Il mestiere dell'antropologo. Esperienze di consulenza tra istituzioni e cooperazione allo sviluppo 8843062131, 9788843062133

Il volume presenta esperienze e riflessioni di alcuni antropologi italiani che in diversi momenti della loro carriera si

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Il mestiere dell'antropologo. Esperienze di consulenza tra istituzioni e cooperazione allo sviluppo
 8843062131, 9788843062133

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n mestiere dell'antropologo Esperienze di consulenza tra istituzioni e cooperazione allo sviluppo A cura di Francesca Declich

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Indice

Introduzione. La consulenza antropologica tra istituzioni internazionali e organizzazioni non governative

di Francesca Declich N ote e riflessioni sulla consulenza antropologica

di Antonino Colajanni

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Per chi parla l'antropologo. Legittimità della ricerca tra i marginali dello sviluppo partendo da un caso in Mauritania

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di Riccardo Ciavolella Le perizie antropologiche in Brasile: una sfida fra responsabilità sociale e patrimonio disciplinare

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di Filippo Lenzi Grillini Il ruolo dell'antropologo-consulente presso le organizzazioni internazionali

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di Viviana Sacco Tra il podere e il mercato. Analisi di una "buena practica" del PESA-Guatemala tra i Ch'orti di Jocotan

di Patrizio Warren Testimone, mediatore o attore? Scene da una storia di cooperazione e antropologia

di Gabriella Rossetti

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IN DICE

Acque torbide. Retoriche partecipative e saperi esperti nei progetti idrici della valle del Giordano

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di Mauro Van Aken Potenzialità e tensioni nel rapporto tra antropologia e cooperazione. Un'esperienza in progetti di rimboschimento in Ghana

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di Stefano Boni Dal projèssional stranger all'antropologo professionista

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Gli autori

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di Mariano Pavanello

Introduzione. La consulenza antropologica tra istituzioni internazionali e organ1zzaz1on1 non governat1ve .

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.

.

di Francesca Declich�

Perché questo libro si intitola Il mestiere dell'antropologo? Semplicemente perché la professione "antropologo/a" in Italia è poco conosciuta sia che venga svolta in un contesto accademico sia che si eserciti in un ambito ap­ plicativo. Nell'immaginario di chi ha sentito parlare dell' antropologia sono spesso presenti stravaganti figure a metà tra i ricercatori e gli esploratori che, nel bel mezzo di paesaggi esotici, lavorano con popolazioni di paesi lontani scrivendo taccuini, fotografando e registrando. In un immaginario più vetusto gli antropologi viaggiavano equipaggiati di strumenti di rileva­ zione per misurare le dimensioni dei crani e di altri aspetti fisiognomici allo scopo di classificare le cosiddette razze umane alla stessa stregua delle altre specie biologiche. Altri ancora, memori di corsi di antropologia fisica seguiti magari per un corso di pubblica sicurezza o per la laurea in medicina, awi­ cinano il lavoro degli antropologi a quello di chi associava i caratteri della fisionomia a caratteri psicologici in una prospettiva lombrosiana. L'antro­ pologia è oggi invece qualcosa di ben diverso e coloro che hanno studiato dopo gli anni Settanta del 1900 tendono a concepirla come una disciplina estremamente affascinante che si occupa di popolazioni lontane da noi e ci aiuta ad accostarci ai concetti filosofici e alle forme artistiche e culturali di queste popolazioni. Di fatto però non immaginano che cosa nel concreto faccia un antropologo/a al lavoro. In realtà la maggior parte di coloro che si laureano in antropologia non saranno impegnati in ambito accademico o nella ricerca e, pertanto, possono trovare utile leggere testi scritti da antro­ pologi che si sono cimentati nei diversi settori della disciplina antropologica applicata, da quello della cooperazione allo sviluppo a quello del lavoro nelle istituzioni statali . Questo libro, dunque, presenta riflessioni di diversi antropologi italiani su questo tipo di esperienze. I laureati in antropologia che svolgono un lavoro attinente ai loro studi sono per la maggior parte antropologi applicati . Già agli inizi degli anni Novanta (Frankel, Trend, 1991) , la percentuale degli antropologi che negli Stati Uniti lavoravano al di fuori dell'ambito accademico superava quella di quanti lavoravano all'interno di essa. Molto spesso in Italia i laureati in antropologia, se non trovano impiego nelle università, non lavorano nean-

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che in campi strettamente legati alla loro disciplina. Un libro come questo può suggerire a chi si laurea nella nostra disciplina in Italia alcuni dei cam­ pi dell'antropologia applicata e alcuni dei risultati ai quali si può aspirare quando ci si muove in questo settore. Il fatto che la consulenza antropologica sia un' attività abbastanza re­ cente e relativamente poco diffusa in Italia non significa che lo stesso sia per tutti i paesi europei . In Norvegia, ad esempio, la scuola di antropologia sociale, fondata da Fredrik Barth, sin dai suoi inizi si è proposta come di­ sciplina di sostegno per gli studi applicati e come riferimento per l'impiego in alcuni ministeri, ad esempio per gli studi sull'integrazione e le politiche dell'immigrazione , dove si è incardinata nel ruolo di disciplina applicata ben più che la sociologia. In Norvegia esistono numerosi antropologi che lavorano come tali per le istituzioni dello Stato non solo come consulenti, ma come veri e propri funzionari. La professionalità antropologica, dun­ que, è stata affermata molto presto diversamente da quanto è awenuto in ltalia2• In Francia da molti anni gli antropologi lavorano e interagiscono con i servizi sociali legati all'integrazione degli immigrati nel campo della etnopsichiatria e molta, e oggi anche controversa, è la letteratura che vi fa riferimen to3• Detto questo, credo non ci si possa più esimere da una riflessione sull'in­ dotto nel quale vengono impiegati coloro che si laureano nelle discipline antropologiche in Italia e su quale potrebbe essere la preparazione antro­ pologica più adeguata da offrir loro. In un articolo pubblicato nel "Journal of the Royal Anthropological lnstitute" del 2007, Paul Sillitoe analizzava i motivi per i quali nel Regno Unito non si possa più tralasciare una riflessio­ ne sulla utilità e sulle possibili applicazioni della disciplina nel campo dei servizi sociali anche in comparazione con altre discipline adiacenti, quali, ad esempio, la sociologia, la psicologia e la geografia. Sono le istituzioni acca­ demiche britanniche stesse e i sistemi di valutazione interna che richiedono a coloro che insegnano di chiarire tali motivazioni per poter difendere la disciplina all'interno degli atenei di fronte al continuo restringimento delle risorse, che, pur riprovevole, si sta verificando. In quell' articolo di Sillitoe c'è una difesa senza riserve del lavoro degli antropologi e dell'importanza della loro collaborazione con tecnici e specialisti di altre discipline. Non sono poi da sottovalutare le influenze dell'antropologia applicata sulla disciplina antropologica anche accademica e dell'antropologia sulle istituzioni che impiegano gli antropologi applicati ma una seria riflessione teorica circa tali influenze può venire in seguito ad una consuetudine di pra­ tica che in altri paesi è molto più diffusa che nel nostro. Ne è testimonian­ za il lavoro prodotto da Andrew Strathern (2ooo) , dal quale risulta chiaro che l'occasione di impegnarsi nell' antropologia applicata influisce anche sui temi che vengono trattati in ambito accademico; in realtà, in alcuni casi

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riguardanti gli antropologi che lavorano in Australia e in Nuova Guinea la consulenza è qualcosa con la quale costoro si debbono confrontare anche quando svolgono autonomamente le loro ricerche sul campo, dal momento che vengono spesso avvicinati da operatori di compagnie minerarie che de­ siderano che un antropologo/a medi per loro conto con gli aborigeni. Dun­ que il contesto della consulenza relativa a progetti di cambiamento pianifi­ cato, richiesta agli antropologi spesso col ruolo di mediatori tra gli interessi degli aborigeni e quelli delle compagnie, è una situazione di fronte alla quale questi ricercatori sono chiamati a scegliere in ogni caso (Strathern, 2000, pp. 3-19) . Rifiutarsi di assumere il compito significherebbe che qualcun altro, probabilmente meno preparato, verrebbe chiamato a svolgerlo. Impossibile dunque esimersi dal confronto con ciò che l'antropologia applicata richiede. Per contribuire dunque alle riflessioni di cui sopra, questo libro presen­ ta gli studi, le esperienze e le considerazioni, di alcuni antropologi italiani che si sono confrontati con i contesti pratici dell'antropologia applicata, so­ prattutto nell'ambito dello sviluppo pianificato, e che hanno dovuto affron­ tare i dilemmi e le problematiche che ci si pone in quanto antropologi in tali contesti. Tra le questioni in causa c'è l'uso di metodologie di ricerca basate sulla confidenza con persone che si sottopongano a studio consapevolmen­ te, o talvolta anche inconsapevolmente con il semplice atto di entrare in relazione con il ricercatore; i risultati di tali ricerche, però, vengono alla fine usati in ambiti sconosciuti a consapevoli o inconsapevoli interlocutori e talora anche all'antropologo. Tra le altre implicazioni c'è la possibilità di diventare a volte testimoni di processi di mutamento pianificato considerate dall'antropologo stesso sbagliate per lo sviluppo delle popolazioni coinvolte e che non si hanno strumenti per re-indirizzare, e, nel peggiore dei casi, il fatto che possa essere richiesto, in corso d'opera, un prodotto del quale non si condividono i contenuti . Alcuni problemi etici che tutto questo può comportare possono trovare soluzioni nella trasparenza degli obiettivi di mutamento che si perseguono e nella consapevolezza delle teorie del muta­ mento sottostanti agli obiettivi proposti nei progetti di sviluppo pianificato nei quali si è impegnati. In Italia coloro che si sono misurati con il lavoro della consulenza an­ tropologica hanno sviluppato ognuno per proprio conto strategie relative alle decisioni da prendere nei diversi contesti, ma certamente mancano spa­ zi di riflessione associativi e/o accademici . Per favorire lo scambio di idee chi scrive ha organizzato all'Università di Urbino nella primavera del 2008, presso la Facoltà di Scienze Politiche, un seminario dal titolo Antropolo­ gia e sviluppo: il tema della consulenza antropologica4• Nel seminario è sorta l'esigenza di svolgere una sessione partecipativa sui desideri e gli obiettivi possibili della consulenza antropologica, poiché sembrava cosa utile nel cor­ so del seminario svolgere anche un momento partecipativo che favorisse il

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pensiero creativo dei presenti riguardo a questa professione che si apprende più in corso d'opera che in sede universitaria. Un a parte della filosofia di questo libro risiede nel desiderio di creare ponti tra chi si muove principalmente nel campo dei servizi o delle attività di sviluppo e chi opera in quelle accademiche; si vuole dunque tentare di far dialogare i due ambiti e creare legami tra il contesto delle attività forma­ tive universitarie e quelle delle pratiche dell'antropologia sul campo attive nelle istituzioni e nelle organizzazioni non governative (ONG) , sia attraverso la libera professione che tramite l'impiego nel settore pubblico, e a livello internazionale e a livello nazionale. Considero dunque in maniera critica ma interlocutoria la visione di Escobar descritta nel suo Encountering Develop­ ment (1995) e prendo come punto di vista, assieme a Grillo e Stirrat, quello secondo cui lo sviluppo «non è sempre l'industria oppressiva, "dall'alto ver­ so il basso" , "industria" monolitica descritta in alcuni resoconti, ma piutto­ sto un processo sfaccettato, multivocale e complesso luogo di contestazio­ ne» (Escobar, 199 5 , p. vrn). Olivier de Sardan (1995) ha scritto sulle difficoltà di creare questi ponti il cui ruolo di collegamento resta più nei desideri di chi intende lanciarli che nella concreta possibilità di realizzare una comuni­ cazione efficace tra i due mondi, i quali vivono di logiche operative diverse, logiche sottostanti ai due ambiti di attività. Tuttavia, non vedo buoni motivi per non tentare questo ravvicinamento, considerando che la caratteristica avversione per l'impegno applicativo dell' antropologia in Italia ha radici di­ verse dal desiderio di tenere separate la torre d' avorio dell'accademia, di cui parla Olivier de Sardan, dall'applicazione pratica della disciplina. Gli antro­ pologi italiani demartiniani del dopoguerra storicamente non hanno rifiuta­ to di svolgere un ruolo politico, seppure in senso lato, perché si sono messi in gioco nella posizione di intellettuali organici nel riscoprire e valorizzare le culture regionali non egemoniche. Il timore diffuso tra tali antropologi è sta­ to piuttosto quello di potersi rendere complici di politiche e scelte nefaste nei confronti dei popoli oggetto di studio. Un esempio di tale possibile con­ nivenza da scongiurare è quella rappresentata dal caso americano verificato­ si tra il 1964 e il 1965 del progetto Camelot, nel quale si prevedeva lo studio delle associazioni popolari e dei movimenti rivoluzionari nella prospettiva di impedirne le potenzialità insurrezionali5 (Nisbet, 1966, p. 405) . Altra pre­ occupazione è stata quella di evitare di prendere una posizione di dominio nei confronti di coloro che , studiati, costituiscono una fonte di conoscenza. La consulenza antropologica in alcuni recenti studi anglofoni

In ambito anglofono il tema della consulenza è stato oggetto di analisi antro­ pologica in una serie di saggi pubblicati individualmente e in raccolte. Una collezione di articoli è stata pubblicata nel 2oo1 nella rivista "Social Analysis "

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dell'Università di Adelaide (Strathern, Stewart, 2001)6 e in un numero spe­ ciale della rivista " Critique of Anthropology" del 20007• I contributi relativi alla prima raccolta sono legati all'esperienza di alcuni antropologi in Austra­ lia, dove spesso, come appena detto, questi professionisti vengono chiamati a mediare tra le popolazioni e le compagnie minerarie che intendono sfrut­ tare i terreni nei quali tali popolazioni vivono da tempi ancestrali. Certe riflessioni elaborate da questi studiosi possono aiutarci a riassume­ re alcune delle problematiche che oggi si discutono a livello internazionale sul ruolo degli antropologi nella consulenza allo sviluppo. n ragionamento di Stirrat (2ooo) si incentra sul tema della cultura del " team di consulenza" . Questo gruppo di specialisti che spesso non si sono mai conosciuti prima della consulenza in questione e che vengono assunti per un tempo deter­ minato, anche minore di un mese, tramite gare basate sulla loro esperienza dimostrata dal curriculum di attività già svolte, dopo essere stato costitui­ to, secondo Stirrat, spesso diviene quasi completamente esente da verifiche che non siano legate ad una specie di estetica narrativa del rapporto scritto da produrre e al rispetto delle scadenze previste per il completamento del lavoro. Stirrat studia il team di consulenza da un punto di vista dell'antro­ pologia dello sviluppo, analizzando le dinamiche ricorrenti in tali formazio­ ni: un contesto dawero caratteristico della consulenza nella cooperazione internazionale, del quale partecipano sia antropologi che specialisti di altre discipline anche tecniche. I consulenti del team - all'interno del quale, pe­ raltro, l'antropologo/ a collabora con tecnici di altri settori , come agronomi, economisti, economisti agrari, medici, urbanisti, idrologi, geografi, ambien­ talisti, ingegneri ecc. - sono legati soprattutto dal mandato di completare il lavoro nei tempi predeterminati, così come stabilito da specifici termini di riferimento, piuttosto che da qualsiasi altro contenuto tra loro condiviso e questo determina alcune dinamiche di gruppo ricorrenti. Per essere precisi, sebbene si possa concordare con Stirrat sul fatto che l'estetica e la forma narrativa del rapporto sia un elemento importante per il buon risultato di una consulenza - e in questo risiede la novità che ha saputo cogliere Stirrat nel suo saggio tramite evidenti ripetute etnografie partecipate della consulenza - va detto che le verifiche sul lavoro del team awengono in ogni caso anche sui risultati richiesti e che i vari componenti del gruppo vengono spesso chiamati a rimettere mano al rapporto se que­ sto non risponde alle richieste del committente per qualità e per contenuti . Certamente una parte del gioco sta nel dire le cose in maniera diplomatica e talvolta indiretta, poiché gli interessi e gli attori in gioco all'interno di un progetto sono molteplici e a diversi livelli. La legittimazione definitiva degli studi di antropologia dello sviluppo anche in ambiti più segnatamente accademici, a mio awiso, awiene in Gran Bretagna con il caso dello studio di David Mosse (2005) su un progetto di

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sviluppo in India. L'antropologo era stato per una decina di anni operatore del progetto relativo ai Bihil dell'India, ma nel momento in cui decise di scrivere uno studio antropologico su questo progetto risvegliò nel gruppo di consulenti con il quale aveva lavorato per anni una sorta di reazione di casta. Questi si offesero e non si capacitavano del comportamento " scorretto" di Mosse nei confronti degli ex compagni di lavoro, in quanto criticava alcune delle scelte fatte così come puntava a descrivere i motivi di alcuni fallimenti o degli errori commessi. Ad un certo punto il caso giunse persino all'Asso­ ciazione degli antropologi britannici come problema di etica professionale. L'Associazione degli antropologi reagì a questa situazione rivendicando la libertà di espressione e di ricerca dell' antropologo, dunque, appoggiandone infine l'operato. Il caso divenne poi oggetto di una Malinowski Lecture, evento annuale che si tiene presso la London School of Economics e prelu­ de alla sicura pubblicazione sul "Journal of the Royal Anthropological ln­ stitute" (Mosse, 2006) , fatto che sdogana definitivamente le dinamiche dei processi di sviluppo pianificato come oggetto di studio nel contesto dell' ac­ cademia inglese, da lungo tempo spaccata sul tema della partecipazione de­ gli antropologi ai progetti di sviluppo. Spesso gli antropologi vengono coinvolti in progetti di sviluppo con il compito di seguire il livello di coinvolgimento e di partecipazione della po­ polazione locale. Si assume che siano adeguati a questo ruolo di mediatori perché conoscono le culture locali, ne sanno apprezzare i valori e possono così dialogare con le comunità più facilmente. Anche questo tema però va problematizzato maggiormente. Non è sufficiente parlare di partecipazio­ ne perché il processo di sviluppo pianificato possa definirsi negoziato con le comunità. La parola "partecipazione" può nascondere molti diversi modi di coinvolgimento delle comunità, che vanno dalla discussione allargata alla cooptazione in scelte inconsapevoli (Declich, 2oo8, pp. 112-4) . li grado in cui le metodologie che prevedono la partecipazione dei beneficiari costituiscano effettivamente modi per favorire la partecipazione o possano divenire stru­ menti rigidi che la favoriscono solo nominalmente è anche analizzato da Maia Green (2ooo) . Nel caso da lei studiato nel Sud della Tanzania, nel distretto di Ulanga, tali metodologie non sono servite all'obiettivo di ridurre la povertà tramite la scelta condivisa di forme risolutive dei problemi. In realtà il pro­ getto ha consolidato le disuguaglianze nella perpetuazione della dipendenza, mentre ha favorito l'accesso di alcuni individui a forme di progresso persona­ le, altrimenti impossibili se essi non fossero stati coinvolti nel progetto stesso. Alcune caratteristiche e limiti del lavoro di consulenza

È utile a questo punto chiarire alcune caratteristiche e limiti del lavoro di consulenza degli antropologi rispetto alla ricerca di tipo accademico.

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I limiti formali del lavoro di consulenza sono sicuramente definiti dalle regole dell'ingaggio, che attribuiscono al consulente determinati compiti, e dalle procedure di implementazione progettuale dell'organizzazione com­ mittente, che consta di una serie di regole, anche informali, nelle quali spes­ so la burocrazia ha un ruolo significativo. La caratteristica principale del lavoro di consulenza è che gli obiettivi del lavoro e degli studi non sono stabiliti dal singolo studioso né dalla comunità scientifica, ma dal commit­ tente. n committente ha bisogno di risolvere alcuni problemi, conoscere le realtà sociali nelle quali interviene con progetti di sviluppo pianificato, studiare l'impatto di determinati programmi e attività sulla società in esame, conoscere i contesti socio-culturali per produrre politiche culturalmente in­ formate e chiede l'ausilio di antropologi. Questi ultimi, in tale contesto, non sono più liberi di svolgere ricerca secondo la propria agenda, ma devono agire all'interno dell'agenda dei finanziatori della ricerca. Talvolta le finalità ultime di questa agenda includono aspetti che non è possibile individuare senza conoscere bene, possibilmente da tempo, l'agenzia committente e le sue politiche. Non intendo dire che necessariamente gli obiettivi di un com­ mittente siano eticamente contrari a ciò che pensiamo essere gli obiettivi della ricerca antropologica, ma che talvolta è difficile stabilirne i confini e capirne le finalità perché, al di là delle finalità dichiarate, ad esempio, di uno studio sociale per la fattibilità di un progetto di re-insediamento di sfollati , non è sempre dato conoscere i termini politici dell'intero programma nel cui ambito il progetto è inserito all'interno delle politiche di un paese . Un aspetto che esemplifica chiaramente i termini della questione è quello dei progetti di fornitura di servizi sociali ed educativi ai tanti gruppi nomadi dell'Etiopia. L'obiettivo nominale dichiarato di uno studio antropologico che dovrebbe servire per conoscere le abitudini di alcuni gruppi nomadi ai fini di poter loro fornire servizi di educazione primaria o sanitaria, è solo il ramo più marginale di un programma politico di sedentarizzazione dei nomadi nel paese, il quale implica molteplici altre attività di cui chi svolge quello studio può essere all'oscuro. Antropologi come David Turto n, che durante l'intera sua carriera ha studiato popolazioni che praticano la tran­ sumanza in Etiopia (i Mursi) , hanno asserito in alcuni loro scritti che la caratterizzazione negativa che si dà al nomadismo, quale sinonimo di scarsa civilizzazione ed educazione, contrasta chiaramente con la visione della vita di alcune popolazioni che vivono di transumanze stagionali. n solo fatto di applicare la categoria di "sfollati" implica che «tutte le popolazioni umane " appartengano" ad un certo luogo e che, in un mondo ideale, tutti starebbe­ ro nelle località alle quali appartengono» (Turton, 1996, p . 97) . La perifrasi population displacement tanto usata nei contesti dei progetti umanitari con­ tiene in tutta la sua potenza l'ideale del "sedentarismo" come normalità8• Il decennale studio sui Mursi di David Turton dimostra che il movimento su

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un ampio territorio è parte integrante del sistema economico e sociale dei Mursi (ivi, pp. 106-7) . La decisione di un loro re-insediamento e sedentariz­ zazione al fine di creare parchi nazionali e zone naturali protette senza un loro adeguato inserimento nella gestione delle aree protette stesse dovrebbe definirsi, secondo David Turton, un vero e proprio «oltraggio umanitario» (ivi, p. 109) . In un caso del genere, l'obiettivo dichiarato di fornire servizi sociali a popolazioni nomadi, che altrimenti non vi avrebbero accesso, attra­ verso dispensari o scuole situati in centri abitati costruiti ex nova e provvisti di elettricità in territori da sempre frequentati solo da pastori nomadi, na­ sconderebbe ben altre finalità. Comunque, l'agenda di un'agenzia che si occupa di sviluppo, sia essa un'agenzia internazionale o nazionale o una 0:-.JG, molto spesso si muove se­ condo finalità abbastanza precise che non permettono, soprattutto per mo­ tivi di tempo, l'uso di metodologie di ricerca sul campo normalmente usate dall' antropologo/ a. In sostanza, i fini conoscitivi della ricerca, dello studio o del survey sono definiti da un problema applicativo e richiesti da un opera­ tore dello sviluppo o di altre politiche sociali/ economiche il quale, talvolta, è semplicemente un funzionario che prepara la richiesta delle prestazioni. In alcuni contesti di lavoro, però, come anche ricordato nell'capitolo di Vi­ viana Sacco presente in questo libro, il committente ha interesse a discutere con il consulente il tipo di studio necessario e, quest'ultimo/a, in alcuni casi, ha ampia libertà sulle metodologie e anche sugli indirizzi da dare allo studio. Spesso è lo stesso consulente che, ascoltato il funzionario, produce le linee di riferimento del lavoro, traducendo le richieste in linee di lavoro per uno studio applicabile. Conosco anche consulenti che sono riusciti a lavorare su temati che simili in diversi paesi - quali, ad esempio, l'organizzazione delle strutture di gestione del potere locale in alcuni paesi dell'Africa dei Grandi Laghi - così da acquisire una conoscenza comparativa piuttosto ampia di tali tematiche che non sarebbe stato possibile acquisire altrimenti; e questo, non solo per i costi proibitivi che un tale studio comparativo avrebbe im­ plicato se svolto in altro contesto, ma anche perché alcune informazioni, in circostanze in cui talvolta c'è scarsa sicurezza, si possono ottenere solo se si è inseriti in un contesto istituzionale che ne giustifichi la raccolta. Perché certi comitati di villaggio nel Burundi, ancora pervaso dalla guerra civile e per­ corso da gang di armati che di notte entrano a devastare le case dei quartieri del Nord di Bujumbura, ad esempio, dovrebbero fermarsi a chiacchierare dei loro metodi di gestione della comunità con un giovane antropologo sen­ za dubitare delle sue "buone" intenzioni? Anche per una comunità locale, a torto o a ragione, è più semplice fidarsi di qualcuno che sia accreditato tra­ mite qualche organismo internazionale che non di un ricercatore che opera forse animato da vera passione per la conoscenza ma individualmente. Per converso, anche ricercatori che svolgono ricerche indipendenti talvolta pos-

