Il midollo del leone. Riflessioni sulla crisi della politica

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Il midollo del leone. Riflessioni sulla crisi della politica

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Alfredo Reichlin

Il midollo del leone Riflessioni sulla crisi della politica

Editori Laterza

© 2010, Gius. Laterza & Figli Prima edizione giugno 2010 Seconda edizione luglio 2010 Terza edizione luglio 2010 Quarta edizione ottobre 2010 Quinta edizione novembre 2010 www.laterza.it Questo libro è stampato su carta amica delle foreste, certificata dal Forest Stewardship Council Proprietà letteraria riservata Gius. Laterza & Figli Spa, Roma-Bari Finito di stampare nel novembre 2010 SEDIT - Bari (Italy) per conto della Gius. Laterza & Figli Spa ISBN 978-88-420-9315-2

Il midollo del leone Riflessioni sulla crisi della politica

1.

Il tempo lungo che ho vissuto

Se parlare della mia vita ha un senso è per la ragione che ho vissuto dentro un tempo molto lungo, più lungo degli anni del calendario. Sono nato nell’altro secolo che non fu “breve” perché non cominciò con la rivoluzione russa e non finì col crollo del comunismo. E sono ancora qui a ragionare insieme con gli amici e i compagni in un altro millennio. Ed è questo che mi colpisce. Ho pensato, agito, lottato in epoche profondamente diverse. E ho voglia di lottare ancora. Ho fatto in tempo a vedere l’Italia del fascismo: l’Italia della piccola borghesia meschina, tardodannunziana, col suo “duce” travestito da antico romano, costretta a risparmiare il centesimo. Ho conosciuto i paesi della povertà estrema. Un popolo di contadini nella grande maggioranza analfabeti i quali vivevano ai limiti della fame in veri e propri tuguri, con in fondo alla stanza gli animali. Mangiavano la sera tornati dalla campagna pane e cicoria conditi con una “croce d’olio” e sopravvivevano cercando ogni giorno nella piazza del paese la “giornata”. Erano una cosa diversa da una categoria di lavoratori dipendenti. Il loro era, di fatto, uno stato servile. Lavoravano “da sole a so3

le” a disposizione del padrone. Al posto dei contratti valevano gli antichi usi fissati nel tempo. Così io li ho conosciuti nella masseria pugliese di mio nonno. Ed è così che ho scoperto la grandezza e la potenza della politica, la forza di una nuova soggettività. Il fatto che una diversa combinazione delle forze può rimettere tutto in discussione. È questo che accadde allora. Io vidi come in pochissimo tempo quella povera gente che era vissuta in quel modo per secoli, d’improvviso, con la caduta del fascismo e l’avvento dei partiti di sinistra, cambiò perfino antropologicamente. Di colpo, quegli stessi uomini da servi si trasformarono in lavoratori, chiesero i contratti, scioperarono, elessero i loro rappresentanti in Parlamento. Qualcuno leggeva addirittura «l’Unità». E la stessa cosa si è ripetuta col “miracolo economico”. A Barletta – il mio paese – fino agli anni ’40 non c’erano nemmeno i negozi. Le donne facevano il pane e il resto veniva dalla campagna, i bambini giravano scalzi e la carne era quasi sconosciuta. Poi, in pochi anni, Barletta è diventata una città moderna che esporta scarpe da riposo in tutto il mondo, e i nuovi ricchi girano in Mercedes. Ho vissuto la guerra: i bombardamenti, le macerie, la catastrofe dell’8 settembre; il re e i generali in fuga, la totale dissoluzione dello Stato anche nei suoi gangli più elementari; il mercato nero, le SS tedesche padrone della città; e i ragazzi come me, appena diciottenni, che reagivano prendendo le armi. E mi è ancora oggi penoso ricordare l’angoscia di quei mesi, gappista a Roma: i rifugi, la fame, la paura di finire in via Tasso in una camera di tortura. 4

Ma ho conosciuto anche la felicità. L’immensa felicità della politica che si fa popolo, che riscrive la storia e ricostruisce la nazione. La Repubblica. E, insieme, la profonda emozione di riscoprire gli italiani, il Paese vero: le borgate, le fabbriche, i braccianti. Ricordo quando arrivai a Bari da Roma una sera di tanto tempo fa (erano i primi anni ’60) per assumere la direzione dei comunisti pugliesi. Non conoscevo nessuno. Cenai in una squallida trattoria con Tommaso Sicolo, il mio vice, un operaio di Giovinazzo di straordinaria intelligenza. Stazza 110 chili. Non avevo mai visto mangiare un piatto così grande di pastasciutta. Mi comunicò che il giorno dopo dovevo fare un comizio a Corato. Era la prima volta che parlavo in piazza. Non so quello che dissi. Ricordo solo una piazza immensa e un mare di coppole. Gli zappatori. E ovviamente ho conosciuto il PCI quando era ancora una straordinaria comunità umana (i compagni) e ho lavorato con gente che mi ha profondamente segnato: Togliatti, Ingrao, Berlinguer. E se penso alle persone che ho amato e da cui sono stato riamato e alla mia famiglia, e agli amici, e se aggiungo che ho frequentato quella che fu la grande stagione della cultura italiana e che ho scritto su riviste e giornali e ne ho diretti, non posso dire di aver fatto una brutta vita. Poi il comunismo è crollato e nello stesso tempo è finito il Novecento. E così è cambiato non lo scenario della politica soltanto, ma l’epoca storica. Un’altra volta. È scomparso tutto un mondo di relazioni, di idee, di cose (le classi, lo Stato-nazione, il partito di massa, i sindacati) che ci avevano 5

plasmato. Sono saltate le coordinate del nostro pensare e gli strumenti della nostra lotta. E fu lì che io – lo voglio dire – sperai molto in una nuova leadership giovane la quale fosse capace di leggere la vera natura della crisi italiana. E di farlo in modo autonomo, cioè oltre la chiacchiera dominante che raccontava la Repubblica come quarant’anni di consociativismo e di soffocamento della società civile da parte della “partitocrazia”: quella chiacchiera micidiale dell’antipolitica che ha aperto la strada a Berlusconi. Insomma, avvertivo la necessità di una nuova dirigenza dopo la generazione nostra e di Berlinguer, in grado di leggere i segni di quella che non era solo la fine di un sistema politico, ma anche una crisi dello Stato storico (altro che i giudici e la corruzione!); di una Costituzione materiale, cioè del modo di stare insieme degli italiani. E tutto questo per una ragione: per ritrovare là, in quel grumo di problemi irrisolti, una rinnovata funzione nazionale della sinistra (quale che fosse il suo nuovo nome) e quindi una nuova identità e una nuova certezza di sé (dopo il crollo della vecchia armatura ideologica). Una identità storicamente fondata che derivasse dal porsi come forza riformatrice non del comunismo ma della democrazia italiana, una democrazia che, come tanti segni indicavano, tornava ad essere a rischio. È stato questo il mio assillo: l’Italia. Ma in ciò sta anche il peso che io sento per il passato, e per il lato tragico della singolare vicenda del PCI. Un partito il quale si pose il compito storico di conciliare per la prima volta la classe con la nazione e di insegnare alle masse povere intrise di sovversivismo che cos’è la democrazia e perché è interesse degli 6

sfruttati e dei ceti subalterni difendere lo Stato democratico (e questo compito in parte assolse); che tuttavia è lo stesso partito che per il suo legame con l’URSS ha contribuito a rendere incompiuta la democrazia italiana. E questa responsabilità pesa su di me e sulla mia generazione. Nella sostanza è per questa ragione che mi è sembrato necessario e perfino naturale uscire dai vecchi confini del comunismo italiano. Era questo il passaggio. Era arrivato il tempo di scegliere – per dirla con Vittorio Foa – tra il mondo dei fallimenti e il mondo delle possibilità. E tra queste possibilità bisognava puntare su quella che il PCI non aveva avuto mai: la possibilità di governare l’Italia. La decisione di uscire dai vecchi confini del PCI era non solo giusta, ma inevitabile. Vorrei però capire se fosse inevitabile che quella scelta comportasse quella sorta di “svuotamento” della sinistra cui si è assistito. E dico sinistra non come partito politico (che anch’io ho rimesso in discussione), ma come quella corrente profonda che scorre da più di un secolo nelle vene del Paese, la quale anche oggi continua a esistere ed è, nonostante tutto, una cosa vivente giacché si tratta di quell’insieme di lotte, di aspirazioni alla giustizia e di speranze in un mondo migliore che si perpetuano e che danno un fondamento ai processi di “civilizzazione”. Solo degli sciocchi possono pensare che per conquistare il “centro” bisogna abolire la sinistra. Del resto, guardiamo a come la sinistra sta rivivendo non solo in Asia e in America Latina, ma anche negli stessi Stati Uniti. Perciò sono inquieto. Perché chi come me viene dalla sinistra storica non può sentirsi innocente se il nuovo sogget7

to politico in cui siamo confluiti sembra così incerto, quasi senza un’anima e privo di un pensiero lungo sul futuro. Pesa molto, io credo, la debolezza del modo in cui abbiamo gestito la crisi del PCI e la confluenza in un nuovo partito, il PD, di quella che, dopotutto, era la corrente maggioritaria della sinistra italiana, la sua forza più strutturata, la quale aveva segnato tutto il corso della storia repubblicana. Non si trattava di chiudere bottega ma di inverare un grande patrimonio anche morale, non solo per conservarlo, ma per ricavare da esso materiale per la costruzione di una casa nuova. Certo, era una operazione molto difficile, che per riuscire avrebbe richiesto da parte del gruppo dirigente un impegno molto più grande e serio nell’elaborare un nuovo pensiero politico. Non bastava sommare vecchie cose, bisognava elaborare una nuova sintesi. Questo non c’è stato. Avevamo dietro di noi la catastrofe del comunismo e di fronte a noi un mondo nuovo, con cambiamenti tali da modificare le stesse categorie concettuali e configurare una vera e propria cesura nel corso della storia. Bisognava, quindi, avere orgoglio e umiltà insieme. Non nascondersi che la gran parte delle esperienze da cui venivamo erano anacronistiche e su di esse non si poteva più far leva per costruire una casa comune. Ma non illudersi di aggirare la portata della svolta pensando di poterla governare con un po’ di riformismo “tecnocratico” e un po’ di sindaci. Era con la crisi della politica che dovevamo misurarci. Una crisi che non veniva solo dalla pochezza degli uomini, ma da un vero e proprio mutamento in senso oligarchico della democrazia. E ciò non solo in Italia. 8

È per questo che considero essenziale un radicale spostamento della politica dal terreno attuale – dove essa è pressoché destinata a subire un declassamento se le grandi decisioni vengono prese (come oggi accade) in centri di potere molto lontani – al terreno della lotta per una nuova democrazia capace di rimettere in gioco le energie popolari. Dove va la sinistra se non riusciamo a ristabilire un rapporto nuovo, non passivo, tra masse e potere, tra politica e popolo? Qui sta il centro delle mie riflessioni. È molto acuta in me la consapevolezza della distanza tra il mio tempo e quello che stiamo vivendo. Penso che siamo di fronte non più solo a grandi cambiamenti, sempre avvenuti nel corso della storia, ma a una vera e propria cesura. Ce lo dicono tante cose, dalla crescente mutazione del rapporto tra l’uomo e la natura a una condizione nuova del vivere, conoscere, comunicare. Pensiamo a come muta la stessa presenza umana in conseguenza dell’uscita di miliardi di persone dal buio millenario di vite primitive. Pensiamo al nuovo posto della donna nel mondo. Cambia l’idea di sé delle persone. Ed è inevitabile che tutto ciò sia destinato a cambiare il significato stesso della politica. Quando la sostanza dei nuovi processi in atto e delle contraddizioni che si creano attinge l’estrema frontiera della salvaguardia della specie umana e dell’ecosfera, allora le risposte non possono esaurirsi in misure di governo. Devono assumere i caratteri di un impegno politico che si eleva a riforma intellettuale e morale. Ho consapevolezza delle forme così diverse dal passato assunte oggi dalla milizia politica e vedo la straordinaria 9

novità di un mondo dove i movimenti sociali e le aspirazioni a trasformazioni anche profonde della vita e dei rapporti umani si manifestano sempre più attraverso quella sorta di nuova “agorà” elettronica globale che è la Rete. È evidente che la soglia d’ingresso delle masse sulla scena pubblica si è abbassata. È un grande fatto. Ma ciò non attenua il rischio di un “pensiero unico” se non c’è a monte una guida politica e un confronto reale tra idee, progetti ed esperienze diverse. Del resto, siamo in un Paese dove questi rischi si toccano con mano. La “tirannide della maggioranza” è sempre in agguato. La democrazia vive se sono forti i suoi presupposti: la partecipazione delle masse subalterne alla vita statale, la possibilità dei “diretti” di diventare “dirigenti”. La sinistra non è più di moda. Eppure c’è qui un deposito profondo di valori, di esperienze e di culture che non si può cancellare. Non nego faziosità e illusioni, ma di quel passato restano tante cose. Tra queste il fatto tanto semplice quanto fondamentale che prima dell’avvento della Repubblica mai le classi subalterne avevano avuto un posto così grande nella vita nazionale. E parlo di un posto non solo economico, ma anche etico-politico, culturale, di dignità e influenza sociale. Avvenne un salto che condizionò tutto il corso della vicenda italiana. Ed è questo che mi spinge a collocare le vecchie dispute che divisero la sinistra in uno scenario storico più ampio, il quale ci consenta di riflettere più pacatamente sul paradosso di un partito che non può essere ridotto solo alla sua ideologia e al suo rapporto con la rivoluzione russa, perché era anche un 10

movimento reale. Esplose con quella forza alla caduta del fascismo perché veniva da più lontano. Teniamo conto che fin dagli anni ’30 si avvicinarono ad esso forze che non venivano più dai vecchi schieramenti prefascisti ma riflettevano i grandi cambiamenti che stavano avvenendo in Italia in quegli anni. Il caso dei giovani che fecero dei Littoriali il luogo di confronto con altre idee rispetto al fascismo è esemplare. Ma più indietro ancora bisognerebbe andare. Del resto, solo così si spiega come mai un partito che assegnò a se stesso un compito (il comunismo) del tutto irreale e che, ovviamente, non fu mai in grado di raggiungere, diventò nondimeno un soggetto protagonista della storia nazionale. La sostanza della spiegazione di questo paradosso sta (io credo) non tanto e non solo nelle capacità dei suoi dirigenti, quanto nella peculiare vicenda italiana precedente il fascismo, nell’epoca della difficile formazione dello Stato unitario. Al fondo, il PCI incarnò, anche grazie al suo mito rivoluzionario, l’opposizione che fermentava da tempo in ampie masse di popolo (ma anche di intellettuali) rispetto a classi dirigenti che in realtà erano sentite come nemiche. E che, in effetti, tali erano, come dimostra la storia d’Italia anche dopo l’Unità: da quella vera e propria guerra che fu la lotta contro il brigantaggio, agli stati d’assedio, agli eccidi dei contadini, alla miseria indicibile di vaste plaghe, all’analfabetismo di massa, e, poi, alla violenza degli squadristi e del fascismo. Di qui il bisogno reale (e quindi la fortuna) di un partito che, forte anche dell’utopia che lo animava, apparve a queste masse come il più credibile strumento di lotta per un cambiamento radi11

cale. Su ciò fece leva la sapienza dei suoi capi, che questa spinta radicale tradussero nella costruzione di una democrazia di massa e in una Repubblica retta da una Costituzione molto avanzata. È così che la vecchia e aspra disputa ideologica mi appare sempre meno feconda. Non è il PCI che spiega la storia d’Italia (ivi compresa la debolezza del riformismo), ma viceversa. Del resto, Togliatti era ancora un bambino quando i generali del re presero a cannonate gli operai di Milano e misero Turati in galera. Ho già ricordato gli stati d’assedio, il regicidio, gli eccidi dei contadini. E la Chiesa era talmente dominata dalla preoccupazione di una convergenza tra le masse cattoliche e quelle socialiste da imporre a don Sturzo l’esilio. Queste sono le classi dirigenti italiane. Poi, certo, ci sono tutti gli errori della sinistra. Scopro così che il mio animo si allontana sempre di più dalle dispute ideologiche che hanno lacerato la sinistra per tanto tempo. Guardo le cose alla luce delle nuove prove che ci attendono e mi sembra che i nomi (comunisti, socialisti, riformisti, rivoluzionari) corrispondano sempre meno alle cose reali. Del resto, di queste dispute che cosa rimane? Tra la politica e il sentire del Paese si è creata una distanza così grande che l’Italia appare illeggibile, e non si sa bene su quali risorse possiamo far leva. Il mio intento non è quindi la difesa delle memorie. Il PCI – come ho detto – è storia conclusa. Il suo progetto politico era insostenibile. Però resta in me la consapevolezza di aver vissuto una vicenda che era parte di un grandioso movimento mondiale che, nel bene e nel male, ha cambiato 12

l’epoca, e di aver partecipato, al tempo stesso, a una storia più profonda e di più lungo periodo delle masse popolari italiane. Fare questa storia non è facile, intrisa com’è di vicende anche sanguinose e tragiche. Ma non intendo far finta di ignorarla. È alla luce dei problemi di oggi che mi limito a ripensare la politica (come in certi periodi e per certi aspetti personalmente l’ho vissuta) in quanto lotta per una democrazia nuova volta a rimettere in gioco le forze popolari più profonde. “Creare un nuovo protagonismo delle masse”, si sarebbe detto un tempo. Ma senza illudersi che ciò possa avvenire senza affrontare scontri molto aspri. Ne feci l’esperienza quando venni spedito a Bari agli inizi degli anni ’60. Venivo da quel mondo intellettuale un po’ ciarliero che ruotava intorno anche a un giornale come «l’Unità» e, di colpo, mi trovai buttato in una lotta molto dura, anche fisica. Mi colpì l’impressionante rapporto di fiducia (quasi una fede) del proletariato agricolo nel suo “Partito”. E la ragione era evidente. In quella lotta non si scherzava. Tutto il vecchio assetto del mondo agricolo meridionale era in movimento e gli scontri erano segnati ovunque – in Puglia come in Sicilia e in Calabria, come in Basilicata – da morti e feriti. Allora la polizia sparava. E non scherzava nemmeno la vecchia magistratura, che mandava in galera la povera gente a centinaia. Ma neppure noi scherzavamo. Ricordo quando durante un lungo sciopero dei braccianti si arrivò a interrompere la ferrovia e a bloccare coi picchetti gli accessi ai campi per impedire ai crumiri di raccogliere la frutta. La Lega dei braccianti non era 13

solo un sindacato, ma anche un organismo di mutuo soccorso con la sua disciplina e i suoi capi. A notte fonda passava a prendermi il suo segretario per fare il giro dei paesi e salutare, a nome del “Partito”, i picchetti riuniti intorno ai falò. Era gente ridotta alla fame. Resisteva con orgoglio ma voleva vedere in faccia i suoi capi. Tornavo a casa all’alba, mangiavo un boccone e mi gettavo nel mare immobile vicino alla casa dove abitavo: l’ultima prima della campagna. Alla fine vincemmo. Ma a Cerignola non erano soddisfatti. Del sindacato non si fidavano, e dovetti andare a parlare in piazza per dire che anche per il “Partito” era giunto il tempo di tornare al lavoro. Ammetto che è difficile sostenere che, almeno lì e in quel tempo, fosse stata superata la “cinghia di trasmissione” tra partito e sindacato. Storie di altri tempi, ormai lontanissimi. Primitivismi, certo. Ma io ho sentito in quella fiducia della gente nel “Partito” il bisogno non solo di un mito politico, ma di una forza capace di misurarsi con ciò che poi era in sostanza il “profondo spessore reazionario” della società italiana. È passato tanto tempo. Ma se proviamo a misurarci con le sfide di oggi ci rendiamo conto di come il problema di dare all’Italia una forza riformista adeguata non è stato ancora risolto: certamente non dal PCI, ma tanto meno dai suoi critici. È esattamente questo che mi spinge a scrivere. È in realtà il mondo nuovo in cui siamo immersi. È il suo carico immenso di interrogativi. Il PCI non c’è più, ma resta la domanda: con quali forze e culture nuove, con quale ca14

pacità di attingere alle risorse popolari pensiamo di affrontare gli scenari nuovi che si sono aperti? Siamo arrivati al più pericoloso dei crinali. Dobbiamo cominciare a leggere la vicenda di questi anni in un modo diverso. Noi non abbiamo capito da dove veniva la forza della nuova destra. Non ci siamo resi ben conto di come a livello mondiale si organizzasse una combinazione di inaudita potenza tra potere economico e governo delle menti. Siamo rimasti spiazzati dal fatto che il pensiero dominante non si formava più all’interno delle vecchie strutture dello Stato-nazione, quelle che avevano creato il cittadino e ispirato una coscienza storica e quindi una fiducia in un destino comune. È questo che finiva. E al fondo, è questo che ha lasciato la sinistra non solo senza programmi, bensì anche senza parole. La destra, a suo modo, ha fatto leva su una realtà in cui l’insieme di solitudini, paure del diverso, mancanza di futuro suscita un drammatico bisogno di difesa, di autoriconoscimento, di rottura dell’anonimato. Ed è in rapporto a questo che ha creato una sua ideologia e ha radunato non solo un elettorato, ma un popolo. Ricavo anche da tutto ciò che una lettura del Paese dominata dallo schema delle “due Italie” (quella laica, virtuosa, animata dal senso dello Stato e del rispetto delle leggi e dei doveri, contrapposta all’altra percepita come il luogo del “familismo amorale” e come un mondo privo di senso civico e disposto a scendere a patti col malaffare) ha una sua verità ma si è rivelata inconcludente. Ha perpetuato la vera debolezza dell’Italia, quella profonda frattura che percorre come un segno rosso la sua storia e che si è manifestata volta a 15

volta con le rivolte sanfediste dei contadini contro la borghesia “giacobina”, con il rifiuto cattolico di riconoscere il nuovo Stato unitario, col “sovversivismo” delle masse, con larga parte dell’intellettualità che si considera “straniera in patria”. Fino a quella sorta di guerra civile strisciante tra comunisti e democristiani che durò più di vent’anni e ai tentativi della destra attuale di rompere il patto costituzionale. Una nuova forza riformista non avrà mai l’egemonia se non fa i conti con questa frattura che riduce il Paese all’impotenza e rende difficile qualsiasi impresa nazionale. L’egoismo sociale, il contrapporre gli italiani gli uni agli altri come nemici, i rancori che si accumulano impediscono di pensare al futuro e un Paese non va da nessuna parte se non ha un collante e una base comune. Non per caso a centoquarant’anni da Porta Pia l’unità della nazione italiana vacilla. Può darsi che non si arriverà alla rottura e alla formazione di Stati separati. Ma è l’Italia come soggetto storico complessivo che sembra venire meno. È solo un accenno ai grandi temi. Basta per convincermi che una classica autobiografia avrebbe solo il senso di rievocare tempi lontani e irripetibili. Mi limito perciò a riordinare le mie carte e provare a raccontare, un po’ al modo di “esperienze civili e morali”, cose che parlano di grandi passioni politiche e di possibili rivoluzioni democratiche, e che possono avere ancora oggi un significato. Non pretendo di cimentarmi in modo sistematico con i problemi storiografici dell’Italia repubblicana. Sono stato 16

tra i dirigenti del PCI ed è attraverso quel prisma che ho vissuto le vicende del Paese. Non sono un comunista pentito, ma cerco di ricollocare le mie esperienze nel quadro di quella che è stata la storia “effettuale” dell’Europa del Novecento, senza le vecchie passioni e libero dalle ideologie della guerra fredda. Il PCI è storia conclusa e il suo progetto politico non era realizzabile. A questo punto vive in me un doppio sentimento: il dovere che spetta a una persona quale io sono di sgombrare il campo dalle ossessioni del passato e il bisogno, al tempo stesso, di contribuire a riempire il vuoto di un riformismo senza popolo incapace di misurarsi con i nuovi problemi del mondo in cui viviamo. So che affrontarli è il compito delle generazioni che verranno. Ma se il mio intervento ha un senso, questo sta nel dire che bisognerebbe cominciare col risvegliare le energie più profonde del popolo italiano, dando un ruolo nuovo alle classi subalterne. Ripenso così a tante cose della mia vita: cronache, tracce, episodi. Guardo ai fenomeni di degrado che si diffondono anche in gangli vitali del Paese e continuo a pensare che sia di cruciale importanza mettere in campo un nuovo soggetto il quale possa essere riconosciuto dagli italiani come una guida anche morale. Che cosa finora ha fatto ostacolo? Mi chiedo perché sia così difficile quella fusione di valori, di storie e di risorse etico-politiche che tuttavia è necessaria. Per quale ragione? L’impresa era veramente nuova e comportava il coraggio di guardare più nel profondo della nostra storia, sia per non spezzare ogni radice, sia per chiedersi quali fattori stiano cambiando in profondità il 17

modo di essere degli italiani: la scissione silenziosa di una larga parte del Nord, l’illegalità diffusa, la paura del diverso, le nuove povertà accanto alla formazione di ricchezze e di stili di vita quali dopo l’età feudale non si erano più visti. In più una sorta di “tabula rasa” per ciò che riguarda la consapevolezza della propria storia, e quindi dei valori a cui attingere. Sembra che gli italiani siano ancora alla ricerca di un nuovo vincolo fondativo. A volte si ha l’impressione che non sappiamo chi siamo. È alla luce dei fatti che io continuo a chiedermi come si possa fare un nuovo partito se non ridefinendo in qualche modo quella che è, o potrebbe essere, la sua “necessità storica”. Non basta dire che anche per l’Italia si è aperta una nuova epoca. La fine della secolare “occidentalizzazione” del mondo e la crescita di nuove potenze come la Cina e l’India mutano non solo l’asse dello sviluppo economico, ma anche la presenza reale (in senso storicopolitico) della nazione italiana sulla scena del mondo. Qui sta la grandezza della sfida e la gravità del silenzio della politica. Non coglie il segno la divisione tra ottimisti e pessimisti circa la tenuta della nostra economia. Il problema non è quantitativo. È capire dove stia la nuova, enorme posta in gioco della vicenda italiana. E il fatto nuovo a me sembra questo: è finito da un pezzo quel tempo che aveva visto il formarsi dell’Italia come nazione grazie anche al fatto che in Europa, con lo smantellamento dei vecchi imperi austriaco, russo, ottomano, si creavano le condizioni per il formarsi di nuove nazioni. Certo gli italiani c’erano anche prima (da secoli), ma non erano uno Stato. Lo 18

sono diventati. Ma adesso, come ci ricorda il «Financial Times», siamo «alla fine di 500 anni di ascesa dei Paesi europei e davanti a noi c’è un lungo e tormentato periodo di aggiustamento geo-economico e geo-politico». È ciò che anch’io penso. Penso che si apra il grande interrogativo di quale sarà il posto dell’Italia nella nuova divisione internazionale del lavoro. E penso che questo non sia un problema economico che la politica può delegare agli specialisti. È il vero banco di prova del ceto politico che dirige la sinistra italiana. Questa sfida non può essere affrontata senza ripensare in modo radicale il futuro del Mezzogiorno, e cioè il ruolo nel nuovo quadro internazionale di un Paese così duale. Siamo già al punto che mentre una parte del Nord si pensa ormai come una sorta di regione autonoma dell’Europa, al Sud le mafie e le camorre non solo hanno grande potere ma sono diventate dei grandi network internazionali, i quali sono alla ricerca di nuove basi territoriali. Ecco perché mi convinco sempre più che la costruzione del PD sia una necessità per l’Italia. Al tempo stesso penso che non si possa fare un nuovo partito se non ci poniamo il compito di ricostruire su una base nuova e più avanzata il tessuto della nazione italiana. E se non è chiaro che una idea nazionale non è più concepibile se non come parte di una nuova funzione dell’Europa nel mondo globale. Se non fa sua questa missione, se non capisce che questo è il suo “midollo”, se la sinistra non si lega all’albero della vita e non al grigio dell’ideologia, io temo che la sua vicenda sia destinata a spegnersi. 19

2.

