenze, ovvero il fatto che il termine efficatrix

(con cui l’autore del De sex principiis indica la condizione della positio nei confronti della qualità) non sia presente in Aristotele e Boezio, la teoria sul rapporto tra qualità e azione elaborata dall’autore del De sex principiis riprende le indicazioni aristotelico-boeziane. L’affermazione secondo la quale il fare deriva da una qualità, invece, è ripresa dalle Categoriae decem. Se il retaggio aristotelico-boeziano (unitamente ad alcuni elementi della riflessione temistiana sulle categorie) può rappresentare la fonte per la dottrina del Liber intorno a qualità e azione, l’analogia più interessante presentata dalla trattazione di questa problematica nel De sex principiis è quella con un’opera coeva al Liber stesso136: il Compendium logicae porretanae137. Anche nel Compendium, infatti, è presente una dottrina sulle forme e sulla loro origine analoga a quella sviluppata dal Liber all’interno della trattazione sul rapporto tra azione (facere) e qualità. Il Compendium elabora una dottrina intorno alla gerarchia delle diverse formae in base alla loro universalità: le formae più universali portano all’essere quelle più particolari. Di tale dottrina l’autore del Compendium fornisce una esemplificazione prendendo le mosse dalle categorie aristoteliche; in questo modo la condizione di ciò che possiede una qualità (qualis) deriva dalla qualità, il possedere una quantità dalla quantità, l’essere in relazione dalla relazione e via dicendo. Ogni condizione concreta e ogni proprietà determinata e singola, secondo il lessico del Compendium, derivano da una proprietà universale e generale: se l’essere uomo di Socrate deriva dalla presenza in lui dell’humanitas, il possedere una certa qualità deriva dalla presenza della qualitas (cosicché se si è “qualificati” questo deriva dalla forma della qualitas, la quale si articola in vari gradi di decrescente

universalità: l’essere qualificato, l’essere ad esempio colorato, l’essere di color rosso e l’essere di quel coloro rosso che inerisce a quella particolare res)138. La natura del problema trattato (la relazione tra forme universali e loro espressioni particolari) e la stessa strutturazione del periodo latino sono pressoché identiche alle riflessioni elaborate nel secondo capitolo del Liber139. Il De sex principiis, tuttavia, sviluppa su questo punto una dottrina che appare come il rovesciamento di quella del Compendium stesso: se questo affermava che il particolare deriva dall’universale, il Liber asserisce invece che ogni determinazione concreta è la causa della categoria universale nella quale essa può essere inserita. Il concreto calore di una realtà produce la caliditas e, quindi, la qualità in generale e non l’opposto (la qualitas il singolo qualis). Tale impostazione logica, d’altronde, pare confermata da quanto il Liber dice subito dopo relativamente ai processi di generazione e corruzione. Il Liber, infatti, distingue la corruzione delle realtà concrete (individua) e delle forme che di esse vengono predicate (de ipsis predicata sunt); parlando di quest’ultime il Liber afferma che esse derivano dalle medesime realtà individuali (le quali non possono essere predicate di nulla). L’esempio proposto per illustrare tale dottrina è quello degli uomini concreti e dell’homo comunis et universalis, dell’idea universale di uomo che da essi deriva. L’impostazione del Liber appare, quindi, quella di una riconduzione dei concetti universali alla realtà concreta, con un preciso rovesciamento della posizione esposta nel Compendium logicae porretanae.

4.1.4 La positio e il problema dei qualia circa positiones Nel sesto capitolo, dedicato all’indagine sulla categoria della positio, il Liber sottolinea come si debbano distinguere positiones propriamente dette, quali sessio e statio, da altre che invece derivano da quest’ultime per via di denominazione (sedere, stare etc.); nella prima tipologia di positio l’autore del De sex principiis inserisce anche alcune qualità che sono prodotte dalla reciproca disposizione delle parti (ad esempio la ruvidezza di un corpo che viene spiegata come una disomogeneità nell’altezza delle parti che compongono il corpo stesso). Questa dottrina è analoga a quella che Aristotele sviluppa nelle sue Categorie. Nelle Categorie, infatti, Aristotele afferma che dalle diverse posizioni (positiones) si possono ricavare per via di denominazione altre determinazioni che non sono propriamente positiones: lo stare si produce denominativamente dalla statio, il giacere dall’accubitus. Quest’ultime devono essere riferite alla categoria della relazione e producono nelle res, come già osservato, determinati attributi, come lo spessore e la levigatezza; tali qualità, infatti, sono il risultato di una disposizione reciproca delle parti di cui un corpo è composto140. Tale dottrina è ripresa da Boezio il quale introduce alcune riflessioni inedite non presenti nello scritto dello Stagirita141. Il filosofo latino, nel commento alle Categorie, afferma innanzitutto che la positio è relativa allo stare di una certa realtà, alla sua collocatio; sono forme di positio, quindi, lo stare in piedi, lo stare seduto, l’essere disteso etc.142. Boezio sottolinea poi, in continuità con la dottrina aristotelica, come la posizione debba essere ricondotta alla categoria di relazione (ad aliquid)143. Boezio precisa anche che le determinazioni derivate per via di denominazione dalle positiones vere e proprie, lo

stare dalla statio e il sedere dalla sessio ad esempio, non possono essere considerati forme di relazione al pari delle positiones autentiche. Il dotto latino, infatti, osserva che per le regole della logica ciò che può essere predicato di un termine non può venire affermato anche di quanto deriva dal termine stesso per via di denominazione; ogni determinazione che si produce denominative da una positio non appartiene alla categoria della relazione ma a quella del situs144. Boezio osserva poi che la diversa posizione reciproca delle parti produce differenti stati qualitativi (l’uguale posizione delle differenti parti della res tra di loro è causa della lenitas, ovvero della levigatezza della res stessa) e che, come afferma anche Aristotele, tali stati devono essere considerati non qualità ma positiones; Boezio, tuttavia, aggiunge anche che le qualità prodotte dalle positiones delle parti della res, proprio in quanto dicuntur secundum positionem, devono essere inserite nel genere del ad aliquid145. 4.1.5 Il Liber e le opere aristoteliche All’interno del complesso contenuto del Liber sono chiaramente presenti, come visto, alcuni elementi derivati dalla riflessione logica aristotelica quali le dottrine elaborate nelle Categoriae oppure la teoria cognitiva sulla relazione tra termini verbali e passiones dell’anima esposta del De interpretatione. In alcuni punti del Liber, tuttavia, sono presenti riferimenti, espliciti e impliciti, ad altre opere dello Stagirita non appartenenti al corpus di testi dell’Organon. Lo studio di tali richiami può contribuire alla comprensione della dottrina del Liber stesso e a precisare la collocazione cronologica dell’opera. Fra i riferimenti espliciti a opere aristoteliche non logiche fatti dall’autore del De sex principiis il più evidente e chiaro è quello al De generatione et corruptio-

ne146. Il terzo capitolo del Liber, infatti, termina con un riferimento allo scritto sulla generazione dello Stagirita nel quale, a detta dell’autore dell’opuscolo, si possono trovare ulteriori indicazioni sul tema della passione. A tale richiamo al De generatione si deve aggiungere, inoltre, fra i testi esplicitamente citati dall’autore del De sex principiis, anche la Metafisica147. Appare, infatti, convincente la ricostruzione filologica di Lorenzo MinioPaluello il quale dimostra come il rimando ad un testo qui de Analeticis est, letto nelle precedenti edizioni critiche del Liber, non sia supportato dai codici più antichi in cui il testo del De sex principiis viene tramandato; d’altra parte l’identificazione tra i principia ai quali fa riferimento il titolo del Liber e i principia degli Analitici secondi (i Primi Analitici non utilizzano questa espressione) appare impropria in quanto i principia del Liber sono le categorie (e in questo modo i predicamenti vengono chiamati nell’Isagoge di Porfirio), mentre quelli degli Analitici secondi sono “proposizioni immediatamente note”148. Entrambe queste citazioni, quella del De generatione e quella della Metafisica, tuttavia, possono non rappresentare testimonianza di una conoscenza diretta da parte dell’autore del De sex principiis delle opere aristoteliche alle quali si fa riferimento; il richiamo ai due scritti dello Stagirita, infatti, può essere spiegato, così come fa Lorenzo Minio-Paluello, attraverso un passaggio del commento boeziano alle Categorie. Lorenzo Minio-Paluello sottolinea come i luoghi testuali del Liber nei quali vengono richiamati il De generatione e la Metafisica sono strutturati in maniera stilisticamente analoga ad un passo boeziano nel quale il filosofo latino fa riferimento alle due opere aristoteliche come luoghi dove poter integrare le scarse indicazioni che lo Stagirita fornisce su alcuni predicamenti nelle Categorie (Lorenzo Minio-

Paluello mette in rilievo la presenza sia nel testo di Boezio che nel Liber delle medesime espressioni disposte secondo lo stesso ordine)149. Nel Liber sex principiorum, tuttavia, si possono trovare per lo meno altri due riferimenti impliciti ad alcune dottrine aristoteliche. Nella trattazione della categoria dell’azione, infatti, il Liber si richiama al principio secondo il quale i contrari appartengono al medesimo genere. Tale dottrina (con i suoi corollari come quello per cui la scienza quale potenza razionale è potenza dei contrari e, quindi, la medicina conosce sia la salute che la malattia), è presente nella Metafisica aristotelica150 (dove si trova anche una definizione dei contrari)151 e nella Fisica (dove si parla, invece, del fatto che i contrari hanno una medesima causa)152. Anche in questo caso, tuttavia, la presenza di questa dottrina all’interno del De sex principiis non può costituire una prova sicura della conoscenza da parte dell’autore del Liber di queste opere aristoteliche. Riferimenti a tali teorie, infatti, possono essere ritrovati sia nelle Categoriae decem sia nella Logica ingredientibus di Abelardo. Trattando della categoria del facere et pati, la parafrasi temistiana osserva che il rapporto tra agire e patire non può che svilupparsi tra contrari che possiedono qualità differenti (se qualcosa per l’azione di una certa realtà diviene dolce ciò significa che prima non possedeva tale attributo, il quale sopraggiunge a qualificare in modo nuovo la res in questione come una dulcedo aliena); tuttavia i contrari, il passaggio tra i quali costituisce il fulcro della relazione di azione e “passione” tra realtà differenti, devono essere in qualche misura simili e in particolare devono appartenere allo stesso genere pur distinguendosi per la qualità153.

Nella Logica ingredientibus Abelardo si richiama alla stessa regola logica formulata nel Liber (l’appartenenza dei contrari al medesimo genere); ciò avviene tra l’altro quando Abelardo tratta di problematiche molto simili a quelle in relazione alle quali lo stesso Liber introduce la dottrina in questione154. Un secondo riferimento implicito a scritti aristotelici si può trovare, infine, nel capitolo dedicato alla categoria dell’ubi. Qui l’autore del De sex principiis inserisce, verso la conclusione della sua trattazione, una riflessione sulle aporie che nascono intorno al tema dell’estremità della sfera celeste e del luogo in cui essa si trova; il limite ultimo dell’universo non può essere in un luogo ma agisce come luogo per ogni altra cosa. Questa dottrina viene chiaramente sviluppata nella Fisica aristotelica. Nel libro D della Fisica, Aristotele, sviluppando la sua riflessione sulla nozione di luogo, nota come non ci sia nessuna cosa al di fuori del tutto e come il cielo debba essere considerato totalità delle cose che sono; l’estremità del cielo, continua lo Stagirita, è il luogo di ogni altra cosa ma esso stesso non è in nessun altro luogo155. Questa dottrina discende come conseguenza dalla definizione di luogo data poco prima da Aristotele nel medesimo libro della Fisica; se il luogo è “il limite del corpo contenente in quanto esso è contiguo al contenuto”156 la totalità delle cose esistenti (l’universo) non potrà essere in un luogo, in quanto non esiste al di fuori di tale totalità nessun corpo che possa contenere la materia universale. Sebbene la prossimità tra il testo aristotelico e quello del Liber possa apparire in certi punti significativa (nonostante la grammatica particolarmente oscura del passaggio in questione) anche in questo caso tale dottrina si può trovare riassunta in un passo di un’opera abelardiana, ovvero la Dialectica157.

La presenza all’interno del Liber di riferimenti ad alcune opere non appartenenti al corpus logico aristotelico, quindi, non sembra suggerire una conoscenza diretta di tali scritti da parte dell’autore del De sex principiis; in questo modo viene anche meno la possibilità di avanzare ipotesi sulla cronologia della composizione del Liber stesso a partire dal riferimento al suo interno a testi aristotelici la cui riscoperta nel mondo latino medievale è stata frutto di un articolato processo iniziato proprio tra XI e XII secolo. I rimandi nel De sex principiis a scritti come la Fisica e il De generatione permettono, invece, di ricavare indicazioni su alcune delle fonti alle quali l’autore del Liber si è rifatto nella stesura di questo opuscolo; tra di esse oltre alla tradizione aristotelica e alla mediazione boeziana (alla quale rimandano le citazioni al De generatione e alla Metafisica) compare il contributo delle opere abelardiane che riprendono, rielaborandoli in modo originale, importanti elementi dottrinali provenienti dal corpus aristotelico. 4.2 Il Liber e Boezio L’influenza che Boezio esercitò sul Liber non è di facile definizione; l’opera boeziana maggiormente importante per l’anonimo scritto sulle sei categorie, infatti, è il commento alle Categorie dello Stagirita ed in essa la dottrina del filosofo latino appare unita e sovrapposta a quella aristotelica. È, tuttavia, possibile individuare alcuni casi in cui le originali riflessioni boeziane sono riprese e utilizzate dall’autore del Liber. 4.2.1 La compositio Una prima dottrina presente nel De sex principiis che appare riconducibile a Boezio è quella introdotta dall’e-

spressione compositio, alla quale il Liber lega la sua teoria della forma158. In Boezio, infatti, al termine compositus viene dato in alcuni casi il valore di “sostanza composta di materia e forma”, ovvero il medesimo significato con cui l’espressione è utilizzata nel Liber159. Boezio, infatti, commentando la distinzione tra sostanze prime e seconde che trova nelle Categorie pone anche la questione sul perché Dio e l’anima non possano essere definiti prime sostanze pur essendo sostanze intelligibili. Boezio risponde che il trattato aristotelico si occupa dei nomi e che essi nascono dalla relazione con le realtà sensibili. Sviluppando questa riflessione Boezio elabora una distinzione tra tre tipologie di sostanze: la materia, le specie e ciò che si produce a partire da entrambe come una composita et compacta substantia. La realtà che deriva da tale fusione ha anch’essa, quindi, una natura sostanziale ma a differenza dei suoi componenti primi, la materia e la forma che sono semplici e agiscono come parti, essa è composta. Tale accezione del termine compare anche in altri luoghi del commentario boeziano, ad esempio all’interno della trattazione sulla natura della differenza; Boezio definisce la differenza come qualcosa di mediano tra la semplice qualità e la sostanza e parla delle parti di una sostanza composita chiarendo che sono anch’esse sostanza160. La dottrina che Boezio in questo modo sviluppa ha un tono aristotelico (con il riferimento alla sostanza come unione di materia e forma), ma l’utilizzo del termine compositus e compositio è pressoché assente nelle Categorie aristoteliche e nelle Categoriae decem. L’accezione di compositio che compare nel Liber sembra molto vicina a quella proposta nel commentario boeziano. La forma si unisce alla compositio, al composto di

materia e species, contribuendo così a definire la realtà sostanziale prodotto delle partes semplici; la forma di cui parla l’autore del De sex principiis può, allora, essere considerata come una determinazione accidentale la quale inerisce ad un composto già pienamente costituito (come sarebbe confermato dall’esempio utilizzato nel Liber in quelle righe, ovvero quello dell’albus, nonché dalla distinzione introdotta successivamente tra una forma semplice e il substantiale)161. 4.2.2 Discorso apofantico e precisazioni metodologiche Altra traccia di un retaggio boeziano nel Liber è il passo nel quale l’autore riprende la dottrina aristotelica sull’apofasi. Nel suo commentario all’opera dello Stagirita, infatti, Boezio riproduce la distinzione aristotelica tra espressioni apofantiche e non apofantiche, ovvero espressioni coordinate in un discorso che può essere vero o falso (secundum complexionem) e quelle che risultano essere solo termini significativo-semantici (uomo, bue, vince, corre)162. All’interno di questa analisi Boezio sottolinea come la riflessione dello Stagirita sulle categorie non ruoti intorno alle res, alle cose concrete, ma alle affirmationes e ai sermones, cioè ai termini linguistico-concettuali che rimandano alle cose stesse e a esse sono connessi. Aristotele, osserva infatti Boezio, dice che il termine singolo (singulum) significat o la sostanza o la quantità etc; il fatto che si parli di significare, sottolinea Boezio, indica come non si tratti di realtà concrete poiché queste sono significate e non significano. Ciononostante, conclude Boezio, res semper cum propria significatione coniunctae sunt, et quidquid in res uenit, hoc quidem in rerum uocabulis inuenitur: parole e realtà sono legate da uno stretto rapporto e l’ordine delle prime rispecchia la struttura ontologica delle

seconde, sicché il linguaggio è un’efficace specchio del mondo. In modo conforme a tale osservazione boeziana, frutto di un preciso progetto filosofico e metodologico di distinzione tra sfera logico-semantica e sfera ontologico-metafisica, anche il Liber parla, introducendo la dottrina aristotelica, della differenza tra elementi apofantici e non apofantici e di notatio; in questo contesto il De sex principiis precisa che il termine singulum, libero dalla congiunzione (complexio) con altre parti del discorso, deve essere considerato in voce. In questo modo l’autore del Liber sottolinea la necessità di tenere separate sfera ontologica e sfera logica, indicando la natura della realtà non apofantica nel suo essere in voce e non in re. L’importanza della riflessione boeziana come fonte di tale dottrina nel Liber è sottolineata anche dall’impiego della medesima locuzione (in voce) da parte di altri pensatori tra XI e XII secolo. Everardo di Ypres, infatti, nel suo Dialogus Ratii et Everardi163 si serve di tale formula, mentre nel Liber de diuinis officiis Ruperto di Deutz164 utilizza l’espressione in voce per indicare il segno delle passioni dell'anima e quindi, secondo la dottrina aristotelica del De interpretatione, i segni verbali (scritti e orali) contrapposti all'universalità delle intellezioni che derivano dalla conoscenza degli oggetti. L’accezione con cui l’espressione compare impiegata in entrambi questi autori, tuttavia, appare almeno in parte differente da quella presente nel Liber, nettamente vicina invece alla tradizione boeziana alla quale anche Abelardo si collegherà165. 4.3 Il Liber e le Categoriae decem La parafrasi temistiana, erroneamente attribuita forse a partire da Alcuino ad Agostino di Ippona, ha costituito, come visto, un punto di riferimento fondamentale per lo studio della logica nel mondo alto medievale

prima dell’affermarsi dei testi boeziani. Il Liber conserva ancora alcune tracce di quest’opera, sebbene nell’anonimo opuscolo sulle sei categorie minori l’influenza della tradizione aristotelica sia già considerevole. 4.3.1 Categorie intrinseche ed estrinseche Uno degli elementi che congiungono in maniera più chiara il Liber con la dottrina delle Categoriae decem è la distinzione tra categorie intrinseche ed estrinseche. Menzioni ad un’articolazione dei diversi predicamenti secondo lo schema elaborata anche dal Liber, in realtà, sono presenti in altre opere oltre alle Categoriae decem, ma si tratta di indicazioni non sistematiche e, soprattutto, riconducibili in alcuni casi alla stessa parafrasi temistiana166. Boezio, illustrando nel suo commento alle Categorie aristoteliche il predicamento dell’habere, sottolinea come questo sia qualcosa di extrinsecus veniens, in quanto non è elemento innato a ciò che ha né crea un’autentica unità tra colui che ha e la cosa posseduta (aliud quam est illud ipsum; neque aliquo cum eo)167; Boezio, d’altronde, afferma che, poiché Aristotele si sofferma poco su questo punto, anch’egli non lo tratterà più a lungo. Anche nel De Trinitate, d’altra parte, la differenza tra le varie categorie è definita da Boezio in termini di prossimità o distanza dalla cosa in se stessa; alcuni predicamenti sono in grado di descrivere la realtà alla quale fanno riferimento (quasi rem monstrant), mentre altri forniscono indicazioni solo sulle circumstantiae rei168. Anche Isidoro nelle sue Etymologiae analizza le dieci categorie aristoteliche, in parte riprendendo le indicazioni delle Institutiones di Cassiodoro e in parte introducendo alcuni elementi inediti proprio in relazione ad una tassomizzazione dei predicamenti stessi169; il vesco-

vo di Siviglia, infatti, propone una distinzione dei vari predicamenti a seconda della loro relazione rispetto alla sostanza. Nelle Etymologiae vengono così individuate delle categorie intra usian che appaiono avere una stretta relazione con la sostanza: quantitas, qualitas e situs. Isidoro parla poi di predicamenti al di fuori dell’usia, ovvero locus, tempus e habitus, e infine di categorie intra et extra usian, identificabili con la relatio, il facere e il pati170. La trattazione delle Categoriae decem sul problema dei predicamenti intrinseci ed estrinseci, maggiormente sistematica e articolata, viene sviluppata in conclusione dell’analisi sulla sostanza. In questa occasione l’autore della parafrasi temistiana distingue tra diverse categorie a seconda che queste siano interne alla sostanza stessa (in usia), al di fuori di essa (extra usian), oppure sia all’interno che all’esterno della sostanza medesima (et intra et extra)171. Tale distinzione, quindi, raggruppa i predicamenti a seconda che essi siano strettamente connessi con la sostanza-usia oppure del tutto accessori per la definizione della realtà sostanziale. La qualità, la quantità e la posizione vengono giudicati inseparabili dall’usia, cosicché questa si può dare solo facendo riferimento a tali elementi. Il quando, l’avere e il dove, invece, dicono le Categoriae decem, sono determinazioni estrinseche rispetto alla sostanza. Il fare, il patire e la relazione, infine, vengono definite come communia e devono essere considerate sia intra sia extra usian172. La parafrasi temistiana, tuttavia, non spiega perché relazione, fare e patire debbano essere considerate categorie almeno in parte intra usian, limitandosi a sottolineare il carattere relazionale di tali predicamenti e a fondare in questo modo la loro “duplice” natura (“interna” ed “esterna” rispetto alla sostanza).

Queste considerazioni sul rapporto tra categorie e sostanza vengono riprese pressoché integralmente nel De Dialectica di Alcuino che si rifà in modo sistematico alle Categoriae decem 173. La distinzione proposta dal Liber tra categorie subsistentes, contingentes e que existenti contingunt singulum aut extrinsecus advenit aut intra substantiam…consideratur riproduce, nella tripartizione della tassonomia proposta, abbastanza fedelmente la dottrina delle Categoriae decem. Differente è, invece, la scelta concreta di quali categorie inserire nelle diverse tipologie predicamentali. Il Liber, sebbene in modo implicito, sembra indicare come categorie sussistenti (ovvero intra usian secondo il lessico delle Categoriae decem) e contingentes intra substantiam (intra et extra usian) la sostanza, la qualità, la quantità e la relazione; l’azione, la passione, la posizione, il dove, il quando e l’avere sono considerate contingentes ed extrinsecae174. Le Categoriae decem, invece, definiscono la qualità, la quantità e la posizione come interne alla sostanza (sussistenti nel lessico del Liber); il quando, l’avere e il dove, invece sono fuori della sostanza (contingenti ed estrinseche nel Liber); il fare, il patire e la relazione, infine, sono intrinseche ed estrinseche rispetto alla sostanza (contingentes e intra substantiam). L’unico punto di contatto tra il Liber e la parafrasi temistiana è, in questo caso, oltre alla canonica affermazione del carattere sostanziale della seconda e terza categoria (quantità e qualità), la collocazione della relazione tra le categorie che hanno un rapporto particolare con la sostanza senza, tuttavia, risultare inseparabili dalla definizione dell’essere della realtà. Si deve notare, inoltre, come la distinzione tra le diverse categorie in relazione al loro grado di prossimità alla sostanza della realtà costituisca un elemento dottri-

nale presente in diverse altre opere coeve al Liber dove viene discusso soprattutto per la sua importanza in relazione alle problematiche teologiche. Clarembaldo di Arras, nota ad esempio Osmund Lewry nel suo studio sul Liber, riprende la tassonomizzazione dei predicamenti presente nelle Categoriae decem e in Boezio, attribuendo alla relazione una natura in parte intrinseca175. Gilberto Porreta, invece, afferma che categorie come il dove, il quando, il tempo etc. sono nomi non delle cose che sono predicate ma delle cose delle quali sono predicate e che, quindi, il luogo non potrà mai essere in un luogo, il tempo nel tempo e via dicendo176. Porreta aggiunge poi, in un altro punto del suo commentario al De Trinitate, che si devono considerare le ultime sei categorie come predicamenta extrinsecus affixa177. La categoria di relazione, tuttavia, ha in Gilberto una natura ambigua: viene definita estrinseca, ma ad essa è conferita una particolare rilevanza per la riflessione teologica178. Una dottrina analoga è presente nel commento ad De Trinitate di Teodorico di Chartres179. Teodorico riflettendo, ancora a partire dalle indicazioni contenute nel quarto capitolo del primo libro del testo boeziano, sul problema della relazione tra persone della Trinità, sottolinea come la categoria di relazione non possa produrre nessuna differenza né vera alterità in quanto non è predicabile secundum se, ma sempre aliquo accedente, ovvero non in senso assoluto ma in ragione della presenza di qualcosa d’altro180. L’esempio portato da Teodorico è quello della destra e della sinistra; una medesima realtà, restando la stessa senza nessuna alterazione, può essere detta “a sinistra” oppure “a destra” rispetto ad un oggetto a seconda di quale luogo essa occupi in riferimento all’oggetto in questione181. Il tema della natura delle categorie e, in parti-

colar modo, del predicamento della relazione (nella sua rilevanza per l’indagine teologica) era destinato a svilupparsi ulteriormente, come dimostra ad esempio la riflessione sullo statuto delle diverse predicazioni riferite a Dio in Alano di Lilla182. Abelardo, d’altra parte, sottolineerà il carattere estrinseco (extrinsecus) di ogni predicato fondato sulla relazione come quello dell’essere padre o dell’essere figlio. Abelardo mette in rilievo in questo contesto anche come gli accidenti rappresentino determinazioni estrinseche che, in quanto tali, non hanno nessuna rilevanza nella definizione della sostanza183. Ancora nel Compendium logicae porretanae è rinvenibile una classificazione, per quanto non molto precisa e dettagliata, delle categorie a seconda della prossimità o meno rispetto alla sostanza. Riprendendo la distinzione boeziana tra subesse, inesse e adesse, l’autore del Compendium afferma che la sostanza è l’unica a poter sussistere, ovvero a poter agire come sostrato per gli accidenti (sub-esse). Alcune forme, aggiunge il Compendium, sono presenti nella res come elementi sostanziali: si tratta della qualità, della quantità e forse anche dell’azione, della passione e di alcuni habitus naturali. Vi sono, infine, alcune determinazioni che si aggiungono alla res dall’esterno senza modificare il subiectus, come ad esempio la relazione (adesse, determinazioni accidentali). La dottrina sviluppata in tale passaggio ricorda quella presente nel Liber, per quanto il Compendium non metta esplicitamente a tema la problematica delle categorie estrinseche ed intrinseche e non offra una trattazione completa di quali categorie insunt e quali adsunt al soggetto. La differenza più rimarchevole tra la tassonomia esposta nel Compendium e quella presente nel Liber consiste nel trattamento del predicamento della relazione: questo è implicitamente annoverato tra le categorie intrinseche

nel Liber, mentre l’autore del Compendium la considera accidentale. Nel Dialogus Ratii et Everardi, infine, è presente una riflessione sulle possibili tassonomie delle categorie184. Viene introdotta, infatti, nel contesto di una riflessione teologica una distinzione tra le prime tre categorie (sostanza, quantità e qualità) e le altre sette (dove, quando, relazione etc.): i primi tre predicamenti permettono un tipo di praedicatio nella quale si dà perfetta inerentia tra soggetto e predicato, mentre per le restanti categorie la praedicatio, pur essendo fondata sulla forma delle cose predicate, riguarda solo elementi “esterni” e non permette, pertanto, di definire nessuna vera inerentia tra i termini della predicazione stessa. Il quando, l’ubi e la relazione fanno parte di questo secondo gruppo di categorie (a differenza del Liber che considera la relazione come subsistens). Il Liber, quindi, manifesta su questo punto una profonda vicinanza alle Categoriae decem senza, tuttavia, riprendere semplicemente la tassonomia tra le diverse categorie proposta dalla parafrasi temistiana; la scelta di inserire la relazione, sebbene in maniera implicita, tra le categoria intrinseche alla sostanza rivela poi un orizzonte filosofico alquanto particolare e complesso che, nonostante le differenze, può avvicinare il Liber a Porreta. D’altra parte un’ulteriore prova dell’importanza per il Liber della tassonomia dei predicamenti proposta dalle Categoriae decem è la ripresa della dottrina temistiana nella conclusione del capitolo del Liber sulla positio. Il Liber sex principiorum, infatti, nella conclusione del capitolo dedicato alla posizione sottolinea il valore ontologico di questo predicamento, affermando che esso è il più prossimo alla sostanza fra tutte le categorie superpositae185; il riconoscimento di tale stretta relazione tra

sostanza e positio sembra riprendere con una certa chiarezza le osservazioni temistiane e isidoriane sulla natura intrinseca del situs. 4.4 Gilberto Porreta, la scuola porretana e il Liber Gilberto Porreta era stato identificato, già in epoca medievale, con l’autore del Liber sex principiorum, secondo una tradizione che è stata trasmessa nei secoli sino a imporsi nelle prime edizioni a stampa del Liber, sebbene siano sempre mancate precise prove documentali a sostegno di tale ipotesi di paternità. Alcune dottrine del Liber, tuttavia, sembrano poter essere collocate all’interno dell’orizzonte speculativo di Porreta e di quella che viene considerata la scuola porretana. L’analisi di certi passaggi del De sex principiis alla luce delle teorie porretane permetterà, quindi, di comprendere meglio il contenuto del Liber e di definire in quale grado esso sia legato alla tradizione porretana stessa. 4.4.1 La dottrina della creazione degli individui Nel secondo capitolo del Liber viene introdotta quella che appare essere una peculiare e oscura dottrina sulla creazione delle realtà concrete e sulla loro relazione con i termini universali: l’autore del De sex principiis sembra affermare in quel passaggio che gli enti determinati sono il prodotto di una sorta di unione di elementi singolari186. Tale dottrina, la cui ricostruzione è resa difficile dall’ambiguità del testo latino e dal carattere ellittico del discorso, presenta alcune analogie con la dottrina della creazione sviluppata da Gilberto Porreta. In Porreta, infatti, la creazione delle singole realtà viene descritta come una compositio, ovvero quale unità che si produce dalla reciproca fusione di diversi elemen-

ti speciali e sussistenze (subsistentiae); tali sussistenze a loro volta hanno al loro interno qualità e mensura che contribuiscono a rendere la realtà in questione (ad esempio l’uomo) un aliquid determinato187. La compositio, quindi, è identificabile con il processo che porta all’essere lo stesso sussistente (il subsistens) quale realtà concreta (id quod est) prodotta dalle diverse sussistenze e dalle relative forme188. Porreta distingue a questo proposito tra una composizione dovuta alla presenza di molteplici sussistenti (l’uomo infatti è fatto di carne e di ossa, di corpo e di spirito, è colorato, può ridere etc.) e una composizione determinata dalle molteplici sussistenze che compongono una stessa sussistenza (lo spiritus umano ad esempio è il prodotto di diverse forme che si intrecciano per portarlo all’essere)189. In questo modo Porreta distingue tra compositio, coniunctio e commixtio: la coniunctio di due sussistenze è una compositio, ovvero un’unione senza confusione tra componenti primi190, mentre la commixtio deve essere identificata con un’unione che crea una vera e propria perdita dei caratteri propri degli elementi coinvolti nell’unione stessa191. Il rapporto che sussiste tra queste tre categorie di fenomeni (compositio, coniunctio e commixtio) sembra essere quello tra genere e specie, ciascuna ordinata secondo una sempre maggiore fusione degli elementi coinvolti nel processo di unione reciproca: il termine più generale sembra essere la coniunctio, poi viene la compositio e infine la commixtio192. La categoria di constitutio, legata nel Liber a quella di coniunctio, compare solamente in due luoghi all’interno dei commenti porretani a Boezio nella forma aggettivale constitutivus (riferito in genere a pars); in entrambi i casi una realtà concreta appare “costituita” dalle sue formae, così come l’anima è parte costitutiva dell’uomo193.

Il tema della composizione in Porreta, tuttavia, può essere compreso a pieno solo se analizzato sullo sfondo della dottrina dell’universale e di quella della creazione delle realtà concrete. Porreta, infatti, distingue l’esse della realtà e il suo id quod est, ovvero la realtà nella sua concretezza. Tale dicotomia rimanda a quella tra la subsistentia e il subsistens: la prima può essere identificata con l’esse della realtà, chiamato da Porreta anche id quo est, mentre il secondo termine rappresenta la realtà determinata. La relazione che sussiste tra l’esse e l’id quod est, ovvero tra subsistentia e subsistens, può essere paragonata a quella di causa ed effetto: molteplici subsistentiae possono produrre un subsistens. Il subsistens, infatti, quale res concreta, è una realtà individuale che possiede una propria unità e che, quindi, risulta differente dall’altro da sé; il suo esistere determinato è prodotto dalle diverse subsistentiae che si fondono insieme. Le subsistentiae appaiono allora come la serie delle forme che costituiscono i principi ontologici e gli elementi di determinazione qualitativo-essenziale della realtà concreta; il singolo individuo nella sua unicità e specificità è il prodotto della sovrapposizione e dell’intreccio dei diversi elementi formali (subsistentiae). Tale unione delle diverse sussistenze a creare il sussistente è indicata da Porreta come similitudo substantialis che produce una unio (distinta dalla unitas); principio che rende possibile la similitudo e l’unio è la ratio conformitatis (distinguibile poi in “secondo natura” e “secondo un elemento estrinseco”194). Le subsistentiae che compongono una certa realtà (ad esempio Platone) non potranno mai, precisa poi Porreta, essere tutte perfettamente uguali a quelle che compongono una diversa realtà (ad esempio Socrate); in questo modo la stessa fusione delle subsistentiae (di per sé elementi comuni alle

diverse realtà concrete e tra loro identici in quanto principi formali universali) produce l’individualità della singola realtà concreta. Porreta, inoltre, articola le diverse subsistentiae in generali, speciali e differenziali a seconda che esse corrispondano a formae essendi identificabili con i generi, le specie o le differenze specifiche195; mediante l’unione di tali diverse subsistentiae la realtà giunge all’essere e si qualifica progressivamente divenendo un esse aliquid196. Questo complesso processo viene definito nella sua globalità da Porreta creatio197. La dottrina gilbertina sulla creatio sembra così avere delle analogie con quella proposta nel Liber198. Il Liber, infatti, parla di una creatio in termini di constitutio ex coniunctione e di unione di elementi singolari; la fusione di tali elementi produce una realtà che è superiore al semplice insieme degli elementi discreti i quali, a loro volta, possiedono, prima dell’unione, una superiore unità. Il senso generale del passo e alcuni dei termini utilizzati (creatio, constitutio e coniunctio), pertanto, sembrano rimandare all’orizzonte dottrinale porretano, sebbene altri elementi dottrinali appaiano ad esso estranei. Un efficace esempio di questa distanza dalla tradizione del Porreta dell’analisi sulla creatio nel Liber è il termine natura. Il termine “natura”, infatti, viene utilizzato in un’accezione tecnica peculiare in Gilberto Porreta, il quale impiega l’espressione sia come riferimento ad una subsistentia sia come riferimento alla totalità delle formae (le diverse subsistentiae e le determinazioni accidentali del quale e del quanto) che compongono il subsistens; tale accezione del termine, tuttavia, non sembra essere quella secondo cui l’espressione è impiegata nel Liber. La natura alla quale fa riferimento l’autore del De sex principiis, invece, pare rappresentare un principio generale

che presiede allo sviluppo ordinato delle realtà fisiche, secondo un’accezione meno specifica e meno compromessa con il lessico di una particolare tradizione filosofica. Che questo sia il significato di “natura” utilizzato dal Liber è confermato anche dal fatto che tale termine nell’opuscolo viene messo in relazione con il tema del numero: poiché il creatore organizza la natura attraverso il numero, la natura stessa appare come principio di una creatio fondata sull’ordine e su regole immutabili. La tradizione dottrinale alla quale una simile teoria può essere ricondotta è già presente nel terzo libro del De Trinitate agostiniano, dove il vescovo di Ippona parla di ciò che si trova nel segreto della natura e che da essa nasce e si mostra secondo il numero, il peso e la misura in quanto deriva ab illo qui omnia in mensura et numero et pondere disposuit, ovvero da Dio199. La fonte biblica alla quale lo stesso Agostino si richiama è, naturalmente, il Libro della Sapienza (cfr. Sap. 11, 21) che diverrà importante elemento scritturale dal valore programmatico nella riflessione “fisica” del XI e XII secolo. 4.4.2 La forma e la teoria del substantiale Il primo capitolo del Liber è dedicato in buona parte al tema della forma e alle dottrine ad essa collegate. L’autore del De sex principiis distingue, sebbene in modo per certi versi implicito, una forma accidentale (quale quella della bianchezza) da una forma sostanziale (indicata con il solo aggettivo neutro sostantivato: substantiale). La nozione di forma che emerge complessivamente dalla trattazione del Liber appare abbastanza peculiare e per certi versi, soprattutto nella dottrina del substantiale, sovrapponibile a quella elaborata nella tradizione porretana.

