Le parabole di Gesù. Come leggerle, come comprenderle

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ALFONS KEMMER

Le parabole di Gesù Come leggerle, come comprenderle Edizione italiana a cura di Felice Montagnini

PAIDEIA EDITRICE

Tito lo or iginale dell'opera: Alfons Kemmer

Gleichnisse ]esu Wie man sie lesen und verstehen soli T raduzione italiana di P atrizia Giombin i Revisione di Felice Montagnini

© Verl ag Herder, Freiburg im Breisgau 1981, 'r983 ISBN 88.394.045 1.1 © Paideia Editrice, Brescia 1990

INDICE

Premessa . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Capitolo primo: Introduzione .

. . . Che cos'è una parabola? . . . . . . . . . . . A che cosa servono le parabole? . . . . . L'interp retazione delle parabole . . . . .

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II

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r2 r4 r6

Capitolo secondo: La forza del vangelo .

. . . . . . . . . . . . . Il seme che cresce da so lo (Mt. 4,26·29 ) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Il granello di senape (Mc. 4,30-32; Mt. r3,3I s.; Le. r3,r8 s. ) . . . Il lievito (Mt. r3,33; Le. r3,20 s. ) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Le quattro specie di terreno (Mc. 4,3-9; Mt. r3,r-9; Le. 8 ,4-8 ) . . . La spi egazione della parabola del terreno (Mc. 4,r3-20; Mt. IJ,

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8,rr-r5) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

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r8-23;

Le.

Capitolo terzo: Presenza della salvezza .

2r 23 24 25

. . . . . . . . . . . . . N ozze e digiuno (Mc. 2,r8-2o; Mt. 9,r4 s . ; Le. 5,33-35 ) . . . . . . . . Toppa nuova- vino nuovo (Mc. 2,2r s.; Mt. 9,r6 s.; Le. 5 ,36-39 ) L'immagine de l fico (Mc. r3,28 s.; Mt. 24,32 s.; Le. 2r,29-3r ) . . .

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Capitolo quarto: La misericordia di Dio verso i peccatori .

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I figli dissimili (Mt. 2r,28-32) . . . . . . . . . . . . I due debitori (Le. 7,4r-43 ) . . . . . . . . . . . . . Il far iseo e il pu bblicano (Le. r8,9-r4) . . . . . La pecora smarrita (Le. r5,4-7; Mt. r8,r2-r4) La moneta perduta (Le. r5,8-ro) . . . . . . . . . Il figlio perduto (Le. I5,rr-p ) . . . . . . . . . . . Il padrone generoso (Mt. 2o,r-r5) . . . . . . . .

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Capitolo quinto: I veri discepoli . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

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Il tesoro nel campo e la perla (Mt. r3,44-46 ) . . . . . . . . . . Il buon samar i tano (Le. ro,25-37 ) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Il servo spietato (Mt. r8,23-35 ) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Proclamazione della sentenza nel gi udizio (Mt. 25,3r-46 )

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Capitolo sesto: La speranza nell'ora di Dio . . . . . . . . . . .

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L'amico che domanda (Le. rr,5-8 ) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Il figlio che chiede da mangiare (Le. rr,rr-r3; Mt. 7,9-rr) . . . . . . Il giudice iniquo (Le. r8,r-8 ) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

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Capitolo settimo: La gravità dell'ora

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8r

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8r 83 86 88 90 92 94

I ragazzi che giocano (Mt. n,r6-r9; Le. 7,31-35 ) . . . . ". Il fico ster ile (Le. 13,6-9 ) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Il ricco stolto (Le. r2,r6-2r) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Lo scassi natore notturno (Mt. 24.43 s.; Le. 12,39 s. ) . . Il servo con l'incarico di controll are (Mt. 24.45-51; Le. Il portiere (Mc. 13,33-37; Le. 12,35-38 ) . . . . . . . . . . . . Il denaro dato in deposito (Mt. 25,14-30; Le. 19,12-27)

Capitolo ottavo: L'ultimo periodo di grazia . . . . . . . . . . . ror Le vergini sagge e le stolte (Mt. 25,1-13 ) . . . . . . . . . . . . . . La grande cena (Mt. 22, 1-ro; Le. 14,15-24) . . . . . . . . . . . . . L'abito nuzia le (Mt. 22,I I-14) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . I vignaioli malvagi (Mt. 21,33-46; Mc. I2,r-12; Le. 20,9-19 )

Capitolo nono: Agire decisamente

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L'amministratore infedele

(Le. r6,r-8) . . . . . . . . . . . . . . . . . . Il ricco e Lazzaro, il povero (Le. r6,19·31 ) . . . . . . . . . . . . . . . Il cammino verso il gi udice (Mt. 5,25 s.; Le. 12,58 s. ) . . . . . . L a costruzione della torre e l'entrata in guerra (Le. 14,28-32) I servi inutili (Le. 17.7-ro) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

Capitolo decimo: Il regno compiuto

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ror ro6 nr n4

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La zizzania in mezzo a l grano (Mt. 13,24-30 ) . . . . . . . . . . . . . . . . L'i nterpretazione della parabo la dell a zizzania (Mt. 13,36-43 ) . . . La rete da pesca (Mt. 13,47-50) . . . . . . . . . . .

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Conclusione: Il regno di Dio nelle parabole

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Cenni bibliografici 153 Indice dei passi biblici . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 155 Indice delle parabole . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . r 5 7 .

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PREMESSA

Anche questo volumetto, così come Il Nuovo Testa­ mento. Introduzione per i laici, uscito nel 1976 in edi­ zione tascabile, si propone di far conoscere ad un pub­ blico più largo le acquisizioni dell'esegesi odierna, que­ sta volta nel campo delle parabole. Negli ultimi decen-. ni sono stati compiuti notevoli progressz� né mancano opere recenti sulle parabole sinottiche. Tuttavia, questa breve illustrazione delle parabole e delle meta/ore più importanti impiegate da Gesù dovrebbe prestare un gradito aiuto a quei lettori dei vangeli per i quali le opere rigorosamente scientifiche sono troppo estese op­ pure inaccessibili. Si è tenuto conto anche delle diverse versioni delle parabole presenti nei sinottici: in/atti il confronto sin ottico permette di seguire l'evoluzione dei racconti originari di Gesù, o anche di recuperarne la versione originaria. Tuttavia, non si deve far passare il testo originario delle parabole per l'unica rivelazione valida. Se la chiesa primitiva ha tramandato i testi ope­ rando spesso spostamenti d'accento rispetto alle para­ bole di Gesù stesso, bisogna ritenere questo processo come un adeguamento, legittimo e sotto l'influsso del­ l'ispirazione, alla nuova situazione del tempo successivo alla pasqua. La classificazione delle parabole in singoli gruppz� così come la denominazione di questi ultimi, non pretende di essere l'unica possibile. 9

Se il volumetto riuscirà a condurre il lettore ad una più profonda comprensione delle parabole di Gesù, avrà raggiunto il suo scopo. Abbazia di Einsiedeln, gennaio 198r.

P. Alfons Kemmer OSB

CAPITOLO PRIMO

INTRODUZIONE

Nei vangeli sinottici le parabole occupano un ampio spazio. Qui incontriamo ripetutamente i temi centrali della predicazione di Gesù: il regno di Dio, l'appello alla conversione, il richiamo alla gravità dell'ora, il contrasto con i farisei. Il patrimonio delle immagini ricorrenti nelle parabole è tolto dalla vita palestinese. Nonostante esse ci siano pervenute soltanto nella tra­ duzione greca, è possibile ritrovare dietro al testo gre­ co la lingua madre di Gesù, l'aramaico. Le parabole di Gesù sono qualcosa di assolutamen­ te nuovo e non hanno modelli nella letteratura del tempo. Soltanto intorno all'anno 8o d.C. fa la sua comparsa una parabola, che peraltro ancor oggi si so­ spetta che sia la ripresa di una parabola di Gesù. Le parabole autentiche di Gesù si distinguono per il lin­ guaggio semplice e chiaro, per la struttura magistrale e per l'originalità assolutamente personale. Perciò non è esagerato dire che esse costituiscono una «parte del nucleo primordiale della tradizione» (}. Jeremias) e che furono tramandate in modo particolarmente at­ tendibile. Esse racchiudono in forma concisa e chiara l'insegnamento di Gesù. Tuttavia il lettore odierno incontra numerose diffi­ coltà che gli impediscono di capire le parabole. Ben presto, dopo la morte di Gesù, esse andarono sogget­ te a fraintendimenti. Più che comprenderle, si è spes­ so cercato di interpretarle. Spesso si è cercato in esse più di quanto non contengano, si è attribuito loro un senso più profondo, oppure sono state considerate II

come uno specchio della vita di Gesù o un compen­ dio della storia della salvezza. Quando il vangelo ebbe varcato gli angusti confini della Palestina per essere annunciato a popolazioni di cultura diversa, i predi­ catori cercarono di rendere le parabole comprensibili al nuovo pubblico. Quanto per gli uditori originari di Gesù era ovvio, dovette inevitabilmente essere adatta­ to alle situazioni culturali delle terre di missione. Ai nostri giorni, grazie ai nuovi metodi esegetici, si è potuta ricuperare la forma originaria delle parabole e quindi ritrovare il senso che Gesù intendeva dare loro. Lo vedremo più avanti unitamente alla bibliografia specifica. Ma poiché non è possibile liquidare le in­ terpretazioni posteriori, date dalla chiesa primitiva, semplicemente come falsificazioni della vera dottrina di Gesù, occorre riconoscere anche il loro valore, in quanto adattamenti necessari e determinati dalle cir­ costanze. Non prenderemo in esame tutte le parabole sinotti­ che, ma soltanto le più importanti. Prima, però, si de­ vono trattare alcune questioni inerenti tutte le para­ bole e da tenersi in seguito sempre presenti.

Che cos'è una parabola? Le parabole sono similitudini ampliate, del tipo di quelle che noi usiamo quotidianamente, ad esempio quando diciamo: «Oggi fa freddo come in Siberia», oppure: «ln questa stanza fa caldo come in un for­ no». In questo modo vogliamo rendere più chiara un'affermazione, sottolineando da un determinato punto di vista la somiglianza fra due cose. Specialmente in Oriente si usava dire tutto per mezzo di immagini e di similitudini. Già nell'A.T. troviamo numerose parabole. Il termine ebraico che 12

sta per «parabola», mashal, denota anche un semplice paragone, una metafora, un enigma o un proverbio. Allo stesso modo, nel Nuovo Testamento parabolé, corrispondente di mashal, conserva questi significati. Da noi si dice indifferentemente parabola oppure si­ militudine; ma sarebbe più giusto distinguere tra i due termini. Infatti la similitudine descrive una situa­ zione di fatto, che si ripete sempre nella natura o nella vita quotidiana, ad esempio, la crescita della semente, bambini che giocano in strada e simili. La parabola invece prende le mosse da un caso particolare, e lo sviluppa in un breve racconto. Il fatto eccezionale, però, dal punto di vista religioso è tipico. Se quindi una parabola riporta un caso esemplare, si tratta di un racconto edificante (come nel caso del buon samari­ tano). Nelle parabole bisogna sempre distinguere l'ele­ mento figurativo dalla sostanza. Gesù espone ciò che vuol dire attraverso il velo di un'immagine. Chi ascol­ ta è invitato ad interpretare l'immagine. Per lo più egli non spiegava ai suoi uditori le parabole; ma essi erano in grado di coglierne il senso più facilmente di noi oggi. Infatti le immagini erano tolte dal loro am­ biente, dalla natura che li circondava, dall'agricoltura del tempo. Più importante dell'elemento figurativo è il contenuto, ciò che per il narratore ha valore e che la parabola vuole esprimere. Talvolta nella parte figura­ ta troviamo tratti che non le si addicono e che, pur facendo parte della sostanza, si sono infiltrati nelle immagini. Così il profeta Natan (in 2 Sam. 12,1 ss.) narra a Davide una parabola per farlo riflettere sul suo adulterio con Betsabea e per spingerlo a cambiar vita. Un uomo ricco, per risparmiare una pecora del proprio gregge, sottrae a un povero l'unica che ha, per ammazzarla e servirla a un ospite. Natan descrive con le seguenti parole il rapporto intimo che il povero

aveva con la sua pecorella: «Essa mangiava nella sua ciotola e beveva nella sua coppa, dormiva sul suo seno e per lui era come una figlia». È chiaro che questi tratti non si riferiscono alla pecora, bensì alla moglie di Uria. È importante individuare all'interno delle parabole il punto di paragone, cioè quell'elemento che stabili­ sce la somiglianza tra l'immagine e la realtà. Non tutti i tratti dell'immagine sono importanti; anzi, per lo più lo è soltanto uno di essi. Ma nell'interpretare le para­ bole fin dai primi tempi si è sentito il bisogno di rife­ rire ogni singolo tratto ad un preciso elemento della realtà. Questa cosiddetta interpretazione allegorica in parte si trova già nei vangeli; ma poi è stata usata vo­ lentieri soprattutto da alcuni padri come Origene e Agostino. Perciò alcuni interpreti considerano secon­ dari tutti quei tratti metaforici di una parabola che si prestano ad una facile lettura allegorica, li ritengono cioè non provenienti da Gesù, ma introdotti di secon­ da mano. Ma così facendo probabilmente si semplifi­ ca oltremisura. È più fondato pensare che Gesù stes­ so, che formulava le sue parabole partendo dalla real­ tà, scegliesse talvolta le immagini in modo che illu­ strassero chiaramente ciò che egli intendeva dire. Ciononostante è di fondamentale importanza fissare la differenza tra parabola e allegoria.

A che cosa servono le parabole? Perché Gesù amava dar forma di parabola al suo insegnamento? La risposta sembra ovvia: voleva con­ formarsi al modo di esprimersi della sua gente e ren­ derle facilmente comprensibili. Ma in Mc. 4, ro-r2 tro­ viamo un passo di difficile interpretazione, che men­ ziona un altro movente delle parabole di Gesù. Ai di­ scepoli che gli chiedono il senso delle parabole egli

dice: «A voi è stato confidato il mistero del regno di Dio; a quelli che sono fuori, invece, tutto viene detto in parabole, così che guardino pure ma non ricono­ scano, ascoltino pure ma non intendano, che non si convertano e venga loro perdonato» . In greco la fra­ se suona ancor più dura: invece di « così che guardino pure» si dice «affinché guardino e tuttavia non com­ prendano». Secondo questo passo, quindi, le para­ bole servirebbero ad indurire la grande folla degli u­ ditori; essi non devono capire l'insegnamento di Ge­ sù, affinché non giungano alla salvezza. Come è pos­ sibile che Gesù intendesse veramente dire questo? Secondo l'esegesi odierna, questa frase quasi certa­ mente non è stata pronunciata da Gesù, ma gli è stata attribuita più tardi. Essa non rientra neppure nella lo­ gica della parabola. L'evangelista l'ha trovata scritta e l'ha inserita in questo punto, fraintendendo il signifi­ cato del termine parabolé. I discepoli chiedono a Gesù la spiegazione delle parabole. Nella risposta si dice: a quelli «di fuori» tutto viene esposto «in parabole». Non s'intende però parlare di parabole, ma di enig­ mi. Come prova di questa affermazione viene citato un passo di Isaia (6,9 s.), in cui il profeta deve annun­ ciare al popolo d 'Israele il castigo divino per essersi allontanato da Dio. Il suo cuore verrà indurito, finché il paese non sarà distrutto e rimarranno soltanto alcu­ ni giusti. In queste parole profetiche dobbiamo rawi­ sare la spiegazione teologica della incredulità opposta dai giudei al messaggio di Gesù. Anche l'incredulità dei contemporanei di Gesù non è senza colpa, come dice chiaramente Matteo nel passo parallelo (Mt. 13 ,13): «Per questo parlo loro in parabole, perché pur vedendo non vedono». Hanno visto le opere di Gesù e ascoltato il suo insegnamento, e tuttavia non han voluto intendere; perciò sono stati puniti con l'indu­ rimento dei cuori. 15

Secondo un'altra interpretazione « affinché» (pur vedendo non vedano) sarebbe un'abbreviazione che sta per: «affinché si compiano le Scritture», che dico­ no queste cose (ls. 6,9 s.). Non verrebbe quindi e­ spressa l'intenzione di Gesù, bensì quella di Dio. Le ultime parole della citazione di Isaia potrebbero esse­ re tradotte anche nel modo seguente: «A meno che si convertano e venga loro perdonato» . Allora questa frase non suonerebbe come una minaccia, ma come una promessa. In effetti Paolo (Rom. rr,25 s.) dice che l'indurimento d'Israele durerà soltanto per un certo tempo, poi tutto Israele sarà salvato. Qualunque sia l'interpretazione da dare al passo in questione, di certo non se ne può arguire che lo scopo delle para­ bole di Gesù sia stato quello di dissimulare il suo in­ segnamento e di renderlo incomprensibile. Anzi, in questo modo egli voleva renderlo più accessibile ai suoi uditori. Certamente il detto racchiude un inse­ gnamento originario: le parabole contengono un mi­ stero: il sorgere nascosto del regno di Dio. E così Mc. 4,10-12 è un ammonimento severo a non lasciarsi sfuggire sconsideratamente l'ora della salvezza. Nelle parabole Gesù vuole ammaestrare e insieme spronare e scuotere la folla degli ascoltatori. Esse so­ no quindi annunci profetici: descrivono il comporta­ mento di Dio verso i peccatori che si convertono e contrappongono spesso il suo modo di agire ai pen­ sieri umam.

L'interpretazione delle parabole Anche se è importante individuare nelle parabole il punto di paragone, che indica in che cosa consiste la somiglianza tra l'immagine e la realtà, sarebbe tuttavia sbagliato pensare di avere esaurito la spiegazione di una parabola quando si è in grado di esprimere con 16

concetti astratti ciò che essa vuoi dire. Questo crite­ rio, tutt'al più, vale per il pensiero occidentale, in cui una verità di solito viene espressa non per mezzo di immagini, ma con proposizioni logiche. Se non si im­ piegano delle immagini, non è possibile esporre bene il contenuto di una parab�la. Anzi, la parabola è l'u­ nica forma linguistica che traduca in modo appro­ priato quello che si vuoi dire. Il nocciolo del discorso non è da ricercarsi né dietro né a fianco della parabo­ la, ma in essa, nell'immagine oppure nel racconto. Per coglierlo bisogna ascoltare la parola della parabo­ la, lasciare che il racconto ci venga incontro, e non andare in cerca della verità di carattere generale che vi trova espressione. Questo potrebbe essere un co­ modo sistema per eludere il vero intento della para­ bola. Compito dell'esegesi non è dunque quello di sosti­ tuire le parabole con una forma didascalica astratta. In tal modo esse verrebbero spogliate del loro vigore e della loro anima. Le parabole originarie di Gesù avevano per lo più una conclusione inattesa, scomo­ da. Egli lasciava agli uditori il compito di trarre le conclusioni circa il significato. Pertanto è assurda la proposta di tradurre le parabole evangeliche in im­ magini moderne, che verrebbero prese dal nostro mondo tecnicizzato. Così facendo le si priverebbe della loro poesia fino a contraffarle; inoltre, in parec­ chi casi sarebbe ancor più difficile capire ciò che vo­ gliono dire. Certamente le parabole, così come le leggiamo nei vangeli, presentano varie tracce della primitiva predi­ cazione cristiana, dal momento che i predicatori ten­ devano a far valere per l'istruzione della comunità il materiale di cui disponevano. Tuttavia traspare sem­ pre in esse un rispetto per il discorso originario di Gesù, che escludeva modifiche profonde. Per un cer17

to verso, la tendenza di questa prima interpretazione delle parabole si rivela particolarmente positiva: men­ tre Gesù parlava di Dio e del suo regno, la prima pre­ dicazione si concentra su Cristo e sulla salvezza che egli ha portato. Questo non sta in contraddizione col modo di pensare di Gesù, perché fondamentale rima­ ne sempre la concezione teocentrica, rapportata a Dio. L'agire di Gesù rispecchia l'operare di Dio e ri­ sulta così giustificato di fronte ai suoi critici. Questa spiegazione cristocentrica delle parabole secondo al­ cuni esegeti recenti risponde persino meglio al loro vero intento. Infatti Gesù non solo ha annunciato una nuova immagine di Dio, ma ha parlato anche di se stesso. Gli evangelisti parlano talvolta degli avversari di Gesù che si scandalizzano della sua condotta e ai quali egli risponde con una parabola ( cfr. Le. IJ,I-3 ; Mt. r r, r6-r9). Vuoi dire che alcune parabole non so­ no da riferire direttamente a Dio, ma a Gesù, che in esse interpreta la sua condotta e, per così dire, se stesso. Sarà compito dell'esegesi rinviare a tali tratti cristologici, presenti nella forma in cui i testi ci sono giunti, e alla loro legittimazione. È dunque necessario collocare le parabole entro la situazione di Gesù. Esse non vogliono inculcare verità generali, ma sono state narrate in precise circostanze della sua vita, in gran parte segnate da conflitti, dalla necessità di giustificarsi e difendersi dagli attacchi de­ gli avversari. Talvolta è Gesù stesso che passa all'at­ tacco e provoca i suoi avversari con una parabola. Oltre che nei tre sinottici (in Giovanni non ci sono parabole vere e proprie, ma soltanto discorsi figurati che qui non vengono presi in considerazione), si tro­ vano parabole anche nel cosiddetto vangelo di Tom­ maso, dove vengono poste in bocca a Gesù. Questo scritto, conservato in copto, fu rinvenuto nel 1945-46 in Egitto, a Chenoboskion presso Nag Hammadi du-

rante gli scavi fra la sabbia del deserto. In origine era redatto in greco e risale alla metà del sec. II. Si tratta di una raccolta di rq detti di Gesù, privi di ogni col­ legamento narrativo. Il senso di alcuni è stato travisa­ to dagli gnostici, una setta eretica del II secolo. Ma vi sono anche parabole che si trovano pure nei sinottici e che qui si presentano in forma così concisa, che ci si chiede se non sia più vicina all'originale di quella dei sinottici. J. Jeremias enumera quarantun parabole di Gesù; di esse sei sono proprie di Mc., dieci sono comuni a Mt. e a Le., dieci sono soltanto in Mt. e quindici sol­ tanto in Le. Le parabole sinottiche presenti anche nel vangelo di Tommaso sono undici. Noi non tratteremo le parabole seguendo l'ordine dei vangeli, ma rag­ gruppandole a seconda del contenuto.

CAPITOLO SECONDO

LA FORZA DEL VANGELO

Mc. 4 è un ampio insieme di discorsi in cui l'evangeli­ sta riunisce materiali molto diversi - brevi metafore, proverbi, parabole - introducendosi con le parole: «Ed egli diceva loro molte cose e li ammaestrava in forma di parabole» (v. 2 ) . Tre di questi brani sono af­ fini per contenuto : descrivono la forza del vangelo, che da un avvio assai modesto si sviluppa fino a rag­ giungere un'enorme grandezza. Sono la parabola del seminatore (vv. 3 -9, spiegata poi nei vv. 13 -20) , e quelle del seme che cresce da solo (vv. 26-29) e del granello di senape (vv. 30- 3 2 ) . La parabola di mezzo si legge solo in Mc. ; le altre due si trovano anche in Mt. e in Le. In essi la parabola del granello di senape è in stretta connessione con quella del lievito (Mt. 1 3 , 3 1 s . 3 3 ; Le. r 3 , r 8 s.2o s . ) . Mc. non ha raccolto dalla tradizione questa parabola, evidentemente perché ri­ teneva concatenate tra loro le altre tre che hanno a che fare con la semente; quella del lievito, invece, è di provenienza diversa, sebbene, quanto al contenuto sia affine alle parabole del seme. In tutte si tratta di cose da poco che raggiungono grandi dimensioni, produ­ cendo un contrasto impensato con il loro aspetto ini­ ziale. Perciò vengono anche dette parabole del con­ trasto. Cominciamo con la più facile delle quattro.

Il seme che cresce da solo (Mc. 4,26-29) «Col regno di Dio accade come quando un uomo getta il seme nel suo campo» (v. 26) . L'opera del se21

minatore viene descritta soltanto con queste poche parole, mentre si parla diffusamente della sua inattivi­ tà dopo la seminagione: «Poi va a dormire e si rialza, viene la notte e di nuovo il giorno; nel frattempo il se­ me germoglia e cresce e l'uomo non sa come». Dopo la seminagione egli conduce la propria vita nella suc­ cessione regolare di sonno e di veglia, senza badare a come il seme cresca. Con questa descrizione Gesù vuole suscitare l'impressione che tutto il successo di­ penda dalla terra. Certamente egli sapeva che il con­ tadino deve erpicare, contrastare le erbacce e la sicci­ tà, ecc. Ma questo per lui non ha importanza. Egli vuole soltanto mostrare che la terra porta il suo frutto «da sola» (in greco automdte, vale a dire per movi­ mento proprio, di per sé); prima l'erba, poi la spiga e infine il grano pieno nella spiga. L'enumerazione dei singoli stadi di maturazione tende ad accrescere la tensione. Poi un giorno, all'improvviso, il frutto è ma­ turo e viene il momento del raccolto. La parabola ter­ mina con una citazione di Gioele: «Mettete mano alla falce, perché il tempo del raccolto è arrivato» (4, 1 3). Gesù lascia ai suoi uditori di interpretare la para­ bola. E questo non è troppo difficile. Il punto di pa­ ragone è l'inattività. Come il contadino dopo aver gettato il seme se ne sta quieto, poiché quello cresce da solo, allo stesso modo anche Dio lascia che le cose compiano il loro corso. Ma quando viene il momento del raccolto, la sua opera fa sì che il regno venga. Con questa parabola Gesù voleva dar conforto e certezza ai discepoli, liberandoli da un peso che sarebbe stato superiore alle loro forze. Il loro compito è soltanto quello di andare per il mondo ad annunciare il vange­ lo. Non spetta loro far sì che la predicazione abbia successo. La forza operante risiede nel vangelo stes­ so; la parola di Dio è irresistibile: genera salvezza o porta al giudizio. Il messaggio della parabola tornò ad 22

essere attuale dopo la pasqua. Con calma e fiducia, pazienza e fermezza la comunità deve rimettere nelle mani di Dio il compimento finale e volgere lo sguardo all'avvenire. Senza darsi falsamente da fare, i figli di Dio devono attendere senza scomporsi l'opera che Dio compirà. La parabola vuole dunque mettere l'ac­ cento sul contrasto fra l'inizio e la fine, tra il poco che l'uomo ha da fare per l'avvento del regno di Dio e ciò che Dio stesso fa. Il regno di Dio non viene parago­ nato né al seminatore né al seme, ma al raccolto; esso è il prodotto della forza del seme, che cresce da solo e si schiude per dare il frutto maturo.

Il granello di senape (Mc. 4,30-32; Mt. 1 3 , 3 1 s . ; Le. r 3 , r 8 s.) Questa parabola ha un chiaro colore palestinese. Un granello di senape è grosso più o meno quanto la capocchia di uno spillo . Mç . ne descrive la piccolez­ za: «È il più piccolo di tutti i semi che si seminano sulla terra». Quando è cresciuto, l'arbusto di senape raggiunge sul lago di Genezaret un'altezza che va da due metri e mezzo a tre. Si tratta quindi di un'altra parabola di contrasto. Gesù vuole raffigurare l' enor­ me differenza che passa tra gli inizi meschini del van­ gelo, predicato da un paio di poveri discepoli, e lo splendore del regno dei cieli, che Dio crea dal nulla. Mc. lo descrive ancor meglio dicendo che, quando l'arbusto è cresciuto, alla sua ombra possono trovar rifugio gli uccelli del cielo. Qui abbiamo certamente un tratto simbolico, che dal contenuto è penetrato nel paragone. Trovare riparo nell'albero è un'immagi­ ne che simboleggia l'annessione di molti popoli nel regno di Dio, che diventa quindi loro dimora. Già in Daniele (4,8 s. r7-23) l'albero in cui nidificano gli uc­ celli è il simbolo di un grande regno. Anche qui il re-

gno di Dio viene presentato sotto la figura di un re­ gno di pace che offre riparo. Pertanto il regno di Dio non viene paragonato al granello di senape, ma all' ar­ busto vigoroso che offre riparo agli uccelli. Il granello di senape dall'inizio viene menzionato soltanto per mettere in rilievo il contrasto fra l'avvio e il compi­ mento.

Il lievito (Mt. 1 3 , 3 3 ; Le. 1 3,20 s.) Oltre che nei due evangelisti, questa parabola è presente anche nel vangelo di Tommaso (96 ) , ma non in stretta connessione con quella del granello di sena­ pe. In Mt. è tutta in una sola frase: «Col regno dei cieli avviene come con il lievito che una donna impa­ sta in una capace bigoncia di farina, finché tutto l'im­ pasto è lievitato» ( 1 3 , 3 3 ) . Nel testo originario si dice alla lettera « che una donna nasconde tra due sea di farina». Una sea era una misura di capacità per sostan­ ze secche, equivalente a litri 13,3 ; quindi tre sea corri­ spondevano all'incirca a quaranta litri. Si vuole per­ tanto parlare di un'enorme quantità di farina, di gran lunga superiore al fabbisogno di un nucleo familiare. Ciò che conta è, ancora una volta, il contrasto fra la piccola quantità di lievito e la grande massa di farina. Dicendo che il lievito viene «nascosto» nella farina, forse si allude alla presenza ancora velata del regno, al suo inizio nascosto, che tuttavia non gli impedisce di diventare un giorno una realtà che abbraccia tutto. Anche in questa parabola l'accento è posto sul contrasto fra lo stadio iniziale e quello finale; soltanto l'agire di Dio, non lo sforzo dell'uomo, provoca l'av­ vento del regno. Ma gli esegeti recenti fanno giusta­ mente notare che non bisogna perder di vista il moti­ vo della crescita. Anche questo era presente agli ascoltatori di Gesù. Se si tace l'immagine della cresci-

ta e dello sviluppo, il concetto di «regno di Dio» su­ bisce una restrizione unilaterale, perché viene visto solo nella sua forma compiuta. Nella concezione di Gesù, invece, esso è già presente nella sua predicazio­ ne e nella sua persona, anche se non appare ancora in piena evidenza ( cfr. Le. 17,21). Il regno di Dio, dun­ que, non sopravviene all'improvviso in una catastrofe visibile, a differenza di quanto si aspettavano i con­ temporanei di Gesù. C'era quindi il pericolo che nei discepoli si facessero strada il dubbio e la delusione, qualora non avessero visto qualche sintomo di cata­ strofe che preannunciasse l'avvento del regno di Dio. Perciò avevano bisogno di una parola di conforto, e questa è loro data con le parabole del granello di se­ nape e del lievito: come il minuscolo granello di sena­ pe si sviluppa poco a poco fino a diventare un grande arbusto, e la piccola quantità di lievito pervade tutta la pasta, così si comporta anche il regno di Dio. Esso è presente, ma non ancora compiuto; è venuto e si rende manifesto nell'agire di Gesù, ma il suo compi­ mento ha ancora da venire. Così anche il tempo tra l'inizio e la fine è messo in evidenza; anche se non ha la stessa importanza del contrasto che corre tra l'inizio e la fine, non va passato del tutto sotto silenzio.

Le quattro specie di terreno (Mc. 4,3-9; Mt. 13,1-9; Le. 8,4-8) Questa parabola si trova quasi con le stesse parole in Mt. 13, r-9 e in Le. 8,4-8, a conferma della fedeltà della tradizione e dell'importanza che le fu attribuita nella chiesa primitiva. Per capire il suo vero significa­ to, occorre sapere come si coltivavano i campi nella Palestina del tempo; altrimenti il comportamento del seminatore sembrerebbe proprio maldestro. La semi­ nagione avveniva in novembre, quando le prime piog25

ge avevano reso un po' più molle il terreno dissecca­ to. La semente veniva gettata prima dell'aratura. Il se­ minatore passava sul campo di stoppie e di proposito gettava il seme anche sulla strada tracciata abusiva­ mente dalla gente, perché voleva poi arare anche quella. Seminava pure fra la sterpaglia per sotterrarla insieme col seme. Che molti chicchi cadessero sulla roccia non stupisce, se si tiene presente che spesso le rocce calcaree erano coperte da un sottile strato di humus, cosicché era difficile riuscire a distinguerle dal resto del campo. Al narratore non interessa tanto la figura del semi­ natore, quanto le varie specie di terreno su cui egli se­ mina. La strada da tutti calpestata, la roccia, il terreno ricoperto di spine e infine la terra buona offrono con­ dizioni del tutto differenti per la crescita del seme. I chicchi seminati sulla strada vengono mangiati dagli uccelli prima che l'aratro li abbia ricoperti di terra. Sulla roccia il seme non può mettere radici profonde e il calore fa seccare rapidamente i germogli. Insieme al seme gettato fra le spine tornano a crescere anche le spine, che soffocano la semente. Soltanto il seme sparso sulla terra buona porta frutto e rende trenta, sessanta e cento volte tanto. Queste cifre sembrano esagerate, ma si è constatato che in Palestina, in con­ dizioni favorevoli, un solo seme può produrre 150 e persino 350 chicchi. Anche questa è una parabola di contrasto. Da un lato descrive il lavoro spesso infruttuoso del semina­ tore, dall'altro contrappone al maggese incolto il campo con i frutti maturi. Anche se il lavoro umano spesso sembra infruttuoso e accade di andare incon­ tro a tanti insuccessi, tuttavia Gesù è ottimista e fidu­ cioso: nonostante tutto, il regno di Dio si manifesta e porta con sé un raccolto tanto ricco da superare ogni aspettativa. Il punto di paragone non è quindi il semi26

natore e il suo lavoro, ma il terreno. Anche se que­ st'ultimo non è ideale e molti semi che vi germogliano non portano frutto, il raccolto è nondimeno ricco.