Credevamo nella rivoluzione?

«Credevate nella rivoluzione?», mi chiese una volta Vittorio Foa. Eravamo nella sua piccola casa di Formia seduti nel giardino dei limoni e Vittorio bombardava di domande Miriam Mafai e il sottoscritto. Pensava a quel libretto sul “silenzio dei comunisti” che poi Luca Ronconi mise in scena, in uno spettacolo che fu invitato al festival di Avignone e poi girò in molti teatri d’Europa. Io rimasi interdetto. Cosa potevo rispondere? In effetti non avevo mai immaginato l’assalto al potere e la fine della proprietà privata. Però sì, mi sentivo un rivoluzionario, una persona impegnata in una grande impresa concepita come l’avvento di una trasformazione profonda del Paese (la via nazionale al socialismo). Tutto il mio sentire, tutta la mia passione, tutta la mia vita si concentravano sulla necessità di creare una Italia nuova nella quale non solo i governi dovevano cambiare, ma le classi lavoratrici dovevano assumere un nuovo ruolo nello Stato. L’idea, in sostanza, era questa: spettava a noi portare a termine il Risorgimento. Era una idea forte. Era però – come poi si è visto – una idea non solo semplicistica, ma con un fondamento storico e politico debole. Ciò che mancava era proprio l’egemonia, intesa nel 21

suo significato non contingente, e cioè come quel fondamentale ruolo che può assumere solo una forza che è in grado di governare il proprio Paese in quanto affronta positivamente il nesso tra i suoi problemi interni e la sua collocazione nel mondo. Di fatto, questo ruolo l’aveva assunto la DC. La realtà, di cui cominciai a prendere atto più avanti, era questa. La nostra presa di distanza dal cosiddetto movimento comunista internazionale fu tardiva. Ma non si tratta solo di questo. Il problema con il quale dovevamo misurarci era più complesso. Non bastava dire che il nostro baricentro era la via italiana al socialismo. Più andavamo avanti su questa strada, più si poneva il problema di quale avvenire potesse avere un soggetto politico come il nostro e con la cultura politica democratica che avevamo elaborato. Anche nell’ipotesi del tutto astratta e totalmente implausibile che l’impero sovietico (perché di un impero ormai si trattava) uscisse vittorioso dalla guerra fredda, noi dove ci collocavamo? Io vedo qui il limite insuperabile del “togliattismo”. Quel limite stava nel non avere una risposta al fatto che la vicenda del PCI e della sinistra italiana si collocava in una storia che diventava sempre più storia mondiale. E ciò svelava tutti i limiti di questo singolare partito e della sua reale funzione nella vita nazionale. Bisognerebbe porsi allora una domanda. Dal momento in cui finì l’Italia contadina la funzione del PCI fu davvero così grande? La polemica sulla “doppiezza” e sulla nostra credibilità democratica è fuorviante e non coglie il punto. I limiti del PCI togliattiano stanno altrove. Stanno nel fat22

to che con il mutare del vecchio ruolo dello Stato-nazione l’idea stessa di nazione si allargava. E quindi la funzione nazionale doveva essere ridefinita, in quanto dipendeva sempre più dalla elaborazione delle combinazioni possibili tra gli elementi nazionali e internazionali dello sviluppo, non soltanto economico ma storico-politico. Qui stava il limite di quella strategia. Stava nella sua irrealizzabilità. Nel fatto, cioè, che in presenza dei nuovi vincoli della guerra fredda e del sistema di Bretton Woods l’idea stessa di una via nazionale al socialismo diventava non plausibile. Per realizzarsi richiedeva un ordine mondiale diverso, cioè un mondo policentrico, interdipendente, una logica di sistema di tipo cooperativo. Quindi richiedeva una riforma profonda del regime totalitario sovietico e la sperimentazione nei Paesi dell’Est europeo di quelle “nuove vie di avanzata al socialismo nella democrazia e nella pace” che Togliatti, a parole, poteva solo auspicare. È vero, quindi, che con l’anticomunismo non si spiega la storia d’Italia, la sua “incongruenza” (Antonio Labriola) rispetto all’Europa. Ed è vero che non è la “malvagità” dei comunisti che spiega perché nella Penisola non è cresciuta una socialdemocrazia di stampo europeo, ma è invece la storia dell’Italia profonda che spiega il PCI. Ma resta il fatto che il ruolo storico del PCI fu profondamente contraddittorio. Il PCI non è innocente se questa democrazia è restata “incompiuta”. Tuttavia, dentro questi confini, noi – i giovani comunisti di allora – partecipammo a una lotta che non era solo di classe ma rappresentò – nei fatti – una nuova fase della for23

mazione del popolo italiano. Questa nazione antica dove le élites colte parlavano da quasi mille anni la stessa lingua in Sicilia come a Firenze ma dove, a livello popolare, veneti, siciliani, liguri si sono incontrati la prima volta tra loro solo dopo Porta Pia, quando furono chiamati alla leva del nuovo esercito nazionale e non riuscivano a capirsi per la diversità dei dialetti. L’orgoglio che io sentivo quando appena trentenne fui chiamato a dirigere «l’Unità» era quello di fare il solo giornale che a quei tempi era nazionale, cioè l’unico che si diffondeva da Aosta alla Sicilia e che contribuiva così, in tempi in cui non c’era ancora la TV, alla formazione di un linguaggio e un sentire comuni. La milizia politica si confondeva con la partecipazione a una vicenda che era integralmente storica. Non soltanto ideologica. Certo, Stalin c’entrava, eccome. Rappresentava il mito, ma noi eravamo gli stessi che si “facevano Stato” e imparavamo che la politica non è solo propaganda, immagini, potere, bensì (come dicono i miei appunti di allora) la ricerca delle condizioni in cui si muovono le società umane allo scopo di trasformarle. Le cose della politica sono talmente mal messe che un vecchio militante che non ha mai negato le sue corresponsabilità non ha nessuna voglia di fare la lezione ai più giovani. Ma una cosa sento il bisogno di dire. La nostra concezione della politica era diversa, molto diversa da quella oggi dominante. È vero, come tale non è più proponibile, un impegno così totalizzante non regge nella vita di oggi. Ma non è vero che non fossimo laici. Io non mi riconosco affatto nell’idea che quella milizia politica si ispirasse a una 24

verità assoluta. Bisognerebbe smetterla di considerare le fedi religiose come i soli grandi ideali. La cosiddetta “scelta di vita” di cui parla Giorgio Amendola discendeva da niente altro che dalla consapevolezza di dover assolvere a quello che consideravamo il “compito storico”. Un compito certamente ispirato da un’alta visione etico-politica, ma integralmente storico. Questo compito non discendeva da un’idea astratta del comunismo ma dall’analisi della realtà, cioè dallo “stato delle cose presenti”. Ed era questo compito che imponeva (e al tempo stesso consentiva) di immaginare un futuro: ma – attenzione – ciò solo e in quanto si intervenisse con la lotta nelle contraddizioni del sistema. La premessa essenziale era quindi l’analisi. L’analisi: era questa la nostra ossessione e sull’analisi si misuravano le rispettive posizioni. State attenti all’analisi – ci diceva Togliatti – perché “se sbagliate l’analisi sbagliate tutto”. E infatti da che cosa poteva muovere l’iniziativa politica se non “dall’analisi concreta della situazione concreta”? Mi rendo conto che ricordare queste cose sembra oggi favolistico. Ma lo faccio perché c’è una grande domanda che preme in me e che la novità delle cose ripropone: oggi dove si fa una analisi? La sinistra sembra analfabeta. Ricordo quando si delineò lo scontro tra Amendola e Ingrao. Il segretario del PCI, Luigi Longo, non fece mediazioni tra le persone. Decise di pubblicare un numero speciale di «Critica Marxista» per consentire alle diverse posizioni di confrontarsi nel modo più aperto. Chiese non interviste ma articoli, o meglio saggi politici di venti pagine l’uno a Giorgio Amendola, Giorgio Napolitano e Agosti25

no Novella da un lato e a Bruno Trentin, Luciano Barca e Alfredo Reichlin dall’altro. Rileggendo quel vecchio fascicolo, il quesito è chiaro: quale analisi concreta sorregge le vostre posizioni? So bene che tutto ciò non ci ha messi affatto al riparo da errori anche catastrofici. Ma si tratta appunto di errori di analisi, di sbagli gravi nel concepire quel compito storico. Errori imperdonabili, ma fatti all’interno di uno sforzo tutto volto a pensare la politica in funzione del cammino della gente e come strumento per trasformare gli individui in cittadini, non in spettatori plaudenti. La politica come costruzione della “polis”. Errori, quindi, diversi da quelli di chi considera la politica come una carriera o soltanto come professione, come una sorta di “funzione specializzata” interna al sistema di comando dato, e quindi come cosa che si gioca all’interno di uno spazio relativamente chiuso. Non è uno scandalo. So che la politica può essere anche questo, lo strumento che produce quel legame simbolico di cui non si può fare a meno e che seleziona il personale politico. Ma non può essere solo questo per chi vuole cambiare il mondo.

3.

Come eravamo

Pietro Ingrao è la persona che ha avuto su di me, negli anni della formazione, una grande influenza. Non parlo solo di idee politiche (che, come tante idee di allora, sono datate). Ciò che mi appare viva ancora è la figura umana di quel giovane inquieto che dalla Ciociaria arcaica arrivava all’Università di Roma ed entrava nella cospirazione antifascista attraverso l’incontro con altri giovani: lo straordinario gruppo romano di Antonio Amendola, Aldo Natoli, Paolo Bufalini, Lucio Lombardo-Radice. Quei giovani si erano formati attraverso le esperienze e le passioni di una Italia che sul finire degli anni ’30 era percorsa da confusi fermenti. Il fascismo non era un blocco monolitico, e anche sotto i suoi simboli si riapriva un dibattito ideale e nuove spinte e bisogni culturali cominciavano a confrontarsi. C’era l’attesa di una nuova Europa. Quei fermenti si rivelarono appieno dopo la Liberazione, ma erano nati prima. Penso ai film che già alludevano a una visione “realista” dell’Italia, a certi quadri di Guttuso e di Mafai, ai primi romanzi di Moravia. Quei giovani venivano da storie diverse, alcuni erano già collegati col PCI clandestino. Ma che cosa c’era alla base di quella mobilitazio27

ne etico-politica, così intensa e così radicale? Io credo che contasse moltissimo, non meno del mito sovietico, quello che scrisse Giaime Pintor nella lettera al fratello e che anche Ingrao mi ha ripetuto tante volte: la paura di una barbarie che incombeva (l’hitlerismo) e il dovere assoluto di salvare la civiltà europea. Ritenevano che fosse questa la missione fondamentale dell’antifascismo. Quei giovani italiani erano altra cosa rispetto al tipo di rivoluzionario di professione formatosi a Mosca alla scuola del Comintern. C’era nella loro testa uno strano miscuglio di Marx e di Pisacane. E qualche anno più tardi a quel gruppo ci aggiungemmo noi, i più giovani. Si formarono grandi amicizie che sono sopravvissute alle successive divisioni. Il PCI non era un blocco monolitico. Fu anche una grande scuola di realismo politico, ma in esso c’era di tutto: compresi il settarismo e il fanatismo più stupidi, sia pure intrecciati con grandi slanci ideali. Potrei parlare a lungo di esperienze personali. Alla Scuola di partito di Frattocchie, intitolata al campione dello stalinismo, Andrej Ždanov, ho assistito a cose tra il comico e l’inquietante. Il tutto, però, con una idea di fondo, l’idea di una comunità di fratelli, e con il mito dell’uomo nuovo da costruire. Le ridicole lezioni di un raffinato critico d’arte su Stalin stratega della “rivoluzione proletaria” si sommavano all’impegno volontario di alcuni tra gli storici più seri del tempo che raccontavano a quel gruppo di operai e di giovani intellettuali una storia d’Italia inedita. Imperava una forte pedagogia. A me fu detto subito che non sarei stato giudicato per le mie capacità, ma per il modo in cui aiutavo a 28

studiare un operaio delle acciaierie di Terni, un omaccione ridente che si chiamava Menichetti e che tra i libri e i giornali un po’ annaspava. Lo ritrovai anni dopo autorevole segretario della Camera del Lavoro della sua città. Non era una vita facile. Quando arrivai al villino di Frattocchie mi fu assegnato un letto in un camerone gelido dove dormivano altre venti persone. La prima sera, al momento di coricarmi, indossai il pigiama. Gli altri, che erano tutti in mutande e canottiera, si misero a sghignazzare. Poi fraternizzammo. Ci fu un congresso e ricordo la cena solenne di addio ai delegati stranieri che si svolse una sera alle Frattocchie. Io ero il capocameriere e controllavo che Di Vittorio mangiasse “in bianco”. Ma a proposito di settarismo, tra tanti episodi, mi è rimasta impressa una vicenda del 1945. Un corteo di ragazzi delle scuole che arrivò a piazza Esedra per manifestare per Trieste italiana fu accolto da squadre di edili organizzati dalla Federazione comunista che li picchiarono a sangue. Nel corteo c’era il ragazzo Giovanni Ferrara. Il padre, l’avvocato Mario, famoso antifascista, ne fu talmente indignato (soprattutto per il titolo in perfetto stile stalinista che «l’Unità» fece il giorno dopo: Operai e studenti fraternizzano a piazza Esedra) che cacciò di casa il figlio maggiore, il comunista Maurizio. Il quale, non sapendo dove andare, venne a dormire a casa mia. Diventammo grandissimi amici. Per noi l’esistenza di una democrazia parlamentare era certamente una grande conquista (consideravamo sbagliato lo slogan di Nenni sulla repubblica dei CLN) ma non era tutto. L’essenziale erano le “masse”, questa paro29

la così generica che ha alimentato anche tanto populismo, ma che nella nostra testa significava partecipazione, protagonismo, nuove strutture sindacali, politiche, culturali. Fu la grande passione di noi “servi di Mosca” quella di immergerci nell’Italia profonda e di aderire a “tutte le pieghe della società”, di aprire “una sezione comunista accanto ad ogni campanile”. E questa passione io non l’ho vista in nessuno così profonda come in Pietro Ingrao. Il suo arrivo all’«Unità» dalla Milano partigiana con ancora addosso la camicia militare, il suo cominciare umilmente come capocronista. La cronaca dell’«Unità» trasformata in una specie di laboratorio per la scoperta del mondo del sottosuolo e dei bassifondi romani. Le grandi inchieste su Tiburtino III, Pietralata, Val Melaina, autentici lager, informi baraccopoli in cui il fascismo aveva relegato all’estrema periferia la manovalanza miserabile venuta a Roma per costruire i monumenti del regime. Quel giornalismo ignorava i retroscena del “Palazzo”; andava alla scoperta dell’Italia vera, con le sue miserie, le sue tragedie, le sue violenze. Ecco perché io penso che dovremmo pervenire a una visione più persuasiva della complessa e tormentata storia della sinistra italiana. Penso al modo in cui si formò il gruppo dirigente del PCI, dopo la Liberazione, attraverso un impasto davvero singolare dove gli “uomini di Mosca”, cioè la schiera che usciva dalle carceri o veniva dai lunghi anni di esilio e di lavoro nel Comintern, si mischiava con i giovani cresciuti sotto il fascismo e che erano passati attraverso la Resistenza. Non fu un semplice innesto del nuovo 30

nel vecchio tronco bolscevico, ma una rifondazione. Nacque sul serio un “partito nuovo”. Era perfino commovente lo sforzo, misto a molte ingenuità, che Togliatti faceva per trovare un rapporto con i giovani vissuti in Italia, sotto il fascismo. Passava ore a parlare con noi. Io stesso, cronista parlamentare, appena ventenne, la sera, dopo la seduta della Costituente, venivo invitato a cena in qualche pizzeria intorno a Montecitorio. Togliatti era curioso di tutto. Cercava di rivivere quella vita quotidiana dell’Italia che dopo gli anni ’20 gli era sconosciuta. Scoprii che non aveva mai sentito parlare di Gary Cooper. Del gruppo faceva parte anche una giovane deputata di Reggio Emilia, Nilde Jotti, laureata alla Università Cattolica. Io mi accorsi che tra loro c’era qualcosa di tenero. Era ancora un segreto e la mia presenza – diciamo la verità – serviva a dare una copertura. A me pare che la scelta di Ingrao come direttore dell’«Unità» non sia stata una decisione come tante altre. Su di lui Togliatti fece affidamento per una operazione politica e culturale: fare dell’«Unità» un grande giornale popolare non solo per la diffusione di massa, ma anche per la capacità di dare conto di tutti gli aspetti della vita sociale, dalla politica alla cultura, dalle cronache cittadine, compresa la cronaca nera, allo sport, alle corrispondenze internazionali. La sera, prima di andare a casa, Togliatti passava spesso in via IV Novembre, dove aveva sede il giornale, per informarsi e fare quattro chiacchiere. Si creò così uno stato di cose che mentre esaltava la figura politica di Ingrao (fino alla diceria che fosse il “delfino” di Togliatti), dall’altro lato 31

creava un rapporto difficile, fatto anche di ostilità e gelosie, con tutta un’altra parte del gruppo dirigente. Nulla di paragonabile, comunque, ai conflitti personali di oggi. Al tempo stesso, se la statura di Ingrao cresceva, crescevano anche la sua inquietudine e la sua autonomia. Il lavoro stesso che faceva diventava un punto di riferimento per la parte più viva della sinistra politica e intellettuale (basti vedere le firme della Terza pagina dell’«Unità»). E ciò lo spingeva in mare aperto. Esaltava quella sua tendenza, che diventò poi proverbiale, a porsi interrogativi scomodi sui grandi problemi del mondo e sulle vicende di una Italia che usciva ormai dal dopoguerra. Accadde così che colui che le dicerie consideravano il delfino di Togliatti era lo stesso che cominciava a sentire l’insufficienza della grande lettura togliattiana dell’Italia come Paese arretrato, nel quale il compito dei comunisti era risolvere le grandi “questioni” storiche: il Mezzogiorno, la questione agraria, il rapporto col Vaticano. Quella lettura, nell’insieme, non riusciva più a dare conto delle trasformazioni che cominciavano ad incidere radicalmente sul volto dell’Italia: il passaggio da Paese agricolo a Paese industriale, una biblica emigrazione dei contadini meridionali, l’avvento dei consumi di massa, la rivoluzione dei costumi. Si dica quello che si vuole su certi cedimenti all’estremismo, ma questa fu la sostanza del cosiddetto “ingraismo”, almeno come io l’ho vissuto. Ridotto all’osso, l’assillo di quelli come me era spingere il PCI a misurarsi con la grande trasformazione dell’Italia alla fine degli anni ’50. Riconosco che la lotta contro l’ingraismo era anche 32

giustificata dalla preoccupazione di non dare spazio alle spinte (che esistevano) a rimettere in discussione la strategia delle alleanze democratiche, e questo in nome di una idea astratta del capitalismo italiano. Si aprì una lotta molto aspra. Ricordo una riunione della Direzione in cui Longo lesse la lettera con la quale Togliatti, convinto di avere una grave malattia, pregava di esonerarlo dalla guida della Segreteria (mantenendo la direzione di «Rinascita»). Mi colpì la durezza di certi interventi, che alzavano un evidente fuoco di sbarramento per il timore che Longo, oberato da troppe responsabilità, scegliesse Ingrao come suo braccio destro. Ciò che mi impressionò non fu solo l’elemento di lotta politica, dopotutto comprensibile, ma la sensazione di un isolamento di Ingrao, di una diffidenza profonda verso il suo modo di essere e di pensare. E io credo che questo contò moltissimo. Rafforzò in Ingrao, già poco incline a calcoli tattici, la convinzione di non avere altro spazio che quello di parlare più direttamente al Partito e all’esterno. E ciò non solo perché era isolato nel gruppo dirigente, ma anche perché il contrasto tra la novità dei problemi e delle forze sociali e intellettuali che erano in movimento e il conservatorismo del Partito poteva essere affrontato solo ponendo la questione della democrazia interna, cioè della libertà del dissenso, e quindi di una riforma del centralismo democratico. Fu questa la sfida che egli portò all’XI Congresso del 1966, rompendo col suo discorso la “regola” del gruppo dirigente che dibatte al suo interno ma si mostra granitico all’esterno. Che conseguenze ebbe quella rottura? Non so 33

dirlo. So però che nella proposta ingraiana di riformare il modello di sviluppo italiano c’era una idea di governo. Direi qualcosa di simile alla posizione di quelle socialdemocrazie di sinistra che non avevano paura di battersi nel nome di piattaforme radicali, molto avanzate. A Ingrao si opponevano argomenti seri, ma anche idee conservatrici che erano molto forti (più di quanto si immagini) nel vertice comunista. E non parlo del gusto di Togliatti di parlare latino o di Bufalini di tradurre dal greco le poesie di Saffo durante le riunioni. Ingrao, con tutte le riserve del caso, poteva essere l’alfiere di un più radicale rinnovamento. Era giusta l’idea che, se si voleva mantenere viva una ipotesi di alternativa, bisognava avere anche una proposta più complessiva sullo sviluppo italiano. Del resto non era questo il problema che poneva anche Ugo La Malfa con la “Nota aggiuntiva” del 1962? Non per caso il leader repubblicano scelse Ingrao come suo interlocutore. Lo stesso fece Riccardo Lombardi. Per non parlare della sinistra democristiana. Dopo l’XI Congresso il rapporto di Ingrao con il gruppo dirigente cambiò profondamente ma non si ruppe. Ingrao assunse una collocazione meno impegnata nella direzione effettiva del Partito ma la sua popolarità e il ruolo della sua figura politica e culturale non diminuirono. Fu forse il più consapevole che la svolta neoliberista e conservatrice (simboleggiata dalla Trilaterale) imposta su scala mondiale dal capitale finanziario tendeva a svuotare le istituzioni democratiche. E che, quindi, si apriva uno scontro decisivo tendente a rompere il rapporto tra masse e pote34

re. Non usavamo allora il linguaggio della socialdemocrazia, ma ciò che egli diceva non era molto diverso dalla denuncia del fatto che entrava in crisi il compromesso socialdemocratico tra il capitalismo e la democrazia. Poi il distacco crebbe sempre più. E quando con Antonio Bassolino andai ad accoglierlo a Fiumicino, reduce da un viaggio in Spagna, per parlargli della svolta di Occhetto, Ingrao ci congedò bruscamente annunciando che avrebbe preso lui la testa dell’opposizione.

4.

In Puglia

Agli inizi degli anni ’60 mi dimisero per dissensi politici dalla direzione dell’«Unità» e mi mandarono in Puglia. Uscivo da una lunga polemica all’interno del Partito. Io valutavo il centro-sinistra come il riflesso dell’avvento del cosiddetto neocapitalismo, al quale, dunque, noi dovevamo opporre un “nuovo modello di sviluppo”. Puntavamo quindi a uno scontro frontale. A fronte c’era l’altra tesi: il riformismo che la nuova maggioranza DC-PSI poteva esprimere corrispondeva a esigenze reali della società italiana e quindi non bisognava contrastarlo, ma piuttosto sfidarlo a realizzare il suo programma nella convinzione che ciò avrebbe prodotto profonde contraddizioni. Questa era la tesi di Togliatti e degli “amendoliani”. Nella sostanza avevano ragione loro. Fu lì, in Puglia, che mi feci una idea meno astratta delle rivoluzioni possibili e scoprii che «grigia è la teoria mentre verde è l’albero della vita». Incontrai una umanità: i “compagni”. Mi trovai immerso nella vita di un partito che era anche una straordinaria comunità umana. Un giovane poco più che ventenne, Beppe Vacca, era l’animatore di qualcosa che non era solo un circolo intellettuale. È diffi37

cile dire che cosa fosse. Al fondo era l’emergere nel Mezzogiorno (e non a caso in Puglia) di un gruppo di giovani intellettuali (da Franco De Felice a Franco Cassano, da Mario Santostasi a Biagio De Giovanni) formatisi tra l’Università e Casa Laterza, che in vari modi si stavano impegnando in una impresa molto significativa. Lo scopo, ambizioso e temerario, era quello, in fondo, di ripensare l’identità del PCI, nel senso di ridefinire il comunismo italiano come lo strumento capace di elaborare una idea originale della “rivoluzione in Occidente”. E fare ciò stabilendo in modo inscindibile il nesso tra democrazia e socialismo. La novità, tutto sommato, mi sembra questa. Non era poco. Un caro amico, Vito Laterza, ci osservava sorridendo, e Antonella ci apriva la sua casa. Non si trattava di una variante del riformismo socialdemocratico né del marxismo-leninismo di tipo sovietico. Quei giovani erano a loro modo comunisti. Ma se assumevano questo nome difficile, perfino insostenibile, era per affermare l’esigenza di un pensiero radicalmente critico. Nulla in comune avevano con l’estremismo. La peculiarità della loro posizione consisteva nello sforzo di pensare il comunismo italiano in termini integralmente storico-politici liberandolo da ogni trascendenza e da ogni idea di storia a comando. Si sentivano epigoni del grande pensiero storicista italiano. Vico, Spaventa, Labriola. Ne cercavano conferma nello storicismo assoluto di Antonio Gramsci. E questa operazione la facevano non separandosi dall’organizzazione del Partito, ma integrandosi in essa, considerandola come lo strumento pratico non solo di una politi38

ca, ma di una rivoluzione intellettuale e morale. Una possibile egemonia. Questa era l’idea, e questi furono il terreno del nostro incontro e i temi delle nostre discussioni. Cercavamo di combinare la lotta elementare del bracciante per la “giornata” – il miserabile compenso per la sua immensa fatica – con quella degli edili e degli operai delle nuove fabbriche di Bari e Taranto. E tutto ciò dentro una idea dello sviluppo moderno della Puglia e del Mezzogiorno. Facemmo del grande piano di irrigazione del Tavoliere la nostra bandiera. Il ruolo degli intellettuali era quello di fare da cemento di un nuovo possibile blocco storico. Illusioni? Certo, anche. Resta il fatto che così ho imparato a capire che cos’è fare politica non in astratto, ma in un territorio: non solo un luogo fisico, ma un impasto di storia, di cultura, di persone. La Puglia. La Puglia di Salvemini, la sua pagina famosa sul ruolo dei contadini meridionali e dei braccianti pugliesi. Così scriveva nel 1910: «Datemi un punto di appoggio e vi solleverò il mondo. Ebbene c’è nell’Italia meridionale un punto d’appoggio su cui si possa far leva per sollevare il mondo sociale? O, in altre parole, c’è nell’Italia meridionale un “partito riformista”? Ecco il problema che a noi sembra fondamentale per l’avvenire del Mezzogiorno d’Italia: tutte le altre questioni sono, di fronte a questa, secondarie». È questa citazione di Salvemini che misi a conclusione di una relazione sul lavoro di partito che Giorgio Amendola mi aveva chiesto. E aggiungevo: «Dietro questa pagina di Salvemini sta tutta l’esperienza della Lega dei braccianti di Puglia, la terra più avanzata nell’associazio39