Si deve notare, innanzitutto, come l’impiego che il Liber fa del concetto di forma non possa essere ricondotto alle fonti logiche aristotelico-boeziane. L’autore del De sex principiis, infatti, identifica la forma con il termine al quale si riferisce la distinzione in subiecto e de subiecto. Aristotele parlava in questo caso unicamente di ciò che esiste, mentre Boezio nel suo commento faceva riferimento a determinazioni particolari (ciò che si dice in subiecto) e universali (quanto è detto de subiecto), precisando poi che determinazioni del primo tipo sono accidentes mentre le seconde risultano universales200. Il termine latino forma, d’altra parte, compare solamente due volte nel testo delle Categorie201: in entrambi i casi esso è utilizzato per indicare il quarto genere della qualità (dopo la qualità come habitus e affectio, ovvero la qualità in relazione con la potenza naturale, e la qualità come passione) assimilato alla figura (curva o retta, triangolare o quadrata) e, quindi, in un’accezione differente rispetto all’impiego del termine nel Liber. Boezio, d’altra parte, utilizza il termine “forma” prevalentemente nell’accezione in cui esso compare nelle Categorie aristoteliche; in particolare forma viene impiegato per indicare la figura geometrica di un corpo202. Boezio osserva che la figura può essere considerata una qualità e una forma; in particolare la figura deve essere identificata con lo stesso oggetto triangolare o quadrato, mentre la forma può essere fatta coincidere con la qualità della stessa realtà triangolare o quadrata. Boezio spiega anche che, benché il triangolo e il quadrato appartengano continuae quantitatis speciebus e, quindi, come tali siano superfici caratterizzate dalla quantità, la figura è una qualità perché dipende dalla compositio della stessa superficie (essa stessa una qualità). Echi di tale concezione della forma, d’altra parte,

sembrano potersi trovare anche in opere del XII secolo come le Fallaciae londinenses; il testo, infatti, distingue forme e figure: la seconda è una disposizione delle parti in una realtà inanimata, mentre la prima consiste in una disposizione delle parti in realtà animate203. Una simile concezione della forma si può, d’altra parte, ritrovare anche in Cassiodoro e in Isidoro. Nel suo De anima ad esempio, Cassiodoro204 afferma che l’anima non ha una forma in quanto la forma stessa è uno spazio delimitato da linee e, quindi, proprio unicamente di una realtà corporea. Tale nozione di forma ritorna anche nella Expositio psalmorum dello stesso Cassiodoro205; qui il fondatore di Vivarium definisce forma come figura geometrica; l’esempio portato per illustrare tale concezione è quello del circolo: il cerchio è quella figura piana circondata da una linea nella quale tutti i segmenti tirati dal punto centrale sono tra loro eguali (definizione che riprende anche elementi della dottrina del De anima). Analoga concezione della forma è quella presente in Isidoro di Siviglia206. La nozione di forma nel Liber (dove vale quasi come sinonimo per qualsiasi determinazione logico-semantica oggetto della riflessione dialettica e dell’analisi del linguaggio) evidenzia maggiori analogie con l’impiego che di tale concetto viene fatto nella parafrasi temistiana. Le Categoriae decem, dopo aver fornito una breve descrizione delle dieci categorie, identificano la più “alta” delle categorie stesse con la sostanza (indicata nel testo anche con l’espressione greca oujsiva), al di fuori della quale non si può né trovare né pensare alcunché207. Il termine forma viene così impiegato in riferimento sia alle sole specie (primo gradino nell’astrazione dal particolare) quali “uomo” o “cavallo”, sia ai generi dai quali le specie stesse derivano (anche in questo caso il testo

riporta la dizione greca di forma, ovvero ei\do"). I generi e le specie sono, infatti, forme (ei[dh) se paragonate all’usia, loro origine e genus sommo “oltre il quale” (supra quam) non esiste nulla208. Un’analoga concezione di forma viene proposta qualche pagina dopo dove l’autore della parafrasi traduce il termine species con forma, parlando poi della derivazione della specie dal genere e dalla differenza209. Nelle Categoriae decem, tuttavia, manca una chiara dottrina della forma e soprattutto non è presente una teoria della forma sostanziale. La definizione di forma che Porreta elabora nei suoi commenti agli opuscola boeziani, invece, identifica nella forma stessa l’origine dell’essere di ogni cosa; ogni realtà deve essere considerata esistente nella misura in cui partecipa ad una certa forma capace di legarsi alla materia210. La forma autentica e prima dalla quale deriva l’essere ad ogni cosa deve essere identificata in ultima analisi con Dio, pura forma senza materia alcuna211. Il termine essentia, invece, viene utilizzato da Porreta esclusivamente in riferimento alla natura divina, caratterizzata dalla semplicità e assenza di materia. Tale concezione della forma compare con una certa chiarezza anche in alcuni testi della tradizione porretana. Il Dialogus Ratii et Everardi di Everardo di Ypres afferma chiaramente che ogni sostanza deriva il proprio essere da una forma sostanziale (forma substantialis), identificabile con la specie e il genere, così come l’uomo esiste in ragione della sua umanità (humanitas), che è la sua specie, e della sua animalità che è il suo genere212. L’essere come sostanza, quindi, deriva dalla forma sostanziale che può essere specifica (come l’umanità) o generale (come l’animalità). Il medesimo principio ontologico può essere applicato ad ogni categoria; anche il colore bianco, aggiunge infatti Everardo, esiste nella

misura in cui produce un certo effetto che può essere particolare (il far diventare bianco) o generale (il far diventare colorato)213. La nozione di forma substantialis compare qualche pagina dopo in relazione con la distinzione, presente in diversi scritti della scuola porretana, tra substantia subiecta e substantia subiecti214. Con il primo termine (substantia subiecta) Everardo intende ciò che è sostanza e che non produce sostanza, ovvero ciò che agisce come sostrato per accidenti e attributi ma che non possiede in quanto tale la causa metafisica dell’essere; il secondo termine della distinzione (substantia subiecti), invece, rappresenta ciò che non è sostanza e che produce sostanza e, quindi, la determinazione dotata di potere ontologico (il principio formale) che non può agire come sostrato. Questa seconda categoria di sostanza quale substantia subiecti viene identificata da Everardo con la forma sostanziale. Un medesimo termine come “uomo”, quindi, rimanda sia alla substantia subiecta sia alla substantia subiecti: esso significa non solo la realtà concreta che da quella parola è denotata (l’uomo quale individuo al quale ineriscono gli accidenti), ma anche la forma specifica che inerisce alla realtà denotata e che la rende ciò che essa è. In questo modo la distinzione tra substantia subiecta e substantia subiecti sembra riprodurre quella tra sussistente e sussistenza, divenendo anche uno strumento per l’indagine teologica (la sussistenza come forma sostanziale rimanda all’usia ed essa rappresenta ciò che nella dinamica trinitaria può essere partecipata da tutte e tre le persone divine). La forma sostanziale è identificata così con il principio logico e ontologico insieme che porta all’essere una determinata realtà donandole la propria essenza. Molto significativa in questo senso è anche la defini-

zione di forma che lo stesso Everardo fornisce nel suo Dialogus215. Everardo riprende testualmente il Porreta del commento al De Trinitate e sottolinea come “forma” si possa dire in molti modi, ad esempio quale figura dei corpi o come ciò che si dà nella creazione o concrezione dei sussistenti. È necessario, tuttavia continua Everardo, che si dia un significato del termine che sia a tutti antecedente e capace di fondarli; tale significato di forma deve essere individuato nel termine essentia. L’essenza è ciò che precede tutte le cose create, ciò che dà a tutti l’essere senza prenderlo da nulla, ciò che è l’essere stesso in grado di farne partecipare ogni altra realtà. L’essere dei sussistenti (subsistentium esse) deriva dalla forma e se un sussistente è detto essere ciò accade per partecipazione alla forma. Dopo questa analisi Everardo aggiunge, riprendendo quanto affermato prima, che “uomo” è una forma sostanziale come animale e corpo. Indicazioni simili possono essere ricavate dal Compendium logicae porretanum. Il Compendium, infatti, propone una distinzione tra forme sostanziali e accidentali a partire dalla coppia, tipicamente gilbertina, di subsistens e subsistentia; questa distinzione rimanda, dice il testo, alla distinzione tra un subiectum, che è il subsistens, e una forma, identificabile con la subsistentia216. La subsistentia deve essere considerata il principio fondativo e la sorgente dell’essere in quanto essa conferisce l’essere al sussistente217. In questo modo una realtà individuale come Socrate possiede una forma personalis, che è ciò che lo fa essere Socrate (la sua “socraticità”), la forma substantialis, che coincide con la sua umanità detta anche essenza speciale, e poi altre sussistenze ancora più generali come l’essere animale, l’essere corpo o l’essere sostanza218. L’organizzazione gerarchica delle forme, dall’univer-

sale al particolare, è riaffermata poco dopo quando l’autore del Compendium dice che ogni forma nel momento in cui è presente nella realtà concreta diventa singula e produce il suo effetto: la qualità della bianchezza (albedo) è presente in Socrate come bianchezza singolare che produce l’essere bianco di Socrate219. Ciò comporta anche che solo la forma sia predicabile, in quanto dice qualcosa sul soggetto (declarativa subiecti), e che solo la forma singolare sia predicabile in quanto non si dice del soggetto una generica bianchezza ma questa bianchezza che gli appartiene e lo rende bianco220. Nel Compendium il tema della forma sostanziale compare ancora in un altro passaggio particolarmente significativo per il Liber221. Qui, trattando del tema dell’unione delle diverse forme nella creazione della realtà concreta, l’autore del Compendium parla della forma sostanziale indicandola, tuttavia, con un termine neutro, ovvero il substantiale. La ricostruzione della dottrina di una gerarchia di forme sovrapposte e combinate, alcune delle quali svolgono una funzione “portante” da un punto di vista logico-ontologico, contiene, quindi, testimonianza di un riferimento alla forma sostanziale al neutro, con una espressione sostantivata molto rara nei testi logici del XI e XII secolo ma presente nel Liber. A tale distinzione l’autore del Compendium aggiunge quella tra substantia subiecta e substantia subiecti, ovvero tra ciò che come sostanza può divenire sostrato per gli accidenti (quindi l’ente concreto) e ciò che rende il soggetto sostanza, ovvero la forma (quanto è predicabile); il Compendium chiarisce questa dicotomia, che comparirà anche nel De homoysion et homoeysion di Ugo di Honau222, riportandola a quella tra la sostanza della forma e la forma della sostanza (la concretezza della forma che diviene sostrato e ciò che nella sostanza porta

all’essere e conferisce consistenza alla sostanza stessa)223. Prendendo le mosse da queste dottrine l’autore del Compendium nota come i processi di mutazione, generazione e corruzione possano riguardare solo la substantia subiecta, ovvero quanto agisce come sostrato per le forme che ad esso ineriscono; la generazione e la corruzione si spiegano rispettivamente come il farsi presenti e lo scomparire delle forme sostanziali, mentre la mutazione è prodotta dall’assenza o presenza di forme accidentali224. La forma invece (forma substantiae) non può subire nessuna alterazione in quanto non può essere ricettacolo di un’altra forma; in questo caso, infatti, non sarebbe più forma capace di comunicare l’essere (subsistentia) ma realtà concreta (subsistens). Per tale ragione, conclude il Compendium, la sapienza è la conoscenza delle verità intorno alle sostanze immutabili, secondo il detto pitagorico-platonico che l’autore del Compendium stesso trova nel prologo al secondo libro del De aritmetica di Boezio. La dottrina gilbertina della forma come sussistenza e come essenza e la ripresa di tali concetti in alcuni scritti della scuola porretana, la quale impiega la nozione di forma sostanziale come principio ontologico che porta all’essere la realtà concreta, rivelano una certa prossimità con le dottrine del Liber. La tipologia di forma introdotta dalla nozione di substantiale, presente nel Compendium e nel Liber, svolge la funzione di causa dell’essere della realtà (tale forma, dice il Liber stesso, non può mai mancare in una res). D’altra parte gli esempi che vengono proposti dal Liber per illustrare tale dottrina risultano in parte sovrapponibili a quelli presenti in Porreta, nel Dialogus e nel Compendium: il Liber parla in questo caso di corpus, ratio e homo, mentre l’esempio del corpo si trova nel Dialogus e nel Compendium225.

Si deve notare a questo punto come le nozioni di forma substantialis e di substantiale siano presenti, oltre che negli scritti gilbertini e della scuola porretana, anche in altre tradizioni speculative del XI e XII secolo, e in particolare nelle opere di Pietro Abelardo226. Nella Introductiones parvolorum di Abelardo, in particolare, il termine substantialis sta ad indicare ciò che fa riferimento alla sostanza e che può definire l’essere di una realtà227. L’espressione substantialis è presente anche nella Dialectica abelardiana228. Qui Abelardo introduce il concetto di forma substantialis trattando della proprietà dell’essere animato che inerisce all’animale definendolo in modo essenziale. Analogo uso dell’espressione viene fatto qualche pagina dopo229, dove Abelardo afferma che alcune forme ineriscono al corpo in modo sostanziale e altre in modo accidentale. La forma della corporeitas è una forma sostanziale, in quanto ogni cosa che si possa dire “corpo” deve avere la corporeità, mentre può mancare di un’altra forma, come il colore (forma accidentale), senza che venga meno il suo stesso essere corporeo. La medesima espressione è anche nella Logica ingredientibus dove Abelardo parla dell’humanitas come specie ma anche come forma sostanziale230; Abelardo, tuttavia, sembra contestare l’idea che l’umanità derivi dall’unione e sovrapposizione di diversi elementi sostanziali (ex conventu substantialium), una dottrina che sembra potersi identificare con quella gilbertina sulla creatio. Un analogo utilizzo del termine, infine, è presente anche nella Logica nostrorum petitioni sociorum231. Sebbene tali analogie, già rilevate da Lorenzo MinioPaluello232, tra la dottrina della forma elaborata nel Liber e l’impiego del concetto di forma substantialis in Abelardo possano suggerire una fonte per la stessa teoria della forma nel De sex principiis alternativa alla tradizio-

ne porretana, si deve osservare come l’impiego di tale lessico nelle opere abelardiane sia meno sistematico di quello riscontrabile negli scritti di Porreta e della sua scuola e come la teoria della forma sostanziale abbia nell’economia del pensiero abelardiano un’importanza abbastanza limitata. 4.5 La scuola di Chartres e il Liber Le corrispondenze tra il Liber e la tradizione speculativa sviluppatasi a Chartres sono assai ridotte. Uno degli elementi dottrinali presenti nel De sex principiis che sembrano rimandare più chiaramente alla filosofia chartriana può essere individuato nel riferimento, che si riduce in realtà ad un semplice accenno, all’Anima mundi233. L’analisi di tale centrale dottrina “fisica” e dell’impiego che ne viene fatto nel Liber possono suggerire anche il rapporto tra il Liber stesso e altre scuole filosofiche dell’XI e XII secolo, in particolare quella abelardiana. 4.5.1 L’Anima mundi La teoria dell’anima del mondo costituisce uno dei temi caratteristici della riflessione chartriana la quale fa del Timeo di Platone un testo di primaria importanza, oggetto di studio e commento. Nelle glosse al Timeo preparate dai maestri di Chartres una parte del dialogo platonico (le righe tra 34b e 39e) erano tradizionalmente identificate come Tractatus de anima mundi (così in Guglielmo di Conches e in Bernardo di Chartres)234. In Bernardo di Chartres l’anima del mondo è definita come ciò che viene posto nel mezzo del mondo; medium, specifica Bernardo, non deve essere inteso come un riferimento alla posizione dell’anima tra il sole

e la terra (al centro del cosmo) ma come indicazione dell’omnipervasività dell’anima stessa. Tale anima ha quale sua funzione quella di donare movimento alle cose create (in modo analogo a ciò che fa l’anima individuale)235. Bernardo sottolinea anche come a differenza dell’anima del mondo quella umana nel suo stretto legame con la realtà corporea non sia pura e non possa utilizzare pienamente la propria razionalità, risultando condizionata dall’ira e dalla concupiscenza236. Le indicazioni di Bernardo sull’immutabilità e perfezione dell’anima universale possono ricordare la riflessione al cui interno l’Anima mundi è citata nel Liber, ovvero l’invariabilità della forma che si unisce al composto e il suo essere in questo diversa dall’anima umana soggetta al dolore e alla gioia; tali analogie, tuttavia, naturalmente non permettono di identificare in Bernardo la fonte del Liber su tale punto, in quanto i caratteri dell’incorruttibilità e dell’atarassia rappresentavano probabilmente elementi dottrinali presenti in ogni riflessione medievale su questo tema. Le riflessioni sull’Anima del mondo elaborate da altri autori della tradizione chartriana, d’altra parte, presentano punti di contatto con la citazione del Liber ancora meno significativi di quelli rinvenibili in Bernardo di Chartres237. Ulteriori indicazioni intorno alla possibile fonte dalla quale l’autore del De sex principiis trae il proprio riferimento al tema dell’Anima mundi, tuttavia, possono essere ricavate analizzando un aspetto della dottrina platonica particolarmente importante per i pensatori chartriani e i filosofi del XII secolo, ovvero l’identificazione della sostanza psichica universale con lo Spirito santo della relazione trinitaria. Tale identificazione, alla quale fanno riferimento, riprendendo un verso virgiliano (Eneide VI, 731), sia

Guglielmo di Conches sia Bernardo di Chartres238, rappresenta l’aspetto della teoria dell’anima universale più ampiamente discusso da Abelardo. Come nota John Marenbon, Abelardo in un primo momento attacca duramente l’identificazione in questione, sottolineando l’arbitrarietà di simili operazioni ermeneutiche (all’interno della Dialectica, all’interno di una trattazione della divisione secondo la forma, dopo avere citato l’anima del mondo come esempio di una specie che ha un solo individuo, così come accade per la Fenice, Abelardo critica la dottrina platonica e in particolare le pretese di coloro che cercano di interpretarla come una prefigurazione dello Spirito santo)239. Nei suoi scritti teologici come la Theologia summi boni e la Theologia christiana, Abelardo stesso svilupperà poi una diversa posizione a proposito dell’Anima mundi; egli, infatti, accetterà la dottrina dell’anima universale come integumentum sotto il quale si cela lo Spirito Santo e ne farà un importante elemento della propria riflessione teologica. Marenbon ipotizza che la fonte dalla quale Abelardo riprende tale dottrina sia la stessa alla quale probabilmente si richiamavano anche Guglielmo e Bernardo, ovvero un passo macrobiano dal commento al Somnium Scipionis240. La brevità del riferimento nel Liber all’anima mundi rende difficile identificare precise analogie dottrinali tra il Liber stesso e quei pensatori medievali dell’XI e XII secolo che a tale tema hanno dedicato alcune riflessioni; in particolare non si può dire se l’autore del De sex principiis avesse trovato tale dottrina nelle opere abelardiane o in quelle chartriane. Risulta, tuttavia, abbastanza interessante che una simile tematica venga trattata, per quanto in modo poco articolato, proprio nelle opere abelardiane con le quali il Liber mostrerà di possedere analogie molto significative.

4.6 Abelardo e il Liber La prossimità tra alcune dottrine del Liber e certe parti dell’opera abelardiana era stata già messa in evidenza da Lorenzo Minio-Paluello e da Osmund Lewry241. Uno studio sistematico del Liber sex principiorum, tuttavia, permette di individuare vari punti nei quali l’autore del De sex principiis sembra molto vicino alle posizioni di Abelardo, sia nella trattazione di determinate questioni sia nella scelta di termini ed esempi sia, infine, nell’impostazione logica di base. 4.6.1 La relazione tra qualità e movimento e la dottrina della generazione e corruzione Un primo plesso tematico nel quale si possono rilevare della analogie tra il Liber e Abelardo è la trattazione delle categorie dell’actio e della passio; all’interno dei materiali aristitotelici e boeziani utilizzati dall’autore del De sex principiis per la trattazione di queste categorie, infatti, si possono individuare elementi abelardiani. Il Liber, trattando della natura dell’azione, afferma che essa si dà sempre in stretta connessione con il movimento tanto che i due termini sono interscambiabili. Tale dottrina, tuttavia, porta l’autore del De sex principiis ad affermare una relazione tra il movimento/azione, da un lato, e la qualità, dall’altro: il moto, argomenta il Liber, si oppone alla quiete e la quiete è una qualità, per cui, visto che i contrari appartengono allo stesso genere, il moto è una qualità242. Nella Logica ingredientibus Abelardo sottolinea come il movimento si possa considerare non una azione o una passione ma una qualità; infatti, argomenta Abelardo, poiché il movimento si oppone alla quiete e quest’ultima è una qualità è necessario affermare, per il principio che

i contrari appartengono allo stesso genere, che anche il moto stesso è una qualità. In quanto tale il movimento ha una natura “volatile” (inconstans), asserisce ancora Abelardo, in quanto uno stesso moto, come quello di una pietra che viene spostata da un posto all’altro, può apparire attivo se osservato dal punto di vista di colui che muove la pietra e passivo se considerato, invece, dal punto di vista della pietra stessa243. La posizione dell’autore del De sex principiiis, quindi, è molto vicina a quella di Abelardo: entrambi riconducono l’azione alla qualità facendo riferimento al principio aristotelico secondo il quale i contrari appartengono al medesimo genere. Un ulteriore elemento di continuità tra la dottrina abelardiana e quella del Liber nella riflessione su azione e passione può essere rappresentato dall’introduzione da parte dell’autore del De sex principiis, all’interno dell’analisi dell’actio stessa, di un’indagine sulla generazione e corruzione. Abelardo, infatti, nel medesimo passo della Logica ingredientibus dove analizza la relazione tra moto e qualità, propone un elenco di diverse tipologie di movimento. Si possono distinguere, dice Abelardo, movimento propriamente detto e permutatio; il primo si articola in tre specie, ovvero movimento secondo la quantità, la qualità e il luogo, mentre la seconda comprende la generazione e la corruzione. Nelle Categorie, tuttavia, osserva Abelardo, Aristotele parla più semplicemente di movimento secondo la sostanza, la quantità, la qualità e il luogo in quanto l’opera è pensata come scritto introduttivo. Si deve notare come Abelardo, elaborando la distinzione tra movimento e permutatio e formulando la dottrina della relazione tra qualità e moto, riprenda elementi del commentario alle Categorie di Boezio, a cui la

Logica ingredientibus fa esplicitamente riferimento244 (nelle Categorie aristoteliche e nel commento boeziano, infatti, compare un riferimento alla relazione tra moto e quiete secundum qualitatem)245. Abelardo, tuttavia, riorganizza in modo più coerente e preciso i materiali aristotelici e boeziani, soprattutto per quanto riguarda la riflessione sulla relazione tra qualità e moto (dove fa riferimento al principio dell’appartenenza al medesimo genere dei due contrari non presente, invece, in Boezio), presentandosi come la fonte più probabile del Liber per questo plesso tematico. La stessa dottrina della generazione e corruzione proposta dal Liber, infine, appare simile a quella elaborata da Abelardo. Nella Dialectica, infatti, Abelardo parla della generazione e corruzione in termini di presenza o assenza di forme sostanziali (uno dei non molti luoghi dove Abelardo si serve dell’espressione substantialis)246. Se la presenza o meno di forme accidentali non altera l’essenza della res né influisce sulla sostanza, il movimento di adventus e recessus delle formae substantiales, argomenta Abelardo, può spiegare la corruzione e la generazione; l’ingressus e recessus in substantiam è spiegato mediante un richiamo alla dinamica delle forme sostanziali. Una dottrina analoga sebbene più articolata si trova in un’altra opera abelardiana, la Logica ingredientibus247. Qui Abelardo parla dei vocabula substantialia i quali sono quelle parole (come rationale, animal o homo) la cui causa impositionis una volta venuta meno produce la scomparsa della stessa res subiecta; il venir meno di uno di questi termini o meglio della loro causa impositionis nella res produce un egredi substantiam248. La trattazione del Liber su queste tematiche appare, quindi, significativamente prossima a quella proposta da Abelardo.

4.6.2 La definizione del quando Il Liber definisce il quando come ciò che ex temporis adiacentia relinquitur, ovvero ciò che rimane da quanto è prossimo al tempo. Tale definizione, come messo in rilievo sia da Lorenzo Minio-Paluello che da Osmund Lewry, è molto simile a quella di Abelardo. Abelardo, infatti, nella Dialectica definisce il quando come in tempore esse, quaedam scilicet proprietas quae ex adiacentia temporis ad substantiam ipsi innascitur personae, ovvero come ciò che deriva dal tempo e dal “contatto” con il tempo e che in questo modo inerisce alla sostanza della persona, pur distinguendosi sia dal tempo che dalla sostanza stessa249. Abelardo ribadisce che il quando non nasce dal tempo ma dall’adiacentia temporis e da ciò deriva l’ambiguo rapporto che esso ha con il tempo stesso. La peculiare relazione tra tempo e quando può essere considerata la causa dei vari attributi e caratteri di tale predicamento. Come l’autore del De sex principiis, infatti, anche Abelardo sottolinea l’esistenza di diverse “forme” di quando, ciascuna prodotta e legata ad un differente modo temporale (passato, presente e futuro250). Abelardo introduce anche la questione del generarsi di diversi quando (ieri, oggi e domani ad esempio) a partire dal medesimo tempo quale unità singolare e individua; il tempo che scorre, osserva infatti Abelardo, è sempre il medesimo, cosicché ieri e domani sono prodotti dal medesimo flusso temporale e anche nell’oggi si dà una adiacentia simultanea alla stessa linea temporale. Abelardo termina la propria trattazione della categoria del quando nella Dialectica con l’affermazione dell’assenza in tale predicamento di qualsiasi forma di opposi-

zione e contrarietà; al tempo e alla quantità (alla quale il tempo secondo la dottrina aristotelica è riconducibile), infatti, non può essere attribuita nessuna forma di opposizione tra contrari e, pertanto, analoga natura deve avere anche il quando. La medesima dottrina sul quando viene proposta da Abelardo anche nella Logica ingredientibus251, dove la riflessione su questa categoria è sviluppata attraverso un confronto con il predicamento dell’ubi. Dove e quando, afferma Abelardo, sono sempre in relazione con tempo e luogo; tale necessario rapporto è confermato da un argomento di natura grammaticale. Il quando e il dove possono essere significati mediante termini che indicano tempo e luogo con l’aggiunta di alcune preposizioni: la parola domus, che indica un luogo, diviene in grado di rimandare all’ubi se la si unisce alla proposizione “in” (in domo). Prendendo le mosse da tale indicazione, Abelardo afferma che la differenza tra le categorie del quando e del dove, rispetto a quelle del tempo e del luogo, consiste nei nomi e non nelle definizioni degli stessi; se esse in tempo o esse in loco significano il quando e il dove, allora tali categorie hanno la stessa definizione del tempo e del luogo e da questi derivano attraverso l’aggiunta della particella “in” (l’espressione in domo relativa alla categoria del dove ha la stessa definizione di domus in quanto si compone dell’indicazione di luogo, ovvero domus, e di in). La trattazione del quando nel Liber manifesta, quindi, diverse analogie con quella abelardiana. Sebbene Abelardo dipenda, nell’elaborazione della propria dottrina sul quando, da fonti precedenti, in particolare Boezio, si deve sottolineare nelle opere abelardiane l’originalità del riutilizzo dei materiali della tradizione e la prossimità tra la personale sintesi abelardiana e le teorie

del Liber252. Tracce evidenti di tale continuità sono, innanzitutto, la dottrina dell’impossibilità per il quando di trovarsi in un rapporto di contrarietà, dimostrata sia nel Liber che in Abelardo attraverso il medesimo argomento (ovvero il paradosso della compresenza di diversi quando in un unico individuo), e l’affermazione che il quando non accetta il più e il meno253; centrale poi quale testimonianza della prossimità teorica tra il De sex principiis e Abelardo è la definizione di quando quale adiacentia temporis, con la connessa affermazione della stretta relazione tra tempo e quando254. Tale conformità tra l’utilizzo dell’espressione adiacentia nel Liber e il suo impiego nelle opere abelardiane risulta pienamente evidente se si confronta l’uso che di questo termine viene fatto, sempre in relazione allo studio della categoria del quando, nel Compendium logicae porretanae. Anche nel Compendium, infatti, è presente una distinzione tra tempo e quando. Il tempus, detto tempus quantitas, è definito anche come mora, ovvero come il periodo di tempo durante il quale la res mantiene una sua proprietà; il movimento e la trasformazione di una realtà, infatti, è definito dall’avvicendarsi delle sue proprietà255. Il tempus come quando (tempus quando), invece, è l’unione (collatio) dei diversi momenti (morarum) ed è così relativo al perdurare della presenza di una essenza in diverse realtà; esso si accompagna con avverbi che rispondono alla domanda intorno al “quando” una certa cosa avviene256. Tale indicazione viene ripresa nella parte conclusiva del Compendium che si conclude proprio con una rassegna delle diverse categorie257. In questo contesto il quando viene descritto come quel predicamento che risponde alla domanda sul momento temporale in cui una certa cosa si verifica258; la risposta

a tale quesito, come nunc, in presenti, in futuro, tuttavia, non è di per se stessa significativa, ma indica solamente relazioni e rapporti di tempo tra loro adiacentes259. L’espressione adiacentia temporis presente nel Compendium, così, risulta inserita all’interno di una dottrina del tempo e del quando fondata sulla nozione di collatio morarum (in sé abbastanza oscura) e, quindi, diversa da quella elaborata dall’autore del De sex principiis. Si può affermare, quindi, che nonostante la presenza nel Liber di elementi dottrinali non rinvenibili nelle opere abelardiane (ad esempio la differenza tra tempo e quando o la trattazione in riferimento al quando del tema dei futuri contingenti), la prossimità tra il Liber e Abelardo per la trattazione di tale predicamento è molto significativa. 4.6.3 La definizione del dove La definizione del dove proposta dal Liber identifica tale categoria con il corpo che viene circondato e contenuto in un certo luogo; il luogo viene di conseguenza descritto come ciò che contiene il corpo. La definizione di dove elaborata da Abelardo è simile nei contenuti a quella proposta dall’autore del De sex principiis, sebbene appaia meno elaborata. Abelardo, infatti, nella Dialectica definisce ubi come in loco esse260, ovvero come quella categoria che è prodotta dalla relazione al luogo e che è propria di quelle realtà che si trovano in un luogo. Nella Logica ingredientibus viene proposta una definizione analoga; qui si dice che il dove nasce dal luogo (ex loco nascitur) così come il quando deriva dal tempo. Tale accezione di ubi viene poco dopo precisata, affermando che si possono chiamare “dove” tutte quelle condizioni in ragione della contiguità alle quali qualcosa è in un luogo261.

Ancora nella Dialectica Abelardo asserisce che il dove ex adhaerentia loci nascitur262: il dove è prodotto dal “contatto” con il luogo e, quindi, da esso si distingue. In questo contesto Abelardo propone anche un elenco dei diversi modi in cui una cosa può essere in un’altra (infatti il quando è nel tempo e il dove nel luogo; si tratta dei nove modi che Boezio nella prima edizione del suo commento alle Categorie, precisa Abelardo, ha enumerato: essere in un luogo, essere nella materia come la forma, essere nel tutto come le parti o il tutto nelle parti, oppure l’essere delle specie nel genere o del genere nelle specie; Abelardo poi parla anche della relazione dell’onore con la persona alla quale viene attribuito e dell’essere nel fine come la giustizia nella beatitudine). Nella Introductiones parvolorum il luogo, invece, è definito circumscriptio corporis quantitativi263. Tale concezione del luogo compare anche nella Dialectica. Qui Abelardo distingue due forme di luogo: quello sostanziale e quello modo uero quantitativum il quale corporis circumscriptionem dicimus. Il primo indica il luogo nel quale ci si trova, come nel caso del teatro o della casa, il secondo, invece, indica ciò che contiene e circonda il corpo in esso presente264. Poiché l’ubi è un in loco esse, un “essere in un luogo”, sorge la questione su quale sia la tipologia di luogo dal quale deriva il dove; Abelardo a questo proposito asserisce che l’ubi deve essere riferito al luogo sostanziale, che trova espressione nelle formule “essere a Roma” o “essere ad Antiochia”265. Il luogo sostanziale sembra così dipendere dal luogo quantitativo: il primo, infatti, può essere spiegato facendo riferimento al secondo, come condizione del corpo che si trova iscritto in un certo spazio. Alla fine di questa trattazione Abelardo aggiunge anche che esistono realtà fisiche che non sono contenute

in un luogo (non omnia corpora loco contineri); è questo il caso del cielo oltre il quale non si trova nessuna realtà (ut firmamentum ipsum, ultra quod nihil reperitur)266. La definizione di dove elaborata da Abelardo quale “essere in un luogo” rimanda, quindi, alla nozione di circumscriptio quale operazione propria del locus stesso; il dove dipende dal luogo sostanziale ma quest’ultimo si definisce comunque in termini di delimitazione del corpo contenuto, ovvero in termini di circumscriptio propria del luogo quantitativo. Particolarmente interessante in Abelardo, ai fini di una comparazione con il Liber sex principiorum, è, inoltre, la riflessione sulla possibilità o meno per la categoria dell’ubi di accettare l’opposizione e la contrarietà. Il dove (come il quando) deriva da una realtà (il luogo), che può essere ricondotta alla categoria della quantità; poiché tale predicamento non ammette la contrarietas al suo interno neppure all’interno della categoria del dove si può produrre una opposizione di tale natura267. Una realtà non può essere detta “maggiormente uno” di un’altra, né un gruppo di due e tre cose possono essere descritte come “più due o tre” di un altro gruppo composto da un analogo numero di elementi268. Anche il caso di due luoghi che sono uno più in alto dell’altro e, quindi, chiaramente opposti non costituisce per Abelardo una prova della possibilità della contrarietà all’interno della quantità. Se, infatti, pensiamo alla sommità della sfera celeste e ad un altro luogo rispetto a questa più in basso non abbiamo a che fare con una vera e propria contrarietà, ma solamente con una differenza spaziale la quale non influenza in nessun modo la condizione sostanziale delle realtà in questione: solamente l’opposizione massima della natura e non la distanza produce autentica contrarietà, cosicché la sostanza che è distinta

da un’altra sostanza per la differenza spaziale (anche quando essa è massima) non è a questa contraria269. Poco prima, inoltre, Abelardo aveva osservato che rinvenire la contrarietà nella categoria della quantità significa andare incontro a conseguenze paradossali come ammettere che i contrari siano presenti nella medesima realtà e che una cosa sia contraria a se stessa. Infatti, osserva Abelardo, se diciamo che un monte confrontato con un altro monte è più piccolo e, paragonato invece ad un’altra montagna, è più grande allora troveremo nella medesima realtà il piccolo e il grande (determinazioni chiaramente contrarie) e saremo costretti ad affermare che, accogliendo entrambi i contrari, tale monte è contrario a se stesso270. Le espressioni come infra inferior e supra superior che, pur legandosi alla quantità e al luogo, sembrano introdurre una forma di comparazione devono, allora, essere considerate come casi in cui non si ha a che fare veramente con il luogo o il dove ma solamente con habitudines, ovvero con forme di relazione. Abelardo, infine, fornisce anche un’analisi delle quantità continue e discrete (alle quali possono essere ricondotti le corrispondenti forme di luogo). Nella Logica ingredientibus, infatti, Abelardo afferma che le quantità continue sono così chiamate perché in esse le parti sono congiunte ad uno stesso limite271; il luogo può essere continuo propter partes corporis coadiacentes particulis loci, ovvero a causa della continuità delle parti del corpo con le parti del luogo272. Queste indicazioni sono inserite nel contesto definito dalle cinque possibili forme di composizione che si producono a partire dalle realtà semplici: la creazione del numero a partire dall’unità (il numero, infatti, si produce come unione di più unità), del discorso a partire dai suoi elementi, della linea e della

superficie dal punto, del corpo dalla superficie, del tempo dall’istante e del luogo composto da quello semplice273. Abelardo spiega così anche l’origine della soliditas di cui parla Aristotele; essa viene definita come una quantità compatta (solida quantitas) identificabile con il corpo che si dà secondo le tre dimensioni, della lunghezza, larghezza e spessore274. Le analogie tra la dottrina dell’ubi nel Liber e in Abelardo sono molteplici. Oltre alla sostanziale similitudine della definizione di ubi proposta dal Liber con quella di Abelardo, risulta molto significativa la continuità tra la teoria sulle diverse quantità (continue e discrete) con il riferimento alle unità spaziali base, alle particulae loci e alla soliditas del Liber e le analoghe dottrine abelardiane; interessante è anche il riferimento al problema del luogo della sfera celeste all’interno della discussione sul dove sia in Abelardo sia nel De sex principiis (che dedica al problema alcune complesse righe). L’elemento, tuttavia, che rappresenta il fattore più importante per affermare la dipendenza da Abelardo della trattazione intorno al predicamento dell’ubi nel Liber sex principiorum è rappresentata dalla dottrina che nega assolutamente la possibilità per il dove di entrare in un rapporto di contrarietà in quanto dove e luogo sono strettamente connessi e nel secondo nec contrarietas inest275; questa teoria e anche gli stessi casi concreti esaminati come argomenti per la sua dimostrazione (la relazione tra sommità della torre e sfera celeste) nel Liber sono i medesimi utilizzati da Abelardo. Ciò che rende questo comune elemento dottrinale così importante per stabilire la dipendenza della dottrina del dove nel De sex principiis da Abelardo, è, oltre alla chiara continuità tra i passi del Liber e quelli delle opere abelardiane, il fatto che tale teoria sia elaborazione originale di Abelardo stesso e che egli, su questo punto, con-

traddica la tradizione aristotelico-boeziana; Aristotele, infatti, afferma che nel luogo si possono rinvenire forme di opposizione, come dimostrerebbe il caso delle determinazioni sursum e deorsum276. Abelardo sviluppa la vaga indicazione boeziana in proposito (con l’introduzione del concetto di relazione, habitudines), introducendo la dottrina sulla contraddittorietà che deriverebbe dall’affermare che le quantitates possono ammettere una relazione di opposizione. La presenza nel Liber di una dottrina chiaramente abelardiana permette di ricondurre all’influenza di Abelardo l’intera trattazione sul dove nel De sex principiis, benché questa manifesti ugualmente delle analogie con le teorie sull’ubi della tradizione aristotelico-boeziana277. Il Liber, quindi, benché giunga ad una soluzione personale sul problema della contrarietas del dove278 ed enfatizzi maggiormente di quanto non accada in Aristotele e in Abelardo il ruolo della circumscriptio (che nel Liber diviene nella sua ambiguità semantica il vero termine chiave per la definizione dell’ubi), ha in Abelardo una fonte centrale per la propria dottrina del dove. 4.6.4 L’avere e le sue specie La trattazione compiuta nel Liber della categoria dell’avere, l’ultimo predicamento dei dieci individuati da Aristotele, mette in evidenza il carattere fisico di tale predicamento il quale riguarda solamente il corpo e ciò che al corpo inerisce. A partire da tale osservazione l’autore del De sex principiis sviluppa una riflessione sul fatto che l’habitus fit secundum divisionem e, quindi, può darsi unicamente in relazione a delle realtà che si compongono di diverse parti279. Il Liber chiude l’indagine su tale categoria proponendo un elenco di modi o specie nelle quali l’avere si articola.