La spiegazione della parabola del terreno (Mc. 4,13 -20; Mt. 13,18-23; Le. 8 , u - 15) I tre sinottici riferiscono che i discepoli chiesero a Gesù il senso di questa parabola, e ne riportano an­ che una spiegazione particolareggiata. Ma J. J eremias ha fornito la prova convincente, e riscuote l'assenso di tutti gli interpreti recenti, che questa spiegazione non può provenire da Gesù stesso, bensì ha origine dalla chiesa primitiva e in seguito è stata posta sulla bocca di Gesù. Ricordiamo brevemente alcuni argo­ menti a sostegno di questa opinione. r . Nella spiegazione della parabola vi sono termini e locuzioni che non ricorrono altrove nei sinottici, ma sono frequenti in Paolo. Ad esempio il seme viene pa­ ragonato alla «parola» . L'impiego assoluto di questo termine (non si dice «parola di Dio») designava nella chiesa primitiva il vangelo, la lieta novella; cfr. Act. 6,4: «Noi invece ci dedicheremo alla preghiera e al servizio della parola»; Gal. 6,6: «Chi viene istruito nella parola» (la traduzione unitaria dice giustamente «sul vangelo)> anziché «nella parola)>) . Anche le altre asserzioni sulla parola, presenti nella spiegazione della annunciare la parola, parabola, come «seminare)> «accogliere la parola)>, «essere perseguitati a causa della parola)>, la parola che « cresce)>, «porta fruttm>, sono estranee alla predicazione di Gesù, frequenti in­ vece nella predicazione degli apostoli e soprattutto di Paolo. 2. Ancor più importante è notare che la spiegazione non coglie il senso escatologico della parabola, ma sposta l'accento sul piano psicologico. Non è più un =

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incoraggiamento per i predicatori, ma una esortazione ai cristiani neoconvertiti perché si interroghino sulla serietà della loro conversione. 3· La spiegazione fa della parabola una pura allego­ ria, facendo corrispondere tutti i particolari della fi­ gura a persone e cose determinate. Il seminatore è Cristo o colui che annuncia la lieta novella; la via sim­ boleggia i superficiali, il terreno sassoso gli uomini che hanno fede soltanto sul momento; le spine sono le preoccupazioni e i piaceri degli uomini terreni; il terreno buono rappresenta chi ascolta la parola ed è pronto ad accoglierla. Sorprende che la spiegazione del terreno buono sia così concisa, quando invece nella parabola il peso maggiore sta proprio su questo punto. Mc. passa sotto silenzio l'interpretazione del seme che porta frutto; Le. la dà chiaramente e scrive: «Il seme cade sul terreno buono in coloro che ascol­ tano la parola con cuore buono e sincero, si attengono ad essa saldamente e con la loro perseveranza portano frutto» (8, 1 5 ) . D a tutto ciò risulta chiaro che l a spiegazione della parabola del seminatore non proviene da Gesù stes­ so, ma dalla prima comunità cristiana, che ha trasfor­ mato il suo discorso di incoraggiamento in ammoni­ mento. I primi discepoli avevano bisogno soprattutto di coraggio per non perdersi d'animo di fronte alle difficoltà iniziali della predicazione. La chiesa giovane aveva bisogno anche di altro: occorreva richiamare l'attenzione dei convertiti sui molteplici modi in cui avrebbero potuto tornare a perdere la qualità di di­ scepoli. Per mostrare loro come il vangelo poteva ri­ manere infruttuoso in qualcuno, la chiesa primitiva escogitò questa spiegazione. Essa rivela così la rispo­ sta da dare ai problemi che le si ponevano di volta in volta, e la mette sulla bocca di Gesù, il suo Signore. Ma quest'interpretazione consente anche di constata28

re che ciò che nelle parabole di Gesù non ha riscontro cade rapidamente in oblio. Infatti questo mutamento di interpretazione sopravvenne già nella prima gene­ razione. Accogliendola nel suo vangelo, Mc. le ha conciliato autorità per tutti i secoli cristiani, ma senza farla passare come spiegazione autentica di Gesù.

CAPITOLO TERZO

PRESENZA DELLA SALVEZZA

Con la venuta di Gesù, la sua predicazione e la sua azione il regno di Dio è già cominciato. Di questa presenza della salvezza parlano alcune metafore; non esistono invece parabole complete che si occupino di questa realtà, ma molte che parlano del compimento della salvezza come bene escatologico. Con Gesù è già venuta nel mondo la salvezza definitiva: perciò l'espressione «escatologia realizzata» (C .H. Dodd) ha una certa giustificazione. Questa definizione, comun­ que, non deve indurci ad eliminare la tensione fra il «già adesso» e il «non ancora». La salvezza piena ri­ mane un bene ancora atteso della fine dei tempi.

Nozze e digiuno (Mc. 2,r8-2o; Mt. 9, 14 s . ; Le. 5,33-35) Mc. 2,r8-22 completa la fusione, già intrapresa dal­ la chiesa primitiva, di tre immagini risalenti a Gesù, ma che ricevettero alcune aggiunte dovute alla situa­ zione della comunità. La prima metafora è tratta dalle nozze. Un giorno chiesero a Gesù perché i suoi disce­ poli, a differenza di quelli di Giovanni e dei farisei, non digiunassero. Il digiuno era prescritto ai giudei un solo giorno all'anno, quello dell'espiazione. Ma vi era anche un digiuno volontario, osservato come pra­ tica devozionale. I farisei, per es. , digiunavano due volte la settimana. La domanda rivolta a Gesù non è fatta con malizia; coloro che lo interrogano semplice­ mente si meravigliano che egli e i suoi discepoli non

conoscano questa pratica, alla quale si attenevano Giovanni Battista e onorati maestri della legge. Per tutta risposta Gesù fa anche lui una domanda: «Possono forse digiunare gli invitati a nozze, finché lo sposo è con loro?». Le nozze erano per gli ebrei il simbolo della gioia messianica. Il digiuno, invece, è una pratica penitenziale che s'attaglia al dolore, non alla letizia di una festa nuziale. Data la grande impor­ tanza attribuita alle nozze, per gli uditori di Gesù l'immagine era chiara per se stessa. Anche i rigidi scribi sospendevano l'insegnamento della legge per partecipare a feste nuziali e far festa insieme ai com­ mensali. La domanda di Gesù, di facile comprensio­ ne, lascia però intendere che il tempo della gioia mes­ sianica è già presente. La sua risposta dunque vuoi dire che il giorno della letizia è già iniziato e che il tempo della salvezza è ormai giunto. Potrebbero forse digiunare i miei discepoli in questo tempo di gioia? Secondo gli esegeti moderni i vv. r9b e 20 non sono più parole di Gesù, ma sono stati aggiunti dalla prima comunità: «Finché lo sposo è con loro, essi non pos­ sono digiunare. Ma verranno giorni in cui sarà loro tolto lo sposo; in quel giorno digiuneranno». Questo testo restringe il tempo della salvezza alla vita terrena di Gesù. Ma è difficile che questa fosse la sua opinione. Egli era convinto che con lui era giunta la salvezza definitiva (anche se non ancora quella per­ fetta) . L'aggiunta parla di una catastrofe con la quale lo sposo è strappato agli invitati con violenza, cosic­ ché essi cadono nel dolore e non desiderano più man­ giare. Qui si allude chiaramente alla morte di Gesù; la comunità primitiva vedeva nella figura dello sposo Gesù stesso in carne ed ossa. La struttura dell'imma­ gine viene dunque modificata. Ora l'accento non è più posto sulla gioia per l'inizio del tempo della sal­ vezza, ma sulla catastrofe e sul dolore che le va unito. 32

Sappiamo da testimonianze extrabibliche che subi­ to dopo la morte di Gesù la comunità primitiva rimise in vigore alcuni giorni di digiuno volontario e volle fondare questa pratica su parole attribuite a lui stes­ so. Ciò non significa che, introducendo la pratica ebraica del digiuno, la comunità cristiana sia ricaduta nel giudaismo. La Didaché (un antico testo cristiano della prima metà del II secolo) ci informa che i cri­ stiani digiunavano il mercoledì e il venerdì di ogni settimana, mentre i giorni di digiuno dei farisei erano il lunedì e il giovedì. Così i discepoli di Gesù cercaro­ no di distinguere il loro digiuno da quello ebraico.

Come si giustifica il digiuno cristiano? La pratica del digiuno fu assunta nella vita cristiana in seguito a una considerazione giusta: la piena salvezza giungerà soltanto dopo l'annientamento del peccato e della morte. Sebbene il tempo della salvezza, in linea di principio, sia venuto con Gesù e il peccato sia espiato e vinto per mezzo della sua morte, la tentazione, il peccato e la morte agiscono tuttora concretamente nella vita del credente. Pertanto non è fuor di luogo osservare anche giorni di lutto e penitenza, evitando di comportarsi come se la piena salvezza fosse già in atto. Anche Paolo confessa (r Cor. 9,25-27) di aver praticato l'astinenza e la penitenza corporale, e questo certamente non per fedeltà alle usanze ebraiche. Mt. 9,14 s. accoglie il modello di Mc. senza appor­ tarvi modifiche sostanziali; solo una volta, anziché il verbo «digiunare», usa l'espressione equivalente «es­ sere in lutto». Egli dice anche che nella chiesa convi­ vono stabilmente la gioia, perché il tempo della sal­ vezza è iniziato, e il digiuno. Ma che i cristiani abbia­ no una nuova opinione del digiuno, si vede in Mt. 6,r6 s . : «Quando digiunate, non fate la una faccia lu­ gubre come gli ipocriti ( farisei) . Essi si danno un =

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aspetto malinconico affinché la gente si accorga che digiunano . . . Tu invece, quando digiuni, profumati i capelli e lavati il volto, affinché non la gente veda che digiuni, ma solo il tuo Padre, che vede anche nel se­ greto» . Gli interlocutori di Gesù, che i n Mc. restavano anonimi, in Le. 5 ,33-35 vengono presentati come fari­ sei e scribi (v. 30). La risposta è rivolta loro diretta­ mente: «Potete forse far digiunare gli invitati alle nozze, finché lo sposo è con loro?». Il v. 35 contiene una chiara allusione alla pratica del digiuno, radicata nella chiesa: «Verranno giorni in cui lo sposo sarà lo­ ro tolto; in quei giorni digiuneranno».

Toppa nuova - vino nuovo (Mc. 2,21 s . ; Mt. 9,16 s.; Le. 5,36 -39) La doppia parabola della toppa nuova e del vino nuovo probabilmente non è stata detta da Gesù insie­ me alla similitudine delle nozze e del digiuno, ma già nella tradizione orale vi fu associata e, bisogna dire, opportunamente; anche questa, infatti, parla di un comportamento che nel tempo della salvezza sarebbe assurdo. I due detti, certamente risalenti a Gesù stes­ so, enunciano norme di prudenza che si fondano su fatti confermati dall'esperienza e che forse già circola­ vano tra il popolo sotto forma di proverbi.

La toppa nuova sul vestito vecchio. «Nessuno cuce un pezzo di tessuto su un vestito vecchio; altrimenti il tessuto nuovo squarcia quello vecchio e si fa uno strappo più grande (Mc. 2,21 ) . Non si può adoperare del tessuto nuovo per ripararne uno vecchio. Gesù vuol dire che con lui è venuto nel mondo qualcosa di nuovo, inconciliabile con l'antica alleanza e con le sue regole. Già i profeti ne erano a conoscenza, quando 34

dicevano che alla fine dei tempi Dio stringerà una nuova alleanza con il suo popolo (ler. 31,31 -34) , darà agli uomini un cuore nuovo e metterà dentro di loro uno spirito nuovo (Ez. 36,26 ) . Questa novità ha avuto inizio con l'azione di Gesù, diventa tangibile nel suo insegnamento e nel suo operare finché, con la sua morte espiatrice, la nuova alleanza è definitivamente conclusa (Mc. 14, 24) . Nel detto si rende così manifesta l'autocoscienza di Gesù, consapevole di introdurre un tempo nuovo e un ordine nuovo nel piano della salvezza. Queste pa­ role esortano a non congiungere il nuovo con il vec­ chio, mettono in guardia contro tutte le mezze misu­ re. Ciò che Gesù fa non è mai un rattoppo, ma una nuova creazione. Mentre Mt. apporta al detto solo qualche modifica irrilevante rispetto a Mc., Le. invece ha cambiato ra­ dicalmente: «Nessuno strappa una pezza da un vestito nuovo per metterla su uno vecchio; altrimenti il vesti­ to nuovo rimane strappato e la toppa presa dal nuovo non si adatta al vecchio» (5, 36) . Vuoi dire che il nuo­ vo che Gesù ha portato non è da confrontare con una pezza di stoffa nuova, ma con tutto il vestito nuovo. Perciò non si tratta tanto della probabilità che il nuo­ vo danneggi il vecchio, quanto del pericolo che il vec­ chio rappresenta per il nuovo. Il vestito nuovo che viene strappato rimane danneggiato a prescindere dall'incompatibilità di una toppa nuova con un vestito vecchio. Qui l'evangelista prende posizione riguardo a una tendenza della chiesa del suo tempo, che si in­ gegnava a preservare vecchi canoni (come le pratiche giudaiche della preghiera e del digiuno) . Di fronte a questa tendenza egli sottolinea l'importanza di pre­ servare intatta la novità portata da Cristo, senza mi­ schiarla con le vecchie regole. Nel contesto di Le. questa metafora è esposta ai farisei (5,30.33·36), che 35

preferivano mantenersi fedeli alla tradizione e si op­ ponevano alla novità dell'insegnamento di Gesù.

Vino nuovo in otri vecchi. Anche la seconda meta­ fora, quella-del vino nuovo in otri vecchi, vuole illu­ strare il medesimo concetto, cioè che con Gesù è ve­ nuto nel mondo qualcosa di nuovo. «Nessuno riem­ pie otri vecchi con vino nuovo, altrimenti il vino spacca gli otri; il vino va perduto e gli otri non si pos­ sono più usare. Vino nuovo in otri nuovi» (Mc. 2,22) . Nell'A.T. il vino è usato spesso come simbolo del tempo della salvezza; l'abbondanza di vino è segno della benedizione divina (Gen. 27,28; Ioel 2,23 s.) e del tempo salvifico del Messia (Am. 9,13; Ioel 4, 18) . Anche in Io. 2,I-II Gesù è presentato come portatore del tempo della salvezza, quando alle nozze di Cana distribuisce vino in abbondanza. Ma il vino nuovo, non ancora fermentato, non si deve versare in otri vecchi e fragili. Durante la fermentazione li fa scop­ piare, così che si perdono sia il vino che gli otri. Fuo­ ri di metafora: il nuovo non va d'accordo con il vec­ chio e la mescolanza di vecchio e nuovo rovina en­ trambi. Alla frase di chiusa di Mc. («Vino nuovo in otri nuovi») Mt. 9,17 aggiunge: «Così si conservano l'uno e gli altri». Il punto di comparazione del detto ha su­ bito uno spostamento. Per Gesù si trattava dell'in­ compatibilità del nuovo con il vecchio; per Mt. della nuova forma acconcia al nuovo. Trovata tale forma, anche il vecchio può durare ( come ad es. il digiuno ebraico) . Le. 5,39 integra il testo d i M c . introducendo un'al­ tra sentenza: «Nessuno, che abbia bevuto il vino vec­ chio, vuole il nuovo, perché dice: Il vino vecchio è migliore». Lo stesso enunciato si ha anche in un pro­ verbio ebraico: «Non fa forse bene il vino vecchio ?»

Aggiungendo questa frase, Le. dà alle parole di Gesù un'interpretazione totalmente nuova: certamente non è possibile conciliare vecchio e nuovo; ma entrambi possono stare l'uno accanto all'altro senza essere me­ scolati. Questa massima del vino forse è dovuta al conflitto tra i giudeo-cristiani e i pagani convertiti ( W. Grundmann) . Secondo G. Bouwman' il detto non esprime una convinzione dell'evangelista, ma sarebbe da intendere piuttosto come un compianto per coloro che sono cresciuti con il vino vecchio e solo a fatica riescono ad apprezzare quello recente del rinnovamento. La frase sarebbe quindi, in qualche misura, una concessione fatta ai cristiani tradizionalisti.

L'immagine delfico (Mc. 13,28 s . ; Mt. 24,32 s . ; Le. 21,29-31) In Mc. la parabola fa parte del discorso sulla fine dei tempi, che l'evangelista più antico ha trovato e in­ corporato nella sua opera con alcune variazioni. Egli la introduce con le parole: «Imparate qualcosa dal raffronto con il fico ! ». Essa può dunque aiutare il let­ tore a interpretare rettamente i segni del tempo. Il fi­ co si distingue dagli innumerevoli alberi sempreverdi della Palestina, perché in autunno perde le foglie e in primavera germoglia di nuovo. Annuncia quindi l'ini­ zio della nuova stagione, come spiega anche la para­ bola: «Appena i suoi rami diventano teneri e mettono le foglie, voi sapete che l'estate è vicina». Nel fico si può riconoscere meglio che negli alberi sempreverdi lo spuntare della vita dalla fissità di morte dell'inver­ no. I suoi rami sembrano morti per sempre. Ma quando la linfa ricomincia a circolare diventano tener.

G. B ouwman, Dar dritte Evangelium, Diisseldorf 1968.

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ri e mettono le nuove foglie, annunciando che l'estate è alle porte. Il v. 29 fa l'applicazione della similitudine: «Così anche voi, quando vedrete accadere queste cose, sap­ piate che la fine è prossima». Il testo greco non dice che cosa sia prossimo: se «la fine» oppure «egli», cioè il figlio dell'uomo, o anche, tutti insieme, «il giudi­ zio, la salvezza e il giudice». Nel contesto di Mc. le parole «quando vedrete accadere queste cose» si rife­ riscono palesemente agli eventi che si verificheranno alla fine dei tempi, dei quali si parlava nei versetti precedenti; esse alludono alla prossimità del regno di Dio che, con la venuta del figlio dell'uomo, irrompe in tutta la sua pienezza. Ci si può domandare, tuttavia, se il detto originario di Gesù si riferisse veramente agli orrori della fine dei tempi. Il fico verdeggiante, infatti, è piuttosto segno della salvezza che sta per venire (come in Ioel 2,22) . Bisogna quindi ammettere che Gesù abbia riferito quest'immagine agli indizi della salvezza, cosicché il senso sarebbe: il tempo della piena salvezza messiani­ ca sta per giungere. La parabola allora esprime l'atte­ sa impaziente del figlio dell'uomo, della sua venuta che significa salvezza. Mt. riproduce la similitudine di Mc. quasi alla let­ tera. Le. le dà una nuova introduzione: «Guardate il fico e gli altri alberi» (21 ,29). Se si prendono in consi­ derazione gli altri alberi, anche i segni della fine si moltiplicano: quanto più numerosi essi germogliano in primavera, tanto più evidente appare la vicinanza dell'estate. In Le. si ha questa applicazione: «Allo stesso modo sappiate che il regno di Dio è vicino» (v. 3 1 ) . Dalla venuta di Gesù in poi tutta la storia si col­ loca vicino al regno di Dio. Poiché il salvatore Gesù è presente, anche il tempo della salvezza è già arrivato.

CAPITOLO QUARTO

LA MISERICORDIA DI DIO VERSO I PECCATORI

Nelle parabole Gesù non ha soltanto predicato in ge­ nerale che il tempo della salvezza è arrivato. Ha pre­ cisato anche che la salvezza viene preparata per i po­ veri e per i peccatori. Soprattutto Luca presenta Gesù come il salvatore dei peccatori. Le più belle parabole al riguardo si trovano nel terzo vangelo, alcune anche in Mt. Gesù ha raccontato tutte queste parabole, sen­ za eccezione, non ai poveri e ai peccatori, ma ai suoi avversari. Essi si scandalizzavano che il profeta di Na­ zaret si dedicasse particolarmente a questi gruppi di emarginati. Per giustificare il suo operato di fronte ai critici, Gesù propose loro una serie di racconti, che mostrano l'atteggiamento di Dio verso i peccatori. Così essi dovettero riconoscere che il suo comporta­ mento era in armonia con quello di Dio.

I figli dissimili (Mt. 21 ,28-32) La parabola è propria di Matteo e sta tutta in una domanda, alla quale si possono dare due risposte; dunque non si tratta di un racconto particolareggiato. Un padre ha due figli. Chiede ad entrambi che vada­ no a lavorare nella sua vigna. Il primo si dichiara pronto a partire; ma poi non va. L'altro reagisce all'ordine con un secco: «Non ne ho voglia». Ma poi si pente di aver opposto al padre un tal rifiuto e va al lavoro nella vigna. Gesù domanda ai suoi uditori: «Chi dei due ha compiuto la volontà del padre?». La risposta poteva essere soltanto: il secondo. Il senso 39

della parabola è dunque questo: quello che conta non sono le parole ma le azioni. Conta compiere la volon­ tà del Padre. Gesù esprime lo stesso concetto anche con un altro detto : «Non chi mi dice: Signore! Signo­ re ! , entrerà nel regno dei cieli, ma soltanto chi compi­ rà la volontà del Padre mio che è in cielo» (Mt. 7, 21 ) . I due figli sono posti l'uno accanto all'altro come rap­ presentanti di un comportamento tipico. Ma nel v. 31 Gesù f a un'applicazione della parabola che lascia sbi­ gottiti: «In verità vi dico: i pubblicani e le prostitute vi passano davanti nel regno di Dio». Secondo gli av­ versari, i pubblicani non hanno alcuna possibilità di arrivare a Dio, non potendo in alcun modo risarcire i danni recati con le loro truffe. Eppure, secondo Ge­ sù, essi sono vicini a Dio più dei pii d'Israele. È vero che al comandamento di Dio hanno opposto un rifiu­ to; ma si sono pentiti e hanno fatto penitenza (in Le. 3,12 anche dei pubblicani vengono da Giovanni Bat­ tista e gli chiedono che cosa devono fare). Anche il comportamento delle prostitute è simile a quello del figlio scontroso della parabola: prima non si sono at­ tenute alla volontà di Dio, ma poi si sono pentite e hanno seguito Gesù (Le. 7.44-47 ) . Egli ha accolto nella sua comunità l'una e l'altra categoria di peccato­ ri convertiti, e i suoi awersari ne prendevano occasio­ ne per ingiuriarlo chiamandolo « amico dei pubblica­ ni e dei peccatori» (Mt. rr,19). Quest'applicazione della parabola ha senza dubbio irritato gli uditori. Gesù vuole scuotere quanti sono sicuri di sé, affinché trovino la salvezza. Li rimprovera perché assomigliano proprio a quel figlio di cui di­ sapprovano il comportamento. Condanna, quindi, tutto lo zelo che pongono nella rigorosa osservanza della legge; a loro Dio preferisce i peccatori che fanno ritorno a lui. In origine la parabola terminava con il v. 3 1 . Il ver-

setto seguente riporta un inaspettato richiamo a Gio­ vanni Battista. I farisei non gli hanno creduto, sebbe­ ne egli indicasse loro la via della giustizia; i peccatori e i pubblicani, invece, gli hanno creduto. Giovanni, dun que, ebbe a fare in anticipo la stessa esperienza di Gesù: incontrò il rifiuto negli uomini pii, ma l'obbe­ dienza in coloro che avevano vissuto lontano da Dio. Ma è improbabile che quest'applicazione a Giovanni sia originaria, poiché non si adatta bene alla parabo­ la. Questa parla di un cambiamento di condotta da parte dei due fratelli, cosa che invece non accade nei farisei che venivano da Giovanni. Inoltre Le. 7,29 s. riporta il medesimo detto come dichiarazione indi­ pendente. Esso fu quindi presumibilmente annesso alla parabola dei due figli ad opera di Mt. o della tra­ dizione precedente in forza di un'associazione dei ter­ mini pubblicani e prostitute. Mentre la parabola vuo­ le giustificare la lieta novella, il riferimento al Battista ne fa l'applicazione alla storia della salvezza, che in origine le era estranea.

I due debitori (Le. 7,41-43) Questa parabola fa parte di un racconto tramanda­ to solamente da Le., nel quale si narra l'unzione dei piedi di Gesù da parte di una peccatrice. La scena si svolge in casa di Simone fariseo, che aveva invitato Gesù a cena. Poiché gli ospiti stanno distesi su dei cuscini posti vicino al tavolo, si trattava certamente di una cena di festa: infatti nei pasti ordinari si stava se­ duti intorno al tavolo. Probabilmente la cena era in onore di Gesù, che il padron di casa considerava co­ me profeta (v. 39) . Inoltre si pensava che fosse meri­ torio invitare a pranzo i maestri itineranti, special­ mente se prima avevano predicato nella sinagoga. Possiamo pensare che questo fosse il caso anche di 41

Gesù. La prostituta, che compare alla cena senza es­ sere stata invitata, probabilmente era stata scossa dal­ la sua predicazione e aveva ottenuto da lui il perdono dei peccati. Mossa da illimitata riconoscenza, entra, versa lacrime di gioia che cadono sui piedi di Gesù e le asciuga con i suoi capelli (questo gesto la dà a co­ noscere, perché si reputava disdicevole che una don­ na retta sciogliesse i capelli in presenza di uomini) . Ma essa va oltre: bacia i piedi di Gesù e li cosparge di olio prezioso. Quando si dice (v. 47) che ha molto « amato», si allude proprio a questo atto di amore ri­ conoscente. In aramaico, la lingua madre di Gesù, un termine che significhi «ringraziare» non esiste; al suo posto si usano altre parole come «benedire» o, ap­ punto, «amare». Simone, testimone dell'episodio, si scandalizza al vedere che Gesù si lascia toccare dalla donna; infatti il contatto di un peccatore rende impuri. Da ciò de­ duce che il suo ospite evidentemente non è un profe­ ta, altrimenti saprebbe che la donna è una prostituta. Per convincere il fariseo che la sua deduzione è sba­ gliata, Gesù gli racconta la parabola dei due debitori, con la quale gli dimostra anche di possedere il sapere profetico che quello non gli riconosce. Un creditore ha due debitori; uno gli deve cinque­ cento denari, l'altro cinquanta (un denaro è una mo­ neta romana equivalente al salario di una giornata) . Poiché i due non hanno da restituire, condona il de­ bito ad entrambi. Comportamento senza dubbio in­ solito. Poi Gesù chiede a Simone quale dei due debi­ tori lo amerà di più, cioè gli sarà più riconoscente. La risposta non può essere che questa: lo amerà di più quello a cui più è stato donato. Gesù prende atto che la risposta di Simone è giusta; poi applica la parabola a sé e alla peccatrice, per portarlo a concludere che solo coloro che hanno grandi colpe possono capire il

significato del perdono; essi soltanto nutriranno gran­ de riconoscenza e amore per il benefattore. Questa spiegazione è in apparente contraddizione con il v. 47· Eccone il testo: «Perciò ti dico: le sono perdonati i suoi molti peccati, poiché (mi) ha dato prova di tanto amore. Invece colui al quale poco è stato perdonato dimostra anche poco amore». Qui sembra che l'amore della donna sia la causa del per­ dono dei suoi peccati, mentre nella parabola il con­ dono del debito è la causa dell'amore riconoscente. Ma il senso del versetto probabilmente è un altro: Dio ha perdonato alla donna i suoi molti peccati, come si vede dalla sua grande riconoscenza; la riconoscenza di colui al quale Dio perdona poco è piccola (]. Jere­ mias) . Occorre tenere conto di questo sfondo per comprendere la parabola, che Gesù propone a giusti­ ficazione dell'essersi lasciato toccare da una prostitu­ ta. Egli pone a confronto il debito grande e quello piccolo, la grande e la piccola riconoscenza. Poiché la donna dimostra una riconoscenza maggiore, è più vi­ cina a Dio del fariseo, sebbene sia vissuta nel pecca­ to. Il suo amore riconoscente verso Gesù in realtà è amore di Dio. Il v. 50 che conclude il racconto riferi­ sce le uniche parole che Gesù dice alla peccatrice: «La tua fede ti ha salvata. Va' in pace ! ». Dunque sol­ tanto la fede nel messaggio di Gesù le è valsa la re­ missione dei peccati.

Il fariseo e il pubblicano (Le. r8,9- 14) La parabola, propria di Le., è indirizzata, come di­ ce il v. 9, ad alcuni «che erano convinti di essere giu­ sti e disprezzavano gli altri». Si pensa subito ai farisei; e difatti il protagonista della parabola è uno di loro. Ma forse l'evangelista ha in mente anche certi cristia­ ni che pregano alla maniera dei farisei. Lingua e con43

tenuto mostrano che qui si ha un'antica tradizione palestinese. Due abitanti di Gerusalemme salgono al tempio per l'ora della preghiera (le tre del pomeriggio, cfr. Act. 3 , 1 ) . Il primo, un fariseo, si mette in piedi davan­ ti a tutti (oppure, secondo un'altra traduzione possi­ bile: prega a bassa voce fra sé e sé) . La sua è una pre­ ghiera di puro ringraziamento; non domanda nulla. Ringrazia Dio in primo luogo per la sua pietà, poi per le sue opere. La pietà traspare dalla sua vita che non conosce peccato: egli non è ladro ( meglio forse, con un termine meno forte: furfante) , né imbroglione, né adultero. Non vive neppure in continuo conflitto con la legge. La nota «come quel pubblicano laggiù» la­ scia intendere che per gli altri nutre disprezzo. Nella preghiera enumera anche le sue buone opere. Digiuna due volte la settimana, probabilmente per espiare i peccati del popolo, e inoltre dimostra di avere grande spirito di sacrificio, poiché il dieci per cento di tutti i suoi introiti lo dà in beneficenza, cosa che, come il di­ giuno, va oltre ciò che è prescritto dalla legge. L'altro orante, in piedi in fondo al tempio, non osa nemmeno levare gli occhi e si batte il petto ( cioè il cuore, sede del peccato) , e con questo gesto esprime profondo pentimento. La sua preghiera non è altro che una domanda di pietà, che richiama il Ps. 5 1 , 3 : «Dio, abbi pietà d i m e secondo l a tua benevolenza; secondo la tua grande misericordia cancella il mio peccato». Il v. 14 riporta il giudizio di Gesù sui due oranti. Il pubblicano torna a casa sua giustificato (letteralmen­ te: come uno a cui è stata accordata la grazia, che ha trovato il beneplacito di Dio), il fariseo no. Può darsi che il v. 14b, che troviamo anche in Le. 14,r r («Chi si esalta sarà umiliato, chi invece si umilia- sarà esalta­ to») non sia al suo posto primitivo; ad ogni modo si 44

adatta bene alla parabola. Il passivo è una circonlocu­ zione al posto del nome di Dio e il futuro è da inten­ dersi in senso escatologico : nel giudizio finale Dio umilierà i superbi e innalzerà gli umili. Il fariseo ha esaltato se stesso anche nella preghiera, il pubblicano invece si è umiliato davanti a Dio, riconoscendosi peccatore e chiedendo perdono. Orbene, nel giorno del giudizio Dio umilierà l'uno e donerà la sua grazia all' altro. Gli ascoltatori di Gesù devono essersi indignati di fronte alla conclusione della parabola. Che cosa si può obbiettare alla preghiera del fariseo? Egli sa di esser debitore a Dio, se è migliore degli altri e rende grazie senza chiedere null'altro. E come può essere tanto efficace la preghiera del pubblicano? Secondo la mentalità del tempo, la sua situazione non lasciava adito alla speranza. Per ottenere il perdono dovrebbe rinunciare alla sua professione e inoltre restituire tutto il denaro guadagnato con l'usura; ma egli non sa nemmeno quanti sono quelli che ha danneggiato. Co­ me potrebbe dunque trovare la grazia divina? Gesù non risponde alla domanda, ma vuole sem­ plicemente dire quanto grande è la bontà di Dio. Egli agisce veramente come sta scritto nel Ps. 5 1 , di cui il pubblicano cita l'inizio : «Sacrificio gradito a Dio è uno spirito contrito; tu, o Dio, non disprezzerai un cuore affranto e umiliato» (v. 19). Dio accetta il pec­ catore senza speranza, rifiuta il fariseo che è sicuro di sé. E così fa anche adesso attraverso Gesù, che è suo rappresentante. La parabola, quindi, serve a giustificare tanto la misericordia di Dio verso i peccatori quanto l'atteg­ giamento di Gesù nei loro confronti. Con il versetto introduttivo l'evangelista vuole esortare anche i suoi lettori a non disprezzare i peccatori pentiti che sono entrati nella comunità. 45

La pecora smarrita (Le. 15,4-7; Mt. 18,12-14) In Le. 15 troviamo tre parabole strettamente legate tra loro. Tutte parlano di qualcosa che è andato per­ duto: la pecora smarrita, la moneta perduta, il figlio perduto. Soltanto la prima si trova, in forma ridotta, anche in Mt. ; le altre due sono proprie di Le. In Le. i versetti introduttivi ( 1 - 3 ) sono opera del­ l' evangelista, che grazie ad essi dà una precisa cornice alla parabola, che era tramandata isolatamente. Pub­ blicani e peccatori si awicinano a Gesù per ascoltar­ lo. I farisei e gli scribi presenti si indignano nel veder­ lo familiarizzare con i peccatori. Nel linguaggio di co­ storo si chiamano «peccatori» quegli uomini che con­ ducono una vita immorale o esercitano una professio­ ne disonorata (come gli esattori di imposte o i concia­ tori, gli uni perché disonesti, gli altri perché in con­ flitto permanente con le norme di purità prescritte dalla legge) . A questi critici Gesù propone le tre pa­ rabole, che danno tutte rilievo alla cura amorevole di Dio per chi è perduto, mettendo l'accento sulla gioia del ritrovamento. La parabola della pecora smarrita si awale di una situazione frequente nella vita pastorale del tempo. Una pecora si allontana dal gregge e non trova più la via del ritorno; scoraggiata si lascia cadere e non la si può più convincere ad alzarsi. Il pastore deve cercarla per ricondurla al gregge e, se il cammino è lungo, po­ trà solo prenderla in spalle. La gioia di aver ritrovato l'animale è tanto grande, che chiama i vicini a pren­ dervi parte. Nel v. 7 si ha l'applicazione della parabola. Dio si rallegra di più per un solo peccatore che si converte, che per novantanove giusti che non hanno bisogno di conversione. Il punto di paragone è dunque la gioia.