nismo elementare e solidaristico delle grandi masse povere. Perciò io credo che qui in Puglia il meridionalismo può rimettere i piedi per terra». E così concludevo: «Non credo, compagno Amendola, che queste considerazioni siano fuori luogo in una relazione che cerca di esaminare i problemi organizzativi del Partito in questa regione. Il compito che ci sta di fronte è anche quello di scavare nella storia e nei caratteri propri del movimento per cercare di individuare un filone di pensiero e di azione (e quindi di organizzazione) che sia organico e che ci possa consentire di pervenire ad una visione dei problemi meno economicistica, non più staccata dalle questioni dello Stato e del potere». Il miracolo economico non era ancora arrivato, e i paesoni agricoli – tolte le cattedrali stupende e le piazze enormi – erano ancora dormitori dei braccianti. Andria: 80.000 abitanti, 10.000 iscritti alla Lega. Era coi comizi che si faceva allora la comunicazione politica. Ma ciò che mi sembra importante e degno di riflessione è che i giovani intellettuali di Bari si mischiarono con un gruppo di straordinari popolani dai nomi sconosciuti. Tanti piccoli Di Vittorio. I quali erano rozzi ma ricchi di una sapienza antica che si esprimeva in una naturale intelligenza politica. Cercavano chi potesse aiutarli nell’impresa necessaria di dare idee nuove a un partito troppo bracciantile e in ritardo rispetto alla modernizzazione della società pugliese che già vedeva arrivare le prime fabbriche. Io rappresentavo la mitica Direzione del Partito. Quegli uomini erano una cosa diversa dal “ceto politico”. Erano i capi naturali del loro popolo, i 40

simboli delle speranze della loro gente, ma al tempo stesso ne condividevano la vita poverissima: la vita di quel “popolo di formiche” impegnato in una lotta quotidiana contro la miseria, per le “mille lire” e per un piatto di carne di agnello a Natale e a Pasqua. Certo, anche i rapporti tra i partiti contavano, in quella che era la Puglia di Moro. Ma dedicavamo il più del tempo e molta fatica a organizzare il “movimento”: rompere le gabbie salariali, abolire i vecchi patti colonici, creare cooperative, lottare per l’irrigazione del Tavoliere. Al tempo stesso eravamo assillati dal problema culturale. Uscire dall’isolamento, non farci schiacciare dall’economico-corporativo, metterci nella condizione di conquistare la gioventù intellettuale che occupava le università e le case editrici e, al tempo stesso, penetrare dentro la gigantesca acciaieria di Taranto. E questo in forza di una idea. Quell’idea che consisteva nel pensare la rivoluzione italiana su una base non ideologica ma integralmente storico-politica; sulla base, cioè, di una visione autonoma della storia delle classi subalterne e della necessità di farsi carico dei grandi problemi irrisolti dalla unificazione nazionale. Continuare il Risorgimento. E, in effetti, in quei giovani il meridionalismo e il PCI si fondevano. Si riconoscerà che, dopotutto, facevamo anche noi un po’ di “riformismo”. È un dato di fatto che il lungo e faticoso percorso di convergenza fra il Sud e il resto dell’Italia, un progetto che ha alimentato le speranze di tante generazioni nel XX secolo, si è arrestato. Eppure – sottolinea lo storico Miguel Gotor 41

in una sua nota – durante il secondo dopoguerra le varie realtà regionali italiane avevano cominciato a integrarsi dentro un mercato del lavoro tendenzialmente unificato a livello nazionale. Furono gli anni dello sviluppo e delle grandi migrazioni dal Mezzogiorno alle città del Nord, un periodo di forte inclusione nel segno dello sviluppo industriale, con tutti i suoi risvolti economici, sociali, culturali e politici. Questo processo si reggeva su un patto non scritto fra la manodopera a basso costo di origine meridionale e il capitale imprenditoriale settentrionale. E ciò dette vita, fra molte tensioni sociali e conflitti antropologici, a uno sviluppo economico e civile di segno progressivo. La novità di oggi sta in questo: al vecchio sentimento antimeridionale si è aggiunto il graduale venir meno di questa interdipendenza nello sviluppo nazionale. E ciò per ragioni evidenti, a cominciare da una nuova e diversa organizzazione della divisione del lavoro a livello mondiale: la concorrenza della manodopera a basso costo, i flussi migratori, il costituirsi di mercati e scambi ormai su scala globale, rispetto ai quali il mercato del Mezzogiorno ha perso importanza. Così l’Italia si è divisa in due. Il Nord è una delle zone più ricche del pianeta, il Sud vive una storia di progressiva depressione. Si è spezzato – questo è, secondo Gotor, l’autentico elemento di novità – quel filo che teneva legate le due realtà, quell’insieme di equilibri geografici, civili e culturali che le rendeva necessariamente unite. Il Sud è percepito come un peso. La conseguenza è che la questione meridionale non è stata risolta ma tende ad essere abban42

donata, e i nuovi leghismi del Sud d’Italia che si intravedono all’orizzonte sono a loro volta le risposte sbagliate a questa crisi di prospettive e alla rottura dell’interdipendenza produttiva e dello sviluppo. Di qui – conclude Gotor – il rischio dell’esistenza ormai di due Italie, non più solo con un diverso differenziale di sviluppo e nemmeno come il Settentrione che subordina a sé il Meridione, bensì il fatto veramente drammatico che la parte ricca dell’Italia è diventata indifferente ai destini di quella depressa. E questa depressione non è nemmeno più quella del passato. Sta dando vita a fenomeni inediti di corruzione e a una ritirata dello Stato di fronte al potere criminale. È quindi tutto il nostro orizzonte che deve cambiare. Solo ponendoci dal punto di vista europeo possiamo mettere in campo un progetto di sviluppo credibile basato su una idea del Mezzogiorno come la piattaforma del Vecchio Continente verso il Mediterraneo. Ricordiamoci che i Paesi che si affacciano su questo mare sono in grande crescita e un terzo del commercio mondiale transita tra Suez e Gibilterra. Eppure noi rischiamo di contare sempre meno nel “mare nostrum”. È solo un esempio per dire quanto il vecchio riformismo nazionale sia stato scavalcato dai fatti. E io temo che l’avvento di una nuova classe dirigente della sinistra non ci sarà mai se le vecchie narrazioni del Novecento non verranno superate. Non reggono più le visioni e le culture che si erano formate in funzione della “guerra fredda” (il secolo dei totalitarismi, la storia ridotta a scontro tra comunismo e democrazia). Dobbiamo rompere le vecchie gabbie 43

ideologiche anche perché se la storia europea la si guarda con più distacco e con gli occhi di oggi appare evidente che i fenomeni che l’hanno percorsa e tuttora la caratterizzano sono anche altri rispetto allo scontro tra fascismo e comunismo. Sono la rivoluzione scientifica e tecnologica, lo sviluppo incessante della soggettività dei popoli, la fine del colonialismo, la rivoluzione femminile, la nascita del progetto europeo. La verità è che il secondo dopoguerra ha mostrato che la polarità comunismo-fascismo non esauriva il senso della storia europea. È giusta la polemica dei socialisti con i comunisti quando essi rivendicano il fatto che nella temperie della grande crisi del ’29 erano nate le straordinarie esperienze d’un nuovo riformismo, fondato sulla fusione fra classe e nazione, classe e democrazia, e attraverso quelle esperienze alcuni partiti operai e socialdemocratici (in Gran Bretagna, in Svezia, nel Belgio) avevano imparato a maneggiare le crisi economiche elevandosi a forze di governo. Si erano poste le basi di quella cultura che dopo la vittoria delle potenze antifasciste e nel solco del loro programma avrebbe fatto dell’Europa occidentale il teatro dei “compromessi keynesiani” e della civilizzazione democratica del capitalismo (la creazione del nuovo Welfare State). Ma se le cose le vediamo così, è un errore isolare dalla vicenda europea l’esperienza “riformista” originale di tanta parte del comunismo italiano. Forse solo in Svezia si era affermato un partito così grande e al tempo stesso così coeso, con quella forte militanza e con una cultura politica così diffusa. Sono cose che contano, non riducibili alla “stravaganza” italiana. 44

Se i ricordi mi hanno preso la mano è per mettere in luce qualcosa che parla all’oggi, nel senso che dimostra quale Paese sorprendente sia l’Italia. In quegli anni del dopoguerra avvenne una svolta. Attraverso il crollo di vecchie barriere che erano anche più antiche del fascismo passò un inizio di rivoluzione democratica. Fu un breve lasso di tempo (dieci-quindici anni). Ma fu molto importante per capire quale rottura avesse rappresentato l’avvento di forze nuove che lavoravano per una Italia nuova, repubblicana. Io così ricordo quel tempo, come qualcosa che mise in luce tutte le potenzialità e le speranze di un Paese, al quale poi – è vero – non furono risparmiati delusioni e fallimenti. Ma quale combinazione di fattori rese possibile quella singolare stagione democratica, che durò poco ma rappresentò una vera frattura rispetto alla lunga storia del trasformismo italiano? In quei brevi anni un Paese scettico, da secoli spettatore passivo di lotte tra frazioni, quasi indifferente alle dominazioni straniere, un Paese che non aveva una identità forte, in senso nazionale, fece una specie di salto in avanti. Avvenne (e fa impressione ricordarlo oggi) che gli italiani si riconobbero e si unirono. Emersero energie fino allora sopite e si mobilitarono le risorse più profonde. In pochi anni un Paese in macerie si ricostruì, creò una grande industria ed entrò nel gruppo dei Paesi più avanzati. Dal lavoro antico degli artigiani nacquero milioni di piccole industrie moderne. I braccianti acquistarono le terre. Ed è in quel tempo che gli intellettuali italiani tornarono sulla scena del mondo con i romanzi di Moravia e di Calvino, i film di Rossellini, Visconti e Fellini, le pit45

ture di Mafai, Morandi, Guttuso. E fu l’Italia che produsse cose come l’Olivetti, la presenza europea e mondiale della Montecatini, le più sofisticate macchine utensili, il treno Pendolino, l’autostrada del Sole. Poi quello slancio si spense. Ma qualcosa di esso parla ancora a noi. Non ho la pretesa di scrivere la storia della sinistra e non voglio nascondere i suoi errori. Mi sembra giusto, però, dire ai giovani di oggi che essi non partono da zero. È bene che agiscano in modi molto diversi da noi, ma non è sul nulla che poggiano i piedi. Sappiano che la lotta che noi affrontammo nei decenni passati non può essere ridotta a uno scontro tra libertà e totalitarismo. In Italia, almeno, fu una lotta per la democrazia. È bene quindi tenere in mente il monito di Gramsci. «Una generazione che deprime la generazione precedente, che non riesce a vederne le grandezze e il significato necessario, non può che essere meschina e senza fiducia in se stessa anche se assume pose gladiatorie e smania per la grandezza. È il solito rapporto tra il grande uomo e il cameriere. Fare il deserto per emergere e distinguersi. Una generazione vitale e forte che si propone di lavorare e di affermarsi tende invece a sopravalutare la generazione precedente perché è la propria energia che le dà la sicurezza che andrà più oltre». E aggiunge: «Si rimprovera al passato di non aver compiuto il compito del presente: come sarebbe più comodo se i genitori avessero fatto il lavoro dei figli. Nella svalutazione del passato è implicita una giustificazione della nullità del presente: chi sa cosa avremmo fatto noi se i nostri genitori avessero fatto questo e quest’altro; ma essi non l’hanno fatto e quindi noi 46

non abbiamo fatto nulla di più. Una soffitta su un pianterreno è meno soffitta forse di quella sul decimo o trentesimo piano? Una generazione che sa fare solo soffitte si lamenta che i predecessori non abbiano già costruito palazzi di dieci o trenta piani». Sia chiaro. L’ammonimento di Gramsci vale anche per la mia generazione. Noi siamo stati quello che siamo stati perché avevamo alle spalle la grande storia del socialismo italiano. L’Italia moderna sarebbe incomprensibile se i padri del socialismo, prima ancora di organizzarsi in un partito, non avessero fatto quella predicazione intellettuale e morale e quella trasformazione e incivilimento delle plebi che sappiamo. E se qualcosa di simile non avessero fatto anche un certo cattolicesimo sociale e, in certe regioni, il repubblicanesimo. È lì che sta il codice genetico del riformismo italiano, e quindi anche – io penso – del Partito democratico. Sta in quell’epoca tra l’Ottocento e il Novecento, quando nella Valle padana, ma anche in vaste regioni del Centro e del Mezzogiorno, socialisti, cattolici e repubblicani produssero una critica radicale dello Stato sabaudo e dell’Italietta liberale. E non in astratto, ma organizzando le forze sociali emergenti e trasformando le menti. Lo sottolineo perché questo – io penso – dovrebbe essere oggi il compito di una nuova classe dirigente. Può sembrare strano a un certo professionismo politico, ma il realismo di quei movimenti, ciò che fondava la loro forza e concretezza, stava nel fatto che la politica non si vergognava di produrre senso e visione del mondo, un mondo che anche allora viveva un grandioso mutamento per cui si aprivano 47

grandi interrogativi. La politica non aveva paura di parlare del destino dell’umanità intera, ma lo faceva – questo è il punto – organizzando le leghe e cercando la gente nelle stalle e nelle osterie. Il latino dei vescovi era traducibile nel volgare dei parroci. La politica vera, la sostanza della nostra storia, la forza della sinistra è stata questa: la formazione del popolo italiano. Senza la quale noi non saremmo niente.

5.

Fame di Italia vera

Nei non molti decenni che separano Porta Pia dal “miracolo”, cioè da quegli anni della metà del Novecento in cui diventammo una delle grandi potenze industriali del mondo, questo Paese ha vissuto vicende che non hanno l’eguale. Essendo passato attraverso dieci anni di brigantaggio, il disconoscimento del nuovo Stato da parte della Chiesa cattolica, tre crisi di regime, due guerre mondiali e dopo aver compiuto trasformazioni impressionanti della sua struttura e del modo di essere dei suoi cittadini. È il solo Paese d’Europa dove la vita di intere regioni è condizionata da oscuri poteri criminali come la mafia e la camorra, ma al tempo stesso è quello che possiede il più grande patrimonio artistico e culturale del mondo. Un Paese che per metà (la Valle padana, ma non solo) rappresenta forse, tenendo conto anche del suo “buon vivere” e della bellezza dei luoghi, il luogo più ricco del mondo. La regione d’Europa con il più alto tasso di imprese sulla popolazione. Come si guida questo Paese? E perché, nonostante tutti i cambiamenti, la democrazia italiana è restata pur sempre “difficile”? A questa domanda sono state date molte riposte. Ma restano da spiegare troppe cose. Perché – per esempio – il ri49

corso alla violenza segna tutta la nostra storia unitaria in un modo sistematico e continuo: dalla mafia al terrorismo, dal delitto politico (Moro, ma non solo) all’uso politico della malavita, alle associazioni segrete come la “P2”. Uno storico come Francesco Biscione si chiede se questo non ponga un interrogativo molto rilevante. Come mai le istituzioni non sono mai riuscite a risolvere un conflitto tanto latente quanto minaccioso? Non è solo insipienza. Se non vogliamo ritenere che la violenza dipenda dal carattere degli italiani bisogna pensare che c’è qualcosa di profondo che riguarda il rapporto tra le classi dirigenti e il Paese. Si tratta di qualcosa la cui esistenza è confermata dal fatto che ancora negli anni recenti nessuno dei tanti “misteri” italiani – attentati e delitti feroci che hanno provocato centinaia di morti – è stato svelato. Come si spiega tutto ciò se non con l’esistenza di un livello più oscuro del potere e con una minaccia, a volte solo sussurrata, di guerra civile, che ha accompagnato, con maggiore o minore intensità, ma ininterrottamente, la nostra vita collettiva? È passato un quarantennio dalla strage di piazza Fontana, quando una bomba esplose nel salone della Banca dell’Agricoltura a Milano. Fu accusato un anarchico e si cercò di occultare la matrice fascista della strage ricorrendo a tutti i mezzi, impedendo perfino il normale svolgimento del processo. Che cosa si voleva nascondere? Emergeva per la prima volta quel disegno di destabilizzazione che si è poi ripetuto altre volte: caos, stato di eccezione, insediamento di un governo autoritario, ecc. L’obiettivo dell’azione sovversiva, in quel caso, era di sbarrare la strada a ogni accor50

do tra la DC, i socialisti e in prospettiva i comunisti. Teniamo conto del fatto che c’erano già le avvisaglie della cosiddetta “strategia dell’attenzione” enunciata da Aldo Moro nel giugno 1969 durante il congresso democristiano. È da quel momento che si aprì un ciclo stragista che insanguinò l’Italia: la bomba sul treno Freccia del Sud il 22 luglio 1970 (6 morti e 50 feriti), la strage di Peteano (31 maggio 1972, 3 carabinieri uccisi), l’attentato alla Questura di Milano (17 maggio 1973, 4 morti e 45 feriti), l’attentato di piazza della Loggia a Brescia (28 maggio 1974, 8 morti e 103 feriti), la strage del treno Italicus (4 agosto 1974, 12 morti e 44 feriti). Mai la giustizia, in questo come in quasi tutti gli altri processi per strage, è arrivata a formulare una sentenza certa di condanna. Beniamino Andreatta, uomo di grande intelligenza che credeva poco alle “terze vie”, mi disse una volta perché i problemi di questo Paese non si potevano affrontare con piccole riforme. Occorrevano svolte realmente incisive. Mi fece l’esempio di quella che mise fine alla crisi di fine Ottocento. Non certo una rivoluzione di tipo socialista ma un nuovo 1901: questa era la sua idea. Del resto, basta rileggere il discorso che fece allora Giolitti dopo lo sciopero generale di Genova, il primo della storia nazionale. Anche in quel tempo il giovane Stato italiano era giunto sull’orlo del disfacimento, e ciò perché la classe dirigente sabauda rispondeva alla nascita della “questione sociale” con gli stati di assedio, gli eccidi dei contadini, le cannonate di Milano. Quello di Giolitti è un discorso semplicissimo. Prende atto che le plebi si sono risvegliate e propone una scelta 51

molto netta: vogliamo governare il popolo a cannonate oppure includerlo nello Stato? Il “giolittismo” prevalse e in pochi anni si ebbe il primo grande sviluppo industriale del “Triangolo” e, insieme, il riconoscimento dei sindacati, le otto ore, il suffragio universale maschile. L’Italia entrò tra le maggiori potenze di allora. Lo ricordo perché è così che nasce una nuova soggettività politica, qualcosa di più di un partito. Nasce se segna l’avvento di una visione nuova capace di guidare il Paese in un passaggio storico. Se, cioè, si presenta come una necessità nazionale, come la risposta a ciò che non è solo una crisi economica, ma un nuovo dover essere dello Stato e del sistema politico. A me sembra che questa risposta in certi passaggi ci sia stata. Ci fu, per esempio, dopo l’8 settembre, ma fu troppo debole dopo il crollo della Prima Repubblica. È il problema che si ripresenta ancora oggi. L’8 settembre del 1943 lo Stato sabaudo si disintegrò. Il suo territorio fu smembrato e occupato da eserciti stranieri: al regno del Sud si contrappose la Repubblica di Salò. L’esercito, il cuore dell’apparato su cui si regge lo Stato, si era dissolto in un tragico intreccio di ignominia, atti di disperato eroismo, insipienza. Fu un’esperienza unica, sconosciuta agli Stati moderni. Fu l’epilogo di una disastrosa sconfitta militare, ma anche il fallimento di un’intera classe dirigente. Eppure – nota Giovanni De Luna – lo sfacelo degli apparati del regime selezionò i poteri reali. Tra questi, quel potere che affondava le sue radici direttamente nelle coscienze degli uomini e in un’organizzazione allenata da secoli ad affrontare le vicissitudini della Storia: la Chiesa 52

cattolica. Fu essa, allora, l’unica istituzione a non conoscere soluzioni di continuità. Riuscì a cancellare le sue vecchie complicità col fascismo e in parte con Hitler (Pio XII) impegnando le sue strutture in una vasta azione a carattere pastorale e sociale. Fu uno sforzo enorme, anche rischioso. Senza il quale non si spiega la grande sorpresa del dopoguerra: la forza e la sapienza politica con cui la DC, il partito dei cattolici, si presentò sulla scena dopo la Liberazione. Ma anche il potere economico acquistò forza e autonomia, trattando da pari a pari con tedeschi e Alleati, scavalcando con disinvoltura i governi “fantoccio”, facendo coincidere l’interesse nazionale con i propri interessi. Si creò quel “quarto partito” della cui esistenza De Gasperi, più tardi, prese atto, venendo a patti con esso. In realtà l’8 settembre fu soprattutto l’azzeramento della dimensione statuale della politica e lasciò tutti soli con se stessi. Gli italiani smisero di colpo di essere cittadini, di avere obblighi di obbedienza alle leggi, e furono costretti a rispondere solo ai propri sentimenti civili e morali. In ciò l’8 settembre fu uno di quegli eventi storici che – come le grandi rivoluzioni – non si possono leggere solo con gli occhi della politica, in quanto fanno emergere emozioni di massa, e le viltà più oscure si mischiano con gli slanci più generosi. Fu il momento della “scelta”: «Paion traversìe, sono opportunità», il motto vichiano che capovolge lo sgomento in voglia di azione, l’umiliazione in desiderio di riscatto. Fu questa l’opera gloriosa dei nuovi capi politici. Tra le macerie dell’Italia fascista nasceva un nuovo senso di appartenenza nazionale. 53

Parlavo una volta con Cesare Garboli di queste cose e dei nostri sentimenti: quelli dei giovani italiani di allora. Che cosa ci aveva segnato così profondamente? La risposta di Cesare fu fulminante: la felicità. L’immensa felicità non solo di sentirsi giovani (a tutti è capitato), ma anche di aver ritrovato quel Paese che la retorica fascista aveva reso sconosciuto. L’umile Italia, la patria di tutti. Un Paese distrutto, tradito, affamato, attraversato da eserciti stranieri, ma finalmente libero tornava nelle mani del suo popolo vero. E quella straordinaria felicità consisteva esattamente in ciò: nel sentirsi liberi, nel fatto che si rientrava nell’Europa civile e che, quindi, l’orizzonte delle nostre menti e delle nostre speranze si allargava. Tutto diventava possibile, si erano riaperte – sia pure coperte di macerie – le strade dell’avvenire. E noi volevamo percorrerle. Ma a questo ho già accennato. Al fatto che partecipammo a quel raro momento della vita di un popolo in cui la politica si fa storia e anche l’atto politico più umile tocca la sfera dei valori e dei significati. E in cui perfino in un Paese rissoso e diviso da secoli come l’Italia si crea il senso di una impresa collettiva, di una sorte comune. Sono passati più di sessant’anni da allora. È finito il Novecento, il mondo sta subendo la più grande mutazione e il più grande allargamento dei suoi orizzonti, paragonabile soltanto agli effetti che ebbero per la civiltà europea le scoperte geografiche. Che cosa resta di quella riconquista della patria? Si potrebbe rispondere che resta la cosa più semplice e che, dopotutto, è la più solida: la trasformazione di un Paese di contadini e di analfabeti in una grande 54

potenza industriale. Si è trattato davvero di un miracolo. In pochi anni l’Italia povera – quella che ci guarda ancora dagli schermi del cinema neorealista – è scomparsa. Al suo posto sono cresciuti, insieme a un vasto ceto medio, ricchezze enormi e povertà estreme. Abbiamo raggiunto le regioni più opulente del mondo. Eppure c’è qualcosa che non torna in questa storia. Gli italiani non sembrano consapevoli del perché e ad opera di quali fattori tutto ciò sia avvenuto. Il campo che si potrebbe chiamare della “identità” o del senso comune è sempre più occupato da una nuova destra. Di essa fa parte un partito il quale non nasconde che il suo scopo è porre fine allo Stato unitario e il suo capo, il Bossi, prima di diventare ministro si vantava di pulirsi il c... col tricolore. Quanto a Berlusconi, io non so dare torto a chi osserva che costui rappresenta la rottura, per la prima volta così netta (a differenza anche del fascismo), col patrimonio dei valori risorgimentali, quelli con cui molte generazioni avevano pensato l’Italia unita. Pesa la vecchia incapacità della borghesia italiana di pensare se stessa come l’interprete dell’interesse generale. E ciò si salda con l’antica ostilità della Chiesa verso lo Stato. Il tutto, poi, si combina con l’anarchismo e il “nuovismo” di un ceto intellettuale il quale, così come all’inizio del Novecento invocava “giovinezza” e copriva di disprezzo il “triste” riformismo dei Giolitti, dei Turati, e dei “vuoti riti parlamentari”, oggi si dedica alla demolizione dei fondamenti dell’Italia repubblicana. La Resistenza? Quattro gatti macchiati di sangue in mezzo a una popolazione indifferente se non ostile. Il regime par55

lamentare? Consociativismo e partitocrazia. L’antifascismo? Una rivoluzione tradita. Eppure tutto ciò non cancella quello che ho visto con i miei occhi. So di che cosa è capace il popolo italiano. Non dimenticherò mai quei giorni. Lo speaker del giornale radio che annuncia le dimissioni da capo del governo del “cavalier Benito Mussolini”. Avevo 18 anni ed ero tornato in bicicletta dai Castelli romani sconvolti da un bombardamento a tappeto delle “fortezze volanti” americane il cui scopo era distruggere il quartier generale di Kesselring a Frascati. La strada per Roma era coperta di macerie e la percorsi a fatica evitando i posti di blocco. Cercai il mio amico e compagno di scuola Luigi Pintor. Giaime, il fratello, aveva indossato la divisa da ufficiale e ci chiese di accompagnarlo da Leopoldo Piccardi al Ministero dell’Industria in via Veneto. Piccardi era il solo membro del governo rimasto a Roma e il palazzo era completamente deserto. Nelle vie intorno pesava un silenzio di morte. Il colloquio fu breve e concitato. Giaime chiedeva a nome del CLN di aprire i depositi militari e distribuire le armi. Uscimmo diretti non so dove. L’immagine di quel giorno (o il giorno dopo?) che mi resta nella mente è quella di piazza dei Cinquecento, il grande spiazzo davanti alla stazione Termini. I tedeschi erano asserragliati nell’istituto Massimo e sparavano con le mitragliatrici contro un gruppo di soldati italiani della divisione Piave, i quali rispondevano a fucilate. L’atmosfera era irreale. La gente sotto gli alberi guardava. I tram arrivavano regolarmente fino all’angolo. Un tranviere scese insieme ai passeggeri e si unì ai soldati. Si mise dietro il cannoncino di 56