Tale analisi del predicamento dell’habitus nel Liber dipende sia dalla lezione aristotelico-boeziana sia da quella abelardiana; quest’ultima, tuttavia, possiede una particolare importanza per la dottrina del Liber stesso. Gli esempi che Aristotele porta per illustrare la categoria dell’avere sono l’essere dotato di armi o l’indossare calzari280. A tali scarne indicazioni lo Stagirita aggiunge altre riflessioni nella conclusione delle Categorie281; qui Aristotele sottolinea come il predicamento dell’habere si possa dire in molti modi, dal momento che può essere riferito ad un certo stato d’animo, ad una inclinazione della natura umana (avere la virtù), alla quantità (avere la grandezza), alla qualità etc.. La riflessione aristotelica sulle diverse forme di avere appare come una fonte centrale per la teoria dell’habere autem multis dicitur modis del Liber. L’autore del De sex principiis non solo riprende, come esempi di habere, armatus e calciatus, ma conclude la propria trattazione su tale predicamento riproducendo, in certi casi in modo quasi letterale, il testo aristotelico; il Liber, infatti, osserva come “avere” si dica in molti modi e propone alcuni dei casi aristotelici (qualità, quantità, il grano nel moggio, l’anello al dito, il rapporto tra uomo e donna). La conclusione del paragrafo dedicato all’habere è anch’essa molto simile al passaggio conclusivo delle Categorie: l’enumerazione dei vari habendi modi può non essere esaustiva, ma lo studio presentato va considerato sufficientemente preciso almeno riguardo alle forme dell’avere più comuni. Si deve notare, tuttavia, come anche questi aspetti della dottrina del Liber sull’habitus presentino elementi di discontinuità rispetto alla lezione aristotelica. Innanzitutto il Liber fa riferimento all’ultima categoria non come habere, così come accade nello Stagirita, ma

come habitus. L’autore del De sex principiis, inoltre, non utilizza esattamente gli stessi esempi aristotelici (il Liber parla di lunghezza e non di grandezza e fa riferimento al bianco e al nero che Aristotele non prende in considerazione come casi di qualità); infine nel Liber si fa riferimento ad un numero canonico di cinque forme dell’avere che è ugualmente non presente nel testo aristotelico. Alcune delle osservazioni sulla categoria di habitus elaborate nel Liber e non rinvenibili nella lezione aristotelica possono essere ritrovati, invece, nelle Categoriae decem. La parafrasi temistiana attesta l’espressione habitus per indicare la categoria dell’avere282; in modo analogo le Categoriae decem riprendono la dottrina dei diversi modi dell’avere (habendi modi), proponendo un elenco di otto forme283: qualità dell’animo, qualità del corpo, quantità, possedere in qualche parte del corpo, avere qualcosa sul corpo come nel caso delle scarpe, avere una parte del corpo come un piede o una mano, avere in un luogo come il vino in un contenitore, avere potere o dominio284. La trattazione delle Categoriae decem è in alcuni punti originale rispetto alla dottrina aristotelica. Sebbene anche la parafrasi temistiana riporti il caso dell’avere una moglie o un marito come esempio di accezione impropria dell’habere e individui otto forme in cui l’habitus si può dare, a differenza della lezione aristotelica non annovera la forma impropria dell’habitus (l’avere moglie o marito) tra le altre modalità del darsi di tale predicamento e aggiunge la qualità fisica come la bianchezza e la nerezza. Questi due elementi della parafrasi temistiana possono essere rinvenuti molto significativamente anche nel Liber. Anche l’autore del De sex principiis, infatti, non solo parla della bianchezza e nerezza come esempio di un modus dell’avere ma, illustrando perché la condizione di due persone sposate sia una forma impro-

pria dell’habere, utilizza la stessa argomentazione delle Categoriae decem285: l’anonimo autore della parafrasi argomenta che se il caso della relazione tra marito e moglie fosse un autentico modus habendi allora accadrebbe che la cosa posseduta possiederebbe a sua volta colui che la possiede, cosa evidentemente impossibile286. L’apporto della riflessione abelardiana per la dottrina dell’habitus nel Liber, tuttavia, appare più importante della lezione aristotelica (mediata anche attraverso la parafrasi temistiana). La similitudine tra la trattazione abelardiana sull’argomento e quella presente nel De sex principiis è coglibile se si pone attenzione alla continuità che esiste tra alcune peculiari osservazioni sull’habere fatte da Abelardo e la dottrina più originale sull’habitus sviluppata dall’autore del Liber, ovvero la teoria per la quale habitus fit secundum divisionem. Questa dottrina, infatti, sebbene non si trovi formulata in nessuna delle fonti alle quali il Liber generalmente ricorre, dipende strettamente dall’attribuzione all’avere stesso di un carattere fisico-corporeo, qualità che il Liber mostra di considerare centrale per tale categoria come predicamento che adiacet corpori287. La dottrina che associa l’avere alla dimensione corporea, tuttavia, viene particolarmente sviluppata da Abelardo. Abelardo, infatti, dopo aver sottolineato nella Dialectica288 ancora una volta la brevità della trattazione aristotelica su tale categoria (rinviando alla Fisica e alla Metafisica per una più esaustiva analisi di questi predicamenti) e dopo aver ripreso da Aristotele e da Boezio gli esempi sui diversi modi in cui la categoria dell’habere si articola289, afferma nella Logica ingredientibus290 che si possono individuare tre forme di habitus: quello che deve essere considerato una species qualitatis, quello che consiste in un habitus privationis (ovvero il possesso

della privazione: avere quella condizione che prevede una mancanza) e infine l’habitus che deriva dal possedere una realtà extrinseca, secondo la definizione boeziana, come le armi o i calzari. Abelardo poi critica l’accezione di habere riferita alla forma; l’avere infatti non può che essere relativo a res esterne al soggetto e non interne, come la materia e la forma. Applicando l’idea di habere ad elementi intrinseci al soggetto si produce, osserva Abelardo, una moltiplicazione all’infinito per la quale da ogni habere se ne sviluppa un altro. La dottrina abelardiana, quindi, sottolinea il carattere corporeo ed estrinseco del predicamento dell’avere rispetto alla realtà che possiede; in questo modo Abelardo prende le distanze da Aristotele e dalla tradizione che a lui faceva riferimento, nella quale l’avere era riferito anche al possesso di realtà incorporee e immateriali. La continuità tra tale impostazione e quella del Liber sulla categoria dell’habitus appare chiara291. 4.6.5 L’impositio in voce e la dottrina sul magis et minus La dottrina sull’origine del più e del meno proposta dal Liber si presenta anche ad una prima analisi come una teoria estremamente interessante. L’autore del De sex principiis, infatti, afferma che la possibilità di predicare il più e il meno ad una certa realtà non può essere motivato dalla crescita o diminuzione di ciò che è presente nella realtà o dall’alterazione della realtà stessa ma dalla differente prossimità della sostanza in questione alla impositio del nome; ciò significa che una res è maggiore o minore, sotto il rispetto ad esempio di una certa qualità, nella misura in cui la determinazione che ad essa inerisce (donandole una certa qualificazione) è più o meno prossima alla qualità in questione nella sua purezza, così come può essere definita dalla vox nella sua

impositio292. A tale riflessione il Liber aggiunge la dottrina secondo la quale non è possibile predicare il più e il meno della sostanza così come anche di alcune qualità, quali l’essere triangolare o l’essere quadrato293. Tale dottrina sviluppata nel Liber appare del tutto simile ad alcune riflessioni elaborate sul medesimo problema da Abelardo. Nella sua Dialectica, infatti, Abelardo propone un’analisi sulle diverse forme di comparazione, individuandone fondamentalmente quattro: secundum longitudinem uel latitudinem uel spissitudinem uel numeri multiplicationem, ovvero secondo la lunghezza, la larghezza, lo spessore o la moltiplicazione del numero294. Abelardo si chiede, quindi, se la comparazione tra diversi accidenti può avvenire sempre in base a tutte queste forme di paragone o solamente in ragione di alcune di esse. Abelardo, tuttavia, critica immediatamente la dottrina secondo la quale un confronto tra accidenti, come quello che può verificarsi quando si paragonano due realtà entrambe caratterizzate dal colore bianco, avviene sulla base della lunghezza o della larghezza. L’esempio che Abelardo porta per confutare una simile teoria è il medesimo che si ritrova nel Liber: una perla è più bianca di un cavallo bianco benché la dimensione della prima non solo, in termini relativi, sia inferiore a quella del secondo, ma sia in assoluto molto modesta. Lo stesso esempio permette di dimostrare che neppure la multiplicatio numeri costituisce uno strumento per spiegare efficacemente la comparazione tra accidenti; le parti bianche del cavallo bianco, infatti, sono di certo maggiori delle parti bianche della perla, ma la seconda è considerata ugualmente più bianca del primo. Abelardo quindi passa ad esaminare la comparazione secundum spissitudinem, riservando ad essa una lunga

analisi; anche in questo caso, però, si producono alcune difficoltà e aporie, sicché Abelardo conclude affermando che diverse forme di qualità richiedono diverse forme di comparazione, alcune basate sulla longitudo e latitudo altre sulla multiplicatio numeri295. Queste riflessioni sono seguite, nella Dialectica abelardiana, da una indagine sull’aumento e il decremento di quegli accidenti che non cadono sotto i sensi, come la piccolezza296. Abelardo nota che, prese due realtà tra loro uguali, quando si sottrae ad una di esse una sua parte tale realtà può essere definita “minore” rispetto all’altra; tale fenomeno può essere interpretato, osserva Abelardo, come un aumento della piccolezza nella realtà considerata. Abelardo si interroga allora sul principio in ragione del quale la diminuzione di una sostanza produce un aumento di un suo accidente, introducendo a questo proposito la dottrina del paragone come prolatio vocum, ovvero come basato sull’enunciazione dei termini accompagnata da avverbi comparativi297. Tale dottrina viene sviluppata in modo più sistematico all’interno della Logica ingredientibus298. Qui Abelardo riprende i temi presentati nella Dialectica ma aggiunge un’articolata riflessione sull’impositio nominis come chiave per la spiegazione della comparazione e del discorso secundum magis et minus. Abelardo, parlando del magis et minus come una forma di qualia e non di qualitates vere e proprie, rileva che, se il più e il meno dipendessero dalla grandezza del soggetto (magnitudo subiecti), non si spiegherebbe come una perla possa essere più bianca di un cavallo bianco, benché il secondo risulti più grande della prima. Abelardo allora prende in considerazione la possibilità che il più e il meno si possano dire secondo la qualità delle forme: quando si parla di più e di meno si avrebbe

a che fare con la magnitudo qualitatis e la spissitudo, ovvero il numero di parti che compongono il soggetto stesso. Anche in questo caso però ci si trova di fronte ad una serie di contraddizioni; nel caso in cui si sottraesse ad un soggetto una sua parte, infatti, si avrebbe un diminuire della quantità totale e contemporaneamente un aumento della piccolezza e della brevitas del soggetto stesso. Inoltre, osserva Abelardo, concependo in questo modo il più e il meno non sarebbe possibile creare un paragone tra due anime le quali sono indivisibili (il possedere in modo più o meno accentuato una qualità da parte dell’anima, ad esempio l’essere più o meno giusto o colto, si dovrebbe spiegare con il numero di parti di questa qualità presenti nelle due anime, cosa impossibile nel caso di realtà immateriali come le sostanze psichiche). Abelardo propone allora che la comparatio si possa produrre secundum proprietatem299, ovvero secundum proprietatem et causam impositionis nominis300. Abelardo parla in questo caso di una certa definizione o concetto legati al nome; una certa realtà può essere più o meno “vicina” al termine in questione (ad esempio parvum, secondo il caso preso in considerazione dallo stesso Abelardo) in ragione della causa del nome (secundum causam nominis) 301. Se un certo subiectum è superato in lunghezza dalla quantità di un altro soggetto, allora il primo si avvicina maggiormente al termine parvum e per indicare questo fatto si aggiunge l’avverbio magis. Il soggetto che si approssima di più alla proprietà del termine è maggiore o minore rispetto ad un altro soggetto in relazione a quel termine stesso, cosicché il più e il meno non derivano più ex maioritate subiecti. Benché la vis comparationis sia relativa a volte alla quantità dei soggetti (come quando si dice che una cosa è più grande o più lunga di un’altra), altre volte alla quantità degli accidenti (come

nel caso di una res più bianca di un’altra) e altre volte ancora alla quantità delle cose esterne (come nel caso dell’essere più ricco che ha a che fare con il possesso di beni esterni) il maggiore e il minore devono sempre essere fondati sull’inventio vocis (magis ad vocis inuentionem respicit quam ad naturam rei). In Abelardo, d’altra parte, è rinvenibile la teoria per la quale il maggiore e il minore non possono essere presenti nella sostanza. Nella Dialectica la riflessione sulle diverse forme di comparazione si conclude con l’osservazione di come le sostanze non possano ammettere nessuna forma di comparazione in senso proprio, ma piuttosto forme di diminutio302 (considerazione già presente all’inizio del paragrafo dedicato ai problemi della comparazione): tutti i termini sostantivi, come uomo ma anche come bianco, non possono essere detti secondo il più e il meno303. In modo analogo nella Logica ingredientibus si afferma che la comparazione non riguarda mai sostanze, ma solo accidenti; la vocis institutio propria dei sostantivi, ad hoc non fuit accomodata, non fu istituita per ammettere il più e il meno304. La dipendenza del Liber dallo stesso Abelardo per quanto riguarda l’analisi del magis et minus, quindi, appare strettissima. La dottrina che spiega la possibilità di parlare del più e del meno in termini di impositio e di vox nonché gli esempi scelti, primo fra tutti quello del cavallo bianco e della perla, sono assolutamente identici alle osservazioni presenti nella Dialectica e nella Logica ingredientibus. Molto significativa come testimonianza di una dipendenza del Liber da Abelardo su questo punto è anche la presenza nel De sex principiis stesso di una terminologia tecnica (vox, impositio) impiegata in modo analogo a quanto accade in Abelardo305.

4.7 Aporie e paradossi nel Liber: tra la tradizione parvipontana e Abelardo Fra le caratteristiche che si possono individuare attraverso una lettura attenta del testo del Liber sex principiorum quella forse più singolare ed interessante è la presenza in esso di una costante attenzione alla dimensione della contraddizione. L’autore del De sex principiis, infatti, richiama più volte l’attenzione del lettore, nel corso della propria indagine, sulle contraddizioni che derivano dall’elaborazione di una certa dottrina o dall’affermazione di un determinato principio logico; in certi casi l’individuazione di un esito contraddittorio costituisce una strategia argomentativa che permette di dimostrare la veridicità di una tesi mediante la deduzione di conseguenze inammissibili dalla tesi contraria; altre volte la risoluzione della contraddizione è funzionale a confermare la correttezza della tesi asserita; altre volte ancora sembra che il testo si limiti semplicemente a rilevare la contraddizione senza procedere in maniera sistematica a una sua soluzione. 4.7.1 Censimento dei passi significativi del Liber su contraddizione e paradosso Il primo dei luoghi testuali maggiormente interessanti quali testimonianze di tale peculiare carattere del Liber può essere individuato in un passo del secondo capitolo sull’azione306. Qui l’autore del Liber, dopo aver affermato che il movimento appartiene solo a realtà corporee, osserva come un caso che può contraddire tale dottrina sia quello dell’immagine nello specchio; essa, infatti, benché non abbia natura corporea può muoversi da un limite all’altro dello specchio stesso senza un corrispettivo movimento della superficie catottrica.

Il capitolo dedicato all’azione contiene per lo meno altre due testimonianze dell’interesse del Liber per la contraddizione. L’autore del De sex principiis osserva che ogni cosa che è in movimento è anche una azione e che, quindi, i due termini sono reversibili; tuttavia il caso in cui l’azione produce non una creazione di qualcosa ma una distruzione sembra confutare tale dottrina: in questa situazione, infatti, c’è una sorta di movimento ma non una vera azione, in quanto si produce un non-effetto identificabile con il nulla della distruzione operata dal movimento stesso307. Anche la dottrina secondo la quale ogni actio produce necessariamente una certa passio nella realtà sulla quale essa si esercita sembra essere inficiata da una possibile aporia; si può dare il caso, infatti, in cui un’azione non produca una passione ma un’altra actio. Questo accade quando esistono realtà autocinetiche che, muovendosi di moto proprio, portano al movimento un’altra realtà non autocinetica308. Nel quarto capitolo del Liber, invece, l’autore analizza la relazione tra il passato e il presente, riprendendo la dottrina aristotelica sulla relazione che passato e futuro hanno con il tempo presente. In questo caso il De sex principiis afferma che c’è un rapporto tra preteritum e presens non perché il primo in substantia permaneat, ovvero perché esista ancora attualmente, ma perché in excessu suo nondum preteriit, non è ancora giunto alla sua totale consunzione. Il Liber, quindi, si serve di una sorta di gioco di parole: il passato (preteritum) è in relazione al presente perché non è ancora del tutto passato (in excessu…preteriit)309. Una quinta testimonianza dell’interesse del Liber per le situazioni aporetiche è contenuta nel quinto capitolo dedicato alla categoria dell’ubi. Qui l’autore del De sex principiis dopo aver affermato che la categoria del dove

può essere predicata unicamente delle realtà corporee e una stessa realtà non può essere presente in luoghi differenti, individua una difficoltà che può compromettere la tenuta della dottrina elaborata; tale difficoltà è rappresentata dal caso di quella realtà che benché unica e medesima è presente in diversi luoghi. Questo accade con la voce la quale è un’unica res, composta d’aria, presente in differenti orecchi310. Ancora all’interno del capitolo dedicato alla categoria del dove il Liber argomenta l’impossibilità di ammettere per la categoria dell’ubi la contrarietas. Se si afferma che una certa determinazione sussumibile all’interno del predicamento del dove si può opporre ad un’altra determinazione anch’essa parte della medesima categoria, la conseguenza che si produce è l’autocontraddittorietà della realtà della quale queste determinazioni vengono predicate. Come già osservato analizzando il predicamento del dove, il Liber in questo caso riprende da Abelardo la struttura dell’argomento e alcuni degli esempi utilizzati (la parte sommitale della torre può essere in alto rispetto al terreno e in basso rispetto all’ultimo cielo)311. Il medesimo utilizzo a fini argomentativi della contraddizione e il medesimo recupero di elementi dottrinali abelardiani sono presenti nell’ultima testimonianza intorno all’attenzione del Liber per il paradosso e l’aporia. Analizzando la natura e la causa delle alterazioni secondo il più e il meno, il Liber osservava, in perfetta continuità con Abelardo, come esse debbano venire spiegate nei termini di distanza o prossimità della qualità presente in una certa res alla vox della medesima qualità. Per dimostrare l’erroneità della dottrina che individuava la causa del maior et minus nella presenza “fisica” di certe qualità capaci di inerire al sostrato della res concreta, il Liber si serviva dell’argomento abelardiano sulle conse-

guenze paradossali deducibili da tale teoria; Abelardo affermava, infatti, che se la quantità non può estendersi al di là del soggetto (il limite della quantità è il corpo) e se, quindi, la quantità di una determinazione presente nel soggetto è direttamente proporzionale alla quantità del corpo del soggetto stesso ne deve derivare che tanto più il soggetto diminuisce tanto meno grande sarà anche la quantità di quella qualità al suo interno. In questo modo si può giungere all’esito paradossale di un corpo che, divenendo più piccolo, risulta essere più grande, in quanto si riduce in esso al contempo lo “spazio” per i diversi accidenti compreso quello della piccolezza. 4.7.2 Fonti e analogie dell’interesse nel Liber per la contraddizione: la tradizione parvipontana L’attenzione che l’autore del De sex principiis sembra nutrire nei confronti del problema della contraddizione suggerisce la possibile continuità tra il Liber stesso e la tradizione logica parvipontana, così definita dal nome del luogo dove i componenti della secta si ritrovavano nei pressi di Parigi (il Petit-Pont; anche il maestro intorno al quale la scuola si era costruita, Adamo di Balsham, viene ricordato come Adamo Parvipontano). La scuola parvipontana, infatti, risulta caratterizzata in modo peculiare da quell’interesse per i problemi delle fallacie e delle loro conseguenze logiche che si sviluppa sistematicamente a partire dall’inizio del XII secolo e che Lorenzo Minio-Paluello identifica come uno dei tratti caratteristici della seconda fase della logica medievale, segnata dalla ricomparsa nel mondo latino di alcuni testi logici aristotelici e delle opere logiche boeziane. La ragione della crescente attenzione verso questo tipo di problematica deve essere probabilmente individuata nella riscoperta e conseguente studio degli Elenchi sofi-

stici di Aristotele (intorno al 1130). Lambertus Marie De Rijk sottolinea, d’altra parte, come proprio la circolazione nell’ambiente latino medievale degli Elenchi dello Stagirita determinò la riscoperta del contributo boeziano sul problema delle fallacie (nel suo commento al De interpretatione e nella sua Introductio ai sillogismi categorici); è interessante notare a questo proposito, in relazione al modo in cui anche il Liber tratta della contraddizione, che Boezio analizzando le forme di argomentazione sofistica si era soffermato sul problema di come le fallacie stesse possano impedire il formarsi di una contraddizione tra termini, producendo un’alterazione del significato dei termini stessi312. L’analisi delle fallacie individuate e discusse sia nelle opere parvipontane sia nel Liber permette di rinvenire un concreto punto di contatto tra la tradizione adamitica e la dottrina del De sex principiis; tale analogia è rappresentata dal problema della natura e comportamento dell’immagine nello specchio che compare nell’Ars disserendi di Adamo di Balsham. Per comprendere la dottrina sviluppata da Adamo di Balsham intorno al problema della natura dell’immagine catottrica è necessario ricostruire la dottrina adamitica sulle categorie nel contesto della quale anche la questione dell’immagine speculare viene trattata313. Il metodo adottato da Adamo per analizzare i diversi predicamenti consiste nell’intendere ciascuna categoria quale risposta ad un certo quesito: che cosa è, di che qualità è, etc. Adamo introduce tale riflessione sulle categorie partendo dalla distinzione tra due modalità di porre domande: quella disciplinalis o percunctativa e quella electiva314, tra di loro opposte315. Un esempio di domanda disciplinalis, che sembra consistere nella questione

posta da uno studioso qualificato e quindi non “arbitraria”316, è ad esempio quid prudentia sit, mentre una domanda electiva è an ipsa virtus sit an non317. La prima, osserva Adamo, può avere molteplici risposte che derivano dall’opinione di colui che risponde, la seconda invece prevede una risposta semplice (sì oppure no)318. Disciplinalis indica così una forma di domanda in cui la risposta è più articolata e complessa; sia l’atteggiamento disciplinalis sia quello electivus rappresentano modalità corrette di interrogazione, sebbene il primo costituisca il fondamento sul quale il secondo si costituisce319. La relazione tra categorie e diverse tipologie di interrogationes viene chiarita da Adamo a partire da pag. 86 dell’edizione Minio-Paluello dell’Ars disserendi; qui Adamo dà una dimostrazione dell’utilità dell’interrogazione electiva in filosofia, portando esempi di domande per ciascuna delle categorie aristoteliche320. Il primo genere di interrogazione (interrogatio primi generis) è illustrata da Adamo attraverso l’esempio della voce: an vox sit corpus; a tale questione gli Stoici, ci informa Adamo, danno risposta positiva, mentre Platone fornisce una risposta negativa321. L’interrogazione del sesto tipo, ovvero relativa alla passione, invece, è esemplificata mediante il riferimento al movimento cosmico; relativamente a tale predicamento, infatti, Adamo formula la domanda an omnia moveantur an nichil; ad essa, chiosa l’autore dell’Ars, Eraclito dà risposta positiva mentre Zenone dà risposta negativa. In Adamo, quindi, le categorie sono ripensate come elementi di una particolare interrogatio, divenendo così metodo di analisi e studio della realtà; gli esempi di domande che l’Ars porta in questi casi, infatti, sono in modo significativo questioni metafisiche, fisiche e teologiche ma anche problemi di retorica (ad esempio l’utili-

tà dell’ars bene dicere, la quale, ricorda Adamo, è sostenuta dai retori e negata dagli Spartani322) o di logica (come ad esempio se mente colui che dice di mentire, una riproposizione del paradosso di Epinomide o del mentitore)323. Adamo sembra anche elaborare una gerarchia delle categorie in base alla rilevanza speculativa delle domande alle quali possono dare origine; il fondatore della scuola di Petit-Pont, infatti, osserva come l’interrogatio secondo la nona e la decima categoria (il situs e l’habere) non abbiano una grande rilevanza filosofica, in quanto le questioni a cui esse danno luogo sono di poca pregnanza (si tratta di problemi quali an stet quod ambulat e an aliquis non habens ferrum armatus sit, ovvero questioni di natura sofistico-eristica324). Adamo complica poi la tassonomia delle diverse forme di interrogationes alle quali le categorie possono essere ricondotte proponendo all’interno delle interrogationes elective una ulteriore dicotomia. A pag. 88 dell’edizione Minio-Paluello, infatti, Adamo introduce all’interno del genere electiva le categorie di questioni initiales ed executivae325; nella prima tipologia di domanda l’oggetto intorno al quale si pone la questione è la stessa categoria (sit aliquid, aliquando, alicubi etc.), mentre nella seconda tipologia la domanda ha un carattere concreto e specifico (sit hoc, hic, nunc etc.). Queste due tipologie di forme interrogative vengono anche distinte in base al numero: le domande initiales sono minori in numero di quelle executivae326. Le domande elective initiales si presentano come insolubilia, i cui due corni sono proposizioni contradditorie, e alcune di esse hanno un carattere aporetico. È all’interno di questa tipologia di domande che Adamo inserisce la discussione sulla natura dello specchio. Nel proporre un esempio di interrogatio initialis sulla categoria dell’ubi, Adamo individua come possibi-

le questione quella sulla natura di ciò che si vede nello specchio, ovvero se si trovi veramente nello specchio ciò che in esso è visto oppure no. Adamo sembra indicare in una risposta positiva la soluzione più probabile a tale questione; una risposta negativa, invece, dipenderebbe, afferma ancora Adamo, dalla teoria per la quale l’acies visus, la forza dello sguardo, di colui che fissa uno strumento catottrico non si trova nello specchio, ma ritorna verso colui che guarda in esso in quanto viene rifratta dalla superficie catottrica stessa327. Sebbene la trattazione del problema nel Liber sia più complessa e rimandi a una differente problematica speculativa (la natura dell’azione e la dottrina per la quale solo le realtà fisiche possono muoversi spazialmente) la questione posta da Adamo di Balsham (ovvero la presenza o meno dell’immagine riflessa nello specchio) e il fatto che ammettere la presenza dell’immagine stessa nello specchio sia una soluzione più semplice (facile estimatur, come dice Adamo328) sembrano suggerire una qualche prossimità su questo punto tra il Liber e l’Ars disserendi329. Si può notare, inoltre, come la dottrina sulle categorie sviluppata da Adamo di Balsham sia del tutto diversa da quella proposta dal Liber. 4.7.3 Fonti e analogie dell’interesse nel Liber per la contraddizione: Abelardo La ricostruzione delle diverse contraddizioni e aporie richiamate dall’autore del De sex principiis, in particolare quelle che compaiono all’interno dell’indagine sulla categoria dell’ubi e sul problema dell’origine del maior et minus, aveva già messo in evidenza l’importanza del retaggio abelardiano anche per quest’aspetto della riflessione del Liber.

Il retaggio di Abelardo, tuttavia, appare centrale anche per quanto riguarda un’altra contraddizione presa in considerazione nel Liber all’interno della categoria dell’ubi: la presenza simultanea di una stessa realtà in più luoghi, così come accade per la vox udita da differenti persone. Nella sua Dialectica Abelardo pone il problema di come la medesima vox possa essere udita da diverse persone, una questione che Abelardo presenta come difficoltà tradizionalmente discussa e analizzata (solet quaeri)330. Abelardo individua due soluzioni per spiegare come questo fenomeno si produca: si può pensare che la vox giunga tutt’intera (simul et tota aequaliter) alle orecchie delle diverse persone, oppure si può ritenere che tale vox “rimanga” presso la bocca di chi la pronuncia e che qui venga percepita dalla forza (acies) dei sensi di quanti ad essa si rivolgono (si tratterebbe, afferma Abelardo, di una sorta di spettacolo visto da lontano al quale assistono diverse persone la cui vista coglie contemporaneamente lo stesso oggetto331). Abelardo precisa però che la sola vista è in grado di cogliere realtà distanti (remota), mentre l’udito può percepire unicamente cose presenti332; prova di tale fatto è quanto dicono Prisciano e Boezio i quali affermano che la voce tocca le orecchie quando essa viene ascoltata (Prisciano) e che tutte le parti della vox sono colte dalle orecchie di persone diverse (Boezio). Inoltre, il fatto che il medesimo suono sia percepito integralmente dalle orecchie di diverse persone sembra confermato, osserva Abelardo, dal fatto che una stessa vox venga percepita prima da una persona che si trova vicina alla fonte della sua emissione e dopo da una che si trova da essa distante e dal fatto che il vento trasporti un certo suono lontano da alcune persone, facendolo percepire più chiaramente ad altre333.

Una simile teoria produce, tuttavia, una difficoltà logica: i corpi non possono essere contemporaneamente in molteplici luoghi, in quanto questa è propriamente la caratteristica degli universali (Abelardo richiama anche il In Categoriis di Agostino a questo proposito); d’altra parte, osserva ancora Abelardo, la vox è una sostanza corporea, non una sostanza spirituale come l’anima che può trovarsi tutta intera nelle molteplici parti del corpo essendo la causa della loro vita e del loro movimento. La vox e l’oratio che da essa dipende (quest’ultima viene veicolata e si fonda sulla vox stessa), pertanto, non possono trovarsi in molteplici luoghi nella totalità delle parti che le compongono. Abelardo elenca alcune soluzioni possibili a tale aporia senza prendere, almeno esplicitamente, posizione per l’una o per l’altra. La prima possibile risoluzione della difficoltà prodotta dalla teoria sulla reale presenza della vox in diversi luoghi è in realtà la riproposizione della prima dottrina analizzata dallo stesso Abelardo nell’indagine sulla costruzione dell’oratio: la non reale percezione plurima e simultanea della medesima vox (si può pensare che il suono emesso rimanga presso la bocca di chi lo proferisce e lì sia percepito da diverse persone mediante i sensi). Una seconda possibile risoluzione dell’aporia discussa è basata da Abelardo su una dottrina fisica la cui fonte viene individuata nel Librum Musicae Artis di Boezio334. Tale soluzione si fonda sulla spiegazione fisica del fenomeno della propagazione del suono; così come quando si getta una pietra in uno stagno si produce una prima onda circolare la quale causa poi una seconda onda, a sua volta capace di originarne una terza e così via sino a che le onde prodotte dall’iniziale caduta del grave nell’acqua non incontrano le rive dello stagno stesso, allo stesso modo si deve spiegare la diffusio-

ne di un suono nell’aria (i verbi usati da Abelardo in questo caso sono percutere e reverberare)335; il contatto tra l’aer prodotta dall’uomo e l’aer esterno permette al secondo di assumere la forma che originariamente l’ictus linguae, l’effetto della fonazione, aveva conferito all’aria inizialmente emessa come vox dall’uomo. In questo modo la vox non è presente essentialiter nelle orecchie delle diverse persone, ma secundum consimilem formam eamdem. Una terza possibile soluzione, infine, consiste nell’affermare che la vox intesa in senso essentialiter o secundum essentiam non è presente nelle aures diversorum in modo egualmente essenziale ma secundum sensum (posizione abbastanza oscura e che Abelardo spiega in porche righe). La medesima questione è discussa nella Logica ingredientibus336. Qui Abelardo però sviluppa la problematica in modo molto più veloce e semplice dichiarando subito (senza nemmeno discutere le soluzioni alternative) la sua posizione: l’udito può agire unicamente su dati presenti al suo sensorio, ovvero le orecchie (come dimostra il fatto che il vento facilita o impedisce la percezione di un suono), ma tale presenza si produce mediante la trasmissione della forma attraverso le porzioni di aria, la prima delle quali è quella uscita dalla bocca di chi proferisce la vox. Come si può vedere la discussione abelardiana sull’aporia della presenza della medesima realtà in diversi luoghi (come accade nel caso della eadem vox nelle molteplici aures di persone diverse) è molto simile alla contraddizione analizzata nei paragrafi 51 – 53 del quinto capitoletto del Liber; colpisce in particolare la profonda analogia tra l’esposizione del paradosso compiuta da

Abelardo e la sua presentazione nel Liber. Significativa testimonianza della possibile dipendenza del Liber da Abelardo su questo punto è anche il riferimento, presente nel Liber, alla relazione tra presenza delle voces ed essere animati. Nel presentare la propria (confusa) soluzione alla contraddizione logica individuata, l’autore del De sex principiis afferma che ogni vox e quindi ogni espressione significativa o meno deve derivare dagli animales; nella Logica ingredientibus, d’altra parte, Abelardo afferma che: Nam licet unaquaeque uox certificare possit suum prolatorem animal esse337. Il Liber sviluppa una soluzione dell’aporia solo in parte differente da quella abelardiana; il De sex principiis, infatti, introduce il concetto di una presenza ymaginabiliter della vox nelle diverse orecchie di coloro che la percepiscono per concludere, come fa anche Abelardo, che la reale presenza della eadem vox in plures aures non si può dare338.

5. Conclusione: per una attribuzione del Liber sex principiorum L’analisi comparata tra il contenuto del Liber sex principiorum e il corpus dei testi più significativi per lo sviluppo della riflessione logico-filosofica tra XI e XII secolo (dalla tradizione aristotelico-boeziana a quella delle enciclopedie tardo-antiche, alle opere della scuola di Chartres) permette di indicare con più precisione le analogie dottrinali e le continuità teoriche che pongono in relazione lo stesso De sex principiis con diverse tradizioni e scuole filosofiche.

5.1 Il Liber e la tradizione enciclopedica tardo-antica Un primo dato che si può ricavare da tale studio comparato è la limitata influenza sul Liber delle dottrine logiche contenute negli scritti di Marziano, Cassiodoro, Isidoro, Macrobio; riferimenti chiaramente riconducibili ai compendi della teoria aristotelica delle categorie inseriti nelle enciclopedie tardo-antiche, che pure come nota Lorenzo Minio-Paluello avevano continuato a rappresentare sino al IX secolo strumenti importanti per la formazione logica nel Medioevo latino, sono rari nel Liber. Nel De sex principiis, infatti, l’unico passo che possa essere interpretato come rimando ai capitoli logici delle Etymologiae è quello con il quale si chiude la trattazione sulla positio339. La dottrina qui esposta dall’autore, secondo la quale la positio costituisce tra le varie “forme aggiunte” quella più prossima alla sostanza, può ricordare un’osservazione di Isidoro sulla tassonomia delle categorie in base alla loro relazione con la sostanza; come visto, infatti, Isidoro definisce quali predicamenti intra usiam la quantitas, la qualitas e il situs, conferendo in questo modo al situs stesso (la positio di cui parla il Liber) una peculiare relazione con la dimensione della sostanza340. Si deve comunque ricordare che Isidoro dipende su questo punto dalle Categoriae decem, anch’esse fonte con ogni probabilità direttamente conosciuta e utilizzata dall’autore del De sex principiis. Più chiaro, invece, sembra essere il riferimento di un passo del Liber al commentario macrobiano al Somnium Scipionis. Trattando dei verbi passivi, come secari, Macrobio osserva infatti che in tali forme verbali è presente un riferimento sia a colui che agisce sia a colui che patisce, in quanto colui che subisce un’azione rimanda necessariamente a colui che la compie. Non si dà, invece, reale passione benché si utilizzi un verbo passivo,

osserva ancora Macrobio, quando si dice che l’anima è mossa da sé; in questo caso, infatti, colui che agisce e colui che patisce rappresentano il medesimo soggetto, sicché senza una reale dualità tra faciens e patiens non si produce nemmeno vera passività341. In modo analogo, il Liber, dopo aver introdotto la dottrina secondo la quale ogni azione produce una corrispondente passione, aggiunge alcune riflessioni sull’azione che si produce dall’azione, parlando di quell’agire che deriva dall’agire di un altro essere animato; in questo passaggio l’autore del De sex principiis introduce, quindi, il problema della natura dell’azione che deriva da un precedente fenomeno autocinetico proprio di quelle res che possiedono in sé il principio del loro movimento342. Sebbene altri testi, tardo-antichi e alto-medievali, contengano riflessioni intorno alla relazione tra verbi passivi e attivi e sebbene la riflessione macrobiana verta direttamente sull’autocinetismo dell’anima (termine esplicitamente impiegato dal dotto latino), mentre il Liber si concentra sull’azione che è prodotta da una precedente azione di una realtà autocinetica (per se movetur), il testo macrobiano appare come una possibile fonte per l’analisi del De sex principiis (e di certo come il candidato più probabile a questo ruolo fra le opere esaminate). 5.2 Il Liber e Abelardo Il dato più significativo che emerge dallo studio comparato tra il Liber sex principiorum e gli scritti presi in considerazione, tuttavia, è la continuità dottrinale tra il Liber stesso e due tradizioni dottrinali: quella aristotelico-boeziana e quella abelardiana. Nonostante le molteplici differenze tra il contenuto del Liber e la dottrina dello Stagirita sulle categorie, differenze che già alcuni studiosi medievali avevano indivi-

duato concludendo per la non paternità aristotelica dell’opera343, l’autore del De sex principiis riprende dalla lezione di Aristotele mediata da Boezio molti degli elementi dottrinali inseriti nella propria trattazione, quali il tema dell’invariabilità della forma, della relazione tra posito e qualità, la distinzione della predicazione in subiecto e de subiecto solo per citare alcuni casi. Significativa appare anche la presenza, in alcuni passaggi del Liber, di analogie con opere che riprendono le dottrine aristoteliche rielaborandole in modo spesso cospicuo; centrale fra questi scritti sono le Categorie decem. La continuità tra la parafrasi temistiana e il De sex principiis, tuttavia, appare abbastanza significativa solamente per la tassonomia delle diverse categorie nel loro rapporto con la sostanza. Il dato centrale che pare emergere dallo studio comparato tra Liber e le diverse opere prese in considerazione, in ogni caso, è il forte rapporto tra il Liber stesso e la logica abelardiana. Diverse sono le dottrine sviluppate nel De sex principiis che manifestano una prossimità rispetto alla filosofia abelardiana: la definizione del quando, le indicazioni sulla categoria dell’avere, la spiegazione del magis et minus, e anche l’attenzione per i fenomeni della contraddizione logica e del paradosso quali strumenti della ricerca argomentativa rivelano una significativa continuità e, in certi casi, una vera e propria identità con il pensiero di Abelardo. La stessa presenza all’interno del Liber di numerosi elementi dottrinali che appaiono ripresi direttamente dalle opere aristoteliche e boeziane sembra, d’altra parte, confermare la prossimità tra il Liber stesso e il pensiero abelardiano. Le opere aristoteliche che formavano il corpus della logica vetus unitamente ai commenti e alle opere originali di Boezio, infatti, hanno costituito le fonti

con le quali Abelardo ha sempre dialogato e alle quali si è sempre richiamato nella sua attività di ricerca nel campo della dialettica; l’attenzione che l’autore del De sex principiis manifesta per gli scritti logici originali dello Stagirita e di Boezio, e lo scarso utilizzo delle altre fonti alto-medievali dell’indagine dialettica (quale ad esempio le Categoriae decem che, benché impiegate nel Liber, non divengono per questo opuscolo una fonte sistematicamente sfruttata) può suggerire una certa continuità tra il Liber stesso e l’orizzonte teorico abelardiano. Le analogie tra il Liber sex principiorum e Abelardo erano state notate, d’altra parte, anche da Lorenzo Minio-Paluello che nella sua edizione e studio del Liber aveva sottolineato come alcune dottrine abelardiane potessero essere avvicinate, in positivo e in negativo, a quanto detto nel De sex principiis344. Anche Osmund Lewry, riprendendo le indicazioni di Lorenzo Minio-Paluello e approfondendo lo studio del Liber, osserva come in due manoscritti, uno ora conservato a Berlino (MS lat. F. 624, ff. 81ra-87vb) e l’altro, invece, presente nella biblioteca universitaria di Padova (MS Biblioteca Universitaria 2087, ff. 1ra-48vb) si possano trovare interessanti riferimenti al Liber che sembrerebbero suggerire una sua relazione con l’ambiente abelardiano. Il secondo manoscritto, che probabilmente, osserva Lewry, viene dalla stessa area (l’Italia centro-settentrionale o forse Bologna) nella quale Lorenzo MinioPaluello individuava l’origine dei codici con le prime testimonianze del Liber, manifesta alcune analogie con il De sex principiis stesso; anche il manoscritto berlinese reca secondo Lewry riferimenti al contenuto del Liber. Nonostante alcune differenze tra i due documenti, Lewry sottolinea le analogie strutturali che li rendono simili e che sembrano rimandare alla tradizione logica

abelardiana, in particolare per quanto riguarda la definizione del quando ma anche per quella del dove, della posizione e dell’avere. In entrambi i manoscritti, inoltre, compaiono anche espliciti rimandi all’insegnamento sia di Pietro Abelardo sia di Alberico de Monte. Lewry ritiene, quindi, basandosi su alcuni dettagli presenti nei due manoscritti (come il riferimento alla pietra pomice, pietra vulcanica tipica del meridione d’Italia, il riferimento al marcale come unità di misura che richiama il peso di monete d’oro tipiche del sud della Penisola, e soprattutto il confronto proposto dal manoscritto patavino tra il sextarius di Parma e l’unità di misura propria di Parigi), che i due documenti nei quali si trovano elementi dottrinali del Liber facciano riferimento all’insegnamento di un pensatore francese in Italia; Lewry ipotizza così che il manoscritto berlinese e quello patavino rechino tracce dell’insegnamento di Alberico de Monte a Bologna e la loro produzione sia collocabile intorno agli anni 1140-1150. 5.3 Il Liber e la tradizione porretana Le significative analogie e gli indizi che suggeriscono una appartenenza del Liber all’area dottrinale abelardiana consentono al tempo stesso anche di criticare i tentativi di attribuzione del Liber stesso all’area porretana. Lorenzo Minio-Paluello mette in luce come probabilmente la prima attribuzione del Liber all’ambiente porretano si possa trovare in Rolando da Cremona, primo maestro domenicano a Parigi il quale identifica la causa efficiente dell’opera in un Porretanum (forse Gilberto stesso, forse semplicemente un autore che appartiene alla scuola porretana). Rolando contesta in questo modo l’attribuzione del De sex principiis ad Aristotele (proposta invece nella prima opera nella quale, secondo

Lorenzo Minio-Paluello, si parla del Liber: un anonimo commento alle Categorie scritto in area nord-italiana nel XII secolo), sebbene non fornisca ulteriori indicazioni in merito. Lorenzo Minio-Paluello, d’altronde, sottolinea come Rolando sembri indicare l’orizzonte dottrinale porretano come causa efficiente non facendo riferimento alla totalità dell’opera, ma analizzando unicamente la dottrina della forma, con la quale si apre l’opuscolo e che lo stesso Rolando critica. È, invece, Alberto Magno che attribuisce chiaramente la paternità del Liber a Gilberto Porretano, sebbene non giustifichi tale decisione e non faccia riferimento al problema del reale autore dell’opuscolo, già ampiamente discusso tra XII e XIII secolo. La paternità gilbertina del Liber sex principiorum viene poi ripresa da Giovanni di Sackville (il quale fa riferimento a un Gilbertus peripateticus come autore dell’opera, indicazione forse dovuta ad un errore del copista per Gilberto Porretano345) e da Walter Burley che dipende probabilmente direttamente da Alberto in questo punto. L’identificazione della causa efficiente del Liber sex principiorum con Gilberto Porreta, tuttavia, diviene definitiva solo con l’editio princeps di parte del corpus logico latino del secondo Medioevo; Ressinger, dando alle stampe a Napoli tra il 1475 e il 1478 tale editio, univa al Liber il commento di Alberto Magno nel quale il Liber stesso era indicato come opera sicuramente gilbertina. Ressinger riprendeva l’indicazione albertina e asseriva già nel titolo della sezione contenente il De sex principiis che l’opera era del Porreta. Tale attribuzione venne definitivamente sancita dall’opera di Ermolao Barbaro che tradusse il Liber in un latino più elegante e meno incomprensibile, attribuendolo esplicitamente a Gilberto Porreta (questa traduzione del De sex principiis entrò poi nel Migne)346.