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sono servirsi di questa introduzione istituzionale per rendere più semplice la propria attività di relazioni. Nonostante vadano riconosciuti i lati positivi di tali forme di affiliazione istituzionale, non è da tralasciare tuttavia il tema della "posizionalità" del ricercatore. Va tenuto in conto nell' analisi e nella considerazione dei dati raccolti il fatto che, presentandosi come operatori di qualche istituzione internazionale o non governativa, ad esempio in deter­ minate situazioni di conflitti armati e/o di sfollamento dovuto a episodi di violenza estrema, si possono ricevere informazioni selettive e/ o comunque determinate dalle aspettative o dai timori nei confronti del ricercatore nella sua momentanea veste istituzionale da parte di coloro che rispondono. Nel corso delle consulenze da svolgere nell'ambito della cooperazione allo sviluppo, si viene spesso in contatto con contesti istituzionali di alto livello, che permettono la raccolta di materiali utili agli studi etnografici con molta più celerità di quanta se ne otterrebbe per arrivarvi tramite altri cana­ li. Quale governo metterebbe con facilità a disposizione di un ricercatore i documenti fiscali dei processi di decentralizzazione se non all'interno di un quadro istituzionale ben definito, che può essere quello di una consulenza per lo sviluppo?9 Ci sono alcuni studi di antropologia dello sviluppo critici delle forme di gestione degli aiuti, come quelli, ad esempio, di Blundo e Le­ meur (2009) sulla governa nce, o come quelli di Barbara Harrell-Bon d (r986) sugli aiuti umanitari ai rifugiati nei paesi africani, che non sarebbero mai stati possibili senza una conoscenza previa, dall'interno, dei contesti istitu­ zionali attraverso i quali transitano gli aiuti internazionali in Africa. In definitiva, tornando all'esempio dei consulenti esperti in strutture di gestione del potere locale che hanno acquisito grande esperienza sul campo, si deve dire che per persone come loro la sfida è quella di essere in grado di fermarsi a scrivere ciò che hanno studiato, anche solo per registrare quella conoscenza ed elaborarla. Normalmente questa attività non è finanziata da nessuno e ciò, purtroppo, si traduce in una perdita enorme di informazioni acquisite con lavoro, soldi e molta dedizione. In genere coloro che si fer­ mano a scrivere sono quelli che, oltre ad avere consulenze nel campo dello sviluppo, lavorano anche nell'università perché per loro la scrittura fa parte delle motivazioni della ricerca. Certamente questa potrebbe essere una delle ragioni importanti per le quali dovrebbe essere rivalutato il lavoro di consu­ lenza antropologica degli universitari anche in Italia. Il fatto che le organizzazioni internazionali realizzino degli studi anche per mezzo di antropologi, inoltre, non significa che sempre e comunque questi abbiano un'influenza sulle politiche che l'istituzione adotterà. Anzi, come anche citato da Viviana Sacco nel suo testo riportato in questo libro, le istituzioni hanno una scarsissima memoria istituzionale di quello che fanno e spesso, quando si realizzano degli studi, vengono riscoperte continuamen­ te cose conosciute in passato ma mai trasmesse . Le organizzazioni interna-

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zionali non constano di specifici meccanismi di accumulazione e istituzio­ nalizzazione delle conoscenze acquisite con gli studi sociali, e il fatto che queste conoscenze vengano o meno utilizzate e mantenute come patrimonio di conoscenza sul quale basare scelte future dipende quasi esclusivamente dall' azione di singoli funzionari che lo considerino importante e si trovino nella posizione di poterlo fare. In realtà questo è uno degli aspetti che più sbalordiscono i ricercatori accademici genuinamente interessati alle realtà sociali che studiano e che si avventurano nel campo della consulenza con le istituzioni delle Nazioni Unite. Talvolta gli studi richiesti ad équipe che comprendono antropologi ven­ gono svolti per propugnare determinate politiche all'interno di certe istitu­ zioni. Questo mi capitò per uno studio partecipativo su un con/lict analysis /ramework nel Burundi. Lo studio era finanziato dall'IFAD (International Fund for Agricultural Development) specificamente per propugnare l'uso di uno schema di analisi dei conflitti durante la fase di fattibilità dei proget­ ti di sviluppo agricolo, allo scopo di proporre attività " consapevoli " delle dinamiche conflittuali in corso nelle società in cui si operava. Dunque lo studio doveva far sì che questa determinata politica venisse accettata nell'i­ stituzione, anche se poi non si verificarono tutte le condizioni necessarie perché questo avvenisse. Talvolta però sono le pratiche dei progetti di svi­ luppo a favorire la scrittura di determinate politiche piuttosto che i progetti a costituire l'implementazione pratica di alcune politiche, come indicato da uno studio di David Mosse (2004) . Uno dei grossi limiti per i lavori di consulenza degli antropologi è il tempo scarsissimo di impegno sul campo consentito agli studiosi. Ma tempo molto scarso è dato anche per formulare raccomandazioni operative desti­ nate a determinare l'intera organizzazione di un processo di sviluppo pia­ nificato. Va detto che i tempi ridotti rispondono a criteri di fattibilità che impongono costi contenuti e non possono concedere un tempo eccessivo rispetto alle procedure di approvazione dei finanziamenti. Ricordo, come esempio di questo, il caso dello studio di fattibilità di un progetto della Banca Mondiale in Angola che, in una pausa del conflitto del 1996, doveva pianificare una rete di sostegno sociale per le popolazioni di ritorno nelle proprie province dopo la guerra. A tal fine si richiedeva a uno di noi due antropologi - parte di un team di otto persone - di fare, in venti giorni sul campo, un quadro chiaro dei flussi di migrazione interni degli sfollati e dei rifugiati per poter prevedere quanta popolazione sarebbe stata in una certa regione e quanta in un'altra nei due anni seguenti . Questa era una richiesta comprensibile da parte di coloro che dovevano preparare la fat­ tibilità del progetto, perché volevano sapere quanti fondi stanziare per le attività in ogni regione, ma il compito era impossibile da realizzare per chi era incaricato di farlo, a meno di non applicare proiezioni di crescita demo-

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grafica in rapporto ai censimenti precedenti alla guerra e desumere dalle informazioni sugli eventi del conflitto accaduti in quelle zone dell'Angola l'entità degli spostamenti di popolazione awenuti e di quelli prevedibili . Le istituzioni preposte alle statistiche nelle province possedevano tutte dati non verificati sul campo, dal momento che, a causa della lunga guerra, non erano stati più fatti censimenti; né, per lo stesso motivo, l'lOM Onternational Organization for Migration) possedeva dati certi, anche se utilizzava stime e proiezioni per programmare e quantificare i costi prevedibili del proprio lavoro di riportare gli sfollati alle loro province di origine dopo la guerra. Inutile dire che i dati usati dalle diverse agenzie internazionali non comba­ ciavano. Svolgere quel lavoro, dunque, significava mostrare una certa dose di " creatività" applicando assunzioni a priori, spesso non verificabili, su come i movimenti delle popolazioni fossero awenuti. È indubbio anche, però, che, per poter pianificare progetti o politiche di aiuto umanitario o di sviluppo, è necessario creare una base di dati, seppur desunti da proiezioni fondate su censimenti passati e informazioni, che, anche se imprecise, siano il più possibile vicine alla realtà demografica esistente in un dato momento. Oltretutto, informazioni di questo genere sono di tipo demografico e non sono propriamente dati che si raccolgono con metodologie antropologiche. Tuttavia, questi erano i dati richiesti e, se l'antropologo non fosse stato ca­ pace di raccapezzarsi con questo tipo di dati demografici, avrebbe dovuto cedere il posto ad altri professionisti; avrebbe così perso, però, l'occasione di realizzare anche le raccolte di dati qualitativi relativi agli ex combattenti e le ex combattenti in via di smobilitazione che venivano richiesti anch'essi al nostro team sia pure come informazioni complementari accanto ai dati demografici considerati cruciali. In sostanza, saper raccogliere alcuni dati in maniera quick an d dirty10, in questo caso le statistiche sui movimenti di popolazione, diveniva in quel momento la contropartita per avere accesso ad un insieme di dati qualitativi di grande valore per noi due antropologi interessati, invece, soprattutto alla realtà sociale degli ex combattenti e delle loro famiglie così come agli effetti del conflitto sulle loro aspirazioni di vita. Abbiamo detto all'inizio che una caratteristica sostanziale della consu­ lenza è quella di essere svolta secondo l'agenda del finanziatore e non quella del ricercatore. Tuttavia anche le consulenze, se svolte part time e optando per quelle che toccano in maniera tangenziale gli interessi del ricercatore, considerati anche tutti i vincoli che esse comportano, possono diventare attività che forniscono una prospettiva comparativa e contribuire a una rac­ colta di informazioni secondo obiettivi di ricerca propri e che stimolano l'interesse personale del ricercatore. Inoltre, le condizioni ideali per la ricerca talvolta non esistono. Prendia­ mo di nuovo in considerazione la ricerca nei contesti di conflitto armato o post conflitto sulla quale, peraltro, ci sarebbe molto altro di cui discutere

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anche se non è possibile farlo in questa sede11: spesso le spese per la mobilità in tali condizioni sono altissime, perché lievitano a causa dell'economia di guerra. Difficilmente si possono organizzare piani di ricerca che non preve­ dano spese di viaggio e di sicurezza esose che un ricercatore autonomo dif­ ficilmente potrebbe sostenere. Nel 1997 e 1998 mi capitò di tornare nella So­ malia in conflitto per studiare i circuiti di approvvigionamento di medicine veterinarie, i nuovi servizi paraveterinari privati e le conoscenze tradizionali in campo veterinario tra i nomadi dell'area. Il rischio di epidemie causato dalla mancanza di un sistema di vaccinazioni nazionale centralizzato poteva compromettere l'intero sistema socio-economico locale della pastorizia (De­ clich, 1997 e 1998) . A Beledweyne e nei dintorni non si poteva girare senza l'automobile e la scorta di due uomini armati che potevano costare 70-90 dollari americani al giorno da aggiungersi alle spese per il carburante e per il compenso degli assistenti di ricerca locali. In una valutazione dei limiti della consulenza va anche considerata la complessità e globalizzazione del mondo dello sviluppo così come la com­ plessità di scopi, obiettivi e mandati delle diverse organizzazioni, ONG, agen­ zie internazionali, agenzie di sviluppo nazionali e cooperazioni bilaterali. Oggi il flusso di capitali che si produce tramite ciò che viene definito coo­ perazione ha assunto caratteri globali prima inimmaginabili. Gli attori coin­ volti sono molteplici e disparati. Le missioni cristiane spesso svolgono anche progetti di cooperazione e così anche le associazioni caritative e di aposto­ lato mustÙmane, organizzando, per esempio, strutture educative e sanitarie in zone dove ci sono conflitti armati. Paesi e società commerciali asiatiche hanno assunto nuovi ruoli di cooperazione tecnica ed economica. La Cina ha stretto relazioni di cooperazione bilaterale con molti paesi africani. N el caso italiano si è diffusa la cooperazione decentrata che permette all' am­ ministrazione delle regioni di stanziare direttamente fondi per progetti di cooperazione allo sviluppo. Diciamo che la domanda da porsi è soprattutto con quali modalità e come gli antropologi possano partecipare alla sfida in maniera positiva piuttosto che argomentare motivi per tenersene lontani e nel contempo deprecare una forma di interazione tra paesi che, di fatto, esiste ed in forme sempre nuove. Consulenti tra incarichi di lunga e di breve durata

Gli incarichi di consulenza variano molto nella tempistica. Possono essere molto brevi (di quindici-venticinque giorni) o di lunga durata, cioè che pre­ vedono da uno a più anni su un progetto o brevi interventi dilazionati nel corso di un periodo di tempo definito di qualche anno. Un aspetto certamente frustrante dal punto di vista del constÙente che svolge brevi missioni è la difficoltà di sapere come sono andate le cose in

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un determinato progetto dopo la sua consulenza. Questo awiene ad esem­ pio, ma non solo, nel caso di valutazioni per le quali si prevedano team di persone il meno legate possibile al progetto, proprio per garantire che non si inseriscano interessi personali ad alterare la valutazione del lavoro in un modo o nell'altro. Conosco persino consulenti che sono voluti andare dieci anni dopo a vedere che cosa fosse stato del progetto che avevano formulato anni prima e a questo scopo hanno preso un mese di ferie e sono andati in vacanza sul luogo del progetto stesso. Il limite del tempo, poi, non è l'unico che si pone al consulente antro­ pologo. Ci sono questioni di budget, questioni politiche che bisogna tenere in considerazione e che quantomeno costituiscono limiti obiettivi all'azione possibile di un consulente e alla sua influenza su politiche e attività nel­ le quali si impegna. Possono esserci necessità pressanti, che richiedono di operare scelte in tempi rapidissimi senza che si abbia il tempo di fare analisi approfondite. Va detto che questi limiti, però, non sono tali solo per gli an­ tropologi e le loro specifiche metodologie, ma per tutti coloro che operano nello sviluppo. Per ciò che riguarda la valutazione dei progetti, recentemen­ te è stato prodotto un libro dal titolo RealWorld Evaluation. Working Under Budget) Time) Data) and Politica! Constraints che individua i limiti solita­ mente incontrati dai valutatori e suggerisce possibili scelte ottimizzate in condizioni di tempo, budget e situazioni politiche restrittive. Nella sostanza determinati lavori di consulenza si svolgono entro di limiti di tempo e con budget che non sono quasi mai negoziabili e, pertanto, la qualità e le carat­ teristiche del prodotto non possono che rientrare nell'ambito consentito da questi vincoli previ . Ciò che si deve fare per rendere trasparenti e accettabili le caratteristiche del prodotto finale è rendere tali vincoli chiari in una pre­ messa metodologica. Tale premessa può precisare ai lettori che peso si può dare ai dati e alle analisi prodotte. Tra i limiti imprevedibili ma possibili che si incontrano, ad esempio, nel contesto delle valutazioni di progetti, c'è il trovarsi ad eseguire la valutazio­ ne di metà progetto, quando invece il tempo previsto per l'intera implemen­ tazione è quasi finito. Questo tipo di valutazione ridotta nella pratica ad una valutazione di fine progetto sarebbe invece dovuta servire per un nuovo orientamento mirato delle attività del progetto una volta trascorso metà del tempo previsto per la sua realizzazione. In questi casi è possibile che le isti­ tuzioni abbiano bisogno dei documenti di valutazione per avere tutti i mate­ riali a posto prima della chiusura del progetto, ma non è improbabile che si siano verificati ostacoli politici alla realizzazione della suddetta valutazione; oppure che ci siano stati ritardi organizzativi dovuti a una molteplicità di problemi e/o che ci siano spazi di manovra per un prolungamento del pro­ getto stesso che la missione di valutazione può suggerire. Spesso il momento della valutazione a medio termine è una situazione nella quale anche i di-

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rigenti del progetto, sia rappresentanti della istituzione che lo implementa sia operatori sul campo, hanno bisogno di rinegoziare gli obiettivi previsti tenendo conto di quelli effettivamente raggiungibili nel contesto reale e isti­ tuzionale nel quale si trovano ad agire, o di inserirne di nuovi più adeguati. In questo senso l'antropologo coinvolto in questo esercizio ha la possibilità di suggerire strade per reindirizzare effettivamente le attività del progetto. Differenza tra un antropologo e un altro consulente?

Nel testo proposto in questo stesso libro Mariano Pavanello si interroga sul­ la professionalizzazione del ruolo dell'antropologo, su che cosa lo caratte­ rizzi come tale, su quali siano le differenze tra metodologie antropologiche e sociologiche e, soprattutto, se abbia senso tracciarne a questo punto di sviluppo delle discipline. Oltretutto alcune metodologie qualitative tipiche dell'antropologia sono state codificate in manuali sociologici come se appar­ tenessero sin dall'inizio a quell' ambito12• Infine, Mariano Pavanello si doman­ da retoricamente se la ricerca sul campo di lunga durata, requisito richiesto normalmente agli studenti nei corsi di laurea specialistica e dottorati, sia oggi sufficiente per formare un antropologo professionista e fornirlo degli stru­ menti metodologici adatti alle situazioni nelle quali è richiesta la consulenza antropologica. Tutte queste domande sono più che legittime dato che, come detto in precedenza, la maggioranza dei laureati in antropologia che sono impiegati in qualità di antropologi lavora in un campo applicativo. A mio avviso, chi ha completato un dottorato in antropologia dovrebbe normalmente avere svolto un lungo periodo di ricerca sul campo. Tramite l'osservazione partecipante e altre metodologie che si usano per la raccolta di dati qualitativi costui/ei sviluppa diverse attitudini che sono poi quelle peculiari dell'antropologo/ a: la capacità di osservazione dei particolari di un contesto sociale specifico che è stato osservato con continuità; un acuto spirito critico e di continua verifica di ogni affermazione che venga fatta dagli attori sociali in campo, gruppi o individui che siano; l'abitudine ad incrociare il punto di vista etico ed i punti di vista emici13 relativi a ciò che accade . Tali attitudini rendono più facile la raccolta di dati simili anche in altri contesti di ricerca e rafforzano il ricercatore nell'uso di approcci qualitativi. Tali attitudini , tuttavia, e io sono d'accordo con Mariano Pa­ vanello, non sono sufficienti senza ulteriori esperienze comparative che relativizzino la monografia etnografica. Per poter far fronte alle richieste che vengono fatte ad un/una consulente è indispensabile conoscere meto­ dologie anche non specifiche dell'antropologia (raccolta e analisi basilare di dati demografici, capacità di formulare ed utilizzare indicatori, capacità di quantificare con tecniche semplici dati qualitativi, somministrazione ed analisi di questionari ecc.) .

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La capacità di produrre una monografia etnografica in seguito a ricerca sul campo, però, costituisce una precomprensione fondamentale che si è formata con la sperimentazione di metodologie di raccolta dati qualitativi e tramite il confronto con l'esperienza della produzione di una specifica forma narrativa basata su dati provenienti da un'interazione empirica. La competenza nel formulare domande di ricerca, operativizzarle nella ricerca di campo tramite metodologie ed affinarle progressivamente in base alle riflessioni indotte dall'analisi dei dati che via via si raccolgono fa parte del bagaglio iniziale dell' antropologo, bagaglio che diventa un modo specifico di avvicinarsi alla conoscenza delle rappresentazioni sociali. Va ricordato che anche il rapporto di consulenza è un prodotto carat­ terizzato da formati narrativi propri, che riproducono, in un certo modo, almeno nel caso della consulenza antropologica, una interazione con attori sociali sul campo. Certamente tali formati sono ben diversi dalla monografia etnografica, ma anch'essi vanno assimilati e padroneggiati per poter operare nel mondo della consulenza. Committenti e ruoli possibili

Una lista di possibili contenuti delle richieste di consulenza offerte agli an­ tropologi sono stati menzionati da Massimo Tommasoli: «a) la raccolta e analisi di informazioni di base sulla popolazione beneficiaria di un progetto; b) la mediazione tra la popolazione locale e l'istituzione che esegue l'inter­ vento (come mediatori culturali, un ruolo che si sta consolidando anche nei paesi di immigrazione, dove i rapporti con gli immigrati da paesi in via di sviluppo richiedono specifiche competenze nel campo sociale e culturale per consentire un dialogo spesso difficile) ; c) il contributo alla definizione di politiche di cooperazione in relazione alle implicazioni sociali di una stra­ tegia di intervento; d) la conduzione di analisi sociale nelle fasi di ideazione e definizione di un progetto; e) la realizzazione di monitoraggi e valutazioni di iniziative;}) l' analisi degli aspetti sociali delle innovazioni tecnologiche; g) l'esecuzione di attività di formazione» (Tommasoli, 2001, p . 66) . In ognuno di questi ruoli e negli altri possibili non menzionati ci si trova spesso a fare delle mediazioni sulle metodologie qualitative tipicamente an­ tropologiche e, in generale, questo porta alla sensazione di sentirsi stretti nel ruolo che ci viene proposto; in realtà la padronanza di diverse metodologie e tecniche della ricerca sociale, comprese quelle di tipo partecipativo e di ricerca-azione è necessaria. Saranno inoltre la conoscenza di un determinato paese e/o di tematiche specifiche all'interno di esso, le attitudini a lavorare in contesti multiculturali e le precedenti esperienze nel campo gli altri aspet­ ti che faranno cadere la scelta su un consulente antropologo piuttosto che proveniente da altre discipline.

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A questo punto vorrei indicare più in dettaglio le caratteristiche di tre tipi di committenti che offrono consulenze agli antropologi. Le

ONG

Le ONG in Italia, che hanno sostanzialmente budget costruiti a progetto, impiegano l' antropologo in ruoli che possono includere la formulazione e/o il management di progetti, piccole ricerche richieste da committenti, l'atti­ vità di sensibilizzazione allo sviluppo e documentazione. Non esistono per il momento in Italia, per quanto mi risulta, uffici valutazione di O:"JG che possano impiegare antropologi o altri ricercatori per svolgere solo la valuta­ zione della loro attività. Difficilmente una O:"JG è in grado di sostenere finanziariamente un uffi­ cio che svolge specificamente ricerche sociali legate ai suoi progetti a meno che un antropologo sia già coinvolto nel management della organizzazione e sia nella posizione di richiedere finanziamenti destinati a questo tipo di attività. Possono in alcuni casi essere previste ricerche sociali/antropologi­ che su specifici progetti. In ogni caso i finanziamenti previsti per la ricerca attingibili in Italia non sono sufficienti, nella economia di scala delle attività di una ONG, per sostenere ricercatori che facciano solo ricerca e siano spe­ cializzati in una sola disciplina. Tuttavia ci sono casi particolari nei quali una ONG è coinvolta in progetti che richiedono una sensibilità peculiarmente antropologica. Questo, di solito, succede con progetti che si occupano di popolazioni indigene, di diritti intellettuali, di patrimonio culturale locale. Spesso il ruolo ricoperto da antropologi nelle ONG in Italia non è orientato nel senso della professione antropologica se non per la sensibilità che un antropologo/a ha nei confronti delle popolazioni locali e la capacità che ha sviluppato di interagire e comunicare con le comunità cercando di tenere in considerazione il punto di vista locale e gli aspetti partecipativi. L'Unione Europea Una forma recente di consulenza finanziata per la cooperazione tecnica in­ ternazionale è il contratto quadro. A tali consulenze si accede con la parte­ cipazione a gare tramite il proprio curriculum . La procedura prevede un' ac­ cettazione preventiva di termini di rz/erimento scritti da coloro che hanno bisogno del lavoro. I termini di riferimento costituiscono il primo e basilare documento che stabilisce di che cosa il committente ha bisogno e di che professionalità intende servirsi. Si tratta di una specie di prima descrizione degli obiettivi di una " caccia al tesoro" della quale non si sa se sarà possibile eseguire i prossimi passi, cioè se si sarà selezionati per assumere l'incarico del lavoro in questione; in realtà, le stesse società che concorrono e che pro-

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pongono la consulenza presentando i curriculum sanno ben poco di quello che effettivamente si dovrà fare sul campo, eccettuate quelle scarse infor­ mazioni scritte sul testo che bandisce la gara sulle quali, talvolta, si deve preparare una metodologia di lavoro per assicurarsi la vittoria. Se la società vince la gara, spedisce il team sul posto e normalmente non interviene più nella preparazione dei prodotti richiesti - a meno che non soprawengano ostacoli insormontabili. Si preoccupa soprattutto del fatto che il lavoro da proporre venga elaborato compiutamente e accettato dal committente. Sta ai consulenti modulare il loro intervento e le loro metodologie in maniera accettabile e rispondente ai requisiti richiesti. In questa fase la conoscenza di varie metodologie di lavoro in campo sociale anche per gli antropologi è fondamentale. Quando ci si misura con queste richieste normalmente non si sa quali altre persone parteciperanno alla missione e in realtà non lo sa proprio nessuno fino a quando il consorzio non ha votato per i curriculum reputati migliori; talvolta non si può essere sicuri della formazione del team neanche una volta che il consorzio abbia deliberato, poiché possono sorgere problemi e difficoltà anche tra i prescelti . In questa modalità il controllo su ciò che si andrà a fare sul campo è piuttosto relativo non solo per gli antro­ pologi che vi partecipano, ma anche per tutti gli altri esperti. Una volta entrati nel team bisogna essere in grado di elaborare in un tempo brevissimo una metodologia adatta per svolgere i compiti richiesti nel tempo dato. In questo l'istruzione formale prevista per gli antropologi in Italia non è adeguata né da un punto di vista teorico né da quello dell' espe­ rienza pratica. Questa forma di reclutamento è estremamente competitiva e in essa sono fondamentali sia l'esperienza pregressa nel campo previsto dalla consulenza che la reale capacità di destreggiarsi con i compiti richie­ sti. Le esperienze acquisite all'interno di 00JG possono essere molto utili al riguardo. Le agenzie delle Nazioni Unite Il mandato delle consulenze da svolgere tramite le Nazioni Unite è solita­ mente più chiaro, nella prima fase dell'ingaggio, di quello basato sulle mo­ dalità del contratto quadro dell'Unione Europea. Chi è interessato a che sia svolto un certo lavoro parla direttamente con i consulenti prima di affidar loro il mandato di svolgere l'attività. In questo caso, i consulenti antropologi hanno elementi validi per comprendere, prima di accettare di essere coinvol­ ti, come il lavoro sia fattibile e per proporre eventualmente le metodologie e gli aggiustamenti del caso. Anche con le Nazioni Unite le capacità ed i com­ piti richiesti possono essere più o meno di carattere antropologico; l' esper­ to può essere chiamato perché ha una particolare sensibilità nei confronti delle popolazioni locali, o perché si assume che, tramite le metodologie che

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conosce, abbia una capacità maggiore di raccogliere le informazioni che si richiedono. Spesso in questi casi la capacità di gestire eventi partecipativi, favorire workshop o indagini partecipative di tipo rapido è desiderabile. Tra le qualità considerate peculiari dell'antropologo ci sono quella di saper faci­ litare ricerche partecipative e quella di essere formatori abituati a situazioni di multiculturalità. Certamente la familiarità con contesti di multiculturalità è una caratteristica che si reputa tipica degli antropologi. La valutazione, gli studi di valutazione a medio termine o finali e gli stu­ di di impatto sono campi a sé nell' ambito dei possibili ruoli ricoperti dagli antropologi. Owiamente non sono attività attribuibili solo agli antropologi, ma sono luoghi dove il dialogo multidisciplinare è indispensabile e può es­ sere anche molto creativo. La collaborazione con specialisti che conoscono gli aspetti più tecnici degli obiettivi di un progetto è fondamentale per l'e­ laborazione di un piano che sia di pesca, di agricoltura o di microcredito, sanitario o di altro tipo. I saggi contenuti nel libro

I saggi contenuti in questo libro affrontano i temi della consulenza in pro­ spettive diverse. Alcuni parlano dell'attività degli antropologi nelle istituzio­ ni (Colajanni, Lenzi Grillini, Sacco) e del tipo di capacità che gli antropologi devono sviluppare per poter lavorare in contesti nei quali ci si occupa di antropologia applicata (Pavanello) . Altri saggi costituiscono veri e propri studi brevi di antropologia dello sviluppo. Si tratta infatti di riflessioni e analisi antropologiche che hanno per oggetto progetti di sviluppo svolte da studiosi su istituzioni e dinamiche sociali osservate all'interno di progetti nei quali hanno lavorato (Eoni, Van Aken, Warren) . Si tratta, in questi casi, di antropologi che hanno operato in progetti di sviluppo come consulenti ma che da questa esperienza hanno anche trat­ to veri e propri studi su quei programmi di sviluppo pianificato che non sarebbero stati possibili se gli antropologi non fossero stati impiegati nei progetti stessi. Alcuni degli studi sono in chiave critica, ma la critica può essere costruttiva e tendere a svelare le dinamiche sottostanti a determinati processi sociali instaurati dai progetti e, in definitiva, di tali dinamiche può permettere la migliore comprensione. In tal uni casi (Warren) , queste analisi - originate nel corso di attività di antropologia nello sviluppo14 - forniscono delucidazioni sui risultati effettivi prodotti da un determinato progetto in un periodo lungo e, quindi, indi­ cazioni su come tale progetto dovrebbe essere indirizzato altrimenti. Nel corso del suo studio Patrizio Warren arriva a calcolare come, in realtà, le comunità contadine coinvolte nel progetto PESA in Ecuador, piuttosto che beneficiare degli aiuti forniti loro, siano divenute sostenitrici - in termini