un piccolo carro armato che non si poteva più muovere e cominciò a sparare. Ero comunista? Lo sono diventato dopo. E tuttavia, se si vuole capire qualcosa della storia d’Italia e del perché il ruolo del PCI è stato così grande, tanti discorsi sul mito sovietico e sullo stalinismo servono ma fino a un certo punto. Non spiegano perché una generazione che dell’URSS non sapeva nulla (me compreso) si è gettata nella lotta. Non era Stalin ma la Patria che ci chiamava. Può sembrare retorico, ma è la pura verità. Per me, almeno, fu così, e non credo che fossi solo. Bisogna aver vissuto quel trauma e quella vergogna: una intera classe dirigente in fuga, la scomparsa – di colpo – dello Stato anche nel suo significato minimo, materiale, quotidiano. E quindi il dissolversi dell’ossatura del Paese con tutto ciò che ne conseguiva: il venir meno della sua identità e, in più, un interrogativo angoscioso sul suo destino come nazione. Pensiamo a quella che è stata la sorte della Germania divisa e ai costi tremendi della guerra civile in Grecia. Fu a questo punto che scattò qualcosa nell’animo di tanti soldati e ufficiali sbandati, di studenti, di operai come quel tranviere. Bisognava riscattare l’onore dell’Italia, riconquistare la libertà col proprio sangue senza aspettare lo straniero, impedire che il governo del Paese tornasse nelle mani di chi lo aveva tradito. Io non so se questo sentimento nazionale sarebbe scattato (forse sarebbero emersi altri sentimenti: vendette di classe, rivolte alla greca) senza l’appello all’unità nazionale che ci arrivò da Napoli, dal capo dei comunisti, un certo Ercoli. Dario Puccini, fratello del futuro regista Gianni, ci 57

riunì a casa sua per spiegarci che l’obiettivo di questo Ercoli era la “democrazia progressiva”. Progressista, cercai di correggerlo. No, progressiva, mi rispose irritato, e mi spiegò il significato fondamentale di questa parola che alludeva a un processo in atto: a come in certe condizioni la democrazia poteva trasformarsi in socialismo. “Non ci sono barriere cinesi tra la democrazia portata fino in fondo e il socialismo”. Lo aveva detto nientemeno che Lenin. Certo quelli che presero le armi erano una minoranza, ma intorno a loro avveniva qualcosa di nuovo che ci faceva sentire come pesci nell’acqua. Io per lo meno l’ho vissuta così. Un popolo che sembrava ridotto a una folla cenciosa, alla ricerca del parente e dell’amico, assillata dal problema del cibo e di come sopravvivere rialzava la testa. Perché anche questa è l’Italia. Ma la condizione è che i migliori siano disposti ad impegnarsi fino al sacrificio. Insomma, il senso della celebre ultima lettera di Giaime Pintor al fratello. Giaime morì e noi decidemmo di vendicarlo. Chiedemmo al PCI, attraverso certi canali, di essere arruolati nei GAP, il ristretto gruppo combattente che sotto la guida di Giorgio Amendola organizzava a Roma gli attentati, le sparatorie e i sabotaggi che tutti sanno (per esempio via Rasella). Ma di questo mi è difficile parlare. Furono mesi terribili, di forti emozioni ma anche di paure e di ansie, di sparatorie nelle piazze di Roma, di fame e di rifugi clandestini. Per sfuggire alla banda Koch (una squadraccia di sicari italiani al servizio delle SS) che il tradimento di un compagno mise sulle nostre tracce finii sotto i tetti della chiesa di Sant’Igna58

zio, nella “specola”, cioè l’osservatorio seicentesco dell’astronomo gesuita Angelo Sechi, ormai abbandonata. Un seminarista silenzioso mi portava una volta al giorno da mangiare. Dormivo al buio, per terra, su vecchi tappeti. Di giorno, per distrarmi, camminavo sul cornicione che univa la chiesa di Sant’Ignazio con il Collegio Romano. Quel nascondiglio me lo trovò il prelato che dirigeva l’Almo Collegio Capranica, un amico di mio padre, ed è lì, in quel collegio, che rimasi nascosto ancora per qualche giorno. I seminaristi avevano nomi importanti ed erano destinati alla diplomazia vaticana. Non dimenticherò mai la grande sala dei biliardi, il refettorio con le pareti di legno intarsiato e il prete che in un piccolo pulpito leggeva testi sacri mentre noi mangiavamo silenziosi. E, al tempo stesso, la figura di un giovane prete, elegantissimo, che la sera nel suo studio riceveva il marchese S. e lo dipingeva tutto vestito da paggio michelangiolesco. Lo stesso prete era amico della pittrice “maledetta” Léonor Fini, che aveva lo studio a Palazzo Altieri. Egli insisteva in modi ambigui perché andassimo insieme a trovarla. Mi misi in allarme e rifiutai. Intravidi così quel volto mondano e misterioso della Curia romana che viene fuori dalle pagine di Gide. Riuscii a far perdere le mie tracce al traditore il quale aveva condotto la banda Koch alla cattura di Luigi Pintor, di Franco Calamandrei ed altri. Erano stati rinchiusi nella pensione Jaccarino, dove vennero torturati, e Luigi fu condannato a morte, ma l’esecuzione venne sospesa poche ore prima dal maresciallo Graziani, che aveva letto il suo nome nell’elenco di chi doveva essere fucilato e lo cancellò in ri59

cordo del suo vecchio amico generale Pietro Pintor, zio di Luigi. Io vissi braccato ma deciso a eseguire l’ordine del comando clandestino che mi chiedeva di giustiziare il traditore. Feci lunghi appostamenti ma costui mi sfuggì, sia pure per poco. Ci pensarono poi i partigiani di Milano a fucilarlo. Arrivò il giorno della liberazione. Vidi sulla Flaminia, poco prima di Ponte Milvio, i tedeschi delle pattuglie della retroguardia che continuavano a sparare con le mitragliatrici e che si facevano ammazzare uno per uno per consentire agli altri di ritirarsi. I primi carri armati li incontrai a piazza Venezia. Erano enormi, attorniati da soldati chiassosi che portavano scarponi con la suola di gomma. Paolo Monelli chiedeva a uno di loro: «Where do you come from?», “Da dove venite?”. «From Texas», gli rispose un nero altissimo masticando la gomma. Era il segno che finiva la guerra civile europea e arrivava l’America a governare il mondo. Il giorno dopo si creò in me, di colpo, un grande vuoto. Non sapevo più chi ero. Provai una grande emozione quando in una Roma ormai piena di vita, che mi appariva volgare e chiassosa, popolata di prostitute e di borsari neri, qualcuno del Partito invitò i “gappisti” a riunirsi insieme per guardarsi in faccia. Infatti non ci conoscevamo. Per mesi avevamo combattuto divisi rigidamente in cellule di tre, di cui uno solo aveva il contatto con qualcuno che portava gli ordini del “Centro”. Eravamo una ventina, forse meno. E ci incontrammo in un grande caseggiato popolare in viale Regina Margherita, che adesso non c’è più. Era abitato dalle 60

famiglie dei ferrovieri. Ci abbracciammo, e a un certo punto il padre di uno di noi, un vecchio socialista perseguitato dal fascismo (che era poi il padrone di casa) si mise al pianoforte e con la faccia contratta per la commozione cominciò a suonare una musica solenne, che io non avevo sentito mai. Era l’Internazionale. Mi sembrò bellissima, e all’improvviso dalle finestre degli altri appartamenti che davano sul cortile si affacciò la gente e si mise a cantare. Era passato appena un anno dalla fine del liceo ma mi sembrava un secolo. Fu allora che decisi di lavorare per il Partito, cosa che feci mesi dopo andando all’«Unità». Cominciò la vita politica. Qualcuno oggi sogghignerà se dico che il sentimento che mi dominava era un bisogno lancinante, una vera e propria fame di ritrovare la gente, il popolo italiano così com’era, non più quello delle adunate. Il desiderio di conoscere i luoghi dove lavorava, le fabbriche e la geografia vera delle città e del Paese. Avevo – è giusto dirlo così – fame dell’Italia. Mi misi in viaggio da solo coi mezzi di fortuna di allora, per vedere il Nord, per toccare con mano Milano, la Milano di Vittorini e del CLN; Torino, dove per ore camminai a Mirafiori e dintorni; il porto di Genova; Sesto Calende, dove era stato fucilato un partigiano che conoscevo. Fame dell’Italia vera. Non credo che si trattasse di un fatto sentimentale. Quel sentimento veniva dal profondo ed era anche l’espressione di una nuova temperie culturale – o per lo meno del suo bisogno – che stava premendo sotto la pelle del fascismo e che già si esprimeva nei primi film neorealisti. 61

Non per caso l’uscita di un film come Ossessione, al quale avevano lavorato, diretti da Luchino Visconti, Mario Alicata, Pietro Ingrao e Giuseppe De Santis, fu per noi così emozionante. Il misterioso personaggio dello “straniero” alludeva chiaramente a un “compagno”. Di questo bisogno di una nuova cultura e di un nuovo ethos molto si discuteva. E io dovrei avere da qualche parte un quaderno di appunti sulla necessità che al pompierismo fascista si rispondesse non con la cultura dell’intimismo ma con la conquista di quello che Luigi ed io chiamavamo uno “storicistico senso del reale”. Forse avevamo scoperto il “realismo” senza saperlo. E ci innamorammo di Ginger Rogers: una ragazza americana, semplice e moderna. Forse una dattilografa. Così si erano aperti i nostri occhi e si erano formate le nostre menti. A contatto con quello straordinario gruppo di giovani intellettuali (Giaime, Cesare Pavese, Ugo Stille, Felice Balbo, Lombardo-Radice) che stavano costruendo la casa editrice Einaudi. Era anche quell’aria di Europa che respiravamo che ci spingeva a prendere le misure dell’Italia e a intravedere il compito che si poneva alla nostra generazione. Forse sta qui la ragione per cui, quando alla fine scelsi la militanza politica, non mi sentii in contraddizione con il giovane le cui letture favorite erano state fino allora Rilke e Montale. Alla base della politica che mi affascinava c’era la stessa cosa: la riscoperta dell’Italia, la scelta di Togliatti di riconciliare la classe e la nazione, il suo incitamento a costruire un partito di popolo, capace – come egli diceva – di portare a compimento il Risorgimento e di 62

“aderire ad ogni piega del Paese”. Certo fummo anche schierati con Stalin e non per gioco. E in ciò sta – lo ripeto – il lato tragico della storia del PCI. Che cosa resta di tutto questo? Solo i ricordi e le nostalgie dei sopravvissuti? La domanda io me la sono posta. E qualche volta, nei momenti di pessimismo e di scoraggiamento, mi sono chiesto se, dopotutto, la nostra storia è poco altro che una storia di vinti. E guardando all’Italia di oggi la risposta non è poi così facile. I guasti sono profondi, ed è riemerso il fondo peggiore del Paese. Ma la storia non è finita e la sinistra non è “straniera in patria” Ci sono pagine molto belle di Giacomo Becattini su come è avvenuto il “miracolo economico”. A spiegarlo non bastano i fatti dell’economia. Certo, il piano Marshall, la fabbrica fordista, il basso costo del lavoro, ecc. sono stati importantissimi. Ma Becattini ci spiega quanto abbiano pesato le lotte sociali attraverso le quali i mezzadri sono diventati artigiani e poi imprenditori; e quanto il fatto che i nuovi imprenditori abbiano potuto far leva sul sostegno di quella grande rete (amministrazioni popolari, tessuto politicoculturale, partiti, sindacati, associazioni) che “teneva insieme” la gente e insegnava quella che i sociologi chiamano la “logica cooperativa” (non “se vinco io perdi tu”, ma “se io ho successo è un vantaggio anche per te”). E quindi quanto abbia pesato la creazione di un “capitale sociale”: servizi, beni pubblici, una certa sicurezza, il senso di appartenere a una comunità civile e di essere dentro un vasto movimento non solo politico ma ideale, che lavora per il progresso del Paese e quindi indica un futuro. E che perciò dà 63

sicurezza e consente a tanta gente di intraprendere e di rischiare. Il cosiddetto “impegno” degli intellettuali è stato talmente beffeggiato che non oso parlarne. Mi limito a ricordare quel tempo in cui – parafrasando Scalfari – si potrebbe dire che ci incontravamo non a via Veneto ma in trattoria. Lì, nelle vecchie trattorie del centro storico di Roma che allora era ancora abitato da un popolo di artigiani e di piccola gente, vivemmo il tempo di un grande, vitale, creativo miscuglio. La sera tardi i giornalisti che uscivano dalle tipografie sedevano gomito a gomito con la gente del cinema – dal grande regista alla attricetta in cerca di notorietà –, il piccolo intellettuale alla Satta Flores venuto dalla provincia in cerca di gloria mangiava insieme con i grandi, i Guttuso, i Moravia, i Carlo Levi; il compagno di base discuteva con i massimi dirigenti della sinistra. La trattoria come immagine, naturalmente, come simbolo di quel miscuglio di artisti e di popolo, di cultura e di politica. Senza quel pullulare di luoghi, di riviste, di gallerie d’arte e di aperture alla società, io non so se i film, i romanzi, la pittura degli artisti italiani avrebbero occupato (come è accaduto in quel tempo e poi – purtroppo – non più) la scena del mondo.

6.

Il «Corriere della Sera» del proletariato

Col dopoguerra si spalancò davanti a noi una nuova storia: quella della Prima Repubblica. Di quei primissimi anni ho confusi ricordi. Per campare feci diversi lavoretti, da commesso di una grande libreria a impiegato avventizio di un ministero. Poi entrai come cronista di “nera” all’«Unità». Poche stanze in via del Tritone, quattro fogli di giornale. In redazione eravamo 7-8. Il capocronista era Marco Cesarini Sforza, un giovane intellettuale romano elegante e amato dalle donne. Lo invidiavo molto. Direttore era un ex minatore sardo di Guspini, fuggito in Francia, condannato a morte, poi rifugiato a Tunisi dove c’era una forte cellula comunista formata dai figli di vecchie famiglie ebraiche italiane. Si chiamava Velio Spano. Quando nel ’44 il colonnello Claus von Stauffenberg mise una bomba sotto il tavolo della “tana del lupo” dove sedeva Hitler con il suo stato maggiore, «l’Unità» di Spano uscì con questo titolo: Fallito attentato a Hitler, Bentivegna non l’avrebbe mancato (Rosario Bentivegna era l’uomo che aveva posto la bomba a via Rasella). Come si vede non eravamo la «Pravda». L’atmosfera del Paese era molto pesante. La disoccupazione e la fame si toccavano con mano. A Roma si arrivò 65

al punto che una folla cenciosa e inferocita tentò di assalire il Quirinale. Ci fu un morto. Ma ovunque, specie nel Mezzogiorno, ci furono scontri sanguinosi ed episodi di vera e propria rivolta. Ad Andria i braccianti invasero un palazzo padronale e gettarono i cadaveri delle proprietarie, le sorelle Porro, nella piazza. A Caulonia, in Calabria, fu proclamata una repubblica comunista. In Emilia furono molte le vendette dei partigiani. Tutto il dopoguerra io l’ho vissuto come uno sforzo accanito per dare alla crisi dello Stato italiano uscito a pezzi dal fascismo una nuova base. Quale, nella mia testa, non era poi così chiaro. Certamente non era “fare come in Russia”, ma non era molto chiaro attraverso quali vie potevamo riuscire ad avanzare. Il clima politico e sociale era teso e le polemiche politiche e ideologiche erano aspre e pesanti. Lo scontro fu radicale anche con le culture liberaldemocratiche. Oggi, mentre rivedo i torti dei nostri avversari, riscopro anche le loro ragioni. Una forza che aveva quel forte legame con la rivoluzione d’Ottobre e con la vicenda del totalitarismo sovietico non poteva che suscitare profonde diffidenze. Non avevano tutti i torti. In che cosa consisteva la via italiana al socialismo? Che cosa garantiva la democrazia? Noi non eravamo così chiari. Voglio però sottolineare una cosa che mi sembra cruciale e sulla quale non si è ragionato abbastanza. Il segreto e il capolavoro di Togliatti non fu solo la famosa svolta di Salerno. Dopotutto, la strategia dell’unità tra le forze antifasciste fu elaborata d’intesa con Mosca. Egli l’applicò in modo creativo e sbloccando una situazio66

ne che poteva finire come in Grecia. Ma quel compromesso con Badoglio per la formazione di un governo di unità nazionale fu un passaggio cruciale della vicenda italiana. La pregiudiziale antifascista (prima di tutto cacciare il re) costringeva i partiti a una sorta di Aventino. Il pericolo era che nel vuoto di un governo rappresentativo, e in presenza di un Paese affamato, distrutto e per di più diviso letteralmente in due, poteva diventare molto forte l’appello all’ordine di una monarchia che cambiava volto e mandava il vecchio re in esilio, e per di più godeva della simpatia di Churchill e del Vaticano. Sarebbe scoppiata una guerra civile. L’iniziativa di Togliatti fu davvero una svolta. Si tradusse in un grande appello alle armi in nome del tricolore e sotto la responsabilità di un governo italiano. Perciò i ragazzi come me, che questo “Ercoli” non lo avevano mai sentito nominare, accolsero quell’appello. Che però non si sarebbe trasformato in una leva politica di massa senza l’idea geniale di un “partito nuovo”. L’idea di un radicale abbandono del modello di partito cosiddetto leninista, cioè di una compagine concepita per la conquista del potere e costituita perciò da “uomini di ferro” e rivoluzionari di professione. L’invenzione di Togliatti fu un singolare partito di massa, essenzialmente di integrazione sociale, un po’ sul modello della socialdemocrazia tedesca ma senza quel tratto operaista. Fummo diversi anche per questo dalla tradizione socialista. Negli anni ’80 ebbi una curiosa polemica con Claudio Martelli sulle pagine di «Micromega», diretta allora da Ruffolo. Cercavo di vantare (con qualche esagerazione) il nostro “riformismo”, ma Martelli mi lasciò 67

interdetto spiegandomi che il PCI era vecchio e inutile non perché troppo comunista, ma perché troppo simile alla socialdemocrazia tedesca. Noi – secondo Martelli – non avevamo capito che quella storia era finita e che cominciava l’era del “socialismo mediterraneo”, cioè di un nuovo tipo di partito il cui referente sociale non erano le vecchie classi, ma una forza che si organizzava in forme nuove (plebiscitarie?) intorno a un Capo carismatico. È una tesi che poi ha fatto strada. Naturalmente, a proposito del PCI sappiamo benissimo quali poi fossero nei fatti il rapporto con l’URSS e la forza del mito del socialismo, e quindi il carisma del gruppo dirigente e il meccanismo del centralismo. Ma è sbagliato non vedere il fattore non solo di novità, ma di vera e propria “eresia” che c’era in questa idea di partito. Di per sé essa rappresentava la rinuncia all’idea di una rivoluzione come rovesciamento dell’ordine capitalistico. Con quel tipo di partito la sola prospettiva possibile diventava un’altra, quella dell’organizzazione di una democrazia popolare. L’esplosione degli organismi di massa e la valanga delle iscrizioni (due milioni in pochi mesi) non si spiegano con la “doppiezza” o la sapienza organizzativa. È una tesi puerile. Erano la conseguenza dell’idea nuova che avevamo della politica: aderire a tutte le pieghe della società, conoscere l’Italia, rappresentare i bisogni del suo popolo, organizzarlo, renderlo attivo, protagonista. In più, l’enorme attenzione agli intellettuali e l’impegno culturale. Io ho visto come Togliatti correggeva gli articoli anche dei massimi dirigenti e, se troppo sciatti, li rimandava indietro. 68

Quell’idea di partito fu anche molto contrastata. Potrei raccontare la violenza e la stupidità degli attacchi di una parte del vecchio gruppo dirigente contro «l’Unità» per il tipo di giornale che facevamo. Togliatti, imperturbabile, ci ripeteva di andare avanti: il nostro modello non era la «Pravda», ma nemmeno il vecchio «Avanti!» delle vignette anticapitalistiche di Giuseppe Scalarini. Era, diceva, il «Corriere della Sera», perché solo attraverso un grande giornale gli operai possono leggere e capire il mondo e farsi così classe dirigente. Insomma, «l’Unità» doveva essere ciò che era stato il «Corriere» per la borghesia milanese. In realtà, «l’Unità» fu una cosa molto diversa e rappresentò l’invenzione di un modello di giornale quale non era mai esistito nell’esperienza del movimento operaio occidentale. C’erano stati forti giornali di battaglia, altri che ospitavano i grandi dibattiti ideologici sul socialismo, insieme a quelli che erano poco più che tribune politiche del leader e del gruppo dirigente. «l’Unità» fu un’altra cosa. Fu un prodotto originale molto pensato soprattutto da un gruppo di persone, i cui nomi (Amerigo Terenzi, per tutti) sono oggi sconosciuti, ma che erano figure straordinarie. L’immagine dei tristi funzionari di partito è ridicola. Terenzi parlava come un popolano romano, era rossiccio di capelli, molto intelligente, pubblicava Stendhal in edizioni di lusso inventate da lui, apriva gallerie d’arte a Roma, creava giornali come «Paese sera», il «Nuovo Corriere» di Bilenchi a Firenze, La «Voce» di Napoli, «Milano sera». E ognuno di essi con una impronta originale e con capacità di insediamento. Era un grande editore. 69

Come «l’Unità» arrivò in poco tempo ad essere il secondo o il terzo giornale italiano (dopo il «Corriere» e la «Stampa») è una storia lunga da raccontare. Ci chiamavano la “marina” del Partito. Credo anche perché volevamo tenacemente essere (contro l’operaismo di mezzo Partito) un giornale, un prodotto giornalistico, non solo un organo di Partito. Così come «una rosa è una rosa è una rosa», «l’Unità» (dicevamo tra noi) è un giornale un giornale un giornale. Ci voleva il coraggio di Togliatti per consegnare a un gruppo di giovanissimi, che si rivelarono tra i migliori giornalisti, e che in seguito occuparono posti chiave alla RAI e nella grande stampa d’informazione, il compito di esprimersi fino in fondo come tali. Quando diventai direttore ricevevo quasi ogni giorno un biglietto scritto in inchiostro verde dove si criticava non solo l’editoriale ma anche, per esempio, la cronaca del Giro d’Italia o un pezzo di Terza pagina. Il biglietto era firmato “un gruppo di affezionati lettori”. Seguivano le firme: Togliatti Palmiro, Pajetta Giancarlo, ecc., ecc. Purtroppo questi biglietti li ho persi. Quei giornalisti si sentivano impegnati in una grande, inedita impresa politico-culturale la quale era parte integrante di quella che consideravamo la via italiana al socialismo. Sull’«Unità» ha scritto il meglio dell’intellettualità, e le recensioni dei nostri critici facevano testo e avevano un grande peso. Io entrai nella redazione del giornale a 19 anni, subito dopo la liberazione di Roma, quando eravamo ancora in quattro stanze a via del Tritone. Percorsi tutta la scala: dalla cronaca nera – compreso il giro la notte dei commissa70

riati e dei pronto soccorso – alla giudiziaria, a capocronista, al resoconto parlamentare, a notista politico, a responsabile degli interni (nella stessa stanza con Gabriele De Rosa, lo storico del movimento cattolico che allora dirigeva gli esteri), fino a redattore capo. Diventai direttore agli inizi del ’56. Avevamo con la periferia del Partito un legame intenso. Tra i miei compiti di direttore c’era quello di girare l’Italia non solo per comizi, ma anche per parlare con i corrispondenti locali. Era una grande rete costituita in molte zone (Empoli, il Valdarno, Spezia) da giovani operai. I migliori venivano chiamati a Roma, a formarsi come quadri. Insomma non eravamo il «Corriere della Sera». Ma io continuavo a essere quello che ero. Da notista politico, ogni mattina, dopo la riunione di redazione andavo a Montecitorio, dove Vittorio Gorresio mi aspettava per prendere insieme un aperitivo. E confesso che qualche sera andavo anch’io, come Scalfari, in via Veneto a chiacchierare con lui e gli amici del «Mondo». Del resto, non ho mai rinunciato ai piaceri della vita.

7.

Un Paese diviso. DC e PCI

L’avvento della democrazia e del regime parlamentare non fu una marcia trionfale. Non so fino a che punto ancora oggi il sentire comune sia consapevole di quale problema cadeva sulle spalle dei partiti che venivano dalla clandestinità e si affacciavano sulla scena dopo un lungo esilio. Essi ereditavano un Paese diviso che aveva riscattato il suo onore con la guerra partigiana, ma i segni dell’odio e della violenza erano rimasti. La guerra si era conclusa vittoriosamente rispetto al fascismo, ma non consegnava ai vincitori una pagina bianca sulla quale scrivere ciò che volevano. Il fascismo non era stato (come pensava Benedetto Croce) una parentesi, ma un regime reazionario di massa, una esperienza che aveva avuto anche vasti consensi popolari, ed era stato sostenuto dalla monarchia e dalla Chiesa. Non bastava la fucilazione di Mussolini. I conti dovevano essere fatti con le profonde fratture del tessuto della nazione che il fascismo aveva aggravato e che risalivano anche al modo in cui era avvenuta l’unificazione del Paese. Vittorio Foa, che nelle prigioni fasciste aveva passato la giovinezza, ci ricordava che il fascismo è stato fenomeno complesso, con forti elementi di continuità con la storia 73

precedente. Non fu solo rottura, diceva, ma un pezzo della storia italiana. Ripensando al modo in cui avvenne il passaggio tra la monarchia e la repubblica resto colpito dalla saggezza politica di De Gasperi, di Togliatti e di pochi altri, tra cui Nenni, il cui ruolo è stato sempre sottovalutato. Egli fu un leader forte e popolare, un socialista autentico, figlio di una grande tradizione. Che sarebbe successo se i cosiddetti “social-comunisti” in quegli anni non avessero fatto blocco? Non si può dimenticare quanto fosse precario in quegli anni l’ordine democratico e debole la sovranità nazionale. Se Nenni avesse fatto come Saragat, se la sinistra si fosse divisa, non credo che il moderatismo di De Gasperi avrebbe retto di fronte alle pressioni della destra, del Vaticano e di potenti settori internazionali. Dobbiamo anche a questi uomini se ci siamo salvati dal rischio di una guerriglia alla greca, o da una soluzione alla Salazar, che peraltro era stata suggerita da Pio XII agli Alleati, sia pure in modo riservato, come risulta dai documenti diplomatici. Tuttavia anche la soluzione democratica ebbe un prezzo. Il mio giudizio è sommario. Lo esprimo in modo semplicistico ma mi sembra importante sfatare miti e rendere chiaro il senso di quel passaggio, anche per capire molte cose di oggi. Il prezzo fu quello di un grande compromesso alla cui base c’era, in realtà, la coesistenza di due Costituzioni: l’una, quella scritta ma anche reale (non scherziamo), che era la Costituzione antifascista; l’altra, non scritta ma altrettanto reale, consistente nella “convenzione” secondo cui i comunisti non potevano governare. Lo imponeva la logica inesorabile della 74

guerra fredda e di un mondo grande e terribile diviso in due. Togliatti conosceva quella logica e la rispettava. Risibili sono le polemiche dell’estrema sinistra sulla “Resistenza tradita”. Ma le conseguenze sono state quelle che sappiamo. Tra le altre cose, è questo fatto che ha impedito che un certo “santuario” dei poteri, ciò che da sempre ha costituito la trama meno visibile dello Stato italiano, potesse essere scardinato. E infatti non lo è stato. E questa trama (pensiamo a certa alta burocrazia, alla P2, a certi salotti massonici o a certi servizi interni e internazionali protetti sempre dal segreto di Stato) è emersa anche di recente. Non confondiamo quindi il profondo radicamento del PCI nelle masse con la effettiva guida della nazione. Noi, per le ragioni che sappiamo, diventammo una grande forza che fu anche lo strumento della sedimentazione nell’animo popolare di una nuova cittadinanza democratica. Contavamo molto ma, al fondo, non eravamo noi quelli che dirigevano realmente l’Italia. Questo ruolo fu assunto fin dall’inizio dalla DC. Penso che questa verità debba essere detta se vogliamo capire le cose, quelle di ieri e quelle di oggi. Ciò che resta vero è che noi abbiamo condizionato fortemente la DC, quasi costringendola ad essere quella che è stata. Con ciò non nego affatto che la DC fu, anche per sua scelta, una grande forza popolare, con punte anche progressiste, che rifiutava la tentazione salazariana e isolava le componenti reazionarie separandole da quelle moderate. Il contrario di ciò che ha fatto Berlusconi. Conosco il grande apporto dei cattolici democratici. Ma ciò non contraddice un’altra cosa. Se la DC poté resistere a 75

certe spinte fortissime (anche americane) per mettere fuori legge il PCI, se arrivò a respingere la proposta papale di governare Roma sulla base di un blocco con i fascisti, ciò accadde anche (lo dico con le parole del Togliatti di allora) perché “noi costringiamo De Gasperi a fare la scimmia ai comunisti”. La frase era sprezzante ma il senso era chiaro. È ciò che io sentii dire dal capo del PCI il giorno in cui una fiumana di contadini organizzati dai Comitati civici sfilavano minacciosi sotto le finestre di Botteghe Oscure. Erano i “baschi verdi” di Gedda, il fondo popolare contadino più arretrato e intriso di sanfedismo. Non impressionatevi – diceva Togliatti –, è la nostra forza che costringe anche loro a mobilitare masse politicamente primitive, fino a ieri silenziose. Però per riuscirci non potranno più limitarsi a dire che i comunisti mangiano i bambini: dovranno anche spiegare come la DC vuole migliorare la loro condizione sociale. Alla fine, quindi, queste masse si incontreranno con noi. Era una idea giusta ma che incontrò poi grandi delusioni. Erano tempi durissimi. La Chiesa arrivò a scomunicare non solo i militanti comunisti, ma chiunque li frequentasse o addirittura leggesse «l’Unità». Fu una decisione gravissima, perfino vergognosa, di sapore medievale. Ma la scomunica si ritorse contro la Chiesa stessa. Le donne, le madri, le mogli, la grande massa dei cattolici che stavano con noi non batté ciglio. Uno smacco clamoroso. Più le Madonne venivano portate in processione e fatte lacrimare, più noi aumentavamo i voti. Questo però ci dice che cosa è stata l’Italia. Ancora nel 1962, in certi paesi della Pu76

glia i comunisti non potevano nemmeno parlare: i parroci suonavano le campane e il maresciallo dei carabinieri intimidiva l’oratore. A Tricase, patria dell’on. Codacci Pisanelli, fu con le mie orecchie che sentii dire da costui, il quale parlava addirittura dal balcone del suo palazzo, che i comunisti russi mangiavano i bambini. Anche questa è stata l’Italia, e a fronte di cose come queste si è svolto il cammino della Repubblica. Lo scontro tra la DC e il PCI era durissimo ma attraverso vicende molto complesse si creò un singolare equilibrio. La “scimmia”, e cioè la DC, aveva, nella realtà, il comando, e il ruolo del PCI fu molto importante ma per così dire di “integrazione” delle masse. Al tempo stesso si creò una situazione che consentiva alla DC di dire all’Italia reazionaria che certe riforme era costretta a farle per tagliare l’erba sotto i piedi ai comunisti, mentre, al tempo stesso, diceva ai progressisti che la sua prudenza era necessaria anche per garantire un progresso sia pure senza avventure e sventare minacce sempre incombenti di sovversione. Semplifico, ma fu così che si stabilizzò un baricentro politico sulla base del quale si assestò una repubblica che era parlamentare ma nella quale un solo partito e i suoi alleati minori potevano governare. C’è poi voluto un tempo infinito perché l’alternarsi al governo della destra e della sinistra diventasse possibile.

