La psicologia scientifica. Nuovo trattato di psicologia generale
 8849127367, 9788849127362

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Renzo Canestrari

Antonio Godino

La psicologia scientifica Nuovo trattato di psicologia generale

© 2007 by CLUEB Cooperativa Libraria Universitaria Editrice Bologna I Edizione 2007

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Canestrari, Renzo La psicologia scientifica. Nuovo trattato di psicologia generale / Renzo Canestrari, Antonio Godino. – Bologna : CLUEB, 2007 XII-659 p. ; 24 cm (Clueb Economica) ISBN 978-88-491-2736-2

Progetto grafico e realizzazione della copertina: Oriano Sportelli

CLUEB Cooperativa Libraria Universitaria Editrice Bologna 40126 Bologna - Via Marsala 31 Tel. 051 220736 - Fax 051 237758 www.clueb.com

INDICE GENERALE

I - TEORIE E METODI CAPITOLO 1 LE TEORIE PSICOLOGICHE 1.1 Psicologia e filosofia 1.2 Correnti della Psicologia fra Ottocento e Novecento 1.3 Psicologia fisiologica 1.4 L'introspezionismo e l'associazionismo 1.5 La Psicologia della forma ed il Costruttivismo 1.6 La Psicologia dinamica od ermeneutica 1.7 Comportamentismo 1.8Cognitivismo Sintesi del capitolo Bibliografia

1 1 4 6 7 8 8 11 13 15 16

CAPITOLO 2 IL METODO SPERIMENTALE E LE TECNICHE DI RICERCA 2.1 Gli assunti galileiani 2.2 Strategie e disegni di ricerca 2.3 Statistiche descrittive 2.4 Statistiche inferenziali 2.5 L'errore nella ricerca 2.6 Etica e ricerca 2.7 La ricerca con gli animali Sintesi del capitolo Bibliografia

17 17 18 26 30 30 32 33 35 36

CAPITOLO 3 IL METODO PSICOMETRICO ED I TEST MENTALI 3.1 L'assessment 3.2 I parametri di un test 3.3 Come si costruisce un test 3.4 Le procedure di diagnosi 3.5 I test di personalità quantitativi 3.61 test di personalità qualitativi 3.7 I test di personalità comportamentali 3.8 I test di rendimento e la misura dell'intelligenza 3.91 test attitudinali e la selezione lavorativa 3.10 Studi di popolazione 3.11 Test comportamentali e psicologia animale Sintesi del capitolo Bibliografia

39 39 41 42 45 47 49 51 52 61 64 68 70 71

CAPITOLO 4 I METODI DIAGNOSTICI NELLA PRATICA CLINICA 4.1 Diagnosi e relazione col paziente 4.2 La tecnica dell'intervista 4.3 Fonti di distorsione nell'intervista 4.4 II piano d'indagine 4.5 L'errore diagnostico e la catamnesi 4.6 II metodo interpretativo psicoanalitico: le origini 4.7 II metodo interpretativo psicoanalitico: la teoria della tecnica 4.8 Lapsus e atti mancati 4.9 II significato dei sintomi e la loro interpretazione 4.10 Lo studio clinico evolutivo Sintesi del capitolo Bibliografia

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II - LEGGI DEL FUNZIONAMENTO PSICHICO CAPITOLO 5 PSICOFISIOLOGIA DELLE SENSAZIONI 5.1 Realtà oggettiva e sensazione 5.2 I processi di recezione sensoriale 5.3 Meccanismi generali di trasmissione e codificazione sensoriale 5.4 Meccanismi della visione: l'occhio 5.5 Meccanismi della visione: neurofisiologia 5.6 Meccanismi dell'udito: l'orecchio 5.7 Meccanismi dell'udito: neurofisiologia 5.8 Meccanismi delle sensazioni olfattiva, gustativa e tattile 5.9 Meccanismi sensoriali negli animali Sintesi del capitolo Bibliografia

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CAPITOLO 6 LEGGI DELLA PERCEZIONE 6.1 Percezione come sintesi automatica 6.2 Le leggi d'organizzazione: figura e sfondo 6.3 La logica della percezione 6.4 Lo sviluppo della percezione 6.5 La tridimensionalità 6.6 I fenomeni stereocinetici e le illusioni di movimento 6.7 Le illusioni percettive ottico-geometriche 6.8 La percezione uditiva e la musica 6.9 Psicologia comparata della percezione Sintesi del capitolo Bibliografia

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CAPITOLO 7 IL PENSIERO RAZIONALE E IRRAZIONALE 7.1 Le funzioni mentali adattative 7.2 Definire il pensiero astraente e l'intelligenza

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VI

7.3 II pensiero logico 7.4 Gli errori logici nel pensiero quotidiano 7.5 L'intelligenza alla prova: problem-solving 7.6 La creatività 7.7 Le intelligenze non umane 7.8 L'encefalizzazione: filogenesi ed ontogenesi Sintesi del capitolo Bibliografia CAPITOLO 8 NOZIONI DI PSICOLINGUISTICA 8.1 Strutture elementari e universali del linguaggio 8.2 Teorie semantiche e sviluppo del linguaggio 8.3 Costruzioni linguistiche 8.4 Sviluppo del linguaggio: fase pre-linguistica 8.5 Sviluppo del linguaggio: fase protolinguistica 8.6 Sviluppo del linguaggio: il linguaggio infantile 8.7 Sviluppo del linguaggio: le teorie psicolinguistiche 8.8 Paleoetnografia e psicolinguistica 8.9 Ricerche sul linguaggio negli animali Sintesi del capitolo Bibliografia

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195 195 198 201 204 205 208 209 210 211 214 215

CAPITOLO 9 MEMORIA E OBLIO 9.1 Memoria come base dell'agire 9.2 Acquisizione, codificazione, registrazione 9.3 Ricerche sulla memoria: associazionismo e costruttivismo 9.4 Sviluppo della memoria nell'arco di vita 9.5 Memoria degli eventi e dei concetti 9.6 II tempo, l'oblio e le deviazioni della memoria 9.7 L'addestramento mnestico 9.8 Orientamento spazio-temporale e memoria Sintesi del capitolo Bibliografia

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CAPITOLO 10 L'APPRENDIMENTO 10.1 Definizioni e livelli d'apprendimento 10.2 Apprendimento condizionato 10.3 Apprendimento condizionato operante 10.4 Apprendimento concettuale ed imitativo 10.5 Apprendere ad apprendere 10.6 Apprendimento e gioco Sintesi del capitolo Bibliografia

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CAPITOLO 11 LE CONDOTTE MOTIVATE 11.1 Moventi e motivi dell'agire

rispondente

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11.2 Teoria pulsionale biologica: l'omeostasi 11.3 Teoria freudiana delle pulsioni: l'istinto primario 11.4 Teoria pulsionale etologica: schemi d'azione specie-specifici 11.5 Imprinting!pràgung 11.6 Teoria fisiologica dell'attivazione o arousal 11.7 Motivazioni cognitive ed etiche 11.8 Motivazioni animali ed umane Sintesi del capitolo Bibliografia

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CAPITOLO 12 LE EMOZIONI E GLI AFFETTI 12.1 Breve storia delle idee sulle emozioni 12.2 Le basi psicofisiologiche dell'emozione 12.3 Sviluppo e segnalazione delle emozioni 12.4 Fenomenologia delle emozioni 12.5 II linguaggio del corpo 12.6 Disturbi emozionali, diagnosi e trattamento....'. Sintesi del capitolo Bibliografia

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CAPITOLO 13 GLI STATI DI COSCIENZA NORMALE E ALTERATA 13.1 La natura della coscienza 13.2 II cervello e la coscienza 13.3 Coma, coscienza e morte 13.4 L'attenzione e l'attivazione 13.5 I ritmi biologici circadiani 13.6 Dormire e sognare 13.7 L'ipnosi e le alterazioni indotte della coscienza 13.8 Le droghe che agiscono sulla coscienza Sintesi del capitolo Bibliografia

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III -DIFFERENZE INDIVIDUALI E SVILUPPO CAPITOLO 14 AFFRONTARE I CONFLITTI 14.1 Fonti di frustrazione 14.2 Le risposte adeguate e inadeguate 14.3 Le reazioni patologiche 14.4 La tolleranza alla frustrazione 14.5 Modelli di conflitto 14.6 Ricerche sperimentali 14.7 I conflitti familiari e di ruolo 14.8 Aggressività e conflitto 14.9 II controllo territoriale Sintesi del capitolo Bibliografia Vili

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CAPITOLO 15 NOZIONI DI PSICOLOGIA SOCIALE 15.1 Origini della Psicologia sociale 15.2 Le dimensioni sociali della Psicologia 15.3 Ranghi e ruoli sociali 15.4 Sociosistemi e psicodinamica dei gruppi 15.5 Psicologia delle masse 15.6 Meccanismi della persuasione 15.7 II controllo sociale Sintesi del capitolo Bibliografia CAPITOLO 16 PERSONALITÀ E INDIVIDUO 16.1 Caratterologia e studio della persona 16.2 Le teorie dei tratti 16.3 Le teorie costituzionaliste 16.4 La teoria psicodinamica 16.5 Behaviourismo e teorie della personalità 16.6 II modello dei Big Pive Sintesi del capitolo Bibliografia

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CAPITOLO 17 I DISTURBI PSICHICI 17.1 I sistemi diagnostici 17.2 Storia della follia 17.3 La psicosi schizofrenica 17.4 La depressione maggiore e minore 17.5 Le psicosi cicliche 17.6 La nevrosi ansioso-fobica 17.7 L'isteria di conversione 17.8 Le perversioni sessuali 17.9 La sindrome border-line 17.10 Disturbi della personalità 17.11 Abuso di tarmaci e droghe Sintesi del capitolo Bibliografia

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CAPITOLO 18 LE PSICOTERAPIE 18.1 Cosa s'intende per psicoterapia 18.2 Le terapie cognitivo-comportamentali 18.3 Le terapie analitiche 18.4 Le terapie dinamiche brevi 18.5 Le terapie palliative e d'urgenza 18.6 Le terapie familiari e di gruppo 18.7 Le co-terapie 18.8 II trattamento del paziente resistente 18.9 Studi sull'efficacia delle psicoterapie

461 461 462 462 464 466 466 468 472 475 IX

Sintesi del capitolo Bibliografia CAPITOLO 19 LO SVILUPPO PSICHICO 19.1 Introduzione 19.2 Definizioni e leggi dello sviluppo 19.3 Lo sviluppo nella prima infanzia: da zero fino a due anni 19.4 Lo sviluppo nella seconda infanzia: da due fino a sei anni 19.5 La fanciullezza 19.6 Lo sviluppo puberale e l'adolescenza 19.7 La psicologia dello spazio di vita 19.8 Le età adulte e la crisi di mezza età 19.9 La vecchiaia e la morte Sintesi del capitolo Bibliografia CAPITOLO 20 PSICOPATOLOGIA DELLO SVILUPPO 20.1 Disturbi genetici cromosomici 20.2 Disturbi congeniti ed acquisiti 20.3 Disturbi dell'intelligenza 20.4 Disturbi del linguaggio 20.5 Disturbi del controllo motorio e sfinteriale 20.6 Le sindromi epilettiche 20.7 Le condotte antisociali 20.8 Ledisgenesie sessuali 20.9 II transessualismo 20.10 La progèria ed i disturbi globali dello sviluppo Sintesi del capitolo Bibliografia Glossario Bibliografìa Indice analitico e dei nomi

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Fig. 19.2: Gerarchia delle preferenze percettive nel lattante, misurata sulla base del tempo di osservazione visiva.

te al lattante, come il cullamento, la ripetizione delle semplici melodie delle ninne-nanne, il parlare con loro con un tono di voce particolare ed un ritmo speciale “da bambino”. A livello d’esperimenti in laboratorio si è dimostrato che l’attenzione del neonato (misurata attraverso il tempo di deviazione dello sguardo verso lo stimolo) è sollecitata solo da stimoli molto semplici e simmetrici, mentre gli stimoli complessi sono trascurati (Battacchi, Giovanelli, 1990). Facendo la prova con delle scacchiere, per esempio, il neonato rivolge lo sguardo lungamente a quella con solo quattro quadrati (due per lato), trascura o guarda per poco tempo quella con nove quadrati (tre per lato) e sembra non badare per nulla ad altre scacchiere con una trama più minuta (con sedici o venticinque o più quadrati). Già ad un mese di vita la situazione cambia, egli trascura la scacchiera più semplice a favore della seconda o della terza. Uno dei motivi di quest’evoluzione è sensoriale (il neonato è attratto dalla scacchiera e dallo stimolo più grossolani e semplici perché sono verosimilmente gli unici che focalizza con chiarezza) mentre l’altro è un aumento delle capacità d’elaborazione percettiva del sistema nervoso.

A partire dal secondo mese si è visto inoltre che il tempo di fissazione maggiore viene riservato alle figure geometriche circolari più che a quelle quadrate ed a quelle simmetriche e concentriche od a spirale piuttosto che alle altre. Evidentemente, una volta superato lo scoglio della carente focalizzazione sensoriale, fra i vari stimoli tutti egualmente nitidi e chiari il bambino è attratto ed incuriosito da quelli meno prevedibili o più ricchi. Il bambino nasce, quindi, ancora parzialmente immaturo dal punto di vista sensoriale e percettivo. Quello che sa fare è, comunque, perfettamente adattato alle sue necessità, la sua vista gli consente di vedere in modo sufficientemente chiaro il biberon o la mammella materna, il suo udito gli permette di riconoscere con precisione tutti i suoni della voce umana. A differenza della vista e dell’udito gli altri sensi, gusto, tatto ed olfatto, appaiono alla nascita relativamente più sviluppati. Si è visto, per esempio, che il neonato mostra una preferenza spiccata per il sapore dolce rispetto agli altri sapori (cosa stabilita confrontando le reazioni di fronte al latte umano ed al latte vaccino, alquanto meno ricco di zuccheri). Sono inoltre presenti da subito alcuni fondamenta487

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Lo sviluppo nella prima infanzia: da zero fino a due anni

QUADRO 19.II LE ESPERIENZE MODELLANO L’ARCHITETTURA GENERALE Talora il funzionamento della mente e quello del calcolatore sono stati paragonati, ma tale confronto è in realtà poco valido perché la mente evolve ed il calcolatore no. In altre parole la logica funzionale del calcolatore tratta i dati secondo regole che non vengono influenzate dalla qualità e dal flusso dei dati stessi, il programma di lavoro del calcolatore è una “mente” che non evolve né matura. La mente o logica funzionale del cervello presenta, al contrario, un’evoluzione sia autoctona (dipendente da processi maturativi biologici) che esoctona (dipendente dall’elaborazione ed assimilazione di informazioni ed esperienze). Nel corso dello sviluppo e del progredire dei processi che determinano l’invecchiamento il cervello modifica in tal modo, insieme al livello del proprio funzionamento, anche la propria architettura fisica generale. Si è poi visto che l’evoluzione dei circuiti neuronali e delle sinapsi nel corso della vita non è solo di tipo additivo ma anche selettivo e sottrattivo, come se una sorta di meccanismo di selezione naturale fosse applicato alla popolazione od a frazioni della popolazione neuronale (Bouton, 1992). Alcuni di questi meccanismi evolutivi sono legati ad una predeterminazione genetica (vale a dire che i singoli neuroni possiedono una predeterminazione della durata potenziale di vita, alla pari dell’organismo) ed altri sono in rapporto al funzionamento di molecole di aderenza cellulare neuronale (Edelman et al. 1985). Queste ultime, che sono di importanza certa ed ormai ben nota per quanto riguarda la spiegazione del meccanismo di diffusione delle neoplasie, sono molto studiate anche per spiegare come si costituisce l’architettura neuronale nell’embrione e nel feto e come, infine, essa si plasmi e continui a mutare nell’arco della vita. Lo studio diacronico fisiologico del cervello richiede quindi l’esame combinato di diversi meccanismi e fattori di trasformazione: l’effetto delle stimolazioni sulla struttura neuronale e sull’architettura delle connessioni, l’effetto del livello di attività neuro-endocrina sul trofismo cellulare, l’effetto di meccanismi “a tempo” determinati geneticamente, l’effetto locale di meccanismi degenerativi (AAVV, 1986; Levi-Montalcini R., 1976). Nell’embrione la struttura nervosa primitiva si presenta come una sdifferenziazione del foglietto ectodermico in forma tubolare (il tubo neurale) ed è composta da due distinti tipi di cellule: i protoneuroni e la protoglia. Le cellule gliali servono da “guida” spaziale allo sviluppo ed alla disposizione dei neuroni mano a mano che questi si moltiplicano. La disposizione definitiva delle cellule neuronali nel cervello “maturo” è quindi strettamente dipendente dal momento e dalla sequenza temporale della loro “nascita”: le cellule più antiche hanno il nucleo nei pressi delle pareti ventricolari o comunque una disposizione periassiale rispetto al SNC, mentre quelle di più recente sviluppo sono anche le più superficiali o corticali. Le strutture più progredite filogeneticamente, come il neo-encefalo ed il telencefalo, sono anche le strutture con l’ontogenesi più tardiva (AAVV, 1986; Lashley, 1991). Nel cervello maturo (ovvero nelle ultime settimane della vita intrauterina e dopo la nascita) la glia ha cambiato totalmente di funzione: non serve più da guida per uno sviluppo numerico neuronale, ormai cessato, ma funge da tessuto connettivo di sostegno o da guaina isolante degli assoni.

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Lo sviluppo psichico segue

Le cellule nervose mature, come è ben noto,hanno una inibizione totale della funzione mitotica. Alla loro grande specializzazione funzionale corrisponde una perdita di capacità riproduttiva e riparativa. Un aspetto dell’invecchiamento fisiologico del SNC è quindi dato dal calo della popolazione neuronale. Questo calo è dovuto ad una lunga serie di meccanismi. Fra di loro possiamo ricordare le atrofie circoscritte da ipo-ossigenazione, il calo di sostanze neurotrofiche presenti negli organi (sensoriali o motori) sui quali si proiettano gli assoni neuronali, l’ossidazione dei fosfolipidi costituenti le membrane cellulari, l’accumulo di sostanze neurotossiche con l’innesco di processi degenerativi, etc. Il calo di popolazione neuronale non ha comunque un grande peso numerico e produce un minimo effetto funzionale. Si è, infatti, calcolato che anche nelle età più tarde (oltre i 90 anni di vita) il calo fisiologico non arriva a superare il 10-15% della popolazione neuronale presente alla nascita. Se tale riduzione è graduale e ben distribuita, essa non comporta in alcun modo una riduzione rilevabile di funzionalità del sistema (Salmaso, Caffarra, 1990). Infatti il sistema nervoso centrale è sovradimensionato in modo molto ampio (in nessun momento viene utilizzato contemporaneamente più del 30% dei neuroni disponibili) e può perfettamente supplire ad un calo neuronale che sia uniformemente distribuito e graduato nell’arco di decenni. Detto in altri termini il SNC è strutturato in modo tale da poter funzionare in modo adeguato anche dopo una durata di vita almeno tripla di quella massima accertata attualmente (misurata in 125 anni circa). La struttura che è il supporto delle funzioni mentali (grazie alla quale, come direbbe un dualista, si concretizzano le attività dell’anima) ha quindi una potenzialità di sussistenza che trascende molto ampiamente i limiti di sopravvivenza dell’organismo. Ben diverso, ovviamente, è il discorso da fare per le conseguenze di eventuali processi di degenerazione e morte cellulare localizzata e rapida, come quelli che sono responsabili delle varie forme demenziali o delle sindromi parkinsoniane. Queste forme patologiche di morte cellulare non sono connesse che indirettamente ai processi di invecchiamento, anche se sono statisticamente più probabili col passare del tempo di vita. Una particolarità molto interessante delle trasformazioni diacroniche del SNC riguarda lo sviluppo delle connessioni (assoni) fra nucleo cellulare e organi bersaglio.

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Lo sviluppo nella prima infanzia: da zero fino a due anni segue

Alla nascita questo “cablaggio” è piuttosto sovrabbondante,nel senso che ogni collegamento è multiplo e ripetitivo. Esiste quindi un grande numero di assoni sovrannumerari. Nel primo sviluppo neo-natale questa multi-innervazione cede il posto ad una innervazione singola,nella quale ogni cellula muscolare (o sensoriale) è collegata ad una sola cellula nervosa. Assistiamo quindi ad una eliminazione di assoni senza morte neuronale. L’assone che persiste incrementa peraltro enormemente il numero delle sinapsi, o punti di contatto e di transito del segnale (Brodal, 1981). Questo tipo d’innervazione “maturo” è molto più efficiente (la risposta sensoriale o motoria ha un tempo di latenza più breve, non esiste o si riduce grandemente l’interferenza o il conflitto fra segnali neuro-elettrici provenienti contemporaneamente da più neuroni, è più economico in termini energetici, presenta una proiezione corticale meno dispersiva e confusa, etc.). Quest’aspetto dello sviluppo del sistema nervoso comporta anche dei fenomeni realmente sorprendenti. Attraverso il processo dell’eliminazione degli assoni si può creare un rimodellamento completo degli schemi di collegamento d’alcuni circuiti nervosi. In altre parole il fascio di assoni di un dato nervo motorio o sensoriale non è collegato agli stessi neuroni nel soggetto immaturo ed in quello maturo. Ad esempio, nel feto gli assoni del fascio piramidale provengono da tutte le aree corticali (sia sensoriali che motrici), mentre nel soggetto maturo provengono solo dalle aree corticali motrici. Questo processo di rimaneggiamento della struttura dei collegamenti nervosi e della composizione dei fasci di assoni che costituiscono i nervi sembra avere termine con la maturazione biologica. È quindi un fenomeno caratteristico dello sviluppo perinatale del SN e non propriamente parlando del suo sviluppo post-natale od invecchiamento. Tuttavia il rimaneggiamento dei fasci di assoni non è sincronizzato in tutte le parti del sistema, nel senso che in alcune aree esso si completa assai più tardi rispetto ad altre. Inoltre un aspetto di questo meccanismo evolutivo, precisamente la moltiplicazione delle sinapsi che segue alla selezione degli assoni, prosegue nell’intero arco di vita post-natale. L’architettura del SN nell’adulto e nell’anziano si presenta quindi come ridisegnata rispetto a quella dell’adulto giovane. Questo rimodellamento corrisponde ad un aumento di efficienza del sistema. Il progressivo aumento di efficacia del sistema riesce sicuramente a compensare i danni connessi alla perdita di popolazione neuronale. È per questo meccanismo di compensazione che una perdita di circa un sesto del totale dei neuroni (come avviene di norma oltre gli 85-90 anni nei maschi ed oltre i 90-95 anni nelle femmine) non comporta perdite reali di funzionalità. Anche se non è lecito stabilire un parallelismo fra la funzione e la struttura (nel nostro caso fra l’architettura dei collegamenti nervosi ed il tipo di funzionamento mentale) possiamo legittimamente supporre che alcune delle differenze che possiamo osservare nel funzionamento mentale in tarda età siano anche l’effetto di fattori neurofisiologici e neuroanatomici. Non si tratta tuttavia di cambiamenti dipendenti dall’età (nel senso che siano collegati a processi trasformativi a tempo) ma di cambiamenti concomitanti all’età (nel senso che la loro probabilità aumenta con il trascorrere degli anni). (tratto da: Godino A., Gli orizzonti attuali della ricerca nelle scienze della mente, Atti Convegno Unesco, Lecce, 1996)

li riflessi motori, primi fra tutti quelli della suzione e della prensione. Accostando un oggetto, come il capezzolo, ma anche un dito, alle labbra di un neonato vediamo che, automaticamente, parte il riflesso della suzione. Se tocchiamo il palmo della mano con un oggetto, per esempio un dito o una matita, questa in modo riflesso si stringe intorno all’oggetto. Il riflesso della suzione ha un ovvio significato per la sopravvivenza, mentre quello dell’aggrappamento o prensione appare un po’ meno chiaro dal punto di vista dell’adattamento all’ambiente d’allevamento umano. È stato osservato che il riflesso di prensione uma490

no è presente identico anche nelle scimmie neonate, per le quali è indispensabile potersi saldamente aggrappare alla pelliccia della madre quando vengono allattate. Nel piccolo dell’uomo non esiste chiaramente più questa necessità e tale riflesso parrebbe spiegarsi come un residuo evolutivo della specie. I movimenti alla nascita sono quasi tutti di tipo riflesso e non volontario, il coordinamento sensomotorio è molto carente. Questo coordinamento è così carente che molto spesso i neonati sono strabici, poiché un occhio non segue in parallelo il movimento laterale dell’altro.

Lo sviluppo psichico

Anche la forza muscolare è molto ridotta rispetto alle masse da porre in movimento. In pratica, il bambino piccolo riesce solo a stare sdraiato in posizione fetale e, se viene posto a sedere, non riesce a restare seduto e neppure a tenere eretta la testa sul tronco. Le uniche parti che riesce a muovere agevolmente sono le dita delle mani e dei piedi, gli occhi e i muscoli della faccia. Col passare delle settimane e dei mesi questa situazione cambia radicalmente, i movimenti riflessi cedono il posto a quelli volontari e il coordinamento motorio si fa preciso e completo. La sequenza ed i tempi di questi cambiamenti sono uguali per tutti i bambini sani. Di conseguenza il vedere che un bambino arrivato ad una determinata età riesca o no a fare certe cose diventa un criterio per diagnosticare la regolarità del suo sviluppo e la sua buona salute (Gesell, 1974). Esistono molte scale di valutazione dello sviluppo psico-motorio infantile, le più note fra di esse sono quella di Gesell e quella di Brunet-Lézine. Queste scale sono costituite da una tabulazione di capacità ed abilità motorie che fornisce delle misure precise di ciò che il bambino medio normale è in grado di fare, con tabelle normative per ogni intervallo di età dalla nascita. Queste scale sono dapprima regolate per settimane dalla nascita e poi, a partire dal terzo mese fino al quindicesimo, per mesi dalla nascita. A differenza dalle scale in uso per i soggetti più grandi, queste scale non producono dei punteggi ma una valutazione di tipo ordinale, nel senso che lo sviluppo psico-motorio del bambino piccolo viene paragonato a quello normativo e quindi valutato come adeguato, ritardato od anticipato per ogni settore comportamentale (riflessi, orientamento, percezione, coordinamento motorio, risposte volontarie, etc.). In parallelo con lo sviluppo motorio si registra un formidabile sviluppo intellettivo. Per comprenderlo meglio dobbiamo fare ricorso al modello teorico di Jean Piaget, lo psicologo che resta il principale punto di riferimento per gli studi sullo sviluppo dell’intelligenza. Questo modello si chiama epistemologia genetica. Epistemologia, dalle parole greche che significano discorso sulla disposizione ordinata delle cose, è la scienza che studia come gli elementi della conoscenza si strutturano e vengono organizzati. Genetica sta ad indicare che questo studio si riferisce alla programmazione in senso genetico degli elementi di conoscenza.