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economici - delle politiche proposte dal progetto stesso. In altri casi (Ros­ setti) il racconto dell'esperienza in progetti di sviluppo è solo l'espediente per individuare tematiche chiave del rapporto antropologo/a-progetti di sviluppo. Infatti Gabriella Rossetti tramite un excursus di ricordi e memorie della sua presenza in progetti di sviluppo o emergenza in Ecuador, Palestina e Tanzania costruisce una meta narrativa tramite la quale evidenzia alcu­ ni aspetti cruciali del suo incontro in qualità di antropologa con i contesti dello sviluppo: esistono attori sociali nascosti che spesso sono mantenuti invisibili, le donne; il ricevere aiuti crea dipendenza dal donatore e un rap­ porto sbilanciato il quale resta nascosto dalla retorica delle istituzioni dello sviluppo che parlano di partnership e di rapporti di parità tra " donatori " e "sviluppandi " ; un missionario, durante una discussione con Antonino Colajanni nel lontano 1976 in Ecuador, riassume le differenze tra il ruolo dell'antropologo e quello del missionario: l'antropologo è colui che cerca di capire, mentre il missionario vuole produrre cambiamento. Non sarà che il mandato dello "sviluppo" è awolto da una ideologia di missione, owero di desiderio di produrre cambiamento? E come, allora, si può relazionare con lo sviluppo l'antropologo/a? Forse parte del lavoro dell'antropologo, secon­ do il suggerimento di Rossetti , è quello di "trovare l'innesto" tra i molteplici interessi di numerosi attori o anche fare in modo che i progetti siano for­ mulati rispondendo a domande anche molto semplici, come: «In che modo le proposte di cambiamento indotte dall'esterno entrano in relazione con le dinamiche locali?». Secondo Gabriella Rossetti il rischio dei contesti dove si produce pianificazione programmata è quello di scrivere i progetti come se si fosse «in una invisibile bolla capace di isolare tutto [ . . . ] lasciando fuori i pezzi più importanti e determinanti di realtà». Il lavoro di Patrizio Warren ha un particolare valore in questo libro, perché mostra come le conoscenze antropologiche possano arrivare a ri­ sultati di grande acutezza se unite ad una profonda conoscenza del fun­ zionamento interno di un'organizzazione internazionale, dei suoi sistemi di finanziamento e delle procedure di costruzione dei progetti di sviluppo. Dal suo testo risulta anche evidente che i contadini possono essere portati a seguire le politiche di un progetto nel nome dello sviluppo o del progresso senza essere sufficientemente coscienti dei rischi economici ai quali vanno incontro. Warren analizza i risultati di un progetto realizzato con contadini del Guatemala ai confini con l'Honduras. Dai risultati diacronici raccolti nel corso di una consulenza, appariva che i contadini nel partecipare al pro­ getto perdevano piuttosto che aumentare le proprie possibilità produttive. Nonostante questo fosse chiarito nel documento di valutazione prodotto, il progetto non fu reindirizzato dalla organizzazione internazionale che lo implementava dimostrando in tal modo, secondo Warren , che l'organismo non intendeva «mettere in discussione il meccanismo complessivo che con-

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sentiva al PESA di esistere e riprodursi, owero la stessa economia politica dell'industria dello sviluppo» nonostante fosse dimostrato che non produ­ ceva risultati positivi per i beneficiari. In realtà il progetto aveva messo su un impianto nel quale c'era un cast sharing dei rischi dell'investimento con i contadini che finivano con l'accollarsi interamente i rischi finanziari del­ la sua messa in opera. È interessante vedere in questo saggio come alcune elementari tecniche di valutazione costi/benefici permettano di giungere a conclusioni approfondite tramite l'uso di concetti basilari dell' antropologia economica e delle households. Il contributo di Mauro Van Aken alla riflessione sul rapporto tra con­ sulenza antropologica e sviluppo viene fatto sulla base di sue esperienze di lavoro sul campo in progetti idrici della valle del Giordano. L'enorme espandersi di una retorica della partecipazione e dell'uso di metodologie per convogliare la volontà di partecipare verso i progetti toglie significato al tema della partecipazione stessa e defrauda l'antropologo della possibilità di un suo contributo esperto. La partecipazione canalizzata tramite relazio­ ni istituzionalizzate in realtà nasconde le forme partecipative reali e spon­ tanee che sono espressione di un serio desiderio di condividere la risorsa dell'acqua. Una di queste forme si esprime nel rubare l'acqua come protesta contro la crescente centralizzazione del sistema di irrigazione. Le fasce più marginali fingono di partecipare alle nuove forme associative proposte dai progetti per la gestione dei sistemi idrici. In realtà, in questo contesto di manipolazione per la gestione del controllo sociale, l'antropologia si trova piuttosto tentata dalla necessità di esprimere la critica sociale e di costituirsi in gruppi di ricerca-azione che smascherino quei modelli di sviluppo par­ tecipativo che in realtà allontanano le fasce marginali dall'accesso al bene comune dell'acqua. Il saggio di Stefano Boni contenuto in questo libro è l'occasione per descrivere le sue considerazioni relative a due consulenze antropologiche realizzate per una ONG attiva nella zona Sefwi in Ghana, luogo dove egli ha svolto ricerche di lungo periodo. Le difficoltà strutturali del settore coope­ razione allo sviluppo, secondo Boni, emergono nonostante la scrupolosità e autorevolezza degli attori che conducono i progetti. Il ricercatore pertanto si fa difensore di un serio ripensamento dei canoni di valutazione dei pro­ getti e degli impatti sociali sul lungo periodo, valutazioni imprescindibili che vanno preferibilmente effettuate, in maniera partecipativa, e nelle quali il ruolo dell'antropologo è fondamentale. La caratteristica di essere atten­ ta alle dinamiche sociali di lungo periodo fa dell' antropologia la disciplina adatta a questo tipo di funzione, oltre che per gli studi di valutazione anche per la fattibilità di progetti in interazione con i beneficiari. Il concetto di svi­ luppo non va accettato come se il suo significato fosse auto-evidente; nella pratica tale nozione può nascondere la riproduzione di gerarchie esistenti e

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persino acuire le disuguaglianze tra ricchi e poveri, costringendo al salariato fasce di contadini già poveri. In questo quadro, secondo Stefano Boni, la vocazione dell'antropologia può essere il «mettere a nudo con chiarezza la distanza tra ciò che si dice e ciò che succede», poiché la retorica istituzionale usata dagli agenti dello sviluppo può mistificare e dissimulare dinamiche esistenti. In definitiva, va criticato lo sviluppo quando questo impedisce ri­ cerche serie o è «privo di principi etici in linea con quelli del ricercatore e/o dei beneficiari». Antonino Colajanni inquadra nel capitolo presente in questo libro la consulenza antropologica come la modalità di uno dei compiti che l'antro­ pologia può assumere nei confronti del mondo dello sviluppo, quello di produrre la conoscenza necessaria alle azioni dei progetti . Sebbene sembri evidente la necessità di conoscere prima di agire, la fabbrica dello svilup­ po tende ad omogeneizzare e a proporre gli stessi schemi di azione in una molteplicità di paesi, assumendo che l'azione possa avere gli stessi effetti in realtà sociali completamente diverse e non conosciute. La ricerca che si svolge nel contesto della consulenza è una ricerca applicativa, orientata alla soluzione di problemi, e, secondo Colajanni, è semplicemente «una ricerca diversamente orientata e avente oggetti diversi da quelli dell' antropologia tradizionale». Inutile dunque fare una «troppo radicale opposizione e di­ stinzione gerarchica tra recherche fondamentale e recherche appliquée» ormai divenuta inopportuna. Nelle conclusioni, Antonino Colajanni, dopo aver analizzato diverse considerazioni presenti in saggi antropologici sul tema della consulenza, che oggi conta su un gruppo di osservatori e analisti an­ tropologi competenti, asserisce che, ciò che però ancora manca sono studi accurati degli «effetti che la conoscenza antropologica, e i suggerimenti, le critiche e le proposte alternative, possono determinare, nei tempi medio­ lunghi, sul contesto sociale». Anche il lavoro di Viviana Sacco si pone sul piano dell'analisi del ruolo dell'antropologo nelle istituzioni. Avendo svolto diverse consulenze in or­ ganismi delle Nazioni Unite e sulla scorta di riflessioni di Lévi-Strauss sul proprio ruolo come antropologo nell'uNESCO, Viviana Sacco riflette sulla necessità di doti dialogiche e diplomatiche all'interno delle istituzioni per permettere un innovamento istituzionale interno su tematiche socio-antro­ pologiche. Spesso la mentalità burocratico - manageriale propria delle or­ ganizzazioni internazionali ritarda i processi di innovazione e cambiamento istituzionale. Anche gli sforzi di integrare la formazione antropologica con quella di altre discipline quali l'economia, l'agronomia e la medicina appaio­ no fondamentali per chi voglia essere in grado di destreggiarsi nelle attività di consulenza. Il tema del ruolo istituzionalizzato degli antropologi come periti dello Stato viene trattato da Filippo Lenzi Grillini che descrive il caso delle pe-

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rizie antropologiche in Brasile. Vista la necessità di definire chiaramente i territori delle riserve indigene il governo brasiliano ha stabilito che siano coinvolti anche gli antropologi i quali per legge sono stati qualificati come periti necessari per tale definizione. Devono collaborare con un team di altri specialisti e la legge stabilisce anche i limiti di tempo che vengono assegna­ ti loro per farlo, quarantacinque giorni, periodo che, per un lavoro antro­ pologico in un gruppo non sempre conosciuto, sembra un tempo minimo. Questa opportunità ha suscitato diverse reazioni con conseguenti prese di posizione tra gli antropologi: costoro sanno che se non accettano questo compito saranno sostituiti da persone probabilmente molto meno preparate per svolgere il lavoro; accettando però si trovano di fronte a diversi dilemmi di tipo etico, metodologico e teorico. Il primo problema sembrerebbe il timore di contribuire alla essenzializzazione e codificazione dei caratteri et­ nici dei gruppi indigeni, metodo per il quale sono stati criticati aspramente i governi coloniali. È giusto ascrivere un territorio a una popolazione quando tutti gli scritti recenti sull' etnicità, partendo dallo studio di Barth, danno per acquisito che l' etnicità va al di là dei confini territoriali e che le frontie­ re, anzi, sono qualcosa che rafforza i caratteri etnici? È possibile che siano proprio gli antropologi, i più consapevoli di questo, coloro che vengono designati a contribuire alla definizione dei confini delle riserve? E se le fonti scritte sono considerate più legittimamente utilizzabili di quelle orali nei contesti giuridici, si può attribuire grande credibilità a fonti scritte di quasi cinquecento anni fa, che parlano di gruppi indigeni in determinati territori, prodotte da missioni e colonizzatori ognuno dei quali provvisto di agenda propria e di prospettive e visioni spesso poco informate o le cui intenzioni in ogni caso sono oggi difficili da decifrare? Problematiche di questo tipo si scontrano con il fatto che, in ogni caso, il Brasile è il paese di questi an­ tropologi e, comunque, in quel paese le riserve sono considerate anche un baluardo per la difesa dei territori indigeni continuamente colonizzati dalla frontiera agricola interna e da latifondisti. Rimanere in torri di avorio e cri­ ticare da lontano ciò che avviene nel mondo reale non può essere un alibi, se si considera che spesso sono proprio gli antropologi che hanno studiato determinate società ad essere chiamati per quelle perizie. Direi che il tema trattato in profondità da Lenzi Grillini è un tema di grande attualità non solo in America Latina, ma anche in diverse parti dell'Africa dove, oggi, si sta procedendo alla titolazione delle terre. I proget­ ti di riforma agraria, ad esempio, che prevedono la proprietà privata della terra - là dove esistono invece forme di utilizzazione della terra comunitarie gestite da consigli di anziani - stanno provocando la perdita di buoni terreni coltivabili a molti contadini che non hanno la forza o la capacità di resistere alla loro cessione. Le donne stanno in questo modo perdendo drasticamente accesso alle terre. D'altronde, quando non viene scelto un approccio alla

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proprietà della terra di tipo comunitario o regolato da una giurisdizione del tipo " riserva indigena" la perdita di terreni coltivabili sembra essere il trend verso il quale ci si muove e gli antropologi che lavorano in questi contesti si trovano a fronteggiare lo stesso tipo di dilemma dell'antropologo delle perizie brasiliane (Declich, 2oo8, p. 126) . Sugli strumenti che un antropologo deve padroneggiare per poter esse­ re annoverato tra i professionisti dell'antropologia da impiegare come an­ tropologi applicati si interroga Mariano Pavanello nel suo capitolo in questo libro. L'argomento rispecchia una sana preoccupazione per il destino dei laureati in questa materia e un motivato timore circa la progressiva scom­ parsa della figura dell'antropologo di fronte ad altre figure professionali, spettro peraltro già esistente tra gli antropologi di vari paesi15• Che cosa distingue effettivamente discipline come la sociologia e l'antropologia? In realtà, secondo Mariano Pavanello l'ondata di decostruzionismo degli anni Novanta ha lasciato all' antropologia in retaggio un ritardo sul piano della standardizzazione dei propri metodi di ricerca nei confronti della sociolo­ gia, che oggi la vede generalmente in secondo piano nella conquista di spazi in cui gli antropologi possano lavorare. In realtà - asserisce Pavanello - la vera sfida per gli antropologi oggi risiederebbe nel formalizzare e rendere fruibili anche in contesti applicativi saperi che scaturiscono da metodi sia qualitativi che quantitativi; tali metodi non sono opposti e, se usati in forma integrata, forniscono risultati analitici di grande valore. Aggiungerei a que­ sta asserzione la considerazione che l'uso integrato di queste metodologie è già praticato da alcuni storici sociali con grande efficacia. Il lavoro storico svolto da Jamie Monson per studiare l'impatto della costruzione fatta dal­ la cooperazione cinese della ferrovia Tazara tra Zambia e Tanzania utilizza mezzi che vanno dalla fotografia aerea al conteggio statistico dei biglietti di carico di merci individuali sul treno durante alcuni anni, conteggio peraltro combinato con raccolte autobiografiche, per scoprire l'enorme effetto pro­ dotto dall'attivazione di questa ferrovia sull'economia di tante households dislocate lungo il suo tragitto (Monson, 2oo6 e 2009) . Certamente le rifles­ sioni di Mariano Pavanello potrebbero anche influire in senso innovativo sui piani di formazione universitaria. Una delle possibili modalità di impegno degli antropologi nelle azioni di sviluppo pianificato è quella dell'impegno part time all'interno di Ol\'G che permetta loro anche l'accreditamento all'interno di zone rurali difficil­ mente raggiungibili altrimenti. Spesso questo tipo di relazione si crea per un mutuo interesse delle parti, come spiega Riccardo Ciavolella in questo libro, ed è anche un luogo fertile di riflessioni. Nel suo caso l'antropologo si era ritrovato, avendo deciso per un certo periodo di collaborare con una Ol\'G anche per sentirsi meglio legittimato come ricercatore in una zona della Mauritania altrimenti poco sicura, a confrontarsi con la richiesta di formu-

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lare azioni operative, mentre era piuttosto orientato a svolgere una ricerca essenzialmente descrittiva del contesto nel quale si trovava. Il resoconto in questo libro è relativo ad una sua esperienza di consulenza con una Ol\'G svolta per due mesi in Mauritania, sul tema dell'impatto della decentraliz­ zazione sulla marginalizzazione sociale nella zona della sua ricerca di dot­ torato. Ciavolella conclude che gli antropologi si trovano in una posizione ambigua, di ibridità tra la ricerca descrittiva e l'azione operativa, ma questa posizione di autonomia nei confronti delle indicazioni e raccomandazio­ ni pratiche immediate può indurre considerazioni molto utili a proposito dell'impatto dei progetti di sviluppo. Considerazioni che attori sociali in altro tipo di posizione non potrebbero permettersi di formulare, ma che mantengono il loro valore anche se in determinati momenti non vengono accettate politicamente dagli attori sociali coinvolti. Nello specifico caso della Mauritania, una volta mutate le condizioni politiche, gli stessi attori che inizialmente erano stati scontentati dalle analisi dell'antropologo hanno trovato utile appropriarsene. Conclusioni

La cooperazione allo sviluppo si attua in molteplici modalità di assistenza o sostegno anche diverse dall'implementazione di progetti di sviluppo pia­ nificato ed è difficile se non addirittura sbagliato metterle tutte nello stesso " calderone " . È indubbio che sia stato il colonialismo a determinare con­ dizioni di dipendenza dei paesi terzi e che gli Stati colonizzatori ne siano politicamente responsabili ma, di fatto, i paesi terzi più poveri sono oggi profondamente dipendenti dai fondi versati dai vari donatori e dalle fonti di cooperazione per l'implementazione delle loro politiche nazionali sanitarie, sociali, agricole ed economiche perché le risorse raccolte in tali paesi non sono sufficienti a sopperire a quelle necessità. Ne è un indicatore la recen­ te pratica del budget suppor! adottata da diverse agenzie per lo sviluppo e organizzazioni internazionali, in primis l'Unione Europea, che prevede l'appoggio diretto al budget dello Stato piuttosto che a progetti di sviluppo pianificato. La non accettazione di questa modalità da parte di diverse agen­ zie di sviluppo internazionali in alcuni paesi non si può solo considerare una forma di difesa di interessi di gruppi particolari o dell'industria dello sviluppo; anche sostenere i budget statali dei paesi poveri, piuttosto che la implementazione di progetti, incontra difficoltà e problemi di attuazione e di trasparenza. Oltretutto anche la politica del budget suppor! deve con­ frontarsi con debolezze istituzionali che strutturalmente non permettono a determinati paesi oggetto di aiuto di sviluppare politiche in appoggio ai propri cittadini. Per questo, demonizzare la cooperazione allo sviluppo tout court è un atteggiamento che non chiarisce a quali aspetti di questo mondo

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complesso, multivocale e articolato ci si opponga e che cosa in realtà sia opportuno sostituire ad essa. Qualche tempo fa, nel 2001, ad una conferenza dell'Associazione degli antropologi sociali della Gran Bretagna e del Commonwealth tenutasi all'U­ niversità del Sussex su Rights and Entitlements, Richard Wilson difendeva la possibilità di svolgere consulenze sul tema dei diritti umani nei confronti di colleghi che criticavano chi accettava di farne. Richard Wilson ha lavorato sia sui diritti umani in Guatemala che nel contesto della Truth and Recon­ ciliation Commission16 in Sudafrica. Tra gli argomenti del suo discorso al convegno sopra ricordato, del quale era organizzatore con J o n Mitchell, c'e­ ra anche l'affermazione che se la consulenza fosse stata data a qualcun altro quest'ultimo non l' avrebbe svolta con la stessa competenza di un antropo­ logo. Oltretutto la possibilità di osservare la fase di attuazione della Truth and Reconciliation Commission gli aveva permesso di approfondire una serie di tematiche relative ai diritti umani e alla difesa di essi in contesti non europei, con le quali non sarebbe venuto in contatto altrimenti. Come giu­ stamente Antonino Colajanni nota nel suo saggio riportato in questo libro, c'è ormai una pletora di personaggi pubblici, giornalisti, politici o operatori dello spettacolo che «esercitano giornalmente le attività di suggerimento, consigli, spinta verso scelte o previsioni che riguardano il futuro delle comu­ nità umane» e un antropologo a vocazione applicativa può senz' altro avere strumenti analitici più appropriati di quelli in possesso di costoro. Si possano fare tante analisi di tipo postmoderno sulla costruzione della conoscenza e sull'esistenza di discorsi all'interno delle istituzioni i quali, co­ stituendo politiche simboliche, annullano la reale efficacia di ciò che si dice e rendono immutabili le istituzioni che si occupano di sviluppo. Nonostante questo, Katy Gardner e Davi d Lewis (2ooo) awersano il decostruzionismo di Escobar e sostengono che, al di là delle parole, secondo la loro stessa esperienza, si può influire sulla formulazione di politiche all'interno delle istituzioni. Ad esemplificare ciò, essi dimostrano che in realtà il White Pa­ per on International Development nel DFID (Department for International Development) , l' agenzia britannica per la cooperazione internazionale, era risultato di negoziazione tra diversi gruppi di interesse, tra il DFID e la società civile. Se nel 2ooo non se ne potevano ancora valutare gli effetti, non si po­ teva tuttavia dire che non fosse comunque il risultato di una realtà dinamica e di interessi diversi esistenti nell'istituzione. In conclusione, sebbene comporti capacità di mettere in pratica diversi compiti, compresi quelli di organizzazione di eventi e di ricerca partecipati­ vi, e di usare varie tecniche di ricerca sociale normalmente l'esperienza della consulenza costituisce per un antropologo un 'importante finestra sul mon­ do delle politiche sociali e, nel caso di cooperazione allo sviluppo, degli aiuti allo sviluppo. Infatti è all'interno di questi contesti che si possono osservare

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con maggiore lucidità le dinamiche politiche in atto nei paesi in via di svilup­ po ai vari livelli, dalle piccole comunità alle istituzioni governative. Si viene infatti in contatto con le istituzioni che mettono in circolo capitali destinati a favorire cambiamenti, nella migliore delle ipotesi, positivi per le politiche e le attività dei vari ministeri dei paesi terzi. Questa affermazione non è solo risultato della mia personale esperienza, ma anche di quella di altri antro­ pologi/ghe come Dorothy Hodgson e Pauline Peters che, insieme ad Anne Ferguson, Peter Little, John Galaty, William Derman, Angelique Haugerud ed altri, nel 1996 parteciparono ad un panel dal titolo Development as Ide­ ology and Practice: A/ricanist (Retro)spectives presso il novantacinquesimo raduno annuale dell'American Anthropological Association a San Franci­ sco. Dunque, se per svolgere consulenze si devono acquisire anche abilità considerate non specifiche dell' antropologia, sarebbe assurdo rinunciarvi in virtù di una specie di purismo disciplinare. Note I. Si ringrazia il prof. Antonino Colajanni per i preziosi suggerimenti relativi alla strutturazione del seminario. 2. Si veda anche il capitolo di Mariano Pavanello in questo libro. 3· Cfr. Fassin ( 1999 e 2ooo). 4· L'organizzazione del seminario è avvenuta di concerto con il pro f. Antonino Colajanni i cui suggerimenti sono stati preziosi. 5· Tale progetto sponsorizzato dall'esercito degli Stati Uniti d'America fu definito nella Camera dei deputati in Cile un progetto neocoloniale e di indebita intrusione della politica estera statunitense nella politica latinoamericana. 6. Anthropology and Consultancy, edizione speciale di "Social Analysis. Journal of Cul­ tura! an d Social Practice" , University of Adelaide, Adelaide, pubblicato in seguito come libro da Berghahn nel 2004. 7· "Critique of Anthropology" , 20, I, March 2ooo, Sage Publications. 8. Cfr. anche Malkki ( 1992, p. 30) . 9· Tali documenti venivano invece mostrati di routine in Rwanda nel 2005 nel corso di una missione per la Unione Europea dedicata alla produzione di una matrice multi-criterio da usare per la priorizzazione di progetti nelle strutture amministrative recentemente decentrate. 10. Quick an d dirty è una frase usata alla fine degli anni Settanta nell'elaborazione del metodo di raccolta dati veloce del Rapid Rural Appraisal (cfr. Chambers, I98I). Con la frase "veloce e sporco" si indica metaforicamente il modo con il quale si raccolgono quei dati socio­ economici: raccolti in brevissimo tempo, senza grande precisione, ma comunque fornendo una base minima indispensabile per poter formulare un progetto in maniera informata dalla realtà piuttosto che sulla base di assunzioni a priori. n . Con l'aumento dei conflitti armati nel mondo gli antropologi si sono trovati, volenti o nolenti, a far ricerca in contesti di guerra. Alcune riflessioni sulle implicazioni anche epistemo­ logiche di questo sono già state raccolte (cfr. tra gli altri Nordsrom, Robben , I995 e Jourdan, 20io), ma molto resta ancora da fare come dimostrato dal panel organizzato da chi scrive al congresso biennale dell'associazione degli africanisti europei ad U ppsala nel giugno del 2on e da altri recenti scritti tra i quali Robben, 2008. I2. Per esempio Luca Ricolfi (2oor). 13. Si considera punto di vista etico l'interpretazione di un determinato evento data dagli osservatori e punto di vista emico quello espresso dagli attori sociali.

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14. Per una distinzione tra antropologia dello sviluppo, antropologia nello sviluppo e antropologia per lo sviluppo vedi il testo di Antonino Colajanni (1994, pp. 97-8). 15. Ricordo un acceso dibattito su questo tema ad un Friday Seminar nel 1992 presso la London School of Economics (LSE) tra antropologi della LSE e antropologi e sociologi della School of Orientai an d African Studies e del King's College di Londra. 16. La Commissione per la verità e la giustizia in Sudafrica è stata istituita nel 199 5 dal governo delle Nazioni Unite per favorire la gestione di ciò che era successo durante l'apartheid in termini di violenza e abusi dei diritti umani dalle parti coinvolte.