Gesù parla dell'infinito trasporto che Dio prova nel concedere il perdono. Egli vuole la salvezza dei per­ duti. E, poiché egli è tanto benigno, lo è anche Gesù. Così trova giustificazione la sua missione di salvatore. Il pastore che organizza una festa per la contentez­ za di aver ritrovato la sua pecora, non è un tratto rea­ le. Qui la parte reale della parabola si è insinuata in quella figurata. Quando si parla di gioia «in cielo», si usa una perifrasi del nome di Dio che, per rispetto, al tempo di Gesù non veniva più pronunciato. Il testo mostra anche che, se Gesù si comporta coi peccatori nel modo descritto, non vuoi però dire che approva i loro peccati. Questa gioia divina è possibile soltanto quando il peccatore si converte. Ma c'è una novità. La conversione non è la condizione per essere accolti con bontà da Dio. Piuttosto è Dio stesso che provoca la conversione. Il pastore, infatti, non aspetta che la pecora smarrita ritorni da sola; le va dietro e la ripor­ ta nel gregge. Quando si parla di «giusti», non occor­ re pensare a un senso ironico; si vuole semplicemente dire che chi fa la volontà di Dio non ha bisogno di convertirsi. Nel testo parallelo di Mt. r8,r2-14 la parabola è detta ai discepoli (v. r ) . Anche il punto di paragone è un altro: Dio vuole che i discepoli di Gesù non si stanchino di seguire il fratello che vive nell'errore, co­ me fa il pastore con la pecora smarrita. Qui, dunque, l'accento è posto sulla ricerca. Il pastore dev'essere preso a modello dai capi della comunità.

La moneta perduta (Le. 15,8-ro) La seconda parabola ripete il pensiero della prece­ dente, ma spostando un po' l'accento. Invece di un uomo ricco, è protagonista una donna povera. Il rap­ porto numerico tra ciò che è perduto e il resto non è 47

più di uno a cento, ma di uno a dieci. La casa della donna si può immaginare priva di finestre, come era­ no le abitazioni dei poveri in Palestina. Per trovare la dramma perduta (moneta greca del valore di un fran­ co d'oro), deve far luce in ogni angolo con una lam­ pada. La scopa con cui spazza la casa deve far tintin­ nare la moneta sul pavimento di pietra. L'accento è quindi posto soprattutto sull'atto del cercare. Ciono­ nostante, al centro rimane il senso di gioia. Anche qui c'è una grande sproporzione tra la vita quotidiana quale si svolge realmente e la pubblicità data all'acca­ duto,- con la donna che chiama a raccolta le amiche e le vicine. Nel versetto conclusivo i peccatori non sono più posti a fronte dei giusti (come nel v. 7) ma soltan­ to di fronte a Dio (gli angeli che stanno davanti a Dio sono un'altra perifrasi del nome di Dio ) . Anche qui l'incomprensibile misericordia di Dio, che prova la più grande gioia nel concedere il perdono, è intesa come la migliore giustificazione della missione salvifi­ ca di Gesù e del vangelo.

Il figlio perduto (Le. r5, I I -32) La terza parabola è molto più lunga delle prece­ denti; è la più lunga di tutte le parabole di Gesù e, possiamo aggiungere, anche la più bella. Essa appro­ fondisce il concetto che sta alla base delle altre due, ma con nuovi accenti. Invece che il solito titolo, con­ verrebbe darle quello di «parabola del padre amore­ vole»; infatti il tema fondamentale è l'infinito amore di Dio. Ma oltre ad esso, vi trova espressione anche il tema della «conversione». La parabola ha due punti di spicco: r. l'accoglienza del figlio perduto; 2. l'atteggiamento del figlio mag­ giore nei confronti del padre. Vista nell'insieme, è un invito alla misericordia in cui Gesù torna a descrivere

il proprio modo di agire come manifestazione del

perdono divino. Se Dio stesso accoglie i peccatori, gli uomini non hanno nessun diritto di respingerli.

Il figlio minore (w. 12-24) . Il minore dei due figli

di un uomo ricco reclama la parte che gli spetta delle sostanze paterne. Secondo la legge mosaica (Deut. 21,17) il primogenito aveva diritto ad ereditare il dop­ pio del fratello minore. Inoltre non di rado la divisio­ ne si faceva vivente ancora il padre, il quale però con­ servava fino alla morte l'usufrutto dei beni dati in eredità. Nella parabola il figlio minore, oltre al diritto di proprietà, pretende anche quello di disporre della sua parte. Evidentemente egli vuole intraprendere un'esistenza indipendente. Perciò vende i terreni che sono la sua parte di eredità e con il denaro ricavato va all'estero. Là conduce una vita dissoluta e scialacqua in breve le sue risorse. La sua colpa non sta tanto in questo sperpero, quanto nell'infedeltà riguardo ai be­ ni a lui affidati. L'arrivo di una carestia lo riduce in estrema povertà, del tutto privo di mezzi. Finisce che va vergognosamente a farsi assumere da un abitante di quella regione, che lo manda a pascolare i porci: mestiere ripugnante per un ebreo, poiché il contatto continuo con questi animali considerati impuri rende impuro anche lui e lo costringe, in pratica, a ripudiare la sua religione. Ma neanche come custode di porci riesce a calmare la fame; e nessuno gli dà anche solo ciò che mangiano i maiali. Qui la realtà torna a intrecciarsi con l'imma­ gine. Infatti avrebbe potuto rubarne un po'. Sottoli­ neando che nessuno gliene dava, Gesù intende dire che uno che si sia allontanato da Dio non trova pietà presso i suoi simili. In questo stato di estremo bisogno il giovane riconosce il suo sbaglio. «Torna in sé», vale a dire comincia a riflettere e si rende ben conto che 49

gli ultimi operai dell'azienda di suo padre hanno da mangiare in abbondanza, mentre lui è alla fame. Per­ ciò risolve di tornare a casa. Non si tratta ancora di vero pentimento; per ora egli pensa soltanto al buon tenore di vita nella casa paterna. Ma il ritorno in se stesso è l'inizio della vera conversione. La riflessione utilitaristica lo porta a riconoscere la gravità del suo peccato, che è la violazione del dovere non solo verso il padre, ma anche di fronte a Dio: «Padre, ho pecca­ to contro il cielo ( Dio) e contro di te» (v. r8). Così decide di tornare a casa e di presentarsi al padre con­ fessando di aver mancato. Ha coscienza di aver per­ duto i suoi diritti di figlio; ma gli basta potersi guada­ gnare il pane come un salariato. Con il v. 20 ha inizio la storia vera e propria; la parte precedente era solo la preparazione. D'ora in avanti è senz' altro il padre che sta al centro del rac­ conto. Nel suo comportamento si riflette la pietà divi­ na che concede il perdono ai peccatori. Quando il re­ duce è ancora lontano da casa, il padre lo vede (forse ogni giorno spiava se arrivava; dunque faceva conto che tornasse). In aperta contraddizione con la sua di­ gnità di ricco orientale, egli corre verso il figlio giova­ ne, lo abbraccia e lo bacia; questi atti di tenero amore mostrano che il figlio perduto è di nuovo accolto cd­ me tale. Soltanto ora egli riesce a parlare e dà inizio al discorsetto che ha preparato. Ma il padre non gli lascia nemmeno aprir bocca; ordina alla servitù di portare a quel povero straccione un abito prezioso (segno in oriente di alta distinzione), di mettergli al dito un anello (simbolo del conferimento di potere) e ai piedi i calzari (segno di riconoscimento dell'uomo libero; soltanto gli schiavi camminavano a piedi nu­ di) . Infine si ammazzi il vitello ingrassato, cioè si pre­ pari per tutta la casa una gran festa, che culmini in un banchetto accompagnato da musica e danze. Così il =

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padre vuole mostrare a tutti che il figlio è completa­ mente reintegrato nella sua posizione di prima, ed esprime il motivo della gioia con due immagini reali­ stiche: il ritrovamento del figlio perduto è per lui co­ me una risurrezione di un morto e come il rinveni­ mento di un animale smarrito.

Il figlio maggiore (w. 25-32 ) . La parabola potrebbe finire qui. Nel comportamento del padre è stato de­ scritto l'atteggiamento di Dio verso i peccatori che si convertono, ed è stato pure motivato il diritto di Gesù di rallegrarsi parimenti per il ritorno dei peccatori. Ma c'è una seconda parte. Il figlio maggiore, di cui fi­ nora non si era parlato, era a lavorare nel campo. Quando la sera torna a casa e da fuori sente la musi­ ca, capisce che dentro si fa festa e ne domanda il mo­ tivo a un garzone. Come lo viene a sapere, è colto dall'ira e rifiuta di prender parte al banchetto. L'indignazione del figlio che si ritiene giusto è l'e­ satto contrario della pietà paterna. Nella figura del fi­ glio maggiore Gesù ritrae i giudei giusti, cioè i farisei e gli scribi che, secondo il v. 2, erano indignati nel ve­ dere come egli si comportava con i peccatori. Ma il padre non si disinteressa del contestatore, co­ me non è rimasto indifferente con il fratello tornato a casa. Con questo particolare il narratore vuole far comprendere agli uditori che Dio si adopera anche per gli uomini induriti; anche ad essi chiede di cam­ biar modo di pensare. L'invito rimane valido ancor oggi; non è mai troppo tardi. Ma il figlio maggiore ri­ sponde all'invito del padre con una serie di rimprove­ ri violenti e irrispettosi. Gli enumera tutti i suoi meri­ ti: lui ha lavorato nei campi come un garzone, senza commettere la benché minima colpa. Il padre invece considerava tutto questo come owio, e non gli ha mai dato nulla per divertirsi un po' con gli amici. È,

all'incirca, come nella parabola del fariseo e del pub­ blicano, nella quale il primo enumera davanti a Dio le sue opere (Le. r8, I I s.). Che ora il padre faccia prepa­ rare un banchetto per quel figlio sconsiderato, è per il fratello maggiore uno scandalo bello e buono. Lui lo chiama « questo tuo figlio», come a non voler ave­ re più nulla a che fare con lui. Va da sé che chi, come questo figlio esemplare, ragiona esclusivamente in termini di merito e di ricompensa, non è in grado di apprezzare l'amore comprensivo del padre. Ma questi non si lascia confondere dai rimproveri del figlio maggiore. Si rivolge a lui chiamandolo affet­ tuosamente «figlio mio». Per convincerlo dell'infon­ datezza di quelle rimostranze, gli fa notare la tran­ quilla sicurezza in cui ha vissuto accanto al padre e gli ricorda che nulla è tolto alla sua proprietà e al suo diritto ereditario. «Tutto ciò che è mio, è anche tuo». Questa frase è tanto colma di bontà da commuovere anche un cuore indurito. Ed egli ripete al figlio mag­ giore quanto ha già detto al v. 24: Dovresti fare festa anche tu con noi e rallegrarti, perché quello che è tor­ nato è tuo fratello. La parabola termina così, senza aggiungere altro sulla reazione del figlio indignato. Probabilmente le parole del padre gli appaiono del -tutto prive di sen­ so; egli non riesce a provare tanta gioia e tanto amore. Ma Gesù non lo dice. Interrompendo bruscamente il racconto vuole far capire ai suoi avversari che an­ ch'essi devono aprire i cuori all'appello al perdono. Egli non condanna ancora i suoi avversari e spera che possano vincere lo scandalo del vangelo, che predi­ ca l'amore misericordioso di Dio. Così la giustifica­ zione della lieta novella diviene rimprovero e anche tentativo di conquistare i cuori degli oppositori. Ma perché nelle tre parabole di Le. r 5 Gesù parla di Dio, se invece vuol giustificare la propria condotta 52

verso i peccatori? Perché egli agisce come Dio, pensa come Dio. Nel suo agire si manifesta l'operato di Dio. Pertanto queste tre parabole contengono anche una segreta cristologia, che a modo suo afferma che Gesù è uguale a Dio, come fa esplicitamente la cristo­ logia successiva, quando gli attribuisce titoli regali co­ me «figlio di Dio» e altri simili. W. Trilling, Christusverkiindigung in den synoptischen Evan­ gelien, Miinchen 1969.

Il padrone generoso (Mt. 20, I - r5) Questa parabola, meglio conosciuta come parabola dei lavoratori nella vigna, per alcuni cristiani di oggi è una pietra di scandalo. Per capirla bene dobbiamo in­ terrogarci sul suo senso originario, per poi vedere che cosa ne ha fatto Mt. , che è il solo a tramandarla.

Il proprietario terriero e i suoi lavoratori. «Con il re­

gno dei cieli le cose stanno come con un proprietario terriero che al mattino presto uscì per prendere a giornata lavoratori per la sua vigna» (v. r ) . La parabo­ la è presa dalla vita del tempo, con la disoccupazione molto diffusa in Palestina. Lo storico Flavio Giuseppe riferisce che, terminata la costruzione del tempio di Gerusalemme (62-64 d.C. ) , furono disposti dei lavori di emergenza a beneficio di diciottomila disoccupati. Al tempo della vendemmia accorrevano numerosi la­ voratori; pertanto il proprietario esce di buon mattino per prendere a giornata nella sua vigna dei salariati senza lavoro. Subito si accorda con loro anche sul sa­ lario: un denaro (moneta d'argento romana del valore d'un franco d'oro) era in quel tempo il giusto salario per il lavoro di una giornata, che consentiva a un ope­ raio di prowedere per un giorno alla sua famiglia. All'ora terza (alle 9) ritorna sulla piazza del merca53

to, dove stanno ancora in giro dei disoccupati; assu­ me anche quelli e promette loro il salario dovuto. Pu­ re a mezzogiorno e alle r5 ne assolda altri, e perfino all'ora undecima (le 17, un'ora prima che termini il la­ voro) va un'altra volta in cerca di mano d'opera, cosa questa che dice quanto urgente sia il lavoro; la ven­ demmia, infatti, doveva essere terminata prima che iniziasse la stagione delle piogge, altrimenti l'uva sa­ rebbe marcita sulla pianta. A quelli che ha trovato per ultimi, il padrone domanda: «Perché state qui in ozio tutto il giorno?» (v. 6). La loro risposta: «Nessuno ci ha presi a giornata» può corrispondere al vero, poiché il numero dei disoccupati era veramente grande. Ma potrebbe anche trattarsi di una scusa meschina, intesa a mascherare l'indifferenza tipicamente orientale. Il proprietario manda anche costoro nella vigna.

La corresponsione del salario. L'A.T. prescrive di pagare il salario degli operai giornalieri alla sera (Lev. 19, 1 3 ) . Quando il proprietario della vigna ordina all'amministratore di dare il salario cominciando dai lavoratori dell'undecima ora, c'è da supporre che ab­ bia in mente qualcosa di particolare. Dispone che an­ che ad essi venga pagato al completo il salario giorna­ liero. Quelli, retribuiti tanto generosamente, avranno mostrato tutti contenti ai compagni di lavoro il dena­ ro ricevuto. Perciò questi ultimi sperano di prendere di più, in proporzione del lavoro svolto. Tanto mag­ giore è la loro delusione quando anch'essi ricevono il salario pattuito, e niente di più. Si mettono a mormo­ rare e si presentano al datore di lavoro per denunciare una duplice ingiustizia: loro, i lavoratori della prima ora, hanno dovuto faticare dodici ore piene, quelli as­ sunti alla fine soltanto una; inoltre loro han dovuto lavorare sotto il calore cocente, quegli altri invece solo con il fresco della sera. 54

Il padrone risponde loro, o meglio, al loro portavo­ ce: «Amico mio, non ti si fa nessun torto», io ti do ciò che abbiamo pattuito. Ebbene, io ho intenzione di dare agli ultimi tanto quanto a te. «Non posso fare ciò che voglio delle cose mie? Oppure tu sei invidioso, perché io sono buono ?» (v. 1 5 ) . Con questa frase termina l a parabola primitiva. Co­ me accade per lo più, Gesù non la fa seguire da una spiegazione. Così ogni ascoltatore è costretto a chie­ dersi perché il proprietario ordini di dare lo stesso sa­ lario a tutti gli operai e se agisca per puro arbitrio. La risposta non può essere che questa: egli agisce arbi­ trariamente, ma solo per compassione verso i lavora­ tori dell'ultima ora. Sapeva che con il solo salario di un'ora non avrebbero portato a casa il sufficiente per dar da mangiare alle loro famiglie. La parabola, dun­ que, non presenta un atto di arbitrio, ma il gesto di un uomo buono. Gesù intende dire che così agisce Dio : è tanto buono che, per pura bontà, ammette nel suo regno anche i pubblicani e i peccatori. Il punto di comparazione della parabola sta nella nota finale «perché io sono buono». In altre parole: il punto di vista di Dio non è quello del diritto, ma quello della bontà. Contrariamente al concetto ebraico di ricom­ pensa, il racconto di Gesù introduce il nuovo inse­ gnamento della grazia donata senza merito. Ma questo non è ancora tutto. Secondo alcuni ese­ geti recenti, la parabola non è da riferire direttamente a Dio, ma a Gesù. Egli si richiama a Dio per illustrare il proprio comportamento. La bontà del proprietario della vigna non solo trova il suo archetipo nella bontà di Dio che è nei cieli, ma è praticata sulla terra da Gesù stesso. Egli istituisce un parallelo tra la propria condotta e l'agire di Dio. Il modo di fare di Gesù è il luogo in cui l'amore e la bontà di Dio incontrano l'uomo. L'ultima frase della parabola («sei forse invi55

dioso perché io sono buono?») lascia la situazione aperta; vale a dire mostra che per incontrare la bontà di Dio stesso, occorre solo accettarla. In questa tra­ sparenza, che troviamo anche altrove (ad es. in Le. 15,32), risiede la forza della parabola. È grazie ad essa che le parabole ancor oggi al lettore appaiono strane.

Le aggiunte (v. 16). «Così gli ultimi saranno i primi e i primi gli ultimi». Questa frase è stata probabil­ mente annessa alla parabola dall'evangelista. Essa si trova anche in 19,30, appena prima della pericope del padrone generoso. La parabola, evidentemente, vuol mostrare con un esempio concreto la veridicità di questa frase. Poiché nel v. 8 si dice: «Chiama gli ope­ rai e paga loro il salario, incominciando dagli ultimi fino ai primi», l'evangelista vede raffigurato nella pa­ rabola il capovolgimento delle gerarchie nel giorno del giudizio. Allora gli ultimi diventeranno primi, perché vengono pagati prima degli altri. Ma nel rac­ conto questo pensiero non ha alcun rilievo. L'ordine in cui avviene il pagamento non conta; che uno riceva la sua paga un po' prima o un po' dopo, non importa proprio nulla. Inoltre, nessuno si lamenta perché l'or­ dine di precedenza è stato cambiato. La frase vuole mostrare soltanto l'equiparazione degli ultimi con i primi. Perciò l'aggiunta è fatta per dire che certamen­ te i discepoli di Gesù da ultimi diventano primi, ma potrebbero anche tornare ad essere ultimi, se non ri­ conoscono la bontà di Dio, che chiama alla salvezza anche i peccatori. Forse anche il breve dialogo tra il proprietario ter­ riero e gli operai chiamati per ultimi (vv. 6 s . ) non è originario, ma un'amplificazione allegorica. In effetti sorprende che il padrone della vigna, uscendo per la quinta volta all'ora undecima, trovi ancora alcuni che possono scusarsi dicendo che nessuno li ha presi a 56

giornata. Con questo breve dialogo, che non si inseri­ sce bene nel contesto, si vogliono indurre i lettori a vedere negli operai dell'ultima ora i pagani, i quali in passato erano abbandonati a se stessi, mentre ora so­ no chiamati in quella vigna di Dio che è una figura della chiesa. Essi ricevono infatti dalla generosità del Signore il dono della salvezza; la protesta dei giudei chiamati per primi è respinta. Che sia stato Mt. ad operare tale allegorizzazione, è un'ipotesi attendibile, poiché di questo modo di procedere si hanno anche altri esempi. Più tardi i padri hanno riferito le cinque diverse fa­ si dell'assunzione degli operai alla storia della salvez­ za, con le chiamate di Adamo, Noè, Abramo, Mosè e poi l'ultima, per mezzo di Gesù. Esse sono state viste anche come simbolo delle diverse età in cui gli uomi­ ni giungono alla fede: da bambini, da giovani, da adulti, da uomini maturi e da vecchi. Ma queste ap­ plicazioni non corrispondono al significato originario della parabola. Nel v. 16 molti manoscritti tardivi hanno un'ulteriore interpretazione: «Poiché molti so­ no chiamati, ma pochi gli eletti». Questo detto, che si trova anche in Mt. 22,14, può esser considerato au­ tentico, poiché Gesù amava scuotere i suoi ascoltatori con parole profetiche di tono duro, per spingerli alla conversione. Ma sicuramente in origine non si trovava qui; fu invece aggiunto dalla chiesa primitiva, anche se non è in sintonia con la parabola. Questa infatti non vuole affatto mostrare che il numero di quanti arrivano a salvarsi è scarso. Evidentemente gli operai chiamati per primi devono servire da esempio ammo­ nitore. Essi erano chiamati, ma lasciano perdere la salvezza, perché mormorano, si vantano dei propri meriti e si rivoltano contro una decisione divina. Le parole del padrone «Prendi i tuoi soldi e vattene» (v. 14) furono manifestamente intese come sentenza, o 57

meglio come monito a non lasciarsi sfuggire sconside­ ratamente la salvezza mettendosi a mormorare e mo­ strandosi sicuri di sé. Ma un'interpretazione del gene­ re si urta contro il significato vero e proprio della pa­ rabola. Infatti gli operai chiamati per primi ricevono il loro denaro, quindi non sono esclusi dalla salvezza.

Un moderno fraintendimento della parabola. Ai cri­ stiani di oggi questa parabola sembra per molti aspet­ ti incomprensibile. La loro acuta sensibilità sociale ve­ de nell'atteggiamento arbitrario del padrone un'insidia alla morale del lavoro. Gli operai chiamati per primi e così poco considerati si guarderanno dallo sgobbare un'altra volta per dodici ore, per ricevere poi, alla sera, lo stesso salario degli oziosi dell'ultima ora. Ma una simile critica svisa completamente il senso della parabola. È chiaro che Gesù non voleva presen­ tare il modello dell'imprenditore cristiano. Egli considera il lavoro nella vigna non come un mezzo di guadagno, ma come un favore fatto dal pro­ prietario (si pensi alla disoccupazione del tempo) , un gesto di sollecitudine paterna verso gli operai. Gesù vuole semplicemente presentare l'incomprensibile bontà di Dio, che si riserva di dare a un uomo, che non ha fatto molto, più di quanto gli spetti. La cer­ tezza che Dio è buono è soltanto di chi sa di essere al sicuro nella sua bontà ed è riconoscente per la grazia che gli accorda, senza stare a vedere se il prossimo ne riceve una superiore ai suoi meriti; anzi, senz' ombra di invidia si rallegra che questi sia chiamato alla sal­ vezza.

CAPITOLO QUINTO

I VERI DISCEPOLI

Che cosa si aspetta Gesù da un uomo che abbia tro­ vato la misericordia di Dio? Come deve impostare la sua vita chi ha sperimentato la grande gioia di vivere in presenza della salvezza? Deve mettersi alla sequela di Gesù, che si rivela innanzitutto nell'amore. La mi­ sericordia che egli stesso ha sperimentato deve usarla anche nei confronti del prossimo. Gesù ha parlato spesso della sua sequela e ne ha dettato le condizioni. Anche in alcune parabole ha mostrato che cosa la contraddistingue.

Il tesoro nel campo e la perla (Mt. 13.44-46) Le due parabole si trovano solo in Mt. e sono stret­ tamente legate tra loro; ma in origine è probabile che siano state narrate in occasioni diverse. Il vangelo di Tommaso le riporta separatamente (n; 109 e 76) . L a parabola del tesoro nel campo (v. 44 ) parla di un povero salariato che, arando un campo altrui, sco­ pre un tesoro nascosto, probabilmente un vaso di ter­ racotta pieno di monete d'oro e d'argento. In tempo di guerra si era soliti sotterrare i beni più preziosi per parli al sicuro. Il fortunato scopritore torna a sotter­ rare il tesoro, affinché faccia ancora parte del campo e sia ben al sicuro. Poi se ne va tutto contento, vende quanto possiede e compra il campo. Può darsi che il proprietario sia scomparso. Lo scopritore, quando compra il campo per venire in possesso del tesoro, dal punto di vista formale agisce correttamente. 59

La seconda parabola (w. 45 s.) narra di un com­ merciante all'ingrosso, che va in cerca di belle perle da acquistare. Nell'antichità le perle erano un articolo molto richiesto. Anche in racconti extrabiblici si parla del loro alto valore. Per esempio Svetonio narra che Giulio Cesare regalò una perla del valore di sei milio­ ni di sesterzi ( oltre un milione di franchi) alla ma­ dre di Bruto, che sarebbe poi stato il suo assassino. Allorché il commerciante della parabola scopre una perla di un pregio particolare, vende tutti i suoi beni e acquista quel pezzo di grande valore. Cosa vuoi dire Gesù con queste due parabole? Spesso sono state lette come l'esortazione a dedicarsi senza riserve, dunque a impegnarsi fino all'eroismo. Ma occorre notare che il commerciante non ha trova­ to la perla più grossa, ma solo una di particolare bel­ lezza (come si legge nel vangelo di Tommaso, seguen­ do l'uso linguistico aramaico) . Anche il tesoro della prima parabola è indeterminato. La cosa più impor­ tante è l'espressione «pieno di gioia» del v. 44; la grande gioia per la scoperta prende interamente tanto il salariato quanto il mercante (anche se nel caso di quest'ultimo la cosa non è detta espressamente) ; so­ praffatti si rendono conto che nessun prezzo è troppo alto se si tratta di venire in possesso di ciò che hanno trovato. Determinante non è quindi il sacrificio dei loro beni, ma il motivo che li spinge a prendere quella decisione: la grandezza della scoperta li sopraffà e li spinge a rinunciare a tutto il resto, pur di arrivare a possedere ciò che hanno rinvenuto. Così awiene an­ che con il regno di Dio: l'annuncio del suo arrivo procura la grande gioia. Al suo confronto tutti gli al­ tri beni perdono valore. Ma perché il regno di Dio comporta una gioia tanto grande? Che cosa intende Gesù quando parla del re­ gno? Mt. dice per lo più «regno dei cieli», Mc. e Le. =

6o

«regno di Dio». Il termine greco basiléia può designa­ re sia la regalità di Dio che il suo regno. In quanto so­ vranità di Dio esprime il fatto che Dio domina come re; l'espressione per noi corrente «regno di Dio» è ri­ ferita piuttosto al territorio, sul quale egli esercita la sua sovranità. Gesù intende propriamente parlare della sovranità di Dio. Certo, questo comporta il ri­ schio che si pensi a un governo dispotico esercitato da un tiranno divino. Ma proprio le due parabole del te­ soro e della perla mostrano che è vero il contrario, e che il potere di cui si tratta rende liberi e felici. Altri termini che esprimono questo concetto, sono quelli di pace, gioia, vita, beatitudine, felicità, amore. Que­ sto annuncio di felicità e libertà per l'uomo è il nucleo centrale del lieto messaggio di Gesù. Esso s'imposses­ sa degli ascoltatori e procura loro la grande gioia. Chi comprende ciò che Dio gli ha preparato con la sua sovranità, nel suo regno, non dubita di metter tutto a repentaglio, e lo fa con immenso trasporto. Se Dio di­ venta l'elemento fondamentale della vita, tutto il resto passa in secondo piano. La scoperta inaspettata del regno di Dio e la letizia che ne viene sono i temi sui quali si appunta l'interesse delle due parabole.

Il buon samaritano (Le. 10,25-37) Secondo alcuni interpreti, i vv. 25-28 stanno in pa­ rallelo con la domanda circa il comandamento più grande, riferita anche in Mc. 12,28-3 1 e Mt. 22,35-40. Ma è facile pensare che Gesù sia tornato più volte sull'argomento, per lui di grande importanza, del du­ plice precetto di amare Dio e il prossimo. Perciò è probabile che questi versetti siano l'introduzione ori­ ginaria della parabola. Non è normale che un maestro della legge, per sapere quale è la via che conduce alla 6r

vita eterna (cioè per aver parte al regno di Dio) si ri­ volga a Gesù, cioè a un teologo laico. Ma forse quel­ l'uomo è stato colpito dalla predicazione del regno, e ora vorrebbe sapere meglio che cosa deve fare per at­ tenerlo. Gesù fa sì che il suo dotto interlocutore ri­ sponda lui stesso alla domanda che aveva posto. Egli giustamente nomina i due comandamenti presenti già nell'A.T. ma non nello stesso contesto (Deut. 6,5; Lev. 19,18) . Gesù conferma l'esattezza della risposta e aggiunge: «Fa' questo e vivrai». Evidentemente il maestro della legge crede che l'invito di Gesù g}i valga una brutta figura, come se gli avesse detto : E vero che tu conosci il comanda­ mento, ma in pratica non lo osservi. Pertanto cerca di giustificarsi con un'altra domanda, nello stile che se­ condo Le. è caratteristico dei farisei (cfr. r6,r5; r8,9). Vuoi sapere chi è il suo prossimo. Era questa una questione discussa tra i dottori della legge. Erano ri­ tenuti prossimi solo i connazionali, inclusi i pagani che si erano convertiti all'ebraismo, oppure anche i pagani e gli eretici? I farisei tendevano ad escludere da questo amore tutti gli altri; gli esseni arrivavano a pretendere che si odiassero i «figli della tenebra» (cioè i loro awersari) ; una concezione popolare esclu­ deva da questo amore il nemico personale. Quindi con la sua domanda lo scriba vuoi sapere fin dove ar­ riva il dovere di amare il prossimo. Per tutta risposta Gesù propone una parabola, o un racconto esemplifi­ cativo. È del tutto possibile che egli si riferisca a un fatto veramente accaduto. La discesa da Gerusalem­ me a Gerico (27 km con un dislivello di mille metri) attraversava il deserto di Giuda, una regione che con le sue numerose caverne offriva facile 'rifugio ai bri­ ganti. La via era malfamata a causa delle rapine che vi si verificavano. Di una di esse è vittima il viandante della parabola. Evidentemente egli si difende; perciò

viene ferito dai rapinatori, più forti di lui, e abbando­ nato mezzo morto. Uno dopo l'altro, un sacerdote e un levita gli pas­ sano accanto ma non si prendono cura di lui. Gesù non vuol dire che quei due sono duri di cuore; pro­ babilmente essi prendono quell'uomo per morto, e la legge vietava ad un sacerdote di toccare un cadavere (Lev. 21,1 ) . Anche il levita forse è diretto al tempio; il servizio cultuale non permette nemmeno a lui di con­ taminarsi toccando un cadavere. Gesù dunque non abbozza una polemica « anticlericale» ; egli si limita a scegliere esempi al limite: i servitori di Dio negano il loro aiuto; l'odiato samaritano si dimostra altruista. Il terzo che passa per la via non è, come ci si po­ trebbe aspettare, un giudeo laico, ma un abitante del­ la Samaria, considerato dagli ebrei come un eretico. I rapporti tra giudei e samaritani erano molto tesi al tempo di Gesù; i samaritani erano odiati come ba­ stardi e dissidenti, da ebrei e pagani. Ebbene, proprio un rappresentante di questo popolo viene presentato da Gesù come esempio di vero amore del prossimo. Egli fa tutto il possibile per il giudeo mezzo morto: ne pulisce e fascia le ferite, lo porta con il suo asino in una locanda, paga l'oste affinché lo curi; si dichiara persino disposto a pagare in seguito l'eventuale ecce­ denza della spesa. Senza conoscere il concetto di «amore verso il prossimo» , questo samaritano agisce come Gesù si aspetta dai suoi discepoli. È interessante notare come, alla fine della parabo­ la, la domanda venga formulata in maniera diversa. Lo scriba aveva chiesto a Gesù chi è da considerare come oggetto da amare: «Chi è il prossimo?» (v. 29 ) , chi devo amare? Gesù invece gli domanda chi è il soggetto dell'amore: «Chi di questi tre si è dimostrato prossimo dell'uomo assalito dai briganti?» (v. 36). Così l'obiezione dello scriba si rivela come una scap-

patoia. Nel comandamento dell'amore si tratta di di­ mostrarsi prossimo dando prova di amore misericor­ dioso. Se alcuni pretendono di amare Dio mentre vengono meno all'amore del prossimo o gli pongono dei limiti, Gesù li smaschera come ipocriti. Lo scriba chiede dove sia il confine del suo dovere di amare. Con la sua controdomanda Gesù non solo fa saltare i confini di popolo e di religione, ma dice di più: a sta­ bilire chi sia il prossimo non dev'essere colui che agi­ sce, ma colui al quale l'azione va rivolta. Un uomo si fa prossimo soltanto di colui al quale presta soccorso nel bisogno. Egli deve far propria la situazione del­ l'altro. Allora riconosce che il comandamento dell'a­ more non ha confini.