Il modello piagetiano concepisce l’intelligenza ed il pensiero come meccanismi che hanno lo scopo di adattare l’organismo all’ambiente. L’adattamento corrisponde ad uno stato di equilibrio nel rapporto fra organismo ed ambiente. Questa condizione di equilibrio non è statica, cioè raggiunta una volta per tutte, ma è dinamica. Infatti, cambia continuamente non solo l’ambiente con i suoi stimoli ma anche l’organismo con le sue risposte. Quest’equilibrazione continua si ottiene attraverso i meccanismi dell’assimilazione (incorporazione da parte dell’organismo di stimoli e di schemi) e dell’accomodamento (trasformazione strutturale del modo di funzionare mentale dell’organismo, che sarà così meglio capace di assimilare ulteriori stimoli). Naturalmente affinché lo stimolo possa venire assimilato deve incontrare un organismo che abbia una struttura compatibile con esso, che lo possa recepire e comprendere. Gli stimoli tattili, o la voce umana che ripete delle parole brevi e scandite, sono stimoli ben assimilabili dal lattante. Questi stimoli possono quindi essere ordinati in schemi che poi permetteranno un accomodamento ed un’assimilazione successiva di stimoli di maggiore complessità. Ma se noi presentassimo al lattante degli stimoli non assimilabili, per esempio dei calcoli aritmetici, dei giochi di costruzione o altre stimolazioni che sono collocate ad un livello di complessità per lui inaccessibile, non avremo ovviamente alcun tipo di accomodamento (Ranzi, 1968). La teoria piagetiana dello sviluppo prevede, infatti, che lo sviluppo sia dipendente dall’interazione adattativa dell’organismo con l’ambiente ma, allo stesso tempo, che giochi una parte importante la maturazione biologica e la trasformazione della struttura dell’organismo per delle leggi sue interne, indipendentemente dalle sollecitazioni e dagli apprendimenti. Lo sviluppo affettivo e somato-psichico sono esaminati congiuntamente e con grande profondità dal modello freudiano (Winnicott, 1965). La fase della prima infanzia, dalla nascita fino ai 18-24 mesi, viene detta da Freud fase orale. Essa ha questo nome perché è dominata dalla centralità della bocca e delle funzioni alimentari. È attraverso la bocca che il bambino assume cibo e prova piacere calmando la fame, il suo primo contatto con l’esterno avviene attraverso la bocca alla ricerca del seno. Sempre attraverso la bocca, con l’assaggiare, con il 491

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Lo sviluppo nella prima infanzia: da zero fino a due anni

QUADRO 19.III SVILUPPO COGNITIVO SECONDO PIAGET: FRA 0 E 2 ANNI Dalla nascita fino ai due anni abbiamo la fase che Piaget ha chiamato dell’intelligenza senso-motoria. Questa fase si suddivide in 6 sottoperiodi: 1. da 0 ad 1 mese - fase degli esercizi riflessi: i meccanismi riflessi, come la suzione, si perfezionano con l’esercizio ed il bambino tende a generalizzarli (succhia oltre al capezzolo anche le proprie dita e tendenzialmente ogni oggetto che incontra a portata di bocca). 2. da 1 a 4-5 mesi - fase delle reazioni circolari primarie: il bambino ripete in modo attivo un risultato gradevole. Dopo che è riuscito per caso a succhiarsi il pollice, per esempio, coordinerà i movimenti del braccio per ripetere attivamente l’esperienza. Cominciano i primi riflessi condizionati (per esempio, il bambino si prepara a succhiare quando vede i movimenti o le situazioni che precedono l’allattamento). 3. da 5 a 9 mesi - fase delle reazioni circolari secondarie: il bambino ripete in modo attivo un’azione che ha portato ad un risultato gradevole non più agendo sul proprio corpo ma sull’esterno. Se, ad esempio, toccare per caso un carillon ha prodotto un suono gradevole il bambino sembra collegare la causa (toccare o tirare) con l’effetto (suono musicale) e ripete attivamente il gesto. Questa è anche la fase delle prime generalizzazioni logiche (se al bambino giunge un suono gradevole da lontano, per esempio, può succedere che egli tocchi il carillon per farlo continuare). 4. da 9 a 12 mesi - fase del coordinamento degli schemi secondari: gli schemi di azione vengono coordinati ed usati con una certa sistematicità per raggiungere lo scopo. 5. da 12 a 18 mesi - fase della sperimentazione: il bambino non si limita più a ripetere le azioni che hanno prodotto dei risultati ma esperimenta attivamente delle varianti per scoprire nuove possibilità. Manipola dunque sistematicamente gli oggetti, tira degli oggetti da varie distanze, etc. La comprensione della realtà si allarga ma passa sempre per la verifica empirica. 6. da 18 a 24 mesi - fase della interiorizzazione e rappresentazione mentale: nel fare le sue ricerche si vede che il bambino a volte cessa di agire e poi mostra i segni di una comprensione improvvisa. Egli mostra, quindi, la capacità di fare delle riflessioni e delle “prove mentali” in assenza dell’oggetto. È questa la fase in cui cominciano i primi giochi simbolici, in cui il bambino comincia ad essere capace di “fare finta”. Questa è anche la fase, come sappiamo, dello sviluppo del linguaggio, dell’apprendimento delle prime regole di combinazione dei morfemi.

mordicchiare, il bambino fa le sue prime esperienze e conoscenze di tipo materiale sulla consistenza e la natura degli oggetti e dei materiali. Fino a 4 mesi abbiamo la fase della incorporazione, dopo i 4-6 mesi abbiamo l’inizio della fase della ambivalenza, coi primi esempi di attacco e di distruzione. L’unico oggetto che si è costituito come tale nei confronti del neonato, l’oggetto primario, è il seno materno. In altre parole il neonato è solo in rapporto con le proprie sensazioni interne, di fame e di sazietà, di quiete o di agitazione, e l’unica parte del suo corpo che diventa veicolo di scambio (nel senso ovviamente della sola ricezione e dell’incorporazione) è la bocca. Il primo oggetto che quindi egli può riconoscere come tale (ovvero come cosa esterna e separata rispetto al proprio corpo) è il capezzolo. Attraverso il costituirsi dell’oggetto ovviamente si costituisce il primo nucleo della propria identità, il primo senso del proprio esistere distinto da questo qualcosa che è diverso da sé. 492

Questo nucleo di identità primordiale è privo di sfumature a livello emotivo: la condizione del neonato è sazia o affamata fino al dolore. Ai richiami (al pianto per fame, per esempio) segue una risposta di soddisfazione del bisogno. Che cosa succede ai bambini molto piccoli che vengono trascurati o, magari perché lasciati in orfanotrofio dalla nascita, non godono delle cure sollecite di una madre? Secondo Freud essi, non potendo costituire un rapporto di attaccamento valido e non potendo costituire un buon oggetto primario, rischiano di arrestarsi nel proprio sviluppo e di restare fermi nel loro sviluppo ad un livello mentale primitivo e di tipo psicotico. Molti studiosi, fra i quali i più noti sono Bowlby e Spitz, hanno fatto ricerche sistematiche per verificare la realtà della previsione freudiana. Si è visto che i fenomeni più acuti e gravi si hanno quando un bambino che ha la madre viene abbandonato improvvisamente: si ha il quadro del cosiddetto ospitalismo, con il piccolo che riduce l’attività esplo-

Lo sviluppo psichico

rativa fino all’arresto catatonico, riduce o cessa l’alimentazione e le richieste di cibo anche fino alla morte e riduce le difese anticorpali ed immunitarie, non resistendo più neanche a malattie infettive molto banali (Bowlby, 1989). I bambini che hanno madri incostanti nella risposta ai loro richiami (o perché depresse gravi, o perché malate e spesso assenti) presentano molto spesso un’evoluzione psicopatologica: da grandi non avranno capacità di amare e legarsi correttamente nei rapporti sociali, nei casi più gravi svilupperanno dei sintomi psicotici e diventeranno schizofrenici con una frequenza molto più alta del normale. In qualche modo il neonato e il bambino sono in una condizione di assoluta dipendenza che, nella totale inconsapevolezza di quanto avviene, diventa soggettivamente un’esperienza di perpetua soddisfazione del bisogno e quindi una condizione di onnipotenza. Col progredire dello sviluppo cognitivo, particolarmente a partire dal sesto-ottavo mese, il bambino comincia ad accorgersi che la risposta al bisogno non dipende dal potere onnipotente del suo richiamo ma solo dalla prontezza e dalla disponibilità della madre (o dell’adulto che si prende cura di lui). Talora l’oggetto primario (la madre ed il seno) risponde prontamente, è buono, talora risponde tardi o non risponde per niente, è cattivo. Per un periodo molto lungo il bambino, che si è accorto ora di dipendere dall’oggetto e di non essere onnipotente, non si rende conto che ad essere buona e cattiva è sempre la stessa persona (la madre o chi si prende cura di lui) ma sembra credere che si tratti di due persone diverse, una buona ed una cattiva. Quando egli comincia a riconoscere la persona e a capire che è sempre la stessa (il che avviene di solito verso gli otto mesi) inizia un periodo di ambivalenza, cioè un periodo in cui egli prova sentimenti contrastanti di amore e di odio verso la mamma. Circa alla stessa epoca si trasforma il modo di rapportarsi agli altri con il segnale del sorriso (Battacchi, 1989). Alla nascita la risposta del sorriso è presente come un movimento muscolare riflesso che compare saltuariamente durante il sonno. È una specie di riflesso in risposta a stimoli di tipo interno, non compare come reazione al contatto con l’esterno ma solo quando il neonato è massimamente distaccato dalla realtà, durante il sonno profondo. Circa all’età di due-tre mesi il sorriso si presenta

come una risposta riflessa a qualunque sagoma in movimento, posta dinnanzi a lui a breve distanza, che contenga un disegno che schematicamente ricordi un volto umano. Quindi il sorriso diventa una risposta automatica ad uno stimolo esterno, risposta pur sempre meccanica ma che diventa appropriata perché “premia” chi si prende cura del bambino. Il bambino sorride, in effetti, in modo automatico anche di fronte a dei disegni in movimento verso di lui e che hanno i tratti di un volto, oppure anche al volto di una donna che non è la sua mamma o al volto di un estraneo che si avvicini molto a lui in posizione frontale. Il requisito minimo della raffigurazione capace di evocare una risposta riflessa di sorriso è composto da quattro segni, posti in posizione frontale, con due tratti o punti per gli occhi, uno lineare verticale ed uno orizzontale rispettivamente per il naso e la bocca (Bridges, 1932). Ad otto-nove mesi mediamente il bambino diventa capace di riconoscere i volti, quindi al volto familiare della madre od anche del padre sorride con piena intenzione (non è più una risposta riflessa ma un segnale volontario ed orientato) mentre di fronte al volto estraneo che si avvicina troppo, o non sorride per niente oppure, se ne viene spaventato, scoppia a piangere. L’ambivalenza nel rapporto verso la madre è quindi legata allo sviluppo delle capacità cognitive, ad una diversa percezione e ad una diversa reazione emotiva di fronte agli stessi stimoli. Questa capacità di riconoscere e di distinguere vale naturalmente non solo verso l’Altro ma anche verso se stesso. Circa alla stessa età, per esempio, il bambino posto di fronte alla propria immagine riflessa in uno specchio reagisce sorridendo e si protende verso di essa come se si trattasse di un altro bambino. Questo vuol dire che egli ha un rudimento di sentimento identitario (distingue sé dal mondo esterno), ma che non connette questo sentimento in una percezione chiara di sé (quindi non riconosce nel riflesso l’immagine di se stesso). Dopo qualche tempo la risposta di fronte allo specchio cambia: dapprima sembra che il bambino si “arrenda” di fronte alla presenza del diaframma di vetro che gli impedisce di toccare quel bambino che pure vede così chiaramente. Ad un certo punto però, magari dopo avere osservato ripetutamente che quando si allontana il bambino scompare e che i movimenti che fa l’altro sono sempre uguali ai suoi, evidentemente la percezione si tra493

19

Lo sviluppo nella prima infanzia: da zero fino a due anni

sforma e il bambino dimostra di capire che si tratta di una immagine di sé. Questa trasformazione concettuale è frequente intorno ai 18 mesi ed è costante nei bambini normali di 21-24 mesi, i quali si guardano allo specchio e si toccano parti del viso (come il naso o le orecchie) guidandosi con l’immagine riflessa, indicano lo specchio e si toccano dicendo il proprio nome (Blurton, 1980).

19.4 Lo sviluppo nella seconda infanzia: da due fino a sei anni Da un punto di vista somatico la velocità dell’accrescimento rallenta notevolmente e cala dai 13 ai 7 centimetri l’anno fra l’inizio e la fine della seconda infanzia. Il tipo di crescita è distribuito diversamente: mentre la testa resta più o meno uguale, a crescere sono il tronco e le gambe. Questa è una crescita che si chiama cefalocaudale, in quanto procede dalla testa verso le estremità. Il sistema nervoso non presenta ulteriori modificazioni maturative nella struttura (la mielinizzazione si è già ben completata nella primissima infanzia), ma si osservano delle importanti differenze funzionali. A partire dai 30 mesi circa si possono formare i primi ricordi episodici permanenti. Mentre gli eventi sperimentati nella prima infanzia non lasciano mai tracce permanenti in memoria (quindi il soggetto adulto non riesce a ricordare nulla di ciò che gli sia avvenuto a quell’età), nella seconda infanzia la memorizzazione a lungo termine FETO

NEONATO

3 ANNI

comincia ad essere attiva secondo modalità che sono, almeno in parte, analoghe a quelle definitive. Questi ricordi infantili sono però in genere frammentari, e di lunghi periodi possono essere ricordate solo delle scene che ad un adulto possono sembrare irrilevanti (come il colore di un lombrico, la voce della maestra all’asilo, l’ombra cupa di una nuvola su di un campo...). Con ogni probabilità sono rimasti registrati in modo permanente solo gli stimoli che hanno colpito la fantasia e la emotività del bambino. Il fatto di poterli ricordare, da adulti, indica che noi possiamo ancora entrare in contatto con alcune parti di noi infantili: il contatto non si è perso perché queste parti non si sono completamente perse. È per questo motivo che gli adulti hanno ricordi così frammentari e marginali della propria infanzia e fanciullezza ed è probabilmente per lo stesso motivo che sotto ipnosi (con un allentamento del rigido controllo delle funzioni adulte dell’io) possono emergere dei ricordi molto più ricchi e dettagliati (Baddeley, 1992). A livello di coordinamento motorio il bambino, che aveva già imparato a camminare da solo, diviene capace di correre, di saltare con la corda, di giocare con la palla, di nuotare, di andare in bicicletta. La motricità si organizza con crescente precisione e diviene gioco motorio. Il fine coordinamento che via via acquisisce gli permette gradatamente di badare a se stesso ed apprende a vestirsi e svestirsi da solo, ad allacciarsi le scarpe, a lavarsi la faccia e le mani da solo, ad adoperare correttamente le posate,etc. A livello di gioco compare l’interesse per le manipo-

6 ANNI

10 ANNI

14 ANNI

20 ANNI

Fig. 19.3: Lo sviluppo somatico cefalo-cavdale vede mutare radicalmente il rapporto fra cranio e insieme del corpo. Mentre nel feto di 4 mesi (prima figura da sinistra) il rapporto è di uno a due nel giovane adulto scende ed è di uno a otto.

494

Lo sviluppo psichico

lazioni fini, con giochi di biglie, interesse per gli incastri e semplici giochi di costruzione, per giochi con le marionette o per giochi con accessori per le bambole. Soprattutto al principio di questa fase, nel terzo e quarto anno di vita, alla capacità di muoversi e manipolare e alla vivacità dell’attività d’esplorazione non corrisponde una adeguata percezione del

pericolo e, in mancanza di cautele e di una sorveglianza continua ed attenta da parte di un adulto, si possono verificare degli incidenti anche gravi e letali (col gas in cucina, con le posate e coltelli, con le prese di corrente, con animali estranei, col traffico stradale, etc.). Fra i due ed i sei anni si assiste ad un grande sviluppo delle capacità linguistiche. Aumenta il nume-

Fig. 19.4: Sviluppo del coordinamento motorio fra i 2 e i 6 anni.

495

19

Lo sviluppo nella seconda infanzia: da due fino a sei anni

Età (in m.) 0

Piacere gioia sorriso endogeno.

1

Circospezione

paura

Rabbia Collera

Sviluppo cognit. (Piaget)

Trasalimento Sconforto dolore.

Esercizi riflessi

Attenzione coatta.

Prime abitudini e reazioni circolari primarie.

Sviluppo cognit. (Dècarie) I Nessuna ricerca attiva dell’oggetto scomparso.

3

Sorriso sociale

4

Piacere. Riso attivo

Rabbia (disappunto) Accomodamento visivo ai movimenti rapidi; prensione interrotta (inizi di ricerca di un oggetto caduto).

Circospezione

Stadio narcisistico pre- Regolazione inziale. oggettuale (oggetto Sonno, alimentazione. anaclitico).

Stadio intermedio (oggetto precursore).

3

Sorriso esogeno non selettivo. Emozione negativa per l’interruzione del gioco. Capacità di aspettare.

Scambi reciproci. Madre e bambino coordinano l’alimentazione e le attività di cura.

Iniziativa. Prime attività autodirette (il bambino inizia lo scambio sociale, ha preferenze nelle attività.

6

Collera.

III ricostruzione di un tutto invisibile; soppressione di ustacoli che impediscono la percezione.

Stadio oggettuale (a). Esperienze di riuscita o di Sorriso esogeno seletti- interferenze nel conseguire le mete. vo.

7

Paura (sorpresa).

IV Ricerca attiva dell’oggetto scomparso ma senza tener conto della successione degli spostamenti visibili.

8

9

11

Esultanza.

13

Affetto per se stessi.

Ansia, paura Umore immediata. irato, petulanza. Reazioni circolari terziarie e scoperta V Ricerca attiva dell’oggetto di mezzi nuovi. scomparso tenendo conto della successione degli spostamenti visibili, ma non di quelli invisibili.

Stadio oggettuale (b) (oggetto totale). Conformità alle richieste.

Vergogna

Conformità alle proibizioni. Differenzazione fine dei segni di comunicazione.

Opposizione.

Inizio della interiorizzazione degli schemi (rappresentazione) e prime soluzioni di problemi. VI Rappresentazione degli spostamenti invisibili.

Focalizzazione. Disponibilità e sensibilità alla risposta della madre, messa alla prova (richieste centrate sulla madre). Esplorazione da un a base sicura. Reciprocità dipendente da informazioni sulla situazione.

Orgoglio, amore

10 11

12

13

Autoaffermazione. Ampliamento dell’iniziativa. Successi e gratificazioni ragiunti indipendentemente dalla madre.

Far del male intenzionale.

24

36

9

Cordinazione degli schemi secondari e applicazione a situazioni nuove.

10

18

4

5

8

12

0

2

6

Gioia

Età (in m.)

Il bambino si volge ver- Acquietamento ed eccitaso la nutrice se preso in zione. braccio. Inizio di reattività preferenziale per chi ha cure materne.

Coordinazione vistaprensione e reazioni circolari secondarie.

5

7

Sviluppo sociale (Sander)

1

II Assimilazione ricognitiva; Attesa passiva.

2

Sviluppo affettivo (Dècarie)

Colpa.

18

24

Emergenza del concetto di sé. Senso di sé come attore. Autodeterminazione. Senso di separatezza.

36

Adattato da Sroufe (1979). Le età (in mesi) indicate non vanno intese né come età della comparsa iniziale, né come età della massima efficienza funzionale delle emozioni, ma piuttosto come età a cui, dai dati disponibili, la specificata reazione emotiva risulta comune.

Tabella 19.1: Sinossi dello sviluppo affettivo, cognitivo e sociale fra 0 e 3 anni.

496

Lo sviluppo psichico

ro di parole (che passa da un vocabolario d’uso di 120-200 ad almeno 2500 parole) ma, soprattutto, si apprende come usarle e connetterle in frasi. Al di sotto dei quattro anni il bambino mostra un uso egocentrico del linguaggio: lo usa per comunicare dei bisogni oppure “gioca” con esso come in un soliloquio. Fino ai 4 anni il bambino opera poche distinzioni concettuali e questo traspare da come usa le parole che conosce. Il suo linguaggio è concreto (la parola non indica un oggetto “è” l’oggetto), la parola è unica e generalizzabile (tutti gli animali a quattro zampe sono “cane”), il tempo è solo al presente, le frasi sono solo brevissime (due-tre parole o poco più) e direttamente dichiarative. Quando comincia ad imparare le regole linguistiche, il bambino le adopera in modo rigido compiendo

quelli che si chiamano ipercorrettismi o regolarizzazioni (per esempio dice: “fava” invece di faceva, “andarò” invece di andrò, etc.). A partire dai 4 anni il linguaggio non è più egocentrico ma diventa socializzato. Il bambino parla molto e usa il linguaggio sia per fare delle domande sia per descrivere ad altri, seppure con frasi giustapposte ed in modo non articolato, quello che ha fatto (Bridges, 1932). Verso i sei anni comincia, infine, la ricerca della collaborazione con l’interlocutore, il bambino articola meglio il proprio discorso ed inizia a parlare non solo di ciò che ha fatto ma anche di ciò che pensa. Il livello di competenza linguistica dipende strettamente dagli stimoli ricevuti dall’ambiente familiare. Nelle famiglie meno acculturate gli scambi verbali sono più semplici, utilizzano un vocabola-

QUADRO 19.IV REALISMO NOMINALE ED ANIMISMO NEL PENSIERO DEL FANCIULLO Una tendenza fondamentale che condiziona profondamente il pensiero del bambino (come per esempio i suoi tentativi di interpretare il mondo fisico e umano) è quella che Piaget indica col nome di “realismo”. Essa si manifesta come primato non più soltanto di un particolare punto di vista (il proprio) sugli altri possibili, ma addirittura dell’attività percettiva su quella rappresentativa. La realtà materiale, percettibile appare cioè, a un pensiero permeato di realismo, come l’unico tipo di realtà. Questo può verificarsi nel senso che ad altre forme di realtà, che sono di natura soggettiva (come per esempio quella onirica), verrebbero attribuiti quei caratteri di materialità che ha la realtà percettiva. Questa tendenza al realismo, nelle varie modalità in cui può esprimersi, può spiegare alcune particolari forme di pensiero e credenze proprie dell’età infantile; così giustifica quella sostanziale confusione tra immagine mentale dell’oggetto e oggetto concreto, in quanto allo stesso pensiero viene attribuito un carattere di realtà percepibile, ed esso viene quindi concepito come qualcosa di materiale. Ciò comporta anche l’incapacità di dissociare le parole (o, più specificamente, i nomi), in quanto strumenti o prodotti del pensiero, dalle cose alle quali essi sono riferiti. Vengono così attribuiti ai nomi quei caratteri di concretezza, materialità, percettibilità che sono invece riferibili agli oggetti che essi indicano (aspetto questo che Piaget denomina realismo nominale). Il realismo nominale deriva dal fatto che il bambino ignora per lungo tempo l’esistenza di sé come soggetto pensante ed ignora anche l’interiorità dell’attività del pensiero e dei prodotti del pensiero e ciò si può notare nel fatto che anche nell’interpretazione della realtà del sogno egli incontra una grande difficoltà a cogliere la natura puramente mentale di questo fenomeno che pure ha marcati caratteri di soggettività. Il sogno tende, infatti, ad essere considerato come qualcosa che ha i caratteri della realtà fisica e solo a uno stadio ulteriore di sviluppo ne viene riconosciuta l’origine interiore, immateriale. Per esempio, ecco come un bambino di 5 anni e mezzo risponde a domande riguardanti il sogno postegli da un adulto. D. “Hai gia sognato?” R. Si, ho sognato che avevo un buco nella mano. D. “I sogni sono veri?” R. No, sono immagini che vediamo. D. “Da dove vengono?” R. Da Dio. D. “Quando sogni hai gli occhi aperti o chiusi?” R. Chiusi. D. “lo posso vedere il tuo sogno?”

497

19

Lo sviluppo nella prima infanzia: da zero fino a due anni segue

R. No, lei è troppo lontano da me. D. “E tua madre?” R. Sì, ma accende la luce. D. “Il sogno è nella tua camera o dentro di te?” R. Il sogno non è dentro di me, altrimenti non lo vedrei. D. “E tua madre potrebbe vederlo?” R. No, perché non è nel mio letto. Solo la mia sorellina dorme con me. Vi è dunque un periodo durante il quale non è ancora compiuta una chiara differenziazione tra mondo interiore e soggettivo, e mondo esterno, i quali vengono insieme confusi in un’unica vasta e vivente realtà. Durante tale periodo il bimbo tende a ridurre tutto il reale alla propria particolare esperienza del reale e a non rendersi conto che può esservi una grande parte del reale che ha esistenza in un mondo interamente indipendente da lui; inoltre si comporta come se le conoscenze che egli possiede o i desideri, gli affetti, le emozioni che egli prova si estendessero e fossero comuni agli elementi che costituiscono quella parte del reale di cui ha esperienza. In una realtà vissuta così dal bambino, come un “continuum” tra lui stesso e quello di cui ha esperienza, possono quindi venire vissuti come reali infiniti rapporti diretti di tipo precausale, irrazionale, e precisamente quelli che Levy-Brühl, riferendosi al modo di pensare dei primitivi, ha chiamato rapporti di partecipazione. La partecipazione viene definita dal Piaget come la “relazione che il pensiero primitivo crede di percepire tra due esseri o due fenomeni che considera sia come parzialmente identici, sia come aventi un’influenza stretta l’uno sull’altro, benché non abbiano tra loro né contatto spaziale, né connessione causale intelligibile”. E poiché il tentativo di modificare la realtà ad opera dei rapporti di partecipazione costituisce la magìa, la constatazione dell’esistenza di comportamenti infantili di tipo magico costituisce una prova che l’affermazione di una iniziale e relativa indifferenziazione tra Io e mondo è corretta. Perché in effetti è viva nel bambino la sensazione di poter influire sulla realtà ad opera di gesti, o parole, o azioni il cui rapporto con la realtà è soltanto immaginato sulla base di rapporti di partecipazione. Altra caratteristica del pensiero infantile, che lo avvicina a quello del primitivo, è l’animismo, intendendosi con questo termine la tendenza ad attribuire alle cose vita e coscienza. Alla base di questa caratteristica sta la tendenza egocentrica a non rendersi conto che in altri esseri, o elementi del reale, possono non essere affatto presenti emozioni, convinzioni o modi di vedere che sono in realtà esistenti solo nel soggetto, e che al contrario possono esservene altri diversi dai suoi o non esservene alcuno (come negli oggetti inanimati). Un esempio interessante di animismo, spontaneamente espresso, è il seguente. Sospendiamo una scatola metallica a una corda doppia e, davanti al bambino (di 9 anni e mezzo), l’attorcigliamo in modo che, lasciando la scatola, la corda si srotoli trascinandola in un movimento rotatorio. D. “Perché la scatola gira?” R. Perché la corda e arrotolata. D. “Perché questa gira, allora?” R. Perché il filo (la corda) vuole srotolarsi. D. “Perché?” R. Perché era disfatta (vale a dire: perché vuole riprendere la posizione iniziale, in cui era “disfatta” cioè non arrotolata). D. “Il filo sa di essere arrotolato?” R. Sì. D. “Perché?” R. Se vuole srotolarsi, sa di essere arrotolato. D. “Lo sa veramente di essere arrotolato?” R. Sì ... non sono sicuro. D. “Come pensi che lo sappia?” R. Perché sente di essere attorcigliato. Così la coscienza della propria consapevolezza e intenzionalità nel movimento può indurre il bambino a ritenere, generalizzando che, ovunque sia presente il movimento, siano presenti anche gli altri due attributi e, quindi, anche quello di vivente. E infatti è assai vasto il numero degli elementi del mondo naturale ai quali il bambino attribuisce caratteri di vita, di coscienza e di intenzionalità, spesso associati a una visione finalistica dovuta anche ad esigenze morali. L’ animismo infantile non è comunque una credenza sistematica e consapevole (il che, d’altra parte, non sarebbe possibile per la scarsa organicità del pensiero infantile in questo stadio), ma solo un atteggiamento generale, quale spesso si rivela in convinzioni non collegate tra di loro, non ben motivate, tra loro contraddittorie. Da: Piaget J., La rappresentazione del mondo nel fanciullo, Einaudi, Torino, 1955.