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N ote e riflessioni

sulla consulenza antropologica di Antonino Colajanni

È ormai da più di una cinquantina d'anni che gli antropologi professionisti (cioè i docenti universitari e i titolari di titoli di formazione postuniversitaria, come i PhD) sono chiamati - a diverso titolo - da agenzie, società, governi, organizzazioni internazionali e ONG, a fornire dei servizi intellettuali speci­ fici all'interno di iniziative, programmi e progetti di promozione sociale e sviluppo in aree diverse del mondo, soprattutto - ma non esclusivamente in aree marginali, rurali e indigene. Questa attività di fornitura di servizi intellettuali rientra nella catego­ ria generale della consulenza, il cui carattere è fondamentalmente quello di muoversi all'interno di certi " termini di riferimento" dettati dall'agenzia che ha offerto l'incarico, di avere tempi delimitati, e di realizzarsi in contesti nei quali il consulente incarna una sorta specifica di "lavoro semi-dipendente" , anche se viene frequentemente sottolineata l'autonomia intellettuale dell' at­ tività di cui si tratta. È ovvio che rispetto alla normale attività di ricerca e di docenza di un professore universitario, l'attività qui delineata presen­ ta differenze non da poco. Il docente dipende soprattutto dall'accademia all'interno della quale svolge la sua carriera, fatta di gradini che vengono superati in massima parte attraverso la produzione di pubblicazioni perti­ nenti. Dipende anche dalle regole del sistema universitario e dalle sue dina­ miche di politica della ricerca e di affiliazioni di gruppi di ricercatori. Ne dipende non solo per l'impostazione e la direzione delle indagini, ma anche - ovviamente - per quanto riguarda i finanziamenti . L'attività di consulenza, invece, mette in grande evidenza il soggetto committente (una società, un ministero, una 0:-.JG, un'organizzazione internazionale) che è il principale soggetto attivo del rapporto ed esercita un controllo variabile sulla gestione dell' attività menzionata e sui suoi prodotti, ma è anche responsabile della "utilizzazione " finale degli stessi, giacché - per solito - " acquista" i rapporti e le relazioni del consulente, che è il più delle volte impegnato a non far menzione altrove dei risultati della sua attività. È dunque importante met­ tere in evidenza, fin da subito, che nell'attività di consulenza assistiamo a una diversa configurazione della "libertà di scelta" del consulente, e spesso a una sua consistente "limitazione" .

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In termini generali, la consulenza può consistere nella fornitura diparerz: suggerimentz: consigli, su singoli aspetti, problemi, alternative possibili nel caso di azioni, progetti, iniziative di carattere socio-economico, ma anche nella valutazione} giudizio} apprezzamento, di azioni specifiche già portate a termine o in corso. Nel caso in cui l'intervento consultivo riguardi esclusiva­ mente l'analisi dei testi di programmazione, bozze di progetti, pianificazioni di attività, il lavoro del consulente può avere un carattere appena differente. Si tratterebbe in questi casi della verifica di validità, appropriatezza, fatti­ bilità, coerenza e congruenza logica delle azioni programmate, sulla base di un esercizio di simulazione revisionale. In questo caso il consulente, sulla base della conoscenza previa dei problemi e delle regioni interessate, sulla base della logica e dell'analogia (comparazione con programmi ed azioni effettuate da altri soggetti in condizioni e circostanze simili) , può cercare di identificare le possibili conseguenze delle azioni programmate, suggerendo poi correzioni, o la scelta tra le alternative possibili. Ma questi casi possono prevedere solo un lavoro di studio e di biblioteca, un'analisi di testi prodotti dall' agenzia contrattante e di testi analoghi. Cosa diversa è l'intervento del consulente che preveda anche un sondaggio-ricerca sul campo, nel quale è prevista la produzione di nuovo materiale informativo e documentario sulle situazioni-progetti di cui si tratta, una osservazione di occasioni, incontri, riunioni locali, una interrogazione di testimoni privilegiati, una raccolta e analisi di documenti non pubblicati esistenti negli archivi in loco. In questi casi è di tutta evidenza la forte analogia fra queste attività di sondaggio­ ricerca sul campo e quelle che normalmente, nella sua carriera accademica, l'antropologo ha condotto per anni (per buona parte delle considerazioni che precedono, in un quadro abbastanza sistematico, rinvio al mio saggio: Colajanni, 1997-98) . · --:

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La consulenza può dunque basarsi su tre elementi fondamentali, collegati tra loro: 1. la conoscenza previa e approfondita, da parte del consulente, dei pro­ blemi coinvolti nelle iniziative sottoposte al suo intervento; questa cono­ scenza in genere si basa anche sulla esperienza diretta di situazioni simili; 2. la capacità di esprimere scelte, pareri, giudizi, proposte e suggerimenti sulle cose da fare, oltre che su quelle già fatte; e quella di produrre nuove informazioni sulle situazioni e le attività di cui si tratta; 3· la capacità di esercitare influenza sulle decisioni altrui, adoperando stru­ menti adeguati di argomentazione e convinzione; l'attitudine alla comuni­ cazione efficace è dunque un elemento molto importante. La scelta degli argomenti e la loro progressione logica, la conoscenza dei fini, delle men-

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talità e delle "culture organizzative" dell'agenzia contrattante, la prudenza nel presentare critiche e mutamenti di rotta nel corso delle azioni, sono tutti elementi che presuppongono una esperienza di rapporto e dialogo con le istituzioni. Il che, nel caso della provenienza del consulente dal mondo ac­ cademico, non è facile da riscontrarsi. Sul primo punto conviene soffermarsi appena, perché la conoscenza non è detto che debba essere di necessità solo previa, rispetto all'azione di consulenza, che avrà di necessità (ma questo è un problema cruciale sul quale converrebbe soffermarsi) tempi brevi, e spesso non compatibili con la temporalità consueta nella ricerca accademica. La conoscenza può in­ fatti anche - come sopra accennato - essere concepita come una nuova co­ noscenza, nata e creata nel corso stesso dell'azione di consulenza. Infatti, i consulenti antropologi, per svolgere il loro lavoro nelle sedi specifiche dei progetti e iniziative nelle quali soggiornano per un certo periodo, raccolgo­ no materiali di "letteratura grigia" (rapporti, relazioni, lettere dalla periferia al centro, minute di riunioni ecc.) , svolgono osservazioni dirette di eventi significativi ai quali assistono come testimoni (meeting, incontri formali e informali) , e raccolgono interviste a personaggi privilegiati, o infine svol­ gono conversazioni libere tematizzate. Questo materiale di prima mano, poi analizzato e posto in rapporto con i testi fondamentali dell'iniziativa in questione, tende a costituire dunque un "corpo conoscitivo nuovo " , che può essere ( anzi, deve essere) stabilmente e funzionalmente connesso con l'esercizio della capacità di esprimere pareri, decisioni, scelte, proposte e suggerimenti. Il parere, dunque, mi sembra che possa e debba provenire non tanto e non solamente da una base di conoscenza previa, accumulata in anni, ma anche dall'esercizio di attività specifica di ricerca sociale. Una conclusione di carattere generale e di importanza cruciale deriva da quanto detto: la ricerca può e forse deve far parte stabilmente dell'attività di consu­ lenza. E naturalmente non potrà che trattarsi di ricerca sociale che possa essere riconosciuta come tale dai centri deputati istituzionalmente a que­ sto lavoro, cioè le università e i centri di ricerca. Anche se i caratteri, gli orientamenti e i metodi potranno essere alquanto diversi: si tratterà infatti di una ricerca applicativa. Cioè di una ricerca su certi temi specifici (l'indu­ zione al cambiamento socio-economico e le risposte locali, per esempio) e orientata alla soluzione di problemi (problem solving) nati nel corso delle azioni programmate. Mi sembra opportuno sottolineare che questo tipo di ricerca non si oppone, non dovrebbe opporsi, alla ricerca consueta degli accademici : non per natura, intensità descrittiva, carattere argomentativo, intenzione esplicativa. Si tratta solo di una ricerca diversamente orientata e avente oggetti diversi da quelli dell' antropologia tradizionale. Ogni troppo radicale opposizione e distinzione gerarchica tra recherche fondamentale da un lato, e recherche appliquée dall'altro, mi sembra dunque inopportuna.

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Per avere un quadro completo delle dinamiche di consulenza bisogne­ rebbe inoltre analizzare approfonditamente il soggetto che sceglie di in cari­ care l' antropologo dell'attività predetta. Non è facile, spesso, capire a fondo perché l'istituzione, l' agenzia responsabile di un progetto o programma, chiama un consulente antropologo a fornire il suo particolare servizio intel­ lettuale. Spesso si tratta di una semplice attività routinaria, entrata a far par­ te dei " costumi organizzativi " dell'agenzia, prevista nei piani programmatici o nelle regole metodologiche; un atto dovuto, insomma, al quale non si at­ tribuiscono, da parte del committente, funzioni particolarmente importanti . Anzi, talora viene tollerato o accolto con "fair play" , purché non porti a spiacevoli o scomode conseguenze, come quelle della critica radicale alle at­ tività svolte o programmate. Risulta quindi di grande importanza avere una idea chiara dei fini istituzionali, dello stile di lavoro, e delle esperienze pre­ vie, dell'agenzia di cui si tratta, nonché degli effetti delle consulenze analo­ ghe a quella presente, e delle attitudini dell'agenzia - mostrate nel passato ­ in reazione a prestazioni di questo genere. Sarà inoltre indispensabile avere una chiara idea dell'immagine che dell'antropologia esiste nella menzionata agenzia, e di come essa si sia formata nel tempo. Le aspettative, le previsioni e i giudizi che nell'agenzia si manifesteranno nei confronti dell'antropologia e delle scienze sociali in generale, saranno dunque molto importanti per suggerire il codice strategico e tattico di comportamento del consulente. Un attento esame dei testi programmatici dell'iniziativa da esaminare e dei testi di fondazione dell'istituzione di cui si tratta (regole metodologiche, principi operativi, scelte particolari nel campo delle strategie di sviluppo, orientamenti di politica generale, precedenti esperienze documentate ecc.) potrà facilitare il compito del consulente . Come anche sarà facilitato il suo compito se il progetto o l'iniziativa di cui si tratta conterrà al suo interno delle solide e specifiche griglie metodologiche che possano orientare e va­ lidare l'attività di consulenza (come avviene per i piani di valutazione e gli indicatori di valutazione che di solito vengono inseriti all'interno dei testi dei programmi) . Per quanto riguarda il secondo punto, la capacità di operare scelte, de­ cisioni, previsioni, giudizi, pareri e suggerimenti, bisogna notare che questo tipo di attività distanzia notevolmente l'antropologia applicativa da quella semplicemente " accademica" . C'è tutta una tradizione di distacco dalle ope­ razioni suddette nella migliore tradizione accademica, che ha spesso insistito sulla difficoltà, sulla complessità, sulla imprudenza di decisioni, scelte, previ­ sioni, sulla base dello scarso tempo a disposizione del consulente. Possiamo ricordare le vecchie e circospette affermazioni scettiche di Evans-Pritchard nei confronti dell'antropologia applicata (Evans-Pritchard, 1946) , o le più recenti osservazioni critiche e abbastanza scettiche anch'esse, di Paul Baxter, che spostava l'attenzione sui popoli oggetto di studio, notando con enfasi e

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in maniera sicuramente fondata ma che eludeva il problema delle decisioni, che rimane comunque sul tavolo, come «quando svolgono la loro ricerca sul campo gli antropologi non sono esperti ma sono apprendisti; i popoli sui quali e dai quali stanno apprendendo, sono loro i veri esperti. Gli antropo­ logi possono solo trasmettere ciò hanno imparato dai loro maestri, coloro le cui culture e istituzioni essi studiano» (Baxter, 1987, p. 65) . E infine, il no­ stro Francesco Remotti manifestava una posizione ancor più carica di dubbi: «Goffo e spesso deludente fornitore di consigli validi qui e ora, l'antropologo può dare il suo " aiuto" più importante nell'individuazione dei limiti nostri e altrui e, insieme, nella perlustrazione - o quanto meno nell'evocazione - di possibilità che, per quanto limitate, travalicano sempre i confini della società che egli studia o della società da cui proviene e che quindi non si lasciano ri­ assumere nelle troppo semplici categorie (o nei miti) dell'arretratezza e dello sviluppo» (Remotti, 1987, p. 375) . Fortunatamente, c'è una grande quantità di professionisti delle discipline antropologiche che ha scelto una strada di­ versa, quella del tentativo di aggiungere qualcos'altro all'attività tradizionale di ricerca accademica. Si ha infatti l'impressione che si tratti - nei casi citati ­ di cautele eccessive, e di un'attitudine al disimpegno e alla protezione del proprio orto chiuso di conoscenze. La vecchia opposizione tra ricerca "pura" e ricerca " applicata" , che a volte era di incompatibilità radicale e identifica­ va una sorta di " antropologia di secondo piano" nelle ricerche applicative, illustra bene questo punto. Ma il rifiuto di " coinvolgimento" nelle attività pratiche (senza ovviamente che siano perse le caratteristiche fondamentali della disciplina) è ormai considerato da quasi tutti gli antropologi un com­ portamento da evitare. Infatti, il mondo contemporaneo è pieno di sfide alle quali dovrebbe essere dovere morale di un antropologo cercare - nei limiti delle proprie possibilità - di dare una qualche risposta. Del resto c'è una pie­ tora di operatori, politici, giornalisti e semplici commentatori che non fanno altro che esercitare giornalmente le attività di suggerimento, consigli, spinta verso certe scelte o previsioni che riguardano il futuro sociale e culturale delle comunità umane. Si può dunque pensare che l' antropologo con voca­ zione applicativa abbia minori probabilità di dire sciocchezze, di seguire o sostenere interessi locali contingenti o approvare acriticamente politiche ge­ nerali; e ciò sulla base della sua conoscenza delle situazioni locali che sarà di certo superiore , meglio coordinata e teoricamente fondata, di quella di uno qualunque degli altri personaggi appena menzionati. Lo sforzo di suggerire soluzioni, valutare scelte altrui, cercare decisioni pertinenti tra alternative possibili, prevedere gli effetti di medio e corto termine che possono essere prodotti da certe decisioni e da certi piani, costituisce un lavoro importan­ te e certamente legato al tipo di formazione specifica che dovrebbe avere l'antropologo dello sviluppo. Egli infatti, di tutti i grandi temi generali pro­ pri della conoscenza antropologica ne ha scelto - come è stato accennato -

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uno come centro delle sue riflessioni e delle sue ricerche: quello dei cambia­ menti sociali e culturali e dei loro effetti sul comportamento delle persone. È ovvio dunque che egli possa e debba impegnarsi su questi argomenti . Il terzo punto infine, la capacità di esercitare influenza sulle decisioni altrui , che saranno prese nel prossimo futuro, richiama un tema di grande interesse, che come tale ha suscitato un' attenzione limitata nella letteratura specifica. Si tratta del tema del rapporto tra conoscenza e azione. Sembrereb­ be ovvio che ogni sistema di azione, ogni insieme di decisioni, ogni strategia progettuale, che preveda di ottenere certi risultati dopo un certo periodo di tempo utilizzando determinati strumenti, sia basata su una attenta rico­ gnizione delle situazioni locali sulle quali influire, sugli interessi in gioco, sulle opinioni esplicite degli attori sociali e sulle presupposizioni nascoste. Purtroppo, l'esperienza dimostra senza ombra di dubbio che così non è. Raramente le decisioni vengono prese dopo uno studio accurato delle si­ tuazioni locali. In genere si applicano a una situazione data schemi-modelli preesistenti ed elaborati per, nonché applicati a, situazioni diverse e spes­ so assai lontane. Le costrizioni temporali, le pressioni locali o provenienti da grandi soggetti decisionali potenti e lontani, una certa semplificazione burocratica, che tende a rinviare gli approfondimenti a quando l'iniziativa sarà di fatto finanziata con sicurezza, tendono a fare dei testi-progetti delle iniziative di cambiamento pianificato, delle approssimazioni modeste, delle inconsistenti progettazioni, la cui scarsa probabilità di efficacia appare spes­ so a chi è veramente competente di un certo problema in una certa regione del mondo. Tocca dunque all' antropologo consulente di dimostrare la per­ tinenza, l'importanza e l'efficacia possibile di un sistema conoscitivo intenso e pertinente. Tocca a lui dimostrare che solo conoscendo a fondo l' organiz­ zazione sociale dell'economia, i sistemi di disuguaglianza socio-politica, le propensioni al consumo, i vincoli religioso-ideologici, la divisione del lavoro tra i sessi (per non accennare che ad alcuni degli argomenti più importanti) , i piani di azione potranno essere efficaci . Spesso si tratta più che altro di correggere alcune azioni o sequenze di azione, o di sostituire alcune nozioni con altre, dimostrandone la inapplicabilità o la inconsistenza informativa. È tutta un'attività di maieutica, di argomentazione, che si basa sull'assunto ap­ parentemente ovvio che, sapendo le cose, si può agire meglio. Per svolgere bene questo importante e difficile compito l'antropologo consulente dovrà partire dai piani, dalle strategie, dalle scelte fatte dall'istituzione per la quale lavora e trovarvi - per iniziare - degli errori che siano, innanzi tutto, ricono­ scibili secondo le regole, le norme e gli stili di azione della stessa istituzione. Si dovrà dunque cominciare dalla verifica dell'applicazione delle linee di azione generali e particolari della istituzione, dimostrando poi, attraverso la messa in campo di studi, decisioni, documenti di altre istituzioni dello stesso tipo, che alcune azioni, alcune decisioni sono contrarie alle regole istituzio-

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nali, all'esperienza e alle decisioni di istituzioni analoghe. Solo dopo di ciò si potrà iniziare a mobilitare elementi conoscitivi propri dell'antropologia e della ricerca diretta effettuata dal consulente, anche per identificare azioni alternative a quelle previste e programmate.

La letteratura antropologica specifica sulla consulenza non è particolarmen­ te ricca, ma un'analisi accurata del gran numero di testimonianze di antro­ pologi che hanno lavorato per varie istituzioni pubbliche e private potrebbe fornire un quadro sufficiente della gran varietà di esperienze e di situazioni concrete nelle quali gli studiosi delle scienze dell'uomo si sono confrontati con i difficili problemi che il rapporto con le istituzioni impone. E anche dei problemi e delle contraddizioni nelle quali queste attività si sono trovate. R. L. Stirrat ha dedicato al tema un interessante saggio nel quale, partendo dal­ la positiva considerazione che il numero di consulenti antropologi è passato in Inghilterra (presso il Department for lnternational Development) dai due del 1988 ai più di cinquanta del 1999 , ha poi notato che la maggior parte di essi sono impegnati in consulenze di breve tempo (short-term consulta­ tions) . Egli sottolinea i condizionamenti di carattere generale, si direbbe "teorico-ideologico " , ai quali sono sottoposti (i fatti di sviluppo sono fatti empiricamente dati e verificabili, quindi non v'è spazio per la "interpreta­ zione " ; la "razionalità" dei processi economici porta con sé l'identificazione obbligatoria di legami sistematici tra cause ed effetti lineari, che possono permettere la previsione precisa di ciò che accadrà quando qualcosa viene cambiato; la "modernità" migliorativa è considerata un "dato" indiscutibile; e così via) e che determinano consistentemente gli outputs dell'attività dei consulenti antropologi. I quali, soprattutto nelle missioni brevi, lavorano di fatto all'interno di un gruppo di esperti di diverse discipline, il che provoca complessi processi di riaggiustamento continuo del proprio profilo di attivi­ tà, per evitare conflitti e rappresaglie nei rapporti personali, che influenzano la resa delle attività professionali. Del resto, è evidente la " dipendenza" dei consulenti di corto termine dalla logica dei progetti e dalle "necessità" for­ mali degli stessi. I consulenti assistono i responsabili nella formulazione di politiche, producono rassegne settoriali su certi temi che siano utili per la pianificazione, svolgono attività di monitoraggio e di valutazione all'interno di quadri predisposti e secondo indicatori forniti dall'agenzia che li contrat­ ta. Insomma, il loro lavoro è concepito come una piccola parte di un insieme molto più vasto, al quale deve adattarsi. Anche la "forma" della scrittura dei rapporti segue un modello precostituito. La parte più importante di un rapporto è costituita dalle " raccomandazioni " , che devono essere formula­ te, per solito, all'interno e non all'esterno del progetto. Il linguaggio deve

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richiamare il più possibile la " obiettività" . Parole come "forse " , " alcuni " , "non chiaro" , "incerto" , "contraddizione" , "frattura " , sono sistematica­ mente assenti dai rapporti dei consulenti. Il dubbio non è permesso, ed è sistematicamente esclusa la "personalizzazione " del rapporto. L'autore non appare e non assume la diretta responsabilità di ciò che dice, come invece accade negli scritti accademici. In conclusione, l'opinione di Stirrat è ab­ bastanza pessimistica: l'impatto pragmatico del lavoro dei consulenti an­ tropologi, in termini di effetti diretti sul contenuto specifico dei progetti di sviluppo, è irrilevante. L'efficacia di questi consulenti può essere identificata piuttosto nella dimensione "culturale " (diffusione di idee, di punti di vista, di visioni d'insieme, di considerazioni di cornice, che spesso assumono una funzione retorica) . Si tratta perfino, in buona parte dei casi, di una questio­ ne " estetica" : gli antropologi consulenti avrebbero dunque la funzione di "abbellire " i progetti, dimostrando che aspetti non meramente economici, tecnici e materiali avrebbero anche una qual certa importanza (Stirrat, 2000, pp. 31-46) . Un anno dopo, la rivista australiana "Social Analysis " dedicava un inte­ ro numero al tema Anthropology and Consultancy, curato da Pamela Stewart e Andrew Strathern, nel quale vari autori affrontavano diversi temi connes­ si con l'importante argomento. Il tono dell'intera pubblicazione, che rac­ coglieva sei saggi scritti da altrettanti ricercatori di campo, la maggior parte dei quali avevano lavorato nella figura di consulenti, ma di lungo periodo e per diverse istituzioni del cambiamento economico-sociale, è molto diver­ so, e moderatamente ottimista. Nella loro introduzione al volume Strathern e Stewart enfatizzano il legame stretto tra questa singolare forma di "nuova antropologia applicata" che nasce nell' attività di consulenza e l' antropolo­ gia generale, rifiutando ogni netta e rigida disconnessione tra antropologia generale e antropologia rivolta a interessi applicativi. La regione etnografi­ ca alla quale appartengono tutti gli studi è la Nuova Guinea, nella quale i maggiori interventi di ricerca rivolta all' applicazione in contesti di cambia­ menti pianificati riguardano gli interventi di larga scala promossi da grandi imprese minerarie in aree densamente occupate da popolazioni indigene. Tra le obbligazioni primarie del ricercatore applicativo (che è un esperto di processi di cambiamento socio-culturale e delle reazioni attive da par­ te della società nativa alle proposte-pressioni della società più ampia) c'è quella nei confronti dei gruppi locali che lo hanno ospitato e oggi , essendo in massima parte letterati e titolari di forme organizzative socio-politiche di difesa etnica, si trovano perfettamente in grado di giudicare e valutare le azioni e le asserzioni degli antropologi. Un altro dei principali problemi di questa attività di legame e condizionamento nei confronti delle istituzioni, agenzie, società, gruppi economici, che contrattano l'antropologo, è quello del diritto di pubblicare i risultati . È qui evidente che ci troviamo in una

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situazione diversa da quella delle assegnazioni di compiti dai confini ben definiti (con rigidi termini di riferimento) e per tempi brevi, il più delle volte affidati a soggetti forniti certo di formazione professionale antropo­ logica, ma spesso "consulenti indipendenti " . Qui si tratta di antropologi che svolgono la loro normale e intensa ricerca di campo, dottorale o post dottorale, di lungo periodo, e nel contempo hanno accordi di consulenza con i soggetti esterni all' accademia menzionati . Per ragioni non facili da spiegare, la Nuova Guinea ha presentato negli ultimi anni molte occorren­ ze di questo tipo. E qui, dunque, il problema della "libertà" di pubblicare i risultati delle ricerche assume un rilievo tutto particolare. Il ruolo di questi antropologi è dunque molto vicino a quello di " commentatori " , di " media­ tori " , agenti responsabili nei processi di cambiamento, più honest cultura! brokers che partisans o advocates. Del resto, i tempi lunghi della ricerca e della consulenza impongono ulteriori cautele e difficoltà. Infatti, un sugge­ rimento, o commento, o valutazione su certi aspetti dei processi in corso, che viene proposto in un certo stadio del progetto, può non essere oppor­ tuno o valido in uno stadio successivo. E la società locale, in continuo e intricato "movimento " nel tempo, deve essere monitorata incessantemente, sì che " comprendere i punti di vista e gli interessi di una comunità" è un' at­ tività che deve essere aggiornata senza sosta. Poiché i gruppi sociali sono oggi sempre più consapevoli delle attività complessive dell'esperto antro­ pologo Oa raccolta di informazioni e dati, l'interpretazione degli stessi e la fornitura di "previsioni " , pareri , valutazioni) , ne risulta che più lungo è il periodo di ricerca sul campo, maggiore può essere la insoddisfazione della gente nei confronti dei " vantaggi " che possono essere attesi dall'opera del ricercatore (Strathern, Stewart, 2oora) . Tra gli studi di campo presentati nella pubblicazione collettiva citata, mi sembrano particolarmente rilevanti quelli di Lorenzo Brutti e Martha Macintyre, che hanno avuto esperienza di consulenza di lunga durata (dai nove mesi a un anno) per diverse compagnie minerarie. A Brutti è toccato di costruire un complesso survey in otto villaggi degli Oksapmin stanziati nel bacino del fiume Strikland e i suoi affluenti, nella provincia di Sandaun della Nuova Guinea. La raccolta di dati riguardava i confini tra i territori dei diversi clan per stabilire l'opportuna quantità di compenso da liquidare ad ogni gruppo, a causa dei gravi pregiudizi ambientali e dell'inquinamento determinati dalla compagnia mineraria, ed i servizi di base nonché l'aiuto socio-economico che erano opportuni per le comunità le quali subivano un processo molto drastico di cambiamento socio-economico. L'autore raccon­ ta delle sue perplessità iniziali, di carattere etico-politico, e alla fine dichiara che la migliore strategia, per un antropologo che voglia " restituire" in qual­ che modo alla società che lo ha ospitato ed ha contribuito a fargli costruire la carriera professionale, l'amicizia e la disponibilità, è quella del "cavallo

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di Troia" . Egli sostiene che: «L'antropologo può essere molto più utile alla popolazione locale come " Ulisse" , che come un "Don Chisciotte" » (Brutti, 2001, p. 96) . Del resto, gli indigeni, che lo avevano conosciuto a lungo nel periodo della sua " ricerca fondamentale " come semplice antropologo, si dichiararono entusiasti che fosse lui il possibile " mediatore " tra le comunità e la compagnia mineraria. Se egli non avesse accettato, il rischio sarebbe stato quello che il lavoro di consulenza lo avrebbe fatto qualcun altro, cer­ tamente con minore conoscenza della regione e con minore consapevolezza dei problemi della gente locale. L'importanza della cosmologia e delle idee religiose della popolazione fu subito evidente, giacché il degrado ecologi­ co e l'impoverimento complessivo dell'area - determinato dalle iniziative di sfruttamento della compagnia mineraria - era immediatamente inscritto dagli indigeni nel quadro più ampio delle loro concezioni e credenze sulla prossima "fine del mondo " . Ma sorsero problemi sulla sua nuova "identi­ tà " , che spingeva la gente progressivamente a considerarlo come "uno della compagn1a " . La ricerca della Macintyre era concentrata in un altro contributo for­ male e routinario di consulenza, il social impact assessment, che doveva so­ prattutto essere concentrato sulle donne e sulle loro aspirazioni e problemi critici nel processo di cambiamento socio-economico provocato da un'altra compagnia mineraria. Un' analisi molto raffinata delle contraddizioni tra le aspettative universalistiche e filo-femminili dell'antropologo e le resistenze anti-passatiste da parte delle donne rende molto interessante questo saggio, nel quale è più volte sottolineato il possibile paradosso che spinge l'antro­ pologo a considerare come importanti e da rafforzare istituzioni e costumi "tradizionali " che invece la società locale può considerare obsoleti, favoren­ do alcuni aspetti di disgregazione sociale che si accompagnano alla moder­ nizzazione disordinata. L'autrice rivela anche qualche sua perplessità sulle capacità di «comprensione di certi fenomeni di cambiamento sociale acce­ lerato», da parte delle posizioni antropologiche più specificamente "accade­ miche" . Altra affermazione interessante, che viene dalla lunga esperienza di consulente in Nuova Guinea, è che è a volte più semplice ed utile dialogare con attori sociali del mondo industriale, che sono in grado di identificare i vantaggi - anche economici - di una buona consulenza sociale, piuttosto che con i burocrati, a livello locale o nazionale, i quali mantengono costan­ temente atteggiamenti anti-intellettuali. Critica nei confronti dei rapporti di consulenza brevi e approssimativi, infarciti di dati quantitativi, e di visioni monocausali dei processi sociali, l' autrice rivendica l'importanza e l'oppor­ tunità delle ricerche consultive di lungo periodo, a giunge alla conclusione che «molto spesso i più complicati e difficili problemi nei nostri studi sono illuminati o resi comprensibili solo cercando di applicare l' antropologia alle questioni pratiche» (Macintyre, 2001, p. 119) . .