Parabola o allegoria? Nella parabola del buon sa­ maritano non c'è, come nelle parabole solite, l'appli­ cazione di un'immagine alla realtà. Si tratta di un rac­ conto esemplificativo, che fa parlare la realtà stessa, evidenziando un comportamento etico col comando: «Va' e fa' lo stesso ! » (v. 37) . La storia è dunque un'ec sortazione a fare come il samaritano. Quando invece viene presentato un «modello» negativo, questo serve da esempio ammonitore (cfr. in Mt. r8,23 ss. il servo spietato) . Già alcuni padri e molti predicatori ancor oggi in­ terpretano questa parabola in senso allegorico e vi ve­ dono raffigurata tutta la storia della salvezza. L'uomo caduto nelle mani dei briganti è Adamo oppure tutta l'umanità, che con il peccato originale cade sotto il dominio di Satana. Il sacerdote e il levita rappresen­ tano diversi stadi della storia veterotestamentaria. Il samaritano è Gesù. Egli cura l'uomo mezzo morto con olio e vino, cioè lo guarisce mediante i sacramen­ ti; lo porta alla locanda, che è la chiesa, e lo affida alle cure dell'oste, cioè del pastore. Prima di andarsene 64

(cioè di salire al cielo) dà all'oste due denari, che sono l'Antico e il Nuovo Testamento, e promette di ritor­ nare, cosa che farà nella parusia finale. A prima vista questa spiegazione può sembrare convincente; ma non corrisponde all'intenzione della parabola. Questa non vuole essere un compendio del­ la storia della salvezza, ma mostrare con un esempio quale atteggiamento è giusto e quale sbagliato nei confronti del prossimo. Vuole esortare a imitare il sa­ maritano. Ogni lettore deve rispondere a questa do­ manda: Di chi sono il prossimo, se voglio vivere al se­ guito di Gesù? Senza dubbio Gesù ha mostrato di es­ sere in sommo grado buon samaritano verso tutti gli uomini. Per questo, più ancora del protagonista della parabola, può far vedere ai suoi seguaci come devono intendere il comandamento dell'amore del prossimo.

Il servo spietato (Mt. 18,23-35) Il vero discepolo di Gesù deve mostrarsi tale so­ prattutto per la capacità di perdonare il prossimo. Gesù ha illustrato questo pensiero con la parabola (o meglio col racconto esemplificativo) del servo spieta­ to, che si legge soltanto in Mt. L'evangelista le pre­ mette anche un'introduzione (w. 2 1 s . ) , che certa­ mente non si addice alla parabola, cioè la domanda di Pietro che chiede quante volte si deve perdonare a un fratello. Egli è disposto a farlo due, tre volte, come s'usava fra i giudei; anzi vuole arrivare fino a sette volte. Gesù invece abolisce ogni limite e risponde: «Non sette volte, ma settanta volte sette» (v. 22), cioè sempre, senza limite alcuno. Nell'intenzione dell'e­ vangelista la parabola che segue deve rafforzare que­ sto monito attraverso un esempio. Tuttavia non può essere questo il senso originario, perché il racconto non tratta del perdono reiterato.

Nella parabola l'avvento del regno di Dio è parago­ nato alla resa dei conti, ai quali un re chiama i funzio­ nari delle sue province (i «servi» della parabola) . Ri­ sulta che uno dei satrapi ha dilapidato i tributi della sua provincia e non è in grado di saldare il debito, poi­ ché la somma dovuta è incredibilmente elevata: dieci­ mila talenti sono cento milioni di denari. Essa supera di gran lunga tutte le possibilità del debitore. Gesù parla di una cifra così alta per mettere nella massima evidenza il contrasto con i cento denari del v. 28. Già qui la realtà entra nel gioco della parabola : il re è Dio, l'uomo il debitore al quale Dio rimette la colpa. Nell'ordine del re di vendere il satrapo insolvente insieme a tutta la sua famiglia e ai suoi averi, si avver­ tono costumi pagani. Secondo la legge ebraica, la vendita di un uomo era permessa soltanto in caso di furto, quando il ladro non era in grado di risarcire ciò che aveva rubato. La vendita della moglie era assolu­ tamente vietata. Se qui devono essere venduti perfino i figli, significa che va venduta anche l'ultima delle cose possedute dall'uomo. Ci si può chiedere quale sarebbe stato il ricavato di tale vendita. Il prezzo di uno schiavo all'epoca ammontava a 500- rooo denari, somma che non rappresenta nulla rispetto al debito gigantesco. L'ordine del re è quindi da intendersi sol­ tanto come espressione della sua ira. La supplica del debitore che si prostra a invocar pazienza e promette di pagare tutto, naturalmente non può essere presa sul serio; la sua è una promessa impossibile. La reazione del re alla supplica del satrapo va mol­ to al di là di ciò che questo gli chiede. Per pura com­ passione gli concede la libertà e gli condona l'intero debito. In una seconda scena l'uomo che ha ricevuto una simile grazia incontra un collaboratore cioè un suo subalterno, che gli deve soltanto cento denari. Lo af66

ferra fino a soffocarlo per non !asciarselo sfuggire, e pretende che restituisca immediatamente il denaro dovuto. Quello rivolge al creditore la stessa supplica, ripetuta quasi alla lettera, che il satrapo aveva appena rivolto al re. Ognuno si aspetta che egli condonerà al suo debitore la piccola somma con la stessa magnani­ mità con cui il re gli aveva condonato il suo enorme debito. La richiesta di proroga e la promessa di salda­ re il tutto meritano di essere ascoltate, tanto più che la promessa può esser veramente mantenuta. Ma il satrapo non vuole saperne. Considera il debitore co­ me colpevole, dal momento che per una somma così irrilevante non era ammessa la vendita e fa mettere agli arresti il suo debitore, per costringerlo a pagare il debito col suo lavoro o a farsi riscattare dai parenti. Lo sdegno dei «collaboratori», cioè degli altri di­ pendenti, per una simile condotta è comprensibile. Essi ne riferiscono al re e questi fa chiamare un'altra volta il satrapo. Con una conclusione a maiore ad mi­ nus gli fa presente la sua crudeltà. Cambia il suo pri­ mo giudizio e lo consegna agli aguzzini (nell'Oriente antico, tranne che in Israele, la tortura era un mezzo normale per costringere gli amministratori infedeli a confessare dove avevano nascosto il denaro defrauda­ to, oppure per ricattare i parenti) . Data l'enorme en­ tità del debito del satrapo, questa nota serve a indica­ re che la sua pena non avrà fine. Il v. 35 è un'applicazione dell'evangelista che, come si è già detto, vede nella parabola un ammonimento ad essere pronti a perdonare senza porre limiti: «Così farà il mio Padre celeste con ciascuno di voi, se non perdonerete di vero cuore al vostro fratello». Questa frase certamente non coglie il senso profondo del rac­ conto, che invece potremmo rendere così: chi si rifiu­ ta di usare con altri la pietà di cui ha beneficiato spe­ rimenterà il giudizio e il castigo.

Bisogna tuttavia considerare che nella parabola di Gesù l'idea del giudizio non rappresenta il motivo per il quale è necessario usare misericordia al prossi­ mo. Anzi, in essa sta in primo piano la salvezza che Dio offre e fa sperimentare. Giudizio e castigo appa­ iono solo come conseguenza di una condotta sbaglia­ ta. Colui che, pur avendo provato la grande miseri­ cordia divina, si ostina a non essere misericordioso, incappa per forza in un duro giudizio. Nell'intenzione di Gesù, dunque, il dono della salvezza e il possibile rifiuto non stanno sullo stesso piano. Nella sua predi­ cazione l'esperienza della salvezza ha la priorità sulla minaccia del giudizio. Per prima cosa egli fa dono della salvezza; da qui nasce l'esigenza di tenere una determinata condotta. Il giudizio di condanna minac­ cia l'uomo soltanto quando il suo comportamento nei riguardi del prossimo non è conforme al modo con cui Dio agisce con lui.

Proclamazione della sentenza nel giudiZio (Mt. 25,31-46) Questa pericope è propria di Mt. , e non è una vera parabola, ma piuttosto un discorso apocalittico di ri­ velazione. Le immagini sono le stesse con cui si era soliti descrivere il giudizio universale nel primitivo giudaismo. Mt. però non descrive lo svolgimento del giudizio, ma riporta solo la proclamazione della sen­ tenza pronunciata dal «figlio dell'uomo» (v. 3 1 ; nel v. 34 è chiamato re) . Il racconto mostra quanto valore Gesù attribuisce all'amore per i bisognosi e gli oppressi. Il giudizio del figlio dell'uomo, circondato dagli angeli e assiso sul trono della sua gloria, non interessa solamente Israe­ le, ma tutti i popoli (v. 32). Già questo doveva far in­ dignare gli ascoltatori di Gesù. Secondo la concezione 68

giudaica i pagani erano perduti e nell'ultimo giudizio soltanto i giudei potevano essere salvati. Contro tale opinione, Gesù fin dall'inizio dà a capire che non è l'appartenenza al popolo eletto a determinare l'esito del giudizio, ma qualcosa di ben diverso. Nel regno definitivo di Dio possono entrare anche i pagani e i peccatori. Il giudice divide in due gruppi gli uomini che si trovano davanti al suo trono, così come il pastore di sera separa le pecore dalle capre, che di giorno hanno pascolato insieme e le raccoglie in chiusi diversi. Le due categorie sono indicate come pecore e montoni. È una traduzione possibile; ma forse è meglio dire pe­ core e capre. Le pecore (bianche) erano considerate di maggior valore, le capre (nere) la notte dovevano esser tenute al caldo più delle pecore. Perciò le peco­ re simboleggiano meglio i giusti, le capre i malvagi. La destra e la sinistra sono metafore della salvezza e della dannazione; quindi le pecore si mettono alla de­ stra del giudice, le capre alla sua sinistra. Ora il re in­ vita i buoni a prendere possesso del regno preparato per loro fin dal principio del mondo. Così suona la motivazione della sentenza: hanno aiutato lui quando viveva in ogni sorta di bisogno. La sentenza suscita grande stupore nei giusti. Essi non hanno mai visto Gesù affamato, assetato, senza tetto, nudo, ammalato o prigioniero; dunque non possono neanche averlo aiutato. Ma il giudice risponde loro: «In verità vi di­ co : ciò che avete fatto per uno dei miei fratelli più piccoli lo avete fatto a me» (v. 40) . Qui i « fratelli» non sono i discepoli di Gesù, ma tutti gli uomini che si trovano nel bisogno e nella tribolazione. Gesù si identifica quindi con i bisognosi di tutti i tempi. Ogni atto d'amore verso il prossimo in quanto tale è amore verso Gesù e verso Dio. La sentenza pronunciata contro quelli che stanno

alla sinistra suona così: «Via da me, maledetti, nel fuoco eterno, preparato per il diavolo e per i suoi an­ geli» (v. 41) . Il motivo di questa sentenza è la man­ canza di pietà e di carità nei suoi confronti, quando era nel bisogno. Anche i condannati obiettano di non averlo mai incontrato in tale condizione. E di nuovo la risposta è: «Ciò che non avete fatto per uno di que­ sti piccoli, non l'avete fatto neppure a me» (v. 45) . Questa «parabola» vuol dunque dire che lo sconfi­ nato amore verso il prossimo, quale l'esige la parabola del buon samaritano, si deve manifestare nella dispo­ nibilità del discepolo a seguire l'esempio di Gesù e a volgersi proprio ai poveri e ai disprezzati, agli abban­ donati e ai piccoli. Inoltre non solo i discepoli di Ge­ sù, ma tutti gli uomini nel giudizio finale saranno giu­ dicati secondo l'amore operante, dimostrato o negato a Cristo nella persona dei bisognosi. Quindi ciò che conta non è solo la vera fede, l'ortodossia, ma anche l' ortoprassi, il retto operare secondo questa fede. Co­ sì anche i pagani possono essere salvati in base all'a­ more operante dimostrato verso il prossimo. Gesù considera come fatto a lui stesso il bene reso ai pove­ ri, anche quando non è compiuto espressamente per lui o per amor suo. Questo significa che l'amore di Dio e del prossimo non solo fanno tutt'uno, ma sono anche identici. Ma chi volesse dedurne che soltanto l'amore per il prossimo ha importanza, e che un amore direttamente rivolto a Dio è superfluo fraintenderebbe completa­ mente la parabola. L'errore di una simile conclusio·· ne, tipica soprattutto della teologia della morte di Dio, appare se si tien presente il concetto di giudizio. A pronunciare la sentenza decisiva non sono gli altri uomini, ma il figlio dell'uomo; il figlio di Dio, investi­ to del divino potere, è lui il giudice (o, secondo alcu­ ni interpreti, è lui che proclama la sentenza pronun-

eiat a da Dio stesso ) . Egli vuole essere amato nei suoi fratelli e considera come fatte a se stesso le opere di carità compiute verso di loro. L'amore per il prossimo non sostituisce dunque la fede in Dio, né l'amore ver­ so di lui. Questo tuttavia si esplica e si rivela come autentico nella sollecitudine per il prossimo. Sulla scorta di Mt. 25 la condanna nel giudizio fi­ nale non avviene in base ai peccati gravi commessi, ma in base all'omissione di opere di bene. Che Gesù, per illustrare questa verità, abbia preso ad esempio dei pagani, dev'essere un monito per tutti i cristiani, affinché non ritengano che uno sia perduto per il solo fatto di non aver la vera fede o di essere un pagano. R. Schnackenburg, Mitmenschlichkeit im Horizont des Neuen Testaments, in Schrz/ten zum Neuen Testament, Miinchen 197 1 ,

435-458.

CAPITOLO SESTO

LA SPERANZA NELL'ORA DI DIO

Con la venuta e con l'opera di Gesù la salvezza è già iniziata, il regno di Dio si è fatto vicino. Tuttavia la sovranità definitiva di Dio, il regno nella sua pienez­ za, non c'è ancora. Gesù stesso pensava all'imminente irruzione del regno escatologico di Dio; ma si è sem­ pre rifiutato di indicare una data di questo evento. Piuttosto ha cercato di rafforzare nei discepoli la spe­ ranza in quell'ora e di ammonirli a tenersi pronti. La speranza nell'avvento dell'ora di Dio e la preghiera fi­ duciosa nel suo aiuto occupano un posto importante nella predicazione di Gesù. Una serie di parabole tratta questi due temi; potrebbero essere inserite qui anche quelle esaminate sotto il titolo «La forza del vangelo». Anche le seguenti vogliono mostrare che né il dubbio sulla missione di Gesù, né l'impazienza, né la poca fede devono scuotere la certezza che Dio por­ terà a compimento ciò che ha iniziato, e che esaudisce la supplica dei suoi quando nella tribolazione gridano a lui.

L'amico che domanda (Le. rr,5-8) Questa breve parabola, riportata solo in Le., ri­ specchia esattamente le condizioni di vita in un villag­ gio palestinese dell'epoca. Non vi erano negozi. Le donne di casa cuocevano di buon mattino il pane ne­ cessario alla famiglia per la giornata. Ognuno era al corrente delle cose del vicino e sapeva se alla sera aveva ancora del pane. Così nella nostra parabola un 73

uomo può andare dal vicino a mezzanotte e chieder­ gli tre pani (la porzione normale per un pasto ) . Lui non ne ha più, ma sa che l'altro ne ha ancora a suffi­ cienza. Che un ospite arrivi nel cuore della notte, non è un tratto irreale; nell'antichità i viaggi di notte non erano rari. L'ospitalità era un dovere sacro, accogliere un ospite una questione d'onore. Trovatosi in imba­ razzo, quindi, l'uomo bussa al vicino e gli chiede i tre pam. L'altro, svegliato nel sonno, risponde bruscamente: «Lasciami in pace ! ». Dice che la porta è già chiusa, sbarrata con una trave o una spranga di ferro che, se venisse rimossa, farebbe rumore, svegliando i familia­ ri che dormono nella stessa stanza. «Non posso alzar­ mi per darti nulla» (v. 7) è lo stesso che «Non ne ho voglia». È importante notare che nel testo greco i vv. 5-7 sono in forma interrogativa; nel Nuovo Testa­ mento la formula introduttiva «Chi di voi . . . ?» intro­ duce sempre una domanda alla quale si attende che venga data una risposta negativa. Nel nostro caso, quindi, Gesù attende questa risposta: un tale rifiuto è inconcepibile, perché il sacro dovere dell'ospitalità impone che si accolga la richiesta. Nel v. 8 Gesù trae dalla parabola questa conclusio­ ne: «lo vi dico» (più liberamente: Non è forse vero?) : quand'anche colui che è stato interpellato non esau­ disse la preghiera dell'amico in nome dell'amicizia, gli darebbe ugualmente quei pani, a motivo della sua insistenza. Il termine greco tradotto con «insistenza» potrebbe essere reso anche con «impudenza». Potrebbe quindi indicare anche l'atteggiamento di colui al quale si do­ manda il favore, e che terrebbe un contegno vergo­ gnoso qualora non esaudisse la preghiera dell'amico. La parabola termina qui. Gesù lascia che siano gli uditori a trovarne l'applicazione. L'evangelista ha in74

serito questa parabola in un contesto che tratta della preghiera. In r r ,1-4 narra che Gesù ha insegnato il Padre nostro ai discepoli; nei vv. 9-13 riporta un'e­ sortazione a pregare con fiducia. Egli ha dunque inte­ so la parabola come un richiamo a pregare assidua­ mente. Ma questa cornice non è originaria. Per capire la parabola nel senso voluto da Gesù, bisogna partire dalla forma interrogativa dei vv. 5-7. Nel successivo v. 8 non si parla dell'amico che torna a chiedere, ma si dice quali sono i motivi dai quali l'altro si lascia convincere: se non darà retta a motivo dell'amicizia, acconsentirà almeno per liberarsi dell'importuno sec­ catore, oppure per non essere scortese. Nelle inten­ zioni di Gesù, quindi, il centro del racconto non è co­ lui che domanda né la sua insistenza, ma l'uomo di­ sturbato nel sonno. Allora viene da sé il riferimento a Dio. Se l'amico disturbato nel cuore della notte non esita ad ascoltare la preghiera del vicino, quanto più Dio esaudirà quelli che sono nel bisogno ! Dio è loro amico, come già nell'Antico Testamento, dove Abra­ mo è chiamato «amico di Dio» (ls. 41,8 ) . Ancora una volta, dunque, siamo in presenza di una conclusione a minore ad maius, e non si tratta della perseveranza nella preghiera ma della certezza di essere esauditi. Pertanto sarebbe meglio intitolare la parabola «L'a­ mico chiamato in aiuto di notte», anziché «L'amico che chiede aiuto» (J. Jeremias) .

Il figlio che chiede da mangiare (Le. r r , r r - 1 3 ; Mt. 7,9- r r ) Le. sottolinea con un una similitudine il pensiero espresso nella parabola precedente, dell'amico che chiede aiuto, affermando che Dio esaudisce la pre­ ghiera fiduciosa. Anche qui si tratta di una conclusio­ ne a minore ad maius. Là era l'amicizia di Dio che 75

permetteva di trarre la conclusione, qui è la sua pa­ ternità. I vv. n-12 sono ancora due domande formu­ late in negativo, alle quali si può solo rispondere: im­ possibile ! Nessun padre al figlio che gli chiede da mangiare può dare una serpe al posto di un pesce, oppure uno scorpione al posto di un uovo. Questo animale dalla pericolosa punta velenosa, quando è at­ torcigliato su se stesso può rassomigliare vagamente a un uovo. In via generale ciò significa che un padre non risponde alla domanda del figlio dandogli una cosa dannosa al posto di una utile. Se ne deduce esplicitamente che, se anche gli uomini, pur essendo cattivi, sanno dare cose buone ai figli, ancor più Dio darà soltanto cose buone a quelli che gliele domanda­ no. Il passo parallelo di Mt. 7,9-n si differenzia dal te­ sto lucano in alcuni punti. Anziché di uovo e di scor­ pione si parla di pane e di una pietra. Questa immagi­ ne sembra più vicina all'originaria, poiché è più pro­ babile che si rassomiglino un pane tondo e una pie­ tra, piuttosto che un uovo e uno scorpione. Anche nel v. n il testo di Mt. («quanto più il Padre vostro che è nei cieli darà cose buone a quelli che lo prega­ no») pare vicino alla formulazione originale più di Le. , che a «cose buone» sostituisce «lo Spirito san­ to». Il cambiamento intende precisare che Dio non dona ai discepoli di Gesù un bene qualunque, ma ciò di cui essi hanno bisogno sopra ogni altra cosa; lo Spirito santo, vale a dire la grazia divina. In Le. è difficile anche spiegare l'apostrofe di Ge­ sù, che rivolto ai suoi discepoli dice: «Voi, che siete cattivi». Altrove egli chiama così soltanto i farisei ( cf. Mt. 12,34) . Pertanto si può pensare che questo detto non provenga dall'istruzione dei discepoli, ma che in origine fosse una parola polemica. In questo caso si spiega anche il passaggio dalla seconda persona («tra 76

di voi, v. r r ) alla terza («a quelli che lo pregano», v. 1 3 ) . È quindi probabile che in Mt. 7,9-r r Gesù pole­ mizzi contro le false interpretazioni delle sue parole e azioni, ad esempio, della lieta novella che egli reca a quanti sono disprezzati. Egli dunque direbbe a questa gente: anche voi, che siete cattivi, date cose buone ai vostri figli; e perché Dio non dovrebbe dare i doni del tempo della salvezza a coloro che glieli domanda­ no?

Il giudice iniquo (Le. r8,r-8) La parabola si legge solo in Le. L'evangelist a ha in­ serito il versetto introduttivo (di cui parleremo più avanti) . Una povera vedova va insistentemente da un giudice, che non ha timor di Dio né riguardo per nes­ suno, e gli chiede che le renda giustizia contro il suo avversario. Probabilmente si tratta di una somma di denaro che un ricco potente trattiene ingiustamente alla donna. Dapprima il giudice non vuoi saperne di aiutarla. Ma poi lo fa, perché quella non gli dà pace e, come forse teme, alla fine passerà a vie di fatto. L'espressione greca, che indica realmente una puni­ zione corporale, qui è però da intendere in senso me­ taforico: con la sua continua insistenza la donna po­ trebbe «prostrarlo del tutto». Il giudice infine cede, non per paura della collera della donna, ma perché vuoi essere lasciato in pace. Il mutamento di opinione del giudice avviene soltanto per la preghiera instanca­ bile e molesta della donna. Dopo la nota dell'evangelista nel v. 6 («E il Signore soggiunse»), nei vv. 7 s. Gesù spiega agli ascoltatori il senso della parabola. È probabile che questi due ver­ setti risalgano a Gesù stesso, e non costituiscano un'amplificazione successiva, nata da una situazione di persecuzione della comunità. Il v. 7 presenta varie 77

difficoltà di traduzione. Per lo più viene tradotto co­ me segue: «E Dio non dovrebbe far avere giustizia ai suoi eletti che gridano a lui giorno e notte, e procra­ stinare?». Altri traducono le ultime due parole con : «e ha pazienza con essi», oppure: «anche se egli mette alla prova la loro pazienza», o ancora: «verso i quali egli è benigno». Il senso della domanda è comunque chiaro. Ancora una volta, si tratta di una conclusione a minore ad maius: se persino il giudice senza scrupo­ li alla fine è disposto ad aiutare, tanto più Dio renderà giustizia agli oppressi contro i loro persecutori, e lo farà prontamente, senza lunghi ritardi. La diversità che corre fra la situazione della vedova nella parabola e quella degli eletti è messa in luce da tre antitesi: r. il giudice ingiusto - il Dio giusto ; 2. la vedova non conta nulla per il giudice - Dio nutre vivo interesse per i suoi; 3· in un primo tempo il giudice non ascolta affatto la vedova - Dio è sempre pronto ad ascoltare gli elet­ ti (W. Ott) . Nella parabola l'accento è posto chiaramente sulla figura del giudice, non su quella della vedova. Una parabola parallela, strettamente apparentata a questa, si trova in Le . n,5-8 (quella dell'amico chiamato not­ tetempo in aiuto) . L'applicazione a Dio di quella pa­ rabola non presentava nessuna difficoltà; al contra­ rio, che un giudice senza coscienza simboleggiasse la sollecitudine salvifica di Dio, deve aver fatto colpo sugli uditori di Gesù. Pertanto era indispensabile una parola chiarificatrice da parte di Gesù alla fine del racconto. Anche il v. 8b, spesso considerato aggiunta lucana, appare come parola autentica di Gesù: «Ma il figlio dell'uomo, quando verrà, troverà (ancora) fede sulla terra? » . Oggi è accertato che l'espressione è preluca­ na e palestinese e che si tratta di un antico detto sul 78

figlio dell'uomo. In relazione alla frase precedente vuol dire: sulla potenza e bontà di Dio non ci sono dubbi; c'è invece qualcos'altro che può dare molta preoccupazione, cioè la domanda se alla fine dei tem­ pi, alla venuta del figlio dell'uomo, vivranno ancora uomini di fede. Infatti, se non c'è la fede, non c'è neppure la preghiera assidua per impetrare la salvez­ za, che è il presupposto affinché Dio possa esaudirla. Con il v. r l'evangelista si avvale della parabola per dare un insegnamento sulla preghiera: «Gesù disse loro con una parabola che dovevano pregare sempre, senza desistere» . Secondo Le., dunque, abbiamo qui una esortazione alla preghiera assidua e fiduciosa, co­ sì come nella successiva parabola del fariseo e del pubblicano ( r8,9- 14) egli vede un ammonimento a pregare con umiltà. Ma è probabile che in origine i due racconti non siano intesi come istruzione sulla retta preghiera, ma vogliano mostrare che Dio è mise­ ricordioso verso i disprezzati e i poveri. Al centro del­ la prima parabola non si colloca la vedova, ma il giu­ dice, come figura che fa da riscontro a Dio. Dio non si decide a venire in aiuto soltanto dopo lunghe tergi­ versazioni, né per il proprio comodo, bensì lascia che la preghiera dei poveri gli vada al cuore e rende loro giustizia senz'indugio. Nel contesto lucano la parabo­ la assume un altro significato, esso pure, naturalmen­ te, giusto e importante: la preghiera perseverante è una necessità anche nelle situazioni disperate; bisogna continuare a pregare, anche quando sembra che la preghiera non venga esaudita. Per l'evangelista si trat­ ta, dunque, della necessità di pregare incessantemen­ te, soprattutto alla fine dei tempi. Poiché ha abban­ donato la speranza nel ritorno imminente di Cristo e aspetta questo ritorno soltanto in un futuro lontano e incerto, egli vuole ammonire i suoi lettori a non stan­ carsi nelle tribolazioni della fine dei tempi e a perse79

verare nella preghiera, perché soltanto questa può es­ sere d'aiuto. W. Ott, Gebet und Heil. Die Bedeutung der Gebetspariinese in der lukanischen Theologie, Mi.inchen 1965, 32-72.

CAPITOLO SETTIMO

LA GRAVITÀ DELL'ORA

Il messaggio del regno di Dio proclamato da Gesù era innanzitutto annuncio di salvezza, lieta novella nel ve­ ro senso della parola. Ma molte delle sue parabole hanno un carattere molto grave. Sono ammonimenti, anzi annunci di sventura per il popolo, se non ascol­ terà e non accoglierà l'appello alla conversione. Il ca­ stigo sarà l'esclusione dal regno di Dio.

I ragazzi che giocano (Mt. r r ,I6-1 9; Le. 7,31- 35) La parabola si trova in Mt. e in Le., non in Mc.; es­ sa proviene dalla cosiddetta «fonte dei detti» ( Q) una genuina raccolta di parole di Gesù. L'antichità del materiale appare dal contenuto: Gesù si pone in­ sieme con Giovanni Battista, mentre in epoca più tar­ da viene accentuata la subordinazione di Giovanni a Gesù. In questa parabola Gesù coglie una scena che si presentava di frequente nelle strade e sulle piazze del­ la Palestina. Alcuni bambini giocano insieme, ma sen­ za riuscire a mettersi d'accordo sul gioco da fare. I ra­ gazzi vogliono suonare per invitare i loro compagni a danzare. Le bambine vogliono giocare al funerale, cioè cantare delle lamentazioni, compito che spettava alle donne; ma le loro compagne non se ne danno per intese. Poiché nessuna proposta viene accettata, fini­ sce che non si gioca. A quanti guastano i giochi infantili Gesù paragona =

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i suoi contemporanei. Intrattabili e arroganti, an­ ch'essi non sanno far altro che criticare gli ultimi messaggeri che Dio manda loro. Giovanni Battista, che era un asceta severo, per loro era un pazzo o un indemoniato (Le. attenua l'espressione di Mt. : «non mangiava e non beveva» - e dice che «non mangiava pane e non beveva vino»). Ad essi non va bene nean­ che Gesù, che mangia e beve quello che gli offrono, insieme ai pubblicani e ai peccatori; e gli danno del mangione e beone. Evidentemente Gesù ripete delle parole ingiuriose, che i suoi awersari avevano vera­ mente usato nei suoi riguardi. Essi dunque rifiutano tanto la predicazione di penitenza del Battista quanto la lieta novella di Gesù. Il punto di paragone tra i ra­ gazzi della parabola e «gli uomini di questa genera­ zione» (Le. 7,3 1 ) , vale a dire i contemporanei di Ge­ sù, è dunque l'indecisione. Come i bambini non san­ no decidere quale gioco fare, così i compaesani di Gesù sono indecisi sul come giudicare lui e il Batti­ sta. La severità ascetica dell'uno è per loro troppo ra­ dicale; del pari li disgusta il modo con cui Gesù gua­ dagna gli uomini al suo messaggio; per loro egli è troppo poco santo, anzi un mangione e un beone. Con questi titoli, che essi mettono in circolazione contro di lui, forse vogliono creare le condizioni per procedere contro di lui a norma di legge; infatti se­ condo Deut. 2r,r8-2r, un figlio scostumato, scialac­ quatore e bevitore può essere dai genitori consegnato alla giustizia e condannato a morte. Il detto conclusivo di Mt. suona: «Ma alla sapienza è stata resa giustizia dalle sue opere». Significa che Dio viene giustificato dalle sue opere, dai segni del­ l'imminente ora della decisione (J. Jeremias) , o da ciò che hanno fatto in nome della sapienza divina gli ulti­ mi due profeti (U. Wilckens) . L'espressione «ma alla sapienza è stata resa giusti-

zia da tutti i suoi figli» (Le. 7,35), vuol dire che la sa­ pienza, di cui Gesù è portatore e portavoce, non può essere giudicata rettamente da coloro che stanno al di fuori; invece i suoi figli, vale a dire gli uomini che a lui prestano fede (W. Grundmann) , sono in sintonia con essa e così facendo le danno ragione. Qui Gesù viene quindi paragonato a una madre, che è compresa dai propri figli.

Ilfieo sterile (Le. 13,6-9) Le. 13,1-9 fa parte di un discorso di Gesù e contie­ ne delle esortazioni alla conversione. La pericope è propria soltanto di Le. ed è composta da due parti, probabilmente unite dall'evangelista. Nel primo bra­ no tradizionale Gesù comincia a parlare di due eventi che si erano verificati proprio in quel tempo. Il pro­ curatore Ponzio Pilato, per motivi rimasti ignoti, ave­ va fatto uccidere dei pellegrini galilei mentre offrivano sacrifici nel tempio. Inoltre era crollata la torre di Si­ loe, seppellendo diciotto uomini. La sorte di queste persone poneva un grave problema ai loro concittadi­ ni; infatti, secondo la dottrina della retribuzione, ogni sofferenza era castigo di una colpa. Pertanto ci si chiedeva se questi sventurati fossero dawero talmente peccatori da meritare un tale castigo. In entrambi i casi Gesù fa presente che essi non erano né migliori, né peggiori dei loro concittadini. E tutt'e due le volte aggiunge «Se non vi convertite, perirete tutti allo stes­ so modo» (w. 3 .5). La minaccia del giudizio incombe su tutti i peccatori; ma con la conversione è possibile sfuggire alla sentenza annientatrice. Il secondo brano della pericope è una parabola, di cui Gesù lascia agli ascoltatori di trovare la spiegazio­ ne e l'applicazione. Alla luce di quanto precede non è difficile coglierne il senso. Un vignaiolo ha piantato 83

nel suo terreno anche un fico. Dopo tre anni l'albero non porta ancora frutti (più esattamente: dopo sei an­ ni, poiché secondo Lev. 19,2 3 per tre anni non si do­ vevano mangiare i frutti di un albero giovane) . È chiaro che è un albero sterile. Pertanto il proprietario ordina al contadino di abbatterlo, perché non fa che sottrarre nutrimento alle viti che lo circondano. Ma quello prega il padrone di concedere all'albero ancora una possibilità. Lui intende zappare e concimare il terreno all'intorno. Cura in sé superflua, perché il fico non ha bisogno di cure particolari. Il contadino vuol dunque tentare l'ultima possibilità. Se nemmeno così l'albero porterà frutti, sarà abbattuto. Qui termina la parabola. Agli ascoltatori domandarsi quale sarà stata la risposta del proprietario alla richiesta del conta­ dino. È interessante ricordare un'antica storia, attestata già nel sec. v a.C. Un padre paragona il proprio figlio a un albero sterile che, sebbene si trovi vicino all' ac­ qua, non porta frutti, cosicché il padrone è costretto ad abbatterlo. Allora il figlio chiede di trapiantarlo, e di abbatterlo soltanto se non porterà frutti nemmeno nel nuovo sito. Ma il padre risponde: «Quando stavi vicino all'acqua non hai fatto frutto; come vuoi por­ tarne stando in un altro posto?». Gesù poteva aver notizia di questo racconto popolare, e lo ha trasfor­ mato nella sua parabola, ma lasciando perdere la con­ clusione. La preghiera del contadino non viene re­ spinta; la parabola rimane aperta, e così rappresenta un invito alla conversione. Del tutto nuova in Gesù è la preghiera del contadi­ no. lntroducendone la figura, Gesù voleva soltanto vi­ vacizzare la descrizione, oppure in essa si dà a cono­ scere egli stesso? Probabilmente è questa la sua inten­ zione, e anche i suoi discepoli hanno inteso così. È in- . vece difficile che il popolo arrivasse a questa interpre.