La ricostruzione del percorso che ha portato all’attribuzione del Liber sex principiorum a Gilberto Porreta mostra come tale indicazione di paternità non si sia mai fondata su precisi dati documentali o su un accurato studio dell’intero contenuto dell’opera, ma derivi piuttosto da una scelta di Rolando da Cremona, poi ripetuta da Alberto Magno senza ulteriori spiegazioni (non si può dire se accogliendo l’indicazione dello stesso Rolando oppure in maniera indipendente) e consacrata infine dall’edizioni a stampa (dipendenti in questo dallo stesso Alberto Magno). Tale ricostruzione, d’altra parte, permette anche di comprendere meglio le ragioni dell’attribuzione dell’opera all’ambiente porretano in Rolando da Cremona; Rolando, infatti, avanza l’ipotesi di una derivazione dell’opera da Porreta in riferimento non alla totalità del Liber, ma ad una peculiare dottrina contenuta nello scritto, ovvero a quella della forma come essenza invariabile347. Proprio le teorie della forma e del substantiale, esposte nel primo capitolo del Liber, rappresentano, infatti, due dei pochi elementi dottrinali dell’opera che possono essere interpretati come testimonianze abbastanza chiare di una dipendenza del Liber stesso dalla tradizione speculativa porretana. La ricostruzione comparata della dottrina del De sex principiis ha messo in evidenza come la teoria della forma quale elemento dotato di un certo potere ontologico compaia negli scritti gilbertini e in quelli della scuola porretana; in questo senso molto interessante è la presenza nel Compendium logicae porretanae di un utilizzo sostantivato del termine substantialis al neutro (substantiale) del tutto identico a quello riscontrabile anche nel sesto paragrafo del De sex principiis (un utilizzo che non ha altre corrispondenze nei testi logici dell’XI e XII secolo sinora pubblicati). Un secondo elemento dottrinale che rimanda alla speculazione gilbertina è la dottrina della creazione degli individui concreti e del ruolo degli

universali, così come essa può essere ricostruita a partire dalle oscure indicazioni contenute nei paragrafi dall’ottavo al decimo del primo capitolo del Liber. La terminologia impiegata (coniunctio, constitutio, communitas) e il tono generale della dottrina sviluppata in quel passaggio, infatti, sembrano rimandare alla teoria gilbertina dell’unione di diverse forme come causa della creazione delle res individuali, uniche e determinate. Un terzo passaggio del Liber che sembra rimandare all’orizzonte filosofico porretano anche se in negativo, infine, è la dottrina sulla relazione causale tra astratto e concreto all’interno delle diverse categorie, esposta a partire dal paragrafo 25 del secondo capitolo del testo. Se il Compendium logicae porretanae, infatti, parla di una derivazione delle determinazioni concrete da quelle astratte, l’autore del De sex principiis afferma che in tutti i predicamenti ogni determinazione astratta deriva dalla sua corrispondente espressione concreta, rovesciando così la posizione del Compendium; ciò che rende particolarmente interessante la relazione tra i passi in questione del Liber e del Compendium è la pressoché identica strutturazione del periodo e la similitudine nei termini impiegati. Sia il Liber che il Compendium, inoltre, uniscono l’indagine sulla relazione causale tra i diversi livelli logici con una riflessione intorno ai meccanismi della generazione e corruzione. La corretta interpretazione di tali elementi dottrinali che sembrano attestare una influenza porretana sul Liber, tuttavia, richiede di tenere presenti alcuni fattori. Bisogna ricordare, innanzitutto, che riferimenti ad una dottrina della forma substantialis erano presenti non solo nelle opere porretane ma anche in quelle abelardiane, le quali in alcuni punti utilizzano tale lessico speculativo. In secondo luogo il Liber sembra riprendere la dottrina sulla relazione causale dei differenti livelli logici del Compendium per confutarla, sostituendo all’impostazione

“platonica” di quello scritto un atteggiamento logico fondato sul primato del concreto. A questo proposito bisogna ricordare come le analogie viste da Lorenzo MinioPaluello tra la dottrina della forma nel Liber e i primi paragrafi del De arte fidei di Nicola d’Amiens, autore legato anche se indirettamente alla tradizione porretana (attraverso la mediazione di Alano di Lilla al quale il De arte fu in un primo momento attribuito) vennero considerate da Osmund Lewry deboli e di poco interesse348. L’elemento dottrinale del Liber che rimanda con una certa chiarezza all’orizzonte porretano è quello relativo alla dottrina della creatio del concreto mediante l’unione di diversi fattori; tale lettura del passo del De sex principiis in questione pare legittimata da alcune analogie lessicali, benché l’esatto significato dell’intero passaggio del Liber risulti di non facile ricostruzione. 5.4 Tentativo di bilancio Il problema della corretta interpretazione dottrinale e dell’attribuzione del Liber sex principiorum è reso di non facile soluzione dall’oscurità dell’opera, nella quale vengono elaborate teorie spesso peculiari in un latino difficile e sgraziato, e dalla complessità del panorama filosofico dell’XI e XII secolo. L’analisi comparata tra il Liber e le diverse opere logiche e filosofiche prese in considerazione, tuttavia, permette di individuare una significativa prossimità tra la logica di Abelardo, con il suo retaggio aristotelico-boeziano, e la riflessione del Liber stesso. Oltre alla presenza nel Liber di puntuali riferimenti alle opere e ad alcune dottrine abelardiane, la prossimità tra il De sex principiis e la dialettica di Abelardo appare confermata dalla generale impostazione logica che traspare dalla trattazione delle sei categorie minori nel

Liber stesso. L’autore del De sex principiis, infatti, sembra sviluppare innanzitutto una dottrina degli universali che è compatibile con la teoria logica abelardiana; sia nell’ottavo paragrafo del primo capitolo sia nel ventisettesimo paragrafo del secondo capitolo il Liber sviluppa una dottrina dei termini universali nella quale questi sono derivati e dipendenti dal dato concreto-singolare che agisce come loro causa e origine. Si tratta di una impostazione logica maggiormente aderente all’originale teoria aristotelica e boeziana che Abelardo recupera nella sua dottrina dell’universale come status. La prossimità tra Abelardo e il Liber è testimoniata, inoltre, dall’impiego da parte dell’autore del De sex principiis, in alcuni punti, di un lessico abelardiano come dimostrano la presenza nel Liber di espressioni quali impositio e vox, impiegate in contesti fortemente dipendenti dalle posizioni abelardiane (come la dottrina del magis et minus). Gli elementi dottrinali del Liber che possono essere interpretati come tracce di influenze dottrinali porretane, invece, risultano per certi versi ambigui e di difficile interpretazione. La presenza di elementi abelardiani e porretani nel Liber potrebbe suggerire l’ipotesi secondo la quale, così come pensava Lorenzo Minio-Paluello, il Liber rappresenti l’estratto di un’opera più complessa nella quale si trattavano diverse questioni, di natura non solo logica ma anche metafisica. L’autore del De sex principiis, quindi, forse ha cercato di operare una sintesi fra diverse sectae (facendo riferimento innanzitutto a Porreta e ad Abelardo, le personalità più importanti nel panorama filosofico tra XI e XII secolo); la componente abelardiana venne impiegata come fonte centrale per la parte logica dell’opuscolo (quella che inizia con la discussione del predicamento dell’azione), mentre la dottrina della

forma sarebbe stata ripresa da una tradizione speculativa maggiormente attenta all’indagine metafisica come quella porretana (la dottrina della forma sviluppata nel Liber, d’altronde, risultava non del tutto estranea alla riflessione logica di Abelardo). L’autore del De sex principiis, quindi, si rifece ad Abelardo per la propria dottrina delle categorie e per la più generale impostazione logica dell’opera e riprese la dottrina della forma (solo accennata negli scritti logici abelardiani) dalle opere porretane (in particolare il Compendium logicae porretanae) e da Gilberto stesso, correggendone dove necessario l’impostazione logica “platonica”349. Abelardo appare in ogni caso come la fonte più importante del Liber dalla quale il suo autore riprende oltre che alcune dottrine particolari una più generale impostazione logica di natura meno realista e più marcatamente nominalista. Al termine di questa introduzione non posso non ringraziare le persone alle quali sono in vario modo debitore per la realizzazione di questo lavoro. Innanzitutto la prof.ssa Maria Bettetini che mi ha incoraggiato a studiare il Liber sex principiorum, guidandomi con preziosi consigli e indicazioni. Il prof. Giovanni Reale che mi ha dato la possibilità di pubblicare i risultati della mia ricerca presso i tipi della Bompiani. La prof.ssa Paola Müller che ha letto le prime bozze dell’introduzione con grande pazienza e competenza, fornendomi un importante aiuto nella correzione del lavoro. Il prof. John Marenbon per la cordiale ospitalità offertami a Cambridge durante il periodo conclusivo del mio dottorato e per il seminario da lui organizzato presso il Trinity college sull’origine del Liber sex principiorum. Il prof. Giulio D’Onofrio per le osservazioni e l’aiuto offertomi durante le prime fasi del lavoro, nonché il dott. Luigi Catalani per le indicazioni bibliografiche su Gilberto Porreta e la scuola porretana. Un ringraziamento, infine, va ai miei famigliari e alle persone care per la loro presenza e il loro sostegno. La responsabilità del lavoro e di quanto ho scritto, naturalmente, resta unicamente mia.

NOTE ALL’INTRODUZIONE

1 Nel corso di questa introduzione mi servirò ugualmente sia della dizione Liber sex principiorum sia delle dizioni Liber de sex principiis e De sex principiis, sebbene la prima formula appaia quella più antica e filologicamente preferibile in base all’edizione critica dell’opuscolo realizzata da Lorenzo Minio-Paluello; cfr. Anonymi Fragmentum, vulgo vocatum «Liber sex principiorum», in Aristoteles, Aristoteles latinus I. 6 – 7: Categoriarum supplementa: Porphyrii Isagoge translatio Boethii et Anonymi Fragmentum vulgo vocatum «Liber sex principiorum», Bruge-Paris, Desclee de Brouwer, 1966, (d’ora in poi citato solo come Liber). 2 Il Liber sex principiorum ha suscitato reazioni diverse nei critici ed è stato anche giudicato con una certa severità; cfr. L. MinioPaluello, «Magister sex principiorum», in L. Minio-Paluello, Opuscola. The latin Aristotle, Amsterdam, Adolf M. Hakkert, 1972, pag. 562. 3 Cfr. L. Minio-Paluello, «Magister sex principiorum», cit., pag. 536. 4 Cfr. P. Porro, «Ex adiacentia temporis»: Egidio Romano e la categoria «quando», in «Documenti e Studi sulla tradizione filosofica medievale» II/1 (1991), pagg. 147 – 181, pag. 147 (cfr. anche nota 1). 5 Ibidem. 6 Ibidem. 7 Cfr. E. Grant, The concept of ubi in Medieval and renaissance discussions of place, in «Manuscripta» XX/1 (1976), pagg. 71 – 80, pag. 72. 8 Cfr. Liber V, 48, 8 – 9. 9 Cfr. E. Grant, The concept of ubi, cit., pag. 73. 10 Cfr. E. Gilson, La philosophie au moyen âge, Pavot, Paris, 1952 (trad. italiana: E. Gilson, La filosofia nel Medioevo. Dalle origini patristiche alla fine del XIV secolo, a cura di M. Dal Pra, M. A. del Torre, M. Beonio Brocchieri Fumagalli, Firenze, La Nuova Italia, 1992, pag. 318). 11 L. Minio-Paluello, «Magister sex principiorum», cit.

12 Minio-Paluello osserva come le ultime venti righe del Liber, riportate nelle edizioni critiche di Heysse e di Van den Eynden, consistano esclusivamente di una serie di citazioni dal De generatione et corruptione aristotelico e rappresentino, quindi, materiale estraneo al Liber stesso. L’analisi dei manoscritti compiuta da Paluello mostra, inoltre, come gli excerpta dal De generatione siano stati inseriti al termine del testo del Liber, nei margini inferiori del foglio e nello spazio bianco tra la conclusione del Liber stesso e l’inizio dei Topici aristotelici copiati insieme al De sex principiis nei codici più antichi. Paluello, quindi, ipotizza che il possessore di uno dei primi manoscritti del Liber avesse inserito dopo l’opera alcune citazioni dal De generatione e che esse, benché senza una precisa relazione con il contenuto del Liber medesimo e forse per ragioni puramente estrinseche (il fatto che nel finale del Liber e nella prima citazione dal testo aristotelico fosse presente lo stessa lemma, ovvero impossibile), nel corso del tempo siano divenute parte dello scritto sulle sei categorie. Cfr. L. Minio-Paluello, «Magister sex principiorum», cit., pagg. 548-459. 13 Cfr. L. Minio-Paluello, «Magister sex principiorum», cit., pagg. 547-549. 14 Cfr. L. Minio-Paluello, «Magister sex principiorum», cit., pag. 563; pagg. 537-538. 15 Le sei categorie aristoteliche “minori”, allora, non rappresenterebbero l’autentico tema del Liber, bensì l’oggetto solamente di alcune parti di un’opera di maggiore respiro, separate dallo scritto originario per formare un nuovo testo. 16 L. Minio-Paluello, «Magister sex principiorum», cit., pag. 537, pag. 562 17 Cfr. S. Ebbesen, Ancient scholastic logic as the source of medieval scholastic logic, in N. Kretzmann, A. Kenny, J. Pinborg, (eds.) The Cambridge History of Later Medieval Philosophy. From the Rediscovery of Aristotle to the Disintegration of Scholasticism, (1100 – 1600), Cambridge, Cambridge University Press, 1982, (traduzione italiana a cura di P. Fiorini dalla quale si cita: S. Ebbesen, La logica scolastica dell’antichità come fonte della scolastica medievale, in N. Kretzmann, A. Kenny, J. Pinborg, La logica nel Medioevo, Milano, Jaca Book, 1999, pag. 1 sgg.). 18 Cfr. S. Ebbesen, La logica scolastica dell’antichità, cit., pag. 8. 19 Paluello nota come, per una curiosa circostanza, le Categorie aristoteliche siano state conosciute in Occidente prima attraverso una versione mista, elaborata a partire da una traduzione spuria e

successivamente rivista sul testo greco, e poi mediante una traduzione filologicamente più corretta: la vulgata mista del testo aristotelico sembra, infatti, il prodotto di una tradizione già sviluppatasi della quale, però, non si ha traccia; cfr. L. Minio-Paluello, Note sull’Aristotele latino medievale, in «Rivista di filosofia neo-scolastica» LIV (1962), pagg. 131-147, pag. 141. 20 Cfr. L. Minio-Paluello, Nuovi impulsi allo studio della logica: la seconda fase della riscoperta di Aristotele e Boezio, in La scuola nell’Occidente latino dell’alto medioevo, Settimane di studio del centro italiano di studi sull’alto Medioevo, 15-21 Aprile 1971, II voll., Spoleto, Presso la sede del centro, 1972, II vol., pagg. 743-766, pagg. 745 – 747. 21 Cfr. L. Minio-Paluello, Nuovi impulsi allo studio della logica, cit., pag. 746. 22 Cfr. S. Ebbesen, La logica scolastica dell’antichità, cit., pag. 6. 23 Cfr. L. Minio-Paluello, Nuovi impulsi allo studio della logica, cit., pag. 747. 24 Va ricordato, inoltre, come Cassiodoro avesse tratto da Boezio le dottrine poi esposte nelle Institutiones, contribuendo così alla diffusione di un lessico boeziano prima della effettiva affermazione della tradizione aristotelico-boeziana in ambiente alto medievale. 25 Cfr. L. Minio-Paluello, Note sull’Aristotele latino medievale, cit., pagg. 137-139. 26 Cfr. L. Minio-Paluello, Note sull’Aristotele latino medievale, cit., pag. 139. 27 Cfr. Pseudo-Augustini paraphrasis themistiana, in Aristoteles, Arisoteles latinus 1.1-5., Categoriae vel Praedicamenta: translatio Boethii, editio composita, translatio Guillelmi de Moerbeka, Lemmata e Simplicii commentario decerpta, Pseudo-Augustini paraphrasis themistiana, ed. L. Minio-Paluello, Leiden, Brill, 1961, Prefazione (d’ora in poi citata come Categoriae decem). I titoli più antichi dell’opera che si possono trovare in alcuni manoscritti (come Tractatus...de cathegoriis Aristotelis o Cathegoriae Augustini) appaiono più corretti e attendibili di quelli successivi, compreso il titolo della prima edizione a stampa uscita a Basilea nel 1505-6 (Dialectica Augustini). 28 Cfr. L. Minio-Paluello, Note sull’Aristotele latino medievale, cit., pagg. 140 – 141. 29 Ibidem. 30 I centri che per primi cominciarono a possedere e utilizzare i

materiali aristotelici come testi base per l’apprendimento della logica sono Chartres, Fleury, San Gallo, e successivamente Corbie, Montecassino, Epternach oltre a pochi altri. 31 Si tratta di un frammento autenticamente agostiniano redatto intorno al 387; lo scritto doveva fare parte probabilmente di un progetto di introduzione alle arti liberali che l’Ipponate non completò mai. Il testo si segnala per la presenza di interessanti dottrine di origine stoica sull’ambiguità dei termini. 32 Cfr. L. Minio-Paluello, Note sull’Aristotele latino medievale, cit., pag. 145. 33 Lorenzo Minio-Paluello nota che il codice in cui queste opere entrarono nel mondo occidentale verso la fine del X secolo è di origine costantinopolitana, come testimoniano i riferimenti, conservati alla fine di alcuni manoscritti in esso contenuti, allo scrittorio che aveva copiato quei testi; forse, quindi, i trattati boeziani ritornano in Occidente attraverso l’Oriente bizantino (nel quale erano penetrati probabilmente già quando Boezio era in vita). 34 Cfr. L. Minio-Paluello, Nuovi impulsi allo studio della logica, cit., pagg. 760 – 763. 35 Benché il mondo medievale abbia identificato questa figura con Alessandro di Afrodisia (vissuto nel III secolo d. C.) è più probabile che la paternità dell’opera debba essere attribuita ad un altro autore. Il commento di Alessandro agli Analitici secondi è molto simile a quello di Filopono (V – VI sec. d. C.) e forse è una sua compilazione tarda, mentre il commento agli Elenchi mostra alcune somiglianze con quello di Michele di Efeso, contemporaneo di Giacomo Veneto e forse fu preparato dallo stesso Giacomo unendo ad altre fonti proprio i materiali degli scoli di Michele. Un’altra ipotesi è che il commento in questione sia stato realizzato tra il X e il XII secolo ma utilizzando materiali del VI secolo. Cfr. S. Ebbesen, La logica scolastica dell’antichità, cit., pag. 10. Cfr. anche L. Minio-Paluello, Note sull’Aristotele latino medievale, cit., pagg. 134 sgg.; Paluello è convinto che l’attribuzione ad Alessandro di Afrodisia possa essere difesa argomentando che i commenti di Filopono spesso facevano uso di materiali precedenti senza citarne la fonte. 36 Cfr. L. Minio-Paluello, Note sull’Aristotele latino medievale, cit., pagg. 143-144. 37 Cfr. S. Ebbesen, La logica scolastica dell’antichità, cit., pag. 26. 38 Cfr. L. Minio-Paluello, Note sull’Aristotele latino medievale, cit., pag. 143.

39 Sulla struttura dell’opera e la sua natura cfr. L. Minio-Paluello, «Magister sex principiorum», cit., pagg. 547-552; le questioni relative all’origine del Liber e al suo autore, individuate da Paluello, verranno discusse più avanti durante l’analisi critica del Liber stesso al fine di definirne paternità e collocazione storica. 40 Cfr. Liber I, 1,1 – 2. 41 Cfr. Liber I, 2, 7 – 10. 42 Cfr. Liber I, 3, 10 – 4, 16. 43 Cfr. Liber I, 5, 4 – 5. 44 Cfr. Liber I, 6, 7 – 13. 45 Cfr. Liber I, 7, 14 – 20. 46 Cfr. Liber I, 8, 21 – 24. 47 Cfr. Liber I, 9 – 10, 3 – 10. 48 Sulla struttura del Liber e sulla scelta di introdurre in questo punto il tema dello scritto cfr. ancora L. Minio-Paluello, «Magister sex principiorum», cit., pag. 547. 49 Cfr. Liber I, 14, 6 – 7. 50 Cfr. Liber I, 15, 8 – 10. 51 Cfr. Liber VI, 60, 14. 52 Cfr. Liber V, 48, 8. 53 Cfr. Liber IV, 33, 1. 54 Cfr. Liber VII, 69, 11. 55 Cfr. Liber II, 26, 14 – 15. 56 Cfr. Liber II, 20, 9 – 11. 57 Cfr. Liber II, 22, 18 – 21. 58 Cfr. Liber II, 25, 9 – 10. 59 Cfr. Liber VI, 60, 14 – 18; 61, 2 – 4 e 7 – 8; 68, 6. 60 Cfr. Liber II, 26,16 – 20. 61 Cfr. Liber II, 26,14 – 16. 62 Cfr. Liber II, 28, 3 – 7. 63 Cfr. Liber II, 16, 15 – 18, 24. 64 Cfr. Liber II, 19, 4 – 8. 65 Cfr. Liber II, 21, 14 – 22, 21. 66 Cfr. Liber II, 23, 22 – 24, 8.

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Cfr. Liber II, 27, 20 – 2. Cfr. Liber III, 29, 10 – 30, 13. 69 Cfr. Liber III, 31, 19 – 32, 22. 70 Cfr. Liber III, 31,14 – 15. 71 Cfr. Liber III, 31, 15 – 19. 72 Cfr. Liber III, 29, 9 – 11. 73 Cfr. Liber IV, 33, 1 – 2. 74 Cfr. P. Porro, «Ex adiacentia temporis», cit., pag. 156, nota 31. 75 Cfr. Liber IV, 33, 4 – 5. 76 Cfr. Liber IV, 34, 5 – 6; 34, 8 – 9. 77 Cfr. Liber IV, 36, 12 – 37, 25. 78 Cfr. Liber IV, 39, 10 – 11. 79 Cfr. Liber IV, 33, 2. 80 Cfr. Liber IV, 42, 20 – 3. 81 Cfr. Liber IV, 46, 18 – 19. 82 Cfr. Liber IV, 46, 21 – 3. 83 Cfr. Liber IV, 35,10 – 11. 84 Cfr. Liber IV, 38,1 – 3. 85 Cfr. Liber IV, 39, 5 – 8. 86 Cfr. Liber IV, 43, 4 – 45, 17. 87 Cfr. Liber V, 48, 8 – 9. 88 Cfr. Liber V, 54, 7. 89 Cfr. Liber V, 48, 10 – 12. 90 Cfr. Liber V, 55, 8 – 9. 91 Cfr. Liber V, 55, 9 – 15. Il luogo, infatti, è ciò che contiene un certo corpo; poiché oltre il limite estremo della sfera celeste non si dà altra realtà non esiste nemmeno qualcosa che possa contenere il limite stesso e, quindi, conferirgli natura locale. L’unica possibilità, asserisce il Liber, per affermare che l’estremità della sfera celeste sia in un luogo è ammettere che esista qualcosa d’altro oltre il limite del cielo il quale agisca come corpo contenente del cielo stesso; poiché, tuttavia, tale possibilità non si dà (poiché tutto è contenuto all’interno del limite ultimo della sfera celeste e nulla si dà oltre ad essa) allora il cielo non è in un luogo. La principale difficoltà grammaticale presentata dal passaggio in questione è l’utilizzo del termine idem per indi68

care l’extremitas spere di cui parla, nella riga precedente, il testo del Liber; idem è, infatti, come si evince dalla preposizione extra con la quale idem è chiaramente unito, un accusativo neutro singolare, mentre sia extremitas che spera sono termini femminili. La scelta di riferire ciononostante idem a extremitas spere è giustificata dalla intelligibilità che in questo modo il passaggio del De sex principiis acquisisce: individuando nell’estremità della sfera celeste il soggetto del periodo e dell’intera riflessione del Liber, il passo in questione si risolve in una chiara ripresa del problema del luogo del cielo e del suo limite, del tutto compatibile con la grammatica del testo. A tale proposito bisogna ricordare come la precedente edizione critica del Liber non riporti in queste righe dell’opera l’espressione idem quale pronome che funge da soggetto del discorso bensì la locuzione ea (con la formula extra eam all’inizio della parte dedicata allo discussione del problema della relazione tra sfera celeste e luogo; cfr. Gilbertus Porretanus, Liber de sex principiis, ed. D. Van den Eynde, Monasterii Westfalorum, Aschendorff, 1953, pag. 23, 6); la struttura grammaticale del passo diviene in questo modo del tutto compatibile con l’attribuzione all’extremitas spere della funzione di soggetto del passaggio stesso. Una diversa traduzione dell’idem, invece, attribuirebbe all’intero passaggio un senso differente e nel suo insieme coerente ma meno probabile e, in definitiva, troppo complesso. L’espressione extra idem della nona riga di pag. 47, infatti, potrebbe essere resa intendendo il pronome come una espressione indefinita riferita ad ogni possibile realtà; il passo potrebbe essere letto, in questo caso, come un’affermazione per la quale niente può essere al di fuori di se stesso (extra idem). Tale scelta di traduzione richiederebbe di rendere tutte le espressioni pronominali e relative presenti nelle righe successive e riferibili all’idem iniziale in maniera analoga; in questo modo il secondo periodo (che va da riga 9 a riga 10 di pag. 47) dovrebbe essere inteso come l’asserzione che nessun luogo può essere luogo di se stesso, ponendo così di fatto una disgiunzione iniziale tra due affermazioni tra loro contraddittorie: “nulla può essere al di fuori di se stesso” (nihil…extra idem, 8 – 9, pag. 47) e “il luogo non può essere luogo di se stesso” (in eo autem locus esse non poterit…quod ab eo quidam loco ambitur, 9 – 10, pag. 47). I successivi periodi (righe 10-12 e righe 12-13) dovrebbero essere tradotti il primo come affermazione che il limite del cielo se è in un luogo è al di fuori di se stesso e il secondo come affermazione che una simile asserzione, in quanto impossibile, costringe ad ammettere l’impossibilità per il limite del cielo di essere in un luogo. L’inconciliabilità tra quanto viene detto nel primo e nel secondo periodo si sviluppa, negli

ultimi due passaggi, in modo pieno portando alla conclusione che il limite del cielo non può essere in un luogo perché questo comporterebbe l’essere al di fuori di sé. 92 Cfr. Liber V, 48, 12 – 50, 20. 93 Cfr. Liber V, 51, 23, – 53, 19. 94 Cfr. Liber V, 56,16, – 59, 13. L’intera argomentazione sembra avere una natura eristica in quanto l’autore del De sex principiis applica il principio di non contraddizione senza tener presente le due fondamentali precisazioni che lo accompagnano nella enunciazione aristotelica, ovvero la simultaneità temporale e l’identità dei rispetti nella predicazione degli attributi alla realtà in questione; tale palese infrazione delle regole logiche aristoteliche è tanto più sorprendente se si osserva che lo stesso Liber aveva messo in evidenza come la presenza di differenti attributi (l’essere in alto e l’essere in basso) nella medesima realtà (l’apice della torre) sia possibile unicamente per differenti rispetti (ad nos e spere vero extremitas). 95 Cfr. Liber VI, 60, 14 – 15. 96 Cfr. Liber VI, 61,18 – 1. 97 Cfr. Liber VI, 62, 4 – 11. 98 Cfr. Liber VI, 60,16 – 17. 99 Cfr. Liber VI, 63,16 – 64, 4. 99bis Ho preferito tradurre pallidum con “giallo” in quanto questo significato del termine non solo è attestato ampiamente dai dizionari della lingua latina ma sembra anche concordare con il significato generale del passo in questione. Stando all’andamento dell’intero periodo e al riferimento successivo al bianco e al nero, una possibile traduzione dell’espressione poteva essere anche grigio, come quel colore che essendo il prodotto della miscelazione proprio di bianco e nero rappresenta il caso emblematico di una eguale contrapposizione ad entrambi. In realtà, come è noto, l’esatta traduzione interlinguistica dei toni e dei cromatismi è molto complessa; sulla questione si veda solo: U. Eco, Dire quasi la stessa cosa, Milano, Bompiani, 2003, pag. 353. 100 Cfr. Liber VI, 65, 9 – 13. 101 Cfr. Liber VI, 68, 8 – 9. 102 Cfr. Liber VII, 69, 11 – 12. 103 Cfr. Liber VII, 72, 7 – 8. 104 Cfr. Liber VII, 73, 8 – 15.

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Cfr. Liber VIII, 80, 18 – 4. Cfr. Liber VIII, 81, 4 – 7. 107 Cfr. Liber VIII, 82, 8 – 83, 17. 108 Cfr. Liber VIII, 84, 5 – 7. 109 Cfr. Liber VIII, 86, 13 – 19. 110 Cfr. Liber VIII, 87, 2 – 6. Il Liber interpreta la variazione qualitativa degli accidenti in termini quantitativi (il divenire più bianca di una realtà è il divenire maggiore quantitativamente dell’accidente della bianchezza); in questo modo l’autore del De sex principiis può affermare che il decremento di un soggetto produce una riduzione dello “spazio” corporeo al quale i suoi accidenti possono inerire e, quindi, una riduzione quantitativa degli stessi, fatto che determina l’aporetica conclusione di una piccolezza che decresce al divenire più piccolo del soggetto, producendo così la crescita del soggetto stesso. La critica sviluppata in questo modo dal Liber sembra fondarsi su una radicalizzazione della dottrina realista in materia dialettica: l’attribuzione a qualità e determinazioni logiche di una consistenza ontologica permette di considerarle come realtà dotate di corpo e quantità che interagiscono con la materia del sostrato al quale ineriscono. Tale impostazione logico-dottrinale viene sviluppata dal Liber per dedurne le possibili contraddizioni quale quella del paradossale divenire più grande del corpo parvius (la più icastica e meglio riuscita delle aporie sviluppate nell’ottavo capitolo del Liber). Questa critica diviene così propedeutica all’elaborazione della soluzione dottrinale sul problema della causa e natura del minor et maius proposta dall’autore del De sex principiis, teoria che avrà un netto carattere anti-realista. 111 Cfr. Liber VIII, 89, 10 – 12. 112 Cfr. Liber VIII, 90, 16 – 18,. 113 Cfr. Liber VIII, 89, 12 – 16,. 114 Cfr. Liber VIII, 91, 1 – 93,15. 115 Cfr. Liber I, 5, 20 – 6. 116 Cfr. Aristoteles, Categoriae, in Aristoteles latinus 1.1-5, Categoriae vel Praedicamenta, cit., (d’ora in poi citato come Categoriae) pag. 12, 4a17 – 4a20. 117 Cfr. Categoriae pag. 11, 3b33 – 4a9 118 Cfr. Categoriae pag. 12, 4a30. 119 Cfr. Categoriae pag. 13, 4b 8 – 9. 106

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Cfr. Categoriae pag. 11, 3b38 – 4a5. Cfr. Liber I, 11,11 sgg. 122 Cfr. Categoriae pag. 1, 1a20. 123 Cfr. Categoriae pagg. 1 – 2, 1a20 – 1b5. 124 Cfr. Categoriae, pag. 2, 1b7. 125 Cfr. Liber I, 12, 21 – 22. 126 Cfr. Categoriae pag. 5, 1a16 – 1a19; pag. 6 1b25 – 7, 2a11. 127 Cfr. Liber II, 25, 9 sgg. 128 Cfr. Categoriae pag. 30, 11b1 – 11b7. 129 Cfr. Categoriae pag. 29, 9a14 – 9a27. 130 Cfr. Categoriae decem pag. 166, 4 – 6. 131 Cfr. Alcuinus, De Dialectica, in Patrologiae cursus completus, B. Flacci Albini seu Alcuini Opera omnia, PL 101, ed. J-P. Migne, Turnholt, Brepols, 1992 (d’ora in poi citato solo come De Dialectica) 961 B. 132 Cfr. Categoriae, pag. 27, 10a12 – 10a27 e Anicius Manlius Torquatus Severinus Boethius, In Categorias Aristotelis libri IV, in Patrologiae cursus completus, Manlii Severini Boethii Opera Omnia, ed. J.-P. Migne, PL 64, Turnhout, Brepols, 1979 (d’ora in poi citato solo come In Categorias) 202 D, 206 B – C, 251 D – 252 B. 133 Alcune qualità, d’altra parte, sono descritte da Aristotele come passibiles; in questi casi non si produce, osserva lo Stagirita, un autentico patire da parte delle realtà che possiedono quelle qualificazioni (dolce, caldo, freddo etc.) ma si dà un certo sentire in corrispondenza ad uno specifico senso (gusto, tatto etc.); cfr. Categoriae pag. 25, 9a28 – 9b9. La differenza tra qualità e passione, tuttavia, può essere individuata secondo Boezio nel fatto che la qualità che deriva dalla seconda dura per un breve periodo (cfr. In Categorias 249 A – 249 B); in questo senso la differenza tra qualità e passione può essere ricondotta a quella tra habitus, quale qualità immutabile, e dispositio che è una affectio labile (cfr. In Categorias 218 D). Tali indicazioni sono riprese dalle Categoriae decem (cfr. Categoriae decem pag. 159, 115, 22 – 160, 116, 5 e pag. 161, 119, 1 – 122, 29); anche l’autore della parafrasi temistiana descrive l’habitus come una affectio che dura nel tempo e discute il terzo genere di qualità, le passibiles qualitates e le passiones, già individuato da Aristotele. 134 Cfr. Liber II, 16, 14 sgg. 135 Cfr. In Categorias, 261 D – 262B. Queste indicazioni verranno riprese da Abelardo; cfr. Petrus Abaelardus, Dialectica, ed. L. M. 121

De Rijk, Assen, V.Gorcum-H. J. Prakke-H. M. G. Prakke, 1970 (d’ora in poi citato solo come Dialectica) pag. 108, 12 – 15. 136 Anche nella Dialectica di Abelardo, d’altra parte, si possono trovare paralleli con il tema aristotelico e boeziano analizzato dal Liber della positio come causa della qualità; cfr. Dialectica pagg. 100, 9 – 101, 4. Sulla relazione tra moto, azione e qualità cfr. infra. 137 Per una trattazione del Compendium e della sua dottrina della forma in relazione con la scuola porretana cfr. infra La dottrina della forma. 138 Cfr. Compendium logicae porretanum, in «Cahiers de l’institut du moyen-age grec et latin», 46 (1983), pagg. 1 – 93 (d’ora in poi citato come Compendium) pag. 39, 1-14. 139 Cfr. Liber II, 26,14 sgg. 140 Cfr. Categoriae pag. 48, 1b25 – 1b27; 2a2; pag. 54, 4b20 – 4b22; pag. 59, 6b11 – 6b14; pag. 69, 11b9 – 11b10; pag. 66, 10a20 – 10a26. 141 La dottrina boeziana sulla categoria della positio sarà ripresa e fortemente criticata da Abelardo. Abelardo nella Dialectica (cfr. Dialectica, pag. 81, 8 sgg.), infatti, sviluppa la dottrina boeziana della relazione denominativa tra positio e situs: la dottrina aristotelica, ricorda Abelardo, distingue le positiones (come la sessio e la statio) e il situs (il sedere e lo stare), affermando che il secondo deriva per via di denominazione dalle prime. Abelardo ricorda poi la legge logica boeziana seconda la quale ciò che deriva da una determinazione per via di denominazione non può appartenere al medesimo genere al quale appartiene la realtà dalla quale deriva; la conseguenza di tale regola applicata alla riflessione sulla positio è che il situs non può venire ricondotto alla categoria della relazione. Tuttavia, osserva Abelardo, lo stesso Aristotele non giunge a questa conclusione inserendo anche il situs nelle realtà relative; d’altra parte la stessa positio può essere considerata come qualcosa che deriva dalla qualità la quale è sempre iscrivibile fra le determinazioni che sono riconducibili alla categoria dell’ad aliquid. Partendo da queste osservazioni Abelardo preferisce parlare di una derivazione denominativa delle sostanze che assumono le diverse positiones a partire dalle diverse positiones stesse; la sessio o la statio come positiones conducono per via di denominazione alle persone che assumono concretamente tali posizioni. La differenza tra situs e positio viene così meno (i due termini sono identificati da Abelardo), mentre il prodotto della deduzione denominativa che si può compiere a partire dalla positio sono i

verbi come “stare” o “giacere”, nonché la sostanza alla quale i verbi stessi sempre implicitamente rimandano. La denominazione che si produce nel caso del situs e della positio è, quindi, rivolta alla sostanza che risulta presente in certi nomi. Abelardo d’altra parte sviluppa anche una differente riflessione sulla categoria della positio. Abelardo propone una dottrina del tutto analoga anche nella Logica ingredientibus; cfr. Petrus Abaelardus, Logica Ingredientibus, in Peter Abaelards Philosophische Schriften. I. Die Logica "Ingredientibus" 2. Die Glossen zu den Kategorien (Glossae super Predicamenta), ed. B. Geyer, Münster, in Beiträge zur Geschichte der Philosophie und Theologie des Mittelalters, XXI (Part 2), Verlag der Aschendorffschen Verlagsbuchhandlung 1921, (d’ora in poi citato come Logica ingredientibus 2) pagg. 111-305, 2.07, pag. 202-203. Nella Logica ingredientibus, inoltre, Abelardo prendendo le mosse dal termine positio sottolinea come esso derivi dal verbo ponere e, quindi, possa essere legato ai predicamenti dell’actio e dalla passio; si può così pensare ad una positio attivamente compiuta dal soggetto o passivamente determinata da altro. La positio, quindi, non apparterebbe al situs ma alle categorie di azione e passione. Cfr. Logica ingredientibus 2, 2.07, pagg. 255 – 256. Il Liber, tuttavia, non sembra portare traccia di questa complessa discussione abelardiana e riprende in modo abbastanza fedele le indicazioni che su questo tema erano presenti in Aristotele e in Boezio. 142 In Categorias, 218D; 219A – 219B. 143 La posizione, afferma Boezio, è sempre la posizione di una particolare realtà che si trova in quella determinata posizione (seduta, in piedi etc.). La positio, quindi, si dà sempre come positio di una certa realtà e può allora darsi unicamente in rapporto ad una res concreta la quale assume la positio stessa. Il termine relativa, con il quale Boezio descrive la positio, quindi, deve essere inteso come un riferimento al carattere concreto di tale predicamento il quale si dà sempre in rapporto ad una realtà ben definita e non come affermazione della dipendenza della positio stessa o della res posita da altre res o categorie (secondo una accezione di ad aliquid altre volte impiegata da Boezio come nel caso del luogo e delle determinazioni deorsum e sursum). 144 In Categorias 220B – 220C; 262C – 262D. 145 La trattazione della categoria della positio nelle Categoriae decem è analoga a quella aristotelica e boeziana, sebbene si possano individuare alcuni elementi di originalità.

Le Categoriae decem definiscono la categoria del situs, quale iacere, sottolineando come tale espressione corrisponda al greco kei'sqai; l’introduzione del termine situs, osserva l’autore della parafrasi temistiana, deve essere attribuito al dotto Agorio. Le Categoriae decem trattano della positio nel paragrafo dedicato all’ad aliquid; la positio, infatti, è descritta come una categoria simile all’habitus e all’affectio (la passione) in quanto si può dare solamente come posizione di qualcosa e, quindi, deve avere natura relativa (tali predicamenti, specifica la parafrasi temistiana, pendent ex altero, “dipendono da altro”); cfr. Categoriae decem pag. 154, 24 – 155, 4. In modo analogo a quanto accade in Aristotele, le Categoriae decem trattano poi della positio in relazione al quarto genere di qualità. Esistono, infatti, qualità che dipendono dal situs; si tratta di quelle forme che derivano dalla posizione delle parti del corpo, come la levigatezza o la ruvidezza. Anche nelle Categoriae decem, inoltre, vi è traccia della dottrina boeziana secondo la quale la posizione è sempre posizione di qualcosa, mentre ciò che è posto è tale in virtù della posizione assunta (positum positionis est); cfr. Categoriae decem pag. 167, 12 – 13. Differente rispetto all’analisi aristotelica, invece, è la dottrina sulla derivazione paronimico-denominativa di alcuni termini dalla positio stessa. Il problema della deduzione denominativa, infatti, è introdotto in riferimento non alla relazione tra le positiones e le determinazioni a loro connesse (il sedere dalla sessio ad esempio), ma al rapporto tra le diverse tipologie di qualità che dalla posizione stessa derivano; la denominazione, quindi, è per le Categoriae decem relativa alla deduzione dell’attributo lene dalla lenitas oppure del densum dalla densitas (il rapporto denominativo è dall’astratto al concreto); cfr. Categoriae decem pag. 162, 19 – 163, 5. Il tratto di maggiore discontinuità tra la tradizione aristotelicoboeziana e quella temistiana della parafrasi consiste, tuttavia, nella dottrina relativa al rapporto tra positio e analisi delle parti del corpo. L’autore delle Categoriae decem, infatti, afferma che la positio permette di distinguere, in una realtà o negli elementi che la compongono, diverse parti: destra, sinistra, sopra, sotto, prima, dopo, lungo e vicino (cfr. Categoriae decem pag. 150, 30 – 32). Solo alcune realtà, quindi, possono ammettere una positio in quanto non tutte le res permettono di individuare al loro interno una relazione determinata tra le parti che le costituiscono. Appartengono a questa categoria solo il corpo e il luogo i quali possono essere “scomposti” e delle loro parti si può dire dove siano e che relazioni abbiano tra loro (cfr. Categoriae decem pag. 150, 33); altre determinazioni come il tempo e il discorso

mutano rapidamente e non rendono possibile, quindi, nessuna analisi; cfr. Categoriae decem pag. 151, 11 – 15. Notevole è anche il trattamento della categoria della positio nella Dialectica di Alcuino. L’opera alcuiniana, in altri sue parti così fedele nel riprendere la dottrina delle Categoriae decem, introduce nell’analisi di questo predicamento elementi inediti rispetto alla parafrasi temistiana. Alcuino, infatti, dopo aver ripreso dalle Categoriae decem la definizione di iacere collegandolo esplicitamente al situs e alla positio del corpo (cfr. De Dialectica, 961D), afferma che il corpo, in quanto composto di parti, si deve dare in un luogo secondo le tre dimensioni della lunghezza (longitudo), larghezza (latitudo) e altezza (altitudo); tali determinazioni sono relative al situs il quale ha natura locale (ibidem). Il Liber non sembra riprendere sistematicamente le indicazioni delle Categoriae decem nonostante anche nel De sex principiis si parli, passando in rassegna alcuni casi concreti di positio, dell’essere di due o tre cubiti introducendo così il tema della lunghezza. 146 Cfr. Liber III, 32, 23 – 24. 147 Cfr. Liber VII, 79, 17. 148 Cfr. L. Minio-Paluello, «Magister sex principiorum», cit., pagg. 552 – 554. 149 Ibidem. Il parallelismo tra il commentario boeziano e il De sex principiis consente a Paluello, inoltre, di individuare nella Metafisica il testo al quale l’autore del De sex principiis fa riferimento al termine del 79° paragrafo dell’opuscolo. 150 Cfr. Aristoteles, Metaphysics, ed. W. D. Ross, 2 voll. Oxford, Clarendon press, 1954 (d’ora in poi citato solo come Metaphysica) 9 (H) 2, 1046b 5 – 20. 151 Cfr. Metaphysica 5 (D), 10, 1018a 20 – 35. 152 Cfr. Aristoteles, Physics, ed. W. D. Ross, Oxford, Clarendon press, 1966 (d’ora in poi citata solo come Physica) 195a12 (e in generale tutto il primo libro della Fisica). 153 Cfr. Categoriae decem pagg. 166, 18 – 31. 154 Cfr. Infra, 4.6.1. 155 Cfr. Physica, D 5, 212 b 16 – 22. 156 Cfr. Physica, D 4, 212 a 6. 157 Cfr. Infra, 4.6.3. 158 Cfr. Liber I, pag. 35, 1 – 2.