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Un'ulteriore raccolta di saggi recente sul tema vale la pena di essere ci­ tata, perché contiene contributi di grande interesse, che ridiscutono l'intero problema delle differenze tra sapere accademico e sapere " applicativo", della efficacia del sapere nei confronti del fare, dei dilemmi etici e politici che pos­ sono nascere dalla " collaborazione" di un antropologo con i poteri dello Sta­ to, delle organizzazioni territoriali e delle forze economiche internazionali, dei pregi e dei limiti della advocacy, del rapporto tra azione degli antropologi e reazioni dei popoli indigeni (Morris, Bastin, 2004) . Dagli studi contenuti in questa pubblicazione collettiva emerge con forza l'estrema diversità delle pratiche di consulenza, nei diversi contesti, e soprattutto la differenza strut­ turale nei comportamenti, nelle aspettative, nelle pretese e nelle pratiche con­ crete che assumono i differenti interlocutori dei consulenti (organizzazioni internazionali, governi, agenzie e società, ONG, imprese) . Risulta di partico­ lare interesse il saggio di Georg Henriksen, che fa riferimenti precisi a espe­ rienze di consulenza antropologica di alcune ONG che agiscono in difesa delle popolazioni indigene, e che - senza perdere nulla della tradizione di difesa radicale dei diritti umani e della lotta socio-politica contro le forme di discri­ minazione - mostrano anche, tuttavia, una capacità di agire nei tempi lunghi, con pazienza, sfruttando le risorse degli argomenti giuridici, e con coraggio. Ma il caso più interessante è quello della consulenza dello stesso antropologo per una associazione degli indigeni Naskapi-Montagnais in Canada. L'ogget­ to del lavoro di studio e ricerca di argomenti di difesa era costituito dai diritti sulla terra, dei quali doveva essere dimostrato l'esercizio d'uso continuo da tempi immemorabili. n gioco degli argomenti e dei controargomenti del go­ verno provinciale dimostra tutta la necessità di ricorso alle ricerche puntuali e al sapere giuridico. Ma il caso fece esplodere le sue contraddizioni anni dopo, quando alcuni geologi localizzarono nella Terra Indigena alcuni ricchi depo­ siti di rame, cobalto e nichel. Una gigantesca compagnia mineraria acquistò subito i diritti di sfruttamento. La lotta degli indigeni, con il loro consulente specializzato in antropologia giuridica, mostrò subito le contraddizioni in­ terne, generate dalle divisioni tra coloro che erano favorevoli all'ingresso in campo della compagnia mineraria, poiché si aspettavano vantaggi in termini di royalties, servizi basici, compensi in denari, lavoro, e coloro che invece vo­ levano mantenere la regione incontaminata. L'autore mette bene in evidenza i dilemmi e le contraddizioni possibili, nonché la difficoltà a identificare, in casi come questo, un quadro di produzione di "conoscenza per l'azione" che sia limpido, coerente, e non influenzato dalle forze sociali e politiche in gioco, dalle due parti coinvolte. E comunque, rimane poi aperto il successivo problema che le conclusioni del consulente, per quanto basate su conoscenza ineccepibile e neutrale (o magari apertamente e favore della parte indigena) , possono alla fine spingere verso direzioni politiche differenti, o essere usate in modi imprevisti (Henriksen, 2004, pp. 72-5) .

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Ma voglio terminare queste note e riflessioni sulla consulenza antropo­ logica ricordando, anche se solo di passata, una vecchia, e recentemente rin­ novata in modo critico, tradizione di studi e azioni pratiche professionali da parte degli antropologi, che ha visto in Brasile un rigoglio notevole . Si tratta della originale posizione degli antropologi brasiliani, della ABA (Associaçao Brasileira de Antropologia) che hanno sottoscritto un accordo istituzionale con il ministero della Giustizia per coinvolgere gli antropologi professionisti in attività di "perizie giudiziarie " richieste dai giudici i quali debbano de­ cidere cause per le quali possa essere importante il "parere professionale " degli antropologi. In generale si tratta di controversie tra gruppi organizzati di indigeni, comunità, e proprietari terrieri o enti locali, sui diritti terrieri trasmessi dalle generazioni precedenti e sulle possibili " definizioni etniche" , che consentono a un gruppo ampio di beneficiare dei provvedimenti ema­ nati dai governi nei confronti delle "popolazioni indigene " . Risulta molto interessante questo lavoro di ricerca e di espressione di opinione profes­ sionale da parte degli antropologi, che viene uniformato a quello, più noto, delle "perizie tecniche " . Questo è un caso nel quale l'efficacia dell'opinione degli antropologi , la fondatezza dei loro pareri e della loro conoscenza, è garantita dai giudici che adotteranno i pareri all'interno delle loro sentenze. Di fatto, queste esperienze brasiliane configurano una nuova forma di " an­ tropologia applicativa" e rappresentano un caso di omogenea influenza del sapere sul fare, che dipende da un codice condiviso da tutti gli antropologi che fanno parte dell'associazione (Sampaio Silva, Luz, Helm, 1994) . Il dibattito recente sul tema della consulenza antropologica è dunque abbastanza ricco, con saggi e studi di buona qualità. Esso ha rivisto e ri­ discusso su nuove basi il vecchio conflitto tra engagement e detachment, spingendo anche ad una revisione delle sanguinose polemiche degli anni Settanta sull"' asservimento dell'antropologia alle pratiche coloniali " . Tutta­ via, nonostante ci siano buoni studi di caso e analisi di esperienze concrete seguite lungo tempi medio-lunghi, mancano indagini accurate sull'intero ciclo del rapporto tra un consulente antropologo e un'agenzia che ne richie­ de le competenze, dalla proposta di lavoro alla sua esecuzione e ai risultati concreti, una volta che il lavoro sia concluso. Rimane infatti nell'ombra il problema degli effetti che la conoscenza antropologica, e i suggerimenti, le critiche e le proposte alternative, possono determinare, nei tempi medio­ lunghi, sul contesto sociale. Bibliografia BAXTER P. T. w. (1987), Apply as Directed: Social Anthropology. New Nostrum or Old Complaint?, in P. Smith (ed . ) , Project Identi/ication in Developing Countries. Identz/ying Better Development Initiatives in the Agricultural and Rural Sectors,

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Per chi parla l'antropologo. Legittimità della ricerca tra i marginali dello sviluppo partendo da un caso in Mauritania di Riccardo Ciavolella

Partendo da un caso concreto di esperienza di ricerca applicata per una ONG attiva nella Mauritania centro-meridionale, questo capitolo si propone di di­ scutere delle implicazioni etiche e pratiche del coinvolgimento di un antropo­ logo in progetti di sviluppo in cui il ricercatore si propone di analizzare tali progetti dal punto di vista delle comunità locali che ne sono escluse. I progetti di sviluppo locale in Africa e altrove, malgrado i sinceri ed espliciti proposi­ ti di sviluppo partecipativo e partecipato e l'obiettivo di inclusione sociale, possono talvolta contribuire al rafforzamento stesso delle gerarchie e delle dinamiche politiche e sociali, come il clientelismo, già esistenti o in formazio­ ne. Nella letteratura degli wtimi due decenni dell'antropologia dello sviluppo, questo effetto controproducente ha rappresentato uno degli oggetti di attacco da parte della critica radicale che per alcuni si rifanno al "postmodernismo" e che sono in qualche modo riconducibili alla corrente "postsviluppista" (Fer­ guson, 1994; Escobar, 1995; Rist, 1996; Malighetti, 2005) . Questo capitolo tuttavia si propone di andare al di là di una presa di posizione generalizzante sulla "macchina" dello sviluppo, e di accontentarsi di un'analisi concreta di un progetto di sviluppo come una situazione sociale produttrice di nuove dinamiche sociali e politiche (Olivier de Sardan, 1995; Tommasoli, 2001) . In questo senso, una ricerca di antropologia applicata che si focalizza in particolare sull'impatto dei progetti di sviluppo su quelle co­ munità che ne rimangono escluse può rivelarsi significativa per la compren­ sione del ruolo che il ricercatore può avere nel fare emergere i limiti dello sviluppo locale partecipato e i problemi che tale "scoperta" può sollevare tra l' antropologo e l'attore dello sviluppo committente. Nell'agosto 2oo6, ho avviato una collaborazione scientifica in Maurita­ nia con il Groupe de recherche et réalisations pour le développement rural (GRDR) , una delle principali ONG francesi attive in Africa occidentale im­ pegnata storicamente nell'impiego delle rimesse migratorie nei progetti di sviluppo locale e oggi più in particolare nell' appoggio istituzionale alla de­ centralizzazione e alla promozione dello sviluppo locale. L' aspettativa della

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RICCARDO CIAVOLELLA

era di ricevere da una ricerca di antropologia applicata un'analisi del contributo offerto dai progetti di sviluppo alla creazione di una "identità comunale " e alla nascita di una dinamica virtuosa nella politica locale in una regione marginale della Mauritania centro-meridionale, al confine con il Mali. La O:"JG sperava che lo studio potesse rivelare che i loro progetti avessero attivato un'inedita partecipazione di tutte le comunità e di tutti gli esponenti della "società civile" alle decisioni in materia di politica di sviluppo locale. Lo studio tuttavia, applicando un'analisi del grado di marginalità/inclu­ sione delle diverse comunità alla vita politica comunale (Ciavolella, in corso di stampa) , ha rivelato come le iniziative della Ol\'G confermino piuttosto che eliminare le pratiche clientelari che hanno sempre contrassegnato la politi­ ca locale, essendo tali iniziative vincolate alle reti di potere consolidate. In questo contesto, come vedremo, alcune popolazioni, in particolare quelle di origine nomade e le comunità di rifugiati rimpatriati, continuano a restare esclusi dalla politica locale, malgrado i buoni propositi "partecipativi" dei progetti. Quest'analisi è così entrata in conflitto con le aspettative della 01\'G, cre­ ando problemi di riconoscimento di autorità e legittimità del lavoro dell'an­ tropologo. Il GRDR ha infatti considerato in parte "superfluo" il suo apporto scientifico, non tanto perché sembrasse mettere in discussione buona parte della filosofia del progetto, ma perché sollevava delle questioni politiche che la 00JG non era in grado di affrontare per i suoi obblighi istituzionali e la dipendenza dalle logiche politiche mauritane nella definizione della pro­ pria strategia. Il capitolo potrà così offrire la base per qualche riflessione conclusiva sul riconoscimento del lavoro dell'antropologo e sulle questioni etiche e politiche che lo coinvolgono nel momento in cui si propone non di analizzare tecnicamente il processo di sviluppo, ma piuttosto l'esclusione che tale processo può contribuire a produrre. Ol\'G

L'incontro tra l'antropologo

e

la

ONG

Nell'organizzazione di una collaborazione tra il ricercatore e l'attore dello sviluppo intervengono diversi tipi di motivazioni e interessi per entrambe le parti. Gli aspetti pratici sono evidentemente tra le ragioni più importan­ ti che spingono all'elaborazione di una collaborazione. Nel caso concreto, l'antropologo aveva bisogno di un appoggio istituzionale che gli permet­ tesse di continuare le proprie ricerche indipendenti nei villaggi, al fine di assumere una certa legittimità agli occhi non tanto dei suoi interlocutori, quanto piuttosto delle autorità mauritane poco inclini ad accettare una cu­ riosità indipendente e " anarchica" nelle zone rurali. Da parte sua, il GRDR doveva accogliere con favore la possibilità di ricorrere alle competenze e alle

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conoscenze specifiche della regione d'intervento acquisite dall'antropologo. Tuttavia, al di là di queste motivazioni pratiche, il ricercatore e la 0:-..JG hanno trovato un terreno d'intesa nella definizione di una problematica che avreb­ be poi fatto l'oggetto della ricerca: la partecipazione . Per quanto riguarda l'antropologo, un'indagine sull'impatto della de­ centralizzazione e dei progetti di sviluppo locale si dimostrava indispensabi­ le per la conclusione di una ricerca di dottorato basata sull'analisi della mar­ ginalità sociale e politica di alcuni gruppi della regione (Ciavolella, 2oo8) . In particolare , lo studio di antropologia politica si focalizzava su alcune comunità di origine nomade e pastorale (Peul /ulaaBe) che sono state pro­ gressivamente incorporate allo Stato mauritano attraverso delle politiche di esclusione e addirittura di persecuzione "etnica" , in particolare negli anni 1989-91, provocando la fuga di alcuni di loro ora rifugiati in Mali e in Senegal (Ciavolella, Fresia, 2009; Ciavolella, 2009) . Da allora, le comunità rimaste in territorio mauritano e quelle precedentemente rifugiate che vi si sono rein­ stallate vivono ai margini dell'inclusione sociale, della distribuzione delle risorse e della competizione politica locali. Questa prospettiva politica conduceva inevitabilmente ad uno studio allargato alle relazioni di queste comunità con altri gruppi locali - in par­ ticolare i gruppi mauri (Bidan) e le loro élite egemoniche sul piano politi­ co nazionale e i gruppi di Soninké (Sarakulle) relativamente autonomi sul piano economico e politico locale. Ma l'analisi portava così anche ad una riflessione sulla marginalità della regione, tra le più povere del paese, nei termini non tanto di una relazione centro-periferia, quanto di condizione di "margine dello Stato" (Das, Poole, 2004) . In questa prospettiva, si rivelava indispensabile un 'analisi del processo di decentralizzazione e di sviluppo locale e del loro effetto sulle competizioni per le risorse e sul ripiego sul localismo. In Mauritania, il processo di decentralizzazione abbozzato negli anni Ottanta si è lentamente sviluppato nel corso del decennio successivo pur restando sotto l'attento controllo delle autorità centrali, per poi ricevere nuovo vigore con una serie di riforme istituzionali a partire dal 2ooo (PDM, 2003, pp . 250, 259 ) . Sotto l'impulso delle organizzazioni internazionali come la Banca Mondiale e il Fondo monetario internazionale, l' amplificazione del processo di decentralizzazione ha creato, come altrove nel continen­ te africano, delle nuove " arene" politiche locali, delimitando delle nuove frontiere del gioco politico (Bierschenk, Olivier de Sardan, 1998; Blundo, Mongbo, 1998; Billaz, Dahout, Totté, 2003) . Tuttavia, l'attivazione delle nuove dinamiche locali ha contribuito al diffondersi di un nuovo ripiego sul localismo e sull' appartenenza " tradizionale " da parte dei rappresentan­ ti politici e delle notabilità locali, un fenomeno identificato da Peter Ge­ schiere come " autoctonia" (Bayart, Geschiere, Nyamnjoh, 2001) . Questo

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accento messo sull'appartenenza comunitaria ha certamente rappresentato un limite per lo sviluppo di una politica locale incentrata sulla collettività del bene comune municipale, traducendo le pratiche clientelari e politiche che favoriscono solo le comunità meglio dotate in capitale sociale, politico ed economico. È in questo contesto che, dai primi anni del 2ooo, il GRDR ha deciso di intervenire per appoggiare il processo istituzionale di decentralizzazione, con l'intenzione dichiarata di attivare uno "sviluppo partecipativo " in seno alle autorità locali. Questa prospettiva riproduce un approccio allo svilup­ po che potrebbe essere definito come " populismo neoliberale " . Da una parte, esso si basa in termini generali sull'ideologia delle organizzazioni internazionali che, fin dagli anni Novanta in Mauritania, hanno annunciato il " fallimento dello Stato" e attribuito alle autorità centrali le responsabi­ lità degli alti livelli di povertà. Le ONG e altri attori d'intervento pubblico promuovono quindi la decentralizzazione come una delle soluzioni per eludere (by-pass) lo Stato e promuovere lo sviluppo e la democrazia " dal basso" grazie all'iniziativa e ai progetti di sviluppo comunitari e locali. In questo contesto, il GRDR è intervenuto nella regione prima con l'intento di mobilitare le risorse locali per lo sviluppo, in particolare le rimesse dei migranti (co-sviluppo, co-développement) , e poi integrando questa strategia di finanziamento comunitario nel quadro allargato delle comunità munici­ pali e delle autorità decentralizzate. Quest'implicazione nel processo isti­ tuzionale di decentralizzazione traduceva la speranza che i loro progetti di sviluppo apportassero quel cambiamento che le sole dinamiche politiche mauritane non avrebbe potuto generare autonomamente, ossia la demo­ cratizzazione della politica locale e la costruzione di una politica di svilup­ po inclusiva e partecipata. Più concretamente, il GRDR ha attivato il Programme d'appui aux initia­ tives de développement local (PAIDEL) che prevede in particolare la creazione delle cosiddette " Istanze di concertazione comunale" ( Cadres de concerta­ tion communale, ccc) . I ccc costituiscono delle assemblee locali informali che riuniscono assieme le autorità municipali istituzionali e altre personalità deputate a rappresentare i "nuovi gruppi di villaggio" e la cosiddetta "socie­ tà civile" (Lavigne Delville, 1992) , come i rappresentanti delle associazioni degli emigrati per il co-sviluppo, delegati delle associazioni di categoria e i notabili di tutti i villaggi riconosciuti formalmente dall'amministrazione. Queste istanze decisionali hanno il potere di stabilire, sotto la supervisio­ ne della ONG, la pianificazione dello sviluppo locale e la definizione del­ le priorità di intervento dei progetti. Così facendo, l'operazione appoggia la creazione di un'autorità decisionale locale sulle politiche fondamentali di pianificazione locale che non è prevista dal quadro istituzionale. Que­ sta apparente delegittimazione delle autorità municipali si giustifica con la

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considerazione delle istituzioni locali come incapaci di attivare autonoma­ mente una politica di sviluppo inclusiva di tutta la "società civile" , esigendo quindi un'istanza parallela che, grazie al controllo della ONG, si propone come la "vera" rappresentante della società locale attraverso la promozione della partecipazione di tutte le comunità alla presa di decisioni. Per questa ragione, la definizione delle priorità di intervento dei progetti deve essere decisa all'unanimità, attraverso una forma " atipica" di democrazia locale consensuale e non maggioritaria. Dopo cinque anni di intervento, questo progetto ha visto nelle ele­ zioni locali del 2oo6 il banco di prova per il progetto. Da una parte, que­ ste elezioni rientravano nel quadro di una "transizione democratica" na­ zionale ( 2005-07) che si proponeva di eliminare il clientelismo locale e l'autoritarismo che avevano caratterizzato il regime del presidente Ould Taya ( 19 84-2005) deposto da un colpo di Stato militare, lasciando così fi­ nalmente libertà d'espressione alle forze sociali "intrinsecamente " demo­ cratiche nella nuova competizione politica. La tornata elettorale "libera" doveva offrire alle comunità rurali un potere di controllo maggiore sulle dinamiche politiche e le risorse economiche locali, vedendosi così con­ cretizzati gli sforzi della governance. Dall' altra, l'esperienza maturata del programma doveva influire, nelle attese della ONG, sull'esito delle elezioni, favorendo il rinnovo del mandato per i soli sindaci che si erano impegnati assiduamente nel rispetto del progetto e nella sua messa in pratica. È il caso in particolare Ibrahima T. , sindaco di B . , che, come vedremo in se­ guito, è stato considerato per lungo tempo come l'artefice del successo del programma nel suo comune. In questo contesto virtuoso, il GRDR si attendeva dalla ricerca applicata la "prova " che il loro progetto di appoggio istituzionale alla decentraliz­ zazione e allo sviluppo locale poteva riuscire nel tentativo di fomentare una democrazia partecipativa ed inclusiva e quindi svincolarsi infine dalla tutela e la supervisione della ONG per raggiungere un' autonomia in seno all'autorità municipale locale. I termini della collaborazione (termes de ré/érence) prevedevano così un'analisi degli impatti sociali di queste evolu­ zioni istituzionali in periodo elettorale, per misurare l'effetto del progetto sulla partecipazione politica e l'inclusione sociale di tutte le comunità alle dinamiche politiche. Il GRDR si attendeva così una ricerca che potesse mi­ surare i seguenti fenomeni: la capacità del processo di concertazione di ristabilire tra le priorità le necessità concrete delle popolazioni coinvolte, contro l'accaparramento dei progetti di sviluppo da parte di qualche élite locale; la capacità del processo di concertazione di ri -attivare un interesse delle popolazioni , in particolare quelle più marginali, per gli affari riguardanti il loro comune, contro le forme diffuse di disaffezione politica;

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le eventuali nuove forme di presa di coscienza di una " appartenenza comunale" - come la O�G la definisce - al posto delle alleanze partigiane, et­ niche e comunitarie a cui sono spesso vincolate le decisioni politiche locali. Lo sviluppo ai margini, tra extraversione ed esclusione

La ricerca è stata effettuata per circa due mesi, in corrispondenza del pe­ riodo di campagna per le elezioni locali previste il 16 novembre 2oo6. Le inchieste si sono concentrate su quattro diversi comuni, tutti frontalieri con il Mali, dove tutte le comunità presenti sono state consultate, con indagini di tipo prevalentemente qualitativo, al fine di misurare da una parte il loro concreto capitale sociale e politico e la loro inclusione alle dinamiche muni­ cipali e dall'altra la loro " coscienza politica " : la loro mobilitazione politica, il grado di conoscenza dei loro diritti e di quel che succede nel loro comu­ ne e la capacità di formulare posizioni critiche. Un'analisi incrociata dei risultati avrebbe così potuto offrire un quadro del livello di partecipazione delle diverse comunità alla politica municipale e in particolare alle istanze decisionali per la definizione delle priorità di sviluppo previste dalla ONG. Il rapporto scritto alla conclusione della ricerca afferma che l'appoggio istituzionale alla decentralizzazione e allo sviluppo locale, e nello specifico attraverso le istanze di concertazione comunale, ha certamente aperto nuo­ ve arene di competizione politica. Tuttavia, la ricerca evidenziava il fatto che la politica locale, sia essa istituzionale o più specificamente legata ai progetti di sviluppo, rimane pur sempre controllata dal clientelismo e dalle notabi­ lità locali, consolidando così la politica elitista che impedisce una comple­ ta inclusione e partecipazione delle comunità più svantaggiate. Il rapporto identifica due fattori principali dell'impossibilità dei progetti di governance nel costruire una dinamica inclusiva e uno sviluppo partecipativo: l'extra­ versione del mondo locale, con la connessione delle élite locali a delle reti di potere sopra-locali, e la marginalità estrema di alcune comunità. Per quanto riguarda l' extraversia ne, la ricerca mostra che il mondo lo­ cale è sottomesso ad una logica apparentemente contraddittoria: il potere politico dipende non tanto da una legittimità locale, ma dalla detenzione di risorse e reti clientelari del mondo nazionale o addirittura internazio­ nale che si estende al di là e al di sopra della realtà municipale, come le stesse risorse messe in gioco proprio dalla Ol\'G. Come ha rilevato Thomas Bierschenk a proposito delle elezioni locali in Benin, anche in Mauritania, «local democracy was presented by Oocal) politicians not as a condition for more intensive local resource mobilization, but for rent-seeking in the deve­ lopment world» (Bierschenk, 2004, p. 34) . N ella regione presa in considerazione, l' extraversione delle società lo­ cali si manifesta in primo luogo nella connessione di alcune comunità alle

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reti diasporiche di scale differenti, che vanno dalle migrazioni interne rurali­ urbane alle migrazioni internazionali. La regione fa infatti parte dell'Alto Senegal, un bacino di emigrazione di lunga tradizione orientata in parti­ colare verso la Francia e effettuata essenzialmente da popolazioni Soninké (Quiminal, 1991; Manchuelle, 1997; Timera, 1996) . L'emigrazione di lunga durata di membri di queste comunità ha indubbiamente favorito i villaggi di origine grazie alle rimesse migratorie, soprattutto a partire dalle iniziative di co-sviluppo di cui il GRDR è stato uno dei primi promotori mondiali fin dagli anni 1960 nelle sue forme embrionali. Questo fenomeno fa sì che i vil­ laggi dei migranti soninké emergano come poli economici e quindi talvolta politici nei loro Comuni, ma a detrimento delle altre popolazioni che non possono approfittare della stessa tradizione di emigrazione. L' extraversione dei villaggi si manifesta anche con il clientelismo: le co­ munità più avvantaggiate sono quelle che intrattengono delle relazioni diret­ te con i rappresentanti politici sopra-locali, essendo queste reti indispensa­ bili per aspirare a dirigere la politica locale e a orientare l'investimento delle risorse provenienti dalle agenzie di sviluppo e dallo Stato (Lemarchand, 1998) . Un esempio emblematico di questa dipendenza delle comunità locali dalle reti clientelari per la formazione della notabilità politica è rappresen­ tato dal peso, soprattutto in ambito Mauro, dei vertici tribali che, pur es­ sendo spesso originari di altre regioni o installati nella capitale Nouakchott, intervengono localmente per dirigere il voto dei membri subordinati della propria comunità " tribale" (qabila) . L' extraversione della politica locale è dunque uno dei fattori principali di costruzione della notabilità locale che controlla la politica e quindi la gestione delle politiche di sviluppo della ONG, potendo contare sul proprio potere per disinnescare i pericoli rappresentati dalle istanze di concerta­ zione per rendere i processi decisionali locali inclusivi. Il rapporto ha così tentato di dimostrare che i progetti finanziati e pianificati dalla ONG e votati come prioritari all'unanimità in seno alle istanze di concertazione, andava­ no in realtà a beneficiare solo le comunità che già apparivano come le più avvantaggiate e legate alle notabilità locali . Offrendo una sorta di griglia di lettura dei diversi gradi di marginalità/inclusione delle diverse comunità, il rapporto identifica così alcuni gruppi che restano quasi completamen­ te esclusi dagli interventi per lo sviluppo locale. Si tratta in particolare di : discendenti di schiavi delle comunità maure (hratin) , ancora sottomessi ad una logica di subalternità nei confronti dei capi tribali che intrattengono la relazione di dipendenza proprio grazie alle condizioni di necessità di queste comunità; i gruppi di pastori di origine nomade, in particolare FulBe, che non godono di nessun particolare contatto con notabilità potenti sul piano regionale e nazionale e che vedono le proprie attività economiche (transu­ manza, pastorizia, corridoi pastorali) messi a repentaglio da delle politiche

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di sviluppo incentrate sullo sfruttamento agricolo; infine, le popolazioni di rifugiati rimpatriati dal Mali e dal Senegal che, pur avendo originariamente la cittadinanza mauritana, non sono riconosciuti nei loro diritti politici e so­ ciali e sono confinati in zone estremamente isolate senza nessuna possibilità di attività economica e quindi al limite della sopravvivenza. Nei primi due casi , le comunità di ex schiavi e di pastori partecipano spesso alle istanze di concertazione, ma si ritrovano a subire le pressioni delle comunità più potenti, sperando un giorno di vedere questa "fedeltà" ripagata dai notabili o dalle autorità municipali. Per questa ragione, l'idea di una necessaria unanimità tra le diverse comunità nello stabilire le priorità dello sviluppo si è rivelata in realtà un palliativo per mostrare un livello di inclusione e partecipazione che non esiste concretamente. Se poi prendia­ mo in considerazione le popolazioni di rimpatriati, i loro villaggi sono sì "accettati " dalle autorità ma non sono riconosciuti dal punto di vista ammi­ nistrativo, non potendo così partecipare ad alcun tipo di dibattito formale o informale sulle evoluzioni politiche del loro comune. La Ol\'G è parzialmente cosciente della loro situazione, ma non può imporre una loro inclusione nel processo partecipativo di sviluppo poiché nei termini politici mauritani queste comunità non esistono politicamente. Risultati inattesi

o

aspettative disattese ?