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tazione: ad esso bastava distinguere il pensiero fonda­ mentale della parabola, e rendersi conto che, come l'albero ottiene per così dire un periodo di grazia, così anche Dio ne concede uno al popolo giudaico. Sicuramente la parabola si riferisce soltanto ai giu­ dei, non all'umanità in generale. Già i profeti dell'An­ tico Testamento chiamavano Israele vigna di Dio (cfr. Is. 5 ,1-7) ; il fico probabilmente raffigurava Gerusa­ lemme. Che Gesù stesso, con la sua predicazione, of­ frisse a Israele un'ultima opportunità per convertirsi, forse potevano comprenderlo anche i suoi uditori, mettendolo in rapporto col contadino della parabola. Successivamente questa figura è stata interpretata in forma allegorica e messa in rapporto con Gesù, che per tre anni si è lui pure preso cura del popolo al fine di condurlo alla conversione, e che intercede per i suoi presso Dio. La parabola ha un parallelo nell'atto simbolico di Gesù che maledice il fico sterile (Mc. r r , r 2- 14; Mt. 2 r , r 8 s.). Le. lo tralascia, evidentemente perché vede­ va in quel gesto un parallelo della sua parabola. Per questo, com'è sua consuetudine, non ne fa parola. È incerto se questo racconto si fondi su un ricordo sto­ rico oppure si sia sviluppato da un detto di Gesù si­ mile a quello di Le. 13,6-9. Nel primo caso si tratte­ rebbe di un atto simbolico, come quelli compiuti an­ che dai profeti dell'antica alleanza, ad esempio l'oc­ cultamento di una cintura nell'Eufrate (ler. 1 3 , 1 -7) o il gioco con la tavoletta d'argilla (Ez. 4,1-4) . Sarebbe l'unico miracolo di Gesù a carattere punitivo, che già ai commentatori antichi creava notevoli difficoltà. Vi­ sto tuttavia il modo di agire profetico di Gesù, è asso­ lutamente credibile che anche lui, per una volta, ab­ bia operato un segno come questo, per dare un saggio del giudizio punitivo su Israele infedele.

Il ricco stolto (Le. 12,16-21) Le. 12,13-21 (esclusivamente lucano) consta di due parti: il breve accenno al rifiuto, da parte di Gesù, di interporsi in una lite tra due fratelli per questioni d'e­ redità (vv . 1 3 s.), e la parabola del ricco stolto (vv . 162 1 ) . Il v. 15 collega tra loro i due brani mettendo in guardia contro la cupidigia e ha già in vista la parabo­ la che segue: «Poiché il senso della vita non consiste nel fatto che un uomo, avendo grandi sostanze, viva nell'abbondanza». La parabola che segue vuole illu­ strare questo pensiero. Un ricco proprietario terriero si aspetta di fare un raccolto speciale: talmente abbondante, che non sa dove metterlo nei magazzini che possiede. Perciò de­ cide di demolirli per costruirne di più grandi, che possano accogliere il grano e gli altri prodotti, come il vino. Nel v. 19 l'agricoltore esprime quello che in fondo ha in mente: «Poi dirò a me stesso: ora hai una grande scorta di beni, che basterà per molti anni. Ri­ posati, mangia e bevi e goditi la vita ! ». Si tratta, dun­ que, della sicurezza di condurre un'esistenza comoda e ricca di piaceri. Il v. 20 mostra che egli in pratica è un senza Dio. Dio infatti lo apostrofa chiamandolo «stolto ! ». Nell'uso linguistico biblico «stolto» è sino­ nimo di « ateo» (Ps. 14, 1 : «Gli stolti dicono in cuor lo­ ro: Non esiste nessun Dio»). Se Dio parla al ricco, non significa che gli sia apparso in sogno, ma solo che ha preso una decisione. Nel suo comportamento ap­ parentemente tanto saggio, l'agricoltore ha dimenti­ cato Dio e anche il prossimo, che avrebbe potuto aiu­ tare con la sua ricchezza. Già nell'Antico Testamento la sapienza dice: «Chi accaparra il grano è maledetto dalla gente; scende la benedizione sul capo di chi porta il frumento al mercato» (Prov. u , 26) . Ma so­ prattutto il ricco non ha pensato alla morte. «Questa 86

notte stessa ti si richiederà la tua vita» (v. 20) ; la for­ ma impersonale è una perifrasi del nome di Dio. Egli dunque perde tutto ciò che ha ammucchiato, e viene in luce la sua stoltezza. Il versetto conclusivo riporta un'applicazione pratica della parabola: «Così è di chi accumula tesori per sé, ma non è ricco davanti a Dio». Non tutti gli esegeti attribuiscono a Gesù questa parabola. Eppure sono numerosi i detti e le parabole in cui, come qui, egli esorta a non perdere di vista il giudizio incombente (ad es. Le. 12,35-38·54-56 ) . Quin­ di può benissimo aver proposto anche questa parabo­ la. Solo, l'ha conclusa con il v. 20, lasciando che gli uditori vi riconoscessero la loro situazione: anch'essi sarebbero stolti se accumulassero beni e averi, quando la catastrofe li minaccia. Il v. 21 è dunque creazione lucana. Proprio con questo versetto l'evangelista dà alla parabola un senso diverso da quello che aveva in ori­ gine. È da stolto, egli pensa, che un uomo voglia ar­ ricchire soltanto per sé, poiché i tesori terreni non gli tornano a vero profitto, dato che alla morte deve !a­ sciarli. Invece, come si dirà in 12,33, egli deve vendere i suoi averi e darne il ricavato ai poveri; così si procu­ ra un tesoro nei cieli, che non viene meno, non è ru­ bato dai ladri, né consumato dalla tignuola. Conside­ rata alla luce di questo ammonimento, la stoltezza del ricco possidente consiste nel non essersi dato pensiero di ciò che accade dopo morte. Qui Le. espone un pensiero che per lui è tipico. Poiché il ritorno di Cri­ sto ritarda, l'evangelista non pensa più principalmen­ te al destino di tutta l'umanità, ma fa presente al sin­ golo cristiano il suo destino personale, che si compirà definitivamente alla sua morte. L'uomo deve preoc­ cuparsi di avere in cielo, nell'ora della morte, un teso­ ro eterno, ossia il regno di Dio, di cui si parla nel v. 87

3 2 : «Non temere, piccolo gregge ! Poiché il Padre vo­ stro ha stabilito di darvi il suo regno». Questa frase appare già a prima vista fuori contesto; ma l'evangeli­ sta l'ha inserita qui per far capire che ad ogni disce­ polo di Gesù, al momento di passare all'altra vita, vien fatto dono di partecipare al regno di Dio. È chiaro quindi che Le. non ha inteso la parabola del ricco stolto come un richiamo alla catastrofe in­ combente, ma come un'esortazione rivolta al singolo cristiano, affinché si dia pensiero di ciò che lo attende dopo morte. J. Dupont, Die individuelle Eschatologie im Lukasevangelium und in der Apostelgeschichte, in Orientierung an Jesus. Fest­ schr. ]. Schmid, Freiburg 1973, 37-47.

Lo scassinatore notturno (Mt. 24,43 s. ; Le. 12,39 s.) La breve parabola dello scassinatore, riportata in Mt. e Le. quasi con le stesse parole, probabilmente si rifà a un episodio reale, a uno scasso verificatosi not­ tetempo in qualche villaggio. Tutti ancora ne parlava­ no, e anche Gesù approfittò dell'occasione per mette­ re in guardia contro una sciagura di gran lunga peg­ giore, che egli vedeva awicinarsi. Già nella redazione originale alla parabola venne aggiunta una spiegazio­ ne per i discepoli. Il termine di paragone non è la persona né del la­ dro né del padrone di casa, ma l'ora sconosciuta nella quale awiene lo scasso. Se il padrone ne fosse stato a conoscenza, avrebbe vegliato e impedito il furto. Per­ ciò Gesù esorta i suoi discepoli: anche voi siate pron­ ti, perché il figlio dell'uomo sopraggiunge in un mo­ mento che non vi aspettate. Quello che conta per Ge­ sù è l'esser pronti. Sulla sua bocca questa parabola è un grido d'allarme alla folla, e al tempo stesso un an88

nuncio dell'incombente catastrofe del giudizio del mondo. Sembra che Le. abbia inteso la parabola come un richiamo rivolto alle guide della comunità cristiana. Infatti nel v. 41, composto da lui, mette sulle labbra di Pietro la domanda: «Signore, questa parabola la dici soltanto per noi o anche per tutti gli altri?». A questa domanda Gesù risponde con un'altra parabo­ la, quella dell'amministratore messo alla prova dal pa­ drone (vv. 42-48) . Quindi anche la parabola del ladro potrebbe essere indirizzata alle guide della comunità. Può sembrare strano che il Signore che ritorna venga paragonato con uno scassinatore. Ma quest'im­ pressione non è giustificata. L'immagine del ladro è usata spesso nel Nuovo Testamento, ma manca nella letteratura tardo-giudaica. Pertanto è probabile che gli altri testi in cui si fa uso di quest'immagine si rifac­ ciano alla parabola di Gesù. Ma in I Thess. 5,2.4 e in 2 Petr. 3 , 10 l'immagine del ladro non è riferita al fi­ glio dell'uomo, ma all'improvviso sopraggiungere del­ l'ultimo giorno : «Voi stessi sapete bene che il giorno del Signore viene come un ladro nella notte» ( I Thess. 5,2); «il giorno del Signore verrà come un la­ dro» (2 Petr. 3 , 10) . Solo verso la fine del 1 secolo Cri­ sto stesso viene paragonato al ladro. Nell'Apocalis­ se il Signore glorioso dice all'angelo della chiesa di Sardi: «Se non sarai vigilante, io verrò come un ladro» (Apoc. 3,3) e ancora: «Ecco, io vengo come un ladro» ( 16,15) . Ma la parusia è un giorno da temere soltanto per gli increduli e gli impenitenti; i credenti che l'a­ spettano non ne saranno colti di sorpresa. Dobbiamo ammettere, dunque, che in origine lo scasso notturno nella parabola era una metafora della parusia, del ritorno di Gesù per il giudizio. Anche la chiesa primitiva l'ha inteso così, ma l'ha interpretato alla luce della propria situazione, che era contrasse-

gnata dal ritardo della parusia. Di conseguenza la pa­ rabola non è più un grido d'allarme rivolto alla folla, ma un monito indirizzato alla comunità e ai suoi capi, affinché perseverino nella fede e nella vigilanza, no­ nostante il ritardo della parusia.

Il servo con l'incarico di controllare (Mt. 24,45 -5 1 ; Le. 12,42-46) Anche questa parabola, presa dalla fonte dei detti, è stata modificata dalla tradizione, cosicché riesce dif­ ficile ricostruirne la forma originaria. Per scoprirla, occorre prescindere dal contesto in cui si trova in Mt. e Le. e chiedersi quale effetto dovesse produrre sugli uditori di Gesù. In essa si parla di un servo al quale viene affidato il controllo della servitù in assenza del padrone. N eli' Antico Testamento l'espressione «servi di Dio» era una designazione corrente dei capi d'I­ sraele. I contemporanei di Gesù consideravano gli scribi come gli amministratori incaricati da Dio, ai quali erano affidate le chiavi del regno dei cieli (Mt. 2 3 , 1 3 ; Le. n,52). Erano loro i capi religiosi, e a loro pensava la gente quando Gesù parlava di un servo delegato alla sorveglianza. Pertanto la parabola è un richiamo indirizzato ai capi del popolo, soprattutto agli scribi. Con la parabola Gesù si appella alla loro coscien­ za. Quando il padrone inaspettatamente tornerà, si vedrà se il servo preposto a tutta la servitù ha meritato la fiducia riposta in lui. Se egli a tempo debito darà agli altri servi il cibo necessario, il padrone lo farà amministratore di tutto il suo patrimonio, ma se inve­ ce durante la sua lunga assenza si lascerà indurre a terrorizzare gli altri servi e a gozzovigliare e bere, al­ lora tornando all'improvviso lo punirà come merita. Già nella forma originale la parabola era intesa come

ammonimento rivolto ai capi del popolo, perché non dimenticassero la realtà del giudizio e impiegassero il periodo di vita terrena in un servizio fedele. È facile capire come la chiesa primitiva l'abbia adattato alla propria situazione. Nell'intenzione di Gesù, la riflessione del servo («Il mio padrone tarda ancora a venire», v. 48) doveva solo presentare la for­ te tentazione di opprimere gli altri servitori. La chiesa vi riconobbe invece un richiamo palese al ritardo del­ la parusia. Così anche il padrone della parabola è di­ ventato il Figlio dell'uomo asceso al cielo, che ritor­ nerà improvvisamente per giudicare il mondo. Perciò il servo rappresenta i capi della comunità cristiana, e la parabola li mette in guardia contro il pericolo di abusare della loro posizione. La punizione toccata al servo malvagio, secondo Mt. e Le. , è questa: «Il padrone lo farà a pezzi e gli assegnerà il suo posto tra gli ipocriti ( Le. : gli infede­ li) . lvi per lui sarà pianto e stridore di denti» (Mt. 24,51 ) . L'ultima frase ( assente in Le.) è un modo di designare il castigo dall'inferno e senza dubbio altera il quadro della parabola. L'espressione «fare a pezzi» è dovuta probabilmente a un errore di traduzione; il termine aramaico significava «ripartire, assegnare, di­ videre» . Gesù dunque in origine disse: gli darà (la sua parte) , intendendo probabilmente una buona dose di percosse. «Fare a pezzi» non si addice né alla parabo­ la di Gesù, né al ritorno del figlio dell'uomo. La qua­ lifica di «ipocriti» potrebbe essere stata introdotta da Mt. ; poi Le. l'avrebbe trovata impropria e sostituita con «infedeli» . Le., o la tradizione di cui disponeva, h a ulterior­ mente attualizzato la parabola. Le. 1 2,42 sottolinea la superiorità di grado di uno dei servi nei confronti de­ gli altri, chiamandolo amministratore (oikon6mos). In questo modo i veri destinatari della parabola appaio9!

no gli apostoli. Il testo proprio del solo Le. aggiunge inoltre che essi conoscono meglio la volontà del Si­ gnore e che a loro è stato affidato maggior potere che agli altri; pertanto ad essi si chiederà un rendiconto particolarmente severo, qualora dal ritardo della pa­ rusia si lasciassero indurre ad abusare della loro carica ( 12,47 s . ) . Perciò la parabola sulla parusia, posta al servizio della parenesi, è diventata un avvertimento ai capi della comunità, affinché col pretesto del ritardo della parusia non trascendano fino ad abusare dell'in­ carico ricevuto e ad essere negligenti. Ma questa tra­ sformazione mostra anche che la chiesa primitiva non ha semplicemente rinunciato al pensiero del ritorno del suo Signore; anzi, sottolineava che questo si sa­ rebbe verificato in maniera imprevedibile e improvvi­ sa, e così stimolava i credenti alla vigilanza e alla fe­ deltà.

Il portiere (Mc. 13 ,33-37; Le. 12,35-38) Questa parabola è conservata solo in forma fram­ mentaria e rimaneggiata in Mc. e Le. ; in Mt. (24,42; 25,13) è rimasta soltanto l'applicazione. Eliminati gli abbellimenti tardi, quanto segue si può ritenere che appartenesse al nucleo originario. Un portiere riceve dal padrone di casa, che è invi­ tato a un banchetto serale, l'ordine di restare sveglio per essere pronto ad aprirgli non appena ritornerà e busserà alla porta. A qualsiasi ora della notte torni egli loderà e ricompenserà il portiere se lo troverà sveglio. Si tratta di una parabola della crisi, che vuol mettere sull'avviso nell'attesa dell'ora prossima della decisione, del giudizio sul mondo. Gesù non dice nulla di se stesso, se non in modo velato. Nella reda­ zione di Mc. è originario l'ordine di restare sveglio dato soltanto al portiere (in Le. 12,37 è dato a tutti i

servi). Non sono invece originari, ma influenzati da parabole affini, altri due tratti. I . Il padrone di casa è presentato in viaggio (Mc. 13,34) . Questo tratto proviene da Mt. 25,14, ma qui è fuor di luogo. Il comando di restare svegli ha senso solo se il padrone ritorna la notte stessa, sia pure mol­ to tardi. Inoltre non è incomprensibile che non solo il portiere, ma tutti i servi rimangano alzati per acco­ glierlo. Se invece si tratta di un viaggio abbastanza lungo, è difficile che si pretenda dai servi che veglino ogni notte; sarebbero certamente costretti a dormire di giorno. 2 . Anche la distribuzione dei compiti ai servi (Mc. 13,34) non si capisce. L'ordine di tenersi sveglio è da­ to solo al portiere. Questo tratto potrebbe essere mu­ tuato da Mt. 24,45 . Un padrone di casa che accetta un semplice invito a cena non ha bisogno di assegnare ai suoi servi alcun compito particolare. In Mt. , come si è detto, della parabola è rimasta un'unica frase: «Ve­ gliate dunque, poiché non sapete in quale giorno il vostro Signore verrà». Il padrone di casa è diventato «il vostro Signore» ( Cristo) , la veglia notturna un giorno. L'adattamento cristologico è evidente. L' allegorizzazione raggiunge il massimo grado in Le. Secondo 12,37, per ricompensare i servi rimasti svegli il padrone al ritorno si cinge le vesti, li fa sedere a tavola e li serve! Un comportamento simile è incon­ cepibile nei rapporti umani. Gesù invece durante l'ul­ tima cena ha lavato i piedi ai discepoli come uno schiavo (lo. 1 3 .4 s.) . Non è possibile stabilire con sicurezza chi fossero i destinatari della parabola originaria. Se era indirizzata agli scribi, com'è probabile, Gesù voleva esortarli a non farsi trovare addormentati nell'ora della crisi. Nell'applicazione a Cristo i servi rappresentano gli apostoli, che Gesù vuoi trovare svegli al momento =

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della parusia. In Mc. 13,37 l'esortazione a stare svegli è ulteriormente ampliata e indirizzata a tutti coloro che si dicono discepoli di Cristo : «Ma quello che dico a voi, lo dico a tutti: Vegliate ! » .

Il denaro dato in deposito (Mt. 25,14-30; Le. 19,12-27) La redazione originale. Mt. e Le. riportano la para­ bola dei denari affidati in due redazioni che concor­ dano ampiamente nel contenuto, ma nei particolari presentano differenze tanto evidenti, che spesso in passato si è supposto che Gesù abbia narrato due pa­ rabole diverse. Allo stadio attuale degli studi, si può affermare che alla base dei due racconti sta la medesi­ ma parabola, che però ben presto venne tramandata in due versioni diverse. Ognuno dei due evangelisti l'ha trovata in un'altra tradizione ed entrambi poi l'hanno ulteriormente rielaborata. Messi da parte tutti gli elementi secondari, il nucleo del racconto è il seguente. Un ricco mercante, al mo­ mento di partire per un viaggio all'estero, chiama i suoi servi e consegna loro una determinata somma di denaro da mettere a frutto; al suo ritorno li chiama a render conto dell'uso che han fatto del denaro. Due dei servi, che lo hanno bene amministrato, ricevono dal padrone lodi e ricompensa. Il terzo invece si è li­ mitato a custodire il denaro avuto in consegna e lo re­ stituisce intatto; ma viene biasimato per il suo com­ portamento. Il racconto è una parabola, una storia drammatica, incentrata sul comportamento del terzo servo. Gli ascoltatori di Gesù probabilmente vedevano nei servi i loro capi religiosi, soprattutto i dottori della legge, che egli, secondo Le. r r ,52, rimprovera di escludere gli altri dalla partecipazione al dono loro affidato, 94

cioè dalla parola di Dio nella Scrittura. Ma forse la parabola vuole essere un monito per tutti gli uomini, ai quali viene donato il regno di Dio, affinché non ne intralcino la forza e il dinamismo.

Le due tradizioni. I tratti fondamentali di questo racconto sono conservati sia in M t. che in Le. : il viag­ gio all'estero del padrone, la consegna del denaro ai servi, il ritorno e la chiamata al rendiconto. Ma le due redazioni si distinguono in tutto il resto. Mt. presenta soltanto tre servi, che ricevono uno cinque talenti, l'altro tre, il terzo uno (un talento vale circa seimila franchi d'oro ) . Le. parla di dieci servi, ognuno dei quali riceve una mina ( circa cento franchi d'oro) . In Mt. i servi buoni vengono ricompensati tutti allo stes­ so modo: con l'autorità su molto, con la partecipazio­ ne alla gioia del padrone. Secondo Le. il primo servo, la cui mina ne ha fruttate dieci, ottiene autorità sopra dieci città; il secondo, che ha guadagnato cinque mi­ ne, autorità su cinque. In Mt. il terzo servo nasconde il talento a lui affidato e lo mette sottoterra, conside­ rato a quel tempo un nascondiglio particolarmente si­ curo; in Le. lo custodisce in una pezza, indizio di leg­ gerezza piuttosto che di preoccupazione. Quali sono i tratti che possiamo considerare origi­ nari? Presumibilmente sono la piccola somma di de­ naro in Le., il numero di tre soli servi in Mt. (anche Le. parla del rendiconto con tre servi soltanto, ben­ ché ne menzioni dieci) , il sotterramento del denaro in Mt.

L'episodio del pretendente al trono. La redazione lucana differisce da quella di Mt. soprattutto perché nella parabola originaria (probabilmente già nella tra­ dizione prelucana) è confluito un secondo racconto, quello di un uomo di nobile stirpe che va all'estero 95

per ottenere il titolo di re della sua terra. I suoi com­ patrioti lo odiano; perciò mandano un'ambasceria per tentar di impedire che venga nominato re. Ma egli riesce ad ottenere la nomina, e al ritorno in patria si vendica dei suoi nemici. In questa storia si allude senza dubbio ad Arche­ lao, figlio di Erode il Grande, il quale alla morte del padre (4 a.C.) ebbe da Augusto il titolo di etnarca·, cioè di re subalterno, della Giudea, della Samaria e dell'Idumea. Ma nel 6 d.C. un'ambasceria giudaico­ samaritana lo denunciò per la sua crudeltà. L'impera­ tore lo fece chiamare a Roma e lo depose. Dunque ciò che non riuscì a fare il figlio di Erode lo fa il preten­ dente al trono della parabola lucana: ritorna nelle ve­ sti di re e può vendicarsi sui nemici. Le. dunque parla di una duplice resa dei conti del padrone quando tor­ na in qualità di re: quella con il servo negligente (vv. 22-24) e quella con i nemici (v. 27) . Potrebbero essere due i motivi che hanno portato alla fusione dei due racconti: r. la somiglianza della struttura (partenza del padrone, resa dei conti al ri­ torno ) ; 2. la fede nella partenza di Gesù per un regno dal quale tornerà e si rivelerà come sovrano. Così gli avversari del pretendente indicano allegoricamente il popolo giudaico, che rigettò Cristo. La tradizione, che ha congiunto l'episodio del pretendente al trono con la parabola di Gesù, voleva in tal modo far chiaro su questo: che Gesù di Nazaret, il Messia rigettato dai suoi avversari giudei, ritornerà come re messianico per il giudizio. Anche i servi del padrone sono poi da interpretare allegoricamente come i discepoli di Ge­ sù, i cristiani; ad essi sono affidati dei doni, e al ritor­ no del loro Signore devono render conto di come li hanno impiegati. Egli tornerà come re dopo aver rice­ vuto da Dio l'investitura nel suo viaggio celeste.

La redazione di Matteo. Già nella tradizione ante­ riore a Mt. , dunque, la parabola originale di Gesù fu ritoccata in chiave allegorica e riferita alla comunità cristiana. A tutti i membri della comunità è affidato un bene di gran pregio: la condizione di cristiano in possesso di diversi doni. Perciò le mine originarie fu­ rono sostituite con i talenti. I credenti devono farli fruttare, cioè raddoppiarli fino al ritorno del Signore. La resa dei conti avviene nel giudizio, alla parusia del figlio dell'uomo. La fedeltà del servo buono viene ri­ compensata; il servo negligente, che ha sotterrato il suo talento, perde il diritto all'elezione. Mt., che fa precedere la parabola dal monito «Ve­ gliate dunque, perché non sapete né il giorno, né l'o­ ra» (v. 1 3 ) , ha esteso ulteriormente il concetto di giu­ dizio. Il tempo in cui il padrone rimane assente è l'in­ tervallo tra la risurrezione e il ritorno, durante il quale i cristiani devono far buona prova di sé. Se si dimo­ strano «servitori buoni e fedeli», sono invitati al ban­ chetto del loro Signore (immagine della gloria eterna) ma, se si scopre che sono stati «servitori malvagi e in­ fingardi», vengono gettati nelle tenebre esterne (im­ magine dell'eterna dannazione) , dove sarà pianto e stridor di denti.

La redazione lucana. Già nella tradizione prelucana la connessione della pa,rabola originaria con l'episodio del pretendente al trono ha determinato un'alterazio­ ne dell'elemento simbolico. Come vuole il suo stato, il nobile signore non ha soltanto tre servi ma dieci, ad ognuno dei quali affida una sola mina. Perciò il re lo­ da il servo diligente dicendo: «Perché sei stato fedele nel minimo» (v. q) . Come ricompensa per aver fatto fruttare il denaro del padrone, i due servi buoni rice­ vono autorità uno su dieci, l'altro su cinque città del regno. La motivazione del castigo del servo negligente 97

è più dura: egli ha agito con leggerezza, poiché ha cu­ stodito la sua mina in una pezza; si è lasciato prende­ re dalla paura quando, proprio perché conosceva la severità del padrone, avrebbe dovuto tenere un com­ portamento tanto più zelante. Con questo la redazio­ ne prelucana vuol dire ai lettori che il giudizio non coglie di sorpresa i cristiani negligenti. Essa inasprisce quindi l'ammonimento morale. Le. rivela il suo interesse per questa parabola nel­ l'introduzione: «Poiché Gesù era già vicino a Gerusa­ lemme, gli uomini che stavano ad ascoltare tutte que­ ste cose pensavano che il regno di Dio dovesse mani­ festarsi di lì a poco. Perciò raccontò loro un'altra pa­ rabola» (v. n ) . Data la vicinanza a Gerusalemme, dunque, gli ascoltatori pensano che sia imminente l'apparizione del regno di Dio. Per allontanare questo malinteso, Gesù narra la parabola delle mine. Le. vuole far capire che Gesù partirà prima che venga il regno di Dio ( chiara allusione all'ascensione, che dal canto suo rimanda al ritorno Act. 1,9- n ) . Le. parago­ na il nobile signore, che va a ricevere la dignità regale e poi fa ritorno, al figlio dell'uomo, partito verso il cielo, che ritorna per il giudizio. Ma è chiaro che que­ sto non è in linea col pensiero primitivo. Certamente Gesù non ha voluto paragonarsi a un uomo che pren­ de dove non ha messo e miete dove non ha seminato (v. 2 1 ) , né a un tiranno che fa massacrare i nemici sot­ to i suoi occhi (v. 27) . Anche Le. quindi, come Mt. , h a interpretato questa, che in origine era una parabo­ la della crisi, come parabola della parusia, facendo di un tratto secondario il tema centrale. L'evangelista vuol mostrare anche che la speranza in un ritorno imminente è fuori luogo. A questo scopo mette in bocca al pretendente al trono questa parola rivolta ai servi: «Fate fruttare (le mine che vi ho affi­ dato) fino al mio ritorno» (v. 1 3 ) . Il viaggio in un 98

«paese lontano» (v. 12) presuppone appunto un'as­ senza prolungata. È quindi fuor di posto un'attesa fa­ natica della parusia; occorre invece amministrare fe­ delmente i beni ricevuti da Dio (v. q) . Le due rielaborazioni della parabola ad opera di Mt. e di Le. mostrano una volta di più come la chiesa primitiva abbia riferito le parabole alla sua concreta situazione. Un monito di Gesù che esorta i suoi con­ temporanei a non equivocare sulla gravità dell'ora è diventato un avviso rivolto alla comunità cristiana, perché non sia neghittosa nel servizio, anche se il ri­ torno del suo Signore tarda a venire.

CAPITOLO OTTAVO

L'ULTIMO PERIODO DI GRAZIA

Concludendo la parabola del fico sterile (v. pp. 83 s.) Gesù preannuncia che il tempo fissato per la conver­ sione, anche se viene prolungato ancora una volta, un giorno giungerà irrevocabilmente alla fine. In molte altre parabole egli ha fatto presente ai suoi uditori la medesima verità, cioè che questo è l'ultimo periodo che viene loro concesso; se passa inutilizzato, l'ingres­ so nel regno dei cieli sarà loro chiuso per sempre.

Le vergini sagge e le stolte (Mt. 2J, I-Ij) La parabola delle dieci vergini è tuttora molto di­ scussa dagli studiosi, soprattutto per ciò che riguarda la sua origine. Si tratta di un'autentica parabola di Gesù? oppure è stata creata soltanto dopo la pasqua e poi messa sulla sua bocca. Ancora: è una parabola originale di Gesù, rivestita di tratti allegorici e am­ pliata dalla chiesa primitiva? Ancor oggi ognuna di queste ipotesi ha i suoi sostenitori. Per rispondere alle domande suddette occorre anzitutto dare uno sguar­ do agli usi nuziali del tempo. Nelle fonti contempora­ nee non troviamo una descrizione organica dello svol­ gimento di uno sposalizio, ma solo la menzione di singoli momenti. Tuttavia le usanze tuttora vigenti in Palestina sono spesso quelle presupposte dalla para­ bola delle vergini. Presso i giudei il fidanzamento aveva il valore di un vero e proprio contratto di matrimonio, benché lo 101

sposo rimanesse nella casa del padre circa un anno. Pur col variare degli usi da una regione all'altra, quel­ lo che era essenziale era che di notte si andasse con fiaccole a prendere lo sposo alla casa paterna. Qui si svolgeva il banchetto nuziale, al quale però gli sposi non prendevano parte. Soltanto calata la notte la spo­ sa veniva accompagnata alla luce delle fiaccole alla casa dello sposo. Questi nel frattempo si tratteneva ancora al di fuori in compagnia degli amici. Quando poi qualcuno annunciava che egli stava arrivando, le compagne della sposa la lasciavano sola e con le fiac­ cole accese andavano incontro allo sposo. Spesso questi tardava, perché non riusciva a mettersi d'ac­ cordo con i familiari della sposa sui regali di loro spettanza. Infine le vergini e gli amici lo accompagna­ vano alla casa paterna per l'incontro con la sposa.

La parabola originaria. È facile vedere come tutti

questi usi si trovino anche nella parabola di Mt., ma con alcuni tratti ampliati. Il regno di Dio qui non è paragonato alle amiche della sposa, ma a una festa nuziale. Il numero di dieci ragazze non ha un signifi­ cato speciale; 10, come 5, è una cifra tonda. Non dobbiamo immaginare le lampade di cui si parla nel testo come lucernette di terracotta, che di notte avrebbero fatto una luce troppo fioca, ma come fiac­ cole avvolte in alto con stracci imbevuti d'olio. La pa­ rabola non descrive lo svolgimento di tutta la festa nuziale, ma coglie soltanto un aspetto marginale. Del­ la sposa non si parla affatto, e anche lo sposo entra attivamente in scena solo alla fine. Poiché egli si fa a­ spettare a lungo, le ragazze si addormentano, finché le sveglia un messaggero col grido: Lo sposo viene, an­ dategli incontro ! Allora si alzano in fretta e preparano le fiaccole. Le vergini sagge avevano messo in conto la lunga attesa e avevano portato olio di riserva nei loro 102

vasi; le stolte, invece, erano state così imprevidenti da non calcolare questa possibilità e non avevano portato dell'olio. Perciò ora ne chiedono un po' alle compa­ gne sagge, per poter ravvivare la fiamma delle proprie fiaccole, ormai prossime a spegnersi. Queste però le mandano al villaggio a comperare l'olio dai negozian­ ti (secondo l'uso orientale i negozi non avevano un'o­ ra fissa di chiusura, ma le vendite continuavano fino a notte fonda) . Proprio nel momento in cui le giovani sono assenti appare lo sposo. Le sagge gli vanno in­ contro con le fiaccole accese e lo accompagnano nella sala nuziale. «E la porta fu chiusa a chiave» (v. ro) : questo tratto del racconto è del tutto inverosimile. A uno sposalizio orientale la porta resta aperta per tutta la notte, perché gli invitati vanno e vengono ininter­ rottamente. Più tardi arrivano le ragazze stolte e chie­ dono di entrare; ma ricevono dallo sposo la risposta: «Amen, vi dico: io non vi conosco» (v. 1 2 ) , che equi­ vale a: Non voglio aver a che fare con voi. Anche questo tratto è in contrasto con ogni usanza nuziale: uno sposo non tratta così i suoi invitati. Già l' « amen» introduttivo sta a indicare che qui parla il Figlio del­ l'uomo, che ritorna nella parusia. A parte questi due particolari, dunque, tutta la pa­ rabola si spiega con gli usi nuziali del tempo. È una parabola della crisi, come molte altre simili narrate da Gesù. Come lo sposo, così anche l'ora della separa­ zione viene all'improvviso. Con l'olio si indica la con­ versione; a chi non si converte verrà negato l'ingresso nel regno di Dio.