498

Lo sviluppo psichico

rio più ristretto, sono pertinenti ad oggetti e azioni concrete più che a concetti astratti. I messaggi verbali vengono, cioè, trasmessi utilizzando quello che Bernstein (Umiltà, 1995) ha chiamato il codice linguistico ristretto, per contrapporlo al codice linguistico allargato delle famiglie più acculturate. Molti studi hanno ripetutamente dimostrato che, in rapporto alla diversa stimolazione in famiglia, i bambini giunti all’età scolare rivelano differenze di competenza linguistica che la scuola ben difficilmente riuscirà poi ad eliminare (Balconi, 2002). Questo è un primo importante esempio di come lo sviluppo già nella seconda infanzia sia influenzato potentemente dagli apprendimenti e quindi presenti delle differenze sempre più ampie fra un soggetto e l’altro. Sempre in questa fase dello sviluppo compare e si accresce rapidamente la capacità di disegnare. A tre anni si tratta per lo più di semplici e rudimentali scarabocchi di difficile interpretazione. Le forme geometriche sono molto imprecise e mal tracciate, le prime figure umane sono solo dei pupazzetti filiformi e incompleti. Successivamente le figure si precisano e si arricchiscono nella definizione dei particolari, compare un rudimento di prospettiva e la distinzione fra figura e sfondo. La progressione delle capacità di disegnare è legata alla progressione dello sviluppo intellettivo, mentre il contenuto espresso dai disegni è ampiamente dipendente dalla condizione emotiva e dalla personalità del bambino. Di conseguenza certi tipi di disegni sono caratteristici solo di certe particolari età (per esempio, sono tipici dei bambini di 4 anni). Allora osservando dei disegni liberi o proponendo di fare dei disegni con dei temi a richiesta (test del disegno) si possono ottenere delle informazioni utili, ad esempio, per formulare una diagnosi di sviluppo intellettivo oppure per diagnosticare la presenza di disturbi della personalità. Per quanto riguarda lo sviluppo intellettivo abbiamo prima quella che Piaget chiama la fase del pensiero pre-operatorio, che si suddivide in pre-concettuale (fra 2 e 4 anni) e in fase del pensiero intuitivo (fra i 4 ed i 6-7 anni). Fra i due e i quattro anni compaiono i primi rudimenti di concetti od operazioni mentali. Il bambino ha chiaramente superato la restrizione della fase dell’intelligenza senso-motoria (nella quale la comprensione è ridotta all’immediata verifica di un effetto materiale) e comincia a fare alcune antici-

pazioni mentali sull’andamento dei fenomeni. Egli quindi comincia ad avere capacità di rappresentazione mentale e di simbolizzazione, cosa che del resto ben dimostra con il linguaggio e con il gioco. Non si tratta tuttavia di concetti completi e generali, o frutto di deduzione dal particolare al generale, ma di concetti rudimentali (o pre-concetti come li chiama Piaget). Nella fase del pensiero intuitivo (di norma dopo i quattro anni) il bambino usa ampiamente la rappresentazione mentale per fare delle ipotesi causali di tipo analogico. La rappresentazione mentale permette al bambino di manipolare dei pensieri piuttosto che degli oggetti concreti ma il modo della rappresentazione è solo lineare e additivo. Non sono possibili delle vere operazioni mentali, non esiste la reversibilità ed il pensiero presenta una logica unidirezionale strettamente aderente alla realtà fenomenica e alla sua rappresentazione. Una classica illustrazione di questo modo di pensare ancora pre-operatorio è fornita dalla prova dei bicchieri. Se si presenta al bambino un bicchiere alto e stretto pieno fino al bordo e poi si travasa il liquido, davanti ai suoi occhi, in un bicchiere basso e largo e poi gli si domanda in quale dei due c’è più acqua (o si chiede se c’è o no differenza fra i due bicchieri), la risposta in questa fase è sempre la stessa: c’è più acqua nel bicchiere stretto, quello con il livello più alto. Quando l’acqua è nel bicchiere basso, ce n’è di meno. Anche ripetendo più volte il travaso nei due sensi la risposta a questa prova di conservazione della quantità non cambia mai perché, contro ogni logica, il bambino sembra ancorare la sua risposta al solo dato percettivo del livello, che è più alto: “quindi vuol dire che c’è più acqua”. Lo stesso risultato si ottiene modellando a sigaro delle palle di plastilina oppure scomponendo dei cubi in cubetti più piccoli (Ranzi, 1968). Nel modello dello sviluppo psicodinamico secondo Freud il periodo della seconda infanzia non è una fase unitaria. Il periodo fino ai 3-4 anni è denominato da Freud fase anale. In questa fase inizia l’autonomia motoria del bambino, autonomia che ha la sua prima radice nel controllo degli sfinteri. Il bambino può trattenere e rilasciare il contenuto del suo intestino, su questo controllo si gioca in parte il rapporto educativo e la relazione con i genitori. Il trattenere, la 499

19

Lo sviluppo nella prima infanzia: da zero fino a due anni

gia junghiana e non freudiana) si traduca in un disturbo di tipo nevrotico. Un esempio di nevrosi di origine edipica, come abbiamo già visto, è la nevrosi isterica e quella ansioso-fobica.

19.5 La fanciullezza

A più di B

A'

più di

B'

Due esempi di conservazione Fig. 19.5: Fino a circa 7 anni i bambini sono indotti a dire che nel bicchiere più alto c’è più acqua, anche se la travasiamo davanti ai loro occhi.

stitichezza, può divenire un sintomo di un guasto nella relazione con i genitori, un segno del desiderio di controllare e di possedere. È da disturbi di sviluppo in questa fase che si fanno derivare sia alcune forme di perversione sessuale in età adulta che dei disturbi di tipo ossessivo o, nelle forme meno gravi, delle distorsioni del carattere nel senso dell’avarizia e della possessività. Fra i tre anni e mezzo e i sei si colloca la fase fallica, caratterizzata dalla preminenza della scoperta e della manipolazione del proprio corpo e in particolare dalla scoperta dei genitali maschili e femminili. In questa fase tipicamente i bambini si sentono attratti dal genitore di sesso opposto, tendono a sentirsi a disagio e in colpa per questo e, più o meno chiaramente, temono una punizione e vivono come ostile e minaccioso il genitore dello stesso sesso. Richiamandosi alla nota tragedia greca di Sofocle Freud ha chiamato questa fase con il nome di fase edipica (per le bambine forse sarebbe più esatto parlare di fase di Elettra, ma si usa lo stesso nome per entrambi i sessi per semplicità). La fase edipica è un evento fisiologico e naturale che non diventa necessariamente una patologia o un problema clinico. Quando, però, il comportamento dei genitori non è adeguato (perché, ad esempio, mostrano delle preferenze spiccate nel rapporto con il bambino) o per circostanze successive che fanno rivivere i contenuti di questa fase dello sviluppo, può avvenire che il complesso edipico (ricordiamo, a tale proposito, che il termine complesso fa parte della terminolo500

Non è per caso che abbiamo mancato di indicare nel titolo del paragrafo i precisi limiti temporali di questa fase evolutiva. Infatti, se l’inizio può essere fissato con ragionevole precisione intorno ai 6-7 anni e con l’inizio dell’età scolare, la sua conclusione coincide con la maturazione puberale, la quale si verifica in un’età diversa fra maschi e femmine e con una grande variabilità da soggetto a soggetto. In termini molto generali si può dire che la fanciullezza si conclude intorno agli 11 anni in media per le bambine ed ai 13 per i bambini. Può essere interessante notare che dal punto di vista medico è considerata come pubertà precoce quella che si conclude prima dei 10 anni e pubertà tardiva quella che inizia dopo i 18 anni (considerando entrambi i sessi). Anche se la moda statistica è di 12,5 anni per le femmine e 14,5 per i maschi, delle variazioni anche ampie rispetto a queste due età sono fisiologiche e normali e non devono destare alcuna preoccupazione. A differenza dell’infanzia la fanciullezza non è caratterizzata da cambiamenti molto evidenti dal punto di vista corporeo. L’aumento di statura prosegue con lo stesso ritmo, di 5-6 cm l’anno, che abbiamo già osservato al termine della seconda infanzia. Al termine della fanciullezza, nei due anni che precedono la maturazione sessuale definitiva, si osservano sia alcuni segni iniziali della trasformazione puberale che un improvviso “salto” di velocità della crescita. Nel momento di picco la crescita può arrivare anche a 12 cm all’anno. In definitiva la fanciullezza dei maschi è in media più prolungata di quella delle femmine di circa un paio d’anni. Per motivi abbastanza misteriosi (anche se qualcuno sostiene che il motivo-chiave sia, molto semplicemente, la migliore alimentazione odierna rispetto al passato) negli ultimi cento anni si è assistito ad un accorciamento della fanciullezza, in quanto la trasformazione puberale ancora alla fine dell’ottocento era collocata circa tre anni più tardi di adesso (15 anni per le femmine e 17 per i maschi). Da un punto di vista sensoriale e fisiologico comin-

Lo sviluppo psichico

ciano ad apparire, anche se per la loro minima entità non sono praticamente avvertibili, alcuni fenomeni che caratterizzano l’invecchiamento. Uno di questi è la riduzione del contenuto acquoso e la riduzione della elasticità dei tessuti. La cute si presenta quindi leggermente meno liscia e tesa rispetto all’infanzia. La lente dell’occhio è leggermente meno elastica rispetto a prima, quindi il punto più ravvicinato di messa a fuoco nitida passa dai 5-7 centimetri della seconda infanzia gradatamente fino ai 10-13 centimetri nella fase pre-puberale (AA.VV., 1989). La psico-motricità nella fanciullezza non progredisce in modo significativo rispetto alla seconda infanzia, anche se il consolidamento delle masse muscolari che precede la pubertà comincia a rendere possibile un impegno atletico e ginnico non agonistico. In considerazione della buona capacità d’appren-

M

Aumento di statura annuo in cm

0 ETÀ

3

6

7

9

12

dimento motorio, della motivazione crescente e dell’aumento della capacità respiratoria e della resistenza e forza muscolare, è proprio a partire dall’età di 11-12 anni che cominciano ad essere possibili gli esercizi ginnici sistematici e la prima selezione dei futuri atleti. Da un punto di vista pedagogico ed evolutivo, tuttavia, un addestramento intensivo di tipo atletico ed agonistico risulta prematuro e controproducente, poiché impoverisce lo sviluppo psico-sociale, affettivo e intellettivo del fanciullo. Lo sviluppo della intelligenza è rilevante perché questa è la fase che vede, per usare la terminologia di Piaget, la comparsa della capacità di effettuare delle operazioni concrete. Il fanciullo comincia, infatti, ad essere capace di effettuare delle operazioni logiche vere e proprie. La

F

Aumento di statura annuo in cm

0 ETÀ

3

6

9

12

7

10

10

Primo aumento del seno Peli pubici

Ingrandimento testicoli Peli ascellari

15

Peli pubici

Menarca

Prima eiaculazione

Seno adulto

Pene e testicol i di misura adulta

15

Fig. 19.6: Caratteristiche e temporizzazione medie della pubescenza maschile e femminile.

501

19

La fanciullezza

prova della costanza della quantità, che abbiamo visto nel precedente paragrafo, è ora risolta correttamente perché il fanciullo comincia ad essere capace di fare operazioni mentali reversibili e non più semplicemente riproduttive, aderenti alle percezioni e lineari come nella seconda infanzia. L’età media della comparsa di ragionamenti logici di tipo concreto è quella dei sette anni, precisando che bambini particolarmente precoci e intelligenti oppure riccamente stimolati possono avere questa capacità a partire dai sei anni circa, mentre dei bambini ipo-stimolati o con una minore dotazione intellettiva possono non averla ancora fino ad otto anni (Bruner, 1984). Questa è, non a caso, l’età della prima scolarizzazione. È, infatti, a partire dall‘età di 6-7 anni circa che il fanciullo comincia ad avere la capacità di compiere le prime operazioni logiche concrete che renderanno possibile l’acquisizione sia del concetto di numero sia la formalizzazione grammaticale delle regole linguistiche e l’apprendimento sistematico della lettura e della scrittura. Un noto dilemma pedagogico è quello della eventuale opportunità di un’anticipazione a 5 anni dell’obbligo scolastico. Sulla base delle conoscenze psicologiche intorno allo sviluppo intellettivo del fanciullo è chiaro che tale anticipazione generalizzata non è opportuna, poiché sottoporrebbe la grande maggioranza dei bambini a stimoli inadeguatamente complessi e non assimilabili. È peraltro anche vero che circa un fanciullo su quattro sarebbe in grado di iniziare in anticipo la scolarizzazione primaria e che i bambini dotati di un’intelligenza particolarmente vivace, esemplare è al riguardo il caso di Einstein, si sentono molto poco stimolati ed anche annoiati di fronte alla lenta progressione degli studi prevista nei curricula scolastici standard. I bambini cosiddetti iperdotati, paradossalmente, sono spesso degli scolari con risultati scadenti o mediocri, perché mal si adattano a degli stimoli che avvertono come inadeguati e poveri (Flavell, 1981). Per la teoria psicoanalitica di Freud la fanciullezza è una sorta di fase silente o di transizione, collocata a ponte fra le decisive trasformazioni dell’infanzia e i rivolgimenti maturativi della adolescenza. Per la teoria psicoanalitica questa è quindi la fase della latenza. Pur non trattandosi di una fase di grandi trasformazioni si registra uno sviluppo delle capacità affettive, in particolare il fanciullo esce dal ristretto ambito familiare e comincia a creare dei rapporti sociali fra i pari. 502

In questa fase i problemi già presenti nella fase edipica sono come assopiti e silenti, da cui il nome di fase di latenza, ed il fanciullo mostra un’affettività espansiva e dilatata oltre l’ambito familiare. Questa è allora la fase delle prime amicizie e sodalizi di gioco, delle prime conoscenze di vicinato e scolastiche, dei giochi emulativi e di gruppo, della capacità di riversare il proprio affetto anche sugli animali domestici (Kagan, 1988). L’atteggiamento generale del fanciullo è molto meno egocentrico, le relazioni sono meno conflittuali e si verifica, nei confronti delle pulsioni già così vivaci ed emergenti nella fase edipica, un processo di sublimazione. La sublimazione degli affetti comporta molto spesso che il fanciullo idealizzi le qualità dei propri genitori, particolarmente del genitore del suo stesso sesso. Tipicamente il fanciullo e la fanciulla desiderano compiacere i propri genitori e li ammirano apertamente, assumendoli come modelli sia per i loro giochi sia per le prime fantasie vocazionali su ciò che faranno da grandi. Questo processo di identificazione adesiva nei confronti di un adulto non è riservato solo al rapporto con i genitori ma, abbastanza di frequente, si attua anche verso altre figure adulte di riferimento sia appartenenti alla famiglia allargata (come i nonni) che, spesso, ad adulti esterni alla famiglia, come gli insegnanti elementari. Tale identificazione è ingenua, priva di spirito critico e facilmente manipolabile (Loprieno, 1986). Questa fase si caratterizza quindi per la grande importanza degli stimoli sociali e per il rilievo assunto, nello sviluppo dei contenuti identitari, dalle figure adulte di riferimento. Si può dire che psico-pedagogicamente questa è la fase dell’assorbimento dei modelli. Il fanciullo assume i modelli e gli schemi che gli sono proposti in modo sostanzialmente passivo e conformistico. Le differenze qualitative di questi modelli adulti e dell’ambiente familiare e sociale nel loro complesso, risultano di conseguenza molto importanti per determinare lo sviluppo successivo dell’individuo (Andreani Dentici, Gattico, 1992; Andreani Dentici, 2003). È in questa fase che si possono creare, con il meccanismo della identificazione imitativa, le premesse di un comportamento antisociale e deviante oppure all’opposto industrioso e pro-sociale nel soggetto adulto (Winnicott, 1965). Contrariamente a quanto si tende a ritenere è proprio in questa fase, fra i sette ed i dodici anni circa, che i bambini pos-

Lo sviluppo psichico

sono subire le più gravi e durature conseguenze per una separazione coniugale dei loro genitori. Il fanciullo non mostra soltanto un aumento delle capacità di apprendimento legate alla capacità di riprodurre e di comprendere dei modelli che gli vengono offerti, ma mostra un notevole aumento delle capacità di fantasticare e di creare. Questo momento particolarmente propizio e recettivo si osserva di norma a partire dai sette-otto anni in poi. Il primo campo in cui si nota una maggiore recettività e creatività è quello della musica, al quale segue quello della grafica e del disegno. Per questo motivo l’età di sette otto anni risulta ottimale per l’insegnamento della musica e per la prima pratica su di uno strumento. È stato già osservato, trattando dell’imprinting, che sembrano esistere nello sviluppo dell’uomo delle “fasi sensibili”, durante le quali certe abilità si apprendono in modo ottimale. Proviamo a fornirne un elenco, con l’età ottimale corrispondente. Camminare - 18 mesi; correre/saltare - 3 anni; nuotare - 4 anni; scrivere/leggere - 5-6 anni; musica e canto - 7 anni; modellare - 8 anni; disegnare - 10 anni; scrivere poesie e racconti, comporre brani musicali - 13/15 anni. Le età indicate sono quelle iniziali. Un apprendimento può riuscire bene anche se l’inizio è tardivo rispetto al periodo ottimale, ma ciò non si verifica sempre e richiede, comunque, uno sforzo molto superiore per ottenere dei risultati generalmente meno validi. In sostanza nella fase della fanciullezza maturano delle nuove possibilità (a livello affettivo, sociale, intellettivo e della creatività artistica), le quali possono tradursi in cambiamenti reali oppure no in stretta dipendenza con le caratteristiche stimolanti dell’ambiente in cui il fanciullo cresce. Le caratteristiche dell’ambiente (la famiglia e la società in cui vive il fanciullo) assumono quindi in definitiva un’importanza capitale per orientare concretamente il corso dello sviluppo del fanciullo (Palmonari, Ricci Bitti, 1978).

19.6 Lo sviluppo puberale e l’adolescenza L’adolescenza è una fase di trasformazione e di passaggio che inizia con la pubertà e si conclude con l’ingresso nel mondo degli adulti. Questa definizione mette a fuoco un aspetto decisivo: mentre l’inizio della adolescenza è marcato da un cambiamento fisico (lo sviluppo sessuale della pubertà) il suo termine non è fissato dalla fisiologia ma dalla psicologia sia dell’individuo sia del mondo sia lo circonda (Palmonari, 1993). Si diventa adulto perché ci si sente tale, perché si assumono responsabilità e si fanno cose tipiche dell’adulto e perché, infine, la società riconosce e sancisce che questo ingresso nel mondo adulto è avvenuto. I tre fattori che definiscono l’adultità sono, quindi, la consapevolezza identitaria, la condotta ed il riconoscimento sociale. Spesso, per comodità, utilizziamo delle date convenzionali per stabilire tale ingresso nel mondo adulto e chiamiamo questa età “maggiorità”. Il ragazzo e la ragazza diventati maggiorenni (un tempo a 21 ed oggi a 18 anni) possono votare ed essere eletti, firmare dei contratti, contrarre liberamente matrimonio, scegliere autonomamente la propria residenza, emigrare, prendere la patente di guida, etc. Questa età naturalmente è solo una convenzione, mediamente giusta, per fissare quando l’adolescenza si è conclusa in un modo valido per tutti e senza dovere giudicare caso per caso (Smelser, Erikson, 1980). Questo significa, per esempio, che un giudice di tribunale ritiene il maggiorenne capace di intendere e di volere e penalmente perseguibile per le sue azioni. Questa valutazione di imputabilità è costante e non emendabile, salvo prova contraria. Fra i 14 e i 18 anni l’imputabilità è invece condizionata, caso per caso, da un accertamento psicodiagnostico che valuti la maturità del soggetto. Al di sotto dei 14 anni il soggetto non è mai considerato responsabile e non c’è imputabilità in ogni caso. In questo modo si commette certamente qualche errore di giudizio, ma agire diversamente, cioè giudicare caso per caso con dei test e delle misure psicologiche se un maggiorenne è diventato adulto e responsabile oppure no, sarebbe sicuramente fonte di errori ed arbitrii più gravi. La società ritiene che l’avere raggiunto una determinata età (da noi i 18 anni) dimostri, fino a prova contraria, che si può entrare nella società stessa a 503

19

Lo sviluppo puberale e l’adolescenza

Fig. 19.7: L’età media della pubertà (e del culmine della crescita) è circa 13 anni per le ragazze e 15 per i ragazzi, ma soggetti della stessa età si trovano spesso in una fase di sviluppo diversa.

pieno titolo, con responsabilità ed autonomia. Le conoscenze scientifiche della psicologia ci dicono, però, che lo sviluppo non è solo maturazione e che le esperienze e gli apprendimenti sono decisivi per lo sviluppo della persona. Anche le convenzioni sociali e le leggi tengono in parte conto di questo valore maturativo delle esperienze. Se, ad esempio, un giovane si è sposato da minorenne egli acquisisce con il matrimonio alcuni dei riconoscimenti sociali dello status adulto: 504

può firmare contratti, scegliere la residenza liberamente. L’avere agito dei ruoli adulti (sposarsi) implica una trasformazione di status anticipata rispetto all’età canonica. Esistono, viceversa, altre situazioni nelle quali alla maturazione fisica completa e al passare degli anni ben oltre la maggiorità (anche fino ai trentanni) non corrisponde per nulla un’autonomia di tipo adulto. Un esempio tipico di questa situazione psico-sociale ibrida e di prolungamento della dipendenza è quello degli studenti universitari o dei giovani non studenti che restano disoccupati per anni e anni. Queste situazioni, nelle quali esiste uno scarto molto ampio fra maturazione fisica e cambiamento di ruolo, possiamo anche considerarle come esempi di adolescenza prorogata (Feinstein, 1989). L’adolescenza si potrebbe anche definire, quindi, come la fase della vita che intercorre fra la maturazione sessuale e fisica e l’assunzione di un ruolo sociale autonomo. In alcune società umane non esiste l’adolescenza ma solo la pubertà. Si tratta di società nelle quali al compimento della maturazione sessuale (con l’evidenza della acquisita capacità riproduttiva) i giovani passano immediatamente o con grande rapidità ed immediatezza a fare parte del mondo sociale degli adulti. Questo ingresso in società quali adulti viene in genere sancito con un rito di passaggio, il quale può talvolta consistere nel superamento di una particolare prova, codificata nel rito stesso (Van Gennep, 1909). Questa può essere una prova di coraggio, una prova di resistenza alla solitudine ed al dolore, ma anche un semplice distacco dalla casa familiare ed isolamento di qualche giorno, cui segue il rientro da “adulto” nella comunità sociale. Una volta compiuto questo passaggio rituale il neoadulto comincia a fare da subito ciò che dagli adulti ci si aspetta, cioè si sposa, comincia a lavorare, etc. Anche presso di noi è possibile riconoscere delle situazioni che ricordano gli antichi riti di passaggio. Queste possono essere la cresima cristiana o la maggiorità religiosa ebraica (Bar-Mitzvà), per quanto riguarda la sfera religiosa, oppure la selezione di leva ed il servizio militare per quanto riguarda la sfera socio-politica. Le società senza adolescenza sono semplici e, soprattutto, statiche e poco evolutive. All’apparenza sono società primitive e preistoriche ma forse sarebbe più corretto chiamarle, seguendo Levy Strauss,

Lo sviluppo psichico

società senza storia. Non esiste in esse richiesta di scolarizzazione di massa ma la formazione è lasciata alla famiglia ed al piccolo gruppo, i lavori ed i ruoli sociali che ad essi sono connessi si trasmettono sempre uguali di padre in figlio, di madre in figlia. Il trascorrere delle vite individuali ha la stessa prevedibilità ciclica e la stessa “storia” del trascorrere delle stagioni. In definitiva ognuno ha già una sua collocazione fissata fin dalla nascita. Le società complesse, che richiedono specializzazione e scolarizzazione prolungata, che sono relativamente mobili ed evolutive, che possiedono una storia ed una dinamica evolutiva lineare e non ciclica, non permettono che il diventare adulto sia una cosa così semplice e così “naturale” da potersi risolvere con un rito in coincidenza con la maturazione biologica. Dato che il divenire adulti è un processo complesso, che richiede molte risorse e va ben oltre alla natura ed alla maturazione biologica puberale, si diventa adulti per gradi, come in un lungo apprendistato. I ruoli adulti prima di essere agiti sono, per così dire, recitati e provati per gioco. Le società come la nostra, quindi, “creano” l’adolescenza. In altre parole l’adolescenza così come la conosciamo è non solo una fase evolutiva ma anche e soprattutto una costruzione psico-sociale (Muss, 1976). Abbiamo detto che l’adolescenza può essere anche vista come una specie di “palestra”, nella quale si possono esercitare in modo ancora giocoso e sperimentale le capacità di tipo adulto che sono maturate con la pubertà. Vediamo rapidamente di che capacità si tratta. Le capacità intellettive, fra gli 11 ed i 14 anni, mostrano un grande progresso qualitativo perché il giovane per la prima volta comincia a fare delle operazioni mentali con dei concetti astratti. Inizia la fase più alta dello sviluppo cognitivo nella specie umana, la fase che Piaget ha definito delle operazioni formali. Poter elaborare dei ragionamenti astratti significa poter manipolare dei concetti che non hanno una rappresentazione materiale e concreta ma solo o prevalentemente logica. La mente lavora non più solo per immagini ma anche attraverso le relazioni fra le immagini e le loro proprietà. Si possono quindi formulare delle ipotesi, comprendere e riformulare dei concetti filosofici e matematici. Si apre concettualmente una finestra sul mondo, per certi versi si crea nella mente del gio-

vane adolescente un mondo nuovo perché tutto quanto era nella sua mente viene vagliato con spirito critico. Un autore seguace delle teorie di Piaget, Kohlberg, ha studiato in particolare le fasi dello sviluppo morale nella loro ovvia relazione con le fasi dello sviluppo intellettivo. Il concetto di bene e di male ed il giudizio morale sulle proprie ed altrui azioni seguono chiaramente delle linee di riferimento che sono di tipo concreto nel bambino e nel fanciullo e di tipo astratto ed etico nel giovane e poi nell’adulto. Una tabella riassuntiva degli stadi di sviluppo morale secondo Kohlberg ci aiuta a capire meglio di che si tratta. Come si vede, con l’adolescenza inizia l’epoca in cui le idee che prima erano accettate passivamente ed in modo conformistico (com’è tipico della fanciullezza) vengono riesaminate. Il nuovo modo di cogliere le cose, attraverso la logica e la razionalità critica, viene applicato al giudizio di ogni cosa e l’adolescente si crea una propria opinione del mondo e dell’ambiente che lo circonda. Abbastanza spesso il mondo degli adulti è incoerente, poco lineare e contradditorio, ben lontano nei fatti concreti e visibili dagli ideali che enuncia a parole. Il mondo nuovo dell’adolescente è invece un mondo di coerenza e di assoluti. Abbastanza spesso il giovane adolescente, fra i 13 ed i 16 anni, assume un atteggiamento di intransigente coerenza interiore che potremmo chiamare ascetico e questo lo pone in conflitto anche aspro con i genitori e con gli adulti in genere, da lui colti come opportunisti e contradditori. Il conflitto con i genitori non deriva solo dalla trasformazione intellettiva e dallo sviluppo qualitativo del giudizio morale da parte del giovane ma ha anche delle cause di tipo affettivo. Le trasformazioni sessuali della pubertà aprono al ragazzo ed alla ragazza un mondo nuovo di esperienze e di sensazioni. Esiste quindi una tensione verso il nuovo, un desiderio di fare delle prove, degli esperimenti di ogni genere. Il nuovo, l’ignoto, è però anche fonte di paura, di timore di non farcela, di non essere all’altezza dei compiti nuovi che si prospettano. Esiste allora una sorta di ambivalenza verso il cambiamento, con la presenza sia della voglia di provare che di quella di trovare un rifugio noto e tranquillo. Sia verso il proprio passato infantile che ormai svanisce che verso i propri genitori, c’è un misto indefinito di voglia di 505

19

Lo sviluppo puberale e l’adolescenza

LIVELLO E STADIO

ETÀ

LIVELLO I (Utilitarista) Preconvenzionale

3-7

COSA VIENE RITENUTO GIUSTO

Stadio 1

Si obbedisce per evitare le punizioni. È sbagliato quello che comporta delle punizioni.