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Cfr. In Categorias 184 A sgg. Cfr. In Categorias 192 D. 161 L’importanza di Boezio come fonte per l’utilizzo nel Liber del termine compositio è sottolineata, d’altronde, dalla scarsa presenza di questa espressione nei testi più o meni contemporanei o di poco antecedenti il Liber. Nelle glosse al Timeo di Bernardo di Chiaravalle, ad esempio, il termine compositio è impiegato per indicare l’unirsi di diversi elementi a creare un tutto, con particolare riferimento alla creazione del mondo che è stato compositus da Dio e che, come tale, può essere soggetto ad una dissolutio, ad una scomposizione nei suoi elementi; cfr. Bernardus Carnotensis, The Glosae super Platonem, ed. P. E. Dutton, Toronto, Pontificial Insititute of mediaeval studies, 1991 (d’ora in poi citate come Glosae ed. Dutton) tr. 4, l. 327 e tr. 5, l. 304. Nella maggior parte dei casi, tuttavia, Bernardo parla della composizione in riferimento all’anima; la compositio della sostanza psichica, infatti, rimanda al fatto che l’anima è composta da più funzioni e capacità (sensibile-irrazionale, razionale e intelligibile; cfr. Glosae ed. Dutton, tr. 5, l. 33, 51, 88, 98) nonché alla condizione morale dell’uomo che può essere influenzata, secondo Bernardo, dalla musica e dal ritmo (cfr. Glosae ed. Dutton , tr. 7, l. 450). 162 Cfr. In Categorias 162 A – 162 D 163 Cfr. Everardo di Ypres, Dialogus Ratii et Euerardi, ed. N. M. Häring, in «Mediaeval studies», 15 (1953), pagg. 243 – 289 (d’ora in poi citato solo come Dialogus), pag. 253, 14 – 20: Quod uero propter intellectum constituendum uel interpretandum uoces significatiuae sint inventae testatur Priscianus in libro constructionum sic dicens: omnis constructio quam graeci syntaxin uocant ad intellectum uocis reddenda est. Idem affirmat Aristoteles in libro Perihermeneias sic: ea quae sunt in uoce sunt notae passionum quae sunt in anima. 164 Cfr. Rupertus Tuitiensis, Liber de diuinis officiis, (CCCM 7), ed. H. Haacke, Turnholt, Brepols, 1967, lib. 11, pag. pag. 371, 96 – 98: Solent quippe ab hominibus prius res intelligi et post ad placitum nomina illis imponi sicut aiunt magni quoque philosophi gentilium ea quae sunt in uoce sunt earum quae sunt in anima passionum notae. 165 Per il rapporto tra Abelardo e il Liber, in particolare per quel che riguarda l’espressione in voce, cfr. infra, 4.6.3 166 Cfr. L. Minio-Paluello, Note sull’Aristotele latino medievale, cit. pag. 140. 167 Cfr. In Categorias 264 A 160

168 Cfr. Anicius Manlius Torquatus Severinus Boethius, De Trinitate, in Anicius Manlius Torquatus Severinus Boethius De consolatione philosophiae; Opuscula theologica, Bibliotheca Scriptorum Graecorum et Romanorum Teubneriana, ed. C. Moreschini, Monachus – Lipsia, K. G. Saur, 2005, cap. 4: Iam ne patet quae sit differentia praedicationum? Quod aliae quidam quasi rem monstrant aliae uero quasi circumstantias rei; quodque illa quae ita praedicantur, ut esse aliquid rem ostendant, illa uero ut non esse sed potius extrinsecus aliquid quodam modo affigant. Illa igitur, quae aliquid esse designant, secundum rem praedicationes uocentur. Quae cum de rebus subiectis dicuntur, uocantur accidentia secundum rem; cum uero de deo qui subiectus non est secundum substantiam rei praedicatio nuncupatur. 169 Cfr. Isidorus Hispaliensis, Etymologiarum siue Originum libri XX, Scriptorum classicorum bibliotheca Oxoniensis, ed. W. M. Lindsay, Oxford, E typ. Clarendoniano, 1957 (d’ora in poi citato solamente come Etymologiae) cl. 1186, lib. 2, cap. 26, par. 5 – 13. 170 L’analisi isidoriana delle categorie prende le mosse da una veloce indagine sulla sostanza con una distinzione tra predicazione de subiecto e in subiecto (de subiecto, spiega Isidoro, è tutto ciò che riguarda la sostanza come soggetto e, quindi, a questa categoria appartengono i generi e le specie; in subiecto, invece, è tutto ciò che riguarda gli accidenti) e tra sostanze prime e seconde. Isidoro dedica poi un certo spazio alla categoria di relazione mettendo in evidenza come un termine della relazione implichi anche l'altro ed entrambi esistano simultaneamente (il padrone si dà solo in relazione al servo e viceversa). L’analisi della categoria habere si risolve in una serie di esempi, alcuni dei quali sono diversi da quelli aristotelici e cassiodoriani; in particolare Isidoro introduce l'esempio del possedere la conoscenza nella mente e la virtù nel corpo applicando la categoria, quindi, anche a realtà non fisiche a differenze di quanto si dice nel Liber nel quale l’habitus è definito come qualcosa di relativo unicamente alla dimensione corporea. Per quanto riguarda il luogo Isidoro aggiunge che il luogo ha sei parti: avanti e dietro, destra e sinistra, su e giù. Questa dottrina sembra avere delle analogie con quella del Liber il quale parla dell’essere in alto e in basso in relazione all’ubi. 171 Cfr. Categoriae decem, pag. 144, 21 – 145, 6. 172 Sia il fare che il patire, in realtà, sembrano analizzate dalle Categoriae decem riconducendole al predicamento della relazione. Il patire e il fare, infatti, prevedono sempre un agente e un oggetto dell’azione sicché se non c’è rapporto o relazione con il proprio altro

non si può predicare alla realtà quella particolare determinazione (il patire o il fare). 173 Cfr. De Dialectica, 956 D – 957 A. 174 Cfr. Liber I, 14, 5 – 15, 13. 175 Cfr. O. Lewry, The Liber sex principiorum, a supposedly porretanean work. A study in ascription, in J. Jolivet, A. de Libera (eds.), Gilbert de Poitiers et ses contemporains: aux origines de la Logica modernorum. Actes du septieme symposium europeen d'histoire de la logique et de la sermantique medievales. Centre d'etudes superieures de civilisation medievale de Poitiers, Poitiers 17-22 juin 1985, Napoli, Bibliopolis, 1987, pagg. 251 – 278, pag. 259. 176 Cfr. Gilbertus Porretanus, The commentaries on Boethius, ed. by N. M. Häring, Toronto, Pontificial Institute of mediaeval studies, 1966 (d’ora in poi citato come Commentarii) pag. 117, 67 – 74.; cfr. anche O. Lewry, The Liber sex principiorum, cit., pag. 258. 177 Cfr. Commentarii pag. 171, 14 – 15 e O. Lewry, The Liber sex principiorum, cit., pagg. 258 – 259. 178 Cfr. O. Lewry, The Liber sex principiorum, cit., pag. 259. 179 Cfr. Theodoricus Carnotensis, Commentaries on Boethius by Thierry de Chartres, ed. N. M. Häring, Toronto, Pontificial Institute of mediaeval studies, 1971 (d’ora in poi citato come Commentarii by Thierry de Chartres), pag. 110, 1 – 112, 73. 180 Cfr. Commentarii by Thierry de Chartres, pag. 112, 71 – 73. 181 Cfr. Commentarii by Thierry de Chartres, pag. 111, 45 – 47. 182 Cfr. Alanus de Insulis, Regulae caelestis iuris, ed. N. M. Häring, in «Archives d’histoire doctrinale et littéraire du Moyen Âge» 48 (1981), pagg. 121 – 226 (d’ora in poi citato solamente come Regulae), prop. XI, XVII, XVIII. 183 Cfr. Abelardus, Dialectica pag. 52, 3 sgg. e pag. 579, 16 – 22. La questione viene discussa anche nello studio del topos (locus) dell’argomentazione a relativis; cfr. Dialectica, pag. 407, 8 sgg. 184 Cfr. Dialogus pag. 273, linea, 6. 185 Cfr. Liber VI, 68, 2 – 4. 186 Cfr. Liber I, 9, 2 – 10, 10. 187 Cfr. Commentarii pag. 292, 20 – 23 e 27 – 28. 188 Cfr. Commentarii pag. 202, 94. 189 Cfr. Commentarii pag. 202, 73 – 85.

190

Cfr. Commentarii pag. 292, 33 – 36 e 95, 87 – 102. Cfr. L. M. De Rijk, Semantics and Metaphysics in Gilbert of Poitiers. A charter of twelfth century platonism (2), in «Vivarium» XXVII 1 (1989), pagg. 1 – 35, pag. 22. Un esempio di compositio può essere la relazione tra anima e corpo nell’uomo, in quanto i due elementi del sinolo antropico continuano ad essere distinguibili; una commixtio, invece, è quella che si produce tra il bianco e il nero che, unendosi insieme, producono un nuovo colore, il grigio (differente da entrambi), oppure quella di due sussistenti che si congiungono insieme. 192 Cfr. Commentarii pag. 292, 34 – 35. 193 Cfr. Commentari pag. 292, 59 – 63 e pag. 275, 25. 194 Cfr. Commentari pag. 204, 29. 195 Cfr. L. M. De Rijk, Semantics and Metaphysics in Gilbert of Poitiers. A charter of twelfth century platonism (1), in «Vivarium» XXVI, 2 (1988), pagg. 73 – 112, pagg. 76 – 80, pagg. 83 – 84. 196 Cfr. L. M. De Rijk, Semantics and Metaphysics in Gilbert of Poitiers (1), cit., pag. 90. 197 L. M. De Rijk, Semantics and Metaphysics in Gilbert of Poitiers (2), cit., pagg. 1 – 3. De Rijk afferma che il termine concretio in Porreta non fa riferimento ad un diverso oggetto teorico rispetto alla creatio, rifiutando così la posizione di Nielsen su questo punto. Cfr. Commentarii pag. 87, 55 – 59 e pag. 84, 54 – 61. 198 Cfr. Liber I, 9, 2 – 7. 199 Cfr. Aurelius Augustinus, De Trinitate libri XV, CCSL 50, 50 A (Aurelii Augstini opera, pars 16, 1 – 2) 2 voll., ed. W. J. Mountain, Turnholt, Brepols, 1968, lib. 3, cap. 8, linea 11. 200 Cfr. In Categorias 171 D – 173 D. 201 Cfr. Categoriae pag. 27, 10a12 e pag. 29, 11a11. 202 Cfr. In Categorias 172 C e 231 B, per citare alcuni luoghi. 203 Cfr. Fallaciae londinenses, in L. M. de Rijk (ed.), Logica modernorum II.II (The origin and early development of the theory of supposition. Texts and indices) Assen, Van Gorcum, 1967, pag. 665, 14 – 18. 204 Cfr. Magnus Aurelius Cassiodorus, De Anima, ed. J.W. Halporn in Magnus Aurelius Cassiodorus, Variarum libri XII, ed. Å.J. Fridh, CCSL 96 (Magni Aurelii Cassiodori Senatoris opera; pars 1), Turnhout, Brepols, 1973, cl. 0897, cap. 6. 191

205 Cfr. Magnus Aurelius Cassiodorus, Expositio psalmorum, ed. M. Adriaen, CCSL 97 – 98 (Magni Aurelii Cassiodori Senatoris opera; pars 2, 1-2), Turnhout, Brepols, 1958 cl. 0900, psalmus 96, linea 84. 206 Cfr. Etymologiae, cl. 1186, lib. 3, cap. 22, par. 3. 207 Cfr. Categoriae decem pag. 134, 19 208 Cfr. Categoriae decem pag. 135, 11 – 12. 209 Cfr. Categoriae decem pag. 143, 10 sgg. 210 Cfr. Commentarii pag. 89, 10 – 11; pag. 82, 4; pag. 124, 67; pag. 90, 45; pag. 196, 34. 211 Cfr. Commentarii pag. 87, 65; pag. 82, 15. 212 Cfr. Dialogus pag. 255, linea 31. 213 Cfr. Dialogus, pag. 255 linee 25 – 26. 214 Cfr. Dialogus pag. 273, linea 36. 215 Cfr. Dialogus pag. 280, linea 27 sgg. 216 Cfr. Compendium pag. 39, 1 – 4 217 Cfr. Compendium, pag. 39, 4 – 5. 218 Cfr. Compendium, pag. 39, 6 – 9. 219 Cfr. Compendium pag. 39, 12 – 14. 220 Cfr. Compendium pag. 39, 14 – 40. 221 Cfr. Compendium pag. 37, 20 – 21. 222 Ugo di Honau parlando di formae substantiales introduce la distinzione tra substantia subiecta e substantia subiecti; a questi termini vengono fatti corrispondere rispettivamente l’id quod est come subsistens e l’id quo est e, quindi, la subsistentia. Ugo aggiunge che alcune sostanze sono dette seconde (generi e specie) altre, invece, prime, ovvero individui. Le forme sostanziali sono dette da Boezio, spiega Ugo infine, subsistentias e devono essere considerate substantia subiecti. La dottrina della forma sostanziale è anche in questo caso chiaramente presente; cfr. Ugo di Honau, De homoysion et homoeysion, ed. N. M. Häring, in «Archivers d’histoire doctrinale et litteraire du Moyen Age», XLII (1967) pagg. 129 – 153 e XLIII (1968), pagg. 211 – 295, pag. 141. 223 Cfr. Compendium pag. 40, 22 – 24. 224 Cfr. Compendium pag. 40, 24 – 33. 225 Cfr. Compendium pag. 39, 8 – 9. Il termine homo come esempio di principio substantiale si può spiegare meglio, d’altronde, se si

intende l’espressione come rimando alla forma dell’humanitas che esse confert, secondo l’espressione del Liber (cfr. Liber I, 6, 7), e, quindi, secondo le coordinate teoriche della tradizione porretana. Prendendo le mosse da questa indicazione si può ipotizzare che anche il corpus come elemento substantiale si possa interpretare come forma corporale e, quindi, corporeità. 226 Il termine substantialis, infatti, è ampiamente presente anche nella tradizione speculativa chartriana. Trattando della materia primordiale e della sua natura in riferimento ad un passo del Timeo (cfr. Timeo, 47 e) Guglielmo di Conches, ad esempio, sottolinea come la materia e la forma debbano sempre essere l’una collegata all’altra: di tutto ciò di cui c’è materia ci deve essere anche forma e viceversa. Prendendo le mosse da tale dottrina Guglielmo afferma che gli elementi primi non possono essere la materia primordiale in quanto essi sono corpi la cui materia è la materia primordiale e la cui forma coincide con le qualità di ciascun elemento (il fuoco ha come propria forma l’essere acutus e le qualità a lui proprie del caldo e del secco); cfr. Guilelmus de Conchis, Glosae super Platonem, ed. E. Jeauneau, Paris, Vrin, 1965 (d’ora in poi citato come Glosae ed. Jeauneau) pagg. 268 – 269, CLXI. Guglielmo riprende e approfondisce la sua teoria della materia primordiale e degli elementi primi alcune pagine dopo quando introduce la distinzione tra particulae ed elementi (cfr. Glosae ed. Jeauneau pagg. 272 – 273, CLXIV): ciascun elemento è fatto di particelle (particulae) di diversa natura che possiedono alcune qualità fondamentali (come il caldo e il secco che producono il fuoco); ogni corpo e anche ogni elemento primo sono costituiti sempre da particelle di diversa natura e con qualità diverse (in caso contrario si produrrebbe una realtà “pura” definita da un’unica qualità). Guglielmo definisce le qualità di tali particulae come substantiales (qualitates substantiales); sono tali particelle con le loro qualità a determinare la materia primordiale la quale, in se stessa, è informe, ricettacolo possibile per ogni altra forma, definibile solamente con un pronome (che indica secondo la tradizione priscianea unicamente la sostanza senza riferimento alla qualità) non con un nome (la cui significazione è data dalla sostanza e dalla qualità insieme). L’importanza delle qualità come elemento substantialis, in grado di determinare anche ontologicamente una realtà, è chiaramente riaffermata nella definizione di sostanza data dallo stesso Guglielmo (cfr. Glosae ed. Jeauneau pag. 286, CLXXIII). Il maestro chartriano, infatti, trattando ancora una volta della materia primordiale, parla della sostanza come forma et qualitas substantialis. La materia prima,

osserva Guglielmo, non ha una propria sostanza e la substantia risulta identificata con la forma la quale diviene principio ontologico fondamentale. (cfr. Glosae ed. Jeauneau pag. 279, CLXIX; tale dottrina apre anche il problema di quale sia la distinzione tra sostanza e qualità visto che anche la sostanza è prodotta da elementi qualitativi, cfr. Glosae ed. Jeauneau pag. 271, CLXIII). In modo analogo Teodorico di Chartres considera la forma vera causa dell’essere, assimilabile all’atto di contro alla materia che è pura possibilitas; cfr. Commentarii by Thierry de Chartres pag. 200, 85; pag. 409, 28; pag. 274, 82; pag. 169, 97; pag. 170, 44; pag. 171, 82; pag. 76, 52. Parlando della condizione ontologica divina, descritta come pura forma o forma delle forme, Teodorico introduce l’espressione forma substantialis, ovvero quella forma che rende la cosa se stessa (cfr. Commentarii by Thierry de Chartres pag. 243, 59; pag. 521, 5). Per Teodorico tale forma, in se stessa considerata, non può mai unirsi alla materia; quando ciò avviene non si tratta di una vera forma ma di una sua immagine. Questa dottrina ricorda quella di Bernardo di Chartres; cfr. Glosae ed. Dutton, tr. 4, ll. 166 – 192; tr. 5, l. 73; tr. 7, ll. 138 – 222; tr. 8, ll. 204 – 413. Bernardo, infatti, distingue tra formae nativae e ideae: solo le prime si possono combinare con la materia dando origine ai corpi mentre le seconde rimangono sempre separate e sono identificabili con gli archetipi della mente divina. Anche Bernardo, d’altra parte, afferma che esistono forme sostanziali e forme accidentali e parla del corpo e della corporeità come forme sostanziali (cfr. Glosae ed. Dutton, tr. 8, ll. 276 – 282); tale distinzione viene sviluppata (si tratta dell’unico luogo dei testi bernardiani dove si può rinvenire questa posizione) all’interno di una complessa discussione sulla materia prima la quale è considerata informe alla stessa stregua di un universale paragonato agli elementi a lui logicamente inferiori. È interessante notare come anche nel Liber de diversitate naturae et personae di Ugo di Honau si possano rinvenire teorie simili: Ugo, infatti, distingue diverse forme: forma come illud exemplar (alla somiglianza del quale tutte le cose sono state create), forma come figurae corporum (le quali sono oggetto di studio mediante astrazione nelle matematiche), forme come principi che danno l’essere agli elementi primordiali (la terra infatti è tale secondo le forme della secchezza e della pesantezza). Ugo introduce poi la distinzione tra formae autentiche e imagines (solo le seconde si incarnano nella materia e derivano dalle prime) e tra aeterna exemplaria (le formae vere e proprie) e le naturae substantiales come l’humanitas (ovvero le forme quali immagini degli esemplari eterni in grado di unirsi con la mate-

ria). Cfr. Ugo di Honau, Liber de diversitate naturae et personae, ed. N. M. Häring, in «Archivers d’histoire doctrinale et litteraire du Moyen Age» XXIX (1962), pagg. 103 – 216 (d’ora in poi citato come Liber de diversitate), pag. 160, 1 – 6). Ugo continua poi osservando come anche Dio possa essere considerato Egli stesso forma. La sostanza divina, osserva infatti Ugo, informa di sé le cose nelle quali è presente, in quanto Egli è principio formatore che non è informato da nessuno e forma incommutabilis presente in ogni realtà (cfr. Liber de diversitate, pag. 163, 6); nel caso di Dio tale rapporto non si declina sul modello della relazione tra materia e forma ma su quello del rapporto tra essentia ed essentem (colui che è; cfr. Liber de diversitate, pag. 162, 1). Ugo di Honau sviluppa poi un parallelo tra formae e imagines (in greco eikones osserva l’autore; cfr. Liber de diversitate, pag. 161, 4; 162, 6): Dio non è immagine ma forma in quanto è principio dell’essere ed essere perfetto; imagines sono le forme di esistenza creaturale che da Dio derivano. 227 Cfr. Petrus Abaelardus, Introductiones parvolorum, in Petrus Abaelardus, Scritti di logica, ed. M. Dal Pra, Firenze, La Nuova Italia, 1969 (d’ora in poi citato come Introductiones parvolorum) pag. 9, 18 – 24, pag. 54, 35 – 55 . 228 Cfr. Dialectica pag. 255, 10. 229 Cfr. Dialectica pag. 285, 36 e poi a pag. 450, 12. 230 Cfr. Petrus Abaelardus, Logica ingredientibus, in Peter Abaelards Philosophische Schriften. I. Die Logica 'Ingredientibus'. 1. Die Glossen zu Porphyrius (Glossae super Porphyrium) ed. B. Geyer, in Beiträge zur Geschichte der Philosophie und Theologie des Mittelalters, XXI (Part 1), Münster, Verlag der Aschendorffschen Verlagsbuchhandlung, 1919, pagg. 1 – 109 (citato d’ora in poi come Logica ingredientibus 1) 1.03, pag. 42. 231 Cfr. Petrus Abaelardus Logica nostrorum petitioni sociorum, in Peter Abaelards Philosophische Schriften. II. Die Logica “Nostrorum Petitioni Sociorum”. Die Glossen zu Porphyrius (Glossae super Porphyrium) ed. B Geyer, in Beiträge zur Geschichte der Philosophie und Theologie des Mittelalters, XXI (n° 4), Münster, Verlag der Aschendorffschen Verlagsbuchhandlung 1933 (d’ora in poi citato come Logica petitioni), 1.04, pag. 560. 232 Cfr. L. Minio-Paluello, «Magister sex principiorum», cit., pag. 559. 233 Cfr. Liber I, 4, 15. 234 Cfr. Glosae ed. Jeauneau, pagg. 144 – 145 e Glosae ed. Dutton, pag. 196, 187 – 193.

235

Cfr. Glosae ed. Dutton, pag. 173, 1 – 5. Cfr. Glosae ed. Dutton, pag. 196, 187 – 193. 237 Guglielmo di Conches (il cui commento nelle prime righe è molto simile a quello di Bernardo), ad esempio, sottolinea come l’anima del mondo doti le realtà concrete di movimento, crescita e sensibilità. L’anima del mondo, quindi, è una sorta di spirito che è presente in tutte le cose e conferisce loro vita e moto; cfr. Glosae ed. Jeauneau pag. 144. Il commento guglielmino si caratterizza poi per un abbondante utilizzo di strumenti matematici per i quali possibili fonti sono, nella ricostruzione di Jeauneau, il commentario macrobiano al Somnium Scipionis (sul quale Guglielmo stesso prepara delle glosse) e il De musica insieme all’Arithmetica di Boezio dai quali il maestro di Chartres riprende, ad esempio, una articolata riflessione sull’idea di proporzione (cfr. Glosae ed. Jeauneau pag. 153 sgg.; Guglielmo sottolinea così l’importanza del numero, definito come la realtà più perfetta dopo Dio, e il suo ruolo di principio in grado di regolare e governare l’anima stessa). Teodorico di Chartres, invece, fa riferimento all’anima del mondo nel suo commento al De Trinitate boeziano secondo un’accezione radicalmente diversa da quella che si può trovare in Bernardo o in Guglielmo (cfr. Commentarii by Thierry de Chartres pag. 273, 31 – 38). Qui Teodorico indica l’Anima mundi come uno dei possibili nomi della necessità, prodotta dalla relazione tra serie di cause; si tratta di una necessitas complexionis che è prodotta dal procedere dell’essere dalla forma e dal procedere della molteplicità dalla semplicità della forma stessa. Attraverso questo processo la semplicità dell’universalità originaria diviene la necessità delle forme e idee disposte secondo un preciso ordine di cause, ciascuna delle quali è legata alle altre ed è in grado di trasmettere la necessità dell’intera serie a qualsiasi res. In Teodorico, quindi, la nascita della molteplicità a partire dalla forma semplice si esplica come il passare dell’universitas della forma stessa dalla semplicità originaria (dove tutte le idee sono compresenti in una sorta di simul et semel) al dispiegamento dell’essere in una serie articolata; le idee che vengono così all’essere sono organizzate secondo un ordine e divengono cause che governano le realtà concrete. Oltre all’espressione Anima mundi tale ordine delle forme dispiegate può essere definito, nota Teodorico, come fato, Parche, intelligenza divina, provvidenza o prothoennoian; cfr. Commentarii by Thierry de Chartres pag. 273, 35 – 46. 238 Cfr. Glosae ed. Jeauneau pag. 145 e nota (c). Jeauneau sottolinea come tale verso abbia avuto vasta fortuna nella tradizione dei 236

commentari al Timeo proprio in riferimento al problema dell’identificazione dell’anima del mondo con lo Spirito santo; per un elenco di luoghi testuali cfr. Glosae ed. Jeauneau pag. 145 (b). 239 Cfr. Dialectica pagg. 558, 18 – 559, 4. 240 Cfr. J. Marenbon, Life, milieu and intellectual contexts in J. E. Brower, K. Guilfoy (eds.), The Cambridge companion to Abelard, Cambridge, Cambridge University Press, 2004, pagg. 35 – 38. Marenbon sottolinea anche come mentre Abelardo inizialmente rifiuti (nella Dialectica) questa tradizione e poi la faccia propria in maniera entusiastica, Guglielmo progressivamente se ne allontani. Abelardo, d’altra parte, probabilmente riprese da Bernardo di Chartres e da Guglielmo la nozione di integumentum quale involucro allegorico sotto il quale leggere un messaggio nascosto come quello della prefigurazione trinitaria nella dottrina dell’Anima mundi. La teoria dell’integumentum è funzionale alla razionalizzazione della fede cristiana: in Guglielmo tale razionalizzazione consiste nella scoperta di verità “scientifiche” nascoste sotto il velo della lettera biblica, mentre in Abelardo si dà come dimostrazione della presenza dei dogmi cristiani all’interno della tradizione di pensiero antica, identificabile con la stessa filosofia e con ogni indagine razionale del mondo. Cfr. J. Marenbon, Life, milieu and intellectual contexts, cit., pag. 38. 241 Cfr. L. Minio- Paluello, «Magister sex principiorum», cit., pag. 559; cfr. O. Lewry, The Liber sex principiorum, cit., pag. 269. 242 Cfr. Liber II, 22, 18 – 21. 243 Cfr. Logica ingredientibus 2, 2.14 pag. 297. 244 Cfr. In Categorias 298 C – 298 D. Il testo boeziano può essere considerato fonte anche per la riflessione sulla temporalità presente in Bernardo di Chartres e in Guglielmo di Conches; cfr. Glosae ed. Jeauneau pag. 143, nota (a). Nelle sue glosse a Platone, infatti, Bernardo individua otto tipologie di movimento tra le quali due locali, ovvero la translatio (che si divide in altre sei sotto-categorie) e la circumlatio. A tale schema si affianca quello in cui sono indicate quattro forme di movimento per il corpo: alterazione quantitativa, alterazione qualitativa, generazione e corruzione (le ultime due delle quali appartengono alla categoria della sostanza); cfr. Glosae, ed. Dutton, pag. 213, 7, 337 – 7, 350. Anche in Guglielmo è presente la distinzione tra movimento locale e non locale; il moto locale viene poi suddiviso nelle sette specie di cui Bernardo faceva menzione nelle sue Glosae, sebbene Guglielmo le presenti in un diverso ordine e aggiunga alla lista in circuitu, riprendendo lo schema boeziano. Il movimen-

to non locale è quello razionale che può essere corporeo o spirituale; il primo per essere razionale deve essere in eodem loco, mentre il secondo è proprio dell’anima e dei processi intellettivi (esso muove ad intelligendum); cfr. Glosae, ed. Jeauneau, pagg. 142 – 143. La descrizione del processo di generazione e di corruzione in Guglielmo è molto generica (cfr. Glosae, ed. Jeauneau pag. 113; pagg. 214 – 215; pag. 262; pag. 118; pag. 138). Secondo la definizione ripresa da Boezio la generazione è per Guglielmo ingressus in substantiam, ovvero principium existentie (cfr. anche Glosae ed. Jeauneau pag. 98); Guglielmo poi distingue una prima creazione dalla creazione che consiste nella fusione di anima e corpo e da una ulteriore generazione relativa alla condotta morale dell’anima (che può nel tempo agire in modo vizioso o virtuoso, cfr. Glosae, ed. Jeauneau, pagg. 214 - 215). 245 Cfr. In Categorias 292 B sgg. 246 Cfr. Dialectica pag. 418, 7 – 8. 247 Cfr. Logica ingredientibus 1, 1.04, pag. 72. 248 Si deve rilevare, tuttavia, come anche nel Compendium logicae porretanae la discussione sulla forma sostanziale conduca ad una riflessione sulla generazione e corruzione che appare analoga a quella elaborata nel Liber al 27° paragrafo del secondo capitolo (sull’azione): il Compendium parla di una generazione e corruzione che consiste nell’alternarsi di forme diverse tutte inerenti al sostrato sostanziale, mentre il Liber parla di un venir meno di alcune forme che sono sostituite con altre; cfr. Compendium pag. 40, 24 – 33. 249 Cfr. Dialectica pag. 77, 19 – 20. 250 Cfr. Dialectica pag. 78, 3 sgg. 251 Cfr. Logica ingredientibus 2, 2.09, pagg. 256 – 257. 252 Boezio, infatti, rileva (come farà anche Abelardo) nel suo commento alle Categorie la scarsità di indicazioni fornite dallo Stagirita riguardo al predicamento del quando (suggerendo di integrare quelle riflessioni con altri testi aristotelici come il De generatione e corruptione, la Metafisica e, soprattutto, la Fisica; cfr. In Categorias, 261D – 262A) e sottolinea la centralità della categoria della relazione (ad aliquid) per la comprensione del quando e del dove. L’ad aliquid richiede necessariamente una differente determinazione per la definizione della propria natura; allo stesso modo il quando e il dove dipendono dal tempo e dal luogo (il quando si lega al tempo e il dove al luogo in modo tale che la natura del quando e quella del dove dipendono da tempo e luogo). Boezio sottolinea poi

l’articolazione del quando in passato, presente e futuro (si può dire, sottolinea Boezio, come un volta ci fu un console romano di nome Scipione, come adesso regna Attanasio, imperatore d’Oriente e si può anche parlare del quando al futuro; cfr. In Categorias, 263A – 264A; cfr. anche. P. Porro, “Ex adiacentia temporis”, cit., pagg. 154 – 155 sulla riflessione simpliciana in merito alla relazione tra tempo e quando a partire dalle dottrine aristoteliche). In modo analogo, d’altra parte, si possono individuare alcune analogie tra la trattazione del quando presente nel Liber e in Abelardo con quella delle Categoriae decem (sebbene la trattazione di queste due categorie nelle parafrasi sia comunque molto ridotta); cfr. Categoriae decem pag. 167, 145, 16 – 146, 24. 253 Cfr. Liber IV, 44, 8 sgg. 254 Il termine adiacentia compare, ad esempio, anche in Teodorico per glossare il termine boeziano circumstantia, ma il significato del termine e il suo impiego sono del tutto differenti da quelli del Liber come rileva Lewry; cfr. O. Lewry, The Liber sex principiorum, cit., pag. 260. 255 Cfr. Compendium pag. 45, 82 – 84. 256 Cfr. Compendium pag. 45, 84 – 88. 257 Cfr. Compendium pagg. 79 – 80. 258 Cfr. Compendium pag. 79, 27 – 29. 259 Cfr. Compendium pag. 82, 10 – 14. Quest’ultima indicazione viene però inserita nel Compendium all’interno della riflessione sulla natura e la funzione dei predicamenti in ratione. Il Compendium, infatti, distingue tra predicamenta in naturalibus (nelle cose fisiche e nel mondo concreto; cfr. Compendium pag. 79, 8), in moralibus (in quanto è fatto dall’uomo; cfr. Compendium pag. 80, 43 – 45) e in ratione (cfr. Compendium pag. 81, 81 – 84), una distinzione che forse rispecchia la divisione tra discipline e metodologie differenti presente in Boezio e ripresa da Gilberto e dalla sua scuola. 260 Cfr. Dialectica pag. 78, 24. 261 Cfr. Logica ingredientibus 2, 2.09, pag. 257. 262 Cfr. Dialectica pagg. 78, 34 – 79, 1. 263 Cfr. Introductiones parvolorum, pag. 64, 11. 264 Cfr. Dialectica pag. 79, 3 – 6. 265 Cfr. Logica ingredientibus 2, 2.09, pag. 257. 266 Cfr. Dialectica pag. 79, 28.

267

Cfr. Dialectica pag. 80, 25 – 28.. Cfr. Dialectica pag. 76, 3 – 6. 269 Cfr. Dialectica pag. 75, 35 – 37: At uero distantia spatii non operatur contrarietatem, sed maxime naturae oppositio: neque enim haec substantia, si ab alia maximo spatio diuersa esset, ullo modo ad eam contraria diceretur. 270 Cfr. Dialectica pag. 75, 8 – 11: Ut cum idem mons ad alium comparatus paruus et ad alium magnus inuenitur, in eodem simul 'magnum' et 'paruum', quae contraria conceduntur, reperientur atque idem sibi contrarium dicetur, secundum hoc scilicet quod duo inuicem contraria suscipit. 271 Cfr. Logica ingredientibus 2, 2.06, pag. 169: continuas [scil.: quantitates] enim uocat, quae habent partes ad communem terminum copulatas 272 Cfr. Logica ingredientibus 2, 2.06, pag. 177. 273 Cfr. Logica ingredientibus 2, 2.06, pagg. 168 – 169. Una dottrina molto simile era già stata formulata nella Dialectica. Qui Abelardo descriveva le quantità discrete come composte di elementi che si uniscono tra di loro per formare nuove quantità. Abelardo in questo modo analizzava i concetti di discretus e continuus unitamente alle “unità base” che intervengono nella costruzione delle quantità discrete (cfr. Dialectica, pag. 71, 16 – 23); continue possono essere definite allora le quantità le cui parti sono unite ad un limite comune (cfr. Dialectica, pag. 71, 25 – 26): Continuam eam autem uocauit cuius partes ad communem terminum copulantur). Prendendo le mosse da tale definizione Abelardo osserva poi che uere partes loci copulantur ad communem terminum quia partes corporis copulantur ad communem terminum, ovvero che le parti del luogo hanno un limite comune poiché tale limite è proprio anche del corpo. 274 Cfr. Logica ingredientibus 2, 2.06, pag. 191. 275 Cfr. Liber V, 57, 19 – 21. 276 Cfr. Categoriae pag. 58, 6a11 – 6a20. 277 La definizione delle analogie tra la trattazione del Liber sulla categoria del dove e quella abelardiana, infatti, deve tenere presente l’importanza della tradizione aristotelica e boeziana per la stessa sintesi di Abelardo. La dottrina delle quantità continue, alle quali vengono ricondotte luogo e tempo, ad esempio è già presente nelle Categorie aristoteliche; cfr. Categoriae 54, 4b20 – 4b25 e pag. 55, 5a1 – 5a14. Aristotele sottolinea come continua sia quella quantità che ha 268

un terminus, un limite comune, al quale le sue parti si uniscono; tale definizione spiega tutte le unità base dello spazio fisico dal punto alla linea, alla superficie e al piano. In questo contesto Aristotele definisce il luogo come ciò che “trattiene” le parti del corpo le quali sono unite ad un limite comune; entrambe le serie di parti, del corpo e del luogo, infatti, sono unite al punto. In questa analisi le Categorie, nella traduzione boeziana, introducono anche il termine soliditas; cfr. Categorie 56, 5a24. Boezio, d’altro canto, afferma che il dove dipende dal luogo e, quindi, può essere iscritto nella categoria di relazione (ad aliquid); cfr. In Categorias 262D – 263A (cfr. anche la posizione di Simplicio sulla natura del quando in P. Porro, “Ex adiacentia temporis”, cit., pagg. 152 sgg.). Boezio riporta anche il termine greco per relazione presente in Simplicio (skeseis) che egli traduce con habitudines. In Boezio è presente allo stesso modo una distinzione tra diverse tipologie di dove; si può infatti dire, osserva Boezio, semplicemente che qualcuno è in qualche luogo, oppure, in modo più preciso, affermare che egli si trova nel Liceo o nell’Accademia; cfr. In Categorias 263A. Boezio riprende anche la definizione aristotelica di luogo come ciò che contiene le parti del corpo (cfr. In Categorias 205C – 205D); nel suo commento sottolinea come ogni parte del corpo sia in necessaria relazione con un luogo e come il luogo sia sempre relativo alle parti del corpo cosicché si produce una perfetta reciprocità tra i due termini (luogo e corpo). La quantità continua, tanto per il luogo che per il corpo, è fondata anche da Boezio sull’esistenza di un terminus comune: le parti del luogo e del corpo si congiungono in questo terminus producendo una quantità continua. Anche Boezio, infine, parlerà del punto e accennerà alla relazione tra soliditas e locus: la consistenza ha la stessa natura del luogo in quanto entrambi derivano dalla quantità, determinata da una disposizione reciproca delle parti di cui sono composti; cfr. In Categorias 206C – 206D. Anche nelle Categoriae decem, d’altra parte, compare una riflessione sulla relazione tra le categorie supra e infra (esplicitamente collegate con il sursum e deorsum), l’ubi e la categoria di relazione (ad aliquid). La parafrasi temistiana nel criticare la dottrina che vuole sostituire supra e infra all’ubi sottolinea come deorsum e sursum sembrino dover essere intese come espressioni che appartengono alla categoria di relazione, in quanto un “alto” si può dare unicamente in relazione ad un certo “basso”; cfr. Categoriae decem, pagg. 152, 21 – 153, 5. 278 L’autore del De sex principiis, infatti, unisce due parti della riflessione abelardiana (quella sulla contraddittorietà dell’ammettere

l’opposizione nella quantità e il caso della relazione tra la sfera celeste e ciò che si trova sulla terra) senza riprendere la riflessione dello stesso Abelardo intorno alla differenza tra distanza spaziale e opposizione per natura (la contrarietas). 279 Cfr. Liber VII, 72, 7 – 8. 280 Cfr. Categoriae pag. 48, 2a4. 281 Cfr. Categoriae pag. 78, 15b18 – 79, 15b32. 282 Tale espressione è presente anche in Isidoro (la cui fonte per la trattazione dei predicamenti è probabilmente lo stesso Categoriae decem; cfr. Etymologiae cl. 1186, lib. 2, cap. 26, par. 5 sgg.) e Marziano Capella (cfr. Martianus Capella, De nuptiis Philologiae et Mercurii libri 8, Bibliotheca scriptorum Graecorum et Romanorum Teubneriana, ed. A. Dick, J. Preaux, Stutgardia, in aedibus Teubneri, 1969, liber 4, par. 340, pag. 110, ll. 3 sgg.). 283 Cfr. Categoriae decem pag. 168, 16. 284 Cfr. Categoriae decem pag. 168, 1 – 15. 285 Cfr. Liber VII, 77, 11 – 12. Il passaggio del Liber in questione è abbastanza complesso ma la traduzione che avvicinerebbe la dottrina del De sex principiis a quella delle Categoriae decem, oltre ad essere grammaticalmente possibile, appare la più coerente con il senso dell’intero contesto. Boezio tratta dell’habere al termine di 263A. La riflessione boeziana appare scarna e abbastanza distante dalle indicazioni aristoteliche. Boezio, infatti, sottolinea come l’habere possa essere relativo unicamente a determinazioni che sono diverse da quelle naturalmente possedute dal soggetto e che ad esso si uniscono non per via di una comunanza di proprietà e natura. Boezio poi riprende l’analisi del predicamento dell’avere al termine del proprio commento alle Categorie (seguendo l’ordine espositivo presente nel testo aristotelico); in questo caso Boezio si limita a riprende le indicazioni introdotte da Aristotele soffermandosi sui diversi modi in cui l’habere può essere detto e osservando come tali forme siano relative ad un uso equivoco del termine “avere” (cfr. In Categorias 294B). 286 Cfr. Categoriae decem pag. 168, 22 – 23. 287 Cfr. Liber VII, 72, 5 – 7. 288 Cfr. Dialectica pagg. 80, 30 – 81, 4. 289 Abelardo avanza in questa occasione anche dei dubbi filologici sull’autentica paternità aristotelica dell’ultima parte delle Categorie (dove appunto si tratta dell’habere), accennando, come ipotesi, alla teoria per la quale quella parte fosse stata redatta in real-

tà da Boezio o da altri autori tardi. Anche Abelardo definisce la tassonomia delle forme dell’avere come forme di equivocazione che non hanno a che fare con il nomen praedicamenti (sempre univoco) ma con l’aequivocatio vocabuli (cfr. Dialectica pagg. 109, 32 – 110, 2). Abelardo, tuttavia, ritiene che anche le forme equivoche possano essere ricondotte al medesimo genere e, quindi, possano essere tutte indicate come specie dello stesso genus ‘habere’ (cfr. Dialectica pag. 110, 15). 290 Cfr. Logica ingredientibus 2, 2.09, pag. 258 – 259. 291 La riflessione sul predicamento dell’avere che Abelardo sviluppa prendendo le mosse da questa prima acquisizione dottrinale è, d’altra parte, simile a quella del Liber. Abelardo, infatti, sottolinea come il termine habere abbia in se stesso una duplice significazione; esso rimanda sia alla cosa che possiede che alla cosa posseduta in modo tale che il verbo passivo (haberi) può esso stesso designare l’operazione attiva del possedere qualcosa; cfr. Logica ingredientibus 2, 2.09, pag. 259, 1 – 4. Abelardo continua la sua analisi dell’habere affermando che tale categoria ammette la comparazione secondo il più e il meno ma non la contrarietà. A questo proposito Abelardo sviluppa una complessa argomentazione nella quale egli cerca di dimostrare che i termini opposti a quelli che sono relativi alla categoria dell’habere non appartengono all’habere stesso ma devono essere considerati come determinazioni che si danno sub habere; all’interno dell’habere quindi non si danno termini abnegativi in quanto espressioni come nudo o vedovo (esempi di termini che si oppongono a determinazioni che si trovano in positivo sotto la categoria dell’habere) non sono né habitus né privatio (mancano di una temporalità definita e non sono reciprocamente reversibili; Abelardo sottolinea che qui egli prende le distanza da quanto dice Boezio il quale forse, nota ancora Abelardo, propone nel De divisione un’accezione di privazione e habitus più larga di quella aristotelica; cfr. Logica ingredientibus, 2.09, pag. 259 e pag. 273). Abelardo osserva ancora che se tali termini appartenessero veramente alla categoria dell’habere ne deriverebbe conseguenze paradossali; ad esempio, chiunque non avesse mai avuto una moglie o non l’avesse ancora avuta sarebbe per ciò vedovo, il che è falso. L’analisi della dottrina abelardiana sul predicamento dell’habitus rivela, quindi, alcuni interessanti paralleli con la posizione del Liber su tale argomento. 292 Cfr. Liber VIII, 89, 10 – 16. 293 Cfr. Liber VIII, 91, 1 – 93, 15.