L'idea che la marginalità sociale e politica di alcune comunità resistesse mal­ grado l'idea di sviluppo partecipativo e inclusivo o che ne venisse addirittu­ ra alimentata non poteva non apparire come una critica diretta alla strate­ gia impiegata dalla O:"JG. Tuttavia, grazie ad un dibattito serrato sui risultati della ricerca, l'antropologo applicato e l'attore dello sviluppo committente si sono trovati d'accordo nello stabilire che le ragioni di questo effetto di­ storto non stavano tanto nella filosofia del progetto il quale, se non altro, aveva dinamizzato la situazione politica locale producendo nuove arene di competizione e favorito in parte lo sviluppo economico e la fornitura di ser­ vizi di base. I responsabili del GRDR si sono a quel punto trovati d'accordo con l'analisi proposta dalla ricerca sulle condizioni di marginalità e elitismo della politica di sviluppo locale. Tuttavia, gli attori dello sviluppo hanno ammesso di aver visto in parte le loro aspettative disattese dalla ricerca. Se al principio, i termini della collaborazione prevedevano uno studio descrittivo dell'impatto dei progetti e delle dinamiche locali, dopo aver ammesso l'im­ possibilità per tali progetti di stravolgere l'ordine elitista locale malgrado i propositi di partecipazione e inclusione i responsabili della ONG si aspetta­ vano un approccio normativa e prescrittivo da parte dell'antropologo. A questo punto, si è posta in tutta la sua acutezza il problema della definizione del limite tra ricerca e azione (recherche-action) dell'an tropo-

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logo applicato, strattonato tra le richieste di un ruolo esterno in quanto ricercatore associato votato alla descrizione di un fenomeno e consulente tecnico arruolato per la definizione di una strategia operativa. Al tempo, il ricercatore universitario era indubbiamente orientato alla descrizione il più possibile " oggettiva" della dinamica sociale attivata dai processi di svi­ luppo, considerando che i responsabili operativi della ONG potessero in seguito trarre da tale analisi delle considerazioni in modo indipendente sui limiti dei loro progetti e degli obiettivi di partecipazione e inclusione che li sottendevano. La situazione di stalle del dibattito tra due "istituzioni" (il ricercatore e la ONG) con interessi e prospettive pratiche e intellettuali differenti era provocata in particolare da una delle considerazioni che hanno funto da conclusione alla ricerca: secondo il rapporto prodotto, la portata dei limiti dei progetti di sviluppo locale e partecipato andava ben al di là dei " difet­ ti " eventualmente riscontrati nella concezione del progetto da parte della Or\'G, essendo le maggiori difficoltà insite in dinamiche sociali e politiche del contesto di intervento sulle quali l'effetto dei progetti non poteva che essere marginale . Per quanto riguarda le condizioni strutturali della marginalità della regione, era evidente che solo un intervento delle autorità nazionali preposte alla pianificazione delle infrastrutture e alla gestione fondiaria po­ teva in qualche modo sortire qualche effetto di lunga durata. La dipendenza delle dinamiche locali dalle forze, dalle reti e dalle risorse supra-locali ren­ dono in qualche modo vano il tentativo di riportare il controllo dello svilup­ po ad una dimensione locale, legata alle autorità municipali decentralizzate, come dimostra primo fra tutti la situazione di quei rifugiati rimpatriati che potranno essere inclusi nello sviluppo locale solo qualora lo Stato centrale si deciderà a riconoscere loro cittadinanza e diritti politici e sociali. Per quanto riguarda infatti la marginalità locale e i gradi di inclusione/ esclusione delle diverse comunità allo sviluppo e alla politica locale, la ri­ cerca evidenzia come sarebbe stato necessario per il progetto promuovere una vera partecipazione inclusiva di tutte le comunità. Tuttavia, il rapporto sollevava implicitamente il problema che una vera partecipazione generale sarebbe stata possibile solo bypassando le autorità locali e quindi la nota­ bilità clientelare che controllano gli equilibri politici e che dirottano i fondi proveniente dalla ONG e dallo Stato e orientano i progetti di sviluppo a favore delle loro comunità. In sostanza, il rapporto sostiene che la ONG, se da una parte favorisce l' allargamento della competizione politica tra le élite locali introducendo nuove risorse e istituendo nuove arene informali ed istanze formali nel gioco politico, dall'altra favoriva l'istituzionalizzarsi di un controllo di queste élite locali in competizione sulle risorse e lo svilup­ po a detrimento delle comunità già marginali che ne restavano comunque escluse.

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Per chi parla l'antropologo ?

Lo stallo nel dibattito tra ricercatore e ONG sorgeva per il fatto che la ricerca era stata orientata prevalentemente dalla volontà scientifica di concentrarsi sulle dinamiche dello sviluppo e della politica locale nella prospettiva del­ le comunità che ne rimanevano escluse. Ma siccome l'esclusione di alcune comunità dai progetti era una questione non trattabile da parte della OI'\G perché dipendente dalle dinamiche politiche locali e nazionali che sfuggono al suo controllo, la ricerca applicata è sembrata per un momento inutile. La collaborazione tra ricerca e attori dello sviluppo sembrava allora come un "incontro mancato" Q"acob, 2ooo; Lavigne Delville, 2ooo) . Tuttavia, le posi­ zioni delle due controparti, che erano sembrate per un istante irrinunciabili, dovevano evolvere rapidamente mostrando che il dibattito era ben altro che sterile. L'occasione per questa evoluzione virtuosa è rappresentata dalla pubbli­ cazione dei risultati delle elezioni locali nei comuni di intervento del GRDR. Come già è stato detto, tali elezioni dovevano in qualche modo sancire, agli occhi della ONG, l'appropriazione da parte delle comunità locali dei proget­ ti di sviluppo partecipativo soprattutto in quei comuni dove il sindaco si era fermamente impegnato nel rispetto delle regole del gioco. Purtroppo, però, il sindaco più rappresentativo in questo senso, Ibrahima T. sindaco di B . , non è stato rieletto malgrado avesse permesso il più alto numero di interventi nel suo comune attraverso modalità di partecipazione e inclu­ sione politica per la ONG incontestabili. Con questa sconfitta sembra così scalfita la speranza della ONG che il loro lavoro di appoggio istituzionale allo sviluppo locale potesse tradursi istituzionalmente in seno alla stessa autorità municipale, il che avrebbe sancito il successo di quelle forme ibride tra il formale e l'informale che sono le istanze di concertazione come ponte tra il prima e il dopo-progetto. A quel punto, i rappresentanti della OI'\G han­ no dato una nuova lettura alla ricerca di antropologia applicata, trovando proprio nelle dinamiche di extraversione e di costruzione delle reti cliente­ lari le ragioni della sconfitta del sindaco a favore di altri gruppi di notabili concorrenti. Non si trattava certo dell' assunzione di una prospettiva che includesse le posizione delle comunità marginali, ma era già il segno di un'e­ voluzione nella riflessione sul proprio progetto. Nel dicembre del 2006 ve­ nivo così invitato a partecipare al "Forum régional du développement local" per l'Africa occidentale organizzato dal GRDR e altre importanti ONG della sub-regione all'Università Gaston Berger di Saint-Louis . Nel mio medesimo atelier doveva intervenire anche il sindaco Ibrahima T. di B . Quest'ultimo doveva così cambiare l'atteggiamento nei confronti della ricerca: se prima aveva in qualche modo osteggiato la mia analisi della marginalità e della notabilità locale come un'intrusione indiscreta, ora si riappropriava delle

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mie considerazioni per spiegare la sua sconfitta elettorale. L o stesso GRDR si è poi mostrato favorevole ad integrare le questioni sollevate nella ricerca nella pianificazione di un nuovo progetto di governance nella regione che si propone di superare, almeno in parte, proprio i limiti identificati dalla ricerca di antropologia applicata e che evidentemente erano comunque in qualche modo chiari ai responsabili operativi già prima della mia ricerca. Si tratta infatti di un nuovo progetto di integrazione della regione transfron­ taliera con il Mali finanziato dalla CEDEAO (Comunità Economica degli Stati dell'Africa Occidentale) e ultimamente dall'Unione Europea che si propone di allargare il campo di intervento dei progetti di sviluppo locale per non !asciarli in balia delle reti di potere clientelare e di notabili che guidano la politica municipale, favorendo così l'emergere di nuovi gruppi di interesse e di nuove sinergie regionali. La variazione quantomeno parziale delle posizioni riguarda anche le ri­ flessioni e le attitudini dell'antropologo applicato. Il confronto con le posi­ zioni degli attori operativi dello sviluppo ha infatti richiesto una riflessione sul ruolo e l'utilità di una ricerca che si proponeva di studiare le dinami­ che locali di sviluppo dal punto di vista degli esclusi quando questo tipo di considerazioni non può essere preso seriamente in considerazione da delle istituzioni vincolate a delle necessità e dei limiti oggettivi alla propria libertà di movimento nell' applicazione dei progetti. Al di là di un'indubbia utilità di questo tipo di ricerca per i propri fini scientifici di ricerca, l'esperienza applicata ha forse avuto una sua funzione positiva per le dinamiche di svi­ luppo in sé, quantomeno nella misura in cui ha costretto gli attori locali ad introdurre nel loro dibattito la situazione di comunità altrimenti invisibili e trascurate nella pianificazione dei progetti. Ma soprattutto, la ricerca ha forse avuto il suo impatto maggiore dal momento in cui le inchieste sul cam­ po tra i villaggi dei "marginali " ha avuto una funzione di informazione e di presa di coscienza quantomeno parziale da parte di queste comunità di quel che succede nel loro comune e delle attività che, almeno nominalmente, si propongono di includere tutti i villaggi e propongono di dare priorità ai più bisognosi . Questa ricerca ha così avuto una funzione pratica e non solo teorica nella dinamica locale, mostrando che non sempre i due termini della recherche-action sono destinati ad essere separati e contrapposti. Que­ sto significa però che l'antropologo applicato è destinato a conservare una posizione ibrida tra la ricerca descrittiva e l'azione operativa e/o normativa. L ungi dall'essere una posizione ambigua, l'ibridità permette la giusta presa di distanze rispetto ai limiti e alle necessità istituzionali poste alla 0:-..J G che non avrebbe mai potuto permettersi di recarsi presso delle comunità, come quelle dei rimpatriati, non riconosciute formalmente dalle autorità locali. Ma al tempo stesso, è proprio questa particolare autonomia del ricercatore che fa sì che alcune sue considerazioni a proposito dell'impatto dei pro-

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getti di sviluppo possano essere di qualche aiuto nella riflessione e nella pianificazione di una strategia orientata sempre più alla partecipazione e all'inclusione. Bibliografia BAYART ]. P. , GESCHIERE P. , NYAMNJOH F. B. (2001) , Autochtonie, démocratie et citoyen­ neté en A/rique, in "Critique internationale " , n. 10, pp. 177-94. BIERSCHENK T. (2004), The Local Appropriation o/Democracy. An Analysis o/ the Mu­ nicipal Elections in Parakou, Republic o/ Benin, 2002/2003, Working P aper n. 39, Institut fiir Ethnologie und Afrikastudien, Johannes Gutenberg-Universitat, Mainz, pp. 1-48 ( www. ifeas. uni-mainz. de/ . . ./LocalParakou.pdf) . BIERSCHENK T. , OLIVIER DE SARDAN ]. -P. (1998), Les pouvoirs au village. Le Bénin rural entre démocratisation et décentralisation, Karthala, Paris. BILLAZ R. , DAHOU T. , TOTTÉ M. (sous la dir. ) (2003 ) , La décentralisation en A/rique de l'Ouest, Karthala, Paris. BLUNDO G., MOI\'GBO R. (sous la dir. ) (1998), Décentralisation, pouvoirs locaux et ré­ " seaux sociaux, in "Bulletin de l' APAD , n. 16, LIT Verlag, Mi.inster. CIAVOLELLA R. (2oo8), Le pouvoir aux marges. Les Fulaa'e et l'État mauritanien, thèse de doctorat, Université de Milan Bicocca, É cole des Hautes Études en Sciences Sociales. ID. (2009) , I FulaaBe della Mauritania e i loro tentativi di integrazione allo Stato, in A. Bellagamba (a cura di) , Inclusi/esclusi. Prospettive africane sulla cittadinanza, UTET, Roma. ID. (in corso di stampa), Une analyse anthropologique du processus de Concerta­ tion dans des Communes du Guidimakha: Enjeux locaux et in/luences externes, con/lits politiques et citoyenneté communale, Actes du Forum sur le Dévelop­ pement Local de Saint-Louis, 12-16 décembre 2006, Université Gaston Berger, Université Gaston Berger-GRDR, Saint-Louis-Paris. CIAVOLELLA R. , FRESIA M. (sous la dir. ) (2009) , Les ré/ugiés mauritaniens au Sénégal et au Mali et le nouveau plan de rapatriement, in "Politique Africaine" , numéro spécial sur la Mauritanie. DAS v . , POOLE D. (2004), Anthropology in the Margins o/ the State, School of Ameri­ can Research Press, Santa Fe. ESCOBAR A. (1995), Encountering Development. The Making and Unmaking o/ the Third World, Princeton University Press, Princeton ( NJ ) . FERGUSOI\' J. (1994) , The Anti-Politics Machine. ((Development, " Depoliticization and Bureaucratic Power in Lesotho, University of Minnesota Press, Minneapolis (ed. or. tesi di laurea Harvard University, 1985). JACOB J. P. (sous la dir. ) (2ooo) , Sciences sociales et coopération en A/rique. Les rendez­ vous manqués, PUF, Paris. LAVIGNE DELVILLE P. (1992) , Groupements villageois et processus de transition, in "Ca­ hiers de Sciences Humaines " , 28, 2, pp . 327-43 .

PER CHI PARLA L ' ANTROPOLOGO

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Le perizie antropologiche in Brasile: una sfida fra responsabilità sociale e patrimonio disciplinare� di Filippo Lenzi Grillini

Nascita e genesi delle perizie antropologiche brasiliane relative alle popolazioni indigene

Questo contributo si propone di illustrare il caso delle "perizie antropolo­ giche " brasiliane e di mettere in luce le problematiche principali che questo particolare tipo di consulenze solleva. Le perizie alle quali si fa riferimento riguardano specificamente i pro­ cessi di identificazione e demarcazione delle riserve indigene (il termine uf­ ficiale è Terras Indigenas) 2• Un processo politico che ha tre gruppi di attori principali: le comunità indigene, i rappresentanti del governo brasiliano, e gli antropologi che svolgendo delle expertise relative alle Terre Indigene giocano il complesso ruolo di mediatori fra indios e Stato. Proprio sul ruolo di questi ultimi all'interno del processo si è maggior­ mente concentrata l'attenzione: sia attraverso l'osservazione sul campo di come queste consulenze si svolgevano, sia attraverso interviste agli stessi antropologi coinvolti . Nel 1988, anno in cui fu approvato il testo della Costituzione federale brasiliana oggi vigente, la Procura generale della Repubblica3 , stipulò un accordo con l'Associazione brasiliana di antropologia (ABA) per assicurar­ si la collaborazione degli antropologi, per un' attività di consulenza sulle questioni relative alle demarcazioni delle Terre Indigene . Le Procure della Repubblica dei singoli Stati brasiliani in quegli anni si trovavano a dovere sostenere una serie di azioni legali, intentate da privati , contro il governo federale, azioni che avevano come oggetto di disputa la demarcazione del­ le Terre Indigene . L' accordo con l' ABA era motivato dall'inadeguatezza di informazioni e dati , che venivano forniti dai tecnici della FUNAI (Fundaçao nacional do indio - organo indigenista federale) per concedere o negare ad una singola comunità indigena il diritto ad ottenere la demarcazione della terra.

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Si riconosce agli antropologi il ruolo di specialisti del campo offrendo loro nuove prospettive di lavoro remunerato attraverso concorsi federali, ai quali partecipano, normalmente, studiosi e ricercatori specializzati sulle popolazione in questione. Viene richiesto a questi professionisti di svolgere perizie antropologiche nelle regioni interessate alle rivendicazioni territoria­ li indigene. Anche perché all'interno della FU:--J AI precedentemente questo incarico non veniva affidato ad antropologi, ma il più delle volte erano solo laureati in scienze sociali, o addirittura sertanistz\ storici, geografi, agrono­ mi, alcuni dei quali "ribattezzati" dalla FUNAI come antropologi. Le perizie erano essenzialmente di due tipi con finalità differenti ed in­ serite in processi separati: r. i laudos de reconhecimento etnico, molto poco frequenti e finalizzati ad appurare se un gruppo che rivendicava un'identità indigena, potesse essere effettivamente e ufficialmente riconosciuto come tale; 2. expertise inserite nei processi di identificazione delle Terre Indigene, tese a definire se una terra poteva essere definita " di occupazione tradizio­ nale indigena" e a individuarne i confini. Il primo tipo di perizia veniva richiesto solo nel caso in cui insorgessero dubbi sull'identità indigena del gruppo in questione, dubbi, il più delle vol­ te, sollevati da terzi interessati all'area in cui abitano gli indios . Ma nel 2002 con l'approvazione da parte del Senato brasiliano del testo della celebre Convenzione r69 dell'ILO (lnternational Labour Organization) sui popoli indigeni e tribali nei paesi indipendenti, viene abbandonata definitivamente la pratica delle perizie per i riconoscimenti etnici . Infatti nell'articolo r si sancisce «che la coscienza dell'identità indigena o tribale di un popolo do­ vrà essere considerata come criterio fondamentale per determinare i gruppi ai quali si applicano le disposizioni della Convenzione». Così nel giugno 2003 i primi 45 gruppi che stavano rivendicando la propria identità indigena vennero riconosciuti ufficialmente e direttamente come popoli indigeni. Si ammetteva così, anche a livello legale, il principio dell'auto-affermazione e auto-identificazione etnica, la sel/-ascription che Barth ( 1994) a fine anni Sessanta aveva considerato fondamentale nello studio dell' etnicità. Ciò che rimane immutato è il processo che porta all' omologazione delle Terre Indigene, che prevede la presenza di un antropologo nella tappa re­ lativa all'identificazione dei territori. Proprio all'interno di questo processo normalmente si verificano le situazioni potenzialmente più conflittuali, visto che coinvolgono direttamente gli interessi fondiari. L'abolizione della pratica della perizia per il riconoscimento etnico, gra­ zie alla legittimazione da parte delle istituzioni giuridico-amministrative del concetto di auto-identificazione etnica, rappresenta senz' altro un progresso, tuttavia per le popolazioni indigene questo non significa che il processo per il riconoscimento dei diritti sia necessariamente semplice e privo di difficoltà,

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dal momento che il nodo cruciale riguarda, come sempre, le terre. Ad una popolazione indigena riconosciuta ufficialmente dallo Stato, formalmente dovrebbero essere garantiti comunque una serie di diritti dovuti allo status giuridico "speciale" di cui gode l'indio; tuttavia, nella pratica, per chi non vive in una Terra Indigena omologata, è impossibile godere di tali diritti. Ci interesseremo qui soprattutto ai compiti e alle responsabilità affidate all'antropologo in questo tipo di processi. Per restringere il campo tentiamo di elencare e specificare quali sono i ruoli rivestiti dagli antropologi impegnati in questo tipo di processi in Brasi­ le, riferendoci però solo alle perizie relative alla demarcazione delle riserve5: a) la Procura della Repubblica, può richiedere un antropologo come con­ sulente esterno per svolgere una perizia "puntuale" tesa a dirimere un con­ tenzioso in atto sull'identificazione delle terre; b) la Procura, può assumerlo con l'incarico fisso di perito antropologo; c) la FUNAI può ingaggiare antropologi e inserirli nei suoi quadri a diversi livelli: da responsabile antropologico in una delle sedi decentrate regionali dell'organo, fino a presidente, passando per altre funzioni anche all'interno di dipartimenti specifici della sede centrale di Brasilia; d) la FUNAI, può assumere inoltre, attraverso un concorso pubblico, un an­ tropologo per dirigere un'équipe incaricata d'identificare una Terra Indige­ na. In questo il ricercatore svolge una perizia puntuale e unica e coordina il lavoro di specialisti di altre aree. Oggi la lotta per il rispetto dei diritti costituzionali relativi alla demar­ cazione delle terre rappresenta la battaglia principale che le associazioni indigene e le Ol\'G indigeniste combattono6• Anche in seno alla comunità antropologica brasiliana l'approccio critico alle motivazioni politiche che storicamente hanno portato alla nascita delle prime riserve coesiste oggi con l'appoggio ai movimenti indigenisti che rivendicano il diritto alle terre (Souza Lima, 1995; Pacheco de Oliveira, 1999b; Ramos, 1998) . Le tappe principali del processo che porta al riconoscimento ufficiale delle Terre Indigene sono quelle di: identificazione/delimitazione: consiste nell'elaborazione da parte della FUNAI della proposta di creare una riserva indigena. Nella regione viene in­ viato un grupo de trabalho guidato da un antropologo e composto da pro­ fessionisti specializzati, che analizzano l'area dal punto di vista etnostorico, demografico, ambientale, sociologico, topografico e fondiario; lo studio da loro prodotto viene esaminato dal ministero della Giustizia che procede alla fase di dichiarazione ufficiale di una Terra Indigena; demarcazione: consiste nella delimitazione fisica dell'area; omologazione: attraverso un decreto del presidente della Repubblica, le aree vengono registrate formalmente come proprietà dell'Unione degli Stati brasiliani;

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regolarizzazione fondiaria: vengono espulsi gli occupanti non-indios dall'area e chiarite, dal punto di vista giuridico, tutte le questioni legate ai diritti sulle terre da parte di esterni. In sintesi si regolarizza definitivamente la questione fondiaria. Ma a livello di definizione giuridica, che cosa gli antropologi devono identificare e delimitare? Secondo la Costituzione vengono definite Terre Indigene quelle «tradi­ zionalmente occupate dagli indios» ovvero quelle: «a) abitate dagli indios con carattere permanente; b) utilizzate per le loro attività produttive; c) in­ dispensabili alla preservazione di fiumi, foreste, e delle altre risorse naturali essenziali per il benessere degli indios; d) necessarie alla loro riproduzione fisica e culturale, secondo i propri usi, costumi e tradizioni» (art. 231, § 1) . Queste perizie o laudos periciais secondo la definizione ufficiale, vengo­ no svolte in un periodo limitato (generalmente non più di 45 giorni) . Accettare di effettuare queste perizie significa sottoporsi al rischio di venire criticati dal punto di vista politico (da una parte) e teorico (dall'altra) . Preliminarmente occorre evidenziare le problematiche che la pratica del laudo pericial pone all'antropologia. Effettuando uno sforzo di sintesi potremmo suddividere i problemi che sorgono all'interno di questo processo in tre campi distinti: quello etico­ deontologico, metodologico, infine teorico, anche se non è sempre facile de­ finire e distinguere in modo netto la tipologia di ogni singola problematica e inserirla conseguentemente in uno di questi tre campi . L'ambito etico-deontologico: la responsabilità sociale e politica

La prima domanda che sorge inevitabilmente di fronte a questo processo è: l'antropologia deve sottoporsi alla responsabilità di prendere la parola per coadiuvare lo Stato in un'opera di classificazione e definizione di gruppi sociali o etnici e identificazione dei loro confini territoriali? Il caso brasiliano potrebbe far scivolare il nostro pensiero e il nostro giudizio direttamente verso una equiparazione con quell'antropologia co­ loniale colpevole di essere stata connivente con gli amministratori europei nello sfruttamento dei territori delle colonie e dei loro abitanti. Provocato­ riamente potremmo addirittura arrivare ad assimilare questi processi a quel­ li di "etnismo" per usare una definizione utilizzata da Chretien (1997) per definire una manipolazione delle categorie e delle classificazioni etniche, iniziata dai colonizzatori e sviluppata in seguito dai regimi postcoloniali con finalità politiche (cfr. anche Amselle, M'Bokolo, 1985) . Tuttavia è opportuno tentare di essere più precisi: innanzitutto il di­ battito sui contributi offerti dagli antropologi che hanno agito all'interno del contesto coloniale e sulle loro responsabilità politiche è ricco ed estre-