8.

Il ’68 e la rivoluzione conservatrice

Il lungo governo della DC iniziò nel ’48 e durò una trentina d’anni: un’epoca storica. Fu un periodo di grandi cambiamenti. L’Italia compì il passaggio da Paese agricolo a Paese industriale e milioni di contadini poveri emigrarono al Nord e all’estero. Fu uno spostamento di proporzioni bibliche che cambiò la faccia del Paese. E alla fine degli anni ’60, per la somma di tante cose – dall’aumento del benessere e del livello culturale al moltiplicarsi dei fenomeni di modernizzazione (mobilità sociale, nuovi strumenti di comunicazione), dal bisogno di nuove libertà all’influenza di libri e di scuole –, il vulcano delle energie giovanili esplose. Negli Stati Uniti le premesse del movimento maturarono già alla fine degli anni ’50 nel contesto delle rivolte dei neri contro la segregazione e delle rivendicazioni di una “new left” attiva tra studenti e docenti universitari. Con la guerra in Vietnam, cominciata con la presidenza Kennedy, e di fronte all’impeto dei movimenti di decolonializzazione, si verificò un’accelerazione che condusse all’ondata contestataria di neri, donne, giovani, gay, studenti, lavoratori e cittadini di ogni età e condizione. Assai rapidamente, le rivolte ebbero eco internazionale, portando a matu79

razione agitazioni sociali e insofferenze verso il vecchio potere che covavano da tempo. Il colpo per le classi dirigenti fu profondo, tanto più perché inaspettato. La sorpresa fu grande. Da dove nasceva un movimento che confutava l’idea di democrazia fin lì indiscussa, centrata tutta sul progredire del benessere economico? Era questa la novità. La verità è che l’orizzonte della democrazia si allargava e che la relativa liberazione dal bisogno apriva la strada a nuove esigenze di emancipazione, intellettuale e spirituale. Nel maggio del 1968 si verificarono violenti scontri tra studenti e forze dell’ordine a Parigi. In Italia, i primi scontri erano avvenuti già nel novembre 1967 a Torino e alla Cattolica di Milano. Il movimento dilagò e con i suoi slogan e le sue parole d’ordine sembrò l’annuncio di una nuova era. E tale fu, almeno in parte, nel senso di un cambiamento profondo dei costumi e della conquista di una più alta coscienza dei diritti individuali. Per l’Italia arretrata e codina non fu un piccolo cambiamento. Tuttavia, l’ondata contestataria non ebbe un respiro lungo e non riuscì a trasformarsi nel motore di una spinta democratica più profonda e più duratura. Ci fu – è vero – il riconoscimento di nuovi diritti. E insieme ad essi cambiò qualcosa di molto profondo anche nel modo di fare politica, nel rapporto tra la gente e i partiti, nel ruolo dell’opinione pubblica. A Botteghe Oscure si discusse molto, si fecero molte analisi, si confrontarono posizioni molto diverse, ma la mia percezione è che la sinistra storica non fu in grado di misurarsi in modo convincente con cambiamenti di questa natura, i quali, alla fin fine, mettevano in crisi anche i mo80

di di essere dei partiti e i vecchi collanti ideologici. Resta il fatto che tre anni dopo, nel 1971, assistemmo a una svolta di segno opposto. Nixon pose fine alla convertibilità del dollaro in oro, aprendo l’era della “deregulation” e del dominio dell’oligarchia finanziaria. I progetti delle giovani generazioni vennero contraddetti nel profondo. Si andò verso rapporti sociali molto diversi, fondati sulla dominanza assoluta del denaro e delle logiche del mercato. Anche questa è una libertà, però per pochi. Nel PCI si era aperto un dibattito che portò alla scissione del «Manifesto». Il gruppo dirigente poteva evitarla ma non lo fece, un po’ per conservatorismo e un po’ per il timore della reazione dei filosovietici nella vita interna del partito. Fu un errore. I dissidenti fecero un giornale molto vivo e dettero voce a critiche anche giuste e a visioni più libere delle cose. Ma giocarono ambiguamente tra la critica all’URSS e l’esaltazione di Mao, ponendo al centro del loro pensiero una poco credibile “maturità del comunismo”. Al tempo stesso in quegli anni si sviluppò tra le masse lavoratrici italiane un fenomeno anch’esso straordinario che ebbe i caratteri di una sorta di rivoluzione sociale. Molte cose innescarono quel movimento, ma decisiva fra queste fu la concentrazione di milioni di operai nelle grandi fabbriche del Nord Italia (allora tra le maggiori d’Europa) e quindi il formarsi di una massa operaia che l’organizzazione del lavoro aveva reso omogenea. Fu un profondo sommovimento, autonomo dal movimento studentesco. Fu una autentica rivoluzione sociale. Di questo si è trattato. Una massa grande di operai, giovani e in gran parte 81

ex braccianti e contadini poveri riscoprivano se stessi nel senso che per la prima volta pervenivano a una visione del mondo e a una coscienza di classe. Compivano un salto in una nuova e più alta condizione umana. Non chiedevano solo più salario, ma esprimevano una domanda nuova di dignità, di libertà della persona, di cultura (meno ore di lavoro, più ore per la formazione). Naturalmente furono forti anche le rivendicazioni salariali, ma la novità è che queste erano poste all’interno di una spinta per cambiamenti più profondi che investivano le forme di vita, le condizioni sociali, i nuovi diritti. E tutto questo influenzò anche vaste sezioni del ceto medio urbano, il quale rimise in discussione gli assetti delle vecchie professioni (dai medici alla giustizia). Avvenne così (al di là della retorica) anche un congiungimento con la rivolta studentesca. Fu davvero una rivoluzione sociale e accadde in Italia qualcosa che era senza paragoni in Europa. Ma non fu solo un fenomeno spontaneo. Quel movimento fu molto pensato e fortemente diretto dai capi dei sindacati metalmeccanici, alla cui testa c’era un gruppo di persone straordinarie, tra le quali Bruno Trentin. Egli era a quel tempo mio grande amico, e se accenno a questo fatto privato lo faccio solo per una ragione: per dare testimonianza della originalità e della complessità del pensiero di Trentin, del suo ragionare sul lavoro moderno e sulla necessità di liberarlo dal disumano assoggettamento alla catena di montaggio, sul nuovo bisogno di diritti e di libertà. E, di conseguenza, sulla necessità di organizzare il sindacato in modo diverso, allargando la sua base e ren82

dendo più diretto il rapporto con la massa operaia: il sindacato dei consigli. Io credo che Bruno sia forse stato il più notevole pensatore sociale del suo tempo, il più creativo, con una visione lucida e originale dei problemi posti dalla crisi del taylorismo. Potrei raccontare le tante serate passate a casa di Pietro Ingrao, insieme a poche altre persone, per discutere informalmente di queste cose, per valutare i rischi di certe lotte ma anche per esprimere le grandi speranze politiche e ideali che ad esse affidavamo. Le scelte erano grosse. Le decisioni – è chiaro – venivano prese nel sindacato e riguardavano non soltanto la CGIL, ma anche la CISL e la UIL. Ma la verità è che anche il PCI diceva la sua. I compagni di corso d’Italia ascoltavano l’opinione del Partito con molta attenzione. Ufficialmente la cinghia di trasmissione non c’era più, ma fino a un certo punto. Bisogna anche dire che non tutto il vertice del PCI era d’accordo. Ricordo bene una riunione di Direzione in cui le posizioni di Trentin furono accolte con diffidenza e sottoposte a critiche severe prima di essere approvate. E non dimentico l’asprezza dello scontro in una conferenza operaia del PCI. Tralascio le cronache, perché richiederebbero giudizi che non vorrei ridurre a poche battute. Però rammento bene la lezione alta e dura di serietà politica e di moralità che si ricavava da quei confronti. Era delle sorti dell’Italia del lavoro che si parlava. E a quel tempo quelle sorti erano largamente nelle nostre mani. La battaglia sindacale si concluse con la vittoria. La Confindustria chinò il capo e firmò il contratto, e i nuovi diritti conquistati trovarono conferma di legge nello Statu83

to dei lavoratori. Tuttavia il grande sommovimento della società italiana che era stato innescato dalla lotta operaia non trovò uno sbocco positivo. Il dato politico fondamentale sul quale penso che ancora oggi siamo chiamati a riflettere fu la durezza e la forza della risposta del sistema. Parlo del sistema economico italiano nel suo complesso, non solo del padronato metalmeccanico. Venne fuori quel dato profondo di realtà al quale ho già accennato. L’autunno caldo aveva scosso il fondamentale equilibrio socioeconomico costruito sui bassi salari e sugli incerti diritti del lavoro, un equilibrio che, insieme a tante altre cose, aveva anche consentito il “miracolo economico”. Il problema, quindi, non era sindacale. Era quello di dare nuovi sbocchi politici al movimento, tali da consentire equilibri più avanzati. Ciò non avvenne. Il sistema reagì alla vittoria operaia e alla sconfitta padronale nelle grandi fabbriche in molti modi, ma essenzialmente con il decentramento produttivo e la flessibilità del lavoro. E con la svalutazione. Le conseguenze furono di enorme portata. La spinta operaia fu fronteggiata anche spostando molte produzioni fuori dalle grandi fabbriche. Si allargò così la mappa dell’industrializzazione italiana fino al Veneto, alle Marche, al Valdarno, e via via altrove. La proliferazione delle piccole industrie avvenne anche per questo. Il PCI fece molti errori. Non si rese conto che, essendo stato il fordismo non solo una tecnica di produzione ma anche un modello sociale che condizionava l’insieme delle relazioni umane, il passaggio dal lavoro di massa al lavoro flessibile riproponeva domande grosse che investivano, oltre ai modi di vi84

vere, la possibilità di difendere le vecchie conquiste in termini di reddito, di status sociale e di cittadinanza. Mi pare di poter dire che non riuscimmo a opporre alla crisi del vecchio compromesso col padronato, dopotutto fondato sullo scambio tra sicurezza del posto del lavoro e la subordinazione del lavoro alla catena di montaggio, un nuovo compromesso di alto profilo che assumesse la valorizzazione del capitale umano come asse di una idea nuova e più alta dello sviluppo. Ma l’evento fondamentale di quegli anni, quello che avrebbe cambiato tutte le prospettive, avvenne nell’arena internazionale. Si sgretolava l’assetto economico mondiale deciso a Bretton Woods dopo la guerra, e gli Stati Uniti ponevano fine alla convertibilità del dollaro in oro. Reagivano così al peso dei deficit crescenti e ad eventi come l’aumento del prezzo del petrolio e gli oneri della guerra in Vietnam. Uscivano dalla difensiva e ponevano le basi di un nuovo sistema economico mondiale. Il fatto nuovo, realmente dominante, stava in ciò. Le forze trainanti del capitalismo voltavano pagina rispetto ai decenni precedenti e ponevano fine all’epoca in cui, a seguito della avanzata storica del movimento operaio e di un largo schieramento riformista e socialdemocratico, il vecchio capitalismo industriale aveva accettato il cosiddetto “compromesso democratico”. Era questo che cambiava il mondo. Pochi anni dopo, la signora Thatcher e Ronald Reagan diventavano i leader di una nuova destra che spostava il comando dai poteri pubblici a un nuovo “Sovrano”: nasceva il 85

fondamentalismo di mercato. Non si trattò solo di un fenomeno economico. Cambiò la cultura dominante. Io penso che le vicende italiane non siano leggibili fuori da questo quadro. È vero che importanti riforme furono fatte: pensioni, il servizio sanitario nazionale, la riforma del diritto di famiglia. Ma il fatto cruciale, quello che spiega il corso delle cose e che pose fine al miracolo italiano, è che la sfida proveniente dal nuovo corso dell’economia mondiale non fu raccolta. Arrivato a quel difficile passaggio, il sistema politico italiano rivelò tutti i suoi limiti. La DC non ce la fece a raccogliere la sfida delle nuove cose, sia perché appesantita da un sistema clientelare che rappresentava il mondo delle rendite, sia perché frenata dalla grettezza di un capitalismo italiano che aveva paura di tutto. Nei primi anni ’70 ci fu perfino uno spostamento a destra con la formazione del governo Andreotti-Malagodi. Quanto a noi comunisti, credo di poter dire che capivamo a fatica quello che stava accadendo nel mondo. Con eccezioni, naturalmente, come certe analisi di un giovane economista morto prematuramente e che voglio ricordare: Riccardo Parboni. I socialisti, specie il gruppo raccolto intorno a Giolitti, Amato e Ruffolo, erano più avanti di noi, avevano una visione più aggiornata delle cose del mondo. Comunque fu lì, in quel tempo, che l’Italia ha cominciato a perdere la partita del suo posto nelle gerarchie del mondo. Ripensando sia pure in modo così sommario a quella vicenda, io ne ricavo una considerazione politica più generale. Per quale ragione un Paese come l’Italia, che sembrava in grande ascesa, non riuscì a raccogliere positivamente 86

quella sfida che veniva dalle cose e dal cambiamento del mondo? Conosco le tante spiegazioni che riguardano il modo di essere della nostra struttura economica, cose su cui si è molto scritto e molto discusso. Ma in ultima analisi – ecco la domanda che vorrei porre – non ci fu anche una ragione essenzialmente politica? Io credo di sì, e questa ragione, al fondo, era che il Paese era profondamente diviso. Era questo che ci bloccava: non era possibile avviare una svolta senza un nuovo patto sociale. Un salto di qualità anche nelle relazioni politiche era dunque necessario ma, nella realtà, questo era impossibile. Né noi, né la DC eravamo in grado di pensare uno schieramento capace di mettere lo sviluppo del Paese su una nuova traiettoria di lungo periodo. Ci provò il centro-sinistra, ma non ci riuscì. Ci voleva altro. Bisognava immaginare qualcosa di simile a quello che era avvenuto alla caduta del fascismo, cioè creare un fattore politico di dimensione analoga a quello che aveva consentito all’Italia di allora di rinascere (ovvero la grande alleanza antifascista). Questa Italia era troppo irrigidita nella contrapposizione politica, ideologica, addirittura di natura geopolitica tra due grandi partiti. È vero che questi partiti avevano il merito storico di aver supplito alla debolezza dello Stato assorbendo le spinte del sovversivismo di destra e di sinistra. Ma ciò fecero alla condizione di organizzare i loro “popoli” in modo separato e sulla base di qualcosa come due religioni civili. Erano due accampamenti nemici. Era questo che impediva di passare dalle elaborazioni programmatiche anche molto serie e avanzate degli intellettuali a una nuova combinazione delle forze. 87

Forze che pure esistevano, come mostrava la vitalità dei nuovi ceti del lavoro e delle imprese. Solo più tardi, col compromesso storico, fu tentata una operazione capace di smuovere le acque più nel profondo. Se torno a ripensare quelle vicende è per una ragione attuale. Io non ho l’impressione che ci stiamo ponendo con la necessaria serietà il problema di che cosa rischi oggi l’Italia. Non so se ci rendiamo conto di quale destino di decadenza grava su di noi. La verità che dovremmo dire con più chiarezza è che sfuggire a questo destino è possibile, ma solo se una larga maggioranza si convince che non solo una svolta riformista profonda è assolutamente necessaria, ma che ciò richiede una unificazione non formale ma reale delle correnti riformiste. E che il solo modo per renderla possibile è fare i conti con noi stessi, la nostra storia, le nostre divisioni.

9.

Il riformismo dall’alto e il nuovo Sovrano

Arrivo così a quello che è per me un problema cruciale. Forse l’errore più grande che abbiamo fatto. Pensare di affrontare le nuove sfide della globalizzazione essenzialmente con un riformismo troppo tecnocratico e con una idea della politica che privilegiava sostanzialmente la manovra dall’alto. Prevalse, in parte anche tra noi, un pensiero povero influenzato troppo dalla mitologia del decisionismo, l’idea che bisogna concentrare il potere in poche mani affinché la democrazia sia in grado di decidere, e quindi di intervenire in rapporto alla velocità dei processi decisionali dell’economia moderna. Intendiamoci: il problema era (ed è) reale, la preoccupazione era (ed è) giusta. Ma perché per affrontare questioni di questa natura si guardava solo ai “rami alti” del sistema? Se rileggiamo il dibattito istituzionale di questi anni vediamo che ruota sempre intorno al tema del rafforzamento dell’esecutivo e a una nuova legge elettorale. Ma era questo il centro di tutto? Io in sostanza mi domando quanto di giusto, ma quanto anche di sbagliato c’era in un lungo corso politico che, volendo superare il sistema della proporzionale in nome del potere degli elettori di scegliere più direttamente i go89

verni, ha finito in realtà per alimentare la personalizzazione e concentrazione del potere (un uomo solo al comando) e per rendere irrilevante il ruolo del Parlamento. Sento il bisogno di una riflessione più seria, la quale cominci a darci una spiegazione del perché un grande Paese come l’Italia, sfidato da un nuovo mondo e investito dai mutamenti più sconvolgenti della storia moderna, rischi di sfarinarsi nei particolarismi, nelle faide, nelle dispute nominalistiche, nei veti ideologici. Una sorta di ritorno ai tempi in cui Firenze, Venezia, Milano si scannavano e l’Italia diventava terra di conquista dello straniero, per finire poi ai margini del mondo moderno. Solo per colpa di Berlusconi? È chiaro però che quando parlo di nostre responsabilità non confondo quelle pesanti della destra con quelle di una sinistra che in questi anni ha governato facendo anche tante cose positive. Dopotutto siamo noi che abbiamo tenuto a galla il Paese e lo abbiamo portato in Europa. Non mi unisco al coro di quanti si esercitano nell’esercizio un po’ miserabile di sparare a zero sui dirigenti della sinistra. Ma se questa è la dimensione della sfida, si rafforza in me la convinzione che il problema centrale col quale ci dobbiamo misurare è la grandezza della crisi che investe la democrazia moderna. Ci sono cose che dette oggi sembrano perfino ovvie. Ma è da qui che bisogna ripartire. Il declino della sinistra (non a caso fenomeno generale europeo) è solo un aspetto di un più ampio sommovimento politico, il quale ha sconvolto le forme dell’intera vita democratica come era stata elaborata nell’Europa moderna. Non serve a nulla piangersi ad90

dosso. È insopportabile questa valanga di improperi contro la sinistra da parte di chi non si è mai reso conto che la sinistra è investita da una vicenda molto più ampia: lo svuotamento della democrazia, cioè della cosa che ha fatto la storia e la forza del progressismo europeo negli ultimi due secoli. La democrazia, questa parola che ha molti significati, non è solo la libertà dell’individuo e la conta dei voti. Vive se è anche lo strumento dell’ascesa sociale e del cammino verso la civilizzazione, se è ciò che consente agli “ultimi” di partecipare alla vita politica e dello Stato, se – insomma – è il mezzo attraverso il quale il cammino verso l’uguaglianza diventa possibile e il vecchio rapporto tra dirigenti e diretti viene rimesso in discussione. Noi non abbiamo misurato bene la gravità di questa profonda involuzione di un mondo dove i poteri della democrazia politica sono sommersi dalla potenza delle oligarchie economiche. Ciò spiega i nostri errori. Però – attenzione – non li giustifica. Al contrario: impone una più radicale revisione di strategia politica. La risposta a problemi come questi non la troveremo mai nel “cielo” della politica. È giunto il momento di decidere come ci collochiamo rispetto alle nuove sfide del nostro tempo. Dominante è il fatto che, da un lato, la potenza dell’economia è tale che si mangia il potere della politica in quanto libertà uguale e interesse generale. Dall’altro lato, però, la società non può essere ridotta a società di mercato senza creare problemi insolubili di governabilità ed effetti catastrofici anche morali e di perdita di identità. L’interrogativo difficile diventa allora questo: di quali ar91

mi dispone la politica? Dove sta una nuova grande idea, come fu, a suo tempo, l’invenzione dei sindacati o la lotta per il suffragio universale? Oltretutto la politica è schiacciata dalla forza inaudita dei mezzi di comunicazione e da poteri che usano questa forza in modo tale da “colonizzare” i mondi vitali, le identità degli individui e i luoghi che hanno fatto finora le diversità del mondo. È una forza che investe direttamente e quasi senza mediazioni l’esperienza della vita quotidiana. Ciò a cui noi stiamo assistendo è, dopotutto, una nuova forma di sfruttamento dell’uomo, la quale, però, ha in sé una profonda contraddizione: umilia la creatività di un lavoro sempre più intelligente ma al tempo stesso ne ha bisogno. Di ciò si alimenta: del fatto che la gente chiede beni non solo materiali, ma cose che diano un senso sia pure effimero alle loro vite. Qui sta la forza della destra (disporre di un potere più grande e più pervasivo del vecchio potere padronale di impadronirsi del “surplus” prodotto dall’operaio nel sistema di fabbrica). Ma qui sta anche la sua debolezza, a condizione che una nuova forza riformista comprenda che questo è diventato il terreno fondamentale dello scontro tra progresso e reazione. E che quindi occorre inventare nuove potenze sociali e non far conto soltanto sui disegni di riforma delle istituzioni elaborate nei cenacoli professionali. Il grande disegno togliattiano (la “democrazia progressiva” come via per allargare le basi di massa dello Stato e cambiare le vecchie classi dirigenti, e una Costituzione scritta dalle grandi forze escluse dal Risorgimento) fu mobilitante in quanto si materializzava in due cose: il “partito nuo92

vo”, cioè quel partito di popolo, quella “giraffa” così diversa dal partito leninista che di per sé realizzava una nuova integrazione sociale e la promozione dei proletari italiani da “sovversivi” a cittadini. E, in più, una nuova cultura (Gramsci, De Sanctis, Labriola) che dava “senso” alla politica in quanto la collocava in una grande narrazione, in una idea del problema nazionale, in una prospettiva storica autonoma rispetto a quella delle vecchie classi dirigenti. Chi scrive sa benissimo che quella esperienza appartiene al mondo di ieri e non è più proponibile. E tuttavia c’è di che riflettere se pensiamo alle vicende di questi anni. Non erano inevitabili la delegittimazione dei partiti e la riduzione della partecipazione democratica al “sì” o “no” a un quesito referendario. Non era obbligatorio che le campagne elettorali si riducessero a una gara tra chi compra più spot pubblicitari. Non è stata solo colpa della destra se l’asse della politica si è spostato verso una sorta di neoindividualismo rampante e di presidenzialismo carismatico. La mia valutazione è che di fatto il nostro “riformismo” (al di là delle sue diverse declinazioni) sia stato sostanzialmente subalterno rispetto alla grande svolta liberista e mercatista in forza della quale una ristretta oligarchia ha guidato in modo piratesco il processo di globalizzazione dell’economia mondiale. Intendiamoci bene. Anch’io penso che la libertà dei mercati sia essenziale non solo per lo sviluppo economico, ma per l’esistenza stessa della democrazia. Tuttavia la crisi epocale che stiamo vivendo non è più leggibile all’interno del vecchio antagonismo tra Stato 93