294

Cfr. Dialectica, pag. 428, 17 – 20. Cfr. Dialectica, pag. 429, 34 – 39. 296 Cfr. Dialectica, pagg. 429, 39 – 430, 1. 297 Cfr. Dialectica, pag. 430, 14. 298 Cfr. Logica ingredientibus 2, 2.08, pagg. 246 – 248. 299 Cfr. Logica ingredientibus 2, 2.08, pag. 247. 300 Cfr. Logica ingredientibus 2, 2.08, pag. 248. 301 Cfr. Logica ingredientibus 2, 2.08, pag. 248. 302 Cfr. Dialectica pagg. 431, 5 – 9. 303 Cfr. Dialectica pag. 424, 28 – 31. 304 Abelardo riprende tale dottrina dalle Categorie aristoteliche; cfr. Categoriae pag. 50, 2b26 – 2b28. Aristotele afferma che la sostanza non ammette il più e il meno poiché un uomo non può essere più uomo rispetto ad un altro individuo o a se stesso, così come invece può accadere per qualità come bianco o freddo. Una sostanza, invece, può essere a se maggiore o minore in quanto alla sostanza possono inerire qualità e accidenti i quali sono soggetti ad alterazioni secondo il più e il meno; cfr. Categoriae pag. 52, 3b34 – 53, 4a9. Nelle Categorie aristoteliche è presente, inoltre, anche l’affermazione secondo la quale alcune forme, come l’essere triangolare o circolare, non ammettono il più e il meno. Un quadrato, osserva lo Stagirita, non può essere più quadrato di un cerchio in quanto due forme che non ricevono la stessa ratio non possono essere paragonate l’una all’altra secondo il più e il meno; cfr. Categoriae 67, 11a5 – 68, 11a14. Boezio ribadisce tale dottrina aristotelica nel suo commento alle Categorie; può esistere semplicemente, osserva il filosofo latino, una gradualità tra sostanze prime e seconde in quanto il genere è meno sostanza della specie e la specie lo è dell’individuo (come d’altronde ammetteva anche Aristotele), ma fra elementi appartenenti allo stesso livello d’astrazione nella categoria della sostanza non è possibile sviluppare una gerarchia secondo il più e il meno; cfr. In Categorias 188C; 197A – 198A. In modo analogo Boezio afferma che un triangolo non può essere più triangolare di un altro triangolo; cfr. In Categorias 197D – 198A; cfr. anche 257D sgg. dove Boezio dà le varie definizioni di triangolo e cerchio riprendendo la dottrina aristotelica della ratio. La dottrina delle Categoriae decem su questo punto, invece, è abbastanza vicina a quella aristotelica mentre gli elementi di novità introdotti dalla parafrasi temistiana non vengono ripresi dal Liber. A 295

pag. 153, 13 – 22 l’autore della parafrasi introduce la dottrina secondo la quale due quantità non possono ammettere il più e il meno: una realtà che misura due piedi non può essere maggiore o minore rispetto ad un’altra realtà della stessa lunghezza. L’ad aliquid, invece, ammette il più e il meno (e non è, precisa il testo, la sola; cfr. Categoriae decem pag. 158, 23 – 29). Anche lo scritto temistiano sottolinea come la qualità possa ammettere il più e il meno sebbene non tutte le qualità partecipino allo stesso modo del più e del meno. Le Categoriae decem, tuttavia, introducono il concetto di gradum comparationis, ovvero di una forma di relazione tra termini distinta da quella secondo il più e il meno (cfr. Categoriae decem pag. 164, 13 – 14). L’esempio portato per illustrare questa dottrina è quello dell’eloquenza in quanto chi è eloquente può essere considerato tale rispetto agli altri, mentre l’eloquenza non può essere detta più o meno eloquente. Anche le Categoriae decem poi introducono la dottrina delle figure geometriche le quali non possono essere dette secondo il più e il meno (cfr. Categoriae decem pag. 164, 3 – 25). Infine la parafrasi afferma che anche il fare e il patire possono ammettere il più e il meno (cfr. Categoriae decem pag. 167, 5 – 6). 305 Il termine vox appariva utilizzato da diversi pensatori e logici tra XI e XII secolo (come visto in 4.2.2 per Everardo di Ypres e Ruperto di Deutz) nel senso di elemento linguistico che traduce le corrispondenti passioni dell’anima. In questa accezione compare anche in alcuni luoghi delle opere abelardiane come nella Logica ingredientibus (non a caso nel commento al Peri hermeneias aristotelico) dove si dice che la littera e le espressioni verbali (voces) sono le une ricalcate sulle altre ma entrambe significano l’intellectum che ha una similitudo con le cose materiali; cfr. Petrus Abaelardus, Logica ingredientibus, in Peter Abaelards Philosophische Schriften. I. Die Logica "Ingredientibus" 3. Die Glossen zu Periermeneias (Glossae super Periermeneias) ed. B. Geyer Bernhard, in Beiträge zur Geschichte der Philosophie und Theologie des Mittelalters, XXI (n° 3), Münster, Verlag der Aschendorffschen Verlagsbuchhandlung 1927, pagg. 307 – 503 (d’ora in poi citato come Logica ingredientibus 3), 3.01, § 64 – 65. Abelardo, tuttavia, tenta in alcuni suoi scritti di sostituire al termine vox, per indicare le espressione universali, il vocabolo sermo, dandogli un nuovo valore tecnico. Questa innovazione semantica è dovuta alla possibile contraddizione che l’identificazione tra voces e termini universali poteva produrre. Abelardo, infatti, sviluppa una dottrina secondo la quale gli universali non sono res e, quindi, non devono essere intesi come realtà ontologicamente consistenti, ma sono voces. La vox, tuttavia, può essere considerata essa

stessa come una realtà fisica e, perciò, come una res. In questo modo il nominalismo abelardiano rischia di trasformarsi nuovamente in un realismo. La vox, infatti, secondo le definizione priscianea, può essere identificata con l’aria colpita dalle corde vocali dell’uomo quando egli parla; le voces così, in quanto aria, possono essere considerate sostanze e, quindi, cose (sebbene alcuni pensatori del XII secolo identificassero la vox con la misura della quantità di aria colpita dalle corde vocali, considerando la vox stessa come un accidente della categoria della quantità). Al tempo stesso le voces indicavano il suono prodotto dalle corde vocali e, quindi, le parole; esse potevano non essere dotate di un significato oppure potevano possedere un significato il quale a sua volta era distinguibile in naturale e artificiale (ad placitum). Abelardo intende le voces unicamente come parole portatrici di significato e non come la quantità d’aria colpita dalle corde vocali per rendere comunicabile e udibile tale significato. Per distinguere questi due aspetti della parola Abelardo introduce il termine sermo utilizzandolo in modo specifico; il sermo deve la sua origine unicamente alla convenzione umana cioè ad un originario atto di impositio (mentre la vox ha origine dalla natura). Tale innovazione semantica non ebbe però molto successo e lo stesso Abelardo non ne fa un grandissimo uso. Cfr. J. Marenbon, The philosophy of Peter Abelard, Cambridge, Cambridge university press, 1997, pagg. 176 sgg. Il tema dell’impositio in Abelardo, invece, è relativa alla questione del principio o causa comune in base al quale è possibile imporre un nome mettendo in relazione termine e realtà da esso nominata. Tale causa comune è identificata da Abelardo con lo status, ovvero con quella condizione per cui tutte le realtà corrispondenti ad un medesimo insieme (genere e specie) possiedono la stessa natura (tutti gli uomini, ad esempio, sono tali da avere in comune “l’essere uomo” e in ragione di tale elemento possono essere considerati parti di un’unica specie). Abelardo quindi pensa ad un impositor originario, un soggetto che originariamente ha posto in relazione certi segni con certe realtà in ragione di tale causa comune. Cfr. J. Marenbon, The philosophy of Peter Abelard, cit., pagg. 192 – 195. 306 Cfr. Liber II, 19, 4 – 8. 307 Cfr. Liber II, 21, 13 – 17. 308 Cfr. Liber II, 23, 1 – 4. 309 Cfr. Liber IV, 36, 13 – 15. 310 Cfr. Liber V, 51, 23 – 53, 19.

311

Cfr. Liber V, 58, 6 – 59, 13. Cfr. L. M. De Rijk, Logica modernorum. A contribution to the history of early terminist logic I (On the twelfth century theories of fallacy), Assen, Van Gorcum, 1962, pagg. 24 sgg. 313 Nell’Ars disserendi la trattazione delle dieci categorie viene sviluppata in diversi punti, ma in modo più coerente ed organico a partire da pag. 84 dell’edizione Minio-Paluello; cfr. Adamus Parvipontanus Balsamiensis, Ars disserendi (Dialectica Alexandri), ed. L. Minio-Paluello, Roma, Edizioni di storia e letteratura, 1956 (d’ora in poi citato come Ars). 314 Paluello ritiene che il termine percunctativus sia stato introdotto nella seconda versione dell’opera e impiegato come un sinonimo di disciplinalis; lo stesso Adamo d’altronde sottolinea la relazione tra i due termini, affermando espressamente che disciplinalis è il termine che sostituisce l’antico percunctativus; cfr. Ars pag. 83, 8 e pag. XXX, n. 25 315 Cfr. Ars pag. 82, 20 – 25. 316 Cfr. Ars pag. 82, 23; in questo senso disciplinalis sembrerebbe opporsi anche a vulgo (cfr. Ars pag. 84, 24), espressione con cui viene indicato l’atteggiamento irriflesso, in materia di linguaggio e utilizzo dei termini, e l’uso di un lessico non specialistico. 317 Cfr. Ars pag. 82, 13 – 14. 318 Cfr. Ars pag. 82, 13 – 19. 319 Cfr. Ars pag. 84, 14 – 16. 320 Cfr. Ars pag. 86, 1 – 87, 19. 321 Cfr. Ars pag. 86, 2 – 4. 322 Cfr. Ars pag. 86, 8 – 12. 323 Cfr. Ars pag. 86, 20 – 22. Le interrogationes metafisiche proposte da Adamo come, ad esempio, il problema se l’anima sia immortale o meno e se la provvidenza governi oppure no il mondo costituiscono, a detta dello stesso Parvipontano, questioni che potevano rappresentare autentico oggetto di discussione solamente nel mondo pre-cristiano; la luce della fede portata dall’avvento del Cristo, infatti, rende tali problemi delle semplici pseudo-questioni nelle quali è già chiaro quale dei due corni dell’interrogatio stessa debba essere scelto. Per questo Adamo affianca a tali domande altre interrogationes la cui soluzione sia autenticamente indeterminata. 324 Cfr. Ars pag. 87, 13 – 17. 312

325

Cfr. Ars pag. 88, 10 – 13. Cfr. Ars pag. 90, 16 – 19. Si può notare come la trattazione delle categorie in Adamo di Balsham abbia delle analogie con la dottrina che si trova nel Compendium logicae porretanae. In conclusione di questo trattato, infatti, viene proposta un’analisi delle diverse categorie per spiegarne significato e natura; il metodo adottato per tale indagine è fondato sull’individuazione della funzione della categoria mediante la domanda “che cosa fa il tale predicamento” (cfr. Compendium, pagg. 81, 81 – 82, 22). Nel caso dell’azione, ad esempio, la domanda alla quale il predicamento risponde è: “Che cosa fa il soggetto” (come nel caso: “Che cosa fa la bianchezza? Rende bianco il soggetto”, cfr. Compendium, pag. 82, 95 – 98). Si deve ricordare come tale dottrina parvipontana sia citata e criticata anche da altre opere logiche del XII secolo. In particolare nella Logica ‘Ut dicit’ compare una breve riflessione sulle categorie alla quale è fatta seguire una discussione intorno alla dottrina sul numero delle categorie stesse (le quali si danno nel numero di dieci e non possono essere di più); cfr. Logica ‘Ut dicit’ in L. M. De Rijk, Logica modernorum II.II, cit., (d’ora in poi citato solo come Logica) pag. 386, 17 – 387, 11. La Logica ut dicit afferma che prova di questa teoria è il fatto che le categorie possono essere individuate come risposte a determinate domande del tipo “Que est?”, “Quale?”, “Quantum?” etc. Questa dottrina, introdotta da un dicitur, viene subito dopo criticata dall’autore della Logica ut dicit, dicendo innanzitutto che Aristotele non afferma esplicitamente che il numero delle categorie non possa essere superiore e confutando la posizione che studia le categorie a partire dalla loro funzione cognitiva legata a determinate domande. Il testo introduce questa critica dicendo mentiuntur (cfr. Logica pag. 387, 3), facendo così riferimento ad un imprecisato “loro”. La confutazione di tale dottrina si sviluppa osservando come la domanda “Quid sit?” non prevede necessariamente una risposta che rinvia alla categoria di sostanza in quanto la medesima domanda può essere utilizzata per conoscere ogni altra categoria (se si chiede “Che cos’è il colore” si può rispondere una qualità, mentre “Che cos’è essere largo due cubiti ?” rimanda alla quantità). Il testo, inoltre, sottolinea come partendo dal dato concreto la domanda che si può formulare non conduce direttamente alle categorie ma a determinazioni intermedie: chiedendo che cosa sia l’uomo si deve rispondere “animale” e poi “sostanza” e, così, chiedendo che cosa sia la bianchezza si deve rispondere prima “colore” per poi concludere che ci si trova nell’ambito della qualità. 326

Una simile critica alla dottrina dell’Ars e del Compendium è sviluppata nella Ars meliduna. In tale opera viene presentata una dottrina secondo la quale le diverse categorie possono essere spiegate facendo riferimento a domande come in quid (sostanza), per quantum (quantità) e via dicendo; cfr. Ars meliduna in L. M. de Rijk, Logica modernorum: a contribution to the history of early terminist logic II.I (The origin and early development of the theory of supposition) Assen, Van Gorcum, 1967 (d’ora in poi citata come Ars meliduna) pagg. 314 – 315. Questa teoria è associata all’idea che nel primo predicamento si possano trovare tutti i generi e le specie. Successivamente l’Ars meliduna riporta un’altra dottrina, introdotta dall’espressione aliorum opinio (cfr. Ars meliduna pag. 315) per la quale ogni predicamentum consiste in una collectio predicabilium, ovvero in una unione di tutti i predicati che possono appartenere alla categoria stessa (sulla base della domanda in quid, in quale etc.); questa dottrina è giudicata poco probabile dall’Ars meliduna in quanto in questo modo ci sarebbero cento o mille categorie (dal momento che ciascuna occorrenza della categoria, il predicabilis, diventerebbe un piccolo predicamento o una parte del predicamento “generale”, derivato dalla somma di tutte le sue occorrenze). La formula collectio predicabilium, tuttavia, riprende letteralmente l’espressione utilizzata nel medesimo contesto nel Compendium logicae porretanum. 327 Cfr. Ars pag. 87, 5 – 9. 328 Cfr. Ars pag. 87, 7 – 8. 329 Si può ricordare come la natura della rifrazione nelle superfici catottriche fosse una questione già dibattuta all’interno del pensiero dell’XI e XII secolo, anche in ambiente chartriano. Nelle Glosae ad Platonem di Guglielmo di Conches, ad esempio, è presente una lunga riflessione sulla natura dello specchio che prende le mosse dall’analisi delle diverse forme di visione che Platone elenca e studia nel Timeo, ovvero la contuitio, la intuitio e la detuitio (cfr. Glosae ed. Jeauneau, pag. 243). Guglielmo si sofferma sulle ultime due forme di visione (intuitio o intuicio e detuitio o detuicio); fra queste la prima (intuitio) viene identificata come la categoria a cui appartiene il fenomeno della rifrazione nello specchio (cfr. Glosae ed. Jeauneau pag. 244). Guglielmo procede poi a spiegare sia la posizione di Platone che quella di Aristotele sui fenomeni visivi e su quelli catottrici in particolare. Secondo Platone il raggio visivo che esce dagli occhi prende la forma e il colore delle cose circostanti e così modificato colpisce un oggetto: se questo è opaco il raggio si disperde sulla sua superficie, se esso è chiaro e limpido il raggio viene riflesso e si pro-

duce il fenomeno della visione speculare. Guglielmo osserva che secondo Aristotele in questo caso non si dà comunque nessun simulacrum (cfr. Glosae ed. Jeauneau, pag. 244). Guglielmo continua, poi, spiegando le varie caratteristiche della rifrazione catottrica (l’inversione della destra e della sinistra, l’assenza di enantiomorfia negli specchi concavi, l’inversione di sopra e sotto; cfr. Glosae ed. Jeauneau, pagg. 245 – 248). Per questa parte Jeauneau indica come fonte i capitoli CCXXXIX – CCXLII del commento di Calcidio al Timeo (il riferimento allo specchio si trova nella secunda pars della traduzione calcidiana del Timeo). 330 Cfr. Dialectica pag. 69, 32. 331 Cfr. Dialectica pagg. 69, 34 – 37. 332 Cfr. Dialectica pag. 70, 1 – 4. 333 Cfr. Dialectica pag. 70, 13 – 15. 334 Cfr. Dialectica pag. 71, 6; cfr. anche nota 1 nell’edizione di de Rijk. 335 Cfr. Dialectica pag. 71, 3. 336 Cfr. Logica ingredientibus 2, 2.06 pagg. 176 – 177, dove Abelardo tratta della quantità. 337 Cfr. Logica ingredientibus 3, 3.02, § 11 sgg. 338 L’espressione ymaginabiliter che compare nel Liber è, d’altronde, abbastanza rara. Il termine può essere ritrovato ad esempio in Stefano di Borbone, ma impiegato secondo un’accezione diversa da quella del Liber; cfr. Stephanus de Borbone, Tractatus de diversis materiis predicabilibus, CCCM 124, 124B (Exempla medii aevi; tomus 1, 3), ed. J. Berlioz, J.-L. Eichenlaub, Turnhout, Brepols, 2002 pars 1, titulus 6, capitulum 1, l. 50. D’altra parte anche la forma imaginabiliter è rara. Bisogna comunque ricordare che Abelardo, introducendo la questione, faceva riferimento ad essa come ad un problema ampiamente dibattuto. Un richiamo a tale problema può essere trovato, ad esempio, nel Dragmaticon Philosophiae di Guglielmo di Conches (Guilelmus de Conchis Dragmaticon philosophiae in Guilelmus de Conchis, Dragmaticon philosophiae, ed. I. Ronca; Summa de philosophia in Vulgari, ed. L. Badia, J. Pujol, CCCM 152 (Guillelmi de Conchis opera omnia; tomus 1), Turnhout, Brepols, 1997 lib. 6, cap. 21, par. 2, linea 17). Guglielmo fa riferimento al problema della medesima voce che è udita in diverse orecchie; egli, tuttavia, osserva come si possa dire che tale voce è nelle differenti orecchie solo per una expressa similitudo, negando così l’aporeticità del-

l’argomento (sebbene egli non discuta la questione più in dettaglio). Nei trattati parvipontani e negli altri scritti di logica editi da de Rijk, d’altra parte, la problematica non viene discussa. 339 Cfr. Liber VI, 68, 2 – 10. 340 Cfr. Supra 4.3.1. 341 Cfr. Macrobius Ambrosius Aurelius Theodosius, Commentarium in Somnium Scipionis, ed. J. Willis, G. B. Teubner, 1970 lib. 2, cap. 15, par. 14, pag. 142, linea 15. 342 Cfr. Liber II, 23, 1 – 4. 343 Cfr. O. Lewry, The Liber sex principiorum, cit., pagg. 262 sgg. 344 Cfr. L. Minio-Paluello, «Magister sex principiorum», cit., pagg. 559 – 560. Paluello, in particolare, notava la prossimità tra l’autore del Liber e Abelardo per quanto riguarda la dottrina del quando, mentre sottolineava le significative differenze tra i due pensatori sia in relazione ad alcuni aspetti della stessa dottrina sul quando sia in relazione alla teoria della forma e della compositio. 345 Cfr. la ripresa delle osservazioni di Paluello in O. Lewry, The Liber sex principiorum, cit., pag. 252. 346 Per una ricostruzione dettagliata della storia del Liber cfr. L. Minio-Paluello, «Magister sex principiorum», cit., pagg. 537 – 546. 347 Cfr. L. Minio-Paluello, «Magister sex principiorum», cit., pag. 539. 348 Cfr. O. Lewry, The Liber sex principiorum», cit., pag. 268. 349 Se il Liber era parte, secondo la ricostruzione di Lorenzo Minio-Paluello, di un’opera più complessa e di maggiore respiro, all’interno della quale la trattazione delle sei categorie aristoteliche “minori” rappresentava solamente una parte, si può ipotizzare che l’anonimo autore dell’opera avesse deciso di servirsi di differenti fonti, ciascuna delle quali doveva venire impiegata per la stesura di una certa parte dello scritto (dedicata ad una specifica questione speculativa: logica, etica etc…). Abelardo, allora, può rappresentare la fonte principale impiegata per la preparazione della sezione logica dell’opera, mentre Porreta e la sua scuola potevano rappresentare il punto di riferimento dottrinale per le parti dello scritto dedicate a problemi metafisici (come quello della forma sostanziale).

NOTA EDITORIALE

La presente traduzione è condotta sulla edizione critica del Liber curata da Lorenzo Minio-Paluello: Anonimus, Anonymi Fragmentum, vulgo vocatum «Liber sex principiorum», in Aristoteles, Aristoteles latinus I. 6 – 7: Categoriarum supplementa: Porphyrii Isagoge translatio Boethii et Anonimi Fragmentum vulgo vocatum «Liber sex principiorum», ed. L. Minio-Paluello, B. G. Dod, Bruge-Paris, Desclee de Brouwer, 1966. L’edizione di Paluello, infatti, è da preferire alle due precedenti, entrambe comunque successive a quella del Migne, curate da Heysse e da Van den Eynde; cfr. Liber de Sex Principiis Gilberto Porretae Ascriptus, ed A. Heysse, in «Opuscula et textus» VII (1929) e Gilbertus Porretanus, Liber de sex principiis, ed. D. Van den Eynde, Monasterii Westfalorum, Aschendorff, 1953. L’edizione di Van den Eynde, d’altra parte, è una correzione e revisione di quella di Heysse.

LIBER SEX PRINCIPIORUM LIBRO DEI SEI PRINCÌPI

I

[1] Forma vero est compositioni contingens, simplici et invariabili essentia consistens. [2] Compositio etenim non est, quoniam a (5) natura compositionis seiungitur; compositionum enim unaqueque alteri adveniens compositioni maiorem se coniunctam quodam modo efficit, in forma autem hoc minime est. Nam in eo quod corpus album est, non dicitur maius et minus se ipso non albo; nec, si non album intelligatur, destructio compositionis vel (10) minoratio aliqua facta est, sed alteratio sola. [3] Quoniam autem fortasse in aliis contingit idem proferri, additum convenienter existimo «invariabili essentia consistens»; in anima enim alteratio contrarietatis reperitur, ut tristitie et gaudii. [4] Sed quoniam, ut aiunt, quiddam simplicitati ‹quidem›, nulli vero variationi (15) subiectum est, ut ea que mundi est anima, dissocians hanc ab omnibus addidi «compositioni contingens». Erit itaque terminus forme dicta definitio; neque enim superfluum neque minus continere, si quis subtiliter investigaverit, reperietur. [5] Habet autem dubitationem, ex precedenti, utrum nulla forma (20) invariabilis sit. Hoc autem videtur ut in pluribus; nam eadem oratio veri et falsi susceptiva est, et albedo claritatis et obscuritatis, et ratio (5) eius quod in re est et non est. Sed non est ita; nam nihil differt albe-

I

1. La forma è ciò che si aggiunge al composto in quanto consiste in una essenza semplice e invariabile1. 2. E infatti non può coincidere con il composto, poiché è diversa dalla natura del composto stesso. Un qualsiasi composto che si unisce ad un altro composto, diviene in qualche modo, in virtù dell’unione stessa, più grande; ciò, invece, non si verifica nella forma. Infatti il corpo che è bianco non è detto maggiore o minore rispetto a se stesso quando non è bianco; se fosse pensato come non bianco non si produrrebbe una qualche distruzione né il composto perderebbe nulla, ma si avrebbe solamente un’alterazione. 3. E poiché forse la stessa osservazione si può trovare anche in altri [pensatori], ritengo appropriato aggiungere “che consiste di una essenza invariabile”2. Nell’anima infatti sono presenti stati tra loro contrari, come la tristezza e la gioia. 4. Ma poiché, come si dice, una realtà semplice non è soggetta a nessuna forma di variazione, come nel caso dell’anima del mondo, ho aggiunto, separando [la forma] da ogni altro elemento, “che si unisce al composto”3. La precedente definizione sarà, quindi, quella propria della forma; infatti non si potrà rinvenire in essa, a patto che si cerchi con attenzione, nulla di superfluo o di manchevole. 5. Si può avere qualche dubbio, dopo quanto si è detto prima, se nessuna forma sia invariabile. Si ha questa impressione osservando molti fenomeni. Infatti il medesimo discorso è suscettibile della verità e della falsità, la bianchezza del chiarore e dell’oscurità e il principio di ciò che è e di ciò che non è nella realtà4. Ma le cose

dinem claram dicere quam subiectum clarum dicere; non est autem oratio contrariorum susceptiva, nec ratio eius quod in re est et non est; sed sunt note eorum que sunt in anima passionum. De his autem alibi dictum est. [6] Substantiale vero est quod esse confert ex quadam compositione (compositioni ut in pluribus) quod impossibile est deesse, ut ratio et sensus, sive horum similia, ut continuum et discretum. (10) Hoc vero erit ut materia vel ut forma, ut corpus quidem est materia hominis, anima vero forma. Erit itaque substantiale ut est ‘corpus’, ‘homo’, atque ‘ratio’. Hec autem in his que de categoriis sunt, expedita sunt. [7] Videtur autem forma quedam a natura esse, quedam vero (15) in actu; ratio etenim a natura est, calor vero et passio quedam in actu consistunt. In quibusdam autem dubitatio est utrum a natura an ab actu incipiant, ut in figura incisionis (nam nihil additionis fit, sed separatio quedam partium); dico autem figuram esse a natura,… sentiri vero ab actu; sed que coniunctionis est, actus (20) est, ut domus. Manifestum est autem de his. [8] Sed in his que in pluribus sunt palam non est; nam ea que in pluribus sunt, in actione esse impossibile est, a natura vero non videtur fieri, quoniam ea que a natura sunt, a creatura existente principium sumunt; palam vero est creaturas non esse (nihil enim rationis omnino quare huiusmodi creature sint poterit explicari).

non stanno così. Infatti non c’è differenza tra definire “chiara” la bianchezza e definire “chiaro” il soggetto ; il discorso non può prendere su di sé i contrari né il principio ammette ciò che è e ciò che non è nella realtà, ma “sono segni delle passioni dell’anima". Riguardo a queste cose si è discusso anche in altri luoghi. 6. La forma sostanziale, invece, è ciò che conferisce l’essere al composto a partire da una certa composizione (sia al singolo composto sia in molteplici realtà) e che è impossibile che manchi, come la ragione e il senso o cose ad esse simili, come il continuo e il discreto. Questa sarà come la materia o come la forma, così come il corpo è la materia dell’uomo mentre l’anima rappresenta la sua forma. Sarà sostanziale come lo è il “corpo”, “l’uomo” e la “ragione”. Di tutto ciò si è discusso trattando delle categorie5. 7. Sembra poi che alcune forme derivino dalla natura e altre derivino dall’azione. E infatti il principio deriva dalla natura, mentre il calore o la passione consistono nell’azione6. In alcuni casi, tuttavia, ci si può trovare in difficoltà nel dire se una certa forma derivi dalla natura o dall’azione, come nel caso delle immagini incise (infatti non si dà una unione ma una certa separazione di parti); affermo allora che la figura deriva dalla natura, ma è percepita in realtà attraverso l’azione. Ma tutto ciò che implica una unione deriva dall’atto come la casa. Tutto ciò è chiaro riguardo a queste cose. 8. Ma [tutto ciò] non è evidente in quelle realtà che sono in più cose. Queste, infatti, non possono consistere nell’azione; al tempo stesso, però, non sembrano derivare dalla natura, poiché quelle realtà che derivano dalla natura traggono la loro origine da una creatura esistente. È chiaro allora che non sono creature (infatti nessuna ragione potrà spiegare in che modo esistano simili creatu-

[9] Natura igitur occulte in his operatur; nam, sicut ex plurium coniunctione constitutio quedam priorum excedens quantitatem efficitur, sic ex singularium discretione unum (5) quiddam intelligitur eorum excedens predicationem. Quapropter communitas omnis naturalis est quoniam a singularitate procedit, que creationi coequatur. [10] Subtiliter autem speculantes, sicut naturam in actionibus latenter operari invenimus, sic creaturarum creatorem in natura ex actu; numero etenim naturam (10) stabilivit. Sed hec hactenus; alterius enim considerationis sunt. [11] Forma vero alia quidem est in subiecto et de subiecto dicitur, ut scientia in subiecto quidem est anima et de subiecto dicitur ut de grammatica; quedam vero est in subiecto, de subiecto autem nullo dicitur, ut albedo Socratis (similiter autem (15) his quecumque formarum sunt individue); quedam vero dicuntur de subiecto, in subiecto autem nullo sunt, ut rationale atque mortale. [12] Eorum vero que in subiecto sunt, de subiecto autem indicibilia sunt, alia sunt sensibilia, alia insensibilia; sensibile vero est quod sensu comprehenditur (ut est albedo, sonus, (20) sapor, odor et calor, percussio et dulcedo), insensibilia vero que ratione (ut disciplina). Simpliciter autem nihil eorum que de subiecto dicuntur sensibilia sunt. [13] Manifestum autem ex his que preposita sunt quoniam quedam sunt sita alicubi, ut nigredo in oculo; quedam vero difficile erit assignare, ut

re). 9. La natura allora opera in esse in modo nascosto. Infatti come dall’unione di molteplici parti deriva una certa struttura che supera in quantità gli elementi costituenti, così dalla separazione di fattori singoli diviene intelligibile una certa unità che supera la loro predicazione. Pertanto ogni unione naturale esiste in quanto deriva dall’unità secondo un processo che si paragona alla creazione. 10. Se indaghiamo con acume, come troviamo che la natura è attiva nascostamente anche nelle azioni, così [scopriamo] a partire dall’azione nella natura il creatore delle creature7; e infatti egli costruì la natura mediante il numero8. Ma su queste cose basta così; si entra a questo punto, infatti, nel campo di un’altra disciplina. 11. Alcune forme sono in un soggetto e vengono predicate di un soggetto, come la scienza che è nel soggetto, ovvero nell’anima, e viene predicata di un soggetto, come nel caso della grammatica9. Quelle forme che sono in un soggetto non si predicano di nessun soggetto, come nel caso della bianchezza di Socrate (e, in modo analogo, di tutte le forme individuali); quelle forme, invece, che si predicano del soggetto, non sono in nessun soggetto, come mortale e razionale. 12. Fra le forme che sono nel soggetto, e che non possono essere predicate del soggetto, alcune sono sensibili e alcune sono non sensibili; sensibile è ciò che può essere compreso con il senso (come la bianchezza, il suono, il sapore, l’odore e il calore, il ritmo o la dolcezza), non sensibile, invece, è ciò che viene inteso dalla ragione (come la conoscenza). Ora nessuna di quelle forme che sono predicate del soggetto sono sensibili. 13. È chiaro da quanto si è detto prima che alcune forme possono essere localizzate in qualche luogo, come la nerezza nell’occhio, mentre per altre è difficile trovare un luogo, come nel caso della scienza, della paternità e della figliolanza, a

scientia et paternitas et filiatio, nisi forte in generantium et componentium complexione. [14] Singulum vero eorum que dicta sunt incomplexionis eius (5) que in voce est notatio est. Hoc vero erit vel subsistens vel contingens. Eorum vero que existenti contingunt singulum aut extrinsecus advenit aut intra substantiam simpliciter consideratur (ut linea, superficies, corpus). [15] Ea vero que, quod extrinsecus est exigunt, aut actus aut pati aut dispositio aut esse (10) alicubi aut in mora aut habere necessario erunt. Sed de his que subsistunt et que solum in quo existunt exigunt, in eo qui De Categoriis inscribitur libro sufficienter disputatum est; de reliquis vero continuo.

meno che forse [non le si voglia collocare] nella unione degli elementi che le costituiscono e le generano10. 14. L’elemento singolo consiste nel significare, fra le cose che sono state dette, l’assenza di connessione dei termini11. Questo sarà o il sussistente oppure ciò che si aggiunge come accidente. L’elemento singolo che appartiene a quelle realtà le quali ineriscono all’esistente come accidenti o viene dall’esterno o può essere rivenuto all’interno della sostanza (come la linea, la superficie, il corpo). 15. Le forme che sono relative a quanto è estrinseco [al soggetto] sono necessariamente o l’azione o il patire o la disposizione, il trovarsi in un luogo o nel tempo o l’avere. Ma riguardo a quelle che sussistono e che si ritiene si diano solamente nel soggetto, se ne discute ampiamente nel libro intitolato Categorie; riguardo alle altre questioni verranno trattate subito12.

II

[16] Actio vero est secundum quam in id quod subicitur agere (15) dicimur, ut ‘secans’ quis eo quod secet dicitur. Est autem alia quidem anime, alia vero corporis; differunt autem quoniam ea que corporea est, movens necessario est id in quo est (idem enim et quod agens corpus est mobile est), anime vero actio non id movet in quo est, sed coniunctum (anima enim, dum agit, (20) inmobilis est, movet autem corpus). [17] Anima vero inmutabilis permanet, quoniam quidem nec secundum locum nec secundum aliorum motuum quemquam movetur nisi secundum alterationem; non enim crementum suscipiendo movetur neque decrescendo neque ad oppositum locum transeundo. [18] Locus enim corpus est, anima vero non corpus; impossibile vero est noncorpus corpore moveri, quare nullam loci anima suscipit mutationem; solum enim corpus in eo quod de loco ad locum transit movetur. [19] Hoc autem quibusdam dubitabile apparebit; speculo enim (5) inmobili permanente, imaginis motus fieri videtur ad oppositi mutationem; impossibile ergo erit solvere, concesso quod vere ibi forma existat; …si vero non, esse incredibilis error putabitur in vulgo (licet convenientius sit) dicere…. [20] Scire autem oportet quoniam omne quod in motu est (10) actio est; moveri etenim actio est; si quid

II.

AZIONE

16. L’azione è ciò secondo cui siamo detti agire in ciò che è sottoposto, come “colui che taglia” è così in ragione di ciò che taglia13. Esistono azioni che sono proprie dell’anima e altre che sono proprie del corpo; queste due tipologie di azione differiscono in quanto, nelle azioni corporee, necessariamente è mobile anche quella realtà dalla quale l’azione trae origine (infatti anche il corpo che agisce si muove), mentre l’azione dell’anima non muove quella realtà in cui si sviluppa ma solo quanto è unito (l’anima, infatti, mentre agisce è immobile e muove, invece, il corpo). 17. L’anima, infatti, permane immutabile, poiché non può muoversi né secondo il luogo né con altri tipi di movimento, ma solo con un moto di alterazione; l’anima non può muoversi aumentando o decrescendo né spostandosi verso il luogo opposto. 18. Il luogo, infatti, è un corpo mentre l’anima non è un corpo: è impossibile che qualcosa non corporale sia mosso da qualcosa di corporale, per cui nell’anima non si può dare nessuna mutazione di luogo; solo il corpo nella misura in cui passa da luogo a luogo è mosso14. 19. Tutto ciò, tuttavia, ad alcuni potrebbe apparire dubbio; benché lo specchio rimanga immobile, sembra che l’immagine [in esso riflessa] si muova spostandosi tra gli opposti. Sarà impossibile risolvere la questione una volta che si conceda che là esiste veramente una forma. Se si dicesse però che l’immagine non c’è questo sarà considerato dai più un errore gravissimo (benché sia una soluzione preferibile)15. 20. È importante sapere che tutto ciò che è in movimento è un’azione; l’essere mosso, infatti, rappresenta

igitur movetur, agit necessario; omnis igitur actio in motu omnisque motus in actione firmabitur; proprium igitur actionis est in motu esse, sicut proprium motus in actione. [21] Et in his quidem actionibus ex quibus generatio est aliqua palam est; de his vero que (15) corrumpuntur fortasse obicitur, nam qui destruit in motu est, nihil autem agere videtur (nam nihil efficitur, sed quod factum est destruitur); dico autem actionem non aliquid, sed in quid agat, exigere. [22] Non est autem motus actio, sed quale. Quiescere enim quale est, quare et motus quale quid erit; simpliciter enim quecumque (20) contrariorum oppositionem suscipiunt, eiusdem recipiunt generis predicationem. [23] Naturalis vero proprietas actionis est passionem ex se in eo quod subicitur inferre; omnis enim actio passionis effectiva est omneque passionem inferens actio est. Contingit tamen actionem actione effici; actio enim eius quod per se movetur eius actionis quod per aliud generativa est; actio enim ab animali illata ab ea, que animalis est, principium sumit. [24] Nihil tamen (5) interest sive agere sive pati animalis eius quod ab animali agere est principium dicatur (etsi actus quidem primordiale principium sit, pati vero permixtum); quamobrem actionis et passionis actus est generativus. [25] Facere vero id quod quale est ex se gignit; qualitas (10) etenim calor est, efficit autem eam que calefa-

un’azione16. Se qualcosa è mosso, necessariamente agisce. Allora si può dire che ogni azione consiste in un movimento e che ogni movimento consiste in una azione; è proprio, quindi, dell’azione essere in movimento, così come è proprio del movimento essere in azione. 21. Questo è chiaro in quelle azioni in cui si dà una qualche generazione; riguardo a quelle realtà che subiscono un processo di corruzione ci potrebbero, invece, essere delle obiezioni dal momento che, sebbene colui che distrugge compie un movimento, sembra che non si produca nulla (infatti nulla è fatto mentre ciò che viene fatto è distrutto). Tuttavia dico che l’azione si dà non in relazione a qualcosa ma nella cosa in cui si agisce. 22. Il moto però non è una azione ma una qualità. Anche lo stare in quiete, infatti, è una qualità, ragion per cui il movimento sarà una qualità; infatti realtà diverse nelle quali si dia l’opposizione dei contrari, appartengono al medesimo genere. 23. È una proprietà naturale dell’azione produrre un patire in ciò che è oggetto [dell’agire stesso]; infatti ogni azione produce una passione e ogni cosa che può produrre il subire può essere chiamata azione17. Accade anche che l’azione sia prodotta dall’azione; l’azione di quelle realtà che hanno in sé il principio del loro movimento produce l’azione di quelle cose che si muovono in virtù di altro; l’azione prodotta da una realtà animata trae la propria origine dalla stessa realtà animata18. 24. Non importa, tuttavia, che l’agire di un essere animato il quale deriva da un altro essere animato sia detto agire o patire (anche se l’agire è un principio originario mentre il patire risulta derivato); perciò l’agire può produrre sia una azione sia un patire. 25. La qualità fa nascere da sé il fare. Il calore infatti è una qualità, e produce quell’azione che è il riscaldare.

cere est actionem. Qualitatum vero particularium positio effectrix est et quantitatum (asperitas enim et lene et similia qualia sunt, linea vero et superficies et soliditas sunt quantitates, universa autem hec a situ substantiam et generationem habent); [26] quantitas autem (15) quantitatis (ut longitudinis linea, latitudinis planum, altitudinis vero solidum corpus); qualitas etiam qualitatis (ut caliditatis calor); situs autem agere et pati (in dispositionis namque compositione quedam generatio simplicium fit, quam in motiva actione consistere necesse est); ubi vero locus; habere autem corpus (ea enim que (20) circa corpus sunt habere dicimur). [27] Eorum vero que in subiecto non sunt individuorum corruptio quidem in primis, generatio vero in his que mox post primorum destructionem consistunt; eorum vero que de ipsis predicata sunt, ea a quibus nulla omnino est predicatio (ut omnes quidem homines eius hominis qui communis et universalis est). [28] Recipit autem facere et pati contrarietates et magis et minus; secare enim ad plantare contrarium est, et urere ad (5) humidum quidem facere contrarium est; et calefieri magis et minus dicitur, et infrigidari, et siccari et humidum fieri, et tristari et gaudere magis et minus dicitur.