Stadio 2

È giusto ciò che è strumentale al proprio vantaggio, ciò che serve a sé.

LIVELLO II (Conformistico) Convenzionale

8-13

Stadio 3

È giusto agire in conformità con ciò che si è stabilito, fare quello che gli altri si aspettano da noi.

Stadio 4

Le leggi ed i doveri vanno sempre adempiuti, perché è giusto per mantenere i ruoli ed il sistema.

LIVELLO III (Autonomo) Post-convenzionale o fondato sui principi

14 e oltre

Stadio 5

Consapevolezza che esistono molte opinioni e mol te scale di valori. Nasce il relativismo e la tolleranza ma, ad esempio per la libertà, esiste il concetto di valore assoluto che va oltre le scelte della maggioranza.

Stadio 6

Nasce il proprio sistema di valori, che si fonda sulla razionalità ed universalità di principi e non sulla utilità per sé o per il gruppo, o sulla convenzione.

Tab. 19.2: Sinossi delle fasi dello sviluppo morale secondo Kohlberg.

distacco e di rassicurazione. Il giovane vuole distaccarsi ma ha anche paura di farlo davvero. Quest’altalena affettiva si riflette direttamente nella relazione conflittuale e nelle discussioni, solo apparentemente politiche, morali o filosofiche, che si accendono con i genitori (Godino, 1987). Molto spesso gli adolescenti trasmettono degli stili nelle loro scelte comportamentali e nelle loro opinioni. Questa trasmissione si organizza e diventa qualcosa che travalica il singolo, tanto che si è parlato di cultura adolescenziale. Tipici di questa cultura sono lo spirito trasgressivo, il desiderio di colpire con l’esibizione di condotte o di simboli, la 506

gregarietà conformista e lo spirito di gruppo, la determinatezza nel sostenere delle posizioni non mediabili associata ad una certa volubilità ed incostanza. I rapporti sociali si allargano con la pubertà e si creano delle solidarietà di gruppo. Il gruppo adolescenziale è tipicamente un gruppo dei pari, con rigide barriere di età sia verso gli adulti sia verso i fanciulli, poco mobile ed aperto nei suoi confini. In un primo tempo questo gruppo, che può essere amicale e di gioco ma può anche avere connotati diversi e più strutturati, è di regola un gruppo omosessuale, cioè è composto solo da ragazzi o solo da

Lo sviluppo psichico

ragazze. Solo in un secondo momento questi gruppi adolescenziali diventano misti, poi si frantumano per la formazione di coppie e quindi cessano di esistere. Col termine della pubertà il giovane entra in quella che Freud chiama fase genitale. I meccanismi di sublimazione che abbiamo visto all’opera nella fanciullezza vengono usati più estesamente e l’adolescente può iniziare a rivolgere

l’affetto verso l’Altro da sé. L’energia libidica non si concentra più solo sul proprio corpo o sulle gonadi (anche se la prima adolescenza è tipicamente l’età della autostimolazione e della masturbazione) ma si protende verso un rapporto totale della persona con un’altra persona. Questo percorso, che viene fatto per tentativi e spesso con molte contraddizioni, ha come sbocco finale una trasformazione del

QUADRO 19.V ADOLESCENZA E COMPORTAMENTO ANTISOCIALE I. Le considerazioni che seguono derivano da una indagine svolta su 193 soggetti di sesso maschile, inviati presso il Tribunale dei Minorenni dell’Emilia-Romagna nel periodo compreso fra il 1956 eil 1960, e da successive osservazioni svolte in una prigione scuola. L’anamnesi medica e l’esame clinico generale e neuropsichiatrico, con le relative indagini di laboratorio, sono stati gli strumenti posti alla base della selezione dei casi che costituiscono l’oggetto dello studio; ciò ha permesso di escludere le osservazioni cliniche riferibili a precisi quadri psicotici (le forme schizofreniche e quelle, anche se rare a carattere maniaco-depressivo, le demenze etc.), quelle riferibili a malattie neurologiche (i vari tipi di epilessia, le encefaliti, le encefalopatie traumatiche, etc.) e quelle riferibili a ben definite endocrinopatie. Dal gruppo di casi è stato escluso un certo numero di soggetti che, pur non presentando all’esame clinico, neuropsichiatrico ed elettro encefalografico anomalie specifiche, permettevano di diagnosticare negli ascendenti e collaterali casi di psicosi, epilessia, sifilide, alcoolismo cronico, tossicomanie. Sono stati invece inclusi nello studio anche casi di oligofreniabiopatica, onde precisare meglio la diagnosi di personalità immatura (che, come si vedrà, è la più frequente) in quanto questa può venir confusa con quella oligofrenica, per il livello intellettivo spesso inferiore alla norma, per le scarse capacità di espressione verbale, etc. Questa iniziale precisazione permette di comprendere come gli strumenti di informazione psicologici e socioculturali siano quelli su cui si è fondata l’indagine, e cioè il colloquio clinico, i test di livello intellettivo (Terman-Merrill, Wechsler-Bellevue) e, fra i reattivi proiettivi, il test di Rorschach ed il T.A.T. A volte, quando il caso lo richiedeva, sono state eseguite altre prove psicologiche (disegno spontaneo, disegno dell’albero, disegno della famiglia). L’inchiesta sociale, condotta da un assistente sociale del Centro Distrettuale del Servizio Sociale presso il Tribunale dei Minorenni, ha fornito gli essenziali dati anamnestici relativi alla dinamica delle azioni antisociali, integrando i dati emersi al colloquio e permettendone il riscontro con una fonte di informazione che non era al corrente della ricerca. Tale inchiesta mira, come è noto, allo studio sistematico dell’ambiente in cui l’individuo è cresciuto e segue uno schema dinamicamente organizzato, al fine di dare rilievo agli aspetti del rapporto IoAmbiente ritenuti piu salienti per una comprensione genetica della personalità del soggetto in esame. Queste informazioni hanno permesso di diagnosticare le strutture della personalità dei soggetti definibili come immature e come impulsivo-ansiose. La personalità immatura è caratterizzata da rapporti oggettuali poveri, da un alto grado di narcisismo, scarsa capacità di controllare le tensioni e sopportare l’ansia, insufficiente sublimazione degli impulsi, una formazione del Super-io compromessa con conseguente carenza del senso di vergogna e di colpa, una organizzazione libidica pre-genitale. Il comportamento è ego-sintonico (narcisismo, dominanza del principio del piacere), portato a scaricare gli impulsi all’esterno. La personalità impulsivo-ansiosa si distingue dall’immatura per il fatto che tende a soffrire i conflitti intrapsichici, piuttosto che ad agire in modo primario agli impulsi. Riguardo all’ambiente sociale, inteso come aree o quartieri urbani in cui è sita l’abitazione della famiglia del ragazzo, si è tenuto in considerazione se esso sia abitato da famiglie di “buon livello socioeconomico” o particolarmente depresso (“sottoprivilegiato” o addirittura caratterizzato dalla presenza di una “cultura antisociale”). Per quanto riguarda la struttura oggettiva della famiglia, si è tenuto in considerazione se essa era “ampia” (comprendente altri parenti oltre al nucleo biologico), “numerosa” (quando i figli sono più di tre), “incompleta” (se mancano uno o entrambi i genitori). In riferimento al clima affettivo, si sono classificate le famiglie in “rigida”, ovvero autoritaria, severa, fondamentalmente repressiva, ma non priva di accettazione affettiva; “indulgente”, dove il clima affettivo è largamente permissivo, così da determinare una forma di trascuratezza; “conflittuale od ansiosa”, se iperprotettiva, carat-

507

19

Lo sviluppo puberale e l’adolescenza segue

terizzata da una eccessiva apprensività e da una profonda ambivalenza nei riguardi del figlio; a “struttura frustrante”, se contrassegnata da salti ciclici d’umore dei genitori, da un loro netto contrasto di atteggiamento educativo o da conflitti manifesti fra il ragazzo e le figure rilevanti nel processo di socializzazione (madre, padre, fratelli, etc.); “incoerente” o “di rifiuto”, quando essa sia disorganizzata, trascurata o manifestamente cerchi di evitare le responsabilità educative. Infine sono stati rilevati casi in cui la famiglia si presenti essa stessa “antisociale”, poiché dà al ragazzo aperti esempi o suggerimenti di antisocialità. Relativamente alle modalità dell’azione antisociale, si è distinto tra l’azione compiuta dal ragazzo isolatamente, oppure insieme ad altri e, ulteriormente, con un solo compagno, con un gruppo debolmente organizzato oppure con un gruppo dai caratteri di banda. I risultati sono stati raccolti in un quadro globale (cfr. Tab. 1).11. II. I dati offrono la possibilita di cogliere nessi significativi sulla genesi della dissocialità: la rilevanza delle situazioni familiari traumatiche, particolarmente di quelle verificatesi nella prima e nella seconda infanzia; la notevolissima incidenza dell’assenza del padre; il numero esiguo di soggetti provenienti dai ceti sociali superiori; la prevalenza di personalità immature e la loro provenienza da famiglie di ceti sociali inferiori, soprattutto di quelli più disagiati. I dati (cfr. Tab. 2) confermano altresì quanto già segnalato da vari autori. L’antisocialità è un fenomeno che privilegia l’età adolescenziale, pur comparendo anche nella terza infanzia. Le ragioni di ciò vanno indubbiamente ricercate nella crisi radicale di identità e soprattutto di identificazione sociale dell’adolescente nella nostra società, come hanno concordemente sottolineato psicologi, psicoanalisti, sociologi e antropologi culturali. Una prima indicazione, per chiarire meglio il seguito, è che gli adolescenti antisociali osservati dagli psicologi e psichiatri al servizio del Ministero di Grazia e Giustizia costituiscono una popolazione ben caratterizzata. Innanzitutto trattasi quasi sempre di autori di tipici atti antisociali (furti, furti d’uso, rapine) e di protagonisti di manifestazioni generiche di disadattamento e instabilità (fughe, indisciplina, vagabondaggio, instabilità scolastica o sul lavoro), in secondo luogo, l’estrazione sociale è quasi sempre al livello del proletariato e soprattutto del sottoproletariato, sia urbano industriale (città del triangolo industriale) sia urbano non industriale (Roma, Napoli) che rurale. Da questo non si può dedurre che l’antisocialità sia rara nei giovani delle classi superiori; piuttosto quest’ultima è di un tipo che sfugge al controllo della legge. Passando dai dati oggettivi agli aspetti specificamente psicologici, si deve rilevare che troviamo frequentemente tra questi ragazzi, i tratti caratteristici, designabili globalmente sotto la denominazione di “personalità dissociale”. Tab. 1 modalità dell’azione antisociale

famiglia

un compagno

gruppo debolmente organizzato

14 10 37 7 7 48 40 10 47 12 5 24 73 32 156

12 5 7 2 26

13 49 15 56 19 60 8 28 55 193

antisociale

isolata

20 1 26 21 11 14 16 19 5 18 15 25 14 11 14 17 23 31 21 4 19 34 18 8 26 33 4 13 0 13 14 11 5 9 10 4 72 20 83 84 51 41 68 85 44

incoerente

ansiogena

numerosa

incompleta

ampia

antisociale

sottoprivileggiato

popolare

buon livello socio economico

10 29 2 36 0 36 2 14 14 115

rurale

9 22 13 42 27 47 11 19 60 130

urbano

sessuale

10 12 5 17 8 5 14 5 6 13 4 3 54 29 19

non recidivi

23 35 30 10 98

aggressiva

normali ansiosi immaturi ipodotati totali

furti d’uso

furti alimentari

lucrativa

instabilità evasione

consumatoria

Tab. 1 inizio antisociale normali ansiosi immaturi ipodotati totali

508

3° infanzia 15 12 18 6 50

adolescenza 25 24 23 16 88

dopo traumi particolari 9 20 19 7 55

n° soggetti

ambiente sociale

tipo di antisocialità

Lo sviluppo psichico segue

La personalità dissociale, che compare nella letteratura specializzata anche sotto i termini di “personalità psicopatica” o “sociopatica”, è caratterizzata essenzialmente dalla extra-punitività, cioe da un particolare atteggiamento della coscienza morale, per cui le azioni antisociali sono sì valutate come riprovevoli anche quando siano compiute dalla persona interessata, ma la persona stessa si giustifica, addossando la colpa agli altri (ai genitori, al!a scuola, ai compaesani, alla società in generale). Cit. da: Canestrari R., Battacchi M.W, Strutture e dinamiche della personalità nella antisocialità minorile, Cappelli, Bologna, 1976

legame affettivo con i genitori. Con la scoperta dell’amore e della sessualità matura il giovane, in qualche modo, sostituisce il legame primario che dall’infanzia lo vincolava alla madre o al padre. Con l’adolescenza, quindi, rivivono delle gelosie e delle tensioni di tipo edipico. Problemi edipici non risolti possono essere all’origine di pesanti inibizioni a livello sessuale o, viceversa, di condotte iperattive e non regolate. I genitori stessi, perché non hanno ben risolto il proprio edipo, possono ostacolare con divieti e restrizioni sconsiderate e “gelose” le esperienze dei figli oppure, più raramente, anticipare il distacco da essi con un disinteresse apparentemente tollerante. Attraverso questa situazione turbolenta e conflittuale, di vera e propria crisi adolescenziale, il giovane costruisce una propria identità separata e distinta da quella dei genitori. Il termine della fase genitale coincide con la capacità piena di assumere il ruolo sessuale e la capacità di completare la separazione dalla coppia familiare dei propri genitori con la creazione di un rapporto di coppia autonomo (Palmonari, 1993).

19.7 La psicologia dello spazio di vita Lo sviluppo non cessa con il termine della adolescenza e con la fine della cosiddetta “età evolutiva” ma prosegue indubitabilmente, seppure in modo meno evidente e più “sottile” per tutto l’arco della vita. La lunghezza media della vita ha una grande importanza nel definire i confini e i contenuti di questa evoluzione adulta. Il momento del passaggio dalla adolescenza alla adultità e quello dalla maturità adulta alla vecchiaia sono cambiati nel corso dei secoli insieme alle trasformazioni socio-culturali e soprattutto con l’allungamento della speranza media di vita. Ancora nel sei-settecento in Europa (come peraltro continua a succedere in alcuni paesi poveri del ter-

zo e del quarto mondo) un individuo entrava nella maturità adulta a 20-25 anni, era considerato vecchio intorno ai 45 e l’adolescenza, come fase di transizione, non esisteva. La differenza nella durata della vita media implica che c’è più o meno tempo a disposizione per assumere in pieno e sviluppare i compiti e i ruoli che caratterizzano le diverse età della vita. Tale dilatazione del tempo da vivere consente al tempo di vita d’avere nuovi e maggiori contenuti, prospettive diverse e sconosciute nel passato. Questa variazione non è soltanto psicologica ma anche biologica: negli ultimi secoli si è anche anticipato il momento della maturazione sessuale (passato mediamente da 17 a 13 anni) e si è ritardato il momento della cessazione delle mestruazioni o menopausa (passato da 42-44 a 51 anni in media). Si è dunque allungato di quasi 15 anni il periodo fertile e fisiologicamente più attivo della vita umana. Con delle tecniche di fecondazione assistita negli ultimi anni ci sono stati alcuni casi di gravidanze in donne intorno all’età di sessant’anni. Talora si afferma che con l’aumento di durata della vita andiamo incontro ad una società piena di vecchi, ma probabilmente sarebbe più corretto affermare che andiamo incontro ad una dilatazione temporale della giovinezza e ad una società piena di adulti. Attualmente l’età media degli italiani, infatti, è di circa 52 anni. Lo sviluppo adulto non è il semplice risultato e la stabilizzazione nel tempo degli esiti dello sviluppo infantile ma è una sorta di continua ristrutturazione e superamento progressivo della struttura infantile ed adolescenziale. L’adulto, esattamente come il bambino, ha una struttura psichica aperta al cambiamento e agli influssi ambientali, anche se tali cambiamenti sono in rapporto a compiti e stimoli diversi da quelli che sono importanti per il bambino. Questa ristrutturazione (che interessa la percezione di sé, l’identità, il mondo degli affetti, il modo di comprendere e di ragionare, lo stile di reazione e la 509

19

La psicologia dello spazio di vita

Infanzia Giovin.

1683

Infanzia

1883

Ad. Giovin.

Infanzia Adolesc.

1993 0

10

Maturità

20

Vecchiaia

Maturità

Giovinezza

30

40

Vita media 51 anni

Vecchiaia

Vita media 59 anni

Maturità

Vecch.

50

60

Vita media 73 anni

70

Fig. 19.8: Tre secoli or sono si era “vecchi” a 38 anni, oggi dopo i 60.

condotta, le percezioni) prosegue per tutta la durata della vita ma ha dei momenti critici e delle fasi di accelerazione che sono precipitate da eventi particolari. Si tratta di eventi che segnano come delle biforcazioni vitali o dei punti di non ritorno. Questi eventi che costituiscono altrettante tappe dello sviluppo adulto sono dati, per esempio, dall’inizio del lavoro, dal matrimonio, dalla nascita di un figlio, dalla morte dei genitori e dall’uscita di casa dei figli resisi ormai autonomi, dal pensionamento (Neugarten, 1979). Ognuno di questi passaggi o eventi trasformativi è allo stesso tempo un evento di perdita ma anche di acquisizione. Come l’adolescenza è uno stato di incertezza e di ambivalenza fra la sicurezza infantile e l’attrazione verso un nuovo mondo di autonomia, così di fronte ad ogni evento trasformativo anche l’adulto tende a rivivere lo stesso dilemma ed ambivalenza. In genere questo vissuto è meno drammatico e conflittuale, perché la struttura psichica dell’adulto è più solida od almeno ha difese più collaudate e valide rispetto a quella dell’adolescente. La gioventù adulta è da questo punto di vista è possibile coglierla come una fase di consolidamento e di apprendistato identitario. L’assunzione di compiti e ruoli adulti (come cominciare un’attività lavorativa o professionale, sposarsi, etc.) è insieme la sanzione dell’avvenuto cambiamento ed un fattore di cambiamento e modellamento identitario di per sé. 510

La diversità delle esperienze lavorative e di vita moltiplica le diversificazioni che già esistono a causa di disposizioni individuali o di varietà di formazione familiare e scolastica. Prendiamo l’esempio dell’attività lavorativa. Se il giovane appartiene ad una classe sociale subalterna mediamente il suo ingresso nel mondo del lavoro avverrà sui 15-17 anni. A 25-27 anni egli sarà già da lungo tempo abituato e condizionato in profondità da tale esperienza. Si sarà creato delle competenze specifiche, avrà un’immagine di sé legata al ruolo lavorativo e alla sua gerarchia, avrà una determinata cerchia di conoscenze ed amicizie connesse al lavoro o compatibili con esso, avrà preso l’abitudine a ragionare di cose legate al lavoro (adottandone spesso il gergo e la mentalità tipica) e perso l’abitudine, esercitata quando era a scuola, di ragionare in modo astratto e generale. In qualche modo questo giovane adulto a forza di “fare” il suo lavoro “è” diventato come il suo lavoro esige che sia. Probabilmente, dato che gode da dieci anni dell’autonomia economica, a questa età sarà anche sposato da qualche anno. Alla stessa età, di 25-27 anni, un giovane che appartiene alla classe media ha appena terminato l’università e sta tentando l’ingresso in questo mondo nuovo. La diversa collocazione sociale determina quindi sistematicamente delle differenze nei tempi dello sviluppo adulto.

Lo sviluppo psichico

QUADRO 19.VI I PERIODI DELLA VITA ADULTA SECONDO LEVINSON Levinson distingue i seguenti periodi nella vita adulta del maschio: 17-22 Primo Passaggio verso l’Adulto Il duplice compito di questa transizione è di concludere la pre-età adulta e di iniziare la prima età adulta. “La prima cosa ... è interrogare la natura di quel mondo e il proprio posto in esso, di modificare e terminare le relazioni esistenti ... di rivalutare e modificare il Sé che si è formato in esso. Il secondo compito è .. di esplorare le possibilità del mondo adulto, di immaginarsi quale un partecipante in esso, di consolidare un’identita adulta iniziale, di fare e provare alcune scelte preliminari per la vita adulta”. 22-28 Inizio della vita adulta Il suo compito principale è di formare una struttura provvisoria che fornisce un legame operativo tra la stima del Sé e la società adulta .....Egli deve diventare un adulto principiante con una casa per proprio conto. Egli fa e sottopone a prova una gamma di scelte iniziali che riguardano l’occupazione, I’amore, i rapporti personali, i rapporti tra i coetanei, i valori e lo stile di vita”. Il giovane ha due compiti contraddittori: (a) Egli necessita di esplorare le possibilità della vita adulta tenendo aperte le proprie opzioni; (b) Egli deve creare una struttura stabile di vita e divenire più responsabile. 28-33 Il passaggio dell’età di 30 anni Questa fase “...dà l’occasione di operare sui dissidi e i limiti della prima struttura della vita adulta, e di creare la base per una più soddisfacente struttura con cui completare l’era della prima vita adulta”. 33-40 La sistemazione Il compito è “..di divenire un adulto del tutto indipendente all’interno del proprio mondo. L’individuo definisce un disegno di vita personale, una direzione verso cui tendere, un senso del futuro...Il progetto può essere determinato fin dall’inizio oppure può prendere forma solo gradualmente durante il corso di questo periodo. L’immagine di una scala si presta bene per comprendere il disegno di vita della sistemazione. Essa raffigura visivamente l’interesse per l’avanzamento e l’affermazione cosi importanti in questa fase”. 40-45 Transizione dell’età di mezzo Questo periodo rappresenta un ponte tra la prima età adulta e la media. “La struttura di vita è ancora rimessa in discussione. Diventa importante chiedersi: “Che cosa ho fatto della mia vita? Che cosa do veramente ed ottengo da mia moglie, dai miei figli, amici, lavoro, societa e me stesso? Che cosa è che voglio veramente per me e per gli altri? Si anela ad una vita in cui possono essere espressi i propri veri desideri, valori, aspirazioni e talenti... Durante un periodo di transizione, ed in particolare nella transizione della età di mezzo, le parti trascurate del Sé cercano espressione in modo piu urgente e stimolano la modificazione della struttura esistente”. 45-50 Inizio dell’età adulta di mezzo In alcune vite il passaggio è segnalato da un evento cruciale, importante — un cambiamento drastico nel lavoro od occupazione, un divorzio o una storia d’amore, una malattia seria, la morte di persone care, un trasferimento in una nuova località — . Altre vite non mostrano un cambiamento di rilievo ... Un uomo può rimanere ancora sposato con la stessa donna, ma la natura dei suoi rapporti familiari è mutata in modo notevole, per il meglio o per il peggio”. In definitiva le modalità di risoluzione dei conflitti e dei primi bilanci esistenziali, che hanno caratterizzato la transizione dell’età di mezzo, segnano questa e le successive fasi della vita. Tipica di questa fase di prima ri-sistemazione dopo la transizione della mezza età è la acquisizione di una diversa prospettiva temporale: questa è rivolta in avanti, verso la conclusione della vita. In questa nuova prospettiva il presente può essere elaborato in modo molto diverso ed il risultato può essere una rinnovata spinta a fare ed a creare come una tendenza a cedere ed a fermarsi nel disperato rimpianto del passato. 50-55 Transizione dell’età dei cinquanta Il precario equilibrio raggiunto nell’eta di mezzo tende ad essere rimesso in questione secondo modalità che sono molto simili a quelle della transizione dei trent’anni. In quel caso era la novità del ruolo di adulto ad essere sottoposta ad una verifica in vista di un indirizzo proprio di vita, mentre ora è la nuova immagine della vita e la nuova prospettiva, nata dalla transizione della mezza età e sperimentata nell’inizio dell’età di mezzo, ad essere completata nella sua elaborazione.