e mercato. Questo è il punto che la sinistra sembra abbia paura di discutere. È addirittura difficile spiegare perché l’insieme della sinistra non abbia quasi reagito a fronte di fenomeni così evidenti e impressionanti come la più grande redistribuzione della ricchezza e del potere a danno del lavoro da un secolo a questa parte. Non cito le pagine molto forti di studiosi soprattutto indipendenti (forse non per caso) sulle false privatizzazioni, sulla corruzione dei grandi finanzieri, sulla rapina dei risparmi, sulla distruzione del concetto stesso di giusto salario, sull’aumento esponenziale delle rendite. Si possono fare analisi diverse sulle tendenze dell’economia mondiale, si può continuare a pensare che non ci siano alternative al capitalismo. Ma è ormai da molte parti che si è aperta una discussione sulle nuove forme che sta assumendo ciò che chiamiamo capitalismo. Ha cominciato a farlo perfino il papa nella sua ultima enciclica. Penso, quindi, che potrebbe farlo anche la sinistra, anche la più moderata, senza la paura di essere accusata di “comunismo”. La finanziarizzazione è certamente un fenomeno molto complesso. È stata anche lo strumento attraverso cui è avvenuta questa forma di mondializzazione dei mercati, ingiusta fin che si vuole ma senza la quale qualcosa come un paio di miliardi di uomini non sarebbero usciti così rapidamente dalla immobilità millenaria del mondo primitivo ed entrati nella società dei consumi. Al tempo stesso, però, sono la stessa legittimità etica del capitalismo e la sua funzione di progresso che sono state messe in discussione. Su questo mi è difficile addentrarmi. Noto soltanto che 94

non è una piccola cosa il fatto che la rendita (finanziaria soprattutto) acquisti un tale peso. Stiamo assistendo a qualcosa che sembra un ritorno a prima della rivoluzione industriale, al tempo in cui le grandi ricchezze non si formavano attraverso i profitti ricavati dalla produzione e dallo scambio delle merci, ma per la via dell’accumulazione delle rendite signorili. È senza conseguenza questa sorta di declino del “capitano d’industria”? Non è una piccola cosa il dominio assoluto di una ristretta oligarchia finanziaria sulle risorse essenziali da cui dipende la vita. Un dominio forte ma con una legittimazione morale sempre più esile. Noi non possiamo parlare solo di denaro. Gli economisti fanno, dopotutto, il loro mestiere. Ciò che mi stupisce è che tanta parte della sinistra politica e intellettuale non senta il bisogno di aprire una discussione sul cumulo immenso di sofferenze che sta dietro questo sconvolgimento di tutte le regole e di tutte le frontiere all’interno delle quali si sono svolte le vite umane. È terribile lo strazio che si esprime attraverso le migrazioni disperate, la separazione dai luoghi e dalle persone care, la perdita di ogni identità e perfino dignità umana. E ciò vale non solo per chi viene da lontano, ma anche per chi vive l’arrivo tra le sue vecchie case e gli antichi luoghi del “vicinato” di esseri umani totalmente sconosciuti. Insomma, il dolore della rottura delle radici, il collasso della propria storia, la perdita di ogni visione condivisa del futuro. Sono lacerazioni non meno dolorose delle vecchie ingiustizie. Che cos’è la sinistra europea se non si rende conto di cose come queste e non si 95

misura con le conseguenze (anche positive, anche tragiche, ma comunque enormi) indotte da questa sorta di rimescolamento dei popoli e dalla fine della secolare “occidentalizzazione del mondo”? Come possiamo non chiederci quale sarà il ruolo dell’Europa nel mondo nuovo? Non c’è un problema solo economico, ma anche di cultura, di identità, di dialogo. Ricordiamoci che cos’era l’Europa di ieri. È stata la patria sia di Adamo Smith che di Carlo Marx, dell’illuminismo come del pensiero religioso. È vero, è stata anche il luogo dei totalitarismi e dei massacri delle guerre. Ma se oggi possiamo consolarci per il fatto che stiamo in pace, dobbiamo pur sapere che rischiamo di contare sempre meno. Il fatto tanto semplice quanto fondamentale è che la sinistra non è stata in grado di capire l’enorme novità dell’avvento, negli anni ’70, di una nuova forma di capitalismo. Di ciò si è molto parlato ma da un punto di vista troppo ristretto, come se si trattasse solo di un mutamento dell’economia. Io penso che abbiamo assistito a una sorta di punto di svolta della vicenda storica moderna. Non sono un economista e capisco che la mia è una tesi contestabile. Penso però che dovrebbe essere discussa. Certamente, non si è trattato solo di una bolla finanziaria né, solo, di una controffensiva padronale. Ciò che io penso è che la dimensione del problema era, ed è, di natura storica, e che su questo fatto grandissimo non dovrebbero parlare solo gli economisti e i sociologi, ma anche gli storici. Se guardiamo al di là delle cronache, emerge infatti la formazione, certo non di colpo e tra molte contraddizioni, di una con96

centrazione immensa, mai vista prima, di potere nelle mani di una ristretta élite politica ed economica. Un potere che si è formato, in ultima analisi, sullo squilibrio crescente tra la potenza di un mercato che superava tutti i vincoli e tutte le frontiere, e la debolezza della politica rimasta priva di strumenti sovranazionali di governo e di rappresentanza. Questa è la vera novità e solo così si comincia a comprendere la profondità della crisi della democrazia e la grandezza della sconfitta della sinistra. Del resto, lo scontro tra Obama e le grandi banche è di natura altamente politica. Riguarda il dove si colloca il centro del potere. Lo studioso americano che parlò di “fine della storia” diceva una sciocchezza ma segnalava il fatto che per percepire la novità e grandezza del fenomeno bisognava riandare alla Roma di Augusto. Dopo di che, come sappiamo, l’Impero romano decadde, e decadde non solo per le incursioni dei barbari, ma anche per il venir meno delle basi della società schiavista. Ovviamente, ben altre sono le ragioni dell’indebolimento della potenza americana, quale si formò dopo il crollo del comunismo. Ma anche questo dimostra che la storia non è finita e non finirà. So che esagero. Ma lo faccio di proposito, in polemica con una cultura che non solo non esagera, ma nasconde a se stessa e al mondo la realtà. Non si tratta solo del fatto che gli Stati Uniti hanno assorbito gran parte del risparmio mondiale e lo hanno usato per sostenere a debito il livello dei consumi, cosa possibile solo perché il “signoraggio” del dollaro ha consentito alla potenza imperiale di sostenere deficit interni ed esteri enormi. Già questa non è una 97

piccola cosa. Ma adesso, dopo l’orgia del denaro fatto con la finanza, si è aperto il grande quesito: su quali basi rilanciare lo sviluppo? Tutti dicono che bisognerebbe aumentare i consumi. Ma quali consumi? La moltiplicazione dei soliti che hanno saturato le società moderne crea già oggi problemi enormi di sostenibilità. Quindi anche altri consumi, evidentemente. Ma è chiaro che ciò comporterebbe grandi trasformazioni sociali: nulla di meno che il riconoscimento di nuovi bisogni umani e quindi di nuovi modi di vivere. Ma allora è giusto parlare di un passaggio della storia. Non c’entra niente l’estremismo. Pensare una nuova società dovrebbe tornare ad essere un problema della politica (non solo un esercizio intellettuale), se è vero che anche la domanda che si crea nei continenti nuovi apre un interrogativo di fondo che riguarda la sostenibilità del meccanismo di sviluppo, cioè la sua capacità di garantire la coesistenza di miliardi di uomini e il loro rapporto con l’ecosfera. Questi miei sono solo spunti per una analisi che richiederebbe l’ausilio di ben altre competenze, data la complessità e la novità del tema. Conosco i miei limiti e so bene che anche una critica di sistema dovrebbe porsi in modo assai diverso dal passato, e cioè non più nei termini palingenetici del vecchio marxismo. Ma mi chiedo se non si riproponga come una esigenza reale, alimentata da bisogni oggettivi, storicamente necessari, una “riforma” del capitalismo, e non limitata solo a qualche regola. In ogni caso a me sembra necessario che la sinistra esca dal silenzio in cui è piombata da alcuni decenni, dopo la crisi di quelli che 98

erano stati i suoi “pensieri radicali”. Se non ora, quando la sinistra deve ricominciare a pensare? Da secoli non si era vista una “dominanza” così forte del fondamentalismo di mercato, una sorta di “pensiero unico”, reso possibile anche dalla rivoluzione digitale e dalla forza di un sistema delle comunicazioni che rende impalpabile il confine tra il vero e il verosimile. Dopotutto, il silenzio della sinistra è anche conseguenza di tutto questo. Se vogliamo un paragone che ci dia meglio il senso di che cos’è un pensiero unico, possiamo pensare a quale fu il dominio intellettuale, non soltanto religioso, della Chiesa cattolica nell’Europa medievale, fino alle scoperte scientifiche. Che cosa dipingevano i pittori se non le storie di Cristo? Penso alla figura di Claudio Napoleoni: economista, filosofo, uomo di religione, condirettore insieme a Franco Rodano della «Rivista trimestrale». Io non parlo di lui come filosofo, né del rapporto complesso e difficile ma molto profondo che egli aveva con la religione e con la Chiesa. Parlo di quel raffinato intellettuale che di sé diceva: «Il luogo in cui io cerco, come posso, di stare e da cui provo, come posso, a parlare è la politica, è la dimensione politica. Io non avrei mai affrontato in vita mia una questione teoretica se non fossi stato spinto a farlo da un interesse politico. Ma ciò che posso dire, anzi arrischio a dire, è che il significato della politica, come luogo in cui stare e da cui parlare, io lo desumo dal fatto che la politica sia concepita come lo strumento di una liberazione». Napoleoni sapeva benissimo che la politica si nutre di 99

concretezza, e che ad essa spetta definire in un tempo determinato e in un contesto determinato i rapporti tra gli uomini, anch’essi determinati. Ma tutto questo per lui avveniva all’interno di una visione più generale del cammino dell’uomo. La politica, in sostanza, concepita come strumento della lotta che l’uomo ha ingaggiato da secoli per la sua progressiva liberazione da tutti i servaggi, le credenze, le paure più ancestrali che hanno accompagnato la sua storia. Compresa, come egli dirà, quella lotta per l’emancipazione del lavoro che si era organizzata in base alla concezione della storia come storia della divisione tra le classi. E compreso – arrivò a dire – anche il rischio che la Chiesa escluda da sé non solo gli “infedeli” e i “pagani”, come nei secoli medievali, ma i cristiani stessi, se la parola “cristiano” la intendiamo come sinonimo della libertà della risposta umana al messaggio evangelico. Era l’idea di un nuovo umanesimo. E la politica, pur così concepita, egli l’ha vissuta con la drammaticità di un dubbio se non di una certezza (e in ciò egli mi appare oggi profetico: parlava 25 anni fa) che eravamo giunti a una sorta di “stretta storica” per cui cambiava la stessa condizione umana. L’inaudita potenza dei mercati mondializzati, il denaro (e cioè il consumo) come sola misura di tutte le cose, il venir meno della base stessa di quell’impianto riformista che era riuscito a contemperare gli squilibri del mercato con la funzione redistributrice dello Stato sociale. Rileggendo gli scritti di allora io sono molto colpito dal fatto che assai prima e molto più acutamente di altri Napoleoni capì che stava mutando l’intero corso storico. E che 100

per questa ragione la sinistra veniva a trovarsi di fronte a un bivio che egli rappresentava più o meno in questi termini: o si torna indietro, privilegiando le logiche del mercato e del nuovo capitalismo a scapito delle ragioni della democrazia, o si va avanti. E andare avanti, aggiungeva, significherebbe superare i termini stessi di quel compromesso democratico col capitalismo. Con quali implicazioni? La sua risposta (ricordo una polemica con me che ero stato il relatore di un importante convegno economico) era molto radicale. Evocava nuovi assetti sociali che egli stesso riconosceva essere indefinibili ma che in ogni caso – diceva – avrebbero comportato la necessità di ripensare le forze in campo, il loro modo di schierarsi, il ruolo della politica, la funzione dello Stato. Come presidente della Sinistra indipendente al Senato così egli si rivolse al Congresso di Firenze del PCI (1986): «Voi avete dichiarato esaurita la spinta propulsiva dell’esperimento sovietico e considerate che sia venuta meno, come obiettivo possibile, la fuoriuscita del capitalismo. Bene. Se è così a voi spetta indicare i vostri nuovi obiettivi, dato che è sui moventi e sui fini che si fonda il consenso ed è in forza di essi che la gente si muove, partecipa, lotta, alza i vessilli». E si diceva sconcertato che di ciò non si discutesse apertamente, fino a rimettere in discussione perfino il nome. E siamo – badate bene – alcuni anni prima della svolta di Occhetto. Ma stiamo attenti. Non confondiamo Napoleoni con l’estremismo. La sua domanda vera, tutto sommato, era la seguente. Dato che il vecchio impianto del comunismo non è più storicamente adeguato ad esprimere l’istanza di libe101

razione che lo ispirava, quale altra prospettiva immaginare? La risposta a questa domanda egli la cercava in una revisione radicale del pensiero economico-sociale ispirato al marxismo. Ciò da cui bisognava liberarsi – diceva – è l’idea troppo limitata dello sfruttamento inteso come dominio di classe esercitato mediante l’appropriazione di lavoro non pagato. È la teoria del valore-lavoro che non funziona, e quindi lo sfruttamento deve essere diversamente fondato. Questa era l’idea di fondo. Essa nasceva dalla consapevolezza di una cesura con la storia precedente, la quale consisteva nel confluire di tutte le classi in una condizione di subordinazione al meccanismo economico. Ciò che dava al suo pensiero una straordinaria tensione e drammaticità era la sensazione che si stesse toccando un limite insuperabile per la politica. Si apriva un problema cruciale che Napoleoni (la sua era dopotutto una cultura religiosa) così definiva: «Posto che la storia contemporanea è culminata in una “società” dominata da uno sviluppo nuovo del capitalismo che per l’uomo ha un carattere distruttivo, è possibile una uscita da essa per via puramente politica? Intendendo per “puramente politica” una via in cui non si diano altre ragioni dell’operazione politica se non quelle interne alla politica stessa, non sorrette da altro che dal riferimento a una morale strettamente naturale, che metta in evidenza i valori dell’uguaglianza e della libertà. Insomma una via “laica” per la quale non occorre il riferimento né a valori religiosi né a una qualche filosofia della storia, compreso il marxismo». Questo è il grande dubbio che lo assillava e che ha do102

minato l’ultima parte della sua vita. Fino alla drammatica domanda finale se «ormai solo un dio ci può salvare» e alla sua estrema esortazione nel letto di morte agli amici: «cercate ancora». È davvero molto complessa la vicenda del comunismo italiano. È evidente che non chiedo a nessuno di attenuare una visione critica della vicenda del PCI. Ma penso a Moro, il quale rivendicò con orgoglio quel suo “anticomunismo democratico” che peraltro non gli impedì affatto di accentuare la sua “attenzione” per quell’originale pezzo di socialismo italiano, diverso dal PSI, che noi rappresentavamo. Ciò che lo intrigava era la nostra lettura della storia d’Italia e il modo in cui avevamo marchiato l’identità civile di importanti settori del popolo (la ragione per cui l’Emilia non è il Veneto). Mi rendo conto che la “vulgata” dominante ha reso questo problema difficile. Ma non funziona l’idea che tutto sarebbe stato risolto perché il “riformismo comunista” altro non era che un equivoco: una socialdemocrazia in ritardo che finalmente ritrovava se stessa e riconosceva il suo sbaglio. Il PCI è stato una cosa diversa. Ed io, pensando a questo, rifletto anche sulla storia d’Italia e sul sommovimento sociale profondo al quale abbiamo partecipato. E mi chiedo se questo è solo un guaio oppure è qualcosa che può contribuire alla formazione di un partito riformista nelle condizioni del mondo attuale, di una realtà che vede anche una crisi così profonda di tutte le vecchie forze di progresso. Dopotutto, il fondatore del PCI, Antonio Gramsci, era un eretico che dal fondo di un carcere fascista leggeva a suo modo il mondo. Non crede103

va al crollo del capitalismo ma rifletteva sui caratteri di un nuovo capitalismo nato in America col fordismo. E pensava al potere come egemonia e non come l’assalto al Palazzo d’Inverno. E che specie di comunista era Bruno Trentin? Cito lui per non parlare di tanti altri. E perché gli “ingraiani” cercavano nelle idee di Riccardo Lombardi una via originale di riforma delle moderne società occidentali?

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Enrico Berlinguer

Con la fine del “miracolo economico” e la crisi del centrosinistra gli sviluppi politici diventano molto incerti e per certi aspetti drammatici. È fuor di dubbio che il centro-sinistra aveva smosso le cose in modo tale da far emergere il volto nascosto dell’Italia. Gli “ingraiani”, nel loro disprezzo per un riformismo troppo debole, non avevano tenuto conto della debolezza della democrazia italiana. Emergeva il problema del “doppio Stato”. Uso questa espressione sapendo che essa va presa con le molle. È un fatto, però, che da quella vicenda prese le mosse la “strategia della tensione” che insanguinò l’Italia per anni. Non so fino a che punto i vertici del PCI erano di ciò consapevoli. Ma più mi pongo questi interrogativi, più mi convinco che l’ascesa di Enrico Berlinguer alla testa del PCI fu un evento cruciale. Berlinguer è stato molto amato ma, a mio parere, la novità e la drammaticità della sua impresa non è stata ben compresa. Io non considero perspicua quella lettura della sua opera che ne rispetta l’alta figura morale ma pone al centro in modo quasi esclusivo il suo rapporto con Craxi. Fu settario? Questo può anche essere vero, almeno in parte, e anch’io diffido di posizioni politiche troppo ispirate 105

dal moralismo. Ma era questo il centro del problema politico che lo assillava? Io non lo credo. Non era il rapporto con i socialisti. Perlomeno non era da qui che partiva. Né il compromesso storico può essere ridotto a una visione moderata (cercare un qualsiasi accordo con la DC) della politica. A queste tesi io rivolgo una obiezione di fondo. Che formulerei così: alla luce di tutto quello che la crisi mondiale ci ha poi rivelato per ciò che riguarda il drammatico spiazzamento di tutta la sinistra (compresa la socialdemocrazia) rispetto alla “rivoluzione conservatrice” in atto sul piano mondiale, si può pensare ancora che la partita che allora giocò Berlinguer altro non era che un episodio del cosiddetto “duello a sinistra”? Io non lo penso. Penso invece che Berlinguer fu a suo modo consapevole che l’Italia avesse bisogno di una svolta, di una grande riforma del suo sistema politico, e ciò in un senso molto diverso da quello pensato da Craxi, sia per quanto riguarda l’idea di partito e il rapporto con le masse, sia per una visione più ampia delle alleanze. Egli fu tra i pochi che capiva (o almeno intuiva) come dietro gli strepitosi successi elettorali del PCI, i nuovi consensi dei ceti medi, la crisi della DC, ci fosse altro. Ci fosse il peso di quella involuzione (non solo economica) di cui ho già parlato a proposito del mancato sbocco politico per le conquiste operaie. Ci fosse una posta in gioco diventata altissima: senza una nuova tappa di quella che egli chiamava una rivoluzione democratica diventava inevitabile uno scivolamento all’indietro non solo della sinistra, ma del Paese. La metafora del Cile aveva questo significato, non che 106

il fascismo fosse alle porte. La verità – come disse Pietro Scoppola commemorandolo nel 2004 in Campidoglio – è che «compromesso storico e alternativa erano in sostanza per Berlinguer la stessa cosa ed erano molto di più che una formula di collaborazione tra i partiti politici. Si trattava di un disegno di ampio respiro che guardava al di là dei partiti e che era volto a coinvolgere il popolo e il paese tutto». Può darsi che i miei giudizi siano troppo influenzati dall’amicizia personale. Pesano – è vero – i ricordi. Sono molti. Tra i tanti, quello di una estate a Stintino, quando in quel piccolo villaggio esisteva solo una strada con le case dei pescatori intorno. La meravigliosa spiaggia di sabbia bianca sottilissima, la Pelosa, un luogo incantato, allora ancora deserto. Eravamo partiti in tre: Luigi Pintor, Enrico ed io. Lui si era portato dietro una figlia molto piccola: credo Bianca. Passavamo le giornate su una barca di pescatori a vela latina insieme a Celestino Segni e altri parenti, bordeggiando le coste dell’Asinara, meravigliose ma proibite agli ormeggi, essendo l’isola una colonia penale. Le aragoste non costavano nulla e la sera si cenava nella casa modestissima del vecchio Siglienti, l’ex ministro e (si sussurrava) capo della Massoneria, quella antifascista. Enrico Berlinguer era un uomo schivo ma estremamente determinato e consapevole della sua missione. Assunse la responsabilità della segreteria comunista come un duro dovere e in nome del rifiuto di ogni mito (iniziò citando il Machiavelli che esorta a non almanaccare su repubbliche che non esistono). Muoveva dalla profonda convinzione che bisognasse tornare a pensare la politica in funzione del 107

fatto che, essendo deboli le fondamenta dello Stato democratico, non bastavano riforme dall’alto: era necessaria una seconda tappa di quel profondo movimento democratico che tra il ’43 e il ’48 aveva trasformato l’Italietta sabauda e fascista e consentito l’avvento dell’Italia repubblicana. Ecco perché penso che il rapporto con Craxi non fosse il centro di tutto. Dietro certi suoi atteggiamenti anche settari c’era il bisogno di una politica concepita come strumento di un nuovo protagonismo delle masse subalterne e come nuova combinazione delle forze storiche. Io posso testimoniare che questo era il suo grande tema. Ma poiché di questo si trattava, era del tutto evidente che egli non poteva sfuggire alla necessità di fare i conti con le ambiguità del PCI che la generazione di Togliatti ci aveva consegnato. E per ambiguità intendo anche il fatto che il rapporto con l’URSS aveva comportato molte arretratezze culturali. Bisognava uscire dalla condizione di una opposizione ambiguamente collocata tra una vecchia cultura alternativa al sistema e una visione nazionale (non solo di classe) dei problemi del Paese volta a rendere possibile una funzione di governo. E questo tema non era più separabile da quello di uscire dal campo sovietico. Di qui lo “strappo” con Mosca. E, in coerenza, la dichiarazione sulla NATO come strumento anche di garanzia per la gestione stessa della lotta democratica in Italia nelle condizioni storiche di allora. Questo è stato il segno politico della sua segreteria. Il suo cimento. Ed è per questo che Berlinguer non può essere ridotto a una grande figura morale o esaltato soltanto come uomo che antivedeva i grandi problemi epocali. Io penso 108

che egli vada giudicato, come del resto tutti i veri leader, in rapporto al suo peculiare disegno politico, nel suo caso al modo in cui si misurò con il problema della democrazia italiana quale in quegli anni ’70 tornò a riproporsi. Furono anni drammatici segnati dal fallimento del centro-sinistra, dall’inflazione a due cifre, da grandi sommovimenti sociali che investivano le scuole e le fabbriche; dall’avvento su scala mondiale di una svolta conservatrice che poneva fine al compromesso tra capitalismo e democrazia, dal terrorismo che cominciava a sparare e a uccidere. Riemergeva il grande problema della “democrazia difficile” (come la chiamò Moro), cioè delle basi fragili dello Stato italiano. Qui sta a mio giudizio l’attualità di una riflessione su Berlinguer la quale sia seria, e anche problematica. Perché è vero che egli affrontò questo grumo di problemi e lo fece con coraggio. Ma non li risolse. E noi, i suoi amici e compagni, ne sentiamo tuttora il peso, e dobbiamo pur chiederci perché alla fin fine fallimmo. Nell’ammetterlo vorrei però che fosse chiara la natura della sfida. Ci misurammo con un problema cruciale e per certi aspetti analogo a quello che ancora ci sfida. Parlo del venir meno, con la mondializzazione dei mercati, delle condizioni fondamentali che avevano reso possibile quello straordinario balzo dell’economia italiano che fu il “miracolo economico”. Era tutto questo equilibrio che saltava. Il centro-sinistra aveva cercato di misurarsi con questa sfida e aveva creato grandi aspettative. Però aveva fallito, e si era creata così una situazione in cui la delusione per le riforme mancate spingeva le speranze della gente verso il PCI. Ma la situazione era altamente pericolosa. Perché se da 109

un lato grandi forze spingevano verso il superamento del sistema politico bloccato, dall’altro riemergevano tutte le fratture della società italiana: dalle cieche resistenze delle forze reazionarie alla mobilitazione del sovversivismo cosiddetto di sinistra. Si scatenò un terrorismo feroce che non aveva basi di massa ma lambiva anche una frangia della sinistra. Di tutto ciò Enrico Berlinguer fu acutamente consapevole. Apparentemente il PCI passava di successo in successo, ma la sua ossessione (posso testimoniarlo) era che, essendosi rotto qualcosa di molto profondo nei vecchi equilibri italiani, la situazione era arrivata a quel passaggio cruciale in cui se le spinte del Paese verso il cambiamento non trovavano uno sbocco politico, «avremmo subìto una feroce reazione del sistema». Sono parole sue. Qui sta la radice di ciò che poi prese il nome di compromesso storico. Era un progetto forte che trovò nel suo stesso partito notevoli opposizioni. Io l’ho condiviso. Ma i fatti, i duri fatti, dicono che quel disegno non andò a buon fine. Tuttavia la prova tragica che quella ipotesi non fosse campata in aria l’ha data il fatto che Moro è stato assassinato. E la controprova che la posta in gioco fosse molto più di un “inciucio” tra comunisti e democristiani l’ha data il fatto che subito dopo è finita la Repubblica dei partiti. La DC viene decapitata, il PSI subisce le metamorfosi che sappiamo e il PCI viene chiuso nell’angolo senza una capacità di incidere nei grandi processi di ristrutturazione ormai in atto. Né al governo né all’opposizione. Il duello a sinistra occupava la scena del dibattito pubblico ma, nei fatti, era sovrastato dal de110

clino della Prima Repubblica e dai nuovi processi di modernizzazione. Craxi lo intuiva acutamente; noi eravamo più arroccati sulle certezze del passato. Ma sia lui che noi sottovalutavamo il fatto che le forze dominanti avevano già posto fine al cosiddetto “compromesso socialdemocratico”, cioè al compromesso tra il capitalismo industriale e la democrazia. Questo è, secondo me, il punto vero. Furono versati fiumi di inchiostro sul “duello a sinistra”. Ma era un duello vero o eravamo come i polli di Renzo? Io sono arrivato alla conclusione che litigavamo senza sapere dove la rivoluzione conservatrice ci stesse portando. Perciò, così come non serve a nulla la demonizzazione di Bettino Craxi, non ha fondamento una eccessiva esaltazione del suo riformismo. La verità è che il riformismo aveva già perso la partita. Io ricordo bene il lungo incontro che Berlinguer e Craxi ebbero nel 1983 a Frattocchie, dopo la svolta a destra della DC. Chiaromonte, Zangheri ed io accompagnavamo Berlinguer; la squadra di Craxi era formata da Martelli, Formica e Valdo Spini. Stemmo insieme tutto il giorno e pranzammo in quel villino. Il clima era molto amichevole, direi perfino fraterno. Si discuteva tra compagni. Berlinguer insisteva per un nuovo patto a sinistra, Craxi rispondeva con l’argomento che una riedizione dello schieramento “socialcomunista” non aveva la maggioranza nel Paese e non corrispondeva più al sentire comune. Sosteneva che era meglio tentare la strada di condizionare la DC stando al governo. La cosa che più mi colpì fu che nella pausa del pranzo Craxi mi prese sottobraccio per fare quattro passi insieme nel giardino. Mi fece un discorso 111

molto aperto: vedi, tu puoi capirmi, Enrico è una persona straordinaria che però vive un po’ fuori dal mondo. E mi descrisse il mondo che lui vedeva crescere a Milano: i nuovi ceti, la “Milano da bere”. Pensava di rappresentare quel mondo. Ma poi le inchieste giudiziarie ci hanno detto a quale prezzo ciò avveniva. Stiamo quindi parlando, in realtà, di una tragedia che nessuna strumentale riabilitazione può cancellare. Enrico morì l’anno dopo a Padova, Bettino governò ma non poi così trionfalmente, se si guarda all’esplosione del debito pubblico. Fu travolto da Tangentopoli e morì solo, malato, condannato in contumacia, in Tunisia, dominato dal sentimento di subire una feroce ingiustizia. Una grande tragedia di cui bisognerebbe ormai parlare con meno spirito polemico. È passato un quarto di secolo da allora. È finito il Novecento. L’URSS non c’è più. La storia del comunismo italiano è storia conclusa. Perché allora parliamo ancora di Enrico Berlinguer? Sostanzialmente, io credo, perché nella sua opera c’è ancora qualcosa di politicamente operante. Questo qualcosa – per dirla in breve e per usare il suo lessico – io credo sia il bisogno oggettivo di un pensiero più lungo che non si affidi a una nuova filosofia della storia ma sia però capace di leggere la nuova struttura del mondo che resta in gran parte sconosciuta alle mappe di cui disponiamo. Aggiungo che se di tutta quella vicenda è rimasto un segno così profondo io credo che ciò sia dovuto anche alla grande novità e al significato straordinario del dialogo 112