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mamente complesso e concentrarsi esclusivamente sulle colpe (sicuramente presenti e rilevanti) di alcuni di loro è forse fuorviante e non permette di cogliere quegli spunti teorico-metodologici che in quegli anni sono stati of­ ferti dai ricercatori che hanno convissuto con le amministrazioni coloniali. Ma un'analisi sulle responsabilità dell'antropologia nel periodo coloniale non può essere affrontata in questa occasione e rimandiamo per questo agli importanti contributi di studiosi come Asad (1973 ) , Stocking (1992) e Cola­ janni (1999) , che da prospettive differenti e con punti di vista diversi hanno analizzato il ruolo degli antropologi in una fase comunque cruciale per lo sviluppo della disciplina. Ciò che invece si vuole analizzare qui riguarda la specificità e la com­ plessità del caso delle perizie nel Brasile contemporaneo. Prima di tutto bisogna specificare che il caso brasiliano presenta delle caratteristiche molto diverse e specifiche rispetto a quelle dell'Africa colo­ niale nella quale gli amministratori europei (coadiuvati in alcuni casi da an­ tropologi loro connazionali) definivano e circoscrivevano etnie e confini per una più proficua gestione e sfruttamento del territorio. Invece nel Brasile contemporaneo sono le stesse popolazioni indigene a rivendicare il ricono­ scimento etnico ufficiale e una terra dove vivere autonomamente . E sono proprio le comunità, magari col sostegno di ONG indigeniste, a richiedere che un antropologo conduca una ricerca sul campo che possa comprovare la fondatezza delle loro rivendicazioni. Bisogna sottolineare inoltre che se gli antropologi brasiliani avessero rifiutato di svolgere queste perizie, tali ricerche sui generis relative alle po­ polazioni da loro studiate precedentemente in occasione di ricerche accade­ mico-teoriche sarebbero state effettuate da altri che non avevano mai avuto contatti con la popolazione in questione. Vi sono poi casi in cui il gruppo indigeno in questione non è stato studiato da nessun etnologo in particolare; anche in questo caso per il ricercatore si pone il problema se accettare o no di fornire la propria consulenza su una comunità mai contattata in prece­ denza. Anche qui rifiutando si lascerebbe il campo ad altri che non hanno neanche una formazione specificamente antropologica (funzionari governa­ tivi, geografi, agronomi, archeologi ecc.) . Per gli antropologi brasiliani le alternative sono due: esimersi dall' af­ frontare questa serie di complesse problematiche, rifiutandosi di assume­ re un ruolo dalle notevoli responsabilità politico sociali e rimanere quindi all'interno delle università limitandosi alle critiche nei confronti di chi svolge tali perizie; o altrimenti: entrare in gioco in quanto specialisti di tematiche relative alle popolazioni indigene, seguendo la tradizione di un'antropologia brasiliana votata all'impegno anche all'interno delle istituzioni. Il fatto che, in molti casi, siano le stesse comunità indigene a richiede­ re, attraverso i propri rappresentanti politici, la presenza dell'antropologo

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che hanno ospitato e conosciuto nel periodo di una sua precedente ricer­ ca di campo pone nuove complesse problematiche . Le comunità indigene brasiliane sempre più organizzate politicamente, inserite all'interno del più ampio movimento indigeno ed appoggiate da ONG dotate di specialisti di diritto, tentano sempre di mantenersi informate e vigili sulle finalità delle ricerche e sui vantaggi che il gruppo può ricevere una volta che queste saranno ultimate. In Brasile (ma non solo) i ricercatori oggi impegnati in studi sul campo dedicati alle popolazioni indigene sono sottoposti a richie­ ste sempre più frequenti da parte dei loro interlocutori. Vengono rivolte principalmente domande sull' utilità di tali ricerche, spesso poste nell' ot­ tica di un do ut des, che prevede che la disponibilità e l 'ospitalità che la comunità ha assicurato al ricercatore debbano essere ripagate in seguito dall' antropologo. In certi casi, viene richiesto all' antropologo di sostene­ re il gruppo in una campagna critica nei confronti della stessa FUNAI . Un esempio di questo tipo di dinamiche presenti nel rapporto nativi-ricerca­ tore mi venne riferito da un leader indigeno dei Krenak del Minas Gerais . L'indio raccontava, accalorato, che aveva accolto in casa e presentato alla sua comunità una giovane antropologa impegnata in una ricerca di dotto­ rato fra i Krenak, popolazione indigena che l'aveva ricevuta con grande ospitalità e aveva permesso che svolgesse nel miglior modo possibile la sua tesi, sottolineando che tale ricerca era importantissima per la sua carriera. I problemi erano sorti in seguito ai risultati della tesi: infatti «dopo tutto quello che la comunità aveva fatto per lei, questa ragazza ha avuto il corag­ gio di scrivere che la comunità era caratterizzata da una forte conflittualità politica interna» (Krenak Nadil, 15 settembre 2004, Sao Joao Das Missoes) . Che tale conflittualità fosse resa pubblica, rappresentava un problema per gli indios, poiché ONG o enti statali intenzionati a sviluppare progetti in aree indigene tendono a evitare le comunità meno unite. Infatti per quanto riguarda la distribuzione delle risorse stanziate da un progetto all'interno di un gruppo indigeno, la conflittualità rappresenta un problema notevole che può seriamente comprometterne i risultati e far sì che parte della co­ munità assuma un comportamento ostile nei confronti degli operatori del progetto. La giovane ricercatrice in questo modo si era preclusa definitiva­ mente la possibilità di svolgere ulteriori ricerche all'interno della comunità in questione. Problematiche metodologiche

L'ultimo esempio citato si riferisce a un campo di problematiche che, per comodità e per volontà di sintesi, ho qui classificato come etico-deontologi­ che, ma che in realtà sfumano dal campo etico a quello metodologico. Per svolgere una perizia è indubbiamente necessario dedicare grande attenzione

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alle strategie metodologiche da mettere in atto per evitare che la ricerca sca­ teni conseguenze indesiderate anche dal punto di vista politico. Anche per quanto riguarda questi aspetti specifici, le differenze fra uno studio sul campo con finalità esclusivamente scientifiche e una perizia an­ tropologica sono molte. In primis, una delle condizioni fondamentali per svolgere una produt­ tiva ricerca sul campo owero la lunga permanenza all'interno del contesto locale non può verificarsi; infatti il periodo dedicato al lavoro sul campo dif­ ficilmente supera i quarantacinque giorni, a volte preceduti da uno studio preliminare di una settimana al massimo. Altra caratteristica da non sottovalutare è la peculiarità di condurre in­ terviste con informatori che sono a conoscenza della finalità di una ricerca i cui risultati avranno conseguenze cruciali per il futuro della comunità, e che quindi possono tentare continuamente di " dirigere " e guidare l'antro­ pologo attraverso percorsi narrativi tesi ad ottenere risultati politicamente strategici. Un altro problema significativo riguarda l'uso delle fonti. Già nel saggio di Clifford (1988) sui Mashpee, viene messo in risalto il maggior peso che awocati e giudici conferiscono alle fonti scritte, rispetto alle fonti orali. Nel ricostruire la storia di un gruppo etnico o i confini di quello che dovreb­ be corrispondere al territorio di occupazione tradizionale, l'antropologo esamina e riporta sia fonti scritte, sia fonti orali frutto di interviste svolte sul campo. Il problema principale relativo alle prime riguarda il fatto che pochi storici si sono occupati approfonditamente dei popoli indigeni, che sono stati " raccontati" esclusivamente come testimoni passivi delle azioni di conquista o di amministrazione delle terre portate avanti dai colonizzatori (Carneiro da Cunha, 1998) . I rari dati storici disponibili sui popoli indigeni sono limitati ai racconti dei primi esploratori, dei coloni portoghesi, o dei missionari cattolici. Quindi le poche fonti scritte presenti sono comunque caratterizzate da questo "sguardo" specifico. Gli antropologi, non solo per una consolidata pratica metodologica disciplinare, ma anche per esigenza, sono quindi costretti a ricorrere a molte fonti orali, che spesso prestano il fianco alle critiche da parte di awocati e giudici. Ciò che renderebbe tali fonti più deboli in contesto giuridico non è solo la maggior credibilità che si attribuisce al documento scritto che appare come una vera e propria "pro­ va " a differenza di informazioni e storie di vita, raccolte attraverso intervi­ ste. Gli awersari degli indios, attraverso i loro awocati, obiettano spesso che tali interviste non sono attendibili, dal momento che vengono svolte in un momento in cui gli informatori sono coinvolti in un processo di rivendi­ cazione politico-fondiaria. Inoltre il fatto che le perizie fossero considerate formalmente "studi etnostorici" e non " antropologici " , secondo il decreto 22/91 della FU:--J AI che regolava tutto il processo di identificazione delle Terre

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Indigene fino al 1996, fa capire il peso che, nelle sedi istituzionali, veniva conferito agli studi storici7• Un nucleo problematico da non sottovalutare riguarda il rapporto con gli esperti e specialisti di altre discipline che con l'antropologo costituiscono lo staff del grupo de trabalho, chiamato in causa per portare a termine lo stu­ dio finalizzato alla definizione dei confini di una riserva. Indubbiamente il far funzionare un dialogo costruttivo con studiosi di scienze naturali, storici, archeologi e geografi, non sempre è facile e in certi casi può rappresentare una vera e propria sfida. Come le problematiche etico-deontologiche han­ no posto questioni fondamentali per il significato e la responsabilità delle discipline etno-antropologiche, così i problemi pratico-metodologici che scaturiscono dalle difficoltà di svolgere questo tipo di perizie possono rap­ presentare lo spunto empirico per una riflessione più ampia sui rapporti fra antropologia e altre discipline. In questo ambito rientra anche il rapporto con i committenti e fruitori di tali ricerche. Infatti tali ricerche sui generis hanno la specificità di essere commissionate da giudici e avvocati, gli stessi che leggeranno la rielabo­ razione finale dei dati di campo. Questo "pubblico" particolare è dotato di un corpus di saperi e conoscenze disciplinari definite e specifiche, evi­ dentemente diverse da quelle antropologiche. Proprio il fatto che le ricer­ che sono destinate ad essere lette da non specialisti, pone l' antropologo di fronte a nuove problematiche. Bisognerà tentare di tradurre il lessico e le teorie antropologiche, o è più giusto che siano i lettori delle perizie a sfor­ zarsi di comprendere metodi e teorie propri di una ricerca antropologica, dal momento che proprio loro hanno scelto l'antropologia come disciplina adeguata a questo tipo di perizie, in quanto specializzata nello studio delle popolazioni indigene? Ma soprattutto l' antropologia è preparata a rispon­ dere in modo netto e preciso a domande relative all'identità indigena di un popolo e al territorio che il gruppo tradizionalmente occupa? Dietro a tutti questi interrogativi c'è una cruciale questione di fondo, re­ lativa al rapporto fra le categorie giuridiche riguardanti temi come l'identità indigena e i confini territoriali di una riserva e l'interpretazione di tali temi all'interno del dibattito antropologico contemporaneo. Problematiche teoriche

Questo ci fa scivolare direttamente nell'ambito delle questioni teoriche che questi temi sollevano. Soprattutto riguardo alle identità etniche, gli antropo­ logi-periti devono mantenere la maggiore cautela possibile per non cadere nel tranello di analizzare le comunità indigene e i gruppi sociali utilizzando concetti e metafore proprie delle scienze naturali. Un rischio insito nell'inte-

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ro processo della perizia da come essa è strutturata e che trova le sue origini nel senso comune condiviso dai committenti. Gli antropologi si trovano a lottare contro tale senso comune, secondo il quale si immagina che l'antropologo possa identificare i gruppi sociali ed etnici nello stesso modo in cui uno studioso di scienze naturali classifica animali e piante secondo la loro morfologia. Per l'etnologo il corrispettivo di tali morfologie sarebbe rappresentato dai tratti culturali differenziatori dei vari gruppi etnici. Questo tipo di aspettative rischia di influire sull' ope­ rato del ricercatore chiamato a fornire una consulenza specialistica relativa all'identità indigena di un gruppo; ciò significa, nello specifico, definire se tale gruppo mantiene relazioni di continuità con popolazioni precolombia­ ne. Tale compito è più semplice in alcune regioni del Brasile, come quelle amazzoniche, dove i gruppi indigeni vivono e hanno vissuto in condizioni di relativo isolamento, ma è estremamente complesso nelle regioni di più antica colonizzazione nelle quali il contatto fra popolazioni indigene, afro­ brasiliane e bianche ha una storia di quasi cinquecento anni8• Questi ultimi gruppi indigeni che vivono per lo più nelle zone meridio­ nali, centrali e nordorientali del paese, vengono definiti in vario modo: era­ no denominati misturados dagli amministratori per l'alto grado di "metic­ ciato" interno, o emergentes o ancora resurgidos per sottolinearne le recenti rivendicazioni etniche, e infine resistentes per sottolineare la resistenza di un sentimento identitaria, nonostante gli anni di contatto con i bianchi che hanno minacciato e soppresso le culture indigene. Fra queste definizioni l'ultima è quella in cui tali popoli si riconoscono maggiormente e che emer­ ge dai documenti rivendicativi scritti con l'appoggio delle organizzazioni che li sostengono9• Seguendo alla lettera una definizione di Barth (1994, p. 34) vediamo che «i gruppi sono categorie di attribuzione e identificazione da parte dei sog­ getti stessi e quindi hanno la caratteristica di organizzare l'interazione tra le persone» . Lo studioso norvegese mette in risalto l'auto-attribuzione dell'i­ dentità da parte dei gruppi stessi come caratteristica necessaria per il sorge­ re di un sentimento di appartenenza etnica. Proprio il peso attribuito alla sel/-ascription provoca un primo significativo ribaltamento dei presupposti sottostanti alle aspettative diffuse sul compito degli antropologi chiamati a giudicare l'identità etnica di un gruppo. Nel caso delle perizie, l'antropologo, in quanto specialista di popola­ zioni indigene, viene infatti incaricato di giudicare dall'esterno l'identità et­ nica del gruppo, tuttavia l'approccio di Barth mettendo in primo piano l'au­ to-attribuzione delle identità introduce un tema fondamentale per lo studio dell' etnicità, ma che difficilmente viene compreso a livello di senso comune. Tuttavia un approccio essenzialista e ctÙturalista (Smith, 1986) è spesso pre­ dominante nel senso comune quando si parla di etnie e gruppi etnici, benché

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sia stato smontato e decostruito da gran parte della letteratura antropologica dedicata allo studio dell' etnicità (Barth, 1994; Cohen, 19 74) 10• Per comprendere cosa si intende per "indio" e "popolazione indige­ na" nel Brasile contemporaneo ci imbattiamo essenzialmente in due insiemi concettuali differenti: il primo riguarda lo status giuridico di indio che prevede il riconoscimen­ to di una serie di diritti specifici a cui abbiamo accennato in precedenza; il secondo riguarda invece un'immagine di indio diffusa nel senso co­ mune, contraddistinta da una serie di caratteristiche che lo fissano nell'im­ maginario come individuo fortemente legato al mondo della natura, privo di conoscenze tecniche avanzate, dotato di una cultura profondamente dif­ ferenziata da quella della società occidentale urbana e quindi relegato a un passato primitivo. In molti casi, il modo in cui i giudici, gli avvocati, gli amministratori e i politici "pensano" e "interpretano" quegli indios a cui devono essere garantiti una serie di diritti speciali, rispecchiano l'immagine dell'indigeno radicata nel senso comune. Il rischio maggiore è che il senso comune si cristallizzi come "senso giu­ ridico" . Gli antropologi-periti si trovano a confrontarsi con questi insiemi con­ cettuali, sottoponendosi, per ogni laudo pericial, ad una sfida che si prefigge, se non di far vacillare il senso comune, almeno d'imporre certi concetti ai committenti delle perizie. Per gli antropologi una delle sfide maggiori consiste proprio nel riuscire a imporre, anche all'esterno dell'ambiente disciplinare, una serie di rifles­ sioni e concezioni dell'identità etnica e del concetto di etnia frutto delle rielaborazioni teoriche sull' etnicità. La sfida è indubbiamente complessa se si pensa soprattutto al fatto che, anche all'interno della comunità antropologica internazionale sono tutt'al­ tro che unanimi i criteri con cui analizzare il fenomeno etnico. Tuttavia vi sono alcuni punti fermi comuni: forse il principale riguarda la differenza fra l'approccio antropologico alle temati che relative all'identità etnica e l' ap­ proccio storico. Mentre molti storici tendono a cercare ciò che realmente è accaduto, qualche volta distinguendo fra tradizioni inventate e reali, molti antropologi si concentrano piuttosto sul mostrare i modi in cui particolari descrizioni storiche sono usate come mezzi nella creazione contemporanea dell'identità e in politica (Li Causi, 1995 ) . Questo tipo di indagine "storica" può rischiare di far scaturire giudizi sull'identità etnica che portano diretta­ mente a conclusioni nette che dividono le etnie vere da quelle "false " . Tale approccio nello studio di quelle popolazioni indigene che solo negli ultimi anni hanno iniziato un processo di rivendicazione delle terre, può rischiare di "battezzare " gli indios come veri o falsi.

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Luciano Li Causi (1995, p. 15) riferendosi a popoli che possono avere agito secondo un'ideologia etnica non vera, animati da false coscienze, spe­ cifica che «l'ideologia è parte del reale [ . . .] ricostruirne l'origine e lo svilup­ po è parte dell'impresa scientifica dello storico ed anche dell'antropologo; relegarla nel mondo del non autentico non serve né alle scienze sociali, né alla politica». Pacheco de Oliveira (1999a, p. 172) tentando di offrire un contributo teorico allo studio dei gruppi indigeni resistentes, o emergentes del Nordest brasiliano, meno isolati rispetto a quello amazzonici (oggi una cinquantina, mentre negli anni Cinquanta solo 10 erano ufficialmente riconosciuti)n utile soprattutto a chi si deve cimentare nelle perizie relative all'identità o ai con­ fini etnici di tali gruppi arriva alla conclusione che «studiando il processo storico vissuto dal gruppo, l'unica continuità che è possibile sostenere è quella che ha visto quest'wtimo ricostruire e rifabbricare la sua unità e dif­ ferenza di fronte agli altri gruppi con i quali ha interagito»12• Questi spunti teorici danno un aiuto concreto a chi si deve cimentare nelle perizie, così come i contributi forniti dalla letteratura antropologica sulla negoziabilità delle identità etniche: soprattutto il celebre studio di Mitchell (1956) sulla Kalela dance in Rhodesia, che mostra come le categorie etniche possano espandersi o restringersi a secondo delle occasioni e siano, in parte, mani­ polabili. Le categorie emiche di auto-identificazione, e quelle prescrittive relative alle interazioni fra i membri del gruppo, delimitanti i gruppi etnici, sono soggette a variazioni sul loro contenuto e sulla loro ampiezza, modifi­ candosi in relazione a differenti contesti situazionali. Anche la ricostruzione delle radici storiche, così come la selezione dei contenuti ctÙturali significativi per un gruppo etnico sono negoziabili e ma­ nipolabili. La stessa storia, o meglio, la selezione di una storia comune a un gruppo etnico, non è un prodotto del passato ma una risposta alle richieste del presente . Questo non significa accantonare lo studio delle fonti storiche sulla regione in cui gli indios vivono, ma serve per arricchire con elementi nuovi e importanti il dibattito sull'attendibilità di fonti scritte e orali. Da una parte vi sono fonti storiche frutto dei racconti dei primi esploratori, de­ gli amministratori coloniali o dei missionari europei, documenti nei quali gli attori sono i militari e gli amministratori portoghesi mentre gli indios sono descritti come " comparse" disseminate nell'immenso territorio da conqui­ stare, dall'altra vi sono le fonti orali raccolte oggi all'interno dei gruppi in­ digeni che raccontano la "loro" storia, non sempre compatibile con quella delle antiche fonti scritte. Anche qui gli antropologi devono riuscire a imporre una serie di con­ cetti e concezioni, non sempre accettate e conosciute fuori dall' ambiente disciplinare: come, per esempio, partire dal presupposto che i confini etnici non sono necessariamente territoriali ma piuttosto sociali, non isolando in-

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tegralmente i gruppi ma permettendo un continuo flusso di informazione, interazione e scambio. Gli studi sui confini si sono moltiplicati negli ultimi trent'anni; oltre al famoso contributo di Barth (1994 [1969] ) , vi sono molti studiosi che hanno affrontato il tema in relazione alla costituzione di Stati indipendenti. È interessante citare il contributo di Donnan e Wilson (1995) che mettono in risalto l'importanza teorica delle ricerche effettuate fisica­ mente sulle frontiere. Benché questi due studiosi si riferiscano soprattutto ai confini di Stati nazionali , forniscono dei contributi che possono essere utili a chi si deve cimentare nella definizione di confini etnico-territoriali . I due studiosi mettono in risalto che «tutte le comunità [ . . . ] hanno frontiere culturali che esse negoziano in continuazione. Le nazioni e gli Stati hanno frontiere politiche che - così come marcano i confini della loro sovranità ­ implicano anche tutte queste negoziazioni. Tuttavia, per molte popolazioni che vivono effettivamente sui confini, le frontiere culturali e quelle politiche sono diverse» (Donnan, Wilson, 1995, p. 52) . Oltre a queste problematiche ve ne sono altre inerenti specificamente al concetto di territorio. Gli studiosi di geografia umana, di socio-biologia e di ecologia culturale, danno una posizione centrale al "territorio" inteso come una qualità essenziale di ogni società. Gli antropologi sono chiama­ ti a identificare le "terre di occupazione tradizionale" degli indios . Queste categorie legali a cui gli antropologi devono riferirsi, come accade per quel che riguarda i processi di riconoscimento etnico, sono spesso associate a rappresentazioni radicate nel senso comune che tendono a mettere in primo piano concetti derivati dalle scienze naturali: uno su tutti, quello di "habi­ tat " (Pacheco de Oliveira, 1994) . Tuttavia le Terre Indigene non possono essere pensate e descritte secon­ do le coordinate di un fenomeno naturale, senza prendere in considerazione il processo che, da sempre, ha portato alla nascita, crescita e definizione di tali territori. Territori da sempre in permanente revisione, frutto di am­ pliamenti, aggiunte e separazioni avvenute sia nel periodo precolombiano, attraverso contatti, conflitti e alleanze fra gruppi indigeni, sia nel periodo coloniale, in cui la presenza portoghese ha fatto sì che s'instaurasse una nuova relazione con le terre. Non si può prescindere per esempio da tutti i trasferimenti territoriali a cui sono stati sottoposti i gruppi indigeni, nel periodo coloniale e postcoloniale o dalle fughe in seguito alla progressi­ va conquista del territorio da parte dei bandeirantes13• All'interno di questo processo hanno giocato un ruolo fondamentale anche i missionari europei che, in molti casi, hanno accolto gruppi di indios all'interno delle missioni, proteggendoli dai bandeirantes, convertendoli al cristianesimo e avviandoli all'agricoltura. Per non pagare un prezzo troppo alto alle metafore biologiche è giusto approfondire il tema, non in un'ottica essenzialista, bensì analizzarlo come

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processo. Un processo di territorializzazione analizzabile come un fenome­ no progressivo dal carattere storico e politico. Inoltre gli antropologi nel proporre una identificazione territoriale spe­ cifica devono necessariamente pensare all' autosussistenza del gruppo, che deve avere una quantità di ettari sufficienti per le sue necessità presenti e future, nella prospettiva di un possibile incremento demografico. Mentre quest'ultima esigenza viene compresa dai rappresentanti del­ le istituzioni, ciò che più difficilmente viene inteso nella sua importanza riguarda quelle relazioni del gruppo con il territorio che riguardano non solo le forme sociali di occupazione e demarcazione degli spazi ma anche la riproduzione socio-culturale della comunità indigena. All'interno di queste ultime giocano un ruolo fondamentale tutte quelle rappresentazioni emiche relative non solo al rapporto con gli altri indios e con i bianchi, ma anche al significato che il territorio ha dal punto vista rituale e spirituale. Una terra che ha un legame strettissimo col mondo dei defunti, degli spiriti e delle divinità indigene. Non solo dal punto di vista religioso, ma anche dell'orga­ nizzazione socio-politica delle società indigene il mondo della natura ha una rilevanza fondamentale4• Inoltre, per molte popolazioni indigene il discri­ mine fra sfere economiche, sociali e religiose non viene percepito come vie­ ne interpretato dall'esterno. In contesto amazzonico è interessante lo studio di Peter Gow sui Piro che interpretano l'ecosistema che li circonda come luogo della parentela; qui il legame fra terra e parentela è talmente stretto che parlare di luoghi del territorio presuppone sempre il riferimento, più o meno esplicito, a legami parentali (Gow, 1995) . Da "giudici-certificatori" a "mediatori-interpreti": le risposte degli antropologi brasiliani a una sfida complessa

Proprio per tentare di trovare delle soluzioni ai problemi etici, deontologici, metodologici e teorici che le perizie pongono, gli antropologi brasiliani, nel 2ooo, stilarono un documento chiamato Carta de Ponta das Canas, dal nome del luogo dove si svolse la riunione, nella città brasiliana di Florian6polis . La Carta fu redatta da un gruppo di antropologi, afferenti a differenti univer­ sità brasiliane e centri di ricerca, riuniti nell"' Oficina sobre Laudos Antro­ pol6gicos " organizzata dall'ABA (Associazione Brasiliana di Antropologia) . L'obiettivo principale era fornire parametri di riferimento utili ai ricercatori che avrebbero dovuto svolgere perizie (laudos periciais) in collaborazione con la Procuradoria Geral da Republica. Nel documento si mette in risalto la diversità e " alterità" fra il campo concettuale giuridico-amministrativo e quello antropologico. Questi due campi differenti producono vari tipi di dualismi concettuali in contrapposi­ zione fra loro, il principale consiste nel fatto che i giudici richiedono di ar-