511

19

La psicologia dello spazio di vita segue

55-60 Culmine dell’età adulta di mezzo La nuova definizione di vita indirizza l’azione e dà un preciso valore alle azioni dell’individuo, in un modo che ricorda il periodo tra i 33 ed i 40 anni ovvero una sistemazione di Sé in un ruolo proprio Finestra I 60-65 Transizione all’ultima fase della vita adulta Questa è la transizione fra l’età adulta di mezzo e l’eta adulta anziana. La nuova struttura di vita costituitasi nell’età di mezzo si confronta con la prospettiva della vecchiaia e della conclusione dell’attività lavorativa. Levinson considera questa una fase di sviluppo significativo ed un momento fondamentale nel ciclo di vita. 65-morte Ultimo periodo della vita adulta Un ulteriore adattamento è ora necessario perché la cessazione dell’attività lavorativa provoca l’emergere di desideri e di propensioni prima disattesi.

Fig. A: Periodi evolutivi nelle fasi della prima e media età adulta secondo Levinson (ad. da: Levinson D.T., Toward a Conception of the Adult Life Course, in SMELSER N. e ERIKSON E.H. (eds.), Themes of Work and Love in Aduthood, Grant Mclntyre, New York, 1980).

512

Lo sviluppo psichico

19.8 Le età adulte e la crisi di mezza età Il “cambiare attraverso il fare” è anticipato o posticipato di circa dieci anni (ma talora anche molto di più) secondo la classe di appartenenza. Ricerche psico-sociali hanno dimostrato ripetutamente che esistono, proprio in relazione a questi percorsi esperenziali così divergenti, anche delle estese e profonde differenze nella immagine di sé. Un operaio di 40 anni si autodefinisce come maturo o di mezza età, mentre un professionista a 40 anni si considera ancora in piena espansione giovanile e sposta la mezza età verso i 55 anni. Anche il concetto stesso di adultità e maggioretà cambia: se per l’operaio diventare adulto significa che “è finita l’età dei giochi e del divertimento”, per il professionista “è iniziata la fase in cui si diventa autonomi ed attivi” (Baltes, Brim, 1980). I cambiamenti introdotti dalle esperienze non sono soltanto soggettivi, come nella percezione di sé, ma sono soprattutto oggettivi e perfettamente misurabili. Possiamo ad esempio fornire qualche dato illuminante che riguarda lo sviluppo delle capacità cognitive. In una ricerca svolta in una città di medie dimensioni (Ginevra) si sono paragonati i rendimenti a test di abilità verbale, spaziale e di ragionamento astratto in soggetti di 18 e di 22 anni. Questo confronto diacronico è stato fatto sia esaminando degli studenti sia dei lavoratori di settori diversi. Come si vede dalla tabella sono bastati così pochi anni di esperienze diverse per cambiare in modo significativo e sistematico le capacità intellettive. Se noi spingessimo l’esame del cambiamento nelle funzioni cognitive per un arco di tempo più lungo è chiaro che tali differenze sarebbero tanto estese da non rendere quasi più riconoscibile la situazione di partenza. Alcune capacità avranno subito una vera e propria “atrofia da disuso” mentre altre si saranno estesamente potenziate ed affinate.

Va poi ricordato, ed anche se è un’ovvietà è però una cosa fondamentale, che tutte le esperienze della vita adulta tendono ad essere coerenti fra di loro e quindi a differenziare il soggetto nella stessa direzione. Fare un certo lavoro favorisce un certo tipo di gusti ed un certo tipo di frequentazioni. Quindi molto probabilmente si finirà, per esempio, con l’innamorarsi e lo sposare una persona dello stesso ceto. I matrimoni omogamici (fra persone della stessa origine sociale e culturale) sono oltre il 90% del totale. Addirittura si è visto che circa il 50% delle coppie, oltre ad appartenere allo stesso ceto sono anche originarie della stessa città o quartiere. Il motivo di queste scelte di persone affini a sé è da ricercare naturalmente anche nella maggiore facilità materiale di contatto e di incontro (matrimoni fra compagni di scuola, fra colleghi di lavoro, fra vicini di casa o di quartiere, etc.) ma ha anche delle spiegazioni più profonde. Da un punto di vista psicologico abbiamo visto che il giovane adulto vive una situazione di apprendistato, di immedesimazione progressiva in una nuova identità. Egli è di fronte al compito di entrare in una parte. In pratica il modo più agevole che ha a disposizione per diventare un adulto come tutti gli altri è quello di prendere a modello la coppia adulta dei suoi genitori. Non si tratta di solito di un’imitazione e riproduzione consapevole e voluta ma, semmai, inconscia. A livello conscio quello che il giovane adulto sembra cercare è invece la differenziazione, la distinzione rispetto ai modelli acquisiti. Tuttavia dietro alla coscienza progettuale agisce l’ombra di altri contenuti, dei modelli e delle tendenze che si proiettano sulle scelte apparentemente innovative e le connotano di sé. La preferenza per una persona che ci sia affine, che ricordi quindi un aspetto di noi e delle nostre radici, è un suggerimento di quest’ombra, un moto protettivo dettato dall’inconscio.

TIPO DI ATTIVITÀ

VERBALE

SPAZIALE

RAGIONAMENTO

STUDENTI COMMESSI OPERAI IMPIEGATI

+4 - 1, 2 - 0, 4 + 1, 8

+ 1, 8 - 1, 3 +3 - 2, 4

+ 2, 9 - 0, 7 + 1, 3 - 0, 5

Tabella 19.3: Modificazioni misurabili delle capacità cognitive, per settori di attività. (ad. da Fisher, Psychologie sociale, Dunod, Paris, 1992)

513

19

Le età adulte e la crisi di mezza età

Il distacco dalla famiglia, segnato dal fatto di abbandonare gli antichi affetti infantili verso il babbo o la mamma per innamorarsi di un ragazzo o di una ragazza, risulta in questo modo meno lacerante perché ci si innamora di qualcuno che assomiglia per qualche aspetto e a noi e al genitore del sesso opposto. In altre parole la scelta amorosa adulta è spesso erede di un meccanismo edipico (Carloni, 1991). Non solo si cerca un partner che ricordi, in qualche modo più o meno palese ed evidente a tutti meno che all’innamorato, il genitore del sesso opposto ma con una frequenza molto grande si ripete anche la situazione familiare caratteristica della famiglia di origine. La riproduzione non si ferma alla scelta del partner ma si completa con la perpetuazione dello stile di condotta nella vita di coppia, dello stile educativo verso i figli, etc. Questo fatto è accertabile anche a livello statistico (per esempio: i figli di genitori separati divorziano o si separano molto più spesso degli altri). Se studiamo le persone più da vicino ci accorgiamo che spesso hanno preso dai genitori anche cose come le idee politiche e religiose, i gusti e le opinioni sul mondo. Mano a mano che ci si allontana dall’adolescenza cessa l’antagonismo e la contrapposizione e ci si assume anche consapevolmente il compito di preservare e di trasmettere. Questo compito è ormai possibile perché l’autonomia adulta dell’individuo è consolidata e non più in discussione. Quando si arriva all’età in cui i propri figli, ormai grandi ed adolescenti, si distanziano e contrappongono a loro volta, ci si comporterà spesso come i genitori si erano comportati a suo tempo con noi: facciamo fatica a comprendere questo cambiamento nei figli, proviamo timore per questo distacco che ci sembra arrivato troppo presto, ci sembra strano che i figli non siano più i nostri bambini di pochi anni prima. In genere lo scontro con i figli adolescenti e la loro uscita da casa, coincide temporalmente con altri eventi rilevanti per lo sviluppo dell’adulto, che sono la morte o l’evidente deterioramento dello stato di salute dei genitori, l’essere arrivato al culmine della carriera possibile o alle soglie del pensionamento, il cominciare a vedere su di sé i primi segni tangibili della vecchiaia. Questa particolare età o fase di passaggio e di ingresso alla vecchiaia è quella che viene correntemente detta mezza età e si colloca in media a cavallo dei 50-55 anni. 514

Molto spesso questa è un’età di crisi e di profonda trasformazione di sé. Un’identità ormai consolidata viene messa in discussione. Questo sia per quanto riguarda il primo bilancio di ciò che è stata la propria carriera lavorativa (si attua un paragone inevitabile fra la realtà ed i sogni e progetti giovanili), sia per quanto riguarda la propria collocazione generazionale (si diventa riferimento e “padre” per i propri genitori che si sono fatti deboli e vecchi e non si ha più la funzione di genitore per i propri figli che se ne vanno di casa), sia infine per la propria gioventù (tanti segni piccoli e grandi chiariscono che la giovinezza è chiusa e che il termine della vita non è più un’idea astratta e lontana). Questo periodo di crisi e di ristrutturazione della percezione di sé è stato da molti paragonato alla crisi adolescenziale. Come l’adolescente anche l’adulto di mezza età è ambivalente verso il cambiamento, incerto se andare avanti abbandonando le sicurezze del passato o cercare di negare la realtà e arrestarsi (Jung, 1982). Molte persone si fissano con ostinazione alla propria immagine giovanile (si potrebbe affermare che sono come degli adolescenti che si rifiutano di crescere e cercano di restare bambini). Abbastanza spesso questa negazione della realtà si traduce in avventure sessuali con persone molto più giovani, con un terremoto emotivo che può mettere in crisi matrimoni che avevano fino a lì l’apparenza della solidità. Il primo Autore a descrivere in modo innovativo e suggestivo le trasformazioni interiori che caratterizzano la mid-life crisis è stato Jaques (1965). Il modello teorico cui egli si è ispirato è quello psicodinamico freudiano, anche se alcuni concetti, come quello di individuazione e quello della esistenza di fasi adulte di trasformazione del Sé sono di chiara derivazione junghiana (Jung, 1982). Questo modello prevede che l’attualizzazione della propria natura segua un percorso differenziato fra uomini e donne, nel senso che le trasformazioni adulte sono influenzate da archetipi e da processi di origine sovra-individuale. Mentre nella prima fase della vita, fino al limite della età di mezzo, l’archetipo virile o animus dà la propria impronta allo stile di condotta maschile e quello femminile o anima a quello della donna, dopo questa fase di transizione si assisterebbe ad un ribaltamento progressivo, con un emergere di caratteristiche femminili nell’uomo e viceversa di caratteristiche di dominanza ed attività e controllo attivo nella donna (Levinson, Mc Kee, 1978).

Lo sviluppo psichico

Questa trasformazione investe tutta una serie di caratteristiche dello psichismo, come l’atteggiamento genitoriale (Gutmann, 1975), l’evoluzione dei meccanismi di difesa privilegiati nel caso di disturbi nevrotici nelle diverse fasi della vita adulta (Horney, 1953), gli atteggiamenti sociali e lo stile relazionale sia nel lavoro che nelle attività quotidiane (Gould, 1978), lo stile creativo e le propensioni culturali (Erikson, 1982). La crisi di mezza età segna quindi per molti individui un rivolgimento interno che si traduce in una rottura, o frattura di continuità, nella condotta. Questa crisi, come si è detto, si può tradurre nella rottura di un equilibrio, sia nella vita di coppia che a livello sociolavorativo. Molte altre persone tuttavia escono da questa fase di crisi della mezza età trasformate e cresciute, proprio come il giovane che dopo la crisi adolescenziale esce trasformato ed adulto. Questa crescita si traduce nella assunzione del ruolo di guida e di mèntore verso le giovani generazioni, in una preparazione a tramandare ciò che si sa fare ad altri, a favorire la propria sostituzione nel lavoro e nella vita (Godino, 1984). Chi fa un lavoro creativo, pensiamo agli artisti in particolare ma non solo a loro, traduce questa trasformazione interiore in un cambiamento di contenuti e di stile delle sue creazioni. Qualche volta, come ad esempio è successo al pittore Gauguin, l’attività artistica, che prima era marginale e collaterale ad un’attività impiegatizia, diventa unica e preminente e si abbandona tutto il proprio passato, il lavoro passato, la famiglia, la casa ed il proprio Paese. Proprio richiamandosi al caso emblematico di Gauguin, che abbandonò la Francia ed il lavoro impiegatizio per andare a dipingere nei mari del Pacifico del Sud, si parla spesso, in riferimento alla crisi di mezza età, di sindrome di Gauguin (Canestrari, 2002). Gli esempi delle crisi trasformative della creatività artistica sono numerosi e molto ben studiati, sia nel campo della pittura, che in quello della musica o della cinematografia (Canestrari, 1998).

19.9 La vecchiaia e la morte Da un punto di vista psicodinamico la crisi di mezza età è un rivolgimento che si attua per contrastare l’inevitabilità della propria fine, è una forma di resistenza e di difesa contro l’inizio della perce-

zione concreta della propria morte. Il passaggio dalla mid-life alla vecchiaia è al giorno d’oggi più sfumato e graduale che nel passato, per via dell’aumento della durata media della vita, del prolungamento dell’età lavorativa ed anche per la modificazione della struttura della scala di età della popolazione. Nelle società industriali il concetto di “piramide delle età” (per descrivere una popolazione con una larga base giovanile ed una stretta punta per la vecchiaia) è un concetto inadeguato a descrivere la vera struttura di età della popolazione, ma che continua ad essere usato in modo preconcetto. In realtà la struttura di popolazione attuale assomiglia come profilo di più ad una campana od anche ad un bulbo, quindi con una crescente presenza di soggetti adulti giovani e medi ed un discreto numero di soggetti oltre i 65 anni di età (che in Italia sono adesso oltre il 18% della popolazione autoctona e dovrebbero raggiungere il 23% entro i prossimi dieci anni, se le tendenze demografiche restano costanti). Tuttavia resta chiaro che anche se i limiti “oggettivi” della vecchiaia tendono ad essere spostati ed il suo inizio dilazionato nel tempo, i contenuti soggettivi e le sue dinamiche interne restano costanti. Anzi, potremmo suggerire che lo spostamento in avanti della presenza sociale attiva possa determinare un certo grado di irrealismo e di ritardo nel percepire ed elaborare i cambiamenti, tanto che la vecchiaia possa cogliere l’uomo di oggi molto più che nel passato quasi a tradimento ed all’improvviso. Un meccanismo che è stato invocato per spiegare il fatto che di norma la percezione della vecchiaia non sia né dolorosa né traumatica è quello del cosiddetto disengagement o disimpegno (Cumming, Henry, 1961). Secondo questo modello la percezione della propria progressiva incapacitazione e deterioramento psico-fisico sarebbe contrastata, nei suoi potenziali effetti depressivi, da un crescente distacco emotivo e da una parallela riduzione del proprio coinvolgimento attivo. La vecchiaia è, allora, caratterizzata dal punto di vista affettivo dalla progressiva elaborazione ed accettazione dell’idea della propria morte. La morte come perdita totale della propria realtà ed esistenza è anticipata da perdite parziali, da delle “morti parziali”. È il sommarsi di queste esperienze parziali di perdita che consente insieme sia il disengagement rispetto alla realtà esterna che l’elaborazione dell’idea concreta della fine della vita. 515

19

La vecchiaia e la morte

Uno di questi eventi di perdita di una parte di sé, che per molti segna il vero confine psicologico con la vecchiaia almeno per il sesso maschile, è la perdita della funzione produttiva con il pensionamento. Tutto un mondo di relazioni, rapporti, abitudini, potere, cessa di esistere. Le energie e gli interessi, che non sono cessati d’incanto come la propria funzione lavorativa, sono diventati improvvisamente senza sbocco. Per chi non si era preparato per tempo questa situazione di vuoto, o per meglio dire di assenza di sbocco e di finalità socializzate delle pro-

prie azioni, lo status di pensionato diventa una situazione depressiva ed apre una stagione di rimpianti. Il pensionamento tuttavia può anche avere i colori affettivi della liberazione, soprattutto quando la relazione colla propria attività lavorativa e professionale era stata insoddisfacente o persino oppressiva. Almeno in una prima fase, allora, si apre come una riscoperta della realtà, di possibilità ed interessi prima solo intravisti, di spazi del mondo che erano stati solo immaginati. In genere questo confronto con la realtà svuota tuttavia molto rapida-

Fig. 19.9: Evoluzione delle scale di età dal 1950 al 2025 (proiezione), nei paesi sviluppati.

516

Lo sviluppo psichico

mente i sogni ed i desideri dal loro fascino, e le ragioni del passato tornano presenti, nel senso che la libertà appare molto rapidamente come illusoria e vuota di senso (Dellantonio, 1989). Un altro evento è la perdita degli amici e la vedovanza. Il mondo degli affetti si svuota, e lentamente la realtà sociale ed affettiva diventa un mondo di estranei e di sconosciuti. Il vecchio, in particolare il “grande vecchio” di oltre 90 anni, non ha più tanta paura di morire perché la sua vita è diventata simile ad un deserto di coetanei, ad una realtà occupata interamente da nuove generazioni. La ricerca gerontologica individua nella grande vecchiaia tre aspetti ed ambiti di trasformazione (Baltes, Brim, 1982). Il primo è quello del deterioramento fisico e cognitivo (che tuttavia può essere contrastato ed arginato, con opportune esperienze di stimolazione culturale, come abbiamo già ricordato trattando delle trasformazioni dell’intelligenza con l’invecchiamento); il secondo è quello della crescente rigidità ed inflessibilità comportamentale, che rende l’adattamento ai cambiamenti sempre più precario e difficile; il terzo è quello del disimpegno (disengagement), ovvero il distacco progressivo rispetto alla realtà esterna, rispetto alle relazioni sociali e rispetto ad i ruoli che prima costituivano un aspetto saliente della propria identità. Se il distacco da questa realtà è grande, ed in genere nel grande vecchio lo è, il distacco dalla vita è come se fosse già compiuto e l’accettazione della fine diventa qualcosa di naturale. Numerosi studi sul campo dimostrano la giustezza di questa previsione teorica. La depressione, il rifugiarsi nell’alcool, la paura della morte diventano più frequenti all’inizio della vecchiaia (in particolare al momento della pensione e nel decennio successivo) ma poi diventano sempre meno comuni mano a mano che si sale con gli anni (Botwinick, 1984). L’invecchiamento, dal punto di vista psicologico, è quindi un’ulteriore trasformazione della percezione di sé. Tutto un percorso di vita può a questo punto essere visto “dall’alto”, come in un bilancio generale. Questo bilancio d’assieme non si fa fuorviare da piccoli episodi o da minuti particolari ma estrae le tendenze, trova e scopre i significati reconditi e complessivi. A mutare nell’anziano è anche la percezione temporale, che diventa per così dire telescopica, con una chiarezza sempre crescente ed un risalto progressivo delle proprie memorie giovanili. Numerosi studi sulla memoria negli anziani hanno posto in

risalto questa distorsione diacronica del ricordo, per cui la salienza degli eventi diventa sempre maggiore quanto più essi sono lontani nel tempo (Andreani et al., 1988; Bellelli G., Curci A. e Leone G., 1999). Questo processo di distorsione mnestica, grazie al quale il risalto degli eventi recenti è minore rispetto a quelli remoti, è in parte legato ad un processo degenerativo fisiologico di tipo aterosclerotico che ostacola la fase di acquisizione e codificazione della traccia mnestica (Cipolli et al., 1990) ma è anche il risultato di un processo di distacco affettivo che serve di difesa all’anziano nel rapporto col presente (Canestrari, Godino, 1987). In questo senso il distacco emotivo ed il distanziamento è una fonte di nuova comprensione, di una nuova saggezza e diventare vecchio non significa più solo accettare delle perdite ma elaborarle ed integrarle per poter crescere ancora. Il controllo della realtà, che nelle fasi adulto-giovanili era di tipo attivo e concreto, cambia di contenuti e diviene prevalentemente di tipo simbolico e magico. In altre parole la realtà è come se fosse colta dall’alto e da lontano, in modo sintetico e non analitico, da una posizione soggettiva progressivamente sempre più esterna (Vaillant, 1977). Questa speciale collocazione dell’anziano lo potrebbe trasformare, dal punto di vista sociale, in un punto di riferimento privilegiato ed in una guida per le nuove generazioni. Questa funzione di riferimento culturale e di guida, ben presente ancora nelle società tradizionali, si è completamente persa nelle società industriali e post-industriali, che pongono l’anziano ai margini, in quanto estraneo alla funzione produttiva. In queste società la vecchiaia si tende a trasformare in un problema, di tipo medico ed assistenziale, ed il vecchio in un portatore di bisogni che tende ad essere emarginato (anche dal punto di vista fisico e logistico) in strutture abitative apposite. La separazione in queste strutture, come le case di riposo, segnala anche da un punto di vista oggettivo l’espunzione degli anziani dal loro contesto di vita e costituisce spesso un’esperienza soggettiva squilibrante dal punto di vista psichico (Canestrari et al., 1976). Il deterioramento psichico e cognitivo che viene rilevato negli anziani non è quindi, il più delle volte, l’esito di un processo naturale di involuzione ma il prodotto di un disadattamento per il sommarsi di esperienze di tipo traumatico a livello psico-sociale. Con questo non vogliamo assolutamente minimiz517

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La vecchiaia e la morte

zare l’impatto dei problemi neuro-biologici che interessano i “grandi vecchi” (i soggetti oltre gli 85 anni). Primario fra questi è il problema della perdita dell’autonomia motoria e dell’autosufficienza. La quota di essi che presenta questi problemi è variabile (fra il 10 ed il 40 per cento secondo gli studi ed i criteri adotatti), pertanto non esiste sinonimia fra vecchiaia avanzata ed invalidità, tuttavia il loro numero crescente fa sì che una quota significativa

della popolazione richieda un’assistenza sanitaria e logistica continua ed impegnativa. - Lo sviluppo, definibile come modificazione strutturale o funzionale di un organismo a carattere permanente, è un processo lineare e per fasi. - Lo sviluppo parte da un processo interno (maturativo) che permette l’assimilazione di stimoli esterni adatti e l’accomodamento del sistema per raggiungere un nuovo equilibrio.

SINTESI DEL CAPITOLO - Il modello per fasi (equilibrazione, assimilazione, accomodamento) qui richiamato è quello di Piaget (epistemologia genetica). - I processi di sviluppo sono rapidissimi nella vita pre-natale, rapidi nell’infanzia e fanciullezza, importanti nell’adolescenza e più lenti ma rilevanti nell’intero arco di vita. - Le fasi dello sviluppo sono esaminate in parallelo (maturazione fisiologica, sviluppo cognitivo, mnestico, motorio, percettivo, emozionale, etc.) per classi d’età. - Distinguiamo le fasi fra 0 e 2 anni (prima infanzia); fra 2 e 6 anni (seconda infanzia); fra 6 anni e la pubertà (fanciullezza); fra la pubertà e l’assunzione di un ruolo adulto (adolescenza); fra i

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18 ed i 40 anni circa (età adulto-giovanile); fra i 40 ed i 65 anni circa (adultità matura); oltre i 65 anni (adulto anziano). - L’adolescenza è una costruzione psico-sociale, che non è presente in alcune società tradizionali, nelle quali un rito di passaggio post-puberale sancisce l’ingresso nel ruolo e nel mondo degli adulti. - L’adolescenza e la mezza età sono due fasi di transizione e di crisi, caratterizzate da ambivalenza (fra abbandono ed incorporazione del nuovo, fra dipendenza ed autonomia). - La psicologia dell’arco di vita è lo studio dei meccanismi trasformativi che interessano lo psichismo fino alle fasi ultime ed alla morte.