(pur così cauto e molto affidato a incontri tra uomini di fiducia) con Aldo Moro. Fu molto di più di una convergenza tattica. Ma fu anche qualcosa di molto diverso da un banale “spostamento a sinistra”. Conviene rifletterci ancora. Il fallimento del centro-sinistra e la somma delle reazioni ostili che il suo programma aveva incontrato avevano alimentato in Moro una tormentata riflessione sulla necessità di aprire una “terza fase” della politica italiana (dopo il centrismo e il centro-sinistra). Di qui la sua “attenzione” verso la natura e l’evoluzione del comunismo italiano. Che cos’era questa attenzione? Moro tutto era tranne che un “cattocomunista” mascherato. Era il capo della DC e aveva l’orgoglio di chi guida un grande partito che non era solo un partito di governo, ma una specie di partito-Stato, il quale, oltretutto, si poneva sulla scena europea come un avamposto rispetto alla divisione che separava l’Italia da un mondo “altro” rispetto ai suoi valori. «Di questi valori io sono e continuerò a essere il vostro garante», disse Moro ai suoi parlamentari nel momento stesso in cui proponeva l’apertura al PCI. Ma aveva anche avvertito che «il nostro non è l’anticomunismo della destra, è un anticomunismo democratico». Io penso che su questa categoria politica così poco frequentata, l’“anticomunismo democratico”, ci si debba soffermare perché segnò in effetti un discrimine con la destra e spiega molte cose della vicenda repubblicana. L’ho già detto: non si può ridurre tutto alla scelta tra comunismo e democrazia. Già De Gasperi, resistendo a pressioni che furono potentissime (dalla Chiesa al Dipartimento di Stato 113

americano), tenne fermo che il PCI non dovesse essere combattuto con mezzi autoritari. Ma la novità di Moro è che, mentre da un lato fondava tutta la sua riflessione sulla idea che la convivenza democratica potesse essere difesa solo con il concorso delle grandi forze popolari, dall’altro lato (proprio per la consapevolezza della fragilità della democrazia italiana) difendeva a tutti i costi l’unità della DC. Dopotutto sta qui, in questa contraddizione, la vera obiezione al disegno di Berlinguer. È il calcolo che egli faceva sull’evoluzione della DC che non si è rivelato realista. Sarebbe quindi ridicolo riscrivere la storia a soggetto, rappresentandola come un lungo antefatto del Partito democratico. Non fu così. E aggiungo che, se Moro non era un “cattocomunista”, tali non eravamo nemmeno noi, i capi del PCI. Venivamo da un marxismo letto come storicismo assoluto. Il nostro referente non era il vecchio scientismo socialista, ma Gramsci e la sua polemica con il positivismo. Il nostro pensiero era certamente classista, ma anche dominato dall’assillo di promuovere quella rivoluzione intellettuale e morale che l’Italia moderna non aveva conosciuto mai. La nostra fede era l’uomo sociale, non l’uomo “naturale” dei cattolici: era il suo stare nel divenire del mondo. Era netta la nostra alterità verso la Chiesa e, al tempo stesso, era questa nostra cultura che alimentava un certo disprezzo per l’anticlericalismo che noi consideravamo “piccolo-borghese”. Conoscevamo il peso dei cattolici nella storia d’Italia e – voglio aggiungere – erano vive in noi le speranze che il cattolicesimo democratico aveva suscitato nell’altro dopoguerra e che sembrava tornassero in campo. 114

Da tempo sapevamo che non bisognava confondere la questione vaticana con la questione cattolica, e io fui molto colpito da quella famosa nota di Gramsci del 1919 in cui egli considerava la fondazione del Partito popolare di don Sturzo come qualcosa che potenzialmente equivaleva, nella storia italiana, per importanza, all’avvio, finalmente, di una “riforma religiosa”. Nel senso – è chiaro – che il rapporto che i cattolici laici stabilivano con lo Stato, pur arrivando tardi rispetto alla Francia, avveniva nella forma avanzata e moderna di un partito politico di massa. Quindi non c’era più bisogno della mediazione politica del Vaticano. Finiva la tentazione neoguelfa. Si spiega anche così – credo di poterlo dire – il fascino che Moro esercitava sul secondo piano di Botteghe Oscure. Non proponeva patteggiamenti. Era però acutamente consapevole che la crisi strisciante della democrazia italiana fosse arrivata al punto che «il destino non è più nelle nostre mani». Il discorso era rivolto alla DC, ma io credo che l’ammonimento non valesse solo per il suo partito. C’era in quella frase il timore che si stesse rompendo tutto l’equilibrio su cui si reggeva la Prima Repubblica, di cui la DC era l’architrave. E così fu. Il suo assassinio ha cambiato la storia repubblicana.

11.

La crisi della democrazia

Non intendo scrivere le cronache degli anni che seguirono, anni in cui il declino del PCI diventò evidente ed emersero tutte le sue debolezze e anche molti errori. Scelgo un’altra strada. Cercherei di far emergere la necessaria riflessione critica su quel periodo dal contrasto con quello che era il compito che stava davanti a noi. Sul finire degli anni ’80 il sistema politico si dissolse. Si ha nel giro di poco tempo la disintegrazione politica dei cattolici democratici, la scomparsa del Partito socialista e l’autoscioglimento del PCI. E insieme a ciò il collasso di strutture fondamentali dello Stato storico italiano. Pensiamo alla rottura del compromesso fiscale e redistributivo che aveva tenuto insieme Nord e Sud; misuriamo quale spazio enorme avessero cominciato a occupare i grandi poteri di fatto: dalla magistratura ai mercati finanziari, dal mondo delle lobby e delle massonerie a certi apparati. E avvenne anche un salto di qualità nella manipolazione dell’informazione da parte di grandi potentati. Erano quindi in atto processi molto profondi e molto rischiosi, per dominare i quali le forze democratiche avrebbero dovuto riflettere meglio su quello che a quel punto di117

ventava il problema cruciale: come ridefinire una coesione e una comune appartenenza nazionale, una volta venuti meno i soggetti e gli strumenti (i partiti di massa) che – nel bene e nel male – ne erano stati i mediatori. Altrimenti, come potevamo fronteggiare le spinte che alimentavano la destra? Con quali risorse? Gian Enrico Rusconi scrisse su questo un bel libro per sostenere che una democrazia non può vivere se il sistema democratico non riesce più ad attingere ai valori della coesione nazionale, alle ragioni del solidarismo civile e politico. E pose l’interrogativo se esista un sostituto della nazione come fattore di quella integrazione etico-politica senza la quale una democrazia non può vivere. Il mio punto di vista, espresso in molti scritti e in molteplici occasioni, non era diverso. In sostanza era pensare l’insieme delle riforme necessarie in un’ottica più ampia rispetto al vecchio scontro sociale e anche alla classica contrapposizione destra-sinistra. Essenzialmente era capire su quale problema si giocasse la partita. Non era – pensavo e penso – il persistere delle arretratezze, ma il fatto che l’integrazione dei mercati a livello mondiale metteva in causa quella straordinaria combinazione di fattori per cui in pochi anni l’Italia aveva compiuto il più grande balzo mai avvenuto in così poco tempo nella storia economica dell’Occidente, passando da Paese agricolo, di semianalfabeti, all’ingresso nel gruppo di testa dei Paesi più avanzati. Il problema, quindi, era il modo del tutto peculiare in cui era avvenuta la modernizzazione, cioè sulla base di condizioni interne e internazionali divenute ormai irripetibili. 118

Tra le mie carte ho trovato una nota che scrissi nell’agosto del 1994 per Massimo D’Alema, eletto un mese prima segretario del PDS dopo un serrato confronto con Walter Veltroni. Penso sia giusto riportarla testualmente perché mi pare utile ancora oggi. Il coacervo di forze che si sono raccolte intorno al polo di destra (parlo delle elezioni vinte da Berlusconi che avevano indotto Occhetto alle dimissioni) non è un fenomeno effimero ma l’espressione di fenomeni molto complessi che nascono dal profondo della società italiana quale si è venuta configurando negli ultimi 10-15 anni, fenomeni che la rottura di quel grande involucro che è stata la DC e il suo sistema di potere ha fatto emergere tumultuosamente: spinte al rinnovamento ma anche imbarbarimenti culturali, egoismi sociali, perdita di vecchie identità, paura del futuro. La peculiarità italiana mi sembra consistere nel fatto che quella grande mutazione culturale che ovunque in Occidente spinge a una società più aperta, e anche più individualista, qui non solo demolisce la partitocrazia e quelle che Cacciari chiama le strutture politiche e sindacali del Novecento, ma si incontra e si mischia con quel sottofondo italiano di vecchi e nuovi anarchismi e con modelli e culture che non hanno mai accettato il principio di legalità, l’uguaglianza dei diritti e dei doveri, lo Stato come luogo dell’interesse generale. Il tutto accompagnato dal fatto che, qui come altrove, mentre i poteri e gli ordinamenti dello Stato nazionale si indeboliscono altri e più grandi poteri sovranazionali (dalla finanza alla comunicazione di massa) dominano la scena condizionando sempre più la vita degli individui. Questo è il terreno su cui ci muoviamo. E perciò il problema politico che sta di fronte a noi non è solo la definizione di una politica ma di un progetto costituente. Non basta ragionare con le vecchie categorie, sia politiche (quali partiti, quale schieramento) 119

che sociologiche (quali classi). Dico non basta, non che non servono. E non basta perché quel coacervo di forze che ha dato vita alla maggioranza berlusconiana non è ancora un blocco politicosociale definito ma piuttosto (per ora) l’espressione di un vuoto, cioè della mancanza di una risposta all’altezza del problema grandissimo e inedito che da tempo si è aperto in Italia. Parlo della crisi dello Stato storico, non solo e non tanto come Costituzione formale quanto come tessuto connettivo della nazione. E mi riferisco a quell’insieme di compromessi politici e sociali e di grandi sistemi di regolazione tra Nord e Sud, tra pubblico e privato, tra produttori ed assistiti che non reggono più. Questo è il fenomeno. Esso si manifesta ben prima di Berlusconi e prima ancora del crollo dei vecchi partiti di governo, i quali ancora nelle elezioni del 1992 (2 anni fa) avevano ottenuto la maggioranza dei voti. Anche i giudici vengono dopo, quando cioè la crisi dello Stato ha per così dire autonomizzato i grandi poteri. Se c’è da fare una riflessione autocritica è che la nostra iniziativa non è stata all’altezza del fenomeno. E del resto il successo clamoroso e non previsto della Lega, ancora ai tempi della proporzionale, si spiega solo così. Bossi (a suo modo) si è definito rispetto a questo problema. E questa è la ragione per cui – come dice Prodi – nell’Italia di oggi non esistono errori di governo sufficientemente grandi da esaltare il ruolo di una opposizione che non sia capace di rappresentare una risposta al problema che sta dietro Berlusconi. Che è – appunto – un problema costituente. E, in proposito, io penso che sarebbe necessario spingere di più lo sguardo su che cosa è accaduto non negli ultimi 2 o 3 anni ma nel decennio precedente, nel profondo della società italiana. Lì è stata scritta la storia di oggi. Perché lì, a cavallo degli anni ’80, è avvenuta una grande modernizzazione tra le maggiori che l’Italia abbia conosciuto. Ma quale modernizzazione? Bisogna pur spiegare perché il più grande e rapido arricchimento di larghi strati sociali e l’industrializzazione di nuove 120

regioni si sono accompagnati con l’esplosione del debito pubblico, con un simile degrado dello Stato e dei servizi collettivi e con la condanna del Mezzogiorno all’emarginazione. E perché quella vera e propria mutazione culturale che ha fatto di milioni di giovani italiani dei cittadini europei convive non con vecchie arretratezze ma con l’estensione di fenomeni barbarici come il potere della mafia su interi territori e una illegalità e una corruzione che si sono diffusi come una metastasi. Così è avvenuta la modernizzazione. Sulla base del fatto che mentre, da un lato, le politiche monetarie spingevano le imprese a ristrutturarsi risparmiando lavoro e concentrandosi al Nord (col crollo conseguente degli investimenti industriali nel Mezzogiorno), dall’altro lato, esse venivano compensate con agevolazioni fiscali e con trasferimenti diretti e indiretti senza paragoni in Europa. Al tempo stesso, il regime dominante usava le risorse dello Stato in funzione di un sistema di mediazioni che se al Nord concedeva mano libera alle solite oligarchie (dall’uso della banca pubblica per finanziare vere e proprie avventure, al possesso di tutti i mezzi di informazione) al Sud finanziava i consumi di vasti strati popolari. E sia al Nord che al Sud venivano protetti tutti quei settori terziari e micro-imprenditoriali cresciuti all’ombra della spesa sia dello Stato che delle regioni. In sostanza è nel decennio che il sistema di accumulazione e di distribuzione delle risorse è diventato molto più costoso, profondamente distorto e reso asfittico dal peso crescente del parassitismo. Un sistema caratterizzato, dunque, non da quella lotta eroica tra Stato “cattivo” e mercato “buono” di cui parla la destra ma dal fatto che mentre il mercato veniva distorto, protetto, politicizzato (vedi i retroscena di Tangentopoli) lo Stato e le funzioni pubbliche venivano sempre più privatizzati. Qui sta la spiegazione più vera e più seria della corruzione e anche di quel “mistero” per cui nel decennio il debito pubblico raddoppia mentre la pressione fiscale aumenta di 10 punti (in gran parte a carico del lavoro dipendente) e la qualità 121

dei servizi e lo Stato sociale si riducono. La spiegazione sta nel fatto che non sulla produzione ma sul saccheggio delle risorse pubbliche e su una iniqua redistribuzione del reddito è cresciuta la ricchezza privata. Per cui la nostra riflessione critica fondamentale dovrebbe concentrarsi sul fatto che, nonostante le svolte, il nostro mondo ha continuato a pensare in termini di vecchie divisioni di classe e di una vecchia cultura distributiva (salari-profitti, spesa pubblica, ecc.) la quale cultura non mordeva e diventava sempre più anacronistica dal momento che lo Stato diventava fornitore di rendite invece che di servizi collettivi, la politica monetaria penalizzava i produttori della ricchezza reale, e il risparmio alimentato dall’evasione fiscale trovava impiego nelle attività patrimoniali. Per non parlare della crescita dei settori terziari che non essendo esposti alla concorrenza internazionale godevano di più alti prezzi relativi scaricando sui salari l’onere di contenere l’inflazione. È questo che sconvolgeva sia i soggetti che le logiche del conflitto sociale. E il solo modo per starci dentro, e contare, era passare dal solo terreno del vecchio conflitto distributivo (operai-padroni) a un nuovo terreno: quello della riforma del meccanismo di accumulazione e distribuzione delle risorse (fisco, uso del risparmio, riforma sia dello Stato che del mercato, democrazia economica). Perciò quella rivoluzione culturale che non abbiamo fatto ieri, dobbiamo farla oggi. Perché solo su questo terreno è possibile rimescolare gli interessi e quindi incontrare nuovi alleati. Qui sta la scelta di fondo che dovrebbe costituire la “filosofia” del nostro programma. Un programma europeista ma anche più nazionalista nel senso che solleva la questione di quale futuro può avere l’Italia anche come potenza, oltre che come identità e unità nazionale se passa la politica della destra. Un programma alternativo rispetto alla destra non solo perché la sua politica è iniqua, ma perché essa è al di qua dei grandi fatti che sfidano un sistema come il nostro. 122

Da ogni cosa emergeva la necessità per la sinistra di mettere in campo una cultura politica che non fosse solo il residuo della grande analisi gramsciana sull’Italia del Risorgimento incompiuto e neppure un liberalsocialismo stanco e scavalcato dai fatti italiani e mondiali. Occorreva una nuova lettura del Paese adeguata al processo oggettivo di europeizzazione dell’Italia e al bisogno di ridefinire il suo posto al mondo. Erano i fatti che imponevano una nuova soggettività politica. È da qui, dalla concreta novità della storia, che ebbe origine l’iniziativa di far confluire gli eredi del riformismo socialista e di quello cattolico nel Partito democratico. L’iniziativa venne da Romano Prodi. Nei fatti il processo politico non fu così chiaro. Erano in campo anche altri disegni. Uno, più moderato, che affidava al nuovo partito il ruolo di forza neoliberale; altri, di segno politologico ma nella sostanza presidenzialisti, per i quali il partito era concepito essenzialmente come lo strumento del leader. Tra questi disegni c’era anche un “non disegno”, cioè il concretismo spicciolo e senz’anima di larga parte dei postcomunisti. La verità è che non fummo capaci di affrontare questa prova così rischiosa e così difficile in modo creativo. Chi tentò di farlo fu declassato da politico a intellettuale. Rischiava il ridicolo. Ricordo il disagio che esprimeva Pietro Scoppola a nome di un’area vasta del cattolicesimo democratico, la quale – diceva – rifiuta un «approdo tardivo e subalterno in un partito sostanzialmente socialdemocratico». E altrettanto forti, anche se poco espresse, erano le perplessità di quell’altro mondo che 123

venendo dalla sinistra esprimeva il timore di un ripiegamento moderato. A queste preoccupazioni c’era una sola risposta, che, del resto, fu formulata al convegno di Orvieto ma rimase inascoltata: costruire il Partito democratico non come un nuovo partito, ma come un partito diverso. E diverso perché si pone problemi e affronta sfide molto diverse da quelle su cui si modellarono e si combatterono tra loro le grandi forze politiche del passato. Il problema, quindi, non era solo mescolare le culture, ma rielaborarle, rimetterle alla prova a fronte delle nuove sfide del mondo. La sfida era concepire un soggetto unitario del riformismo come il luogo dove le ragioni del laicismo possano convivere con quelle aspirazioni etiche e religiose che rappresentano la ragione fondamentale per spendere in politica il nome di credente. Ma che cosa voleva dire un “partito diverso”? Sembra incredibile, ma non c’è mai stata una discussione vera negli organismi dirigenti della sinistra né in altre sedi rappresentative. Si arrivò allo scioglimento dei DS e Veltroni, appena eletto segretario del nuovo partito, formò una commissione cosiddetta dei “valori” (l’identità del nuovo partito) e mi chiese di presiederla. Lavorammo intensamente per due-tre mesi. Elaborammo un documento che tentava di ridefinire i valori non in astratto, ma in funzione del profilo storico-politico del partito. A parole fu molto apprezzato. Ma non fu mai discusso. Di esso si sono perse le tracce. Non ripercorro le cronache tormentate del Partito de124

mocratico. Tra le poche posizioni che cercavano di dare un fondamento più serio all’impresa vorrei ricordare quelle di Pietro Scoppola. Egli era ben consapevole della natura di questa impresa difficile. Si tratta – diceva – di portare a compimento quello che lui chiamava «il processo fondativo della democrazia italiana». Un processo sul quale la guerra fredda, i caratteri specifici e gli errori del PCI hanno molto pesato ma non spiegano la singolarità della storia italiana: il fascismo (che viene prima del PCI) e il perché la borghesia italiana si sia affidata ad esso, nonché il fatto che anche dopo il crollo del comunismo e la fine del PCI il Paese non sia tornato ad essere “normale”. Vennero invece in piena luce le contraddizioni e le “incongruenze” della storia italiana. Riemerse dal profondo della società una destra senza storia di tipo non europeo, insieme con i vizi antichi di un popolo restio alla legalità, insofferente dello Stato, e la debolezza dello Stato stesso, lontano dalla società. Sono sue parole. Di qui – diceva Scoppola – l’esigenza del compimento del processo fondativo della democrazia italiana, compimento che solo in parte era avvenuto con la Resistenza e il patto repubblicano e costituzionale, ma che subì un duro colpo con l’assassinio di Moro. Si tratta quindi, necessariamente, di chiamare ad essere protagonisti i soggetti popolari radicati nella storia del Paese in stretta collaborazione con altri filoni del riformismo italiano. E aggiungeva: «Abbiamo un po’ tutti commesso l’errore di immaginare la transizione italiana a un livello esclusivamente politologico; di non vederne le condizioni più profonde culturali ed etiche. Come se il passaggio al maggioritario e 125

al bipolarismo garantisse di per sé il compimento di quello che ho chiamato il processo fondativo della democrazia italiana». Parole profetiche. La democrazia. Questa è la questione delle questioni che condiziona tutto il nostro dibattito e l’avvenire del Partito democratico. Destra, sinistra: queste antiche parole vanno ripensate in rapporto alle cose. Siamo di fronte alla crisi del sistema politico costruito dopo il collasso della Prima Repubblica. E questa crisi è tanto più grave e difficile perché si accompagna a un vero e proprio problema di “rifondazione” della politica, e cioè della libertà degli uomini di decidere del loro destino. Io penso che bisognerebbe parlare così alla nostra gente. Di che cosa abbiamo paura? Di apparire troppo radicali? Ma la radicalità non sta in noi, bensì nei problemi reali. Basta vedere con quale disinvoltura i banchieri hanno rapinato le ricchezze del mondo. Oppure come lo Stato unitario si sta disarticolando e intere regioni del Mezzogiorno si stanno consegnando ai poteri delle mafie. È su cose come queste che si ridefiniscono le ragioni di un grande partito democratico. Si invoca retoricamente il “nuovo”, ma il nuovo è questo. È la natura inedita della crisi italiana. È la necessità di riprendere finalmente il proprio posto nel cuore del conflitto e delle contraddizioni del moderno. È il fatto che l’evoluzione delle cose intensifica le interdipendenze, la complessità, crea reti, moltiplica le informazioni, insomma crea un mondo che non può sopravvivere se non alla condizione che gli uomini convivano tra loro e si facciano carico di 126

nuove responsabilità collettive. E tuttavia non si vedono strumenti nuovi capaci di rispondere al bisogno di governo e alla necessità vitale di una nuova etica pubblica. È in questo vuoto che avanza la destra. Torna la mia domanda: come mettiamo in campo un movimento di forze reali? La sinistra si è logorata in polemiche sterili. È assolutamente vero che il tempo di quello che si è chiamato lo Stato dei partiti è finito. Non si può più governare solo in nome di un blocco sociale. E, in più, governare significa dettare regole e arbitrare una crescente complessità e varietà di poteri (non solo economici). Il che comporta l’uso di agenzie e di strumenti di conoscenza che i partiti non hanno. Pensiamo all’uso che si sta facendo della Rete. Ma fallimentare si è rivelata l’idea che bastasse mettere al posto dei vecchi partiti un “uomo solo al comando” riducendo a ben poco il ruolo e la sovranità del Parlamento. Noi non siamo innocenti se è nato il populismo. Non parla in me il rimpianto per il PCI, ma il bisogno di una struttura dove sia possibile elaborare un progetto politico collettivo e un sistema di idee condivise. Non basta il consenso elettorale raccolto attraverso i “media” da un capo più o meno carismatico. So benissimo che non si possono rifare i vecchi partiti e che per garantire il “governo lungo” della società ci vuole oggi più che mai una pluralità di organismi capaci di mettere in campo un’agenda politica più vasta. Ma un organismo che sia un fattore guida della comunità è più che mai necessario, e quindi abbiamo bisogno di uno strumento radicato nella società e per questo capace di mobilitare forze, intelligenze e passioni. In mancanza di ciò il 127

prezzo che si paga è molto grande. È la rinuncia a prendere decisioni complesse che riguardano un futuro comune. Non bastano i sondaggi. Nei partiti di oggi dove si discutono i bisogni collettivi, dove si pensano come possibili le vere alternative? Parlo di amare esperienze vissute. A me sembra questa, in ultima analisi, la ragione per cui la costruzione del Partito democratico è stata così difficile. Era “senza popolo”. E se prevalesse la tendenza a trasformare il Partito democratico in un assemblaggio di cordate le quali rappresentano alleanze essenzialmente elettorali volte quasi esclusivamente a conquistare le cariche elettive (aspirazione di per sé giusta), la conseguenza sarebbe il venir meno dell’ipotesi stessa di costruire una grande forza a “vocazione maggioritaria”. Quale vocazione maggioritaria può esistere se non c’è spazio per la rappresentanza politica delle classi subalterne? È questo l’esito che io temo diventi inevitabile in un partito non più di militanti. Di fatto, al suo interno i ceti subalterni non contano niente. Contano i notabili, dati anche i costi della politica. E se l’orizzonte è solo quello di una cultura liberista che affronta la questione della giustizia sociale come un problema di “pari opportunità”, le classi subalterne tali resteranno per sempre giacché esse (per ragioni di nascita, di famiglia, di cultura, di luoghi) non possono godere di “pari opportunità”. La rappresentanza politica finisce così con l’essere affidata solo al ceto politico. Le cose che vediamo.

12.