L'interpretazione allegorica. Certamente il v. 13 non appartiene alla parabola originaria di Gesù. Si tratta di un'appendice parenetica, come quelle che spesso sono aggiunte alle parabole. L'ammonizione: «Ve­ gliate dunque, perché non sapete né il giorno né l'o103

ra», si confà alla parabola del portiere (Mc. 1 3,35 s . ) : nel nostro brano è fuor di luogo. Infatti tutte le ragaz­ ze, anche le sagge, si sono addormentate e ciò che viene biasimato non è il sonno, ma la mancanza di olio nei vasi delle vergini. Quindi nella parabola origi­ naria manca ogni accenno alla parusia, tanto più che lo sposo come figura del Messia è del tutto sconosciu­ to all'Antico Testamento e al tardo giudaismo, e af­ fiora per la prima volta in Paolo (2 Cor. u , 2 ) . Contro l a suddetta interpretazione non allegorica, sostenuta soprattutto da ]. Jeremias, si è obiettato che il punto qualificante sarebbe esattamente ribaltato ri­ spetto alla parabola del servo che veglia (Mt. 24,455 1 ) . Nella nostra parabola le ragazze sagge si sono preparate a un prolungato ritardo dello sposo, mentre quelle stolte pensano che arriverà presto e così non prendono l'olio. Il servo vigilante, invece, è saggio proprio perché fa conto che il padrone arrivi presto (G. Bornkamm) . Ma dedurre da ciò che tutta la para­ bola debba essere una creazione della comunità pri­ mitiva per spiegare il ritardo della parusia, è eccessi­ vo. È sufficiente ammettere che la comunità (o sol­ tanto l'evangelista), inserendovi i tratti allegorici, di quella che in origine era una parabola della crisi ha fatto un'allegoria del ritorno del Cristo celeste. Che Mt. abbia interpretato la parabola in questo modo è indubbio. Già il «poi» introduttivo rimanda a 24,44. 50, dove si parla espressamente della parusia. Evidentemente anche nell'osservazione «poiché lo sposo tardava» (v. 5) egli vedeva un'allusione al ritar­ do del ritorno, anche se, come si è dimostrato sopra, quest'osservazione si spiega con le usanze nuziali del tempo. Secondo Mt. l'arrivo improvviso dello sposo è una metafora del sopraggiungere inaspettato della pa­ rusia. Il grido di mezzanotte «lo sposo viene ! » è sim­ bolo dell'appello dell'angelo del giudizio; il duro ri-

fiuto opposto alle vergini stolte indica la condanna nel giudizio finale. Evidentemente il Sitz im Leben della allegorizzazio­ ne successiva è la situazione di una comunità, per la quale il ritardo della parusia era divenuto un proble­ ma. Per aiutare i fedeli a superare questa crisi, l'evan­ gelista ha interpretato la parabola in altro modo. Egli vuoi dire che anche Gesù ha fatto i conti con questo ritardo. Pertanto occorre essere vigilanti, perché la parusia giungerà del tutto improvvisa. In questo con­ testo diviene comprensibile anche l'aggiunta del ver­ setto 1 3 . Nella spiegazione allegorica della nostra parabola potrebbe aver avuto il suo peso una parola di Gesù conservata in Le. 1 3 ,25: «Quando il padrone di casa si alzerà (dal banchetto) e chiuderà la porta, voi (giu­ dei) rimarrete fuori e busserete alla porta gridando: Signore, aprici ! Ma egli vi risponderà: Non so di dove siete». Ciò che la nostra parabola ha di irreale, quan­ do parla della porta della sala nuziale che viene chiusa (v. 10), della supplica, che ripete alla lettera quella di Le. 1 3,25, «Signore, aprici» (v. r r ) , e del rifiuto, an­ ch'esso ripetuto alla lettera «Non vi conosco» (v. 12), lascia capire che probabilmente le parole di Le. 1 3 , 25 hanno influito sulla parabola delle vergini. Nella rielaborazione allegorica, all'autore non fa difficoltà che la sposa non venga neppure nominata. È chiaro che egli l'ha vista simboleggiata nelle dieci ver­ gini; cosa facile a pensarsi, dato che la comunità cri­ stiana era formata non solo da saggi, ma anche da stolti. I fedeli pronti, in attesa fiduciosa della parusia, possono partecipare al banchetto nuziale celeste, mentre coloro che non sono pronti ne vengono esclu­ si. Nella spiegazione allegorica, dunque, la parabola contiene tanto la minaccia quanto la promessa. Seb­ bene si chiuda con il duro rifiuto, anche qui il peso

principale cade sulla promessa, sulla felice partecipa­ zione alle nozze di Cristo con la chiesa. G. Bornkamm, Die Verzogerung der Parusie, in In memoriam E. Lohmeyer, Stuttgart 1951, 119 ss. - ] . Gnilka, ]esus Christus nach /riihen Zeugnissen des Glaubens, Miinchen 1970, 1 3 1 ss.

La grande cena (Mt. 22,r -10; Le. 14,15-24) La parabola della grande cena si trova in tre versio­ ni: in Mt. , in Le. e nel cosiddetto vangelo di Tomma­ so. Le versioni di Mt. e di Le. divergono assai l'una dall'altra; quella del vangelo di Tommaso è molto vi­ cina alla redazione lucana. Essa potrebbe essere la più vicina alla parabola originale.

La /orma originaria. Il testo del vangelo di Tomma­ so è il seguente (no 64) : «Gesù disse: Un uomo aveva degli ospiti. E quando la cena fu pronta mandò il suo servo ad invitare gli ospiti. Egli andò dal primo e gli disse: Il mio padrone ti invita. Quello disse: Ho (da riscuotere) denaro da alcuni mercanti. Essi vengono da me la sera. Andrò a dar loro le commesse. Mi scu­ so per la cena. - Andò da un altro e gli disse: Il mio padrone ti ha invitato. Quello gli disse: Ho comperato una casa e domandano che sia presente per un gior­ no. Non avrò tempo. - Andò da un altro e gli disse: Il mio padrone ti invita. Quello gli disse: Il mio amico si sposa e io darò un banchetto. Non potrò venire. Mi scuso per la cena. - Andò da un altro e gli disse: Il mio padrone ti invita. Quello gli disse: Ho compe­ rato un podere e vado a ritirare l'affitto. Non potrò venire. Il servo andò e disse al suo padrone: Quelli che tu hai invitato a cena si scusano di non poter ve­ nire. Il padrone disse al servo: Esci sulle strade e por­ ta quelli che trovi, affinché prendano parte alla cena. 106

I compratori e i mercanti non entreranno nei luoghi del padre mio». Dal confronto di questa versione con quella lucana risulta che essa segue fondamentalmente Le. , ma con qualche differenza nei particolari. Qui gli invitati che oppongono un rifiuto al servo non sono tre, ma quat­ tro; in compenso (come in Mt.) l'invito alle persone p rima non invitate è uno solo, mentre Le. ne ha due. E difficile che il secondo invito sia originario; esso vi era già prima di Le. , e voleva soltanto mostrare che al padrone di casa importava soprattutto che la sua ta­ vola fosse occupata fino all'ultimo posto. Ma è proba­ bile che per Le. l'invito ripetuto abbia anche un altro significato. La prima volta è rivolto a gente che abita in città, e l'evangelista pensa ai pubblicani e ai pecca­ tori d'Israele; la seconda è estesa a chi è fuori della città, e questi sono i pagani. Questa spiegazione nasce quindi dalla situazione missionaria della chiesa, che vedeva nella parabola un comando missionario di Gesù. Perciò il senso originario della parabola si trova più facilmente a partire da Le. e dal vangelo di Tomma­ so, che non da Mt. Con l'esempio di coloro che son chiamati per primi essa mostra come si possa lasciarsi sfuggire una cosa necessaria per averne un'altra appa­ rentemente improrogabile. Così i primi chiamati per­ dono il privilegio, mentre il loro posto viene occupato da altri, che finora erano stati ignorati. Lo scambio tra i primi e gli ultimi vuoi far risaltare la libertà dell'agi­ re divino e soprattutto l'ordine che ne deriva nel re­ gno di Dio. Così la parabola contiene anche un' esor­ tazione ad accogliere l'invito a entrare nel regno. Questo è anche il senso di una esclamazione di un commensale di Gesù secondo Le. q,r 5 : «Beato chi può partecipare alla cena nel regno di Dio ! ». Essa of­ fre a Gesù lo spunto per narrare la parabola.

Questa in origine era indirizzata ai nemici di Gesù, di fronte ai quali egli intese giustificare la lieta novel­ la. Essi dovevano riconoscere se stessi nei primi invi­ tati i quali, disdegnando l'invito per futili motivi, si lasciano sfuggire la salvezza. La chiamata di Dio non resta disattesa, anche nel caso che quelli chiamati per primi la respingano. Per questo il loro posto è preso dai pubblicani e dai peccatori e - aggiunge la chiesa primitiva - dai pagani.

La versione lucana. Guardiamo ora se e in quale misura in Le. il senso primitivo della parabola sia sta­ to modificato con delle aggiunte. Qui l'ospite è un privato che ha un unico servo; gli invitati sono perso­ ne in vista. Che all'ora della cena il servo venga man­ dato di nuovo dagli invitati con la preghiera: «Venite, tutto è pronto ! » (v. 17), è un gesto di particolare cor­ tesia. Ma inaspettatamente tutti si scusano di non po­ ter andare: uno perché ha comperato un campo, l'al­ tro perché ha comperato dei buoi, il terzo perché si è sposato da poco e non vuol lasciare sola la giovane moglie (ai banchetti venivano invitati solo gli uomi­ ni) . Quando il servo informa il padrone dell'affronto subito, questi va in collera e ordina al servo di andare nelle strade e nei vicoli della città a prendere poveri, storpi, ciechi e zoppi, vale a dire dei mendicanti; que­ st'invito non è fatto per sensibilità sociale o per moti­ vi religiosi, ma semplicemente per stizza. Chiaramente esso è accolto subito, senza che occorra dirlo. Ma a tavola c'è ancora posto. Allora il padrone manda di nuovo il servo a prendere i senzatetto, questa volta nelle strade fuori città, e che si spinga fino a « costrin­ gerli» a venire, qualora, come vuole la cortesia orien­ tale, si ostinino a schermirsi dall'invito, a prenderli per mano con dolce violenza e a portarli in casa; la casa deve riempirsi di ospiti. Non è chiaro se il v. 24 108

faccia parte ancora del discorso del padrone, oppure sia il giudizio conclusivo di Gesù stesso. Il vangelo di Tommaso riferisce la frase finale a Gesù («i compra­ tori e i mercanti non entreranno nei luoghi del Padre mio»). Probabilmente anche Le. ha visto in queste parole un avvertimento di Gesù, e quindi in tutta la parabola un'allegoria della cena messianica. Ma, an­ che se intese come dette dal padrone di casa, le parole del v. 24 oltrepassano il quadro del racconto e hanno presente il banchetto del tempo di salvezza. Infatti quella di non essere ammessi non è una minaccia per i primi invitati, dato che questi non vogliono venire. La versione lucana è dunque un ampliamento ma non una falsificazione dell'intenzione propria della parabola. Anche nella versione primitiva il padrone non vuol saperne di avere la tavola semideserta. Men­ zionando l'invito dei senzatetto e dei vagabondi, in­ sieme ai poveri della città (pubblicani e peccatori) , la chiesa primitiva vuol dire che la sua missione presso i pagani è conforme al volere di Gesù. Pertanto il pen­ siero di fondo della parabola è conservato e l'amplia­ mento si mantiene nella stessa linea. Sebbene nella versione lucana vi siano anche alcuni tratti irreali, non possiamo considerarla come una pu­ ra allegoria. Gli studi recenti hanno scoperto una sto­ ria aramaica, alla quale Gesù potrebbe essersi riallac­ ciato. Parla di un ricco gabelliere che invita a un ban­ chetto illustri consiglieri, perché venga così ricono­ sciuta la sua appartenenza all'alta società. Ma, quasi di comune accordo, gli invitati si tirano indietro con sciocchi pretesti. Allora, in preda all'ira, quello man­ da a prendere i mendicanti, per far vedere ai suoi de­ bitori che ha altre risorse e non ha preparato inutil­ mente il suo pranzo. Non è escluso che Gesù conoscesse questo raccon­ to e se ne sia servito per mostrare l'ira e la bontà di

Dio. Anche nella parabola dell'amministratore diso­ nesto e del giudice iniquo egli non ha esitato ad illu­ strare il comportamento di Dio mediante l'operato poco edificante di certi uomini. Tanto più seria suona allora la frase di chiusa, rivolta chiaramente ai suoi nemici: «Nessuno di quelli che erano stati invitati prenderà parte alla mia cena». Sant'Agostino pensa che il comando di costringere la gente a venire (Le. 14,23) non esprima un invito insistente, ma un vera e propria costrizione, e ne desume il diritto della chiesa di «convertire» gli eretici alla vera fede e di portarli alla salvezza anche con la coercizione. Questa inter­ pretazione del testo, certamente erronea, ha avuto tri­ sti conseguenze nel corso della storia ( processi alle streghe, inquisizione ! ) e fino a tempi recenti impedì alla chiesa cattolica di riconoscere la libertà di co­ scienza. Solo il concilio Vaticano n ha preso le di­ stanze da un tale modo di intendere.

Il banchetto di nozze regale (Mt. 22,r-ro) . L'allego­ rizzazione della parabola fa la sua comparsa in Le. ; in Mt. poi ha compiuto ulteriori passi in avanti. Qui co­ lui che invita non è un benestante qualunque, ma un re che allestisce la festa nuziale del figlio. Egli manda a chiamare due volte i primi invitati e fa eseguire l'or­ dine da diversi servi. La reazione al primo invito è ri­ ferita brevemente con la frase: «Ma essi non vollero venire» (v. 3 ) . Gli invitati, dunque, non adducono nessun motivo a giustificazione del rifiuto, né si scu­ sano. Il secondo invito è più insistente: «l buoi e gli animali ingrassati sono macellati, tutto è pronto. Ve­ nite alle nozze ! » (v. 4). La reazione è di nuovo negati­ va; alcuni non si curano dell'invito e attendono ai loro affari, altri maltrattano e perfino ammazzano i servi. Allora il re manda le sue truppe ad uccidere gli assas­ sini e a dare alle fiamme la loro città. Soltanto allora IlO

fa chiamare (una sola volta) altri e già al primo invito la sala nuziale si riempie di ospiti, « cattivi e buoni». Qui l'allegorizzazione si può toccar con mano. Ogni singolo tratto viene spiegato. Il re è Dio, il figlio è Gesù, le nozze sono l'immagine della salvezza pre­ parata da Dio per l'umanità. I primi invitati sono i giudei, chiamati prima dai profeti poi dagli aspostoli. Ma essi maltrattano e uccidono quelli che portano l'invito. La distruzione della città è una chiarissima allusione alla distruzione di Gerusalemme nel 7o d.C. Qui la realtà si è introdotta nella figura fino a turbar­ la. La cena poi, servita soltanto dopo la spedizione punitiva, non sarà stata certo eccellente. Gli ultimi in­ vitati sono i pagani. La redazione mattaica mostra che la chiesa primitiva ha letto nella parabola tutta la sto­ ria della salvezza. In tal modo quella che sulla bocca di Gesù era una semplice parabola è diventata un'al­ legoria storico-teologica. E tutto questo schizzo della storia della salvezza intende motivare la missione della chiesa primitiva presso i pagani: poiché Israele non l'ha voluta, la salvezza è passata ai gentili.

L'abito nuziale (Mt. 22, I I-r4) Gli ultimi quattro versetti della pericope, che con­ cludono la parabola, si leggono solo in Mt. Il re che ha allestito il banchetto entra nella sala della festa per vedere gli invitati, e scorge uno che non indossa l'abi­ to di nozze. Alla domanda del re: «Amico, come hai potuto entrare senza abito nuziale?» (v. rz), l'ospite non sa rispondere. Allora il re ordina ai servitori di legarlo mani e piedi e di gettarlo fuori nel fitto delle tenebre. Viene spontanea la domanda: come possono avere un abito nuziale i poveri chiamati dalla strada, se non ne hanno ricevuto uno al momento di entrare nella III

sala? Perciò il re non può punire quell'uomo che non l'ha, escludendolo dalla cena. Bisogna quindi supporre che qui si abbia una para­ bola a parte, che non ha nulla a che fare con la prece­ dente, ma è stata saldata con quella dall'evangelista. L'inizio di questa seconda parabola potrebbe coinci­ dere con il v. 2; così si spiega facilmente anche la pre­ senza di un re al posto del ricco privato di Le. Perché Mt. ha saldato queste due parabole? Evi­ dentemente voleva evitare che si fraintendesse la pri­ ma. L'invito indiscriminato di buoni e cattivi poteva portare il lettore a pensare che la condotta dell'uomo non ha alcuna influenza ai fini del conseguimento della salvezza. Gesù non aveva bisogno di temere questo malinteso, poiché faceva quel racconto ai suoi avversari. Ma l'equivoco dovette presentarsi quasi inevitabile non appena la parabola venne applicata al­ la comunità. Per scuotere ogni falsa certezza di sal­ vezza, Mt. aggiunse la seconda parabola alla prima, intendendo dire che solo chi si converte e si dimostra degno dell'invito di Dio può affrontare il suo giudi­ zio. Agli altri è riservata la medesima sorte di coloro che sono stati chiamati per primi. Le tenebre fitte so­ no immagine della lontananza eterna da Dio; il pianto e lo stridor di denti descrivono l'ira impotente di quelli che sono esclusi dalla salvezza. Ancora una vol­ ta la chiesa primitiva ha riferito alla sua situazione concreta una parabola di Gesù, ampliandola in base alle sue esperienze missionarie. Ci si domanda che cosa significhi precisamente l'a­ bito nuziale. Probabilmente Gesù ha pensato al passo di Isaia in cui il servo di Dio dice: «Mi fa indossare le vesti della salvezza, mi avvolge nel manto della giusti­ zia, come uno sposo si orna a festa» (Is. 61,10). L'abi­ to nuziale dunque rappresenta la salvezza, la giustizia concessa da Dio. Anche nella parabola del figlio perII2

duto l'abito di gala che il padre fa indossare al figlio che è tornato (Le . r5,22) è simbolo del perdono e del­ la reintegrazione nella dignità filiale. Pure nell'Apoca­ lisse si parla ripetutamente di una veste bianca che Dio donerà all'uomo ( 3 >4 s . r 8 ; r9,8) come simbolo dell'appartenenza alla comunità di quanti saranno salvati per sempre. Nella spiegazione allegorica di Mt. quest'abito indica il battesimo, mediante il quale l'uomo diventa membro della chiesa. Ma questo basta ad assicurargli definitivamente la salvezza? No, ri­ sponde l'evangelista. Nella comunità terrena buoni e cattivi vivono gli uni accanto agli altri ( cfr. v. ro) . La loro appartenenza definitiva al regno di Dio si decide solo nel giudizio finale, rappresentato dall'apparizio­ ne del re nella sala della festa. Chi per negligenza e impenitenza non possiede l'abito nuziale della grazia, alla fine viene scartato. Mt. dunque ricusa un cristia­ nesimo fondato sul battesimo come via affatto sicura per giungere alla salvezza. I cristiani sono chiamati, ma non ancora eletti. Questo è il senso del v. r4, che certamente è stato aggiunto successivamente e non si attaglia alla narrazione originaria. Infatti esso sembra dire che solo pochi ottengono la salvezza eterna, mentre nella parabola tutta la sala è piena di ospiti e soltanto ùno di loro viene allontanato. Si tratta pro­ babilmente di un detto autentico di Gesù; ma esso non vuole dare alcun ragguaglio sul numero dei salva­ ti, ma solo scuotere e guidare alla conversione. È un detto profetico che vorrebbe dare una scossa salutare agli uditori e destarli dalla loro apatia. Così inteso, comunque, esso si addice in certo qual modo alla pa­ rabola, che è anche una minaccia profetica rivolta alle guide d'Israele. Ad ogni modo, non è questa la sua collocazione originaria.

I vignaioli malvagi (Mt. 21,33-46; Mc. 12,1-12 ; Le. 20,9-19) La parabola dei vignaioli è stata trasmessa in quat­ tro versioni: nei tre sinottici e anche nel vangelo di Tommaso. Un confronto mostra che le redazioni di Le. e del vangelo di Tommaso sono molti affini, men­ tre Mc. e soprattutto Mt. hanno ampliato notevol­ mente la parabola. In primo luogo riportiamo il testo come si presenta in Tommaso, per poi confrontarlo con quello di Le.

La versione antica. Vangelo di Tommaso (no 65) : «Disse: Un uomo dabbene possedeva una vigna. La diede a dei contadini perché la lavorassero e per rice­ verne da loro i frutti. Mandò il suo servo affinché i contadini gli dessero il frutto della vigna. Questi af­ ferrarono il suo servo, lo percossero; poco mancò che non l'uccidessero. Il servo tornò, raccontò tutto al suo padrone. Il padrone disse: Forse (non l'hanno) rico­ nosciuto. E mandò un altro servo. I contadini percos­ sero il secondo. Allora il padrone mandò suo figlio; disse: Forse temeranno mio figlio ! Quei contadini, poiché sapevano che egli era l'erede della vigna, lo af­ ferrarono e lo ammazzarono. Chi ha orecchie inten­ da». Come si può vedere, lo svolgimento dell'azione qui è molto semplice; manca ogni allusione biblica e ogni riferimento alla storia della salvezza. Il racconto si conclude con l'assassinio del figlio e a questo è ag­ giunto solo l'awiso: «Chi ha orecchie intenda». Il racconto rispecchia bene anche le condizioni reali del tempo . Tenendo conto di esse, non possiamo rawi­ sarvi nulla d'inverosimile, come invece richiederebbe l'ipotesi di una successiva allegorizzazione. Fa da sfondo alla narrazione l'accordo dei contadini galilei II 4

che si rivoltano contro i grandi proprietari terrieri estranei. Grandi porzioni della Galilea appartenevano allora a pochi signori stranieri, che spesso risiedevano all'estero ( cfr. Mc. r2,r, dove si dice espressamente che il proprietario di una vigna «andò in un altro pae­ se») . Solamente perché il proprietario abita lontano, i fittavoli osano trattare i suoi messi nel modo descritto dalla parabola. Essi cacciano con le brutte i due mes­ saggeri mandati in successione dal padrone a ritirare il provento della vigna; anzi, il primo lo percuotono fin quasi a ucciderlo. Pertanto il padrone deve cercare una persona di rispetto, nei confronti della quale i contadini non possano osare comportarsi a quel mo­ do. Anche la loro idea, apparentemente stolta, di po­ ter entrare in possesso della vigna togliendo di mezzo l'erede, non è assurda come sembra. A certe condi­ zioni un'eredità era considerata come un fondo ab­ bandonato ed essi avrebbero potuto appropriarsene; chi ne prendeva possesso per primo aveva il diritto di precedenza. L'apparizione del figlio fa supporre ai contadini che il proprietario sia deceduto; se ora eli­ minassero anche il figlio, la vigna sarebbe senza pa­ drone ed essi potrebbero impadronirsene. Il corso del racconto esige una progressione per descrivere l'i­ naudita malvagità dei fittavoli. Per questo il terzo in­ viato del proprietario doveva essere ucciso. Come si vede, nella versione di Tommaso manca ogni allusione a Gesù e alla sua sorte. Ciononostante essa vive dell'equiparazione del figlio con il narratore. Nella parabola Gesù narra la storia della sua missio­ ne. Essa dunque non è un racconto post-pasquale, ma è stata narrata in un momento in cui l'uccisione del figlio, ivi menzionata, incombeva minacciosa su di lui. È un appello ai suoi contemporanei affinché non giungano a fare come i vignaioli. Su questo cupo sfondo Gesù vuole dipingere l'amore del Padre che II5

va fino in fondo. Ma la parabola è anche un'invoca­ zione rivolta ai suoi nemici nel momento estremo, af­ finché si guardino dal colmare la misura e dal rigetta­ re anche l'ultimo messaggero di Dio, facendo ricorso persino alla violenza per eliminarlo. Se confrontiamo la versione del vangelo di Tom­ maso con quella di Le. , troviamo che anche in questa è quasi del tutto assente un'amplificazione allegorica, fatta eccezione per la conclusione, dove i tre sinottici aggiungono uno scambio di battute tra Gesù e i suoi ascoltatori circa l'interpretazione del Ps. n 8,22 s. Questa conclusione manca nel vangelo di Tommaso, anche se qui, subito dopo la parabola ma non in con­ nessione con essa, si trova il passo seguente, presenta­ to come il detto di Gesù no 66: «lstruitemi su questa pietra scartata dai costruttori ! Essa è la pietra angola­ re» ; si tratta della citazione del Ps. n8,22, riportata anche dai sinottici. È forse puramente casuale che il vangelo di Tommaso riporti questo detto subito do­ po la parabola, dando così un appiglio ai sinottici per aggiungere ad essa la spiegazione di questa parola del salmo? Oppure, al contrario, dobbiamo supporre che il vangelo di Tommaso riduca la versione lucana, ma conservando il detto della pietra angolare, e per­ ciò lo menzioni dopo la parabola, ma separatamen­ te? Gli esegeti propendono per la seconda opinione poiché anche altrove il vangelo di Tommaso preferi­ sce abbreviare i testi di Le. Quanto all'invio dei tre servi, Le. concorda con Mc. ( contro Tommaso ) : il primo viene malmenato e rimandato a mani vuote, il secondo viene anche insul­ tato, il terzo bastonato a sangue e scacciato. Vi è per­ ciò una certa progressione, ma senza alcuna allegoriz­ zazione. Qui Le. abbrevia l'archetipo di Mc. e toglie di mezzo tutti i tratti allegorici. Questa inclinazione alla sobrietà lo spinge anche a ridurre al minimo, nelI I6

l'introduzione, una citazione biblica, che in Mc. e in Mt. è molto più estesa, e ad annotare semplicemente che «un uomo piantò una vigna» . Riconoscere in queste parole un riferimento ad Is. 5,2, non è possibi­ le. In tal modo si evitava che tutta la parabola venisse considerata un'allegoria.

La versione di Mc. Secondo R. Pesch l'evangelista ha preso tale e quale la parabola dalla preesistente storia della passione. Se così fosse, vorrebbe dire che Gesù aveva già in mente un'interpretazione allegori­ ca: la parabola sarebbe così una metafora del destino dei profeti, precursori dell'ultimo messaggero divino. Secondo altri, che fanno risalire la parabola a Gesù, l'introduzione ha invece carattere secondario, vale a dire è stata aggiunta in un secondo tempo. Vi si fa in­ fatti libero uso del « canto della vigna» (ls. 5,1-7), che inizia con le parole: «Voglio cantare un canto per il mio amico amato, un canto per la vigna del mio dilet­ to. Il mio amico aveva una vigna su un colle fertile. La vangò, tolse i sassi e vi piantò viti scelte. Vi costruì in mezzo una torre e vi ricavò un torchio» . Nel seguito del canto si dice che il proprietario si aspettava che la sua vigna gli desse uva dolce, ma questa fece soltanto acini acerbi. Pertanto il giudizio pronunciato su di es­ sa sentenzia che non sarà più coltivata e sarà ridotta in desolazione. Nel v. 7 poi si dice: «Ebbene, la vigna del Signore degli eserciti è la casa d'Israele e gli uomi­ ni di Giuda sono le viti». Già il profeta, quindi, fa della vigna un'allegoria del popolo d'Israele. Anche nella parabola il proprietario della vigna non bada a spese per assicurarle tutte le cure necessarie. La dà in affitto a dei contadini e parte per un paese straniero, dove vivrà in conformità al suo stato sociale. Venuto il momento di raccogliere i frutti per la prima volta, vale a dire dopo cinque anni - il tempo necessario 117

perché una vigna nuova dia i primi frutti - manda un servo dai vignaioli a ritirare la parte di utile pattuita. L'espressione «a ritirare da loro la parte dei frutti del­ la vigna a lui spettante» (v. 2) suona singolarmente vaga e lascia intendere che dietro ai frutti si cela l' ob­ bedienza del popolo eletto. Eppure questo particolare non turba ancora il quadro del racconto, e nemmeno lo turba la reazione dei fittavoli; poteva accadere tal­ volta che questi cercassero di mancare ai loro obbli­ ghi ricorrendo alla violenza. Che facciano lo stesso poi una seconda e una terza volta, anche questo non è affatto inconcepibile. Sorprende invece il v. 5 , che di­ ce: «Lo stesso capitò a molti altri ancora; alcuni furo­ no bastonati, altri uccisi». Questo è un chiaro riferi­ mento alla storia d'Israele, che ha visto spesso dei profeti maltrattati e perfino uccisi. Con questa pun­ gente allusione la tradizione tratteggia la sorte dei profeti. Vi è dunque un preciso richiamo alla situa­ zione degli ascoltatori: il pericolo per Israele di stac­ carsi definitivamente da Dio. Introducendo un terzo servo che viene perfino ucciso, il narratore cerca di ottenere una progressione, che però è fuori posto, in quanto anticipa la sorte del figlio e fa perdere di vigo­ re al racconto. Anche qui abbiamo dei tratti seconda­ ri, che furono inseriti nel racconto originario solo in un secondo tempo. La pazienza del padrone della vigna non si è ancora esaurita. «Alla fine gliene restava ancora uno: il figlio diletto. Lo inviò loro per ultimo» (v. 6). «Diletto» qui equivale a «unico». Nella mente del padre questi, in quanto erede, poteva far valere i diritti di proprietà molto meglio dei servi inviati in precedenza. Qui ab­ biamo un altro chiaro richiamo alla storia della sal­ vezza: dopo l'invio infruttuoso dei profeti, Dio manda ora l'ultimo grande messaggero, di cui si sottolinea con forza il potere. I contadini comprendono la grau8

vità e l'inasprimento della situazione, ma ne traggono la conclusione opposta a quella intesa dal padre: «Su, uccidiamolo ! » (v. 7 ) . Questa è una citazione tratta alla lettera da Gen. 37,20; è la parola che si scambiano i fratelli di Giuseppe quando va da loro, mandato dal padre Giacobbe. Di certo, i destinatari cristiani inter­ pretarono in senso tipologico quest'allusione a Giu­ seppe, l'eroe della storia dei patriarchi, cioè videro in lui un esempio della sorte di Gesù. Anch'egli fu con­ dannato a morte dai fratelli; ma come la morte pre­ sunta di Giuseppe salvò tutta la sua stirpe, così anche la morte reale di Gesù diventa la salvezza del mondo. Con questo accenno a Gen. 37 è probabile che Gesù volesse soltanto porre in rilievo l'iniquità dei pensieri dei vignaioli. Il loro piano omicida faceva intravvede­ re la possibilità di ottenere il successo sperato e di en­ trare in possesso della vigna. In considerazione di ciò che si vuol dire, esso è frutto di una morbosa soprav­ valutazione di sé; Dio non può lasciare impunito un modo d'agire tanto scellerato. I contadini danno esecuzione al loro piano: afferra­ no il figlio, lo uccidono e lo gettano fuori dalla vigna; gesto di singolare malvagità, poiché così facendo ri­ fiutano di dar sepoltura al cadavere. Il narratore rivolge ai suoi ascoltatori la domanda: «Che farà ora il proprietario della vigna?» (v. 9) e con ciò li invita a valutare giustamente la condotta degli affittuali e le conseguenze della loro azione. E alla do­ manda risponde egli stesso: «Verrà e ucciderà i vi­ gnaioli e darà la vigna ad altri» . L'espressione «verrà» indica certamente la comparsa di Dio nel giudizio. Anziché «ucciderà» sarebbe più corretto tradurre «annienterà» ; la frase descrive l'azione punitiva del giudice. Essa rientra nel quadro della parabola, con la precisazione che la vigna viene affidata ad altri. Che la chiesa primitiva ascoltando queste parole pensasse a Il9

se stessa, è probabile; che Gesù stesso avesse in men­ te i suoi discepoli non si può provare, ma è ovvio. Nella versione di Mc., quindi, la parabola è anche una minaccia in vista del giudizio, un avvertimento per gli ascoltatori a non respingere Gesù, l'ultimo messaggero di Dio. Egli si reputa profeta della fine dei tempi ed «erede»; vale a dire colui che reca l'ele­ zione e la promessa. Nella parabola vuole ammonire per l'ultima volta i suoi nemici e fa loro presente il giudizio che li aspetta, se metteranno le mani su di lui. In tal caso anche a loro toccherà la sorte dei fitta­ voli della parabola. Il v. 12 descrive la reazione degli ascoltatori al di­ scorso profetico di Gesù. Lo catturerebbero volentie­ ri; ma non ne hanno il coraggio a causa della sua po­ polarità. Così lo lasciano in pace e se ne vanno. In ogni caso, hanno capito che la parabola era diretta a loro.