Lo sviluppo psichico

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20 Capitolo

PSICOPATOLOGIA DELLO SVILUPPO

20.1 Disturbi genetici cromosomici PSICOPATOLOGIA DELLO SVILUPPO 20.1 Disturbi genetici cromosomici 20.2 Disturbi congeniti ed acquisiti 20.3 Disturbi dell’intelligenza 20.4 Disturbi del linguaggio 20.4 Disturbi del controllo motorio e sfinteriale 20.5 Le sindromi epilettiche 20.6 Le condotte antisociali 20.7 Le disgenesie sessuali 20.8 Il transessualismo 20.9 La progeria ed i disturbi globali dello sviluppo Sintesi del capitolo Bibliografia

La psicopatologia dello sviluppo tratta delle patologie dello sviluppo psicologico, quindi è un settore dello studio clinico che riguarda specificamente le alterazioni dei processi che sono primariamente attivi nella cosiddetta età evolutiva. Non si tratta, tuttavia, di un sinonimo di psichiatria pediatrica. In questo capitolo, infatti, non tratteremo di tutti i disturbi psichici che si manifestano in età infantile ed adolescenziale, ma di quelli che implicano una alterazione dei normali processi evolutivi. Tratteremo dei disturbi per categorie causali (cromosomici, genetici ed acquisiti) e per funzioni evolutive colpite (intelligenza, linguaggio, controllo e coordinamento motorio, condotta, identità sessuale, meccanismi generali dell’invecchiamento e dello sviluppo). In condizioni ottimali in una coppia senza patologie e con rapporti sessuali regolari si assiste alla fecondazione della cellula uovo con una probabilità di circa il 20-30% per ciclo mestruale. Peraltro in un’alta percentuale dei casi (presumibilmente superiore al 30%) è presente un difetto genetico delle cellule uovo e questo spiega come quasi il 15% di gravidanze esiti in un aborto spontaneo, in genere molto precoce. Questi dati spiegano la presenza di un meccanismo naturale di selezione degli embrioni che potrebbero essere portatori di difetti genetici. Le gravidan523

Disturbi genetici cromosomici

ze derivanti da terapie della sterilità non si differenziano sostanzialmente da quelle naturali della popolazione generale. I cromosomi sono strutture cellulari depositarie del patrimonio genetico. Con la fecondazione si assiste all’attribuzione di metà del patrimonio genetico da parte del padre e di metà da parte della madre. Durante la divisione cromosomica ci possono essere delle anomalie. La più conosciuta è la trisomia 21 (mongolismo = sindrome Down). Il rischio di questa anomalia cromosomica aumenta con l’età materna, soprattutto a partire dal 35esimo anno di età. Per questo motivo è consigliabile un consulto genetico ed eventualmente un’indagine cromosomica nelle donne sopra i 35 anni, donne con anamnesi familiare positiva per malattie cromosomiche, con parametri biochimici alterati o con anomalie evidenziate ecograficamente. Le anomalie cromosomiche sono a distribuzione asimmetrica nei due sessi, in quanto le femmine (che hanno due cromosomi X) presentano la patologia solo quando entrambi i cromosomi sono alterati. I maschi (con un cromosoma sessuale X ed uno Y) non hanno questa protezione, pertanto sono più frequenti le affezioni letali, con aborti spontanei precoci, e le patologie conclamate. Le patologie dello sviluppo cromosomiche più rilevanti sono quelle dismetaboliche (delle quali non tratteremo in questa sede, perché di interesse neurologico ed internistico), quelle che comportano ritardo mentale (che tratteremo in paragrafo ulteriore) e le sindromi autistiche. L’autismo è una forma di psicosi infantile, che non si struttura in sintomi positivi floridi (come deliri ed allucinazioni) ed è marcata da sintomi negativi (rallentamento, apatia, abulia) ed in particolare da inaccessibilità nella relazione ed aprassia (Bettelheim, 1976; Monti, 1998). Lo studio clinico delle psicosi infantili può essere fatto risalire a De Sanctis che, nel 1905, introdusse la definizione di demenza precocissima, denominazione con evidente riferimento alla demenza precoce di Kräpelin, attualmente denominata schizofrenia (Sava, 2002). Un momento significativo per l’evoluzione della nosografia relativa alle psicosi infantili è il 1943, anno in cui Kanner descrive in undici bambini, 9 maschi e 2 femmine, il quadro da lui definito autismo infantile precoce, mutuando il termine autismo da Bleuler che lo aveva utilizzato per indicare uno dei sintomi della schizofrenia, ma riferendolo 524

ad una ben precisa sindrome. Caratteristica comune di questi bambini era l’incapacità di mettersi in rapporto con l’ambiente, nei modi tipici dell’età, fin dai primi mesi di vita. Erano descritti dai genitori come bambini che erano sempre stati “autosufficienti”, “felicissimi se lasciati soli”, “come in un guscio”. Questi bambini tendevano ad isolarsi, a non recepire i segnali relazionali provenienti dall’esterno, tanto che spesso la ragione della consultazione era il sospetto di sordità. I bambini descritti, inoltre, non assumevano una adeguata postura preparatoria all’essere presi in braccia, così come in genere facevano gli altri bambini intorno all’età di 4 mesi. Due terzi di questi bambini acquisirono il linguaggio, che non era però utilizzato per comunicare con gli altri in modo adeguato; il restante terzo non aveva sviluppato alcuna forma di linguaggio, anche se venivano segnalati bambini “muti” che di tanto in tanto pronunciavano qualche parola. I bambini parlanti erano spesso ecolalici e usavano i pronomi così come li udivano, designandosi quindi con il tu piuttosto che con l’io. Un’altra caratteristica descritta da Kanner era la preoccupazione ossessiva di questi bambini per il mantenimento dell’immutabilità degli ambienti o delle abitudini e a sviluppare rituali, per esempio nel vestire e nel mangiare. A livello cognitivo i bambini descritti da Kanner presentavano prestazioni particolarmente buone in alcuni campi specifici (per es. ricostruire puzzle, ricordare sequenze di cifre o poesie) che contrastavano con il ritardo generale. Le attuali definizioni dell’autismo infantile riflettono solo in parte l’iniziale descrizione di Kanner e tengono conto di una migliore conoscenza dello sviluppo relazionale del bambino normale e degli studi recenti sulla “Teoria della mente” (Camaioni, 1995). Negli anni settanta Rutter (Tustin, 1983) sottolinea come, a differenza di quanto era stato osservato da Kanner, circa i tre quarti dei bambini con autismo hanno anche un ritardo mentale. Attualmente le classificazioni maggiormente utilizzate nella psichiatria dell’infanzia e dell’adolescenza sono: quella americana del DSM IV, quella dell’ICD 10, curata dalla O.M.S. e quella francese (CFTMEA) sviluppata dal Centre A. Binet. Le ricerche epidemiologiche stimano una prevalenza dello 0.02-0.05% del Disturbo Autistico nella popolazione generale; ciò rappresenta circa un

Psicopatologia dello sviluppo

terzo del totale dei Disturbi Generalizzati dello Sviluppo. I maschi risultano molto più colpiti delle femmine (il rapporto è di 3 a 1). La prognosi in genere è grave; in particolare, per il Disturbo Autistico si stima che il solo 1-2% raggiungerà la normalità, mentre il 10-15% riuscirà a progredire e a raggiungere un’autonomia dalla famiglia; il 25-30% mostreranno dei progressi (ma avranno bisogno di essere sostenuti e controllati) mentre gli altri (55-60%) rimarranno gravemente handicappati e totalmente dipendenti (Barthelemy, 2000). Il DSM, (classificazione diagnostica e statistica curata dall’American Psychiatric Association), inserisce le psicosi dell’infanzia sotto la categoria “Disturbi generalizzati dello sviluppo” che comprende: 1. Disturbo autistico 2. Disturbo di Asperger 3. Disturbo disintegrativo della fanciullezza 4. Disturbo di Rett 5. Disturbo generalizzato dello sviluppo non altrimenti specificato. I criteri diagnostici per il Disturbo autistico, secondo il DSM IV sono: Un totale di almeno sei sintomi tratti, da 1), 2), e 3), con almeno due da 1), e uno ciascuno da 2) e da 3): 1. Compromissione qualitativa dell’interazione sociale, manifestata con almeno 2 dei seguenti: 1.1 marcata compromissione nell’uso di svariati comportamenti non verbali, come lo sguardo diretto, l’espressione mimica, le posture corporee e i gesti che regolano l’interazione sociale; 1.2 incapacità di sviluppare relazioni con i coetanei adeguate al livello di sviluppo; 1.3 uso di linguaggio stereotipato e ripetitivo o linguaggio eccentrico; 1.4 mancanza di ricerca spontanea nella condivisione di gioie, interessi o obiettivi con altre persone (per es. non mostrare, portare, né richiamare l’attenzione su oggetti di proprio interesse). 2. Compromissione qualitativa della comunicazione come manifestato da almeno 1 dei seguenti: 2.1 Ritardo o totale mancanza dello sviluppo del linguaggio parlato (non accompagnato da un tentativo di compenso attraverso modalità alternative di comunicazione come gesti o mimica); 2.2 In soggetti con linguaggio adeguato, marcata compromissione della capacità di iniziare o sostenere una conversazione con altri;

2.3 Mancanza di giochi di simulazione vari espontanei, o di giochi di imitazione sociale adeguati al livello di sviluppo 3. modalità di comportamento, interessi e attività ristretti, ripetitivi e stereotipati, come manifestato da almeno 1 dei seguenti: 3.1 Dedizione assorbente ad uno o più tipi di interessi ristretti e stereotipati anomali o per intensità o per focalizzazione; 3.2 Sottomissione del tutto rigida ad inutili abitudini o rituali specifici; 3.3 Manierismi motori stereotipati e ripetitivi (battere o torcere le mani o il capo, o complessi movimenti di tutto il corpo); 3.4 Persistente ed eccessivo interesse per parti di oggetti. Le psicosi infantili sono state oggetto di studio di molti autori di scuola psicoanalitica, tra cui Klein, Mahler, Tustin e, più recentemente, Manzano e Palacio-Espasa. In queste classificazioni l’aspetto descrittivo è secondario (mentre esso è prevalente per DSM IV e ICD 10), ed è privilegiato un’approccio psicopatologicodinamico. Una delle classificazioni più citate in letteratura è quella proposta da Margareth Mahler nel suo libro sulle psicosi infantili (Mahler, 1980). L’autrice descrive due diversi quadri, che implicano una fissazione in momenti differenti del processo, ipotizzato dalla stessa autrice, di separazione-individuazione. Essa distingue infatti: 1. psicosi autistica primaria 2. psicosi simbiotica Va osservato che mentre la definizione di psicosi autistica primaria è simile alle definizioni di autismo delle classificazioni attuali, la psicosi simbiotica risulta una categoria poco condivisa che, in genere, nelle classificazioni di tipo descrittivo viene fatta confluire nel Disturbo Autistico. Più articolata, sempre all’interno di un quadro di riferimento psicodinamico, è la proposta di classificazione che fanno Manzano e Palacio Espasa (1983), che distinguono tra: 1. autismo primario e secondario 2. psicosi simbiotica della Mahler 3. psicosi precocemente deficitaria 4. psicosi disorganizzatrice La peculiarità di questa classificazione – che gli 525

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Disturbi genetici cromosomici

autori definiscono operazionale – sta nel fatto che si tiene conto dell’evoluzione delle psicosi infantile e del passaggio da un quadro all’altro con il passare del tempo, o nel corso del trattamento. La psicosi disorganizzatrice è un quadro in cui il bambino mostra uno sviluppo, pur disarmonico, delle funzioni dell’Io (linguaggio, intelligenza ecc..), ma il cui atteggiamento colpisce per la disorganizzazione, l’insensatezza e l’incoerenza. Le psicosi precocemente deficitarie sono, secondo gli autori, una forma di evoluzione dell’autismo precoce, in cui in genere vi è un’attenuazione dei comportamenti di chiusura e di diniego della realtà, ma lo sviluppo, prima psicomotorio poi intellettivo e del linguaggio, risulta gravemente compromesso.

20.2 Disturbi congeniti ed acquisiti Le patologie dello sviluppo congenite sono quei disturbi presenti alla nascita per cause non genetiche né cromosomiche (per esempio, per infezioni occorse al feto, per reazioni immunitarie da incompatibilità materno-fetale, per traumatismi legati al forcipe, etc.). I disturbi acquisiti sono quelli che intervengono dopo la nascita, per meccanismi diversi, in un bambino sano.

Fra le due classi di disturbi la distinzione non è sempre agevole, in quanto di molte psicopatologie non è nota con certezza l’eziologia. Fra i disturbi congeniti è da annoverare con certezza la paralisi cerebrale infantile, o paralisi spastica, causata da reazioni autoimmunitarie neonatali, da traumatismi cerebrali da applicazione di forcipe, da ittero neonatale in nati prematuri, etc. Associati alla paralisi spastica sono frequenti disturbi del carattere, difficoltà nell’apprendimento ed un ritardo mentale lieve o moderato. Fra i disturbi acquisiti vanno considerati svariati problemi conseguenti a disturbi della relazione primaria (il rapporto con la madre), e fra di essi sicuramente la sindrome chiamata ospitalismo. Si tratta di una reazione depressiva (con svariati sintomi sia psichici che somatici) che si presenta nei bambini che nel secondo semestre di vita hanno patito una prolungata ospedalizzazione. Questa patologia, studiata e accuratamente descritta da Spitz (1954), si manifesta con sintomi comportamentali (arresto motorio, inappetenza, rifiuto dell’alimentazione e del contatto, etc.) e somatici (minore resistenza alle infezioni, alterazioni ormonali e metaboliche, etc.). Varianti di questa patologia dello sviluppo, che può portare anche all’arresto dello sviluppo ed alla morte, si osservano anche per delle gravi carenze nelle

QUADRO 20.I IL DISTURBO DA STRESS POST-TRAUMATICO Dopo gli attacchi terroristici di Londra anche in Italia c’è il rischio di sviluppare la “sindrome da metrò”. Secondo Roberto Marino, psicologo delle catastrofi, si tratta di un’ansia comprensibile che nasce dalla domanda: “capiterà anche a noi?”. La paura dell’attacco terroristico è un nuovo stress collettivo che, pur non sfociando in vere e proprie patologie, crea disagio e inquietudine e porta gli abitanti delle grandi città a frequentare di meno luoghi come la metropolitana, le stazioni o gli aeroporti. Da un’indagine condotta nel novembre 2004 dall’Associazione culturale Essere Benessere, emerge, infatti, che mentre dieci anni fa le paure principali dei cittadini milanesi erano l’AIDS e la droga, oggi è il terrorismo il timore più grande. Secondo alcuni studi gli attacchi terroristici provocano effetti più a lungo termine sulla salute mentale delle persone rispetto agli incidenti o alle calamità naturali e le conseguenze sono rabbia, frustrazione, senso di impotenza, paura e desiderio di vendetta. Le ricerche hanno dimostrato che la maggior parte degli individui presenta capacità di recupero, ma chi è stato più a contatto con l’evento, direttamente o attraverso conoscenze personali o anche attraverso i media, ha grandi possibilità di sviluppare il Disturbo da Stress Post-Traumatico (DSPT). Chi è affetto da questo disturbo rivive l’esperienza traumatica attraverso incubi e flashback, soffre di insonnia e ha attacchi di panico. Inoltre si aggiungono ansia, depressione e problemi di memoria che possono durare anche per anni. Uno studio effettuato dall’università di Gerusalemme e pubblicato su “Molecular Psychiatry” ha scoperto che una mutazione genetica del gene Dat, il responsabile del trasporto della dopamina, influenzerebbe la risposta al trauma e la vulnerabilità agli effetti dello stress, causando DSPT.

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Psicopatologia dello sviluppo segue

Cuore a rischio Da quanto è emerso da uno studio condotto in Israele, Paese che da anni convive con il pericolo di attentati di terroristi suicidi, la paura del terrorismo può anche causare problemi al cuore, rendendolo più debole. Infatti le donne israeliane, che sono risultate essere le più condizionate dal pensiero di trovarsi sul luogo di un attentato, presentavano elevati livelli di proteina C-reattiva. Questa sostanza aumenta il rischio di infarto, ictus, morte improvvisa e patologie dell’apparato circolatorio. Aumentano le dipendenze Lo stress causato dagli attentati terroristici, inoltre, porta a un maggiore abuso di fumo, alcol e droghe. Un’indagine svolta a New York cinque settimane dopo l’attacco dell’11 settembre ha evidenziato che, dopo l’attacco alle Torri Gemelle, i fumatori sono aumentati dell’1% e chi già fumava ha confessato di fumare almeno un pacchetto in più alla settimana. Il numero di bevitori è aumentato del 5,4% e il 20% degli intervistati ha riferito di bere almeno un drink extra al giorno rispetto al solito. Infine anche il consumo di marijuana ha avuto un incremento dell’1,3%. L’analisi dei dati ha dimostrato che le persone che bevevano o fumavano di più erano quelle che più avevano sofferto durante il crollo delle torri o subito dopo e che avevano sviluppato i sintomi del Disturbo da Stress Post-Traumatico e della depressione. (Fonte National Center for PTSD) Melamed S., Shirom A., Toker S., Berliner S., Shapira I., Association of fear of terror with low-grade inflammation among apparently healthy employed adults, Psychosom Med, Jul-Aug, 66(4):484-91, 2004. Segman RH, Cooper-Kazaz R, Macciardi F, Goltser T, Halfon Y, Dobroborski T, Shalev AY. Association between the dopamine transporter gene and posttraumatic stress disorder, Molecular Psychiatry, 7(8), 903-7, 2002. Vlahov D, Galea S, Resnick H, Ahern J, Boscarino JA, Bucuvalas M, Gold J, Kilpatrick D. Increased use of cigarettes, alcohol, and marijuana among Manhattan, New York, residents after the September 11th terrorist attacks, Am J Epidemiol, Jun 1, 155(11), 988-96, 2002.

cure parentali, come avviene nei bambini maltrattati, nei profughi, nei figli di madri affette da sindrome bipolare maniaco-depressiva, nei bambini istituzionalizzati in tenera età. Disturbi precoci nella relazione primaria si registrano all’anamnesi di soggetti che in età adulta manifestano delle sindromi border-line e delle caratteropatie.

20.3 Disturbi dell’intelligenza Nel 1992 l’Associazione Americana per il Ritardo Mentale ha cambiato la definizione di ritardo mentale in modo che possa meglio riflettere l’adattamento all’ambiente e l’interazione con gli altri. La classificazione del RM basata sul solo QI (lieve da 52 a 68; moderato da 36 a 51; grave da 20 a 35; gravissimo, < 20) è stata sostituita da quella basata sul livello di sostegno richiesto dall’individuo. Il nuovo approccio focalizza l’attenzione sui punti di forza e sulle debolezze dell’individuo, correlandoli alle richieste e alle attitudini della famiglia e della comunità. Circa il 3% dell’intera popolazione ha un valore di QI inferiore di oltre 2 deviazioni standard rispetto

a quello medio riscontrato nella popolazione generale, cioè compreso tra 60 e 75. Le forme meno gravi di ritardo mentale (che richiedono supporto limitato o intermittente) si riscontrano più spesso nelle classi socio-economiche più basse, mentre le forme più gravi si riscontrano con pari frequenza in tutte le classi socio-economiche e nelle famiglie con qualsiasi livello di istruzione. Un bambino con un apprendimento lento viene raramente individuato prima dell’ingresso nella scuola, momento in cui si evidenziano i problemi educativi e comportamentali. Circa il 14% dei bambini testati in età scolastica necessita di un sostegno educativo intermittente. Prima di lasciare la scuola, molti s’inseriscono nella popolazione normale e possono mantenersi autonomamente, se trovano un lavoro che richieda solamente conoscenze intellettive di base e della manualità. L’intelligenza è determinata da fattori genetici multipli e da fattori ambientali. Quando entrambi i genitori sono ritardati, il 40% della loro prole presenta ritardo mentale; quando un genitore è ritardato, il 20% della prole è ritardato. Nel 60-80% dei casi l’origine del ritardo mentale è sconosciuta, tuttavia l’eziologia è più facilmente identificabile nei 527

20

Disturbi dell’intelligenza

casi gravi. Fra le cause prenatali: fattori cromosomici e genetici, infezioni congenite, agenti teratogeni (farmaci o altri prodotti chimici), malnutrizione, radiazioni o altre cause sconosciute, che compromettono l’impianto dell’ovulo e l’embriogenesi, possono causare ritardo mentale. Le anomalie cromosomiche sono cause di ritardo mentale più comuni rispetto alle anomalie congenite del metabolismo e alle anomalie neurologiche. L’analisi cromosomica ad alta risoluzione può spesso individuare queste anomalie. Le trisomie comportano la presenza di un cromosoma sovrannumerario (47 invece di 46). La sindrome di Down può essere il risultato di una trisomia 21 o (meno frequentemente) di una traslocazione dal gruppo 13-15 al cromosoma 21. Il ritardo mentale può derivare da una delezione parziale di un cromosoma (per es., del cromosoma 5 nella sindrome del grido di gatto), da anomalie dei cromosomi sessuali (p. es., sindrome di Klinefelter [XXY], sindrome di Turner [XO]) o da vari mosaicismi (compresenza di cellule con cromosomi anomali e normali). Individui che presentano lieve ritardo mentale di tipo familiare possono avere la sindrome dell’X-fragile, che si riscontra in 1 su 1000 nascite, che interessa con maggior frequenza il sesso maschile. Le caratteristiche fisiche associate sono rappresentate da: dimensioni della testa normali o aumentate, macro-orchidismo, mascella prominente e protrusione delle orecchie. Le infezioni congenite, la maggiore causa di ritardo mentale, sono dovute al virus della rosolia, al citomegalovirus (una causa molto comune, da 1/600 a 1/1000 nati vivi), al Toxoplasma gondii e al Treponema pallidum della malaria. Anche altre infezioni virali, attive durante la gravidanza, sono state di volta in volta invocate come possibili cause di RM, ma senza aver ottenuto delle conferme sicure. L’esposizione a farmaci in età prenatale può causare ritardo mentale, per es. l’abuso d’alcohol e nella sindrome da idantoina. La malnutrizione in una donna gravida può compromettere lo sviluppo del cervello fetale, comportando ritardo mentale. Questo fattore è il problema più importante nei paesi in via di sviluppo, dove le carestie e la fame sono comuni. La malnutrizione con deprivazione ambientale (mancanza di stimoli fisici, emotivi e cognitivi indispensabili per la crescita, lo sviluppo e l’adattamento sociale), possono costituire le più comuni cause di ritardo mentale in ogni parte del mondo. 528

Fattori perinatali di ritardo mentale: le complicanze perinatali da prematurità, le emorragie del SNC, il parto podalico o con applicazione di forcipe, i parti gemellari, la placenta previa, e la asfissia neonatale possono aumentare il rischio di ritardo mentale. Fattori postnatali: le encefaliti e le meningiti virali e batteriche (inclusa la neuroencefalopatia associata all’AIDS), l’avvelenamento (per es., da piombo e mercurio), la grave malnutrizione e gli incidenti che provocano gravi danni cerebrali o asfissia possono comportare ritardo mentale. Le caratteristiche tipiche sono un basso QI associato a limitazioni nelle abilità sociali, linguistiche e nelle capacità di adattamento. Possono essere presenti convulsioni, disordini psichiatrici, e comportamentali. Un adolescente mentalmente ritardato può sviluppare depressione (quando venga rifiutato dagli altri studenti a scuola o quando realizzi che gli altri lo vedono come un diverso ed ipodotato). Una persona mentalmente ritardata può reagire a stress normali con una condotta esplosiva, accessi d’ira e con un comportamento anormalmente aggressivo. Il sovraffollamento, la mancanza di personale di sostegno e la carenza di attività contribuiscono al RM in ambienti istituzionalizzati. Quando le condizioni di vita migliorano e sono attuati esercizi specifici e appropriate attività occupazionali, l’incidenza di problemi comportamentali diminuisce notevolmente. La diagnosi consiste nello stabilire la presenza di ritardo mentale e nel cercare di individuarne le cause sottostanti. L’accurata valutazione della causa di base può contribuire a individuare la prognosi, suggerire programmi educativi e di esercizio, aiutare nel counselling genetico e alleviare il senso di colpa dei genitori. L’anamnesi (perinatale, dello sviluppo, neurologica e familiare) può aiutare a individuare bambini a rischio di ritardo mentale. In questi bambini vanno eseguite valutazioni periodiche, che includano test di screening per lo sviluppo psicomotorio ed esame clinico routinario e neurologico. I disordini genetici del metabolismo possono essere suggeriti dalle loro manifestazioni cliniche (ritardo d’accrescimento, letargia, vomito, convulsioni, ipotonia, epatosplenomegalia, tratti grossolani del viso, odore anomalo delle urine, macroglossia). I disturbi del linguaggio e delle capacità personali e sociali possono essere determinati da problemi

Psicopatologia dello sviluppo

TEST

ETÀ

Test di screening dello sviluppo di Denver-modificato

5 aa

Profilo di sviluppo per l’intervento precoce

da 2 mesi a 3 aa

Scala di Bayley dello sviluppo infantile (II edizione)

< 42 mesi

Test di intelligenza Stanford-Binet

da 2 aa all’età adulta

Scala di intelligenza di Wechsler per il periodo infantile e prescolare

da 3 a. e 10 m. a 6 anni e 7 m.

Scala di intelligenza di Wechsler per i bambini-modificata*

da 6 a. a 16 a. e 11 mesi

*Deve essere somministrata da psicologi specializzati

Tabella 20.1: Test per lo sviluppo specifico e psicologico per bambini con ritardo mentale.

emozionali, deprivazione ambientale, disturbi di apprendimento o sordità, più che dal ritardo mentale. Le difficoltà di comunicazione possono rendere difficile interpretare i disturbi del pensiero in una persona mentalmente ritardata. La comparsa di un’affettività piatta e di allucinazioni suggerisce la schizofrenia. L’uso della vaccinazione antirubeolica ha quasi completamente eliminato la rosolia congenita come causa di ritardo mentale nelle nazioni sviluppate. È in studio anche un vaccino per l’infezione da virus citomegalico. I seguenti fattori hanno aiutato a ridurre l’incidenza di ritardo mentale: i continui miglioramenti e l’aumento della disponibilità di cure ostetriche e neonatali (p. es., unità di terapia intensiva neonatale regionali) e l’uso dell’exanguinotrasfusione e delle immunoglobuline anti-RhO per prevenire la malattia emolitica del neonato. L’aspettativa di vita può essere ridotta con la gravità dell’eziologia. In genere tanto più grave è il ritardo mentale e ridotta la motilità, tanto più alta è la mortalità. Sono cruciali il sostegno e l’assistenza alla famiglia. Entrambi i genitori, se possibile, devono essere immediatamente informati del forte sospetto o della certezza della diagnosi di ritardo mentale e avere tempo sufficiente per comprendere le cause, le implicazioni, la prognosi e le possibilità educative del loro bambino. Un supporto informativo è essenziale per l’adattamento familiare. Il grado di competenza sociale del bambino ritardato è tanto importante quanto la funzione cognitiva, dal momento che determina il tipo di sostegno ad esso necessario. È inoltre importante la presenza di han-

dicap fisici, di disturbi della personalità e di disturbi psichiatrici. Ogni sforzo deve essere fatto per far vivere il bambino a casa o in comunità. La presenza di un bambino ritardato in famiglia può essere distruttiva. La famiglia deve avere un supporto psicologico e può necessitare di aiuto giornaliero (per es.: centri di terapia diurni, collaboratori familiari e famiglie per l’adozione temporanea). Quando possibile, un bambino dovrà essere accudito in un centro diurno o andare in una scuola normale. Un adulto ritardato deve essere ospitato per lunghi periodi di tempo in centri di assistenza o in ostelli organizzati sotto forma di comunità o in case di cura. L’istituzionalizzazione di una persona mentalmente ritardata deve essere decisa dalla famiglia, di solito dopo approfondite discussioni con medici e altri professionisti. Alle persone mentalmente ritardate, con disturbi psichiatrici concomitanti, vanno forniti appropriati farmaci antipsicotici e antidepressivi a dosaggi simili a quelli utilizzati nei pazienti non ritardati. Può essere di aiuto la psicoterapia associata a cure specifiche e al consulto psichiatrico, volto ad alleviare il senso d’inadeguatezza della persona o a modificare scopi non realistici. Raramente sono efficaci i farmaci psicoattivi senza la contemporanea psicoterapia o le modifiche dell’ambiente circostante. I bambini lievemente ritardati necessitano di un sostegno intermittente o limitato, in base alla variabilità delle richieste ambientali. Quelli con ritardo lieve e meno pronunciato possono raggiungere dal 4° al 6° grado di abilità nella lettura. Sebbene presenti difficoltà nella lettura, la maggior parte di questi bambini può acquisire un livello di istruzione 529

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Disturbi dell’intelligenza

sufficiente alla vita di tutti i giorni e provvedere alle proprie necessità di base. I soggetti lievemente ritardati necessitano di minimi controlli e sostegni specifici, di speciali programmi educativi e, di frequente, di condizioni di vita e situazioni lavorative protette. Spesso sono socialmente immaturi e ingenui e presentano una ridotta capacità di interazione sociale. Poiché il loro modo di pensare è concreto e spesso non adeguato alla generalizzazione, presentano difficoltà di adattamento a situazioni nuove; la loro scarsa capacità di giudizio, la mancanza di previsione e l’ingenuità li espongono alla delinquenza. Sono rari i crimini gravi, ma il soggetto leggermente ritardato può commettere atti impulsivi, spesso come membro di un gruppo e talvolta per ottenere una posizione simile agli altri. Di solito sono esenti da difetti fisici grossolani, ma possono presentare un’incidenza di epilessia più elevata della norma. I bambini con ritardo lieve, ma più pronunciato, e quelli con ritardo moderato presentano ovvi deficit motori e del linguaggio. Questi bambini richiedono un sostegno limitato. Con adeguati programmi di istruzione e di sostegno continuativo, gli adulti lievemente e moderatamente ritardati possono condurre una vita più o meno indipendente nella comunità. Alcuni richiedono un sostegno giornaliero limitatamente ad alcuni aspetti del vivere. Altri possono vivere con un sostegno specifico in comunità familiari, mentre i soggetti con gravi limitazioni fisiche o disturbi comportamentali hanno bisogno di una maggiore supervisione. La maggior parte richiede un sostegno a lungo termine in un ambiente di lavoro protetto. I bambini molto, o gravemente, ritardati necessitano di un sostegno che interessi tutti gli aspetti della vita. Molti non riescono a camminare e presentano minime capacità verbali.