Un nuovo umanesimo

Dunque, è tutta l’esperienza del “riformismo dall’alto” di questi anni che deve essere ridefinita. E bisognerebbe partire da qui, e non dal “cielo” della politica e dalle contrapposizioni personali. Le scelte devono tornare a chiamarsi col loro nome e non con quello delle persone: giustizia, qualità dello sviluppo, ordine democratico. E, se è vero che l’evoluzione delle cose è sempre più condizionata dall’azione dell’uomo moderno e dall’uso che egli sta facendo di una nuova scienza, questo vuol dire che abbiamo bisogno non solo di nuovi capi, ma di un nuovo umanesimo. So che questa parola merita una definizione meno generica. Sento il peso del silenzio di troppi intellettuali. Ma io credo che sia giunto il momento non di elaborare una nuova ideologia, ma di cominciare almeno a porsi il problema di un pensiero che in qualche modo parta dai grandi fatti. Che cosa potrebbe essere o dovrebbe essere nel mondo nuovo la politica? Dopo Machiavelli e l’autonomia della politica non più legittimata dalla Chiesa, dopo la rivoluzione francese e i diritti del cittadino, dopo la scoperta marxiana che la struttura giuridica non è separabile dai rapporti di produzione, è arrivato il momento di capire che 129

non è più sostenibile una politica che non prenda alimento dal bisogno non solo di nuovi diritti, ma di saperi e conoscenze capaci di dare un significato anche morale all’esistenza. Perciò mi chiedo se un nuovo umanesimo non possa rappresentare una sorta di alveo comune nel quale siano in grado di vivere e confrontarsi insieme culture diverse. Io credo di sì, ed è per queste ragioni che vedo la straordinaria importanza dell’apertura di un vero dialogo tra la sinistra e quelle forze le quali sentono che è tempo di rivivere la rivoluzione cristiana come ricerca, come cammino, come spinta alla pace tra gli uomini e alla convivenza tra loro, quindi qualcosa di natura incomparabile con questo miserabile gioco del potere e del denaro che sta sfarinando la società. Non vorrei inoltrarmi in territori che ho frequentato poco. Avverto però che questo passaggio di civiltà mette in discussione valori fondamentali e categorie mentali. Ho sempre pensato che la democrazia non sia solo una “procedura”, ma abbia un contenuto che consiste in una serie di diritti fondamentali, i quali alimentano il cammino sociale e civile delle comunità. Ma diventa allora ineludibile la domanda: quali diritti e in favore di chi, se il soggetto non è più un demos (un popolo) specifico ma, tendenzialmente, l’intero genere umano? Penso, perciò, alla necessità che la democrazia contemporanea trovi il proprio fondamentale principio di legittimazione in una vocazione universalistica, cosa che la distinguerebbe parecchio dalle democrazie del passato. Bisognerebbe allora spostare l’asse dell’uguaglianza dall’economia verso un’etica della specie 130

e un’ipotesi di cittadinanza che superi le asprezze di un mondo così diviso, e diviso non solo tra chi ha e chi non ha, ma tra chi è padrone e chi no del sapere. In definitiva è in questo quadro più vasto, l’orizzonte mondiale, che penso si debba affrontare la crisi italiana. Se il nesso è tra crisi dei partiti come riflesso della crisi della politica e crisi della politica come riflesso della crisi della democrazia moderna, il compito della sinistra italiana è arduo, molto arduo. Al centro di tutto c’è il nuovo rapporto tra l’economia e la società moderna anche a causa del nesso inscindibile con la rivoluzione scientifica e con i meccanismi dell’informazione e della conoscenza. È questo che sta provocando mutamenti fino a ieri impensabili nella antropologia umana e nel rapporto tra uomo e natura. Quindi nella politica. E sta anche determinando – io credo – una metamorfosi del capitalismo. Non si tornerà più al passato. È il modo di essere del capitalismo che sta cambiando, intendendo per capitalismo non l’economia soltanto, ma l’habitat della civiltà non solo materiale ma giuridica, intellettuale e morale in cui siamo immersi, e non da oggi, bensì da qualche secolo. Non parlo, quindi, del mercato, quel meccanismo dello scambio che esiste da millenni in tutte le società umane. Il capitalismo è stato il più grande strumento per lo sviluppo e per la creazione di ricchezza che l’uomo abbia mai inventato. È la trama economico-politica che ha consentito alle società moderne di non essere più regolate dal potere del sovrano o da una qualche morale divina, ma dalla combinazione di diritti e di doveri, di libertà 131

e di obbligazioni sociali. Parlo, insomma, della civilizzazione in cui viviamo e che ha affermato la sua egemonia non solo con la violenza, ma con la capacità di tenere insieme l’egoismo del singolo e quell’altra cosa insopprimibile che è la spinta anche morale e culturale verso l’uguaglianza. Smith e Marx: le due facce che avevano consentito all’Europa di parlare a tutto il mondo. «È proprio questo dualismo del rapporto tra economia e politica – scrive Paolo Prodi – che è ora messo in crisi (e quindi la stessa democrazia) per la tendenza dell’economia a inglobare in un nuovo monopolio del potere tutta la vita dell’uomo». Dunque, è la vita intera dell’uomo che viene direttamente in gioco? Non è poco. E non è un problema da delegare agli economisti. Non vedo come la sinistra, se vuole continuare a esistere, possa sottrarsi a riflessioni nuove. Non credo che si siano misurate tutte le conseguenze del fatto che la cosiddetta finanziarizzazione ha rotto ogni involucro di tipo statuale e ogni contenitore capace di svolgere un controllo pubblico. Ma non voglio fare del moralismo. Non serve a niente. Cercherei piuttosto di capire come stanno cambiando i rapporti umani. Mi sembra ormai vero che il plusvalore ricavato dallo sfruttamento diretto del lavoro operaio è “troppo misera cosa” (la stupefacente profezia formulata da Marx nell’Ottocento) per cui si è posta oggettivamente, non solo eticamente, la questione di un diverso rapporto tra lo sviluppo umano e l’economia. Il cittadino è stato trasformato in consumatore per tante ragioni, ma in fondo perché solo su questo terreno più ampio può avvenire un enorme prelievo di “valore” che scavalca 132

i confini di classe e fa leva su una gamma vastissima di nuovi bisogni e attività umane. Al fondo la grande domanda che noi dovremmo porci è che cosa diventa la politica quando il peso del capitale umano e quello del capitale sociale aumentano in misura così grande e un lavoro sempre più creativo produce non solo profitti per l’imprenditore, ma crea nuove relazioni sociali. Questa è la grande novità. Come può essere così emarginato e perfino umiliato un lavoro che tende sempre più a produrre non solo merci ma servizi, relazioni, divertimenti, a entrare in reti sempre più complesse, a rapportarsi in modo attivo con tutto ciò che rappresenta l’ambiente sociale e culturale che circonda il capitale fisico? La contraddizione politica è stridente, dato che, in realtà, il fatto dominante di questi anni è stato la fine di quella grande conquista del Novecento che abbiamo chiamato “civiltà del lavoro”. Parlo di quell’insieme di diritti, ma soprattutto del riconoscimento in linea di principio (ma non solo) di una pari dignità tra il lavoro e l’impresa. Finiva davvero il secolare rapporto tra padrone e servo, ed era questo che aveva dato alla democrazia politica il suo fondamento. E ora? Perciò io penso che si giochi qui, sui diritti del lavoro, una partita decisiva non solo per la sinistra, ma per la democrazia. A condizione di sapere quale nuova Italia del lavoro stia davanti a noi. È una Italia di giovani che non trovano più posti stabili, ma iniziano lo stesso a lavorare in modo nuovo, ingrossando le file del lavoro autonomo, parasubordinato, o si mettono in proprio come artigiani e piccoli imprenditori. Un’Italia di nuovi poveri ma anche di 133

operai più qualificati. Di lavoratori autonomi tra i quali cresce la componente dei nuovi mestieri. Di tre milioni e mezzo di imprese che occupano quasi quattordici milioni di persone. Un mondo che ha minori vincoli, ma anche pochissime tutele, che vive in modo intenso la necessità di affermare una identità professionale e che, quindi, ha un drammatico bisogno di formazione, per riprodurre appunto la sua professionalità. Un mondo che si distacca dalla politica e dai partiti non perché non abbia bisogno dello Stato ma, al contrario, perché questo non risponde alle sue domande. Un mondo che tuttavia esprime anche grandi spinte solidaristiche (molti milioni di persone fanno volontariato) e una nuova coscienza civile; un mondo dove il comparto delle professioni e della managerialità è quello in più forte crescita e dove, al tempo stesso, entrano, vivono e lavorano masse crescenti di donne e uomini di altre razze e altre religioni, molti dei quali trattati come bestie. I nuovi schiavi. Senza una nuova guida e senza un’idea dello “stare insieme” queste forze non verranno spontaneamente a noi. Bisogna parlare più forte. La verità è che siamo di fronte a un passaggio molto difficile. Mi è capitato di discutere tante volte con Bruno Trentin del fatto che questo straordinario intreccio fra lavoro e conoscenza è ciò che obiettivamente accresce la capacità di scelta e, quindi, la creatività e la libertà, e che sta qui la grande risorsa su cui fare leva. Essa però è solo una potenzialità, un esito possibile ma niente affatto scontato delle trasformazioni in atto nelle economie e nella società contemporanea. Ma è la sfida. È vero che nelle società mo134

derne il lavoro non è tutto. Ma nemmeno l’imprenditore è tutto. È l’uomo, l’individuo moderno che pensa e che vuole affermare se stesso e il suo ruolo nella società: questo sì a me pare sempre più l’attore centrale, il protagonista. Sta qui il nuovo campo di iniziativa politica per il partito riformista moderno. Solo così diventa chiaro perché non ci rivolgiamo soltanto ad una parte ma vogliamo rimettere in relazione le ragioni della libertà individuale e quelle della comunità. Vogliamo costruire la comunità contro le spinte dissolutive e difendere l’autonomia e la dignità della persona contro i meccanismi di alienazione. Questo è il riformismo. Perciò non è strano che un vecchio comunista si domandi cosa succede se viene in discussione il presupposto morale e umano delle economie di mercato. In realtà io comincio a chiedermi dove stia andando lo sviluppo umano dopo che per decenni la cultura dominante ci ha fatto perfino vergognare per aver pensato a una lotta per cambiare il mondo. Non mi interessa affatto la nuova moda di parlare male del mercato. Quale mercato? Il mercante italiano del Rinascimento rappresentò quel salto di civiltà che sappiamo perché non speculava soltanto sul divario tra domanda e offerta, ma scopriva mondi, persone, bisogni, e vinceva grazie alla sua superiorità culturale. Con quei profitti costruiva i palazzi rinascimentali e pagava i quadri di Raffaello e Michelangelo. La mercatura era per i tempi di allora libertà, uscita dal Medio Evo. E più tardi, non a caso il liberismo nacque con Adamo Smith, che era un filosofo morale. E giustamente si chiamava così perché la rottura dei vecchi vincoli corporativi comporta135

va l’affermazione della autonomia della persona e, quindi, della sua libertà. È stato quel mercato a consentire che si formassero le istituzioni rappresentative e i diritti uguali. Perciò io mi chiedo quale cambiamento sia in atto e quale metamorfosi stia subendo ciò che chiamiamo capitalismo. Certo è che oggi noi assistiamo a uno stravolgimento della mappa sociale non riducibile all’aumento delle diseguaglianze. È vero che centinaia di milioni di persone (forse due miliardi) sono uscite dalla povertà estrema. Sono entrate nella storia. È un fatto enorme. Ma non si tratta solo di questo. Che tipo di umanità si va creando sulla base della formazione di una oligarchia di super-ricchi paragonabili per la follia dei loro lussi alle vecchie aristocrazie prima della rivoluzione francese? E ciò insieme alla perdita di status e di tutele per la gran parte delle classi medie e, contemporaneamente, alla formazione di una nuova miseria materiale ma anche morale e culturale per l’uso di milioni di emigranti quali sottouomini? E se penso a strabilianti conquiste della scienza medica che solo in cliniche per super-ricchi si potranno applicare mi chiedo se non vedremo anche la nascita di super-razze. Tutto questo non va bene. Per non parlare dei “limiti dello sviluppo”. È vero che li stiamo toccando? Se è così non mi basta leggere le statistiche le quali ci dicono che la povertà è diminuita, almeno in senso relativo. È vero, ma in realtà stanno nascendo altri interrogativi.

Epilogo

Il midollo del leone

Troia non c’è più. Enea l’ha abbandonata senza mai guardarsi indietro ma porta il vecchio padre Anchise sulle spalle. Affronta un lungo viaggio attraverso mille pericoli e luoghi sconosciuti. Ma la sua meta è chiara. Deve sbarcare alla foce del Tevere per fondare una nuova città: Roma. E Roma non sarà una colonia di Troia ma l’inizio di una civiltà nuova. Però egli non abbandona i sacri penati (ciò che dà un senso alla sua vita) né il vecchio padre. Senza di loro Enea non sarebbe niente. Ecco che cosa mi ha spinto a pensare queste note, le quali non hanno altro scopo che ridefinire un qualche nuovo terreno per il nostro ragionare. Con questo eterno tatticismo non andiamo più da nessuna parte. Prima o poi anche i più “realisti” tra i dirigenti di questa sinistra così timorosa di Dio si renderanno conto che una nuova cultura politica e un nuovo soggetto politico sono necessari. Noi possiamo discutere come vogliamo sui nomi, ma la necessità di una forza di “sinistra” sta nei fatti, a meno che non lasciamo ad altri il ruolo dell’antagonista rispetto a un mondo troppo ingiusto. È così, alla luce di questi pensieri, che io ricordo le vicende mie e della mia generazione. Ed 137

è in questo modo (tra passato e presente) che vorrei parlare ai miei nipoti: Nina, Bianca, Alfredo, Vito, Fusciù. Guardo una vecchia foto del 1943. È l’immagine della III E del liceo Torquato Tasso, dove ho preso la licenza liceale. Manca solo un mese al 25 luglio. In mezzo a noi ragazzi c’è il preside, il cui titolo d’orgoglio era di essere stato il professore dei figli di Mussolini. È stato lì, al Tasso, che ho percorso gli anni della formazione scolastica. Fu quello il teatro sul quale si è formata la mente di me ragazzo. Ma chi erano i ragazzi di allora? Il mondo in cui vivevamo era molto diverso, molto più chiuso nelle pareti familiari. Il nostro modo di vivere non conosceva il fiume dei consumi e dei desideri. Abitavamo case nelle quali non c’erano né TV né DVD, dove anche nelle famiglie borghesi si facevano risuolare le scarpe e si rammendavano i calzini. Finalmente si usciva di casa e si andava al liceo. Nuovi orizzonti si spalancavano. Non solo si studiava (io ricordo lo studio come una cosa seria), ma si formava la piena dei sentimenti, delle grandi amicizie tra maschi e della scoperta delle ragazze: sguardi, tremori, timide attese alla fermata del tram facendo finta di niente. Dico cose che tutti hanno provato. Ma nella Roma di quegli anni il “Regio Liceo-Ginnasio Torquato Tasso” svolse un ruolo singolare. Era la scuola dei figli del duce, ma fu anche il luogo della formazione di una nuova élite che nasceva in quegli anni finali del fascismo. Vi arrivavano i figli di un nuovo impasto di borghesia in parte fattasi ricca all’ombra del fascismo e dei suoi affari (gli appalti, le forniture per la guerra), ma in parte espressione di un mon138

do professionale che aveva letto Croce, che guardava all’Inghilterra e a Parigi e, almeno in parte, era già percorsa dai fermenti dell’antifascismo e dai nuovi bisogni di libertà e di cultura. C’era il preside fascista, ma c’era anche una maggioranza di professori che bastava ascoltare le loro lezioni per capire con quanto fastidio guardassero ai “fasti dell’Impero”. C’erano, soprattutto, i compagni di scuola. Ed essi sedevano accanto a me, in quei banchi, ancora del tutto ignari delle prove terribili che li attendevano, delle vere e proprie tragedie a cui sarebbero andati incontro. Era il giugno del 1943. Nel tempo breve delle settimane ci furono l’arresto di Mussolini, l’8 settembre e la dissoluzione dello Stato, e quindi la necessità di schierarsi a fronte di scelte drammatiche nelle quali i destini del Paese – il problema di come sottrarlo alla sorte dei vinti – non si potevano più separare dai destini personali di ciascuno. Molti di quei ragazzi erano destinati a morire. È così che io torno a guardare quei volti ridenti che si affacciano dalla foto ingiallita. Il mio amico carissimo Piero, che con enorme sorpresa scoprii essere ebreo il giorno in cui fu cacciato dalla scuola dai “difensori della razza”. Ma soprattutto il volto di Luigi, il mio compagno di banco e fratello di Giaime Pintor, insieme al quale scoprivo i libri, facevo i grandi pensieri, e poi combattei fianco a fianco tra i partigiani, e poi ancora ci ritrovammo nella redazione dell’«Unità». Era un ragazzo davvero straordinario e ne parlo perché vorrei che lo avessero conosciuto i tanti simili a lui, che certamente esistono e che ormai devono de139

cidersi a prendere la parola. Erano gli anni in cui si capiva che il fascismo si avviava al tramonto, la guerra appariva ormai perduta e, fra tante cose, resta in me la sensazione fisica della città oscurata e del grande freddo nelle case. I Pintor venivano da Cagliari e l’arrivo di Luigi spalancò i nostri orizzonti, li portò in luoghi che per i ragazzi di allora erano sconosciuti e inesplorati. A casa sua, in via Nizza, nella stanza dei nostri compiti scolastici passava Giaime, il fratello maggiore, ufficiale addetto alla commissione d’armistizio. Era tra i redattori della Casa Einaudi, traduceva Rilke e ci portava dalla Francia occupata i dischi di Stravinskij, le poesie di Eluard. A me regalò un libretto di un certo Lénine, intitolato Le “gauchisme”, maladie enfantine du communisme. A Cesare Pavese Giaime faceva leggere le mie poesie. Misha Kamenetzky (Ugo Stille) raccontava storie straordinarie. Un amico di Giaime, un grande musicologo, aveva l’incarico di fare di Luigi un pianista e curava la nostra “educazione sentimentale”. Ci faceva leggere i libri censurati dal fascismo. E non posso dimenticare quei libri e quei film che cambiarono le nostre menti: le poesie di Rilke; il sapore del sangue d’Europa che trasudava dalla pagine dei Proscritti di Ernst von Salomon (le cronache dell’assassinio di Rosa Luxemburg e di Walter Rathenau); i libri di Vittorini e la scoperta della scrittura tesa, vibrante, asciutta, piena di libertà e di vita dei racconti di Hemingway, così diversa dal carduccianesimo dei nostri professori di italiano. La grande emozione quando leggemmo gli Ossi di seppia. Dove sta il rimpianto? Dopotutto, la nostra parte l’ab140

biamo fatta. Luigi era il nostro capo ed è lui che ci portò da Lucio Lombardo-Radice per prendere contatto con il PCI clandestino. Passò solo un anno ed egli venne a casa da me in quella sera tristissima del dicembre 1943, prima del coprifuoco, per dirmi che Giaime era morto, dilaniato da una mina mentre attraversava le linee sui monti dell’Alto Volturno. Decidemmo che a noi spettava prendere le armi che erano cadute dalle sue mani. Noi avevamo 18 anni, Giaime ne aveva 4 o 5 di più. E Giaime resta per me il simbolo di una generazione. Forse non una intera generazione, ma certo una schiera di giovani uomini che ha pensato il mondo in modo molto diverso dagli schemi che ci ha cucito addosso la guerra fredda. Erano comunisti? Ecco che ritorna in me il bisogno di ripensare i nomi e le cose. Guardavamo all’America di Vittorini e non a Mosca. Era la nuova Europa che sarebbe uscita dalla guerra il pensiero dominante che Giaime ci trasmetteva. Egli era il più moderno e il più libero da schemi ideologici, tra tante persone che ho conosciuto. Ciò che colpiva era la purezza e la freschezza della sua personalità; un po’ come Piero Gobetti. Era più avanti di tutti, più avanti anche degli antifascisti che egli considerava dei sopravvissuti, gli antifascisti storici che incontrava nella casa in Prati dello zio Fortunato: i Bonomi e i Ruini. Era convinto (sono parole sue) che la sua generazione «non avesse sete di trascendenza, di lotta col demone, di miti eroici e di sublimi errori». Essa, scriveva, «lascia ai vecchi intellettuali delusi questa confusione di propositi; le convinzioni religiose e il distacco dal mondo. Posta di fronte a dei problemi vitali, 141

educata fra avversità e sensibilità, l’ultima generazione non ha tempo di costruirsi il dramma interiore: ha trovato un dramma esteriore perfettamente costruito. Solo sfruttando le armi di questa sua esperienza, unendo una estrema freddezza di giudizio alla volontà tranquilla di difendere la propria natura, essa potrà sfuggire alla condizione di servitù che si prepara per le minoranze inutili». Sono sue parole. E credo che così bisognerebbe parlare oggi alle nuove generazioni. Conservo insieme alla prima edizione delle poesie di Pavese questo frammento di uno scritto di Italo Calvino: «L’esempio di Pintor, una delle tempre umane più estranee e opposte al decadentismo, all’evasione, all’ambiguità morale, e che pure veniva da un’educazione letteraria che era quella di tutto il decadentismo europeo, ci testimonia come in ogni poesia vera esiste un midollo di leone, un nutrimento per una morale rigorosa, per una padronanza della storia. L’avara presenza del bello e del bene, questo è il midollo di leone che Pintor, traduttore di Rilke, lettore di Montale, morse dalla civiltà letteraria che l’aveva preceduto. Questa è la lezione di uno stile che si trasferì nell’azione e nell’intelligenza storica». Di questo “midollo del leone” c’è un gran bisogno. Se Vittorio Foa fosse ancora vivo e mi rivolgesse di nuovo quella domanda («Credevate nella rivoluzione?») io risponderei con questi pensieri.

Indici

Indice dei nomi

Alicata, Mario, 62. Amato, Giuliano, 86. Amendola, Antonio, 27. Amendola, Giorgio, 25, 39-40, 58. Andreatta, Beniamino, 51. Andreotti, Giulio, 86.

Churchill, Winston Leonard Spencer, 67. Codacci Pisanelli, Alfredo, 77. Cooper, Gary, 31. Craxi, Bettino, 105-106, 108, 111112. Croce, Benedetto, 73, 139.

Badoglio, Pietro, 67. Balbo, Felice, 62. Barca, Luciano, 26. Bassolino, Antonio, 35. Becattini, Giacomo, 63. Bentivegna, Rosario, 65. Berlinguer, Bianca, 107. Berlinguer, Enrico, 5-6, 105-112, 114. Berlusconi, Silvio, 6, 55, 75, 90, 119-120. Biscione, Francesco, 50. Bonomi, Ivanoe, 141. Bossi, Umberto, 55, 120. Bufalini, Paolo, 27, 34. Cacciari, Massimo, 119. Calamandrei, Franco, 59. Calvino, Italo, 45, 142. Cassano, Franco, 38. Cesarini Sforza, Marco, 65. Chiarini, Antonella, 38. Chiaromonte, Gerardo, 111.

D’Alema, Massimo, 119. De Felice, Franco, 38. De Gasperi, Alcide, 53, 74, 76, 113. De Giovanni, Biagio, 38. De Luna, Giovanni, 52. De Rosa, Gabriele, 71. De Sanctis, Francesco, 93. De Santis, Giuseppe, 62. Di Vittorio, Giuseppe, 29. Eluard, Paul (pseud. di Eugène Emile Paul Grindel), 140. Ercoli, Ercole (pseud. di Palmiro Togliatti), 57-58, 67. Fellini, Federico, 45. Ferrara, Giovanni, 29. Ferrara, Mario, 29. Ferrara, Maurizio, 29. Fini, Léonor, 59. Foa, Vittorio, 7, 21, 73, 142. Formica, Rino, 111.

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Garboli, Cesare, 54. Gedda, Luigi, 76. Giolitti, Giovanni, 51, 55, 86. Gobetti, Piero, 141. Gorresio, Vittorio, 71. Gotor, Miguel, 41-43. Gramsci, Antonio, 38, 46-47, 93, 103, 114-115. Graziani, Rodolfo, 59. Guttuso, Renato, 27, 46, 64. Hemingway, Ernest, 140. Hitler, Adolf, 53, 65. Ingrao, Pietro, 5, 25, 27, 30-35, 62, 83.

Monelli, Paolo, 60. Montale, Eugenio, 62, 142. Morandi, Giorgio, 46. Moravia, Alberto, 27, 45, 64. Moro, Aldo, 41, 50-51, 103, 109110, 113-115, 125. Mussolini, Benito, 56, 73, 138-139. Napoleoni, Claudio, 99-102. Napolitano, Giorgio, 25. Natoli, Aldo, 27. Nenni, Pietro, 29, 74. Nixon, Richard, 81. Novella, Agostino, 25-26. Obama, Barack, 97. Occhetto, Achille, 35, 101, 119.

Jotti, Nilde, 31. Kennedy, John Fitzgerald, 79. Kesselring, Albert, 56. La Malfa, Ugo, 34. Labriola, Antonio, 23, 38, 93. Laterza, Vito, 38. Lenin (Lénine), Nikolaj (pseud. di Vladimir Il’icˇ Ul’janov), 58, 140. Levi, Carlo, 64. Lombardi, Riccardo, 34, 104. Lombardo-Radice, Lucio, 27, 62, 141. Longo, Luigi, 25, 33. Luxemburg, Rosa, 140. Machiavelli, Niccolò, 107, 129. Mafai, Mario, 27, 46. Mafai, Miriam, 21. Malagodi, Giovanni, 86. Mao Tse-Tung, 81. Martelli, Claudio, 67-68, 111. Marx, Karl, 28, 96, 132. Menichetti, Arnaldo, 29. Michelangelo Buonarroti, 135.

Pajetta, Giancarlo, 70. Parboni, Riccardo, 86. Pavese, Cesare, 62, 140, 142. Piccardi, Leopoldo, 56. Pintor, Giaime, 28, 56, 58, 62, 139142. Pintor, Luigi, 56, 59-60, 107, 139141. Pintor, Pietro, 60. Pio XII (Eugenio Pacelli), papa, 53, 74. Pisacane, Carlo, 28. Porro, Carolina, 66. Porro, Luisa, 66. Prodi, Paolo, 132. Prodi, Romano, 120, 123. Puccini, Dario, 57. Puccini, Gianni, 57. Raffaello Sanzio, 135. Rathenau, Walter, 140. Reagan, Ronald, 85. Reichlin, Alfredo, 26. Rilke, Rainer Maria, 62, 140, 142. Rodano, Franco, 99.

146

Rogers, Ginger, 62. Ronconi, Luca, 21. Rossellini, Roberto, 45. Ruffolo, Giorgio, 67, 86. Ruini, Meuccio, 141. Rusconi, Gian Enrico, 118. Saffo, 34. Salazar, Antonio de Oliveira, 74. Salomon, Ernst von, 140. Salvemini, Gaetano, 39. Santostasi, Mario, 38. Saragat, Giuseppe, 74. Satta Flores, Stefano, 64. Scalarini, Giuseppe, 69. Scalfari, Eugenio, 64, 71. Scoppola, Pietro, 107, 123, 125. Sechi, Angelo, 59. Segni, Celestino, 107. Sicolo, Tommaso, 5. Siglienti, Stefano, 107. Smith, Adam, 96, 132, 135. Spano, Velio, 65. Spaventa, Bertrando, 38. Spini, Valdo, 111.

Stalin (pseud. di Iosif Vissarionovicˇ Dzˇugasˇvili), 24, 28, 57, 63. Stauffenberg, Claus von, 65. Stendhal (pseud. di Henri-Marie Beyle), 69. Stille, Ugo (pseud. di Mikhail Kamenetzky), 62, 140. Stravinskij, Igor Fëdorovicˇ, 140. Sturzo, Luigi, 12, 115. Terenzi, Amerigo, 69. Thatcher, Margaret, 85. Togliatti, Palmiro, 5, 12, 23, 25, 3134, 37, 62, 66-70, 74-76, 108. Trentin, Bruno, 26, 82-83, 104, 134. Turati, Filippo, 12, 55. Vacca, Beppe, 37. Veltroni, Walter, 119, 124. Vico, Giambattista, 38. Visconti, Luchino, 45, 62. Vittorini, Elio, 140-141. Zangheri, Renato, 111. Zˇdanov, Andrej, 28.

Indice del volume

1. Il tempo lungo che ho vissuto

3

2. Credevamo nella rivoluzione?

21

3. Come eravamo

27

4. In Puglia

37

5. Fame di Italia vera

49

6. Il «Corriere della Sera» del proletariato

65

7. Un Paese diviso. DC e PCI

73

8. Il ’68 e la rivoluzione conservatrice

79

9. Il riformismo dall’alto e il nuovo Sovrano

89

10. Enrico Berlinguer

105

11. La crisi della democrazia

117

12. Un nuovo umanesimo

129

Epilogo. Il midollo del leone

137

Indice dei nomi

145 149