Un 'aggiunta della comunità primitiva. Anche se, con R. Pesch, si attribuisce la parabola così com'è a Gesù stesso, tuttavia i vv. ro s. sono da considerarsi come un'aggiunta della comunità primitiva. Essa ha fatto l'esperienza del venerdì santo e della pasqua, e nota che nel racconto non si accenna alla risurrezione del suo Signore. Pertanto gli mette sulla bocca una do­ manda: «Non avete letto la Scrittura: La pietra scar­ tata dai costruttori è diventata pietra angolare; questo ha fatto il Signore, davanti ai nostri occhi questa me­ raviglia si è compiuta?». Questo passo, preso da Ps. u8,22 s., fu interpretato dalla chiesa primitiva come prova scritturistica della risurrezione di Gesù. Secon­ do un'interpretazione giudaica i costruttori sono gli edificatori di Gerusalemme, i membri del sinedrio; dunque proprio quelle persone che mettono in atto la condanna a morte di Gesù. Una pietra angolare tiene 1 20

uniti due muri; ma la si può intendere anche come chiave di volta nell'arco. Quel Gesù che i capi d'I­ sraele hanno rigettato, quindi, viene fatto da Dio pie­ tra angolare o chiave di volta nella costruzione della nuova comunità, la chiesa. E questo ribaltamento - la risurrezione di Gesù dopo la crocifissione è la me­ raviglia operata dal Signore Dio. La comunità primitiva, dunque, intese la parabola di Gesù come difesa della risurrezione del suo Signo­ re, richiamo al piano divino di salvezza, affermazione del Salvatore crocifisso e risorto. Così, con questa ag­ giunta, da profetica minaccia del giudizio essa si è trasformata in visione retrospettiva della storia della salvezza, che poteva essere impiegata sul piano pole­ mico nei rapporti con i giudei increduli, su quello ca­ techetico nell'istruzione degli aspiranti al battesimo e su quello parenetico nell'ammonizione dei fedeli. Co­ me si è già detto, quest'aggiunta non si legge nel van­ gelo di Tommaso, mentre Luca cita soltanto il v. 22 del Salmo: «La pietra scartata dai costruttori è diven­ tata pietra angolare» . Ma, diversamente da Marco, il terzo evangelista da questo passo non deduce nulla a favore della vittoria e dell'esaltazione del Messia. Per lui la pietra non serve altro che ad attuare il giudizio (cfr. v. r8: «Chiunque cadrà su questa pietra si sEra­ celierà; ma se la pietra cadrà addosso a qualcuno, lo stritolerà»). -

La versione di Mt. Mentre in Mc. la parabola dei vignaioli contiene solo pochi tratti allegorici, Mt. l'ha trasformata per intero in allegoria. Stando alla sua re­ dazione, viene subito inviato un gran numero di ser­ vi, e già questi primi vengono in parte uccisi, in parte lapidati. Il secondo gruppo di servi, ancor più nume­ roso del precedente, subisce la stessa sorte. Evidente­ mente l'evangelista pensa ai profeti antichi e récenti, I2I

come indica soprattutto l'accenno alla lapidazione; infatti, stando a 2 Chron. 24,21, il profeta Zaccaria, che metteva in guardia gli abitanti di Gerusalemme dal castigo di Jahvé, fu lapidato nel cortile del tempio per ordine del re Ioas. Anche in Hebr. n,37 la lapida­ zione richiama la sorte dei profeti. L'equiparazione del figlio unico con Gesù è ancor più chiara. Mentre secondo Mc. 12,8 prima il figlio viene assassinato e poi il suo cadavere gettato fuori della vigna, Mt. dice che, ancor vivo, è spinto fuori dalla vigna e là fatto morire. Si tratta senza dubbio di un'allusione alla crocifissione di Gesù, che è avvenuta fuori Gerusalemme ( cfr. Io. 19,17: «Portando la cro­ ce, uscì verso il luogo detto del Cranio, chiamato in ebraico Golgota», e Hebr. 13,12 s. : «Perciò anche Ge­ sù ha patito . . . fuori della porta della città. Andiamo dunque fuori, verso di lui, davanti all'accampamento e prendiamo su di noi il suo obbrobrio» ) . Abbiamo qui un rivestimento cristologico della parabola. Mt. conclude dicendo: «Perciò vi dico: Il regno di Dio vi sarà tolto e sarà dato a un popolo che porterà i frutti attesi» (v. 43 : il v. 44, di dubbia autenticità, in ogni caso è fuori contesto, e quanto al senso andrebbe meglio con il v. 42) . Questa frase dimostra che Mt. ha inteso la parabola come un'allegoria. Egli vedeva in essa uno schizzo della storia d'Israele e il preannuncio del nuovo inizio, dopo il naufragio d'Israele, con il popolo dei credenti in Cristo (gli «altri» vignaioli, v. 41) . Secondo Mt. la parabola deve illustrare il cambio dato dal nuovo popolo del Messia Gesù al popolo di Dio veterotestamentario. Il vangelo di Mt. fu scritto per una comunità che non viveva più nell'ambito del giudaismo; pertanto la questione del rapporto tra Israele e la chiesa destava profondo interesse nei suoi membri. Nella parabola di Gesù essa riconobbe il giudizio pronunziato sull'Israele sterile; così l'evange122

lista poté far dichiarare dal Signore anche la separa­ zione del nuovo popolo di Dio da quello vecchio. Da quanto si è detto risulta che la parabola dei vi­ gnaioli ha preso forma passando attraverso tre fasi: r · fase: in bocca a Gesù essa era indirizzata ai con­ temporanei increduli, soprattutto ai capi del popolo, e con la minaccia del giudizio doveva richiamarli un'ultima volta alla conversione. 2• fase: lo stadio dell'interpretazione cristologica soggiacente a Mc. identifica il figlio della parabola con il Messia Gesù. La morte non può esser l'ultima parola che lo riguarda; perciò la minaccia profetica del giudizio viene sviluppata e rincarata con l' affer­ mazione della vittoria di Dio nella resurrezione del Messia (Mc. r 2 , r r ) . Il Sitz im Leben di questo stadio è la giovane chiesa del tempo nel quale prende forma la professione di fede messianica. 3 • fase: la versione di Mt. Questa ha il suo Sitz im Leben in una comunità che ha ripensato il suo rap­ porto con Israele. Per essa la questione primaria non è più di sapere se Gesù sia il vero Messia, quantunque essa si fondi su questa affermazione; le importa di più conoscere quale è il vero popolo di Dio, se Israele o la chiesa. Nella parabola di Gesù essa trova formulato il giudizio su un falso Israele, e insieme quello sull'I­ sraele vero, cristiano, e spiega con chiarezza questi due pensieri.

CAPITOLO NONO

AGIRE DECISAMENTE

Dalla predicazione di Gesù sull'ultimo tempo di gra­ zia concesso agli uomini perché si convertano prima dell'avvento del regno di Dio, si ricava la necessità di esser decisi nello sfruttare questo periodo. Diverse parabole vogliono illustrare questo pensiero.

L'amministratore infedele (Le. r6,r-8) In questa parabola, propria di Le., si parla di un ricco proprietario terriero, che affida l' amministrazio­ ne dei beni a un «fattore», cioè un dipendente con pieni poteri. Egli viene accusato presso il padrone di sperperare i suoi averi. Questi lo manda a chiamare e gli chiede un ultimo rendiconto, dato che il suo allon­ tanamento è già deciso. Il fattore non tenta neppure di discolparsi; tra sé e sé (vv. 3 s.) pensa solo ad assi­ curarsi il suo avvenire materiale. A lavorare nei campi non pensa affatto. L'unica possibilità di salvarsi gli è offerta da un grosso imbroglio. Pensa a legare a sé i debitori del padrone, affinché una volta allontanato lo aiutino. Dobbiamo raffigurarci questi debitori come grossisti che hanno ottenuto dall'amministratore for­ niture di merci contro titoli di debito. Uno gli deve, o meglio deve al suo padrone, roo bath d'olio ( 1 bath equivale a circa 40 litri) del valore complessivo di cir­ ca rooo denari (un denaro è quanto un franco d'oro, equivalente al salario giornaliero di un bracciante agricolo) . A questo condona la metà del debito, gli regala quindi, a spese del proprietario, 500 denari. Un 125

altro gli deve roo kor di grano ( r kor 364 litri), per complessivi 2500 denari. A questo condona un quinto del debito, quindi altri 500 denari. Secondo un'altra esegesi questa manipolazione del­ l'amministratore non sarebbe una nuova frode ai dan­ ni del padrone. Egli non avrebbe fatto altro che por­ tare il debito al giusto prezzo, condonando solo la somma in eccesso che egli aveva richiesto con l'inten­ zione d'intascarla per sé. Ma quest'interpretazione s'addice meno al senso originario della parabola. A questo punto si legge l'enigmatico v. 8a, che ha creato parecchie difficoltà agli esegeti: «E il padrone lodò l'accortezza di quell'amministratore disonesto». Chi è questo padrone? Secondo molti interpreti è il proprietario, che, informato della nuova malefatta dell'amministratore, direbbe: È proprio un furfante, ma bisogna dire che agisce con scaltrezza ! In base a quest'interpretazione il v. 8a fa ancora parte del di­ scorso di Gesù. La lode del padrone non si riferisce dunque alla frode, ma alla decisione con cui l'ammi­ nistratore ha agito per assicurarsi l'avvenire. Secondo un'interpretazione recente il v. 8a andreb­ be tradotto così: «E il padrone maledisse l'ammini­ stratore infedele, perché aveva agito subdolamente». Cioè condannerebbe il suo modo d'agire fraudolento. Questa traduzione è possibile, poiché in ebraico «lo­ dare» e «accorto» hanno duplice senso e possono es­ sere usati anche in malam partem. Portando dall'ara­ maico in greco la parabola di Gesù, il traduttore ha inteso queste due espressioni solo in senso positivo. Ma se così è risulta difficile cogliere esattamente il pensiero centrale della parabola. Gesù intendeva ve­ ramente presentare come modello la tenace volontà e l'astuzia dell'amministratore; non voleva esprimere un giudizio morale sulla sua condotta riprovevole. =

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L'interpretazione lucana. Con la maggioranza degli interpreti odierni si deve ammettere che il v. 8a non fa più parte del discorso di Gesù. Infatti Le. dicendo «il padrone» intende sempre Gesù, cioè il Signore. Quindi è l'evangelista che, in una frase di sua creazio­ ne, aggiunge la sentenza conclusiva di Gesù. Ma è chiaro che anche per lui la lode non è data alla mora­ lità del comportamento dell'amministratore, ma alla decisione e alla tenacia di propositi con cui egli ha agito, assicurandosi una nuova esistenza. Da questo punto di vista egli può veramente servire da modello ai discepoli. Anch'essi devono comprendere l'impera­ tivo dell'ora, cioè l'imminente irruzione del regno di Dio, e agire di conseguenza con abilità e risolutezza in vista del futuro. Anche il v. 8b : «l figli di questo mondo nei rappor­ ti coi loro pari sono più scaltri dei figli della luce», certamente non appartiene alla parabola originale; quindi questa spiegazione non risale a Gesù. Si tratta di un'aggiunta dell'evangelista, o di qualcun altro pri­ ma di lui, nell'intento di spiegare la singolare lode di Gesù e metterla al sicuro da ogni equivoco. Egli in­ tendeva dire: Gesù non lodò la furberia dell'ammini­ stratore; le truffe come queste, messe a segno scaltra­ mente, si trovano soltanto tra coloro che sono schiavi di questo mondo. Qui si sente anche una tacita accu­ sa: rispetto ai figli del mondo i cristiani si rivelano spesso fiacchi e scarsamente determinati nell'agire. Anche il v. 9 è un'aggiunta secondaria, e inoltre dà alla parabola un'interpretazione del tutto diversa: «lo vi dico : Fatevi degli amici con l'aiuto dell'ingiusto mammona, affinché, quando (per voi) sarà la fine, vi accolgano nelle dimore eterne. L'amministratore di­ venta così un modello per il saggio impiego del dena­ ro. Al posto del richiamo alla vicinanza del regno di Dio, che premeva a Gesù, troviamo ora un'esortazio! 27

ne ad usare la ricchezza per opere di bene. Evidente­ mente l'autore di questo versetto ha interpretato alle­ goricamente anche il v. 4: coloro dai quali l'ammini­ stratore spera di essere accolto in casa dopo il licen­ ziamento, sono i poveri; essi accompagneranno il cri­ stiano nelle dimore eterne dopo la sua morte. Il tema della beneficenza verso i poveri sta molto a cuore a Le. ; si veda per esempio 18,22: «Vendi tutto quello che hai, distribuiscilo ai poveri e avrai un tesoro du­ raturo in cielo». È dunque l'evangelista che ha aggiunto il v. 9 alla parabola; con l'introduzione «lo vi dico» egli dà mag­ gior vigore alla frase da lui aggiunta. Vuole che s'in­ tenda la parabola come un'esortazione a dare in ele­ mosina. Le parole «quando sarà la fine» (la traduzio­ ne unitaria aggiunge «per voi») possono intendersi come riferite alla morte dell'uomo. Tuttavia questa frase potrebbe esser riferita anche alla ricchezza: «quand'esso ( cioè l'ingiusto mammona) scomparirà». Allora il denaro, che non può seguire l'uomo dopo morte, si contrappone ai beni eterni, il «tesoro celeste che non si esaurisce» (Le. 12, 3 3 : il termine greco che significa «scomparire» ha la stessa radice del verbo impiegato nel v. 9) . Il momento in cui è bene avere amici, secondo Le. , non è il giorno del giudizio universale, m a quello del­ la morte del singolo cristiano. Alla morte l'uomo è privato dell'amministrazione dei beni affidatigli. Que­ sta applicazione è verosimile poiché in Le., più che negli altri evangelisti, si parla della morte individuale e del giudizio che si terrà quel giorno (cfr. 16,19-3 1 ) . Anche i w . 10-12 non appartengono alla parabola originale, ma sono stati messi qui di proposito dall'e­ vangelista e ne costituiscono un'ulteriore interpreta­ zione. L'amministratore infedele non è più presentato come modello, ma come esempio deterrente. Il pro!28

verbio ha probabilmente avuto origine nell'ambito di una comunità cristiana e vuoi fissare un criterio per la designazione dei capi della chiesa; a persone che non maneggiano coscienziosamente il denaro della comu­ nità, tanto meno si può affidare l'annuncio della dot­ trina cristiana. Il concetto è senz'altro giusto; ma non può esser considerato come una spiegazione che si tenga fedele al senso della parabola, e men che meno come parola autentica di Gesù.

Il ricco e Lazzaro, il povero (Le. r6,r9-3 1 ) All'esempio dell'amministratore infedele m a scal­ tro, l'evangelista contrappone il racconto del ricco che non si curava del suo futuro. Il v. 14, di sua crea­ zione, serve a collegare i due brani: «Anche i farisei, che erano molto attaccati al denaro, ascoltavano tutte queste cose e si beffavano di lui». Il ricco della suc­ cessiva parabola, propria di Le. , è l'immagine concre­ ta di un uomo preso da tale avidità. Che in questa parabola Gesù si sia rifatto a una tra­ ma narrativa nota ai suoi ascoltatori, è certo. In una favola egiziana, probabilmente portata in Palestina da ebrei alessandrini, così come in un racconto rabbini­ co, si parla del ribaltamento della sorte nell'aldilà. Nella versione rabbinica questo tema viene illustrato con la storia di uno scriba povero e di un ricco pub­ blicano. Se Gesù non dà speciale rilievo alla colpa del ricco, è perché poteva presupporre che i suoi ascolta­ tori conoscessero l'argomento. Dell'uomo, a cui non dà nome, dice soltanto che amava vestire abiti elegan­ ti e banchettare ogni giorno. Il povero è presentato come paralizzato e colpito da una malattia della pelle. Però ha nome Lazzaro ( Dio aiuta) ; non è quindi uno qualunque: Dio lo co­ nosce e lo soccorre nel suo bisogno. Egli giace davan=

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ti al portone del palazzo del ricco; le piaghe, l'assedio dei cani randagi, la brama dei resti gettati con noncu­ ranza dagli ospiti che gozzovigliano sono tutti tratti miranti a dipingere l'estrema miseria in cui giace Laz­ zaro. Dato che per la dottrina ebraica del contrac­ cambio la disgrazia ha origine da una colpa, il contra­ sto stridente fra il ricco e il povero veniva percepito in quel tempo come del tutto naturale. Nella parabola Gesù contraddice questa concezio­ ne. Dopo morte le situazioni sono ribaltate. Dappri­ ma viene narrata la morte del povero, che è portato dagli angeli nel seno di Abramo. L'Antico Testamento usa un'immagine analoga per descrivere la morte dei giusti: essa è un «andare presso i padri» (ad es. Gen. 15, 15) . La locuzione «nel seno di Abramo» si spiega con l'idea di un banchetto, nel quale l'ospite d'onore sta alla destra del p adron di casa (come il discepolo amato, secondo Io. 13,23, sta alla destra di Gesù nel­ l'ultima cena) . Dopo la morte il ricco va nell' «ade» (designazione greca del regno dei morti) . Nelle raffigurazioni vetero­ testamentarie questo era un regno delle ombre, nel quale i morti, buoni e malvagi, conducono un'esisten­ za grigia. Il Nuovo Testamento distingue nettamente l'ade, la dimora intermedia dei defunti, dalla Geenna, che è l'inferno finale. Nella parabola, dunque, non si tratta della condizione definitiva. Tuttavia per il ricco anche questo regno intermedio è luogo di penosi tor­ menti. In questo stato intermedio, secondo un'idea corrente nel tardo giudaismo, i giusti vedono i pecca­ tori, e viceversa. Così il ricco può scorgere diretta­ mente la felicità di Lazzaro. Le loro parti si sono in­ vertite: sulla terra Lazzaro stava solo a guardare i banchetti del ricco; ora invece è ospite, e il ricco deve stare a vedere. Fra i tormenti egli si rivolge ad Abramo, del quale è

discendente, essendo giudeo credente, e lo fa con un'umile supplica. Gli chiede di mandare da lui Laz­ zaro, perché rechi refrigerio alla sua lingua, bagnan­ dola con due gocce d'acqua. È una supplica che dice quanto grande è il suo tormento. Da qui non occorre desumere che la pena dell'inferno consista nel fuoco vero e proprio. Il nostro passo non è una descrizione dell'aldilà, ma rende per immagini la sorte contraria del ricco epulone e del povero Lazzaro. La risposta del patriarca, presa in sé, conferma la dottrina ebraica del contraccambio, secondo la quale nell'aldilà awie­ ne un ribaltamento delle circostanze terrene. Lazzaro ha sofferto in terra e ora viene consolato; il ricco è vissuto tra i piaceri e ora deve soffrire. Tuttavia la pa­ rabola non vuole semplicemente consolare quelli che soffrono qui in terra facendo loro brillare la speranza di un aldilà migliore; essa intende mostrare loro quel che devono fare adesso per ottenere un giorno la feli­ cità eterna. Senza dirlo espressamente, il racconto è un severo ammonimento a prendersi fraternamente cura dei bisognosi. L'empietà e la durezza di cuore verso i poveri saranno punite nell'aldilà; la rassegna­ zione al volere di Dio avrà la sua ricompensa. La pro­ fonda voragine che separa il paradiso dall'ade (v. 26) è un'immagine dell'irreversibilità del giudizio divino; quand'anche lo volesse, Abramo non potrebbe aiuta­ re il ricco. Con una seconda supplica, che l'epulone rivolge dai tormenti al patriarca, l'accento del racconto viene spostato. Siamo nuovamente in presenza di una para­ bola a due vertici, in cui il peso maggiore cade sulla seconda parte. Gesù non l'ha narrata per prender po­ sizione sul problema della ricchezza e della povertà o per fornire ragguagli sulla vita nell'altro mondo, ma per mettere in guardia la gente che vive come il ricco di fronte al destino incombente. Ora al centro della

parabola non sta più Lazzaro, ma i cinque fratelli del ricco che, come lui, sono uomini che pensano solo al presente e sono esposti alla medesima sorte del loro fratello defunto. Questi chiede dunque ad Abramo di mandare Laz­ zaro dai suoi parenti per metterli in guardia affinché non abbiano a condividere la sua sorte. Parlando del­ l'invio il ricco pensa a un'apparizione in sogno. Ma anche questa supplica viene energicamente respinta. Se gli abitanti della terra ascolteranno Mosè e i profe­ ti, non avranno a soffrire nell'aldilà. E poiché il ricco insiste dicendo che il ritorno sulla terra di un morto sarebbe un segno che porterebbe a conversione anche i peccatori ostinati, Abramo gli risponde: «Se non ascoltano Mosè e i profeti, non si lasceranno persua­ dere nemmeno se uno risuscitasse dai morti» (v. 3 1 ) . In tal modo la richiesta di prove miracolose viene smascherata come indizio di poca fede. Chi non crede alle Scritture non sarà indotto alla conversione nem­ meno da un miracolo. Così il racconto sfocia in una chiara ammonizione a cercare la salvezza percorrendo la via consueta dell'obbedienza alla parola di Dio. Es­ so risponde pure alla pretesa di un segno avanzata dagli avversari di Gesù (cfr. Mc. 8,u-r 3 ) . Una tale pretesa è segno di impenitenza; perciò egli rifiuta di esaudirla. Si può immaginare anche che con l'accenno alla risurrezione dai morti s'intenda rispondere a certi membri della comunità cristiana, che domandavano perché mai soltanto pochi, e non anche loro, erano stati testimoni della risurrezione.

L'interpretazione dell'evangelista. Possiamo riassu­ merla nella formula: fate tesoro del tempo che prece­ de la morte ! Come nella parabola dell'amministratore infedele, anche qui Le. vede illustrato il repentino cambiamento di situazione che avviene al momento

della morte, indipendentemente dal giudizio escatolo­ gico ( che qui non è affatto menzionato). La spiegazio­ ne che Abramo dà al ricco nell'ade: «Ricorda che tu hai già ricevuto la tua parte di bene durante la vita, Lazzaro al contrario soltanto il male. Ora invece egli è consolato, mentre tu devi soffrire» (v. 25), distingue dunque la vita terrena da quella dopo morte. Anche Gesù opera una distinzione simile a questa nelle bea­ titudini e nei guai del discorso della montagna, in Le. 6,20-26. Diversamente da Mt. 5,3-12, l'evangelista aggiunge per quattro volte «ora»: «Beati voi che ora avete fame, che ora piangete», ecc. Questo «ora» cor­ risponde al tempo che nella nostra parabola è indicato con l'espressione «durante la vita». Coloro che ora soffrono ricevono la consolazione promessa al mo­ mento del passaggio nell'aldilà. Le. mostra quindi un interesse particolare per la sorte dell'individuo dopo la morte. Per lui l'awenire del mondo si fa presente al momento della morte. Egli non dimentica il destino di tutta l'umanità; tuttavia vuole ricordare al singolo cristiano di adoperare bene il presente, che ha valore per l'eternità, perché il giorno della morte decide in maniera definitiva del suo destino. ]. Dupont, Die individuelle Eschatologie im Lukasevangelium und in der Apostelgeschichte, in Orientierung an Jesus. Fest­ schr. Schmid, Freiburg 1973, 37-47.

Il cammino verso il giudice (Mt. 5,25 s . ; Le. 12,58 s.) Questa breve parabola si trova in Mt. e Le. che presentano alcune divergenze testuali e la inseriscono in contesti completamente diversi. Rispetto alla ver­ sione di Mt. , il testo lucano sembra più vicino al detto originario di Gesù. La parabola parla di una lite giu­ diziaria. Il verdetto è prossimo; bisogna quindi sfrut133

tare l'ultimo momento, prima che sia troppo tardi. Un tale ha un debito, ma si rifiuta di saldarlo o di resti­ tuire un prestito. Perciò il suo creditore lo denuncia al magistrato. Se il processo ha luogo, la causa segue il corso normale: il debitore si presenta al giudice, questi lo consegna all'esecutore giudiziario, che lo mette agli arresti per debiti, finché non avrà pagato anche l'ultimo centesimo. Come mostra Mt. r8,25, in casi del genere, per mettere insieme la somma dovuta il debitore poteva esser venduto lui, la moglie, i figli e tutti gli averi; oppure veniva torturato e costretto a confessare dove aveva nascosto il denaro (v. 34) . Per sottrarsi a questa minaccia non c'è che una via d'uscita : mentre i due litiganti sono ancora in cammi­ no verso il giudice, il debitore deve cercare di liberar­ si del suo awersario mettendosi d'accordo con lui. Ora questo è ancora possibile; ma la strada verso il giudice è breve, la soluzione del caso è imminente. Con questa parabola Gesù vuol dire ai suoi udito­ ri: anche voi vi trovate in una condizione altrettanto grave; siete sotto la minaccia dell'imminente giudizio, della condanna e della prigione. Perciò adoperate l'ultimo lasso di tempo per risolvere la questione. Tutto il contesto di Le. 12,35-59 contiene moniti alla conversione suggeriti dalla gravità dell'ora. La nostra parabola fa dunque parte di quelle, numerose, in cui Gesù, in vista della vicina fine dei tempi, inten­ de esortare i suoi uditori a convertirsi, a credere in lui e nel suo messaggio. Questo carattere escatologico della parabola è conservato e sottolineato dal contesto lucano. In Mt. il contesto è completamente diverso. Qui il passo fa parte del discorso del monte e rientra nella prima antitesi, la quale proibisce l'odio. In 5,2 3 s., ap­ pena prima della parabola del giudice, si trova il seve­ ro detto sulla necessità di riconciliarsi col fratello pri134

ma di presentare un'offerta: «Lascia lì il tuo dono da­ vanti all'altare: va' prima a riconciliarti con il tuo fra­ tello, poi vieni ad offrire il tuo dono». Se uno pensa di rendersi propizio Iddio con un'offerta, senza prima riconciliarsi col fratello, presta un culto menzognero. A questo precetto Mt. collega la parabola del cam­ mino verso il giudice. Anch'essa parla della riconcilia­ zione con l'avversario finché i due sono ancora per strada. Ecco quindi l'ammonizione a compiere il pri­ mo passo, e senz'indugio, poiché potrebbe essere pe­ ricoloso vantare il proprio presunto diritto e lasciare che il processo giunga davanti al giudice. Il monito escatologico di Gesù si è così trasformato in istruzione morale; l'accento si è spostato dall'esca­ tologia alla parenesi. In Le. lo sguardo è rivolto all'a­ gire di Dio, il quale ha il potere di condanare e puni­ re; in Mt. viene in primo piano il comportamento del discepolo. Ciò non significa che in Mt. sia completa­ mente scomparso il contenuto escatologico della pa­ rabola; tuttavia esso viene presentante come concreta esigenza della riconciliazione. L'ammonimento a ri­ conciliarsi con Dio è diventato un invito alla riconci­ liazione con il prossimo. In entrambi i casi si tratta di riconciliazione; quella con i nemici umani è la pre­ messa di quella con il giudice divino.

La costruzione della torre e l'entrata in guerra (Le. 14,28-32) Della serietà richiesta per stare al seguito di Gesù parla un brano di Le. composto da diversi frammenti tradizionali ( 14,25-35). Esso tratta delle condizioni imposte a chi si mette al suo seguito. Come dice il v. 25 d'introduzione, composto dall'evangelista, queste parole sono indirizzate alle persone che accompagna­ vano Gesù nel viaggio verso Gerusalemme. 135

La parte centrale della pericope (vv. 28-32) è pro­ pria di Le. e riporta la doppia parabola della costru­ zione della torre e dell'entrata in guerra. Essa vuol di­ re che prima di porsi al seguito di Gesù bisogna pen­ sarci bene. Chi non calcola le sue forze corre il rischio di fallire nell'impresa. La parabola della costruzione della torre è presa dalla vita di un uomo comune, che vuole innalzare una torre (o meglio un fabbricato ru­ rale). Evidentemente, si pensa a un grosso edificio, poiché già le fondamenta comportano alti costi. Pri­ ma di iniziare a costruire, l'uomo calcola le spese e si chiede se i suoi mezzi basteranno. Altrimenti potreb­ be succedergli di finire il denaro dopo aver solo get­ tato le fondamenta e di dover così abbandonare il progetto, fra gli scherni dei vicini. La seconda parabola parla di un re sul punto di en­ trare in guerra. Prima di scendere in campo contro un nemico, anch'egli siede e riflette se con un esercito di diecimila uomini può affrontare un nemico forte di ventimila. È chiaro che la cosa non va; così, mentre il nemico è ancora lontano, invia un'ambasciata a chie­ dere la pace, vale a dire a fare atto di sottomissione. Le due parabole mettono dunque in guardia dal met­ tersi al seguito di Gesù senza matura riflessione. Me­ glio non cominciare affatto, piuttosto che far le cose a metà. Anche qui è necessario agire decisamente. Il v. 3 3 , anch'esso opera dell'evangelista, enuncia chiaramente il senso della doppia parabola: solo chi rinuncia a tutti i suoi averi può essere discepolo di Gesù. Questo è proprio il contrario del caso di colui che costruisce la torre. Costui deve possedere un pa­ trimonio che gli permetta di realizzare il proprio pro­ getto; dal discepolo di Gesù si richiede di dare tutti i suoi averi. È difficile trovare altrove nei vangeli una presentazione altrettanto incisiva della serietà e della radicalità occorrenti per seguire Gesù. Il termine «riI36

nunciare» (apotdssein) , qui impiegato da Le., in segui­ to è diventato una parola d'ordine del monachesimo farsi monaco). cristiano (ap6taxis =

I servi inutili (Le. 17,7-ro) Questa breve metafora (propria di Le. ) si legge in un contesto nel quale risulta rivolta ai discepoli. Se però, com'è probabile, essa risale a Gesù stesso, allora s'indirizzava piuttosto alla folla, oppure ai farisei; in­ fatti condanna chi ha il torto di attendersi una ricom­ pensa e la dottrina farisaica, secondo la quale l'uomo può far valere davanti a Dio dei diritti in base alle sue buone opere. La metafora è presentata in forma di domanda (w. 7-9) ; l'applicazione agli uditori è una dichiarazione. Essa presuppone le condizioni economiche di un pic­ colo proprietario agricolo. Un contadino come questo poteva permettersi di avere un solo schiavo, che do­ veva attendere tanto al lavoro nei campi quanto al servizio domestico. Quando questo schiavo, la sera, rientra stanco dai campi, non può mettersi senz' altro a tavola a mangiare, ma deve prima preparare la cena e servire il padrone. Solo allora può anch'egli levarsi la fame. E non può neppure contare su un particolare ringraziamento da parte del padrone, dopo averne eseguito docilmente gli ordini. Secondo la mentalità del tempo, in quanto schiavo egli è proprietà del pa­ drone, che può fare di lui ciò che vuole. Gesù presuppone questi rapporti, ritenuti naturali, per trasferirli sul piano religioso : «Così dev'essere an­ che tra di voi: Quando avrete fatto tutto quello che vi è stato ordinato, dite: Siamo schiavi inutili; abbiam fatto soltanto il nostro dovere» (v. ro). Il termine usa­ to nel testo originale per «inutili)) può significare an­ che «buoni a nulla, miseri)). Si tratterebbe dunque di 13 7

una espressione retorica di modestia. Il pensiero di Gesù si può riassumere così: l'uomo non può presen­ tarsi a Dio accampando pretese di nessun tipo. Sareb­ be sbagliato riferire questa metafora all'immagine che Gesù si faceva di Dio e dedurne che lo considerasse come un tiranno che sfrutta in modo indegno chi lo venera. Altrove (Le. 12,37) Gesù si presenta come un padrone che (al suo ritorno) fa ai servi esattamente quanto il padrone della nostra parabola pretende dal­ lo schiavo : «Si cingerà le vesti, farà loro prender posto a tavola e passerà a servirli». Non si tratta né di approvazione della schiavitù, né di rifiuto totale dell'idea di ricompensa. Gesù respin­ ge soltanto la convinzione di alcuni, che credono di poter accampare dei diritti alla ricompensa celeste per aver osservato scrupolosamente i comandamenti divini. Servire Dio, adempiere la sua volontà, per una creatura non è che un fatto naturale; non si può per questo pretendere una ricompensa. Rivolta ai disce­ poli di Gesù, la parabola ha il valore di tutte le sue istruzioni. Egli li invita all'umiltà e alla carità. Ora la carità non si contenta di compiere ciò che è dovuto, ma è pronta ad andare spontaneamente al di là di quello che viene assolutamente richiesto.