20.4 Disturbi del linguaggio I disturbi dello sviluppo del linguaggio possono avere a che fare con i meccanismi di elaborazione cerebrale del controllo motorio (afasie motorie, per una compromissione dell’area corticale del Broca), con i meccanismi sensoriali centrali (afasie sensoriali, per una compromissione dell’area corticale sensoriale del Wernicke), oppure per una compromissione centrale giunzionale (afasie giunzionali, per 530

compromissione dell’area corticale di giunzione fra le due aree corticali sensoriale e motoria). Mentre nei soggetti adulti le afasie sono, solitamente, conseguenti ad un trauma (come una percussione cranica, un ictus emorragico, una rexis dell’arteria silviana, una compressione da espansione di un tumore cerebrale, etc.) nei bambini le cause più comuni sono le espansioni tumorali benigne (come il neurinoma), i traumatismi cranici accidentali (per esempio da caduta) e delle infezioni batteriche o virali dell’encefalo. In questi casi il bambino, che fino ad allora aveva presentato un normale sviluppo del linguaggio, presenta una regressione funzionale brusca, con l’incapacità di comprendere correttamente delle parole già note (afasia sensoriale) oppure con la produzione di neologismi più o meno caotici e disorganizzati (afasia motoria), oppure ancora con una sintomatologia mista (afasia giunzionale). Dato che nel sesso femminile la specializzazione emisferica cerebrale è meno sviluppata, le afasie sono meno gravi come sintomi, rispondono meglio alle terapie riabilitative e recuperano maggiormente ed in un tempo più breve. Infatti, nel sesso femminile, l’emisfero non dominante può sostituire funzionalmente l’emisfero dominante affetto dal danno biologico, a differenza dei maschi. La diagnosi neuropsicologica, effettuata con dei test funzionali di lettura, scrittura, osservazione della condotta linguistica, può consentire di tracciare una precisa topografia del danno corticale, con una localizzazione della lesione corticale molto accurata. La dislessia è un disturbo del linguaggio scritto caratterizzato da una capacità di lettura sostanzialmente al di sotto di quanto ci si dovrebbe aspettare considerando l’età anagrafica del soggetto, la valutazione psicometria dell’intelligenza, e un’educazione scolastica adeguata all’età. Queste difficoltà di lettura possono essere di due tipi: evolutive o acquisite. Il termine “dislessia acquisita” fa riferimento ai disturbi di lettura che occorrono in seguito ad un danno cerebrale in persone le cui abilità di lettura erano, prima del danno subito, normali. Anche la dislessia acquisita può essere riscontrata sia negli adulti che nei bambini. Con il termine “dislessia evolutiva”, invece, si fa riferimento al disturbo di lettura proprio di persone che non hanno mai imparato a leggere correttamente e non, come si potrebbe pensare, al disturbo

Psicopatologia dello sviluppo

riscontrabile nei bambini. In questo senso, la dislessia evolutiva può essere diagnosticata in un bambino quanto in un adulto. Secondo il Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali (DSM IV), per formulare la diagnosi di dislessia occorre che: 1) il livello raggiunto nella lettura, misurato ai test standardizzati somministrati individualmente sulla precisione, sulla velocità o sulla comprensione della lettura, sia sostanzialmente al di sotto di quanto previsto in base all’età cronologica del soggetto, alla valutazione psicometrica dell’intelligenza e a un’istruzione adeguata all’età; 2) l’anomalia descritta interferisca in modo significativo con l’apprendimento scolastico o con le attività quotidiane che richiedono capacità di lettura; 3) qualora fosse presente un deficit sensoriale, le difficoltà di lettura devono andare al di là di quelle solitamente associate al deficit sensoriale in questione. Ricapitolando, vanno differenziate le normali variazioni nelle abilità di lettura dalla dislessia, che può essere diagnosticata solo se al soggetto sono state fornite adeguate opportunità scolastiche e culturali, se il suo quoziente intellettivo risulta nella media e se non presenta deficit sensoriali che possano, da soli, spiegare i problemi di lettura. Il disturbo del linguaggio può interessare anche la sua produzione, articolazione, ci riferiamo alle disfo-

nie, alle dislalie e, in particolare, alla balbuzie. La balbuzie come disturbo del linguaggio è un disturbo multifattoriale della personalità con rilevante componente psicologica e ambientale, caratterizzato da un’alterazione del ritmo verbale e da un vissuto emotivo condizionato dall’espressione verbale. L’Organizzazione Mondiale della Sanità (O.M.S) classifica la balbuzie come disturbo specifico dello sviluppo, un disturbo del ritmo della parola nel quale il paziente sa con precisione quello che vorrebbe dire, ma nello stesso tempo non è in grado di dirlo. Circa l’1.2% della popolazione italiana ne è affetto, e di questi circa l’80-85% hanno esordito le prime disfluenze in età molto precoce, tra i tre e i 7-8 anni. Come disturbo della relazione e della comunicazione di origine psicologica, la balbuzie esordisce talvolta improvvisamente in età infantile nutrendosi di situazioni traumatiche o avvertite come tali (nascita di un fratellino, situazioni di anaffettivà, perdita di sicurezza, traumi, precari inserimenti), insieme a relazioni difficili e ansiogene avvertite dalla sensibilità del bambino nei primi anni di vita. Altre volte si inserisce nel linguaggio gradualmente insieme ai tentativi del bambino di pronunciare vocaboli e termini foneticamente complessi (tali esitazioni prendono il nome di disfluenze specifiche). In genere l’intervento di una situazione reattiva (scatenante) rompe il delicato equilibrio psico-emo-

QUADRO 20.II LA BALBUZIE INFANTILE La balbuzie è un disturbo del ritmo della parola, nel quale il paziente sa con precisione ciò che vorrebbe dire, ma nello stesso tempo non è in grado di dirlo a causa di involontari arresti, ripetizioni o prolungamenti di un suono. Consiste in contrazioni spastiche, a carico delle funzioni, della regolarità e del ritmo della muscolatura fonorespiratoria. Essa è un disturbo del linguaggio, tale disturbo è multifattoriale, dipende dalla personalità con rilevante componente psicologica e ambientale, caratterizzato da un’alterazione del ritmo verbale e da un vissuto emotivo condizionato dall’espressione verbale. La balbuzie è sempre e dovunque un disturbo della “relazione verbale” in situazioni di comunicazione, perché un bambino non balbetta giocando e parlando da solo. TIPOLOGIA Una sintetica classificazione delle varie forme di balbuzie in età infantile non è così facile, anche perché non esistono al mondo due bambini che balbettano allo stesso modo. Gli studiosi hanno comunque classificato tre differenti tipi di balbuzie, facendo riferimento alla particolare configurazione del “blocco” e ai suoni caratteristici che il blocco verbale manifesta nello sforzo articolatorio: Forma Clonica: Il fenomeno è classificato clonico se comporta la ripetizione di una o più parti iniziali, interne o finali di una parola. È la forma più frequente con cui la balbuzie si manifesta nell’età infantile; Forma Tonica: Il fenomeno è classificato tonico se si manifesta all’inizio della parola con difficoltà di pronuncia e, nei casi più gravi, comporta un vero e proprio “blocco” nella fluenza verbale del bambino; Forma Palilalica o Mista: un mix delle due forme precedenti caratterizzata dalla presenza di prolungamenti, tonicità e ripetizioni cloniche.

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Disturbi del linguaggio segue

ORIGINI La Balbuzie non è un fenomeno unico ma bensì determinato a diversi livelli da fattori sia fisiologici che psicologici, sia genetici che derivanti da variabili ambientali. Tutte queste variabili possono giocare un ruolo nell’insorgere della balbuzie e può essere estremamente difficile determinare quale di queste concause sia quella prevalente. Come disturbo della relazione e della comunicazione di origine psicologica, la balbuzie esordisce talvolta improvvisamente in età infantile nutrendosi di situazioni traumatiche o avvertite come tali (nascita di un fratellino, situazioni di anaffettivà, perdita di sicurezza, traumi, precari inserimenti), insieme a relazioni difficili e ansiogene avvertite dalla sensibilità del bambino nei primi anni di vita. Altre volte s’inserisce nel linguaggio gradualmente insieme ai tentativi del bambino di pronunciare vocaboli e termini foneticamente complessi (tali esitazioni prendono il nome di disfluenze specifiche). In genere l’intervento di una situazione reattiva (scatenante) rompe il delicato equilibrio psico-emotivo del bambino dando alla balbuzie (sintomo), caratterizzata da pause, interruzioni, prolungamenti, ripetizioni di sillabe o di singoli fonemi, la possibilità di rappresentare ai genitori uno scompenso interno, un disagio latente della personalità e della relazione (balbuzie-sindrome). Riguardo l’età infantile possiamo affermare che il bambino sceglie (inconsciamente) tra gli innumerevoli sistemi di comunicazione di cui dispone (sistemi non-verbali) una modalità (la parola bloccata, il linguaggio esitante) per attrarre l’attenzione dei genitori, per comunicare il suo stato interno, per “dire” all’adulto del suo disagio riguardo eventi particolari o avvertiti come ansiogeni. Oggi le differenti argomentazioni sulle cause della disfluenza possono essere suddivise in tre gruppi principali: Cause Organiciste: la normale fluenza viene ostacolata da un quadro logopatico instabile, da lesioni cerebro-corticali, da insufficienze dell’apparato fonatorio. Cause Psicogenetiche: la disfluenza del linguaggio ha origine intima, nervosa e il fenomeno, fortemente intermittente, aumenta sistematicamente in situazioni intensamente emotive. Cause Linguistiche: il normale flusso verbale viene interrotto a causa di incertezze terminologiche, sintattiche e grammaticali, costringendo il bambino a continue varianti rispetto alla elaborazione primaria del pensiero. In alcuni casi si può parlare anche di cause imitative, in quanto è ampiamente dimostrata la maggior predisposizione alla balbuzie dei bambini nati in realtà familiari ove vi siano soggetti affetti da tale disturbo. Alcuni studiosi hanno presentato lavori che dimostrano in modo attendibile un coinvolgimento del sistema nervoso centrale (snc) e hanno quindi avallato la componente neuro-fisiologica della balbuzie. Si può ritenere che tutte le teorie sopra esposte abbiano un fondamento e che non esista una balbuzie costantemente specifica e univoca. I fenomeni spesso si sovrappongono e si intersecano nelle forme più svariate ed è per tale motivo che ogni bambino ha un suo personale modo di balbettare, ora minimamente ora più seriamente, a seconda delle circostanze ambientali o emotive. Nessun bambino nasce con il problema della balbuzie, ma questa si manifesta solo in un secondo momento. Parlare non è cosa facile, e per un bambino lo è ancora meno. È assolutamente normale per un bambino di pochi anni avere qualche difficoltà nel trovare la giusta coordinazione fisica, intellettuale ed emotiva necessaria ad un linguaggio fluente. Il bambino che balbetta mostra maggiori difficoltà a controllare i processi di produzione della parola, richiedendo tempi maggiori per coordinare ed organizzare l’atto verbale. Se è vero che verso i 3/4 anni tutti hanno dei fenomeni di disfluenza dovuti all’apprendimento del linguaggio, è altrettanto vero che, sempre in questo periodo, possono iniziare a manifestarsi fenomeni di vera balbuzie. TERAPIE Molto si può fare, anche a livello terapeutico, per migliorare la fluenza verbale di un bambino che balbetta. L’obiettivo primario, specie su bambini dai 3 ai 7 anni, è evitare che la balbuzie diventi nel tempo troppo grave e si “cronicizzi”, adoperandosi quindi per mantenerla ad un livello “gestibile” dal bambino e da coloro che lo circondano. Ci sono molte persone al mondo che convivono felicemente con la propria balbuzie e per molte di esse, riuscire a controllarla e a mantenere un soddisfacente grado di fluenza verbale può già essere considerato un grande successo terapeutico. Considerando i vari “approcci terapeutici” si possono indicare due gruppi principali di tecniche: Tecniche Logopediche e Foniatriche Tecniche Psicologiche Tecniche Miste Le tecniche Logopediche/Fonoiatriche cercano di agire direttamente sul sintomo migliorando e regolando: la coordinazione del sistema pneumo-fono-articolatorio, l’atto respiratorio, la ripetizione sillabica, la ritmica del linguaggio, l’articolazione dell’atto fonatorio e la coordinazione muscolare.

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Psicopatologia dello sviluppo segue

Le tecniche psicologiche hanno come obiettivo il rafforzamento dell’Io e partono dalla convinzione che sia la repressione di impulsi non coscienti a generare i problemi di controllo dei logo-spasmi. Le tecniche psicologiche si propongono di far evolvere la personalità del bambino considerando come cause principali della balbuzie l’angoscia, il carico emotivo e il senso di solitudine. Le tecniche miste partono dal presupposto che la balbuzie non ha quasi mai un’unica causa ma è generalmente determinata da un “mix” di fattori inconsci, educativi, sociali, fonetici, motori, emotivi, sociali, culturali, ereditari, ecc. Per tale motivo occorre utilizzare un metodo terapeutico che faccia uso sia di tecniche Logopediche/Fonoiatriche che di tecniche Psicologiche, con modalità e “dosi” differenziate per ogni bambino a secondo della propria specifica patologia e della propria “storia”.

tivo del bambino dando alla balbuzie (sintomo), caratterizzata da pause, interruzioni, prolungamenti, ripetizioni di sillabe o di singoli fonemi, la possibilità di rappresentare ai genitori uno scompenso interno, un disagio latente della personalità e della relazione (balbuzie-sindrome). Riguardo l’età infantile possiamo affermare che il bambino sceglie (inconsciamente) tra gli innumerevoli sistemi di comunicazione di cui dispone (sistemi non-verbali) una modalità (la parola bloccata, il linguaggio esitante) che gli garantisce una “cassa di risonanza” sicura per attrarre l’attenzione dei genitori, per comunicare il suo stato interno, per “dire” all’adulto del suo disagio riguardo eventi particolari o avvertiti come ansiogeni. L’incidenza della balbuzie è molto maggiore nel sesso maschile (con un rapporto di circa 3 a 1).

20.5 Disturbi del controllo motorio e sfinteriale I disturbi del controllo degli sfinteri (uretrale ed anale) sono denominati enuresi ed encopresi. Vanno distinti dall’incontinenza (che è causata dall’impossibilità di trattenere feci o urine per problemi meccanici o neurologici). La manifestazione fondamentale dell’enuresi è una ripetuta emissione di urine, involontaria, occasionalmente può essere anche intenzionale, che avviene di solito durante il sonno, in bambini di almeno cinque anni di età, in assenza di lesioni all’apparato urinario e di condizioni mediche generali. Come definito nel DSM IV il disturbo deve manifestarsi almeno due volte alla settimana per almeno tre mesi consecutivi, e determinare una compromissione significativa dell’area sociale e scolastica. Si distinguono due sottotipi dell’enuresi: -enuresi notturna: è il sottotipo più comune, in cui

la perdita di urine si ha solo durante il sonno notturno. Si manifesta principalmente durante il primo terzo della notte, solo occasionalmente l’emissione avviene durante il sonno REM, e può accadere che il bambino ricordi un sogno che comportava l’atto di urinare -enuresi diurna: la perdita di urina si ha durante il giorno, è più comune nelle femmine che nei maschi, ed è rara dopo i nove anni. Si manifesta più frequentemente nel primo pomeriggio dei giorni di scuola (a tempo pieno) e può essere dovuta a difficoltà ad usare il bagno per ansia sociale o all’eccessivo coinvolgimento nelle attività. L’enuresi può manifestarsi in due forme: -forma primaria: nella quale il bambino, oltre i quattro – cinque anni non ha mai raggiunto il controllo della continenza urinaria -forma secondaria: nella quale il disturbo si sviluppa dopo aver raggiunto e mantenuto, per almeno 5-6 mesi, il controllo della continenza urinaria. L’enuresi secondaria si manifesta più frequentemente tra i cinque e gli otto anni. La manifestazione fondamentale dell’encopresi è la ripetuta evacuazione di feci, involontaria, più raramente volontaria, in luoghi inappropriati, per esempio nei vestiti, sul pavimento. Come definito nel DSM IV l’evento deve verificarsi almeno una volta al mese per un periodo minimo di tre mesi in bambini di almeno quattro anni. Il disturbo non deve essere collegato agli effetti di farmaci o di una affezione medica generale, se non attraverso un meccanismo che comporti costipazione. Anche in questo caso si distinguono due tipi di decorso: -decorso primario: in cui il soggetto non ha mai raggiunto il controllo delle sfintere anale; -decorso secondario: in cui il disturbo si manifesta dopo che per un certo periodo è stato raggiunto il 533

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Disturbi del controllo motorio e sfinteriale

normale controllo sfinterico. L’encopresi può essere distinta in due sottotipi in base al quadro clinico: -con costipazione e incontinenza da sovrariempimento: la fuoriscita delle feci è continua e avviene sia di giorno che durante la notte -senza costipazione e incontinenza da sovrariempimento: le feci sono di consistenza normale il soggetto si sporca in modo intermittente. Le feci possono essere deposte in luoghi significativi. Entrambi i disturbi (enuresi ed encopresi) sono molto più comuni nei maschi. Dato che spesso, per quanto riguarda l’enuresi, il disturbo si protrae fino all’adolescenza, esso diventa un impedimento insuperabile per poter trascorrere dei giorni lontano da casa, ad esempio a casa di amici, e per i primi contatti con l’altro sesso. Alla base dei disturbi, nella forma secondaria, può esserci una componente emotiva, si tratta di segnali che indicano dei momenti di difficoltà psicologica, che trovano espressione attraverso una regressione nell’evoluzione del bambino, spesso associata e conseguente ad eventi stressanti della vita quotidiana, quali: la nascita di un fratellino, l’inserimento a scuola, il cambiamento di scuola, un trasloco, la separazione dei genitori, un periodo prolungato di ospedalizzazione, la morte di un genitore o di un familiare. Questi eventi, influenzando il ritmo e lo stile della vita familiare, hanno delle ripercussioni sul bisogno di sicurezza, di attenzione e di dipendenza del bambino. I bambini tendono a vergognarsi del disturbo, evitando situazioni che possono metterlo in imbarazzo, determinando a volte un vero e proprio ritiro sociale. La gravità della compromissione è determinata dalla risposta dell’ambiente, dal grado di esclusione da parte dei coetanei, dal rifiuto e dall’atteggiamento punitivo di chi si prende cura del bambino, che influiscono sul suo livello di autostima e sul suo sentirsi inadeguato. Ad esempio, un’attenzione troppo pressante sul problema, rimproveri, punizioni, far indossare il pannolino forzatamente, svegliare il bambino la notte per fargli fare pipì, confronti con i fratelli o gli amici non sono assolutamente risolutivi, ma anzi tendono a ridurre ulteriormente la stima che il bambino ha di se stesso, mortificandolo e rendendolo ancora più insicuro e contribuendo a mantenere il problema. 534

L’intervento psicologico è di tipo psicoeducativo con l’obiettivo di individuare, in base al contesto in cui il bambino vive, le indicazioni per evitare che determinati atteggiamenti possano aggravare la situazione aumentando l’imbarazzo e il senso di colpa del bambino.

20.6 Le sindromi epilettiche Si parla di epilessia in presenza di due o più episodi di natura convulsiva che si ripetono nel tempo. Presupposto della diagnosi di epilessia, ancor prima dell’inquadramento nosografico, è il riconoscimento della natura epilettica di un evento, compito non sempre facile in considerazione della varietà e della frequenza (superiore a quella dell’epilessia) delle cosiddette manifestazioni parossistiche non epilettiche. Ciò è particolarmente vero in età evolutiva. Di fronte ad un episodio parossistico quindi, il medico si trova di fronte a due quesiti. Il primo è: “si tratta di una crisi epilettica?”, in caso di risposta affermativa poi: “di quale forma di epilessia si tratta?” Per rispondere a tali quesiti il clinico ha a disposizione, oltre alla clinica, cioè alla raccolta anamnestica (che resta il cardine per la comprensione della epilessia), due tipologie differenti di esami. Quelli neurofisiologici, in particolare l’elettroencefalogramma (EEG), che ci dànno delle informazioni su come funziona l’encefalo, e quelli neuroradiologici (soprattutto la tomografia computerizzata, TC e la risonanza magnetica, RM), che ci dicono invece come il cervello è fatto. Le epilessie colpiscono il 2-3% della popolazione di età infantile. Una prima classificazione delle epilessie viene fatta sulla base della loro eziologia. Possiamo quindi distinguere forme cosiddette idiopatiche, che sono sottese da una predisposizione costituzionale spesso su base familiare, ed altre sintomatiche, che sono sostenute da una lesione di varia natura (cicatriziale, neoplastica, malformativa, metabolica, degenerativa, neoplastica) del Sistema Nervoso Centrale. Nell’ambito di ciascun gruppo si riconoscono, in base alla semeiologia delle crisi, delle forme cosiddette parziali (più frequenti nelle epilessie sintomatiche) ed altre cosiddette generalizzate (più frequenti nelle forme idiopatiche). Le forme idiopatiche, sia parziali che generalizzate, sono accomunate dalla presenza di una elevata

Psicopatologia dello sviluppo

familiarità per epilessia, da un andamento età-correlato, dalla normalità dello sviluppo psicomotorio all’esordio, dalla negatività delle indagini neuroradiologiche, da una risposta in genere buona alla terapia farmacologica e da una tendenza alla guarigione spontanea con la crescita del bambino. Sintetizziamo ora i quadri principali. A - Forme focali 1 - Epilessia a parossismi rolandici. Si tratta verosimilmente della forma più frequente di epilessia infantile e nello stesso tempo di una delle forme a prognosi più benigna. Si manifesta in genere fra i 5 e i 10 anni di età in bambini con una anamnesi ed uno sviluppo psicomotorio normali che spesso presentano una familiarità positiva per epilessia o convulsioni febbrili. Le crisi sono piuttosto rare e si manifestano per lo più durante il sonno, specie in fase di addormentamento o di risveglio, sono di breve durata e coinvolgono tipicamente il distretto oro-facciale da un lato e l’arto superiore omologo. La coscienza è in genere conservata anche se talora è possibile una secondaria generalizzazione con perdita di coscienza. La rarità delle crisi, che tendono a regredire in genere in età pre-puberale, e l’orario notturno nelle quali generalmente si manifestano, consentono di evitare nella maggior parte dei casi una terapia farmacologica continuativa. Malgrado la buona prognosi a distanza, non raramente le crisi si mostrano resistenti al trattamento. 2 - Epilessia a parossismi occipitali. È la seconda forma più frequente fra le parziali benigne ed è caratterizzata da crisi piuttosto rare, che nel bambino più piccolo avvengono prevalentemente durante il sonno Le manifestazioni critiche comprendono allucinazioni visive, sintomi motori e spesso vomito. L’EEG evidenzia delle anomalie tipiche. Anche in tale forma la rarità delle crisi consente in genere di non instaurare una terapia farmacologica continuativa. 3 - Epilessie parziali benigne della prima infanzia. Mentre fino alla fine degli anni ottanta si riteneva che le epilessie parziali ad esordio nei primi due anni di vita fossero sempre sostenute da una lesione cerebrale, attualmente tale opinione è stata smentita da ripetute segnalazioni che hanno dimostrato l’esistenza di forme idiopatiche ad evoluzione benigna anche in tale fascia di età. B - Forme generalizzate 1 - Assenze piccolo male. Rappresentano più della

metà delle epilessie generalizzate idiopatiche. L’esordio avviene, in bambini neurologicamente ed intellettivamente normali, di età scolare o prescolare, con la comparsa di episodi pluriquotidiani di sospensione del contatto, sguardo fisso, talora associato a minime contrazioni a carico dei muscoli facciali. La durata è generalmente compresa fra i 5 e i 15 secondi. Alcune prove di attivazione durante l’EEG, come l’iperpnea e l’addormentamento, permettono di registrare le assenze e porre agevolmente diagnosi. Talora si possono associare crisi generalizzate tonico-cloniche. La frequenza degli episodi critici e la loro conseguente interferenza con una normale vita relazionale comportano la necessità di un trattamento farmacologico continuativo, che va generalmente protratto per due anni. L’evoluzione è generalmente favorevole e la guarigione si realizza nella maggior parte dei casi. Manifestazioni analoghe, ma con una evoluzione meno favorevole possono anche esordire in epoca adolescenziale. 2 - Grande male. Si tratta di una forma che può esordire in epoca infantile, ma più spesso in epoca adolescenziale, caratterizzata da crisi tonico-cloniche generalizzate, per lo più rare e talora scatenate da fattori precipitanti di vario tipo come la privazione di sonno, l’alcool, lo stress, il ciclo mestruale. È la forma che più impressiona chi assiste ad un episodio critico, per l’intensità delle manifestazioni cliniche, ed è infatti quella che l’opinione pubblica in generale identifica con l’Epilessia. La necessità di un trattamento farmacologico dipende sia dalla frequenza degli episodi critici che dalla loro distribuzione nella giornata. Vi sono casi in cui gli attacchi avvengono esclusivamente durante il sonno e sono molto rari. In tali situazioni la terapia farmacologica può essere evitata. 3 - Sindrome di Janz. È una forma tipica dell’età pubero-adolescenziale caratterizzata da improvvise contrazioni (mioclonie) degli arti superiori che caratteristicamente avvengono al risveglio o all’addormentamento. Secondo la loro intensità possono provocare la caduta di oggetti dalle mani o la caduta a terra del paziente. Lo stato di coscienza non è in genere compromesso e la forma può rimanere per molti anni non riconosciuta, fino a quando il soggetto non presenta – al termine di una serie di contrazioni frequenti – una progressione verso una crisi generalizzata con una vera e propria perdita di coscienza. Pur essendo una forma sostanzialmente 535