La posizione è causa delle qualità e quantità particolari (sono qualità infatti il ruvido, il liscio e cose simili, mentre la linea, la superficie e la consistenza sono quantità; tutte queste però traggono la loro generazione e sostanza dalla posizione). 26. La quantità è causa delle quantità (la linea produce la lunghezza, il piano la larghezza, il corpo solido lo spessore); la qualità è causa della qualità (come il caldo del calore); la posizione è causa dell’agire e del patire (una qualche generazione delle realtà semplici, la quale deve consistere in una azione capace di muovere, si produce quando le cose si dispongono in una certa maniera); il luogo del dove; e il corpo dell’avere (è definito avere ciò che riguarda il corpo). 27. La corruzione delle realtà individuali che non sono nel soggetto avviene a causa delle prime [forme], mentre la generazione consiste in quelle [qualità] che si producono subito dopo la corruzione delle prime; [la corruzione e generazione] di quei termini che sono predicati delle medesime realtà individuali [dipende da] le stesse realtà dalle quali non deriva assolutamente nessuna predicazione (come tutti gli uomini sono causa di quell’uomo comune e universale)19. 28. Del fare e del patire si possono predicare i contrari e il più e il meno; il tagliare è contrario del dare una forma, e il bruciare del rendere umido. E si può predicare il più e il meno per il riscaldare e così anche per il raffreddare, il seccare, il rendere umido, il rattristarsi e il rallegrarsi.

III

[29] Passio autem est effectus illatioque actionis secundum quam hec quidem patiuntur, illa vero minime, secundum quod (10) quedam animantiora sunt (ut animantius quidem brutum arbore est, animantius vero rationale inrationali). [30] …Omnia vero que de generatione dicta sunt, eadem etiam dici possunt de ea que in rebus est actione; quedam vero prolatione non recta sed in transmutatione.… [31] Est enim pati eorum que multipliciter (15) dicuntur. Anime enim actionum unaqueque passio dicitur, quas quidem sub actione locavimus; ut amor odium, tristari gaudere, que omnia passibiles actiones anime appellamus. Dicitur quoque passio quod in naturam agit, ut morbus, febris et egritudines et reliqua que qualia dicta sunt. Passio vero est, ut dictum est, (20) prima actionis generatio. [32] Non est autem in agente passio, sed in eo in quod agitur et quod operantis actum suscipit; percutiens etenim pati non dicitur, sed materia ictum suscipiens. Et de passione quidem hec dicta sufficiant; ea autem que nunc relinquuntur in eo qui De Generatione est tractantur.

III.

PASSIO

29. Il patire è un effetto e una conseguenza dell’azione, in virtù della quale alcune realtà patiscono, mentre altre risultano patire solo in minima parte e ciò in ragione del fatto che alcune sono più animate (come l’animale bruto è più animato dell’albero, e l’animale dotato di ragione di quello bruto)20. 30. Tutto ciò che si può dire della generazione può essere riferito anche all’azione presente nelle cose anche se in certi casi si deve ragionare in modo non diretto ma traslato. 31. Il patire appartiene a quel genere di determinazioni che si possono dire in molti modi. Infatti si chiamano passioni le attività dell’animo che vengono annoverate nel genere dell’azione, come l’amore, l’odio, la gioia e la tristezza che definiamo tutte azioni passive dell’anima. Sono considerate passioni anche quelle che agiscono in natura come il contagio, la febbre, le malattie e altre cose che sono comunque definite quali. La passione stessa, come è stato detto, è il primo prodotto dell’azione. 32. Il patire non è presente nell’individuo che agisce, ma in ciò in cui si agisce e che è l’oggetto dell’azione di colui che agisce; e infatti non si dice che patisce colui che colpisce ma la materia che riceve il colpo. Quanto si è detto sul patire può bastare. Ciò che ancora non è stato trattato lo si può trovare nel De Generatione.

IV

[33] Quando vero est quod ex temporis adiacentia relinquitur, tempus autem quando non est; utriusque autem ratio coniuncta est: ut tempus quidem preteritum quando non est, effectus autem eius et infectio que est secundum quam aliquid dicitur fuisse (5) quando quidem est. [34] Instans quoque quando non est (sed secundum quod equale vel inequale est), eius autem affectio qua aliquid dicitur nunc et in instanti esse quando est; futurum similiter tempus quando non est, sed id quod futurum est, quoniam contingere necesse est secundum quod aliquid dicitur futurum esse. (10) [35] Est igitur quando aliud quidem ex eo quod abiit, aliud vero ex eo quod instat, aliud vero ex eo quod contingere necesse est. [36] Dictum est enim in Categoriis preteritum et futurum quantitates esse et, quod magis est, continuas ad presens. De preterito autem hoc dictum est, non quod in substantia permaneat, sed (15) quoniam in excessu suo nondum preteriit; de futuro vero quoniam necessarium est contingere quod tantumdem est ac si instaret; nulla enim differentia est in eo quod permanet et quod futurum est et quod nunc abiit. [37] Quamobrem et de futuris agitur, et secundum ea aliquid dicitur, et nuncupationem existentium (20) sortiuntur (ut ‘cras orietur sol’, ‘cras erit navale bellum’, ‘heri obiit

IV.

QUANDO

33. Il quando è ciò che rimane da quanto è prossimo al tempo. Il tempo tuttavia non è il quando21. La ragione di entrambi è unita. Il quando non è il tempo passato ma rappresenta piuttosto prodotto e conseguenza di quel tempo; il quando permette di dire che una certa realtà è stata. 34. Il quando non è neppure il presente (il presente, infatti, è ciò in ragione del quale qualcosa si può dire uguale o non uguale); il quando è piuttosto una affezione del presente per il quale qualcosa è detto essere ora e nel presente. Similmente il quando non è il tempo futuro il quale è ciò che sarà, poiché è necessario che accada in base al fatto che si dice che qualcosa accadrà. 35. Pertanto esiste un quando che deriva dal passato, un altro che procede dal presente, un terzo che è legato a quanto necessariamente accadrà nel futuro. 36. Nelle Categorie, infatti, è detto che il passato e il futuro sono quantità e, cosa ancora più importante, quantità legate al tempo presente. Ciò viene detto riguardo al passato non per il fatto che esso permanga nella sostanza, ma poiché non è ancora passato [del tutto], giungendo alla propria fine; [mentre si dice questo] del futuro perché deve accadere ciò che secondo il corso degli eventi si sta per verificare (che è uguale come se fosse imminente). Non c’è nessuna differenza, infatti, in ciò che perdura, in ciò che sarà e in ciò che ora è trascorso. 37. E perciò si tratta del futuro e si definisce qualcosa in relazione al futuro stesso; [in questo modo] si cerca di conoscere le cose esistenti (come “domani sorgerà il sole”, “domani ci sarà una battaglia navale”,

Socrates’), et aliquid dicitur secundum tempus id quod futurum est eo quod nascitur necessario futurum de eo quod est (ut ‘Callias disputabit cras’ et ‘non disputabit’; ‘disputabit’ enim futuram actionem significat); nihil autem est quod in (25) substantia adhuc sit. [38] Differt autem quando ab eo quod ubi est, quoniam in quocumque tempus est vel erit vel fuit, in eodem et quando est vel erit vel fuit, quod secundum tempus dicitur; quando enim quod ex instanti est cum ipso instanti insimul in eodem est, quando vero ex eo quod abiit et quod futurum est numquam insimul erunt; ubi autem et locus a quo fit numquam in eodem (ubi enim (5) circumscriptio est, locus autem in complectente). [39] Distat autem quando quod ex preterito est ab eo quod ex futuro procedit, quoniam quando quod ex preterito est preterito posterius est, quod vero ex futuro est prius futuro est. Quando autem unum et idem, primum quidem ex futuro est, secundo ex presenti, posterius vero (10) ex preterito; quemadmodum et tempus primum nunc quidem futurum est, postea vero presens, demum preteritum. [40] Sicut autem et tempus aliud quidem compositum aliud vero simplex (est autem compositum quod in composita actione consistit, simplex vero quod cum simplici recedit), ita et quando (15) aliud simplex aliud vero compositum: simplex quidem ut in momento esse et nunc esse, compositum autem ut in hora, die, hebdomada, et similibus. [41] Amplius autem, quemadmodum et temporis partes sibi sine mora succedunt, similiter et

“il giorno prima Socrate morì”) [dal momento che] qualcosa è detto futuro secondo il tempo per il fatto che il futuro nasce necessariamente da ciò che esiste già (come “Callia parlerà o non parlerà domani”; il termine “parlerà” infatti significa una azione futura); niente di ciò è ancora in sostanza22. 38. Il quando differisce dal dove; poiché in qualunque condizione il tempo è o era o sarà, nella medesima condizione anche il quando, in relazione al tempo, è o era o sarà. Il quando che deriva dal presente si dà sempre insieme con il medesimo presente; il quando che deriva dal passato e quello che deriva dal futuro non potranno mai verificarsi nello stesso momento; anche il luogo e il dove (che dal luogo è prodotto) non si danno mai nella medesima realtà (il dove consiste infatti nel circoscrivere, il luogo in ciò che circonda)23. 39. C’è differenza anche tra il quando che deriva dal passato e il quando che si produce a partire dal futuro, poiché il quando che deriva dal passato è successivo rispetto al passato mentre il quando che deriva dal futuro è precedente rispetto al futuro. Il quando è sempre uno e identico ma prima si dà quello che deriva dal futuro, per secondo quello che procede dal presente e infine il quando che si produce dal passato: allo stesso modo il tempo prima è futuro, poi diviene presente e alla fine è passato. 40. Similmente come il tempo può essere composto o semplice (è composto ciò che consiste in una azione composta, semplice ciò che viene meno quando il semplice stesso scompare) così anche il quando può essere semplice o complesso: è semplice come quando si dice “adesso” o “ora”, è composto se si fa riferimento all’ora, al giorno, alla settimana e simili. 41. Ancora più importante, come le parti del tempo si succedono senza inter-

quando; quando quippe preteriti et futuri ad presens copulative reducuntur. (20) [42] Distat autem tempus ab eo quod quando est quoniam secundum tempus aliquid mensurabile est, ut annus quidem dicitur tempore diuturnus, et motus multus dicitur eo quod multo tempore permaneat; at secundum quando nihil mensuratur sed aliquando dicetur esse, et secundum idem temporale et variabile pronunciabitur. [43] Inest autem quando non suscipere magis et minus; non (5) enim dies magis et minus a die dicitur, nec unus quidem diuturnior altero. Similiter autem et de aliis, quare omni quidem quando inest non dici magis et minus. [44] Quando quoque nihil est contrarium; etenim quando quod ex presenti est, unum et idem ex futuro et preterito est; (10) impossibile autem erit duas de eodem predicari contrarietates individuo. [45] Amplius autem contraria numquam in eodem insimul erunt; quando autem quod secundum presens et preteritum et futurum est, insimul in eodem sunt; idem namque quod est, fuisse verum est et permansurum; contrariorum vero rationis est (15) numquam in eodem insimul existere neque de eodem dici individuo in eodem tempore, quare contrarietas in eo quod quando est non annunciabitur. [46] Est autem quando in omni eo quod cepit esse, ut corpus quidem universum aliquando est et in tempore;

valli ugualmente accade per il quando; il quando del presente e quello del futuro possono veramente essere ricondotti al tempo presente mediante una forma di legame. 42. Il tempo differisce da ciò che si può definire quando poiché qualcosa è misurabile in base al tempo, come l’anno è detto lungo in ragione del tempo stesso e ad un movimento si predica l’aggettivo “molto” per il fatto che dura molto tempo; in base al quando, invece, non si può misurare qualcosa ma solamente dire che esso accade in un certo momento e, in questo modo, stabilire che è soggetto al tempo e al cambiamento. 43. Non è nella natura del quando ammettere il più e il meno; infatti un giorno non può essere detto maggiore o minore di un altro giorno, né l’uno può essere detto più lungo dell’altro. Similmente [si deve dire] per le altre cose, poiché di tutto ciò che ha in sé il quando non si può predicare il più e il meno. 44. Il quando non è neppure contrario a nulla; e infatti il quando che deriva dal presente è uno e identico a quello che deriva dal futuro e dal passato; sarà, tuttavia, impossibile predicare del medesimo individuo due termini contrari. 45. Cosa ancora più importante, determinazioni contrarie non potranno mai trovarsi nel medesimo soggetto nello stesso tempo; ma il quando che è secondo il presente, quello secondo il passato e quello secondo il futuro sono nella medesima realtà insieme; infatti il medesimo termine che esiste, è stato, è attualmente e sarà; è proprio del principio delle determinazioni contrarie non esistere mai nello stesso tempo nel medesimo soggetto né essere predicate del medesimo individuo nello stesso tempo, ragion per cui l’opposizione non può essere ritrovata nel quando. 46. Il quando è presente in tutto ciò che iniziò ad essere, come il corpo nel suo insieme è in un certo

suscipit enim (20) temporum alterationes (alteratur enim corpus in estu, hieme, vere et autumno). Similiter autem et anima; acutius etenim quidam in hieme, quidam in estate, quidam in vere speculantur secundum instrumenti complexionem; anima enim coniuncta complexiones comitatur, ut qui aride et gelide compaginationis dementiores se ipsis in autumno sepe sunt, quibus vero sanguis principatur, in vere. [47] Similiter autem et de aliis secundum similitudinem animalium et temporum. Erit igitur in tempore quidquid, (5) temporum suscipiens variationes, alteratur secundum corpus; huiusmodi vero sunt que dicta sunt, de paucis autem vel de nullis aliis conveniens erit proferre.

momento e nel tempo; esso infatti ammette le alterazioni del tempo (il corpo subisce delle trasformazioni in estate, in inverno, in primavera e in autunno). Qualcosa d’analogo accade anche all’anima; e infatti alcuni riflettono più acutamente in inverno, altri in estate, altri ancora in primavera a seconda della natura del loro strumento [scil.: il corpo]; l’anima congiunta [al corpo] segue le diverse condizioni [del corpo stesso], come quelli di natura fredda e secca che in primavera sono spesso più impulsivi di quanto non siano in autunno per via di una inclinazione più sanguigna24. 47. Si devono dire cose analoghe anche delle altre realtà secondo una similitudine delle realtà animate e del tempo. Allora, qualsiasi cosa sarà nel tempo subirà le trasformazioni del tempo e risulterà modificata in quanto realtà corporea; di questa natura sono le cose di cui abbiamo parlato, mentre sarà opportuno ricordare poche o nessun’altra questione.

V

[48] Ubi vero est circumscriptio corporis a loci circumscriptione procedens, locus autem in eo quod capit et circumscribit; (10) est igitur in loco quidquid a loco circumscribitur, non autem in eodem locus et ubi, locus siquidem in eo quod capit, ubi autem in eo quod circumscribitur et complectitur. [49] Videtur autem non omni adesse; anima etenim nusquam est, nullum etenim locum occupat neque implet; animatum namque aliud capere potest, (15) numquam autem contingere palam est occupatum quidem aliquo locum aliud capere et complecti posse occupante permanente. [50] Granum etenim modio adveniens retineri non posset aere quo implebatur quiescente; aere autem expulso granum utique recipitur; nequaquam ergo duo in eodem esse poterunt nec (20) idem in diversis; quamobrem nec anima quidem localis erit cum locum nullatenus occupet. Similiter autem et quecumque a corporis ratione deseruntur loci circumscriptione carent. [51] Movet autem quis fortasse questionem idem in diversis et pluribus concludens. Etenim vox in auribus diversorum est; vox autem, si aer non est, esse non poterit, quare aer in auribus diversorum est; quare et corpus idem in diversis locis est; vox etenim omnino una et

V.

DOVE

48. Il dove consiste nel circoscrivere del corpo che deriva dal circoscrivere del luogo, mentre il luogo si dà in ciò che contiene e circoscrive; si trova, allora, in un luogo qualsiasi cosa circoscritta dal luogo25. Non sono lo stesso il luogo e il dove: il luogo si dà in ciò che contiene mentre il dove consiste in ciò che è circoscritto e circondato. 49. Sembra che il luogo non si possa dare per ogni realtà; l’anima infatti non è in nessun luogo, e infatti non occupa o riempie nessun luogo; la realtà animata può contenere un’altra realtà, ma è noto come non accada mai che un luogo occupato da qualcosa contenga e circondi un’altra realtà mentre quella che lo occupava precedentemente è ancora presente. 50. Infatti il grano quando passa nel moggio non può esservi contenuto se l’aria che lo riempiva non ne esce; una volta che l’aria è uscita il grano può essere ricevuto [dal moggio]; pertanto in nessun caso due possono essere presenti nel medesimo né lo stesso si può dare in realtà diverse; per la qual ragione dell’anima non potrà mai essere predicato il luogo dal momento che non occupa nessun luogo. Similmente tutto ciò che è separato dal principio corporeo non può neppure essere circoscritto dal luogo. 51. Qualcuno forse argomentando potrebbe sollevare la questione se la medesima cosa sia presente in realtà diverse e molteplici. E infatti la voce si trova nelle orecchie di persone diverse; ora la voce, se non è aria, non potrà esistere, per la qual ragione l’aria è nelle orecchie di diverse persone; ma in questo modo il medesimo corpo è in luoghi diversi; in ogni caso la voce, assoluta-

eadem in diversis quidem aeris partibus esse non potest. [52] Concedentibus itaque nobis unam et (5) eandem vocem omnino in auribus diversorum sentiri, utique et confiteri oportet unam omnino aeris particulam ad aures diversorum pervenire; simpliciter enim unum et idem in pluribus totum impossibile est inveniri; quamobrem et concedere cogimur vel diversum quidem in auribus sentiri, vel unum et idem (10) omnino in pluribus quidem locis …relinqui. [53] …Eligitur autem diversorum quidem sensus esse ymaginabiliter se generantium et similiter; quare et vox quedam non animalis est (ea enim que ymaginabiliter fit et similiter animalis non est, quoniam ab animali non profertur). Ad hec autem dicimus omnem quidem vocem (15) animalis esse; quis enim ab initio vocem audivit in silentio quidem simpliciter animalium? Quare et vox quidem cuiuslibet animalis dicitur, quecumque ipso quidem proferente fit; unius igitur vox ad aures diversorum dirigitur, una autem et eadem non contingit esse. (20) [54] Ubi autem aliud quidem simplex aliud vero compositum; simplex quidem est quod a simplici loco procedit, compositum autem quod ex coniuncto. Locus autem simplex est origo et constitutio eius quod continuorum est, locus vero (ut dictum est quidem) compositus habet particulas quidem ad eundem terminum copulatas ad quem et corporis particule coniunguntur, corporis vero partes ad punctum. Loci ergo partes iuxta punc-

mente una e medesima, non può essere in diverse parti dell’aria. 52. Se concediamo che la voce, assolutamente una e medesima, è percepita nelle orecchie di persone diverse è necessario ammettere anche che una porzione di aria giunge alle orecchie di persone diverse; è impossibile tuttavia che una sola e identica realtà sia rinvenuta tutta intera in molteplici [luoghi]; perciò siamo costretti a concedere o che è una realtà diversa quella che viene percepita nelle orecchie o che una realtà assolutamente una e identica si trova in luoghi molteplici. 53. Si può scegliere di affermare che la percezione delle diverse voci si produce ad opera di quanti le generano da loro stessi attraverso la facoltà immaginativa e in maniera simile; per la qual ragione alcune voci non derivano da essere animati (quelle che si producono attraverso la facoltà immaginativa e in modi analoghi non sono proprie di un essere animato poiché non provengono da esso). Contrariamente a quanto si è detto, tuttavia, affermiamo che ogni voce deriva da un essere animato: infatti chi da sempre ha mai udito qualche voce quando gli esseri animati semplicemente tacciono? Perciò si dice che la voce deriva da qualsiasi essere animato e che da uno stesso soggetto si può ottenere qualunque tipo di voce; la voce di un solo essere è diretta verso orecchie di persone diverse, e non può essere una e medesima26. 54. Il dove può essere semplice oppure composto; è semplice quel dove che deriva da un luogo semplice mentre è composto quello che deriva da un luogo congiunto [ad un altro]. Il luogo semplice è l’origine e il fondamento di quanto è composto, il luogo composto (come è stato detto) è fatto di parti che sono unite al medesimo limite al quale sono congiunte le parti del [suo] corpo, mentre le parti del corpo stesso sono legate al punto. È necessario, quindi, che le parti del luogo

tum necesse fieri; erit itaque locus simplex in quo punctum adiacere (5) constabit, loci vero particule soliditatis particulas claudunt; etenim loca quidem simplicia minimi corporis occupativa sunt. Quare nec locus sine corpore nec soliditas sine loco erit. [55] Contentio autem oritur de spere extremitate. Nihil enim extra idem; in eo autem locus esse non poterit (ut dictum est, (10) a superioribus) quod ab eo quidem loco ambitur; confitentibus igitur nobis speram localem, confiteri utique et necesse est aliud quidem preter idem esse in quo extremitatis locus existat; nihil autem preter idem est, quare extremitas quidem in loco non est. De huiusmodi autem insolitum quidem et occultum est (15) pronunciare, et contra sensibilia. [56] Caret autem ubi intensione et remissione; non enim alterum dicitur altero magis in loco esse vel minus, licet et minorem et maiorem locum possidere, non autem secundum ubi vel quantitatem aliquam, sed secundum id quod quale est. [57] Inest (20) autem nihil ubi esse contrarium, eo quod nec loco quidem contrarietas inest; locus enim loco contrarius non est. Quoniam autem nec aliis manifestum est; sursum autem esse

si diano in relazione al punto; allora nel luogo semplice si avrà l’essere congiunto con il punto, mentre le parti del luogo circondano tutt’intorno le parti del corpo solido; e infatti i luoghi semplici occupano corpi di piccolissime dimensioni. Per la qual ragione non si dà luogo senza corpo né corpo solido senza luogo27. 55. La controversia nasce intorno al limite della sfera [celeste]. Nulla è al di fuori della sfera celeste; tuttavia in tale sfera (come dicono gli antichi) non si potrà dare luogo poiché la sfera stessa è già luogo che circonda [ogni altra realtà]; allora una volta che si ammette che la sfera celeste ha natura locale, è anche necessario ammettere che esista qualcosa al di fuori della sfera stessa nel quale si dà il luogo dell’estremità [della sfera]; ma nulla esiste al di fuori dell’estremità della sfera celeste, quindi la sfera non è in nessun luogo. (Nulla infatti può darsi al di fuori di se stesso; d’altra parte nessun luogo è luogo di se stesso (come è stato detto dagli antichi); una volta ammesso che la sfera ha una natura locale, è necessario ammettere anche che ciò in cui si dà il luogo del limite estremo [del cielo] deve essere altro da se medesimo; tuttavia nulla è al di là di se stesso e quindi il limite [del cielo] non è in un luogo. Riflettere su argomenti di questo tipo è però cosa bizzarra e oscura che va contro l’esperienza sensibile). 56. Nel dove non si trova la crescita e la diminuzione. Infatti un luogo non può essere definito rispetto ad un altro maggiore o minore; è possibile predicare al luogo il meno e il più, ma solamente in base alla qualità e non in base al dove o alla quantità. 57. Nel dove non si dà opposizione a nulla, per il fatto che neppure nel luogo l’opposizione è presente: il luogo infatti non può essere contrario ad un altro luogo. Poiché ciò non è chiaro per le altre determinazioni [è necessario aggiungere alcune

et deorsum esse contraria pluribus videntur (multum etenim distare videntur id quod sursum est esse et id quod deorsum est esse, quemadmodum et sursum et deorsum); quare contrarietas ubi maxime (5) videtur circa sursum esse et deorsum esse, quemadmodum et quantitatis circa locum. [58] Contingit autem duo in eodem contraria esse; sursum enim esse et deorsum in eodem sunt (idem enim sursum et deorsum est ad diversa quidem sumptum; nam turris altitudo sursum est ut ad nos, spere vero extremitati comparata (10) inferior). [59] Amplius contrarium quoque idem sibimet fore continget; si enim sursum esse et inferius esse contraria sunt, cum idem sursum et deorsum sit, colligitur idem sibimet contrarium fieri. Non est ergo contrarietas ulla in eo quod in loco esse est.

considerazioni]; l’essere in alto o in basso appaiono ai più determinazioni contrarie (e infatti sembra esserci una grande differenza tra essere ciò che è in alto e essere ciò che è in basso così come accade per l’alto e il basso [in sé]); per la qual ragione sembra che la massima opposizione per il dove si produca in riferimento all’essere in alto e all’essere in basso, come [la massima opposizione] della quantità si dà in relazione al luogo. 58. Accade che due contrari siano presenti nel medesimo termine; infatti l’essere in alto e l’essere in basso si trovano nella medesima realtà (lo stesso termine considerato sotto diversi punti di vista appare in alto e in basso: la sommità della torre è in alto rispetto a noi, ma appare in basso se comparata con il limite estremo della sfera celeste). 59. [In questo modo] accadrebbe, cosa ancora più notevole, che il medesimo termine sarebbe in opposizione con se stesso; se infatti l’essere in alto e l’essere in basso sono contrari, dal momento che la medesima realtà è sia in alto sia in basso, accadrebbe che lo stesso termine sarebbe contrario a se stesso. Pertanto non c’è nessuna opposizione nell’essere in un luogo28.

VI

[60] Positio vero est quidam situs partium et generationis (15) ordinatio secundum quam dicuntur vel stantia vel sedentia vel aspera vel lenia vel quomodolibet aliter disposita; sedere autem et iacere positiones non sunt, sed denominative ab eis dicta. [61] Solet autem et questio induci de curvo et recto, aspero et leni, quadrangulo et triangulo, bicubito et tricubito, magno et parvo, brevi et longo, et similibus; quamdam enim partium positionem significare videntur (asperum enim dicitur cuius partium una alteri supereminet, lene autem cuius quidem particule equaliter porrecte sunt, similiter autem et de reliquis). [62] Non sunt (5) autem positiones ea que dicta sunt omnia, sed qualia circa situm existentia; ex eo namque quod partes sic disposite sunt, ex eo talia sensibus iudicantur, non autem, ex eo quod talia, idest aspera et lenia vel tricubita vel bicubita, sunt; similiter autem et de aliis huiusmodi que in partibus dispositionem habent. Erit igitur (10) unumquodque predictorum non positio, sed quale quod circa positiones nascitur. [63] Suscipere autem videtur situs contrarietates; nam sedere ad id quod est stare contrarium videtur (contraria enim sunt que in individuo eodem tempore

VI.

LA POSIZIONE

60. La posizione è una qualche disposizione delle parti e organizzazione nel venir all’essere in base alla quale le cose possono essere definite o sedute o ruvide o lisce o in qualsiasi altra condizione esse si trovino; sedere e giacere non sono posizioni, ma vengono definite a partire da quelle in modo denominativo29. 61. Si è soliti in genere introdurre la questione relativamente al curvo e al diritto, al ruvido e al liscio, al quadrato e al triangolare, a ciò che misura due cubiti e a ciò che misura tre cubiti, al grande e al piccolo, al corto e al lungo, e alle determinazioni simili; sembrano infatti significare una qualche posizione delle parti (la ruvidezza è detta di quella realtà una parte della quale è più alta di un’altra, il liscio di ciò le cui parti sono disposte in modo uguale, e similmente si può dire degli altri casi). 62. Non tutte quelle che sono state enumerate, tuttavia, rappresentano delle posizioni ma piuttosto qualità relative alla posizione; infatti è in virtù del fatto che le parti sono state così disposte, che esse sono giudicate dai sensi in un certo modo, e non al contrario perché esse sono di tal genere, ovvero ruvide, lisce, di due o tre cubiti [che vengono in tal modo percepite]; lo stesso si deve dire per le altre cose così fatte che prevedono una organizzazione in parti. Ciascuno dei casi precedentemente elencati non potrà essere annoverato tra le forme della posizione, ma andrà considerato una qualità che deriva dalle posizioni. 63. Sembra che la posizione ammetta l’opposizione; infatti il sedere sembra contrario a ciò che è definito “stare” (infatti sono contrarie le determinazioni che è

impossibile est reperiri, vicissim (15) possibilia esse; sedens enim ilico stare potest et stans sedere, quoquam autem sedente impossibile est eundem stare). [64] Ponentibus autem nobis hec contraria esse, inconvenientia recipere cogimur hec, quod unum sit plurium; secundum etenim collectionis continentiam non magis sedere ad id quod stare contrarium quidem est quam ad accumbere (similiter enim et quemadmodum sedere et stare numquam in eodem insimul reperiuntur, ita et sedere et accumbere, et stare et accumbere). Secundum igitur huiusmodi disputationes situi nulla contrarietas inerit. (5) [65] Fortassis autem nec insolitum quidem putabitur unum plurium esse: pallor etenim ad nigrum et album contrarium videtur, nam, sub eodem genere cum sint, numquam in eodem inveniuntur et vicissim transmutantur; relinquitur igitur unum pluribus adversum esse. Non est autem pallidum ad nigrum (10) vel album contrarium; etenim cum utroque in eodem est; pallidum enim et colores reliqui ex albo et nigro conficiuntur; necessarium ergo est, in quocumque pallidum est, in omni quidam eo esse album et nigrum. Similiter autem et de ceteris quidem coloribus. [66] Amplius autem contrariorum quidem ratio est circa (15) idem natura existere, sedere autem et iacere non circa idem natura, sed seiuncta (etenim sedere circa rationabilia proprie, iacere vero et accumbere circa adversa; huius

impossibile siano rinvenute in un individuo nel medesimo tempo, mentre è possibile [rinvenirle] in tempi diversi; colui che siede infatti può stare in un luogo e colui che sta può sedere, ma mentre una persona è seduta è impossibile che essa al contempo stia). 64. Se affermassimo che queste determinazioni sono contrarie, tuttavia, saremo costretti ad ammettere anche una conclusione contraddittoria, ovvero che una realtà è contraria a più termini; e infatti secondo una conclusione logica il sedere non è contrario a ciò che si definisce “stare” di più [di quanto non lo sia] rispetto al giacere (infatti come sedere e stare non si possono mai trovare nel medesimo soggetto, lo stesso accade per sedere e giacere, e stare e giacere). In base a simili ragionamenti nessuna opposizione è presente nella posizione. 65. Forse si potrebbe ritenere non strano che un termine fosse contrario a molte realtà; il giallo sembra contrario al nero e al bianco, e infatti, dal momento che fanno parte del medesimo genere, non possono mai essere trovati all’interno dello stesso soggetto ma si alternano nel tempo; ne deriva che un termine può essere opposto a molte realtà. In realtà il giallo non è contrario al bianco e al nero; e infatti è presente nel medesimo soggetto insieme ad entrambi; il giallo, come gli altri colori, è prodotto dal bianco e dal nero; è quindi necessario che, in qualsiasi realtà sia presente il giallo, in quella siano presenti sempre anche il bianco e il nero30. Lo stesso si può dire per i rimanenti colori. 66. Cosa ancora più importante i contrari, per loro natura, dipendono dalla medesima realtà, mentre il sedere e l’essere disteso sono relativi naturalmente non alla medesima cosa ma a cose differenti (e infatti il sedere riguarda specificatamente le realtà razionali, mentre il giacere e lo stare distesi quelle ad esse contrarie; di tutto ciò è prova la somiglianza tra

autem signum est equi et hominis similitudo, quibus sine dubio accubitus esse probatur). (20) [67] Proprium autem positionis est neque cum magis neque cum minus dici; sedere namque non magis positio est quam accumbere neque minus, neque sedens alterum altero magis vel minus dicitur neque accumbens, neque universaliter secundum aliquam aliam positionum. [68] Magis proprium autem videtur esse positionis substantie propius assistere omnibus quidem aliis formis superpositis; positio enim nihil aliud est quam (5) naturalis ipsius substantie ordinatio que vel a principio quidem innata est, ut ea que asperis vel lenibus, equalibus vel inequalibus inest, vel a nature quidem motu consueto, ut sessio et accubitus et similia. Quidquid igitur est proxime substantie assistens, id necessario positio est; et omnis quidem positio huius rationis (10) suscipit predicationem.

cavallo e uomo, in quanto è stato provato che entrambi stanno sdraiati). 67. È proprio della posizione non ammettere il più e il meno; infatti lo stare seduti non è una posizione più o meno di quanto non lo sia lo stare distesi, né lo stare seduto o il giacere possono essere detti maggiori o minori rispetto ad un altro stare seduto o ad un altro giacere e questo vale universalmente per le altre posizioni31. 68. Ciò che sembra ancora più caratteristico della posizione tuttavia è l’essere più vicina alla sostanza che a tutte le altre forme super-imposte; la posizione, infatti, non è niente altro che la disposizione della stessa sostanza naturale la quale o si trova innata sin dal principio, come nei casi delle realtà ruvide o lisce, eguali o non eguali, oppure deriva da un ripetuto movimento naturale, come lo stare seduti, l’essere distesi o casi analoghi. Ogni cosa che è strettamente congiunta con la sostanza deve necessariamente essere una posizione; tale regola è valida per ogni posizione.

VII

[69] Habitus autem est corporum et eorum que circa corpus sunt adiacentia secundum quam hec quidem habere illa vero haberi dicuntur; hoc autem non secundum totum, secundum autem particularem divisionem, ut armatum esse, calciatum esse. (15) His autem neque simplicia quidem nomina posita sunt quibus ea appellarentur, sed sint eis nomina ‘armatio’ et ‘calciatio’; horum autem ad proportionem et reliquis. [70] Suscipit autem habitus amplius et minus; armatior enim eques pedite dicitur, et calciatior qui cum caligis et (20) calciamentis est quam qui solum caligis vel calciamentis utitur. Quibusdam autem verum non est quod cum magis et minus predicetur, ut vestitum esse et similia. [71] Habitui quoque nihil est contrarium; etenim armatio calciationi contraria non est (idem etenim calciatus et armatus est), quoniam autem aliis contraria non est palam est. Similiter autem his et alia. (5) [72] Proprium autem habitus est in pluribus quidem, ut in corpore et his que circa corpus sunt, existere (adiacet enim corpori et his que circa corpus sunt); hoc autem – ut dictum est – fit secundum eam que in partibus est divisionem. [73] In paucis autem aliis principiis huiusmodi invenies; in quantitate enim (10) solum et his

VII.

L’AVERE

69. L’avere è proprio dei corpi e di tutte quelle realtà che sono collegate al corpo cosicché si dice che alcune cose hanno e altre invece sono possedute32; ciò non avviene facendo riferimento alla totalità [della realtà], ma secondo una particolare divisione, come l’essere armato o l’indossare dei calzari. A queste cose non furono dati nomi semplici con i quali avrebbero potuto essere indicate, ma è preferibile che siano dati loro nomi come “la condizione di chi porta le armi” e “la condizione di chi porta le scarpe”; per gli altri casi [i nomi dovranno essere coniati] mediante una analogia con questi. 70. L’avere ammette il maggiore e il minore; infatti un cavaliere è più armato di un fante, e colui che indossa sia le scarpe normali sia l’attrezzatura per le marce militari è più calzato di chi indossa solo le scarpe o l’attrezzatura stessa. Per alcuni non è vero che [l’avere] ammette il più o il meno, come accade per l’essere vestito e le condizioni simili. 71. Nulla è contrario all’avere; e infatti l’essere armato non è contrario all’essere calzato (infatti la medesima realtà è armata e calzata), poiché è chiaro che non è contrario ad altre determinazioni. Le altre cose saranno simili a queste. 72. È caratteristica propria dell’avere trovarsi in molteplici realtà, come nel corpo e in tutto ciò che è legato al corpo (infatti è connesso al corpo e a quanto è relativo al corpo); ciò avviene – come è stato detto – secondo la divisione in parti. 73. Tale caratteristica potrà essere rivenuta in pochi altri principi; infatti [può essere trova-

que ad aliquid sunt similia reperies; ad aliquid autem, ut figuraliter dicatur, ut similitudo et dissimilitudo, que pluribus similibus et dissimilibus insunt; quantitas autem ut numerus, qui et in numeralibus inest utique semper crescens secundum unitatum multifariam ascensionem (simpliciter autem nihil (15) invenies tot distribui partibus possibile ut numerum). [74] Non autem omnis quidem quantitas aut relatio talium est, habitus autem omnis in pluribus necessario consistit, ut in corpore et in his que circa corpus sunt, omneque in corpore et his que circa corpus sunt consistens habitus nomen sortitur. Quare magis proprium quidem habitus erit, corpore et circa-corpus existentibus, secundum eam que partium est divisionem ut in pluribus existere. [75] Dicitur autem habere multis modis. Habere enim dicimur alterationem ut albedinem et nigredinem, et quantitatem ut (5) longitudinem; nihil tamen aliud dicere est albedinem aut longitudinem habere quam album aut longum esse. [76] Dicitur autem vas habere aliquid, ut modius triticum, quod nihil aliud est dicere quam continere. Habere quoque et in membro dicimur, ut in digito anulum, quod tantumdem est dicere quantum et digitum in anulo esse. (10) [77] Dicitur autem et vir habere uxorem et recipere uxor virum; hic autem insolitus est habendi modus, ubi quod habetur habens habere dicitur; hoc autem habere nihil aliud significat quam cohabitare. [78] Quare modi habendi qui dici consuevere quinario numero terminantur. Fortasse

ta] solo nella quantità e nella relazione. La relazione, intesa in senso figurale, come la somiglianza o la difformità, che sono presenti in molte cose simili e dissimili; la quantità invece come il numero, il quale è sempre presente nelle cose che possono essere contate e che cresce con la serie indefinita delle unità (non si potrà trovare nulla che sia possibile dividere in tante parti come il numero). 74. Non ogni quantità o ogni relazione appartiene al novero dei principi che possiedono tale natura, mentre ogni avere si dà necessariamente in molteplici realtà, come nel corpo e in ciò che è legato al corpo, tanto che tutto ciò che sussiste nel corpo e in quelle realtà che sono relative al corpo riceve il nome di avere. Per la qual ragione l’avere è proprio del corpo e di tutte quelle cose presenti nel corpo secondo la divisione in parti che si dà, per esempio, nell’esistere in molteplici realtà33. 75. L’avere è detto in molti modi. Si può avere una alterazione come nel caso della bianchezza e nerezza e una quantità come la lunghezza; affermare che qualcosa possiede la bianchezza o la nerezza non differisce in nulla dal dire che quella cosa è bianca o nera. 76. Si può dire che un vaso contiene qualcosa, come un moggio [può contenere] del frumento, il che equivale a dire [che il vaso] contiene [il frumento]. Si dice che le persone hanno qualcosa in una parte del corpo, come un anello al dito, il che è equivalente a dire che il dito è nell’anello. 77. Si afferma anche che un uomo ha una donna e che una donna sceglie un uomo; questa è una forma dell’avere insolita, dove si dice che ciò che è posseduto possiede come fosse colui che ha; in questo caso avere non significa nient’altro che vivere insieme. 78. Per questa ragione le forme dell’avere che si è soliti prendere in considerazione sono limitate al numero di cinque. Forse

autem alii quidem erunt preter (15) hos qui numerati sunt; sed, si qui sunt, diligens inquisitio inveniat. [79] Et quidem de principiis hec dicta sufficiant; reliqua autem in eo quod De Metafisicis est querantur.

esistono altre forme oltre a queste già enumerate, ma, se ve ne sono, saranno scoperte attraverso un’indagine accurata34. 79. Ciò che è stato detto su questi principi è sufficiente; altre indicazioni si potranno cercare in quanto è stato scritto Sulla Metafisica.

VIII

[80] Dicitur autem magis et minus suscipere tripliciter. Aiunt enim quidem secundum crementum vel diminutionem eorum que suscipiunt subiectorum: aliter autem et alii ipsa quidem que suscipiuntur in suscipiente et diminui et crescere autumant; alii autem secundum utramque amborum, diminutionem et augmentationem. [81] A primis itaque inchoantes …que eorum firma et (5) rata sit sententia… manifestabo. Si quis vero et primam et secundam destruxerit utique et tertiam destruet que ex utrarumque efficitur coniunctione. [82] Non igitur secundum suscipientium ipsorum crementum vel decrementum cum magis et minus aliqua vocentur; nulla (10) enim ratio obviaret dicenti hominem quidem et animal et substantiam et cetera similia cum magis et minus dici, concedentibus nobis secundum subiecti intensionem et remissionem quelibet cum magis et minus dici. [83] Amplius autem equus quidem et augmenti et diminutionis motum frequenter sustinet; dicitur autem (15) minor lapide quodam qui numquam neque intensionem neque remissionem passus est; mons etiam alio monte maior dicitur cum neuter crescat vel decrescat. [84] Amplius autem et margarita quidem albior equo dicitur, …qui pedem quamvis… album con-

VIII.