CAPITOLO DECIMO

IL REGNO COMPIUTO

In alcune parabole che parlano del regno o della si­ gnoria regale di Dio, l'attenzione si sposta anche sul regno ormai compiuto. Le cose che là aspettano l'uo­ mo non sono descritte nei particolari. Gesù ricorre per lo più a immagini e allusioni, piuttosto che ad af­ fermazioni chiare; occorre pertanto comporle come pietruzze di un mosaico per potersi fare un'idea del regno perfetto. Le parole di Paolo ( I Cor. 2,9) : «Noi predichiamo . . . ciò che nessun occhio ha mai visto, né orecchio udito, ciò che non è passato nella mente di alcun uomo: quello che Dio ha preparato per coloro che lo amano», potrebbero valere anche per la predi­ cazione di Gesù: essa ha per oggetto il mistero del re­ gno di Dio, il quale però si può tradurre in concetti umani solo mediante allusioni. Nel regno compiuto Dio è re; siede sul trono con il figlio dell'uomo alla sua destra (Mc. 14,62 ) . In questo regno non vi è posto per Satana e i suoi seguaci (Mt. 25,41 ) . I giusti sono diventati immortali e figli di Dio (Le. 20,36) e possono vederlo (Mt. 5,8), la loro eredità è la vita eterna (Mt. 19,29), siedono alla mensa del fi­ glio dell'uomo (Le. 22,29 s . ) e hanno parte al suo tro­ no e alla sua sovranità (Mt. 19,28) . Fame e sete sono estinte, il pianto lascia il posto al godimento (Le. 6,2 ! ) . Le parabole di Gesù sottolineano ripetutamente che soltanto chi si è convertito e si è messo alla sua sequela entrerà nel regno finale. Nel tempo presente, che ne è solo l'inizio, i giusti convivono con i peccatoI39

ri; la divisione ha luogo solo con il giudizio finale (cfr. Mt. 25, 3 1 -46; v. pp. 68 ss. ) . Fra i testi propri di Mt. troviamo due parabole, le quali vogliono mostrare che una divisione fra buoni e malvagi non è possibile in questa vita, ma avviene solo nel giudizio finale.

La zizzania in mezzo al grano (Mt. 1 3,24-30) La parabola potrebbe prender le mosse da un fatto reale. Nella Palestina odierna si narra qualcosa di si­ mile. Un povero contadino aveva fatto pascolare il suo bestiame su terreno altrui. Il proprietario lo denun­ ciò, e quello fu punito. Per vendicarsi raccolse nella valle le sementi della pianta di palude che vi cresceva e gettò i semi sul campo arato di fresco del vicino, e quello fu presto ricoperto di fitta erba palustre. Nel racconto di Gesù un proprietario terriero ha seminato del buon seme nel suo campo. Un suo ne­ mico viene di notte e vi semina sopra della zizzania, probabilmente il cosiddetto lolium temulentum, che in un primo tempo ha un aspetto del tutto simile a quello del grano giovane, ma presto diventa molto più grosso e minaccia di soffocare il grano. Cresciuta la semente, i servi scoprono la zizzania e riferiscono la cosa al padrone. Subito questi sospetta l'opera di un nemico. I servi gli chiedono : «Andiamo a strapparla?» (v. 28) . La domanda non è così stolta come sembra: era uso normale sarchiare il loglio, anche più volte, perché il grano crescesse meglio. Ma il proprietario è di parere diverso. Egli teme che, per la grande quan­ tità della zizzania, i servi possano strappare insieme ad essa anche il grano, che ha radici più deboli. Solo al momento della raccolta si ordinerà ai mietitori di non legare anche il loglio nei covoni, ma di raccoglierlo in mannelli a parte e !asciarlo seccare, perché serva da

comb � stibile. Soltanto il grano dev'essere portato nei granai. Che cosa ha a che fare la parabola con la regalità di Dio? Possiamo capirlo dall'accenno alla raccolta. Già nei profeti la raccolta è un'immagine fissa per il giu­ dizio (cfr. Ioel 4,1 3 , ecc . ) . Anche nella nostra parabola il giudizio è in vista, ma non costituisce il tema vero e proprio della narrazione. Qui non si descrive lo svol­ gimento della raccolta; questa viene menzionata solo incidentalmente nelle parole del proprietario. Il cen­ tro del racconto è piuttosto il dialogo tra i servi e il padrone, nel quale si tratta il problema del campo de­ vastato dalla zizzania e si propone anche di sarchia­ re il laglio. Ma il proprietario decide diversamente. Questo è il punto fondamentale. Egli rifiuta di risol­ vere il problema al momento e chiede pazienza sino alla raccolta, quando si troverà una soluzione. Forse anche gli uditori di Gesù erano impazienti di risolvere un problema simile? Sì. Un problema anti­ chissimo, divenuto di estrema attualità proprio in quel tempo, era l'esistenza dei malvagi nel mondo. Già nei salmi ( ad es. Ps. IO e 73) ci si chiede perché mai Dio lasci che il malvagio prosperi e si espanda impunemente. Per i seguaci di Gesù il problema si pone con rinnovata urgenza: il malvagio non dovreb­ be forse scomparire, adesso che il tempo messianico, il dominio regale di Dio, si è fatto vicino? Non sareb­ be questo il momento propizio di aiutare i poveri e gli oppressi a far valere il loro diritto? In quel tempo non mancavano tentativi di realizzare la comunità santa dell'era finale. I farisei, per esempio, pretende­ vano di essere il vero popolo di Dio, separato da tutti gli impuri e peccatori. Anche la setta degli esseni - il cui nome stesso è sintomatico, significando i devoti, i santi - credeva di essere il popolo della salvezza della fine dei tempi. E

Giovanni Battista vedeva nel Messia in arrivo l'uomo che avrebbe diviso la pula dal grano (Mt. 3 , r2) e vole­ va p reparargli una comunità senza peccato. E probabile che anche alcuni dei discepoli di Gesù si aspettassero che egli separasse allo stesso modo il bene dal male e gliene facessero richiesta. La risposta di Gesù non è diretta, ma coperta dal velo della no­ stra parabola, destinata a indurre chi chiedeva que­ sto a riflettere sui decreti divini. Dio vuole che l'uo­ mo affronti sino alla fine con pazienza la sua esisten­ za terrena, sempre minacciata dall'ingiustizia e dalla malvagità altrui, e che la sua speranza nella fedeltà divina non vacilli. Questa pazienza è necessaria per due motivi, che sono indicati nella parabola. r . Gli uomini non sono affatto in grado di separare il bene dal male. Come il grano e il loglio in un primo tempo sono tanto simi­ li da poter essere scambiati, così avviene anche per i veri discepoli e i finti credenti. Se gli uomini volesse­ ro mettersi a separare i buoni dai cattivi, non dareb­ bero che giudizi fallaci e correrebbero il rischio di condannare i discepoli veri insieme con quelli falsi. 2. Dio ha stabilito l'ora della divisione. La semente deve prima giungere a maturazione; poi viene la raccolta e con essa la separazione della zizzania dal grano. Solo allora la comunità di Dio viene liberata da tut­ ti i malvagi e dai falsi credenti, e il regno di Dio può presentarsi in tutto il suo splendore. Ma questo mo­ mento non è ancora giunto. Dio dà ancora agli uomi­ ni un termine per la conversione. Finché esso non scade, bisogna evitare ogni falso zelo e attendere con pazienza l'ora di Dio. Che la schiera dei discepoli non formi ancora una comunità di soli santi e che solo alla fine avvenga la separazione tra bene e male, è una ve­ rità asserita anche altrove da Gesù, ad es. in Mt. 7,212 3: nel giorno del giudizio finale molti si appelleranno

al giudice dicendo di aver avuto il dono della profezia e operato miracoli nel nome di Gesù; ma la sua rispo­ sta suonerà: «Non vi conosco. Via da me, trasgressori della legge ! ».

L'interpretazione della parabola della zizzania (Mt. 13,36-43) La parabola della zizzania tra il grano ha un paral­ lelo nel vangelo di Tommaso (57), dove appare in una versione molto concisa. Anche qui il proprietario del campo proibisce ai servi di strappare il loglio, e il rac­ conto termina con la frase: «Il giorno della raccolta, infatti, il loglio si rivelerà. Lo strapperanno e lo bru­ ceranno». Manca quindi ogni spiegazione. Invece Mt. 13 ,36-43 (dunque non subito dopo la parabola) ne ri­ porta una, che Gesù dà ai discepoli dietro loro richie­ sta. Anche qui occorre ripetere quanto si è detto in precedenza (v. pp. 27 s.) circa la spiegazione della pa­ rabola del seminatore: è certo che si tratta di una creazione dell'evangelista, che ha trasformato la para­ bola in allegoria. L'uomo che sparge il buon seme è il figlio dell'uomo, il campo è il mondo, il buon seme rappresenta «i figli del regno», la zizzania i «figli del maligno»; il nemico è il diavolo, la raccolta la fine del mondo, e gli angeli sono gli operai che fanno la rac­ colta. Sorprende poi che non si accenni affatto alla pazienza, che è il punto più importante della parabo­ la. Vi è inoltre una serie di locuzioni difficili da pen­ sare sulla bocca di Gesù, ad es. «il regno» (senz'ag­ giunta di complemento, «regno di Dio», «regno dei cieli»). Altrove nei vangeli «regno» usato da solo de­ signa il governo terreno. Il termine «diavolo» (dùibo­ los) appartiene a uno strato più recente della tradizio­ ne, mentre Gesù parlava soltanto di «satana» . ]. Jere­ mias elenca 37 esempi di particolarità linguistiche 143

dell'evangelista. Anche per quanto riguarda il conte­ nuto vi sono espressioni che non s'inseriscono nel quadro della predicazione di Gesù. Il v. 41 parla del figlio dell'uomo e del «suo regno», un concetto che nel Nuovo Testamento ricorre solo più in Mt. r6,28 (dove la Traduzione unitaria rende basiléia con «po­ tenza regale»). Secondo il v. 43 al regno del figlio del­ l'uomo succede «il regno del Padre loro». Quest'i­ dea del «regno di Cristo» è estranea alla tradizione più antica e coincide più o meno con il concetto di «chiesa» . Pertanto è chiaro che la spiegazione della parabola della zizzania non proviene da Gesù, ma dall'evangelista. Egli ha fatto dell'invito alla pazienza una raffigurazione del giudizio finale. Evidentemente questo tema gli stava a cuore; egli concepiva la de­ scrizione del giudizio universale come fatta per aiuta­ re la comunità, poiché rendeva la predicazione di Cri­ sto facilmente comprensibile anche ai più semplici.

La rete da pesca (Mt. 13 ,47-50) In questa parabola non si paragona il regno dei cie­ li con la rete da pesca, ma s'intende dire che al suo arrivo avverrà come al momento della cernita dei pe­ sci tratti a riva con la rete. Si pensi a una rete a stra­ scico, calata da una barca e poi tirata a terra con lun­ ghe corde. I pescatori si siedono, scelgono i pesci buoni, commestibili, e li mettono nelle ceste; quelli cattivi, cioè quelli qualificati dalla legge (Lev. rr,ro s . ) come impuri (tutti i pesci senza pinne n é squame), e anche altri ritenuti non commestibili, li gettano via. Anche questa parabola tratta del giudizio finale, che instaura il dominio regale di Dio nella sua pienez­ za. Esso viene nuovamente paragonato a una separa­ zione, questa volta di pesci commestibili e non. Nella rete i due tipi sono mescolati; solo quando essa viene 144

ritirata si procede alla separazione. Allo stesso modo, soltanto al giudizio universale ha luogo la separazione degli uomini buoni dai malvagi. Fino a quel giorno bisogna continuare a gettar la rete e per il resto fidar­ si di Dio. La parabola, dunque, è riferita solo alla cer­ nita della pesca e si limita a dire che alla fine giunge il giudizio. Perciò è tutta volta ad esortare e ammonire. Ancora una volta, gli ultimi due versetti ( vv. 49 s . ) contengono una spiegazione della parabola. Anche questa risale all'evangelista; non è altro che una ripe­ tizione abbreviata dei vv. 40-43 . Ma, a differenza del­ la spiegazione della parabola della zizzania («Allora i giusti splenderanno come il sole nel regno del padre loro», v. 43) , qui non si parla della sorte dei buoni, ma si dice solo che «gli angeli verranno e separeranno i malvagi dai giusti e li getteranno nella fornace, dove arde il fuoco» (vv. 49 s . ) . L'immagine della fornace ardente, che s'adatta bene alla zizzania secca, s'addice meno ai pesci. L'evangelista si interessa solo dell'e­ sclusione dei malvagi e della loro condanna eterna. Le interpretazioni aggiunte da Mt. ai due racconti mostrano ancora una volta quale uso fa la chiesa pri­ mitiva delle parabole di Gesù nella predicazione. Le tramanda come si presentano, ma poi vi aggiunge quello che ha da dire in proposito. Per lo più non crea parabole nuove; ma in quelle che conosce mette in rilievo gli aspetti che possono consolidare ciò che essa va dicendo.

CONCLUSIONE

IL REGNO DI DIO NELLE PARABOLE

Nelle parabole Gesù parla spesso del regno di Dio, della sua sovranità. Molte di esse iniziano con la for­ mula «Con il regno di Dio avviene come. . . », stabili­ scono un legame diretto con il regno di cui vogliono illustrare essenza e natura. In altre il riferimento al re­ gno di Dio non è così immediato; ma anche queste vogliono annunziare il regno, più o meno chiaramen­ te. Lo stesso vale per tutta la predicazione di Gesù, che, secondo Mc. 1 , 15, ha cominciato a predicare con il detto programmatico: «Il tempo è compiuto, il re­ gno di Dio è vicino». Che cosa intende Gesù con l'espressione «regno di Dio»? Certamente non la signoria che Dio creatore esercita da sempre e sempre eserciterà sul mondo. Egli pensa piuttosto a un evento che sopraggiunge improvviso e imprevedibile. L' «avvicinarsi» di questa signoria di Dio non va inteso come un lento, conti­ nuo processo di trasformazione, che potrebbe essere cagionato o almeno accelerato dagli uomini. Il disce­ polo di Gesù deve pregare che il regno venga (Mt. 6,10), ma non può far sì che si avvicini; si veda la pa­ rabola del seme che cresce da solo (Mc. 4,26-29 ) . I n quale senso Gesù dice che il regno si avvicina, che è vicino? Dicendo questo egli vuole caratterizzare la situazione che si è instaurata con la sua comparsa: con lui è entrata nel mondo la felicità: v. le parabole del fico che germoglia (Mc. 1 3 ,28 s . ) , del tesoro e della perla (Mt. 13,44-46). Ciò non significa tuttavia che il regno sia già pres�nte nella sua pienezza ( cfr. cap. x) . 147

Gesù si è sempre rifiutato anche di indicare l'esatto momento in cui il regno, portato a compimento, farà la sua comparsa. Nessuno, all'infuori del Padre, co­ nosce il giorno e l'ora del giudizio finale (Mc. 13,32). Gli uomini possono ancora perderlo, s e quando ir­ romperà non saranno svegli e pronti. Alcune parabo­ le, perciò, sono esortazioni e ammonimenti di tono profetico, che mettono in guardia anche dalla minac­ cia del giudizio futuro (cfr. Mt. 13,24-30: zizzania tra il grano; 1 3,47-50: rete da pesca; 25 ,31-46 : giudizio universale) . Queste parabole non vogliono istruire circa il regno di Dio, ma scuotere, come i discorsi profetici, e in­ durre gli ascoltatori a mettersi nella giusta disposizio­ ne d'animo nei confronti del regno che viene. Nelle parabole originali di Gesù mancano afferma­ zioni cristologiche dirette, e tutto è riferito a Dio. La conversione dei peccatori, di cui spesso si parla, trova il suo fondamento nel comportamento del Padre: pa­ dre amorevole, signore onnipotente, unico giudice. Gesù è al servizio di questo messaggio. Ma richia­ mandosi al modo di fare di Dio, giustifica anche il proprio comportamento. Anche i miracoli che ac­ compagnano la sua predicazione originariamente non sono prove della sua missione, ma testimonianze della parola di Dio. Qual è dunque l'atteggiamento di Gesù verso Dio e la sua regalità, secondo le parabole? Tutte sono piene del «mistero del regno di Dio» (Mc. 4, r r ) . Spiegare agli uomini questo mistero, renderlo loro accessibile è compito di Gesù, e a questo egli si adopera incessan­ temente. Ma al tempo stesso le parabole costringono gli ascoltatori a prendere posizione verso la sua per­ sona e la sua missione. «Se una parabola illustra la bontà di Dio, lo fa mediante la bontà attiva di Gesù. Se una parabola parla della basiléia (signoria regale) , 1 48

Gesù 'si nasconde' dietro alla parola basiléia come suo 'contenuto occulto'» (E. Fuchs) . È quindi vero che le parabole originarie di Gesù non contengono affermazioni esplicite che lo riguardano; tuttavia si fa sempre più strada l'ipotesi che esse siano implicite autotestimonianze cristologiche. Gesù si mette fra i profeti, ma nello stesso tempo se ne discosta. Egli sa di essere l'ultimo e unico portavoce di Dio. Egli stes­ so, la sua opera e la sua predicazione sono segni della vicinanza del regno. Molte parabole celano una pre­ tesa inaudita, il più audace giudizio che mai sia stato espresso (cfr. cap . settimo) . La predicazione successiva, interpretando sempre più le parabole in senso cristologico, non ne ha travi­ sato il contenuto originario. La visione teocentrica della storia della salvezza non va perduta; ma l'inte­ resse della predicazione si concentra sempre più sulla figura di Cristo. In tal modo le parabole divennero più chiare e comprensibili alla gente più semplice. Nella persona di Gesù coesistono, l'uno accanto al­ l' altro, presente e avvenire del regno di Dio. «Gesù non ha rinviato i suoi uditori a un vago futuro, ma ha richiamato la loro attenzione su un presente che è se­ gnato dal futuro di Dio, nel quale essi devono coglie­ re decisamente l'occasione per compiere adesso la di­ vina volontà, impegnandosi con tutte le forze, e otte­ nere la salvezza» (E. Grasser) . Nelle parabole la ten­ sione fra promessa e compimento è a portata di ma­ no; invece solo eccezionalmente Gesù pretende di in­ serirvi la propria persona. Ma Gesù non si è forse ingannato, allorché in mol­ te parabole ha contato apertamente sull'imminente ir­ ruzione del regno di Dio ( cfr. capp. settimo e ottavo) ? Abbiamo osservato che egli non ha mai detto quale sia il termine fissato per l'avvento del regno. Questo non era suo compito e non rientrava nella sua predica149

zione. Perciò non dipinge il futuro con le immagini colorite degli apocalittici, sebbene anch'egli parli del­ l'imminente attesa apocalittica. Ciò che gli preme è una determinata disposizione d'animo verso il futuro. Nell'«agire quotidiano ogni istante è giorno del giudi­ zio universale», qui si decide l'eterna sorte dell'uomo (cfr. in Mt. 25,36-46 la sentenza nel giudizio univer­ sale). «Chi nel presente si orienta verso il futuro di Dio, adempie ora la sua volontà e affida a lui ciò che verrà portato dal futuro» (E. Grasser) . L'inscindibile coesistenza di asserzioni riguardanti il futuro e il pre­ sente è la caratteristica peculiare della predicazione di Gesù; essa è tutt'uno con la sua persona e la sua pretesa di fare le veci del Padre. Non vi è dubbio che la chiesa primitiva attinse dal­ la predicazione di Gesù, e dalle sue parabole, l'attesa dell'imminente ritorno del suo Signore. Ma poiché questo tardava sempre più, era necessario familiariz­ zare i credenti con la possibilità che essi non vedesse­ ro questo ritorno. Le. ha tenuto conto, probabilmente per primo, della mutata situazione. Egli non ha con­ servato nessuna affermazione che desse appiglio ad una prossima attesa del regno; ma non l'esclude in li­ nea di principio. Piuttosto, spiega quest'attesa come la necessità di stare sempre pronti e rimanda l'avvento del regno all'ora della morte del singolo ( cfr. sopra, p. 1 3 3 ) . L e parabole della parusia, presenti nella fonte dei logia (Q), ne tengono in considerazione il ritardo, ma si attengono all'attesa imminente. Le. ha rimaneggiato anche questi testi nel senso di un'attesa continua, co­ sicché in essi scompare ogni traccia di attesa prossi­ ma. Più rimaneggiati si presentano i paralleli lucani tratti dal materiale di Mc. ( ad es. l'immagine del fico: Le. 21,29-3 1 ; sopra, p . 38) . Importanti passi escato­ logici, come Mc. 1,15; 1 3,10.32, vengono eliminati. Il

detto di Mc. 14,62: «Vedrete il figlio dell'uomo assiso alla destra della potenza e venire con le nubi del cie­ lo», in Le. 22,69 suona : «D'ora in poi il figlio dell'uo­ mo siederà alla destra dell'onnipotente>>, dove «d'ora in poi» indica il tempo successivo all'ascensione di Gesù. Nel materiale proprio di Le. si nota un forte inte­ resse per la sorte dell'uomo dopo morte; questo si­ gnifica che l'attesa individuale ha preso il posto del­ l'attesa della parusia. L'evangelista tenta anche di giu­ stificare il ritardo della parusia notando che la missio­ ne universale non ha ancora raggiunto il fine che le è proposto nel piano salvifico. Così è possibile caratte­ rizzare l'atteggiamento lucano nei riguardi della paru­ sia come necessità di esser sempre pronti, ma nell'at­ tesa della parusia, definitiva, dell'awento del Signore glorioso (G. Schneider) . Attualmente alcuni esegeti mettono in discussione un reale ritorno di Cristo alla fine dei tempi, e quindi anche l' awento del regno di Dio nella sua pienezza. Tuttavia proprio l'interpretazione lucana delle para­ bole della parusia può aiutare i cristiani del nostro tempo a vivere sia nella pazienza che nella speranza. Occorre attenersi, con Luca, alla parusia stessa; ad essa infatti è legato l'awento del regno di Dio defini­ tivo e compiuto. E. Grasser, Die Naherwartung ]esu, Stuttgart 1973. G. Schneider, Parusiegleichnisse im Lukas-Evangelium, Stuttgart -

1975·

CENNI BIBLIOGRAFICI

Quelle segnalate sono soltanto alcune delle opere utilizzate. La bibliografia specifica di cui si è fatto uso per i singoli capi­ toli viene citata nel corso dell'esposizione. Questo libro non ha intenti rigorosamente scientifici, perciò è sembrato super­ fluo indicare in calce, di volta in volta, la fonte precisa a cui si attingeva. Fondamentale è stata soprattutto l'opera di ]. Jere­ mras. r. Commenti biblici W. Grundmann, Das Evangelium nach Lukas (ThHNT III), Berlin 'r964. R. Pesch, Das Markusevangelium (HThKNT II r .2), Freiburg 1976. 1977 (trad. ital. Il vangelo di Marco I, Brescia r98o; II, Brescia 1982). R. Pesch - R. Kratz, So liest man synoptisch, voli. IV e v, Frank­ furt a.M. 1978. G. Schiwy, Weg ins Neue Testament, vol. I, Wiirzburg 1965. R. Schnackenburg, Das Evangelium nach Markus (GS II r .2), Diisseldorf 1966. 1970. H. Schiirmann, Das Lukasevangelium, vol. I (HThKNT III r), Freiburg 1969 (trad. ital. Il vangelo d i Luca I , Brescia 1983). E. Schweizer, Das Evangelium nach Markus (NTD r), Gottin­ gen "r968. E. Schweizer, Das Evangelium nach Matthdus (NTD 2), Got­ tingen ''r973. W. Trilling, Das Evangelium nach Matthdus (GS I r .2), Diis­ seldorf 1962. 1965. 2. Sinossi K. Aland, Synopsis quattuor Evangeliorum, Stuttgart 1964 . R. Pesch, Synoptisches Arbeitsbuch zu den Evangelien, 4 voli., Ziirich-Giitersloh 1980.

153

3· Bibliografia sulle parabole di Gesù

E. Biser, Die Gleichnisse ]esu. Versuch einer Deutung, Mi.in­ chen 1965. J. Blank, Schrz/tauslegung in Theorie und Praxis, Mi.inchen 1969.

H. Frankenmolle, In Gleichnissen Gott er/ahren, Stuttgart 1977·

J. Jeremias, Die Gleichnisse ]esu, Gottingen 91977 (trad. ital. Le parabole di Gesù, Brescia '1973 ) . H Kahlefeld, Gleichnisse und Lehrstiicke im Evangelium, 2 voll., Frankfurt a.M. 1963 . F. Mussner, Die Botscha/t der Gleichnisse ]esu, Mi.inchen 1961.

H. Thielicke, Das Bilderbuch Gottes. Reden iiber die Gleich­ nzsse ]esu, Stuttgart 1963. W. Trilling, Christusverkiindigung in den synoptischen Evan­ gelien, Mi.inchen 1975.

INDICE DEI PASSI BIBLICI

Antico Testamento

Geremia

Genesi

13,1·7: 85 31,31•34: 35

15,15: 130 27,28: 36 37,20: Il9

Levitico 11,10 s.: 144 19,13: 54 19,18: 62 19,23: 84 21,1: 63

Deuteronomio 6,5: 62 21,18·21: 82 2

Cronache

24,21 : 122

Salmi IO: 141 14, 1 : 86 51,3: 44 5 1 ,19: 45 73: 141 1 18,22 s.: n6, 120

Proverbi 1 1 ,26: 86

Isaia 5,1-7: 85, II7 6,9 s.: 15, 16 41,8: 75 61,10: 112

Ezechiele 4,1·4: 85 36,26: 35

Daniele 4,8 s.: 23 4,17-23: 23

Gioele 2,22: 3 8 2,23 s. : 36 4,1 3 : 22, 141 4,18: 36

Amos 9,1 3 : 36 N uovo Testamento

Matteo 3,12: 142 5,3·12: 133 5,8: 139 5,23 s. : 134 5,25 s.: 133-135 6,10: 147 6 , 1 6 s . : 33 7,9- I I : 75-77 7,2 1 : 40 7,21·23: 142 9,14 s . : 31, 33 9, 16 s.: 34 9,1 T 36 I I,I6-19: 18, 81-83

I I , 19: 40 12,34: 76 13,1 ·9 : 25 13,13: 15 1 3 , 1 8·23: 27 1 3,24-30: I 40·143, 148 13,31 s.: 21, 23 13,33: 21, 24 13,36·43: 143-144 13,40·43 : 145 13 ,44·46: 59·61, 147 1 3 >47•50: 144-145, 148 16,28: 144 1 8 , 1 : 47 18,12· 14: 46, 47 18,21 s . : 65 18,23-35: 65-68 18,25: 134 18,34: 134 19,28: 139 19,29: 139 19,30: 56 20, 1 · 1 5 : 53·56 20,6 s . : 56 20,8: 56 20,16: 56 21,18 s . : 85 21,28·32: 39·41 21,33·46: I l4·123 22,1-10: I06·I I I 22,2: 112 22,10: 1 1 3 22, II-14: I I I-113 22,14: 57 22,35•40: 61 23,13: 90 24,32 s. : 37 24,41: 89

155

24,42: 93 24,42-48: 89 24,43 s . : 88-90 24,44: 104 24,45 : 92 24,45-5 1 : 90-92, 104 24,50: 104 25,1-1 3 : 101-106 25,13: 92,97 25,14: 93 25,14-30: 94-99 25,31-46: 68-71, 140, 148 25,36-46: 150 25,41: 139

Marco 1,15: 147> 150 2,18-20: 31 2,19 s.: 32 2,21 s . : 34 2,22: 36 4,2: 21 4.3-9: 21, 25 4,10 - 12: 14, 16 4,11: 148 4,13-20: 21, 27 4,26-29: 21-23, 147 4,30-32: 21, 23 8,11-1 3 : 132 1 1 ,12-14: 85 12,1-12: 114-123 12,28-3 1 : 61 13,10: 150 13,28 s . : 37, 147 13 , 32: 148, 150 13 , 33-3? : 92-94 l 3,35 S . : 104 14,24: 35 14,62: 139, 151

Luca 3,12: 40 5,30: 34, 35 5.33-35: 31, 34> 35 5,36: 35 5,36-39: 34 5.39: 36

I56

6,20-26: 133 6,21: 1 39 7,29 s.: 41 7,31: 82 7,31-35: 8!-83 7,41 - 43: 41-43 7.44-4?: 40 7,50: 43 8,4-8: 25 8,11-15: 27 8,15: 28 10,25-3?: 61-65 1 1 , 1-4: 75 1 1,5-8: 73-75, 78 1 1,9-13: 75 1 1, 1 1-13 : 75-77 1 1,52: 90, 94 12,13 s.: 86 12,13-2 1 : 86 12,15: 86 12,16-21: 86-88 12,32: 87-88 12,33: 87, 128 12,35-38: 87, 92-94 12,35-59: 134 12,37: 92, 93, 138 12,39 s . : 88-90 12,42-46: 90-92 12,47 s . : 92 12,54-56: 87 12,58 s.: 133-135 13,3: 83 13,5: 83 13,6-9: 83-85 13,18 s.: 21, 23 13 , 20 S.: 21, 24 13 , 25 : 105 14 , 1 1 : 44 14 , 15 : 107 14,15-24: 106-1 1 1 14,25-35: 135 14,28-32: 135-137 15,1-3 : 18, 46 15,2: 5 1 15,4-T 46-47 15,8-10: 47-48 15,11-32: 48-53 15,22: 1 1 3

15,32: 56 16,1-8: 125-129 16,9: 127 16,10-12: 128 16,14: 129 16,15: 62, 89 16,19-3 1 : 128, 129-133 17,7-10: 137-138 17,21: 25 18,1-8: 77-80 18,9: 43> 62 18,9-14: 43-45> 79 18,11 s.: 52 18,22: 128 19, 1 1 : 98 19,12-2?: 94-99 20,9-19: 114-123 20,36: 139 21 ,29-3 1 : 37 s . , 150 21,31 : 38 22,29 s.: 139 22,69: 151

Giovanni 2,1-1 1 : 36 13,4 s.: 93 13,23: 130 19,17: 122

Atti degli Apostoli 1,9-1 1 : 98 3,1: 44 6,4: 27

Romani 1 1 ,25 I

s.:

16

Corinti

2,9: 139 9,25-2 ? : 3 3 2

Corinti

11,2: 104

Galati 6,6 : 27 I

Tessalonicesi

5,2: 89 5,4: 8 9

Ebrei II ,J7: 122 13,12 s . : 122 2

Pietro

3,10: 89

Apocalisse 3.3: 89

3.4 s . : I l 3 3,18: I l 3 16,15: 89 19,8: I l 3

Vangelo di Tommaso

64: 106 65: I l4 66: u6 7 6 : 59 96: 24 109: 59

in generale: 18 57: 143

INDICE DELLE PARABOLE Nozze e digiuno (Mc. 2,r8-2o; Mt. 9,r4 s.; Le. 5,33-35) : 3I-34 Toppa nuova - vino nuovo (Mc. 2,2r s.; Mt. 9,r6 s.; Le. 5,3639): 34-36 Le quattro specie di terreno (Mc. 4,3-9; Mt. r3,3-8; Le. 8,58): 25-29 Il seme che cresce da solo (Mc. 4,26-29) : 2r-23 Il granello di senape (Mc. 4,30-32; Mt. r3,3r s.; Le. r3, r8 s.): 23-24 I vignaioli malvagi (Mc. r2,r-r2; Mt. 2r,33-46; Le. 20,9-r9) : II4-I23 L'immagine del fico (Mc. r3,28 s.; Mt. 24,32 s.; Le. 2r,2 9 s.): 37-38 Il portiere (Mc. r3,33-37; Le. r 2,35-38) : 92-94 Il cammino verso il giudice (Mc. 5,25 s . ; Le. r2,58 s.): r33-r35 Il figlio che chiede da mangiare (Mt. 7,9-r r ; Le. rr,rr-r3): 75-77 I ragazzi che giocano (Mt. r r,r6-r9; Le. 7,3 r-35): 8r-83 La zizzania in mezzo al grano (Mt. r3,24-30): r40-r43 Il lievito (Mt. r3,33; Le. r3,20 s.) : 24-25 La spiegazione della parabola della zizzania (Mt. r3,36-43 ) : I43-I44 Il tesoro nel campo e la perla (Mt. r3.44-46) : 59 -6r La rete da pesca (Mt. r3.47-5o) : r44-r45 La pecora smarrita (Mt. r8,r2-r4; Le. r5.4-7) : 46-47 n servo spietato (Mt. r8,23-35 ) : 65-68 n padrone generoso (Mt. 20,I-r5): 53-58 I figli dissimili (Mt. 2r,28-32): 39-4r La grande cena (Mt. 22,r-ro) : ro6-r r r L'abito nuziale (Mt. 22, rr-r4) : r r r-rr3 I

57

Lo scassinatore notturno (Mt. 24.43 s.; Le. 12,39 s.): 88-90 Il servo con l'incarico di controllare (Mt. 24.45-51; Le. 12,4246): 90-92 Le vergini sagge e le stolte (Mt. 25,1-13) : 101-106 Il denaro dato in deposito (Mt. 25,14-30; Le. 19,12-27) : 94-99 Proclamazione della sentenza nel giudizio (Mt. 25,31-46): 6871 Vino nuovo in otri vecchi (Le. 5,39) : 36-37 I due debitori (Le. 7.4 1-43) : 4 1-43 Il buon samaritano (Le. 10,25-37) : 61-65 L'amico che domanda (Le. 11,5-8) : 73-75 Il ricco stolto (Le. 12,16-21 ) : 86-88 Il fico sterile (Le. 13,6-9): 83-85 La costruzione della torre e l'entrata in guerra (Le. 14,28-32): 135-137 La moneta perduta (Le. 15,8-10) : 47-48 Il figlio perduto (Le. 15,11-32): 48-53 L'amministratore infedele (Le. 16,1-8) : 125-129 L'uomo ricco e Lazzaro, il povero (Le. 16,19-3 1 ) : 129-133 I servi inutili (Le. 17,7-10) : 137-138 Il giudice iniquo (Le. 18,1-8) : n-Bo Il fariseo e il pubblicano (Le. 18,9-14) : 43-45

Composizione: F usi & C . Stampa: I talgra f Brescia, ottobre 1990