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Le sindromi epilettiche

QUADRO 20.III IL “MORBO SACRO” Databili intorno al V e al IV secolo a.C., gli Scritti Ippocratici, non tutti attribuibili al grande medico greco, sono ricchi d’innovatrici teorie sulla patologia del cervello, e non solo. Nel Corpus Ippocratico vi sono molti riferimenti all’epilessia e alle convulsioni, ma in questo caso è il libro sul “Morbo Sacro” che riveste il maggior interesse. Il Trattato sull’epilessia o Morbo Sacro risulta non solo essere la prima descrizione non fantastica della crisi epilettica, ma rileva anche sottili differenze tra i vari tipi clinici di questa malattia. Nella prima parte di questo testo è evidente il tentativo d’Ippocrate di far capire che questa malattia non aveva nulla di divino, né di demoniaco, ma che era simile a tante altre malattie e quindi provocata da una causa naturale. Secondo Ippocrate l’affermazione che l’epilessia fosse un morbo sacro consentiva agli antichi medici di crearsi un alibi per l’insuccesso della terapia, che in realtà era dovuto all’ignoranza circa le vere cause dell’epilessia. Di conseguenza i medici greci consigliavano una gran varietà di trattamenti tra cui le purificazioni, gli incantesimi e l’astinenza da certi cibi e bagni. Per l’inefficacia di questi trattamenti erano incolpati gli dèi e il medico quindi si sottraeva ad ogni responsabilità. L’altro significativo contributo alla conoscenza dell’epilessia fornito da quest’opera ippocratica è rappresentato dall’affermazione circa le basi fisiologiche del disturbo, difatti nel testo sul Morbo Sacro Ippocrate afferma che il cervello è la sede di tale malattia e di tutte le malattie mentali, con la possibilità di analizzarne i meccanismi e di curarla senza alcun ricorso a superstizioni e magia. Il cervello presentato da Ippocrate nel Trattato sul Male Sacro nella triplice dimensione psicologica-fisiologica-patogenetica, è posto come alternativa offerta dal sapere scientifico alle credenze tradizionali e alla superstizione. In particolare in questo testo Ippocrate per spiegare l’origine di questa malattia utilizza la sua famosa “teoria umorale” secondo la quale lo stato normale dell’essere umano consisteva in un equilibrio di “umori”: flegma, bile nera, bile gialla e sangue, l’equilibrio si realizzava nel momento in cui tali umori rimanevano legati ai composti organici cui avevano dato origine, e questi ultimi non venivano lesi o alterati. Nelle pagine ippocratiche troviamo il tentativo di spiegare l’epilessia come un eccesso di “flegma”, provocato da raffreddamenti che portano ad una secrezione eccessiva di muco da parte del cervello. Nella determinazione e descrizione dello stato patologico in realtà accanto alla teoria umorale, Ippocrate dava importanza ad una serie d’altri fattori tra i quali: fattori anatomici, dietetici, geografici e psicologici. Il nome d’Ippocrate rappresenta un’importante pietra miliare nella storia dell’epilessia, i suoi scritti sono tenuti ancora in gran considerazione soprattutto per il fatto che la scuola ippocratica attaccò da subito il concetto che l’epilessia fosse il risultato di una possessione spiritica, che secondo le superstizioni dell’epoca poteva essere di natura benigna o maligna. Ad Ippocrate si deve tra l’altro l’aver posto, attraverso la sua attività di ricerca, le basi della neurologia scientifica, senza poter in realtà approfondire i suoi studi e giungere a risultati concreti per mancanza di strumenti e per il mancato sviluppo d’altre discipline, non riuscendo ad ottenere così sul piano pratico quella vittoria sulla superstizione tanto desiderata. Gli studi e le osservazioni sull’epilessia subirono un lungo periodo di stasi durante tutto il Medio Evo, epoca nella quale la spiegazione razionale dei fenomeni morbosi fu abbandonata a favore di una concezione demonologica che sembrava far ritornare la medicina in epoca pre-ippocratica. In questo periodo gli epilettici erano considerati “posseduti dal demonio” e contagiosi per i propri simili e questo fece si che si diffondessero ovunque pratiche d’esorcismo molto violente (che spesso provocavano la morte dell’ammalato) e che il fanatismo religioso condizionasse completamente il trattamento di questi particolari pazienti. Non era infrequente inoltre che donne epilettiche rimaste incinte venissero sepolte vive con la propria prole, e che gli uomini fossero castrati. Le pratiche tradizionali e magiche continuarono ad essere utilizzate ancora per secoli e a rappresentare l’unica speranza di guarigione per gli epilettici d’ogni dove. Quindi con nessun successo terapeutico e con questi discutibili sistemi si arrivò alla prima metà del diciannovesimo secolo, che deve essere considerata l’epoca fondamentale per la diagnosi e la terapia dell’epilessia. Fonte: Scrimieri R., Le immagini dell’epilessia fra mito e scienza, Psychofenia, vol. VII, n. 10, 104-132, 2004.

benigna per il facile controllo della sintomatologia convulsiva da parte degli antiepilettici, alla sospensione della terapia vi è molto frequentemente la ricomparsa degli episodi critici, ed il trattamento va di solito proseguito molto a lungo. 536

4 - Fotosensibilità. Non si tratta di una vera forma di epilessia quanto di una particolare modalità di risposta EEGrafica alla stimolazione luminosa intermittente, che si può presentare come tratto isolato o associata a crisi convulsive. Sia le epilessie sin-

Psicopatologia dello sviluppo

tomatiche che soprattutto le forme idiopatiche possono associarsi a fotosensibilità. In qualche caso i soggetti presentano esclusivamente crisi scatenate dalla SLI che è possibile prevenire anziché con una terapia farmacologica continuativa con misure di fotoprotezione e con l’uso di particolari lenti appositamente studiate. La terapia antiepilettica non modifica generalmente il decorso della malattia, poiché è una terapia sintomatica che ha lo scopo di controllare le crisi ed è efficace quando è assunta. Vi è, comunque, una quota di pazienti (soprattutto con crisi parziali) che è resistente alla terapia. Si parla, infine, di convulsioni febbrili per indicare quelle manifestazioni convulsive che si presentano in corso di iperpiressia (almeno 38,5 °C) in bambini di età compresa fra i tre mesi i 5-6 anni in assenza di una affezione acuta del sistema nervoso centrale. Sono legate ad una particolare suscettibilità dell’encefalo del bambino agli sbalzi di temperatura. Ogni bambino può esserne soggetto, più facilmente se ha una familiarità positiva per epilessia o convulsioni febbrili. Sono un evento particolarmente frequente, poiché interessa circa il 5% dei bambini di età inferiore ai 5 anni. Vanno distinti dalle convulsioni febbrili gli episodi di perdita di coscienza di natura sincopale, di solito non convulsivi (sincopi febbrili). Un corretto inquadramento diagnostico consente di distinguere fra queste condizioni. L’EEG può essere normale o mostrare in qualche caso delle anomalie generalizzate, l’espressione di un tratto costituzionale. Le convulsioni febbrili non sono pericolose per la vita del bambino e non causano un danno cerebrale a meno che non siano particolarmente lunghe e realizzino un quadro di stato di male febbrile (se la durata è superiore a 30 minuti).

20.7 Le condotte antisociali Fra le condotte disadattate ed antisociali che interessano l’età evolutiva sono importanti, per le loro implicazioni psicopatologiche e la loro diffusione le condotte teppistiche ed aggressive (sia isolate che, più spesso, di gruppo) e il bullismo. Il termine bullismo deriva dalla parola inglese “bullying”, mentre nelle lingue scandinave il termine utilizzato è “mobbing”, anch’esso entrato ormai a far parte del linguaggio comune per definire le pre-

varicazioni tra adulti in ambito lavorativo. Il bullismo è definito come un’oppressione, psicologica o fisica, ripetuta e continuata nel tempo, perpetuata da una persona – o da un gruppo di persone – più potente nei confronti di un’altra percepita come più debole. Le caratteristiche distintive del bullismo sono l’intenzionalità, la persistenza nel tempo, l’assimetria della relazione, mentre gli episodi di prepotenza si possono manifestare con diverse modalità, più o meno esplicite ed evidenti. Il bullismo diretto fisico consiste nel picchiare, prendere a calci e a pugni, spingere, graffiare, mordere, tirare i capelli, appropriarsi degli oggetti degli altri o rovinarli. Il bullismo diretto verbale implica il minacciare, insultare, offendere, prendere in giro, esprimere pensieri razzisti, estorcere denaro o beni materiali. Il bullismo di tipo indiretto, invece, si gioca più sul piano psicologico, è meno evidente e più difficile da individuare, ma non per questo meno dannoso per la vittima. Il bullismo è un fenomeno che riguarda sia i maschi che le femmine: i primi mettono in atto prevalentemente prepotenze di tipo diretto, con aggressioni per lo più fisiche ma anche verbali, le femmine, di contro, utilizzano in genere modalità indirette di prevaricazione, rivolte prevalentemente verso altre giovani. Gli individui maggiormente coinvolti sono i bambini delle scuole elementari e dei primi anni delle scuole medie; tra i contesti in cui gli episodi avvengono solitamente, prevalgono gli ambienti scolastici, le aule, i corridoi, il cortile, i bagni e in genere i luoghi isolati o poco sorvegliati, come per esempio gli spogliatoi delle palestre o i laboratori. Gli attori che prendono parte agli episodi di bullismo possono rientrare in tre grandi categorie. I bulli, che mettono in atto le prevaricazioni, le vittime, che subiscono le prepotenze, gli spettatori, che non prendono parte attivamente alle prepotenze, ma vi assistono. Il bullo dominante in genere è un soggetto più forte della media dei coetanei e della vittima in particolare, ha un forte bisogno di potere, di dominio e di autoaffermazione, è impulsivo e irascibile, assume comportamenti aggressivi non solo verso i coetanei, ma anche verso gli adulti (genitori e insegnanti), nei confronti dei quali si mostra oppositivo e insolente. Il suo rendimento scolastico, variabile durante la scuola elementare, tende a peggiorare progressivamente, fino a portare talvolta all’abbandono scolastico. I bulli gregari, definiti anche bulli passivi, costituiscono il gruppetto di 537

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Le condotte antisociali

due o tre persone che assumono il ruolo di sobillatori e seguaci del bullo dominante. La vittima passiva è un soggetto più debole della media dei coetanei e del bullo in particolare, è ansioso, insicuro, è sensibile, prudente, tranquillo, fragile, timoroso; se attaccato, è incapace di difendersi, spesso reagisce alle prepotenze chiudendosi in se stesso. La vittima provocatrice, invece, è un soggetto che, con il suo comportamento, provoca gli attacchi degli altri. Contrariamente alla vittima passiva (che subisce senza reagire), spesso la vittima provocatrice contrattacca rispetto alle azioni aggressive dell’altro, ricorrendo talvolta alla forza, anche se in modo poco efficace. Gli spettatori rappresentano la grande maggioranza di bambini e ragazzi che assistono alle prevaricazioni o ne sono a conoscenza: circa l’85% degli episodi di bullismo, infatti, avvengono in presenza del gruppo dei pari che con il loro comportamento possono favorire o frenare il dilagare del fenomeno. Nonostante il problema sia da molti sottovalutato, il bullismo produce effetti che si protraggono nel tempo e che comportano dei rischi evolutivi tanto per chi agisce quanto per chi subisce prepotenze. Il bullo acquisisce modalità relazionali non appropriate in quanto caratterizzate da forte aggressività e dal bisogno di dominare sugli altri. Di conseguenza si delinea per il bullo il rischio di condotte antisociali e devianti in età adolescenziale e adulta. La vittima può manifestare disturbi di vario genere a livello sia fisico che psicologico e può sperimentare il desiderio di non frequentare più i luoghi dove solitamente incontra il suo persecutore. A distanza di tempo possono persistere tratti di personalità insicura e ansiosa tali da portare, in alcuni, ad episodi di depressione.

20.8 Le disgenesie sessuali Si parla di disgenesie sessuali, o di pseudoermafroditismi, in tutti i casi nei quali il normale sviluppo di genere sessuale sia alterato e produca una morfologia, una funzionalità od una caratterizzazione psichica ibrida nello sviluppo del fanciullo. Nella specie umana non può esistere l’ermafroditismo vero (la compresenza di organi sessuali maschili e femminili funzionanti ed atti alla auto-riproduzione) ma solo pseudoermafroditismo (la presenza di organi misti, sterili e non funzionanti). 538

Queste sindromi comportano almeno una delle seguenti condizioni: a) incongruenza fra la morfologia somatica ed il sesso cromosomico (come nel caso della sindrome di Morris e varianti della stessa, con struttura cromosomica maschile e sviluppo somatico femminile); b) incongruenza fra la prima attribuzione del sesso alla nascita e struttura gonadica, con revisione attributiva sia precoce che tardiva ed eventuale trattamento chirurgico o farmacologico (tale potrebbe essere, ad esempio, il caso che si verifica nella sindrome adrenogenitale congenita-SAG, con aspetto generalmente viriloide o intermedio di soggetti geneticamente femminili); c) incongruenza fra sesso di allevamento e struttura cromosomica (varie forme di pseudoermafroditismo e la sindrome di femminilizzazione “passiva” prenatale in soggetti geneticamente neutri, con cariotipo XO, come nella sindrome di Turner). I sottogruppi diagnostici comprendono, quindi, dei casi di sindrome di Turner, SAG, sindrome di Klinefelter e sindrome di Morris, SAG. In alcuni casi la diagnosi, il trattamento e l’inquadramento psicodiagnostico sono eventi pressoché contemporanei a causa di diagnosi tardive. Infatti alcune sindromi passano totalmente inosservate prima della pubertà. Nel caso della sindrome di Morris i soggetti (che cromosomicamente sono dei maschi) hanno un grazioso e normale aspetto femminile, ma, all’età giusta mostrano un moderato sviluppo del seno e dei caratteri sessuali secondari senza avere mai il menarca. Preoccupati per la prolungata assenza delle mestruazioni sono, allora, indirizzati al ginecologo il quale scopre la pseudovagina a fondo cieco, oltre l’assenza di utero e di ovaie. Nella SAG congenita i cromosomi sono “a posto”, ma si tratta di bambine che all’epoca della pubertà producono un eccesso di ormoni maschili, assumendo in modo imprevisto e drammatico un aspetto virile. Diverso è, in genere, il caso della sindrome di Klinefelter, dato che i soggetti hanno un aspetto caratteristico, sono di bassa statura, presentano spesso anomalie dei genitali evidenziabili sin da neonati ed hanno (molto spesso) anche un ritardo intellettivo. In questo caso la diagnosi precoce è molto agevole, anche se va detto che un esame cromosomico di massa alla nascita dovrebbe permettere una diagnosi corretta e precoce nella maggior parte delle disgenesie sessuali (tranne, ovviamente, la Sindrome Adreno Genitale).

Psicopatologia dello sviluppo

20.9 Il transessualismo Lungo ed insidioso si è rivelato il percorso che va dal concepimento fino alla piena maturità sessuale. Lo sviluppo sessuale completo e differenziato può infatti ritenersi come un processo di tipo sequenziale, quasi una “corsa a staffetta”, in cui l’evento precedente cede il passo e il testimone all’evento successivo, arrivando alla completa definizione del mosaico attraverso il graduale passaggio entro più fasi che sono: la vita intrauterina, l’infanzia e la prima fanciullezza, la tarda fanciullezza, la pubertà e l’adolescenza ed infine la maturità. La piena realizzazione del potenziale umano maschile e femminile si verifica fase dopo fase e presuppone che, sia nel periodo di sviluppo prenatale che in quello postnatale, non intervengano una serie di fattori endogeni o esogeni che possano provocare turbe più o meno evidenti nello sviluppo del sesso. Da recenti studi comparativi, infatti, di natura clinica e sociologica si è potuto osservare come i più diffusi disordini dell’identità sessuale possano radicarsi tanto nella differenziazione intrauterina quanto al momento della nascita che nella successiva vita postnatale. Con maggior precisione, si è appurato che, nello sviluppo della sessualità, è necessario che si abbia armonia e concordanza tra diverse componenti, che sono: sesso cromosomico sesso gonadico e fenotipico presenti già dalla nascita, e sesso ormonale, psicologico o sociale che concorrono allo sviluppo nella fase postnatale. Viceversa, divengono patologiche le situazioni in cui viene meno tale armonizzazione e quando, in uno dei periodi critici si ha l’incidenza di taluni fattori, come: determinate anomalie genetiche e cromosomiche, una alterata produzione di ormoni nello sviluppo fetale, una errata attribuzione del sesso alla nascita o ancora un determinato influsso educativo e sociale e soprattutto un anomalo, o quanto meno non corretto, rapporto filiale-materno nella vita immediatamente postnatale. Quando dunque si ha una coincidenza di condizioni perturbanti, lo sviluppo dell’identità può essere indotto a deviare verso linee alternative definite “deviazioni” o “perversioni sessuali“ e che si possono distinguere essenzialmente in tre gruppi. Le “deviazioni dell’oggetto” inducono alla soddisfazione dell’impulso sessuale attraverso un oggetto diverso dal partner adulto del sesso opposto; esse

comprendono l’omosessualità, la pedofilia il feticismo la zoofilia e la coprofilia. Si considerano “deviazioni della meta sessuale” le situazioni che comprendono l’esibizionismo, il voyeurismo, il sadismo, il masochismo, ovvero tutte le situazioni nelle quali la meta riproduttiva della sessualità viene esclusa a priori. Infine le “deviazioni dell’identità sessuale“ indicano l’estrema espressione di ogni disforia di genere, che può portare fino al transessualismo. In questo caso esiste una dicotomia tra Sé corporeo e Sé psichico. Il soggetto rifiuta il proprio corpo e con esso la propria sessualità, avendo in mente la vera proiezione della propria corporeità in una ben diversa rappresentazione di schema corporeo. Da questa scissione dunque possono derivare tutta una serie di anomalie a radice essenzialmente psicogenetica. Nel transessuale si osserva una pulsione psicologica, apparentemente primaria (o comunque remota) di appartenere al sesso opposto a quello genetico, endocrino, fenotipico ed ovviamente anagrafico. A tale pulsione si accompagna poi un comportamento psicosessuale di tipo nettamente opposto a quello previsto dal sesso anatomico, che si associa al desiderio ossessivo di liberarsi dagli attributi genitali posseduti ed acquisire quelli del sesso opposto. Allorché questa pulsione è di lunga data e profondamente maturata, si raggiunge uno stadio di irreversibilità che conduce il soggetto a passare da una prima fase di mascheramento alla successiva fase della terapia ormonale e fino all’intervento chirurgico correttivo. A quest’ultimo il transessuale irreversibile si dispone nella convinzione di poter superare radicalmente l’infelicità derivante dal conflitto tra immagine del Sé psichica e conformazione anatomica, col desiderio di ottenere il riconoscimento del nuovo stato da parte della società, e l’aspirazione ad ottenere una soddisfacente vita di coppia. In realtà, però, le difficoltà sociali e relazionali ed i problemi esistenziali non hanno di certo termine col bisturi. Valutando, infatti, le conseguenze degli interventi, bisogna considerare anzitutto che anche l’operazione perfettamente eseguita non realizza mai un mutamento di sesso, anzi al contrario, rende i soggetti “più anomali di prima”. Ne consegue che l’intervento non sempre soddisfa le aspettative del transessuale, dato che i veri problemi vanno proprio al di là dell’intervento e sono relativi alle difficoltà di inserimento nel mondo del lavoro e alle serie pro539

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Il transessualismo

blematiche relazionali, affettive e sessuali. La “sindrome transessuale” rappresenta quindi un fenomeno enigmatico, affascinante e insieme inquietante, in quanto costituisce la punta di un iceberg enorme, composto da quell’ancora sconosciuto mondo sommerso che concerne la struttura e i disturbi dell’identità sessuale.

20.10 La progèria ed i disturbi globali dello sviluppo La Progeria o Sindrome di Hutchinson-Gilford, conosciuta anche come sindrome da invecchiamento precoce, è una malattia genetica rarissima che colpisce un bambino ogni otto milioni. In tutto il mondo ci sono circa 70 bambini affetti da questa sindrome. I bambini con progèria nascono all’apparenza sani, ma entro pochi mesi mostrano i primi segni della malattia, incluso un brusco rallentamento della crescita, perdita del grasso corporeo, perdita dei capelli, pelle invecchiata. In pochi anni presentano i tipici disturbi delle persone anziane: anchilosi, lussazione dell’anca, arteriosclerosi, problemi al cuore e infarto, motivo principale per il quale questi bambini muoiono fra i dieci ed i tredici anni al massimo. La progèria colpisce sia i bambini che le bambine di tutte le etnie in modo uguale, e nonostante le differenze etniche le loro somiglianze somatiche sono straordinarie. Da un punto di vista psicologico i soggetti hanno uno sviluppo congruente con la loro età cronologica (hanno, pertanto, emotività, motivazioni, condotte tipicamente infantili e fanciullesche), ma da un punto di vista somatico i processi di invecchiamento procedono ad una velocità da cinque a dieci volte superiore al normale. Biologicamente è un disturbo molto interessante perché dimostra che esiste un gene (la progèria è dovuta ad una rara anomalia genetica) che controlla i meccanismi di duplicazione cellulare e dell’invecchiamento dell’intero organismo. Sappiamo già, da molti studi di genetica molecolare, che ogni individuo ha inscritte nel proprio DNA tutte le caratteristiche sia morfologiche sia evolutive nel tempo, quindi le proprie tendenze, la probabilità di ammalarsi di determinate malattie, la durata generale di vita. Nel caso della progèria infantile (ne esistono anche una forma adulto-giovanile ed una adulta, che portano ad invecchiamento e morte precoce verso i tren540

ta e cinquant’anni) osserviamo che l’intero processo evolutivo e di invecchiamento è deviato nel senso di una accelerazione, ma l’integrità della sequenza resta conservata. I pazienti hanno il massimo della forza sui sei-sette anni, perdono i capelli ed incanutiscono sugli otto-nove anni, hanno sintomi cardiocircolatori senili dopo gli otto-nove anni, etc. Molto più comuni, seppure anch’essi rari, sono i cosiddetti disturbi generalizzati dello sviluppo. Si tratta di particolari varianti di psicosi autistiche infantili, geneticamente determinate, che sono caratterizzate da una vera e propria inversione e disintegrazione del normale corso dello sviluppo psichico. Il Disturbo disintegrativo della fanciullezza è una categoria diagnostica che viene denominata, all’interno di altre classificazioni, come Sindrome di Heller o psicosi disintegrativa. Circa la prevalenza non ci sono dati epidemiologici chiari, anche se si ritiene che questo disturbo sia molto raro e più presente nei maschi. A differenza del Disturbo autistico, questo disturbo esordisce dopo un periodo di sviluppo apparentemente normale nei primi due anni al quale segue: 1) Perdita clinicamente significativa di capacità di prestazione già acquisite in precedenza (prima dei 10 anni) in almeno due delle seguenti aree: 1. Espressione o ricezione del linguaggio 2. Capacità sociali o comportamento adattivo 3. Controllo della defecazione e della minzione 4. Gioco 5. Abilità motorie 2) Anomalie del funzionamento in almeno due delle seguenti aree: 1. Compromissione qualitativa dell’interazione sociale (per es., compromissione dei comportamenti non verbali, incapacità di sviluppare relazioni con i coetanei, mancanza di reciprocità sociale o emotiva) 2. Compromissioni qualitative della comunicazione (per es., ritardo o mancanza del linguaggio parlato, incapacità di iniziare o sostenere una conversazione, uso stereotipato e ripetitivo del linguaggio, mancanza di giochi vari di imitazione) 3. Modalità di comportamento, interessi ed attività ristretti, ripetitivi e stereotipati, incluse stereotipie motorie e manierismi Il Disturbo di Rett, una malattia neurologica che colpisce soltanto le bambine, esordisce in genere verso la fine del primo anno, dopo un periodo in cui lo sviluppo della bambina è apparentemente normale. Questo disturbo, descritto per la prima

Psicopatologia dello sviluppo

volta dall’austriaco Rett nel 1966, comporta un ritardo dello sviluppo e assume, nelle prime fasi della malattia, le caratteristiche tipiche del comportamento autistico; gli aspetti autistici, tuttavia, in genere scompaiono con la crescita. La caratteristica fondamentale di questo disturbo è l’aprassia, particolarmente accentuata nelle mani, che la bambina muove continuamente in modo stereotipato, come se le stesse lavando; questo comportamento è permanente durante la veglia e scompare durante il sonno. In genere il linguaggio è assente, la deambulazione difficoltosa, e spesso è presente l’epiles-

sia. Non esistono dati sulla prevalenza, anche se si evidenzia una frequenza molto più bassa rispetto al Disturbo autistico. La presenza del disturbo nelle sole bambine, insieme al tipo di esordio ed evoluzione e ai tipici movimenti stereotipati consentono la diagnosi differenziale nei confronti di altri Disturbi generalizzati dello sviluppo. Si ritiene che compaia solo nelle bambine perché l’alterazione genetica (a livello di cromosoma X) è sempre letale per i feti di sesso maschile e porta ad un aborto spontaneo.

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Sintesi del capitolo

SINTESI DEL CAPITOLO - La psicopatologia dello sviluppo tratta dei disturbi psichici derivanti da alterazioni dello sviluppo. I disturbi cromosomici, fra i quali si annoverano le sindromi autistiche, derivano da una alterazione genetica a livello cromosomico. - Nell’autismo, anche detto psicosi infantile precoce, si ha precoce alterazione dello sviluppo, stereotipia, isolamento affettivo, ecolalia, disturbi del pensiero e del linguaggio. - Fra i disturbi congeniti, ricordiamo la paralisi cerebrale infantile, da traumi da parto e da reazioni immunitarie per incompatibilità materno-fetale. - Fra i disturbi acquisiti, ricordiamo la sindrome affettiva reattiva descritta da Spitz come ospitalismo. - Il ritardo mentale, che interessa circa il 3% dei bambini, è determinato da fattori genetici multipli e fattori ambientali, è ereditabile, favorito da infezioni, farmaci, abuso di alcohol ed infezioni della madre (in gravidanza), denutrizione. - Attualmente si classifica il ritardo mentale non sulla base del QI ma dell’adattamento all’ambiente e della qualità dell’inserimento sociale. - I disturbi del linguaggio comprendono le afasie (sensoriale, motoria, giunzionale), la dislessia e le disfasie (come la balbuzie). Tutti questi disturbi sono più gravi e frequenti nei maschi. - La balbuzie è un disturbo specifico dello sviluppo, di origine psicologica, ad esordio precoce, con un significato comunicativo inconscio. - L’enuresi, emissione involontaria e ripetuta delle urine, può essere notturna (più frequente) o diurna, primaria (quando non si è mai acquisito il controllo) o secondaria (quando il bambino perde il controllo degli sfinteri che aveva già normalmente raggiunto).

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- L’encopresi, emissione involontaria delle feci, segue una simile suddivisione (notturna e diurna, primaria e secondaria). Si tratta di un disturbo più raro ed associato, spesso, a problemi psichici od intellettivi. - L’epilessia, diagnosticata per la presenza di due o più episodi convulsivi, può essere idiopatica o secondaria, focale o generalizzata. - Fra le condotte antisociali, il bullismo, è definito come condotta di prevaricazione prolungata, intenzionale condotta da un individuo (od un gruppo) verso una persona percepita come più debole. - Il bullismo è praticato sia dai maschi che dalle femmine, seppure con modalità diverse; la vittima può essere passiva o provocatoria. - Le disgenesie sessuali sono alterazioni genetiche che rendono ambigua o disfunzionale la differenziazione sessuale, per cause ormonali, anatomiche, cromosomiche. - Il transessualismo è un disturbo dell’identità di genere, con un vissuto di estraneità per gli attributi sessuali in un soggetto geneticamente e morfologicamente normale. - La progèria infantile, rara sindrome da invecchiamento precoce, è causata da un’anomalia genetica che controlla la normale evoluzione senile dell’organismo accelerandola fino a dieci volte. - Il bambino affetto da progèria muore, con un aspetto senile per disturbi da vecchiaia, entro i dodici-quindici anni al massimo, mantenendo uno sviluppo psichico infantile. - I disturbi generalizzati dello sviluppo (come la sindrome di Rett ed il disturbo disintegrativo della fanciullezza) sono patologie regressive autistiche che compaiono dopo una fase di normale sviluppo del bambino.

Psicopatologia dello sviluppo

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