SUL PIÙ E IL MENO

80. Si dice che il più e il meno si possono dare in tre modi. Alcuni dicono che [si producono] in base alla crescita e alla diminuzione dei soggetti soggiacenti; diversamente altri sottolineano come sia proprio ciò che inerisce al soggetto soggiacente a crescere e diminuire; altri ancora [dicono] che [il più e il meno si danno] in base sia alla crescita sia alla diminuzione di entrambi i termini. 81. Iniziando dai primi mostrerò quale dottrina fra quelle sia sicura e valida. Infatti se qualcuno confuterà la prima e la seconda anche la terza, che deriva da entrambe, verrà meno35. 82. Di alcune cose si predica il più e il meno non in ragione della crescita o della diminuzione degli stessi soggetti soggiacenti; infatti nessun argomento si oppone a chi dice che l’uomo, l’essere animato, la sostanza e altre cose simili ammettono il più e il meno, in quanto si è pronti a concedere che in base alla crescita o alla diminuzione del soggetto qualsiasi cosa può ammettere il più o il meno. 83. Cosa ancora più importante in un cavallo spesso si dà un movimento di crescita o diminuzione ed è detto più piccolo di una pietra che non è mai soggetta a crescita e diminuzione; anche un monte può essere definito più grande di un altro monte benché né l’uno né l’altro cresca o decresca. 84. Ancora più interessante è che una perla possa essere detta più bianca di un cavallo, anche se questo ha solo una zampa bianca, e ciò non accade per il fatto che il cavallo sia inferiore alla perla quanto all’essenza; è opportuno concludere quindi o che la perla è definita più bianca del cavallo in base alla gran-

tingit, hoc autem non secundum quod equus quidem in essentia a margarita superetur; colligere ergo oportet vel margaritam quidem albiorem equo pronunciari secundum magnitudinem subiecti vel parvitatem, vel non verum quidem esse albiorem equo (5) margaritam esse, vel nihil magis et minus dici secundum subiectorum magnitudinem vel parvitatem, neque secundum crementum vel diminutionem. [85] Hoc autem palam est, quod secundum magnitudinem quidem subiecti margarita albior equo non dicitur; et quoniam quidem margaritam non albiorem esse (10) equo falsum est, relinquitur igitur nihil secundum subiecti magnitudinem cum amplius vel minus dici; similiter autem et neque secundum parvitatem. [86] Amplius autem neque secundum ea que inficiunt; si enim secundum magnitudinem quidem albedinis vel alicuius (15) ceterorum aliquid dicitur albius aliquo, vel secundum parvitatem minus album vel quomodolibet aliter, utique et magis albus equus vel homo vel quodlibet aliud animal albius margarita diceretur (etenim maior albedinis quantitas equo accidit quam margarite). [87] Amplius autem minus et parvius alterum altero dicitur non (20) secundum subiecti neque accidentis crementum; quoniam autem non secundum subiecti crementum vel magnitudinem aliquid parvius aliquo dicatur manifestum est, neque quoque secundum ampliorem ipsius accidentis quantitatem. Etenim quantitas ultra subiectum protendi non potest (terminus enim quantitatis corpus est, parvitas autem quantitati supponitur); quare ultra parvum (5) quidem subiectum parvitas ipsa non porrigitur; quanto igitur subiectum parvius efficitur, tanto et parvitatis quantitas minoratur.

dezza o piccolezza del soggetto, oppure che non è vero che la perla sia più bianca del cavallo, oppure che nulla può essere considerato maggiore o minore in ragione della grandezza o piccolezza dei soggetti e neppure in ragione della crescita o della diminuzione. 85. È chiaro che la perla non è detta più bianca del cavallo in ragione della grandezza del soggetto; poiché è falso che la perla non sia più bianca del cavallo, non resta che affermare che di nulla si predica il maggiore e il minore in base alla grandezza o alla piccolezza del soggetto. La stessa cosa si può dire della piccolezza. 86. Cosa ancora più importante [il maggiore e il minore non si producono] neppure in relazione con ciò che inerisce [al soggetto]; se infatti una certa realtà fosse detta più bianca di un’altra in ragione della grandezza della bianchezza o di qualche altra qualità, oppure fosse detta meno bianca per la piccolezza [della qualità] o in qualunque altro modo, di certo il cavallo bianco, l’uomo o qualsiasi altro animale dovrebbe essere considerato più bianco della perla in quanto più grande (e infatti la maggiore quantità di bianchezza si trova come accidente nel cavallo piuttosto che nella perla). 87. Di grande importanza è anche il fatto che una realtà più piccola non possa essere definita minore di un’altra secondo la crescita del soggetto o dell’accidente; è chiaro infatti che qualcosa non è detto più piccolo di qualcos’altro in base alla crescita o alla grandezza del soggetto o in base all’aumentare della quantità dello stesso accidente. Infatti la quantità non può estendersi al di là del soggetto (il limite della quantità è il corpo, la piccolezza è subordinata alla quantità); perciò la piccolezza non si estende oltre il corpo piccolo; quindi tanto più il soggetto diviene piccolo, tanto minore risulta essere la quantità della piccolezza.

[88] Patet itaque nihil cum magis et minus predicari neque secundum subiecti solum augmentum vel diminutionem neque accidentis; quare neque secundum utrumque; oportet igitur alia (10) invenire que cum magis et minus dicantur. [89] Huiusmodi vero sunt ea que sunt in voce eorum que adveniunt, non secundum subiecti vel mobilis crementum vel diminutionem, sed quoniam eorum que sunt in voce impositioni propinquiora sive ab eadem remotiora sunt. De his enim cum magis dicuntur que (15) propinquiora sunt ei que in ipsa voce est impositioni, cum minus autem de his que remotiora consistunt. [90] Ut ‘album’ dicitur id in quo pura albedo est; quanto igitur quid ad vocis impositionem accedens puriori inficitur albedine, tanto et candidius assignabitur; et ‘parvum’ dicitur quod quidem aliis comparatum stature (20) dimensione et quantitate vincitur, quidquid igitur est quod in quantitatis mensura superatur, id continuo parvius pronunciatur. Similiter autem et de aliis. [91] Dubitabit vero aliquis quamobrem hec quidem cum magis et minus substantie vero minime; hoc autem contingit quoniam substantiarum impositio in termino quidem est, ultra quem transgredi impossible est. [92] Additur autem et de (5) accidentibus quibusdam que sine magis et minus dicuntur, ut quadrangulus et triangulus et similia (non enim magis quadrangulatum unum altero dicitur); contingit autem quoniam in substantiarum quidem designatione accipitur (etenim quadrangulatum et qualitas nuncupatur et corpus quadrangulatum). [93] Vel (10) eadem que in superioribus ratio hoc vetat, quoniam in huiusmodi impositio quidem in

88. È chiaro quindi che a nulla si può predicare il più o il meno in base al solo aumento o diminuzione né del soggetto né dell’accidente né di entrambi. È necessario pertanto trovare altre realtà alle quali si possano riferire il più e il meno. 89. Ha tale natura ciò, tra le determinazioni provenienti dall’esterno, che si dà nella definizione (in voce) non secondo la crescita o la diminuzione del soggetto in movimento, ma poiché è più vicino o più lontano all’imposizione dei termini stessi. Infatti si predica il più nel caso di quelle realtà che sono più vicine all’imposizione presente nella parola, e si predica il meno nel caso di quelle realtà che ne sono più lontane. 90. Il “bianco” è predicato di ciò nel quale c’è la bianchezza pura: qualcosa che partecipa dell’imposizione del nome nella misura in cui tende a un bianco più puro, sarà anche definito “più candido”. È detto “più piccolo” ciò che, una volta messo a confronto con altre realtà, risulta inferiore per la dimensione e quantità della statura; allora tutto ciò la cui quantità è di misura inferiore [ad altro] è definito subito più piccolo. La stessa cosa vale per altri casi. 91. Si potrebbe infine chiedere per quale ragione le realtà di cui si può parlare secondo il più e il meno non siano mai sostanze; ciò accade perché la denominazione delle sostanze rappresenta una sorta di limite oltre il quale non si può andare36. 92. Si aggiunga anche che nel caso di alcuni accidenti che non ammettono il più e il meno, come quadrato o triangolare e simili (non si può infatti definire una realtà “più quadrata” di un’altra), ciò si verifica perché essi sono relativi alla designazione delle sostanze (e infatti “quadrato” è definito sia la qualità sia il corpo quadrato). 93. Il medesimo principio che opera nei casi precedentemente elencati, ovvero che in simili condizioni l’imposizione si dà nel limite ultimo al di là del

termino facta est ultra quem transgredi non licet, quemadmodum et in superlativis; etenim albissimus et nigerrimus et huiusmodi sine amplius et minus sunt eo quoniam huiusmodi impositio in termino est ultra quem porrigi (15) impossibile est.

quale non si può andare, vieta l’impiego del maggiore e del minore anche nei superlativi; infatti nerissimo, bianchissimo e ogni altro termine di questo tipo non ammettono il più e il meno perché una simile imposizione si produce nel limite oltre il quale è impossibile andare.

APPARATI

NOTE AL TESTO

1 L’espressione compositio rimanda al lessico boeziano e, attraverso di esso, a quello abelardiano. Cfr. Anicius Manlius Torquatus Severinus Boethius, In Categorias Aristotelis libri IV, in Patrologiae cursus completus, Manlii Severini Boethii Opera Omnia, ed. J.-P. Migne, PL 64, Turnhout, Brepols, 1979 (d’ora in poi citato solo come In Categorias) 184 A sgg.; cfr. anche L. Minio-Paluello, «Magister sex principiorum», in L. Minio-Paluello, Opuscola. The latin Aristotle, Amsterdam, Adolf M. Hakkert, 1972, pag. 559. 2 Tale definizione di forma viene criticata da alcuni autori medievali come Rolando da Cremona. Proprio in riferimento a tale dottrina sulla forma Rolando pone in relazione per primo il Liber con la tradizione porretana; cfr. L. Minio-Paluello, «Magister sex principiorum», cit., pag. 439. L’intero primo capitolo del Liber, dedicato alla nozione di forma e di forma substantialis, sembra rinviare alle dottrine gilbertine e delle varie scuole porretane. Cfr. Introduzione 4.4.2. 3 L’anima umana è presentata come soggetta a mutazioni e, ad essa, viene contrapposta l’anima del mondo. Il concetto di anima mundi, elaborato nel Timeo platonico e da lì ripreso nella tradizione chartriana, compare anche nelle opere teologiche abelardiane, all’interno della dottrina sulla prefigurazione della relazione trinitaria da parte della teoria neoplatonica delle ipostasi (la quale costituisce una ripresa e sistematizzazione della stessa idea platonica dell’anima universale); Abelardo, infatti, da prima nella Dialectica critica simili operazioni esegetico-allegoriche e poi, in scritti come la Theologia summi boni, ne afferma la validità e l’importanza. Per i passaggi delle opere e un approfondimento della questione cfr. J. Marenbon, Life, milieu and intellectual contexts in J. E. Brower, K. Guilfoy (eds.), The Cambridge companion to Abelard, Cambridge, Cambridge university press, 2004, pagg. 35 – 38; cfr. anche Introduzione 4.5.1. 4 L’autore del Liber sembra qui far riferimento alla dottrina dell’invariabilità della forma contenuta nelle Categorie; Aristoteles, Categoriae, in Aristoteles latinus 1.1-5, Categoriae vel Praedicamenta: translatio Boethii, editio composita, translatio Guillelmi de Moerbeka, Lemmata e Simplicii commentario decerpta, Pseudo-Augustini para-

phrasis themistiana, ed. L. Minio-Paluello, Leiden, Brill, 1961 (d’ora in poi citato come Categoriae) p. 12, 4a17 – 4a20. Lo stesso Aristotele richiama la propria dottrina delle passioni dell’anima e del linguaggio come sistema simbolico per distinguere la trasformazione che interessa le sostanze prime dalle mutazioni che si possono rinvenire in un discorso apofantico; cfr. Categoriae p. 13, 4b 8 – 9. 5 L’intero paragrafo sembra rimandare a dottrine gilbertine e porretane, in particolare a quelle contenute nel Dialogus Ratii et Everardii e nel Compendium logicae porretanae; cfr. Everardo di Ypres, Dialogus Ratii et Euerardi, ed. N. M. Häring, in «Mediaeval studies», XV (1953), pagg. 243 – 289 (d’ora in poi citato solo come Dialogus), pag. 255, l. 31 e Compendium logicae porretanum, in «Cahiers de l’institut du moyen-age grec et latin», 46 (1983), pagg. 1 – 93 (d’ora in poi citato Compendium) pag. 39, 6 – 9. Cfr. per approfondimenti Introduzione 4.4.2. 6 Il passo del Liber presenta delle analogie con una pagina della Dialectica di Abelardo; cfr. Petrus Abaelardus, Dialectica, ed. L. M. De Rijk, Assen, V.Gorcum-H. J. Prakke-H. M. G. Prakke, 1970 (d’ora in poi citato solo come Dialectica) p. 431, 17 sgg.; Abelardo descrivendo la differenza tra l’unità dovuta all’attività naturale e l’unità prodotta dall’intervento umano, ciascuna qualificata da diverse caratteristiche, inserisce riflessioni che possono sembrare vicine a quelle del Liber. 7 La relazione tra creazione e azione appare affermata, sebbene in termini diversi da quelli presenti nel Liber, da Teodorico di Chartres; Theodoricus Carnotensis, Commentaries on Boethius by Thierry de Chartres, ed. N. M. Häring, Toronto, Pontificial Institute of mediaeval studies, (d’ora in poi citato come Commentarii by Thierry de Chartres) 1971, p. 510, 143. Teodorico, infatti, distingue due tipi di creatore: quello che è tale per l’azione e quello che è tale per natura. Il primo esiste nel tempo e deve avere una relazione con le creature da esso prodotte; il secondo ha in sé la potenza di creare, è eterno e si può definire sostanza. 8 L’intera dottrina esposta nell’ottavo paragrafo del primo capitolo del Liber ricorda la teoria della creatio sviluppata da Gilberto Porreta, anche se insieme ad alcune analogie vi sono molti elementi di difficile interpretazione nella dottrina del De sex principiis; cfr. ad esempio Gilbertus Porretanus, The commentaries on Boethius, ed. by N. M. Häring, Toronto, Pontificial Institute of mediaeval studies, 1966 (d’ora in poi citato come Commentarii) p. 292, 20 – 23 e 27 – 28 e L. M. De Rijk, Semantics and Metaphysics in Gilbert of Poitiers.

A charter of twelfth century platonism (1), in «Vivarium» XXVI, 2 (1988), pagg. 73 – 112, pagg. 76 – 80 e pagg. 83 – 84. Il riferimento al ruolo del numero nella creazione ricorda maggiormente la tradizione scaturita dall’esegesi del Libro della Sapienza (11, 21) ben riassunta da un passo agostiniano nel De Trinitate che manifesta delle analogie con il testo del Liber; cfr. Aurelius Augustinus, De Trinitate libri XV, CCSL 50, 50 A (Aurelii Augstini opera, pars 16, 1 – 2) 2 voll., ed. W. J. Mountain, Turnholt, Brepols, 1968, lib. 3, cap. 8, l. 11. 9 L’intero paragrafo undicesimo del primo capitolo sembra recuperare in modo abbastanza fedele le Categoriae aristoteliche a partire dalla distinzione tra de subiecto e in subiecto; cfr. Categoriae p. 1, 1a20. 10 La teoria della visione che viene richiamata in questo passaggio del Liber sembra aver qualche similitudine con quella elaborata da Bernardo di Chartres; cfr. Bernardus Carnotensis, The Glosae super Platonem, ed. P. E. Dutton, Toronto, Pontificial Insititute of mediaeval studies, 1991 (d’ora in poi citate come Glosae ed. Dutton) tr. 7, ll. 175 – 180; ll. 197 – 209. Bernardo propone una teoria della visione secondo la quale dall’occhio si sprigiona un raggio di natura ignea che si unisce a quello originato dalla cosa vista; tali raggi permettono all’anima, attraverso l’occhio stesso, di cogliere la forma dell’oggetto (identificabile anche con la semplice figura, ovvero con l’aspetto fisico del corpo, ad esempio il suo essere quadrato). 11 La dottrina qui esposta ricorda quella aristotelico-boeziana, in particolare cfr. In Categorias 162 A – 162 D. Il termine vox ha un valore tecnico-specifico nella logica medievale; tale utilizzo, testimoniato già da Everardo di Ypres (cfr. Dialogus pag. 253, 15) e Ruperto di Deutz (cfr. Rupertus Tuitiensis, Liber de diuinis officiis, CCCM 7, ed. Hrabanus Haacke, Turnholt, Brepols, 1967 lib. 11, pag. 371, 96), viene sistematicamente discusso in Abelardo che si serve anche dell’espressione sermo; cfr. J. Marenbon, The philosophy of Peter Abelard, Cambridge, Cambridge university press, 1997, pagg. 176 sgg. 12 La tassonomia delle diverse categorie in base alla loro relazione con la sostanza ricorda da vicino quella proposta dalle Categoriae decem, sebbene da essa si differenzi per il posto assegnato ad alcuni predicamenti; cfr. Pseudo-Augustini paraphrasis themistiana, in Aristoteles, Arisoteles latinus 1.1-5., Categoriae vel Praedicamenta, cit., (d’ora in poi citato solo come Categoriae decem) p. 144, 21 – 145, 6. Nella tradizione logica medievale sino al XII secolo, d’altra parte, sono presenti numerosi esempi di tassonomie di questo tipo; per una rassegna cfr. Introduzione 4.3.1.

13 L’autore del Liber riprende chiaramente le indicazioni che Aristotele stesso dà nelle Categorie intorno al fare e al patire; cfr. Categoriae p. 30, 11b1 – 11b7. Lo Stagirita, infatti, introduce questi predicamenti richiamandosi al modo attivo e passivo di alcuni verbi, ovvero secare e urere: il fare si identifica con il modo attivo di questi verbi, mentre la categoria del pati viene illustrata mediante il modo passivo delle medesime voci verbali. Tale spiegazione della natura dei predicamenti in questione ritorna lungo tutto la storia del pensiero logico tardo antico e alto medievale: cfr. ad esempio Cfr. Flavius Magnus Aurelius Cassiodorus, Institutiones, ed. R. A. B. Mynors, Oxford, 1961, (d’ora in poi citato come Institutiones) cl. 0906, lib. 2, cap. 3, par. 10, dove si riprende letteralmente la dottrina aristotelica; Isidorus Hispaliensis, Etymologiarum siue Originum libri XX, Scriptorum classicorum bibliotheca Oxoniensis, ed. W. M. Lindsay, Oxford, E typ. Clarendoniano, 1957 (d’ora in poi citato solamente come Etymologiae) cl. 1186, lib. 2, cap. 26, par. 5 dove si introduce il tema del fare e del patire in maniera analoga a quella aristotelica; Anselmus Cantuariensis, De ueritate, in Patrologiae cursus completus 158 (S. Anselmi ex Beccensi abbate Cantuariensis archiepiscopi Opera omnia) ed. J.-P. Migne, Turnhout, Brepols, 1983, vol. 1, cap. 8, pag. 187, linea 5 dove, trattando del problema della verità di uno stato e di un’azione, Anselmo introduce un’analisi della condizione attiva o passiva simile a quella aristotelica. Anche nel Dialogus Ratii et Everardi (cfr. Dialogus pag. 253, linea 20) sembra essere presente un richiamo ad Aristotele, benché l’attenzione dell’autore sia maggiormente rivolta ai fenomeni grammaticali come dimostra la precedente citazione di Prisciano alla cui autorità si fa riferimento per la distinzione tra verbi attivi e verbi passivi. La trattazione nel Dialogus continua poi con un'analisi dei vari tipi di verbo, adiectivum, substantivum, vocativum: il primo rimanda ad una qualità “unita” al soggetto (come la bianchezza; qui Everardo cita l'insegnamento di Pietro, forse Pietro Elia), il secondo significa l’essenza unita come copula in espressioni del tipo “Paolo è uomo”, il terzo significa una qualità propria come quando si dice “Paolo si chiama Paolo” (ibidem). 14 La dottrina dell’immaterialità dell’anima e, quindi, della sua natura non locale può essere considerata come un elemento dottrinale comune a tutto l’orizzonte speculativa della tradizione cristiana. Il riferimento a tale questione nel Liber, tuttavia, sembra richiamare un’analoga osservazione presente nelle opere abelardiane. Abelardo propone una dottrina sul carattere immateriale e non locale dell’anima la quale in quanto incorporea non può occupare un luogo né essere in un tempo, richiamandosi ad Agostino. L’anima, infatti, si

serve di strumenti che le permettono di agire e di sentire (cosicché è l’anima a compiere ogni azione e non i suoi instrumenta); il linguaggio porta testimonianza di tale situazione in quanto non si dice che l’anima sente qualcosa ma che quella data parte del corpo sente qualcosa sebbene sia sempre l’anima la parte realmente attiva; cfr. Petrus Abaelardus Logica nostrorum petitioni sociorum, in Peter Abaelards Philosophische Schriften. II. Die Logica "Nostrorum Petitioni Sociorum". Die Glossen zu Porphyrius (Glossae super Porphyrium) ed. B Geyer, in Beiträge zur Geschichte der Philosophie und Theologie des Mittelalters, XXI (n° 4), Münster, Verlag der Aschendorffschen Verlagsbuchhandlung 1933 (d’ora in poi citato come Logica petitioni), 1.03, p. 549 – 550. Una delle fonti di tale dottrina può essere ritrovata nel commento boeziano al De interpretatione; cfr. Boethius, Commentarium in librum Aristotelis Perihermeneias, ed. Meiser, Lipsiae, B. G. Teubneri, 1880, p. 459. 15 Il paradosso rappresentato, relativamente alla questione del carattere non locale dell’anima e delle realtà ad essa affini, dal caso dell’immagine nello specchio sembra rimandare all’Ars disserendi di Adamo di Balsham; cfr. Adamus Parvipontanus Balsamiensis, Ars disserendi (Dialectica Alexandri), ed. L. Minio-Paluello, Roma, Edizioni di storia e letteratura, 1956 (d’ora in poi citato come Ars) pag. 87, 5 – 9. Interessanti riflessioni sui fenomeni catottrici si trovano anche nelle glosse al Timeo platonico di Guglielmo di Conches; cfr. Guilelmus de Conchis, Glosae super Platonem, ed. E. Jeauneau, Paris, Vrin, 1965 (d’ora in poi citato come Glosae ed. Jeauneau) p. 243 sgg.; per tali problematiche cfr. Introduzione 4.7.2. 16 Sulla relazione tra agire, patire e moto cfr. In Categorias 263 D: Faciendi uero patiendique praedicamenta sunt, in quibus quidam quasi motus agitatioque consideratur; necesse igitur fuit motu dicere, qui naturam faciendi atque patiendi uellet ostendere. 17 La relazione tra azione e passione, ovvero tra colui che agisce e colui che subisce l’azione, è un motivo che viene chiaramente messo in evidenza già da Boezio: il fare si dà solo in relazione ad una passione in quanto entrambe le categorie sono due aspetti di un medesimo actus che si produce da una realtà esercitandosi su una res differente. Cfr. In Categorias 261 D – 262 B. 18 Il passo sembra avere qualche analogia con un punto del commentario al Somnium Scipionis di Macrobio dove l’autore latino tratta del problema della natura attiva dell’anima osservando che quando ci si riferisce ad essa con un verbo passivo si vuole intendere solamente il fenomeno di autocinetismo che la caratterizza e che non

produce affatto una condizione passiva della sostanza psichica stessa; cfr. Macrobius, Commentarium in Somnium Scipionis, ed. J. Willis, G. B. Teubner, 1970 lib. 2, cap. 15, par. 14, pag. 142, linea 15. Cfr. Introduzione 5.1. 19 Il passo, abbastanza oscuro per la sua struttura grammaticale, manifesta un interessante parallelismo con un passo del Compendium logicae porretanae dove si afferma che ogni qualità determinata deriva dal suo corrispettivo astratto-universale (cfr. Compendium pag. 39, 1 – 14). Il Liber sembra richiamare nell’organizzazione del periodo il passo del Compendium ma ne rovescia la dottrina: il particolare è ciò dal quale si astrae l’universale, dottrina confermata dal conclusivo riferimento al problema degli universali. Cfr. anche Introduzione 4.1.3. 20 Il capitolo dedicato alla passio riprende temi e spunti già sviluppati nella precedente sezione del testo sulla categoria dell’azione, in particolare il tema della relazione tra azione e passione, dell’importanza per questi predicamenti del movimento/generazione, del ambiguo statuto di alcune realtà quali l’anima nella quale passività e attività non sono sempre facilmente distinguibili (cfr. il caso dell’autocinetismo nel capitolo sull’azione e il problema delle passibiles actiones, ovvero di emozioni come l’amore e l’odio, in questo capitolo sulla passione). 21 La definizione di quando, come notato già da Lorenzo MinioPaluello, è molto vicina a quella proposta da Abelardo (cfr. Dialectica pag. 77, 19 – 20); cfr. L. Minio-Paluello, «Magister sex principiorum», cit., pag. 560; cfr. anche Introduzione 4.6.2. 22 Il tema dei futuri contingenti nella riflessione medievale viene conosciuto direttamente dai testi aristotelici (cfr. De interpretatione cap. 9) e dai relativi commenti boeziani: cfr. la ricostruzione della questione in L. M. De Rijk, Logica modernorum: a contribution to the history of early terminist logic II.I (The origin and early development of the theory of supposition) Assen, Van Gorcum, 1967, pagg. 373 sgg. Per una ricostruzione del problema dei futuri contingenti nel medioevo cfr. C. Normore, Future contingentes, in N. Kretzmann, A. Kenny, J. Pinborg, The Cambridge History of Later Medieval Philosophy. From the Rediscovery of Aristotle to the Disintegration of Scholasticism, (1100 – 1600), New York, Cambridge university press, 1982, (traduzione italiania dalla quale si cita: C. Normore, Futuri contingenti, in N. Kretzmann, A. Kenny, J. Pinborg, La logica nel Medioevo, Milano, Jaca Book, 1999, pagg. 309 – 336). 23 Anche la relazione tra quando e ubi è presente nella trattazio-

ne di tale categoria in Abelardo; cfr. Petrus Abaelardus, Logica Ingredientibus, in Peter Abaelards Philosophische Schriften. I. Die Logica "Ingredientibus" 2. Die Glossen zu den Kategorien (Glossae super Predicamenta), ed. B. Geyer, Münster, in Beiträge zur Geschichte der Philosophie und Theologie des Mittelalters, XXI (Part 2), Verlag der Aschendorffschen Verlagsbuchhandlung 1921, (d’ora in poi citato come Logica ingredientibus 2) pagg. 111 – 305, 2.09, pagg. 256 – 257 e Introduzione 4.6.2. 24 L’autore fa riferimento ad una teoria medica basata sulla relazione tra umori corporei e condizioni climatiche. Tale dottrina è molto simile a quella elaborata da Guglielmo di Conches nel nono capitolo del quarto libro del suo Dragmaticon philosophiae; cfr. Guilelmus de Conchis, Dragmaticon philosophiae in Guilelmus de Conchis, Dragmaticon philosophiae, ed. I. Ronca; Summa de philosophia in Vulgari, ed. L. Badia, J. Pujol, CCCM 152 (Guillelmi de Conchis opera omnia; tomus 1), Turnhout, Brepols, 1997, IV, 9, par. 4, ll. 31 sgg. (trad. italiana: in Il divino e il megacosmo. Testi filosofici e scientifici della scuola di Chartres, a cura di E. Maccagnolo, Milano, Rusconi, 1980, IV, pagg. 325 – 326). Guglielmo, infatti, analizza, all’interno del quarto dialogo della sua opera, la natura delle diverse stagioni dell’anno secondo i principi della medicina galenica e gli effetti che ciascuna di esse ha sul corpo dell’uomo. La primavera è definita come una stagione calda e umida che come tale non giova ai sanguigni; poco dopo Guglielmo nota anche che per controbilanciare gli effetti negativi del periodo primaverile è necessario assumere cibi e sostanze fredde e calde. Tali indicazioni offrono alcune interessanti analogie con quanto si dice nel Liber; l’autore del De sex principiis, infatti, parla delle persone di complessione secca e fredda le quali sono maggiormente impulsivi durante la primavera; la causa di tale reazione in questi individui è individuata nella loro natura sanguigna. Il Liber, quindi, forse ha proprio in questo passo del Dragmaticon una sua fonte il che potrebbe fornire il 1144/1149 (possibile anno di composizione dell’opera guglielmina) come data post quem per il Liber; bisogna, tuttavia, ricordare che Guglielmo probabilmente riprende in questo caso le dottrine che Costantino l’Africano aveva rese disponibili in Occidente nella metà del XI secolo (in particolare quelle di Giovannizio) e, quindi, non si può escludere che l’autore del Liber avesse ricavato da altra fonte queste indicazioni mediche. Cfr. J. Agrimi, C. Cristiani, Malato, medico e medicina nel Medioevo, Torino, Loescher, 1980, Introduzione, pagg. 26 – 33, pagg. 39 – 46; M. D. Grmek, Storia del pensiero medico occidentale, 1. Antichità e Medioevo, Roma – Bari, Laterza, 2007, pagg. 261 – 277.

25 Anche la definizione della categoria dell’ubi nel Liber riecheggia formule abelardiane, sebbene in maniera meno evidente di quanto non accada per il predicamento del quando. Cfr. Logica ingredientibus 2, 2.09, pag. 257; cfr. Abaelardus, Introductiones parvolorum, in Petrus Abaelardus, Scritti di logica, ed. M. Dal Pra, Firenze, La Nuova Italia, 1969 (d’ora in poi citato come Introductiones parvolorum) pag. 64, 40 – 42. 26 Molto più chiaro come riferimento ad Abelardo è la discussione sul paradosso della vox e della sua simultanea molteplice presenza in diverse orecchie. Nella Dialectica (cfr. Dialectica, pag. 69, 32 sgg.) e anche nella Logica ingredientibus (Logica ingredientibus 2, 2.06, pagg. 176 – 177), dove viene discussa la quantità, Abelardo introduce il problema di come la medesima vox possa essere udita da diverse persone. Benché la soluzione abelardiana sia diversa da quella del Liber, le opere abelardiane sono le uniche dove si possa trovare una così chiara formulazione della questione discussa nel De sex principiis. Cfr. Introduzione 4.7.3. 27 La riflessione sulle quantità continue e sul tema della soliditas presenta un complesso intreccio di influenze nel quale si sovrappone l’insegnamento aristotelico-boeziano e la sua rielaborazione abelardiana; cfr. ad esempio Dialectica, pag. 71, 16 – 26 e cfr. Categoriae 54, 4b20 – 4b25 e pag. 55, 5a1 – 5a14. Cfr. Introduzione 4.6.3 28 Tale dottrina sulla impossibilità per il dove di accettare la contrarietas è la traccia più chiara nella trattazione dell’ubi dell’influenza abelardiana; se Abelardo, in passi come Dialectica, pag. 80, 25 – 28 afferma chiaramente una simile posizione, tale dottrina non è assolutamente presente in Aristotele; cfr. Categoriae pag. 58, 6a11 – 6a20. 29 Il passaggio sembra riprendere abbastanza fedelmente posizioni aristoteliche; Aristotele, infatti, afferma che dalle diverse posizioni (positiones) si possono ricavare per via di denominazione altre determinazioni che non sono propriamente positiones: lo stare si produce denominativamente dalla statio, il giacere dall’accubitus. Quest’ultime determinazioni devono essere riferite alla categoria della relazione e producono nelle res determinati attributi, come lo spessore e la levigatezza; tali qualità, infatti, sono il risultato di una disposizione reciproca delle parti di cui un corpo è composto; cfr. Categoriae pag. 48, 1b25 – 1b27; 2a2; pag. 54, 4b20 – 4b22; pag. 59, 6b11 – 6b14; pag. 69, 11b9 – 11b10; pag. 66, 10a20 – 10a26. Tale dottrina viene poi ripresa da Boezio; cfr. In Categorias, 218D; 219A – 219B. La posizione di Abelardo sulla relazione tra positio e determinazioni derivate per via denominativa dalla positio stessa è critica

nei confronti della dottrina aristotelico-boeziana. Sia nella Dialectica (cfr. Dialectica, pag. 81, 8 sgg.) sia nella Logica ingredientibus (cfr. Logica ingredientibus 2, 2.07, pag. 202 – 203), infatti, Abelardo dapprima sviluppa la dottrina boeziana della relazione denominativa tra positio e situs: la dottrina aristotelica, ricorda Abelardo, distingue le positiones (come la sessio e la statio) e il situs (il sedere e lo stare), affermando che il secondo deriva per via di denominazione dalla prima. Abelardo ricorda poi la legge logica boeziana seconda la quale ciò che deriva da una determinazione per via di denominazione non può appartenere al medesimo genere al quale appartiene la realtà dalla quale deriva; la conseguenza di tale regola applicata alla riflessione sulla positio è che il situs non può venire ricondotto alla categoria della relazione. Tuttavia, osserva Abelardo, lo stesso Aristotele non giunge a questa conclusione inserendo anche il situs nelle realtà relative; d’altra parte la stessa positio può essere considerata come qualcosa che deriva dalla qualità la quale è sempre iscrivibile fra le determinazioni che sono riconducibili alla categoria dell’ad aliquid. Partendo da queste osservazioni Abelardo preferisce parlare di una derivazione denominativa delle sostanze che assumono le diverse positiones a partire dalle diverse positiones stesse; la sessio o la statio come positiones conducono per via di denominazione alle persone che assumono concretamente tali posizioni. La differenza tra situs e positio viene così meno (i due termini sono identificati da Abelardo), mentre il prodotto della deduzione denominativa che si può compiere a partire dalla positio sono i verbi come stare o giacere, nonché la sostanza sempre implicitamente implicata dai verbi stessi. La denominazione che si produce nel caso del situs e della positio è, quindi, rivolta alla sostanza che risulta implicitamente presente nel verbo. Cfr. Introduzione 4.1.4. 30 La dottrina sulla natura del colore giallo in relazione con il bianco e il nero viene sviluppata sia in Boezio che in Abelardo; anche Abelardo, infatti, osserva come certi colori non possano essere considerati contrari al nero e al bianco perché sono cromatismi “medi” che derivano da entrambi gli estremi. Cfr. In Categorias 255 B – 255 C. Cfr. Petrus Abaelardus, Logica ingredientibus, in Peter Abaelards Philosophische Schriften. I. Die Logica 'Ingredientibus'. 1. Die Glossen zu Porphyrius (Glossae super Porphyrium) ed. B. Geyer, in Beiträge zur Geschichte der Philosophie und Theologie des Mittelalters, XXI (Part 1), Münster, Verlag der Aschendorffschen Verlagsbuchhandlung, 1919, pagg. 1 – 109 (citato d’ora in poi come Logica ingredientibus 1), 1.06, pagg. 106 – 107; cfr. Logica ingredientibus 2, 2.08, pagg. 241 – 242; Logica ingredientibus 2, 2.10 pag. 267.

31 Dottrina abbastanza originale che forse ha una sua parziale fonte in un passo delle Categoriae decem, riprese dalle Etymologiae isidoriane. Nelle Etymologiae, infatti, Isidoro, riprende la dottrina temistiana per la quale il situs è una delle categorie intra usiam, facendo di questo predicamento un elemento strettamente connesso con la sostanza della res (cfr. Isidorus Hispaliensis, Etymologiarum siue Originum libri XX, Scriptorum classicorum bibliotheca Oxoniensis, ed. W. M. Lindsay, Oxford, E typ. Clarendoniano, 1957 cl. 1186, lib. 2, cap. 26, parr. 5 – 13). 32 L’enfasi sul carattere unicamente fisico della categoria dell’avere e sulla natura estrinseca della sua relazione con il soggetto che compie l’azione dell’habere testimonia la dipendenza del Liber su questo punto da Abelardo. Abelardo, infatti, dopo aver ripreso nella Dialectica (cfr. Dialectica pagg. 80, 30 – 81, 4) da Aristotele e Boezio gli esempi sui diversi modi in cui la categoria dell’habere si articola, individua nella Logica ingredientibus (cfr. Logica ingredientibus 2, pag. 258 – 259) tre forme di habitus: habitus che è una species qualitatis, habitus privationis (ovvero avere quella condizione che consiste in una mancanza) e infine l’habitus che deriva dal possedere una realtà extrinseca, secondo la definizione boeziana, come le armi o i calzari. Abelardo poco dopo, tuttavia, afferma che l’habere non può che essere relativo a res esterne al soggetto e non interne, pena una regressione all’infinito (applicando l’idea di habere ad elementi intrinseci al soggetto si produce, osserva Abelardo, una moltiplicazione all’infinito per la quale da ogni habere se ne sviluppa un altro). A questa dottrina deve essere ricondotta anche la dottrina più originale del Liber sull’habitus, ovvero il suo essere un predicamento che fit secundum divisionem (che si trova in realtà composte di diverse parti). 33 L’originale dottrina sviluppata dal Liber in questo caso si fonda sulla necessaria natura corporeo-concreta della categoria dell’habere la quale è chiaramente asserita da Abelardo. La teoria secondo la quale l’habere fit secundum divisionem, tuttavia, non si trova formulata in nessuna delle fonti alle quali il Liber generalmente ricorre. 34 La tassonomia delle diverse forme di habitus presenta sia tracce della dottrina aristotelica sia di quella delle Categoriae decem. Oltre agli esempi di habere utilizzati anche dallo Stagirita per illustrare la categoria in questione (l’essere armatus e calciatus; cfr. Categoriae pag. 48, 2a4) il Liber riprende dalle Categorie aristoteliche l’elenco delle differenti tipologie di habere (qualità, quantità, il grano nel moggio, l’anello al dito, il rapporto tra uomo e donna; cfr.

Categoriae pag. 78, 15b18 – 79, 15b32). Elementi di difformità tra il Liber e Aristotele su questo punto (oltre al fatto che il Liber fa riferimento all’ultima categoria non come habere ma come habitus) sono rappresentati dal fatto che il Liber parla di lunghezza e non di grandezza e fa riferimento al bianco e al nero quali casi di qualità legate al predicamento dell’avere; l’autore del De sex principiis inoltre fa riferimento ad un numero canonico di cinque forme dell’avere che non è presente nel testo aristotelico. Alcuni di tali aspetti della trattazione del Liber, tuttavia, possono avere quale fonte le Categoriae decem. La parafrasi temistiana, infatti, trattando delle otto forme dell’habitus (qualità dell’animo, qualità del corpo, quantità, possedere in qualche parte del corpo, avere qualcosa sul corpo come nel caso delle scarpe, avere una parte del corpo come un piede o una mano, avere in un luogo come il vino in un contenitore, avere potere o dominio) inserisce quale esempio di qualità prodotta dal predicamento dell’habere la bianchezza e nerezza presenti nella discussione del Liber; l’autore del De sex principiis, inoltre, per dimostrare che la condizione di due persone sposate è una forma impropria dell’habere (cosa asserita anche da Aristotele) si serve del medesimo argomento utilizzato dalle Categoriae decem: se il caso della relazione tra marito e moglie fosse un autentico modus habendi allora accadrebbe che la cosa posseduta possiederebbe a sua volta colui che la possiede, cosa evidentemente impossibile; cfr. Categoriae decem pag. 168, 16 – 23. 35 L’intero ultimo capitolo dedicato al più e al meno riprende, con piccole variazioni, la dottrina che Abelardo sviluppa nella sua Dialectica (cfr. Dialectica, pagg. 428, 17 – 430, 14). Abelardo contestando una concezione fisico-realista dei predicati che possono inerire ad un soggetto, concezione per la quale il più e il meno dovrebbero essere pensati in termini di “cose” presenti nella res della quale vengono predicati, propone una concezione di tali qualità in termini logico-semantici; essere maggiori o minori rispetto ad un’altra realtà significa semplicemente possedere in modo più pieno o meno pieno un certo attributo presente anche nella res con la quale si instaura il paragone. L’impositio di una certa qualità rispecchia un determinato stato ontologico, ma è alla dimensione logica della vox che deve venir riferito il magis e il minus. Il Liber accetta pienamente questa visione e non solo si serve della terminologia tecnica (vox e impositio) in modo del tutto conforme all’uso che ne fa lo stesso Abelardo, ma utilizza anche i medesimi esempio presenti nella Dialectica abelardiana. 36 La dottrina sull’impossibilità di predicare della sostanza il più e il meno (impossibilità che va allargata anche ad alcuni accidenti

come l’essere quadrato o triangolare) è presente nella Dialectica di Abelardo (cfr. Dialectica, pag. 424, 28 – 31). Anche in questo caso, tuttavia, come accade per altre teorie abelardiane, è chiaro il debito con Aristotele il quale afferma esplicitamente l’estraneità della sostanza stessa al più e al meno; cfr. Categoriae pag. 52, 3b34 – 53, 4a9.

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