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rivare a definire le "verità" mentre l'antropologia propone soprattutto delle interpretazioni. Nella Carta si sostiene che non c'è modo di eliminare le tensioni fra questi due campi professionali, dal momento che l'alternativa sarebbe la semplice subordinazione delle conoscenze disciplinari di un campo a quelle di un altro. Tuttavia si sottolinea che «il lavoro dell'antropologo non è come quello di un detective o di un giudice, né pretende di rivelare una verità o produrre un giudizio ponderato su differenti posizioni; ma è quello di tra­ durre una realtà non immediatamente comprensibile, soprattutto da parte del mondo giuridico» (Carta de Ponta das Canas, 2ooo, p. 3) . Nel documento si mette in evidenza chiaramente quale deve essere il ruolo dell'antropologo all'interno di questi processi: «nella elaborazione di queste domande, viene attribuito all'antropologo il ruolo di classificatore esterno che, in modo quasi "naturalizzato" , identifica le unità sociali e cul­ turali; bisogna quindi staccarsi dai precetti positivisti che stanno alla base di questa domanda. La conoscenza antropologica si definisce e si ottiene attraverso il dialogo, la traduzione e il rendere esplicite le categorie native, essendo capace di mettere in relazione le categorie etniche giuridicamente formalizzate con le categorie e i circuiti di relazioni proprie ai gruppi sociali e ai contesti culturali investigati» (i vi, p. 4) . Dalle interviste condotte con antropologi che sono stati coinvolti come periti nei processi di riconoscimento etnico e in particolare di demarcazione di riserve indigene, emerge che la tendenza predominante all'interno della comunità antropologica brasiliana è quella di una figura di etnologo-perito che non si arroga la funzione di proferire giudizi netti sulle questioni sulle quali è chiamato ad esprimersi. Gli antropologi sono sì intenzionati a di­ fendere la propria autonomia professionale come specialisti del settore sul quale sono chiamati ad esprimere un'opinione tecnica, tuttavia sembrano volersi esimere dal compito di esprimere giudizi netti, volendo mettere in chiaro che la responsabilità politica finale e l'ultima parola spettano ad am­ ministratori, giudici e politici. Nella pratica gli antropologi-periti sembrano rivestire un ruolo di mediatore o di "interprete socio-culturale" fra indios e Stato. Infatti, da una parte illustrano ai rappresentanti delle istituzioni le rivendicazioni territoriali indigene, descrivendo con l' ausilio di esperti di al­ tri campi disciplinari l'uso che gli indios fanno di un determinato territorio, dall' altro dialogano con i gruppi indigeni informandoli sulle possibilità reali di ottenere la terra. Così sul campo avvengono delle vere e proprie negozia­ zioni fra antropologo e indios. Gli antropologi alla fine riportano le proposte indigene sulle terre da demarcare; per citare un esempio: nel caso della riserva indigena Rancha­ ria abitata dagli indios Xacriabà del Nord del Minas Gerais, l' antropologo era disposto identificare come Terra Indigena una porzione di territorio

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nettamente maggiore rispetto a quella poi effettivamente descritta nel suo documento; tuttavia furono proprio gli indios a voler mantenere un basso profilo, preferendo non toccare troppi interessi fondiari per ottenere rapi­ damente un territorio comune. Il compito dell'antropologo è quindi quello di interpretare al meglio il ruolo di specialista che si mette al servizio delle istituzioni brasiliane per analizzare e rendere intelligibili le rivendicazioni indigene sulle terre ed il loro rapporto con il territorio, e allo stesso tempo dialogare con gli indios negoziando con loro la proposta territoriale finale, illustrando al gruppo i funzionamenti del processo. Assume quindi un ruolo complesso di duplice traduttore che mantiene una funzione critica nell'analizzare i contenuti di queste traduzioni . A differenza di uno studioso di scienze naturali, un etnologo si trova di fronte a grandi difficoltà quando è chiamato a classificare gruppi umani e "terre di occupazione tradizionale " , sia per quanto riguarda gli aspetti etici che rispetto a quelli teorico-metodologici. Proprio per questo motivo gli an­ tropologi brasiliani oggi tentano di affrancarsi da questo ruolo specifico, ma senza abbandonare la pratica delle perizie. Abbandonarla significherebbe delegare ad altri, che siano geografi, storici, o politologi, il compito di espri­ mere opinioni e pareri tecnici su tematiche relative agli aspetti socio-politici, culturali, ed economici della vita delle comunità indigene del paese. Que­ sto implicherebbe che su una serie di questioni cruciali per il futuro delle popolazioni indigene verrebbero chiamati a esprimersi studiosi o "tecnici" che di queste ultime non si sono mai occupati o che comunque non hanno nel loro bagaglio disciplinare gli strumenti teorico-metodologici appropriati per occuparsene. Bisogna sottolineare che tali popolazioni fanno parte della stessa comu­ nità nazionale dei ricercatori e vivono all'interno del territorio nazionale in cui gli studiosi abitano e lavorano. Anche e soprattutto per questi motivi gli antropologi del paese si sentono in dovere di esprimere opinioni, prendere parola e assumersi responsabilità importanti in quanto intellettuali e specia­ listi dello studio delle società indigene. All'interno della Carta de Ponta das Canas vi sono anche delle racco­ mandazioni specifiche inerenti alle metodologie con cui affrontare una pe­ rizia, la prima delle quali riguarda le condizioni per stabilire un dialogo con awocati o amministratori: avere chiaro il fatto o l'oggetto di interesse della giustizia o dell'istituzione sol­ lecitante . . . ; comprendere qual è la relazione giuridica o la richiesta amministrativa che dà origine alla domanda; valutare criticamente la domanda presentata dall'operatore di giustizia o dall'amministratore, con l'obiettivo di correggere eventualmente la sua formula-

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zione, rifiutarla o suggerirne altre più adeguate al problema, una volta che quest'ul­ timo sia correttamente formulato dal punto di vista antropologico. Questo deve essere fatto di preferenza, attraverso un dialogo diretto con il committente (ibid. ) .

Tali condizioni vengono considerate pregiudiziali per accettare l'incarico di svolgere la perizia. La seconda raccomandazione riguarda la comprensione all'esterno del discorso antropologico; affinché venga inteso bisogna: «definire chiaramen­ te i processi,così come le basi teoriche che hanno orientato la realizzazione della perizia. Nella loro domanda gli operatori di giustizia e gli amministra­ tori ricorrono all' antropologo nel suo ruolo di scienziato sociale e con que­ sto statuto l' antropologo deve mettere in chiaro le fondamenta su cui si basa il suo lavoro, dal punto di vista disciplinare» (ivi, p. 5) . Inoltre si consiglia all'antropologo di «essere minuzioso e sistematico nello spiegare le ragioni che hanno portato alla presentazione delle informazioni selezionate, in fun­ zione degli obiettivi finali della perizia. [ . . . ] La differenza con una lettura accademica della stessa questione sta in questa "economia" della risposta, restringendo, nei limiti del possibile, la ricchezza etnografica coerentemente con i limiti della domanda» (ibid. ) . Nel modo di scrivere la perizia si sottoli­ nea anche l'importanza di «rendere esplicito sistematicamente il contenuto di quelle nozioni utilizzate nel testo, che non corrispondano al significato classico da " dizionario" o che abbiano un contenuto di natura specifica­ mente antropologica» (ibid. ) . Nel documento si entra poi nello specifico delle perizie: sia quelle di identificazione etnica, sia i laudos sui territori tradizionali. Per quanto ri­ guarda la prime si definisce che «un gruppo etnicamente differenziato è ogni collettività che, attraverso le proprie categorie di rappresentazione e le proprie forme organizzative, si concepisce e si afferma come tale» (ibid. ) , una definizione abbastanza aperta e ampia. Dal punto di vista metodologico viene messo in risalto che: «la verifica delle categorie identitarie etniche e sociali deve fondarsi sull'investigazio­ ne etnografica, prima che sulla ricerca di possibili referenze storico-docu­ mentali e archeologiche» (ibid. ) . Con questo passaggio si intende mettere in chiaro l'indispensabilità dei dati etnografici e la loro importanza per la ricerca antropologica, rispetto ai dati provenienti da documenti storici scrit­ ti, normalmente soprawalutati nelle sedi legali. Infine si specifica che i relatorios di identi/icaçao etnica non hanno «ca­ rattere di attestato, dovendo essere elaborati come diagnosi delle situazio­ ni sociali investigate, che orientino e delimitino gli interventi governativi nell' applicazione dei diritti costituzionali» (ibid. ) . Per quanto riguarda lo specifico delle perizie relative ai territori tradi­ zionali: «devono essere identificate le concezioni proprie e le forme di auto-

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definizione socio-culturale del gruppo, così come le percezioni dello spazio, gli usi e i valori [ . . . ] . Le categorie giuridiche relative al possesso e ai diritti territoriali presenti nella definizione della domanda devono essere descritti dettagliatamente» (ibid. ) . Inoltre è importante: «fare la mappatura del campo delle relazioni in gioco nella situazione sociale sulla quale e nella quale il documento viene prodotto, esplicitando le posizioni dei differenti attori che influenzano le definizioni delle risposte. Questo difende, in primo luogo, l'obiettività della risposta data, così come la sua natura sociale e,in questo senso, congiun­ turale» (ivi, p. 6) . Oltre a questo nel rapporto col gruppo in questione è necessario «promuovere un'ampia discussione con il gruppo per definire una posizione chiara sui limiti del territorio in questione, o sull'impossibilità di definire tali limiti nel momento, rispettando i parametri costituzionali e legali vigenti» (ibid. ) . Anche per quanto riguarda altre importanti problematiche ed ostacoli da superare per gli antropologi impegnati nei laudos periciais, gli antropologi hanno tentato di offrire delle risposte utili dal punto di vista metodologico. In primis vanno considerati i tempi limitati per condurre la ricerca o le interviste ad interlocutori informati sulle sua finalità. Su quest'ultimo punto gli stessi antropologi che hanno avuto esperienze periziali riferiscono che la migliore strategia metodologica è quella di informare tutta la comunità degli obiettivi della ricerca. Quindi invece di dissimulare o celare gli scopi della ricerca, si cerca di renderli ancora più chiari, anche per valutare ed analizzare meglio le narrazioni degli informatori che saranno a quel punto chiaramente orientate e finalizzate ad ottenere un risultato politico. Inoltre il fatto che gli attori sociali siano a conoscenza delle finalità della ricerca può rappresentare un vantaggio per un ricercatore che ha a disposizione tempi limitati per svolgere il suo lavoro sul campo. Indubbiamente 45 giorni non sono sufficienti per portare a compimento una ricerca sul terreno che sia soddisfacente dal punto di vista euristico; tut­ tavia bisogna mettersi nell'ottica che questo tipo di perizie non può essere equiparato ad una classica monografia antropologica, come si evince anche dalle parole di Marco Paulo Schettino antropologo che ha effettuato perizie: Un " grupo de trabalho" (l'équipe diretta dall'antropologo e incaricata di svolgere la perizia) ha a disposizione un tempo amministrativo che non è un tempo etnografico [ . . . ] . Chiaramente in 45 giorni non si può fare una buona etnografia per la quale servirebbero 2-3 anni per definire una Terra Indigena, ma questo non è possibile, né gli indios lo vogliono. È possibile fare un tipo di etnografia, una certa etnografia superficiale e precaria. In passato cosa succedeva: che venivano chiamati etnografi che avevano lavorato per anni, con quel gruppo e quindi non importava che fosse poco il tempo amministrativo. Ma oggi gli etnologi sono pochi in confronto alle aree indigene. Quindi non si riescono a coprire tutte le aree indigene con gli etnologi che

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ci sono. In più oggi ci sono molti popoli mai studiati su cui non è mai stata scritta nemmeno una riga. Quindi quando ero direttore del Dipartimento di identificazio­ ne e delimitazione delle Terre Indigene, pensai di creare delle aree etnografiche con antropologi a coordinare ognuna di queste. E cominciare a fare studi etnografici in ognuna, e piccole ricerche sul campo, per avere un minimo di dati etnografici raccolti (Schettino, 16 giugno 2004, Recife).

Quindi bisogna necessariamente partire dall'importante premessa che in un tempo così breve è impossibile fare una buona etnografia, ma bisogna tro­ vare il modo di fare "un certo tipo di etnografia" . Se si conoscesse già la popolazione in questione sarebbe possibile, anche solo in 45 giorni, fornire un parere antropologico motivato da una limitata quantità di dati etnografici su una determinata questione. Invece senza aver svolto precedenti ricerche sul gruppo in questione è molto più complesso esprimere qualsiasi tipo di consulenza specialistica. Problema che potrebbe essere in parte risolto grazie alle proposte fatte dallo stesso Schettino che prevedono dei brevi studi preliminari in varie regioni del Brasile poco stu­ diate, effettuati prima ed indipendentemente dalle rivendicazioni di gruppi indigeni. Passando poi alla fase di scrittura dei dati raccolti durante le perizie, la strategia usata dagli antropologi intervistati prevede ripetute delucidazioni di concetti e categorie antropologiche, anche attraverso note a piè di pagi­ na. Tuttavia l'obiettivo condiviso non è quello di arrivare a trasformare la relazione scritta in un testo giuridico attraverso una traduzione completa di quelle categorie, in categorie giuridiche. Inoltre gli etnologi-periti non svolgono perizie tese a determinare una relazione immanente ed immutabile fra un determinato territorio ed un gruppo etnico, non volendo e non potendo considerare la territorialità una caratteristica intrinseca di un gruppo sociale, coerenti con un approccio che è il frutto di riflessioni teoriche sviluppatesi all'interno della disciplina nel corso degli anni (Thornton, 198o; Keesing, 1982; lngold, 1986; Pacheco de Oliveira, 1994, 1999a; Block, 199 5 ; Hirsch, O'Hanlon, 1995; Schama, 1997; Lai, 2ooo) . Pacheco de Oliveira durante un'intervista ha usato parole piuttosto chiare per spiegare come va concepito il ruolo dell' antropologo incaricato di svolgere una perizia di demarcazione territoriale: . . . il modo di fare una perizia non deve essere quello di fare un 'antropologia ogget­ tivante o naturalizzante. La mia visione è che, anche in questi casi, l'antropologia deve essere sempre un esercizio dialogico in cui c'è uno scambio con la comunità e non un esercizio come quello di definire il DNA di qualcuno, ma qualcosa di comple­ tamente differente, perché l'antropologo non ha questo potere né questo diritto di dire che l'altro è indio o non è indio. E per quanto riguarda le demarcazioni territo-

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riali, ho sempre detto che secondo me l'antropologo non dovrebbe presentare una perizia chiusa sull'area in questione ma dovrebbe spiegare la relazione fra gli indios ed una parte del territorio nazionale, la relazione fra gli indigeni e lo spazio. Mentre la decisione di chiudere e decidere un perimetro è una decisione totalmente politica, che sarà il risultato degli interessi degli indios che cambiano col passare del tempo, perché un giorno possono volere una terra ed in seguito possono volerne un'altra, e l'antropologo non può dire una cosa come se fosse verità scientifica, [ . . . ] perché poi tutto va contestualizzato storicamente perché le rivendicazioni indigene possono cambiare molto. Fra l'altro ci sono stati dei casi in cui gli indios subiscono pressioni molto forti da parte degli altri abitanti della regione e quando vengono identificate le terre hanno paura e dicono di non volere un appezzamento di terra, e se l'antro­ pologo allora dice che quella non è Terra Indigena del gruppo, anche se avrebbe potuto mostrare delle relazioni tradizionali fra il gruppo e quella terra, magari poi dieci anni dopo, quando gli indios si sentiranno più forti e saranno aumentati demo­ graficamente, rivendicheranno quella terra; allora le parole dell'antropologo e la sua perizia verranno utilizzate come prova, e gli indios non potranno ottenere la terra. Quindi l'antropologo deve mostrare il congiunto di relazioni fra un gruppo umano e uno spazio territoriale e mostrare le differenti proposte degli indios relative alla terra e lasciare allo Stato di scegliere. Perché è lo Stato che deve decidere. Mentre in genere c'è un'interpretazione di questo processo estremamente sbagliata, anche da parte della chiesa, come se fosse un processo unico e definitivo (] oao Pacheco de Oliveira, 8 novembre 2004, Rio de Janeiro) .

Tuttavia, indipendentemente dalle interpretazioni degli antropologi sul ruo­ lo di perito, le istituzioni che affidano loro il compito di svolgere le perizie sembrano invece richiedere ai ricercatori giudizi perentori e netti, sia sull'i­ dentità etnica dei gruppi, come avveniva in passato, sia sui confini delle terre di "occupazione tradizionale" . Proprio nel rapporto con le istituzioni e quindi con i committenti si concentrano molti degli aspetti più critici e problematici della pratica delle perizie antropologiche. Così anche dal punto di vista strettamente meto­ dologico i ricercatori sono chiamati a confrontare i loro strumenti, modi e metodi di fare ricerca con la necessità di comprovare e avallare le con­ clusioni a cui giungono nei loro lavori con prove che risultino credibili e valide anche per un pubblico di non specialisti. Tutto è reso più complesso dal fatto che il testo frutto della breve ricerca sul campo sarà non solo ana­ lizzato e letto da giudici, avvocati e amministratori - un pubblico formato quindi de estranei alla comunità antropologica - ma soprattutto verrà uti­ lizzato come fondamento "scientifico" per esercitare azioni pubbliche da parte dello Stato legittimando così decisioni politiche dal peso cruciale per il futuro delle popolazioni indigene. Proprio in questo rapporto fra antro­ pologo e committenti si concentrano i nodi più difficili da sciogliere e le questioni più complesse per i nostri colleghi brasiliani coinvolti in questi processi.

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Il rapporto fra gli antropologi incaricati di svolgere le perizie e i com­ mittenti provenienti dal mondo giuridico e politico istituzionale è un rap­ porto fra differenti linguaggi e apparati teorico-metodologici di riferimento. Proprio questa difficile relazione, come abbiamo accennato, rappresenta il problema cruciale per i ricercatori impegnati nei laudos periciais. Dagli esempi riportati ed analizzati, le strategie possibili in questo cam­ po specifico sono essenzialmente due: condurre la ricerca sul campo ed ela­ borare un testo " appiattito" sulle esigenze dei committenti non raccoglien­ do dati etnografici, ma "prove" (quasi poliziesche) oppure svolgere perizie che assolvano al compito di offrire il contributo specifico che l'antropologia può fornire a questo tipo di processi amministrativi e giuridici, senza sna­ turare completamente né la ricerca sul terreno, né la rielaborazione teorica. Indubbiamente le peculiarità delle condizioni di ricerca e, in primis, il tem­ po limitato a disposizione creano degli ostacoli insormontabili per portare a compimento uno studio antropologico approfondito e paragonabile ad una ricerca condotta con finalità esclusivamente scientifiche. Tuttavia se gli etnologi brasiliani hanno la forza, anche politica, di far sì che la loro disci­ plina mantenga completa autonomia ed autorevolezza all'interno delle pe­ rizie, allora queste consulenze saranno " qualcosa di antropologico " perché saranno frutto di " un tipo di etnografia" , per citare le stesse parole di Schet­ tino. Se così non è o non sarà, le perizie saranno il frutto di un'antropologia completamente piegata alle esigenze giuridico amministrative ed allora non manterranno più niente di antropologico. Data l'importanza e l'autorevolezza che l'antropologia si è conquistata nel mondo intellettuale brasiliano e data la credibilità di cui gode anche pres­ so le istituzioni che affidano ad etnologi ruoli di responsabilità, la sfida oggi è quella di imporre (il più possibile) anche all'esterno dell'ambito disciplinare il linguaggio, le rielaborazioni teoriche fondamentali ed i metodi caratteristici della disciplina. Infatti l'ottima tradizione dell'antropologia e delle scienze sociali all'interno dell' accademia brasiliana ha origini lontane: nelle universi­ tà del paese insegnarono antropologi stranieri di fama mondiale come Lévi­ Strauss e Bastide. Inoltre l'influenza e il prestigio di alcuni studiosi riuscirono a varcare i confini dell'accademia brasiliana, per essere conosciuti anche all'e­ stero e per imporsi nel dibattito intellettuale nazionale: si pensi all' antropo­ logo Darcy Ribeiro a Paulo Freire in campo educativo e politico e a Gilberto Freyre in quello sociologico. All'interno delle scienze sociali l'antropologia ha giocato un ruolo importantissimo. Si pensi per esempio che l' ABA, l'asso­ ciazione di categoria, che tenne la sua prima riunione nel 1 9 5 3 , è la più antica delle associazioni scientifiche fra quelle afferenti alle scienze sociali. Storicamente, in molte occasioni, gli antropologi brasiliani hanno preso una posizione netta e hanno fatto pressioni politiche sul governo affinché i diritti delle popolazioni indigene venissero rispettati .

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A fine anni Settanta la comunità antropologica brasiliana si sollevò in una protesta contro la proposta del decreto di emancipazione voluto dal ministro dell' Interno Rangel Reis. Il decreto s'inseriva in una politica che aveva l'obiettivo di «assorbire gli indios nella società civile e di abbando­ nare il prima possibile l'idea delle riserve indigene» ( "J ornai do Brasi! " , 1974) . La conseguenza più devastante per il futuro delle popolazioni indi­ gene riguardava, come sempre, le terre, dal momento che gli indios rico­ nosciuti ufficialmente come tali hanno diritto al possesso dei territori in cui vivono, e questo è sancito dalla Costituzione e dall'Estatuto do Indio. Con l'emancipazione gli indios avrebbero così perso il diritto alle terre. Il decreto del 1978 pretendeva di alterare lo Estatuto do Indio che già preve­ deva la possibilità di emancipazione dallo status giuridico di Indigeno, ma ammetteva questa possibilità come scelta individuale, ammissibile se un indigeno o una comunità indigena avessero acquisito una sufficiente cono­ scenza e familiarità con usi e costumi della società nazionale (legge 6oor, 1973, titolo III, cap. II, artt . 9, ro, n ) 1 5 • Con l'emancipazione e la perdita dello status di indio, non solo si perdeva il diritto alle terre ma anche, il diritto a compiere una serie di pratiche socio- culturali specifiche non ammesse dal codice civile e penale brasiliano. Un decreto simile al Dawes Act con cui, a fine Ottocento, negli Stati Uniti si distribuirono ai singoli Native Indians lotti privati di terra come primo passo verso l' adozione da parte loro di usi e costumi della società civilizzata. Anche in Canada vi furono, negli anni Sessanta, due tentativi falliti di " emancipare " la popolazione indigena con l'obiettivo di arrivare all'eliminazione delle riserve indigene federali (Ra­ mos, 1998, p. 245) . La mobilitazione degli antropologi, dei movimenti indigeni, insieme alla posizione critica da parte della maggioranza della stampa, e a pressioni che arrivavano anche dall'estero, fecero sì che il decreto non venisse mai pro­ mulgato. La comunità antropologica prese una posizione netta, non solo per una sorta di alleanza con le popolazioni indigene, ma anche perché ponendo su una bilancia da una parte la politica paternalista realizzata dalla FUl\'AI "sulla testa" delle popolazioni indigene secondo la logica della tutela, e dall'al­ tra la possibilità che gli indios perdessero le loro terre e fossero sottoposti al rischio di uno sfruttamento intensivo da parte della società dominante, scelse di difendere i diritti acquisiti dagli indios negli anni, per quanto fatti rispettare con metodologie ancora perfettibili. Un'altra battaglia che gli antropologi combatterono, ma senza risultati, fu quella contro il decreto 1775 voluto dal ministro della Giustizia Nelson J obim, durante l'amministrazione di Fernando Henrique Cardoso. Questo decreto del 1996 e vigente fino ad oggi, riformulava le regole per la demar­ cazione delle terre. Rispetto al precedente decreto 22 del 1991, questa legge

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apriva i processi di demarcazione alle eventuali contestazioni da parte di terzi: governatori degli Stati, proprietari terrieri, coloni, imprese minerarie o agricole. Oltre a questo alcuni degli antropologi brasiliani più influenti han­ no assunto cariche importanti all'interno degli organi indigenisti nazionali . Curt Nimuendaju collaborò con lo SPI (Serviço de Proteçao aos fndios) , organo indigenista precedente alla FUNAI , e negli anni fra il 1905 e il 1945 compilò un registro di più di 40 popoli indigeni, viaggiando all'interno del Brasile e contribuendo ad una prima mappatura di una qualche valenza etnografica. Darcy Ribeiro, non solo fu etnologo ufficiale dello SPI , dal 1947 al 1957, ma fu presidente della Casa Civil, nel governo Goulart, una delle più importanti cariche governative nazionali. Infine anche gli etnologi Eduardo Galvao e Roberto Cardoso de Oliveira sono stati direttamente coinvolti nel­ la politica indigenista nazionale. Fra l'altro, per quanto riguarda le perizie, se le istituzioni si vogliono affidare agli antropologi, devono poter contare su professionisti che, pur avendo poco tempo a disposizione, forniscano consulenze che siano vera­ mente specialistiche, owero caratterizzate da un approccio integralmente antropologico. Solo le perizie condotte con queste metodologie potranno essere utili per i committenti senza, allo stesso tempo, screditare i loro autori. All'interno della comunità antropologica brasiliana e anche in seno all'associazione di categoria un gruppo di etnologi da anni è coinvolto in rielaborazioni teoriche finalizzate a vigilare sulla produzione dei laudos, sia dal punto di vista etico-deontologico, sia dal punto di vista teorico-metodo­ logico. Su quest'ultimo aspetto, pur nella consapevolezza che quella delle perizie è una "particolare forma di pratica e produzione antropologica " , l'intento è quello di non arrendersi all'idea che queste consulenze siano l ' oc­ casione per mettere in pratica un' antropologia di serie B . J oao Pacheco de Oliveira si è impegnato, più di tutti forse, nell'analisi e nella rielaborazione teorica del concetto di perizia antropologica, suggeren­ do anche strategie metodologiche d' azione e linee da seguire per gli antro­ pologi coinvolti in questi processi. L'antropologo carioca sull'ultimo punto qui affrontato è piuttosto chiaro ed esauriente: [ . . . ] non ha senso svilire l'attività di elaborazione dei "laudos " considerandola come la produzione di una forma di sapere "secondario " o "minore " , come se fosse una semplice tecnica messa in atto da un gruppo di specialisti "pratici " (distinti dagli antropologi di carriera) . Ugualmente non avrebbe senso ristabilire la distinzione presente nel contesto britannico, prima della Seconda guerra mondiale, fra antro­ pologi "pratici " (legati al Colonia! Office) e " teorici " (legati alle università). [. . . ] La preparazione dei "laudos periciais " , riguarda alcuni temi ed esige un'attenzione (metodologica) che solo un antropologo con formazione piena e integrale può trat­ tare e tenere in considerazione (Pacheco de Oliveira, 1999b, p. 168).

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Proprio per questi motivi Pacheco de Oliveira è contrario alla proposta ventilata periodicamente all'interno dell'accademia brasiliana per cui sareb­ be opportuno istituire due percorsi di formazione universitari separati per " consulenti antropologici " e per " antropologi accademici " . Inoltre, analizzando alcune perizie si ha la netta sensazione che queste si differenzino dalle monografie classiche non solo per alcune strategie e scelte a livello di linguaggio, che prevedono per esempio l'inserimento di note esplicative per chiarire alcuni concetti antropologici a chi è digiuno di antropologia, ma anche e soprattutto per il fatto che i loro autori tendono a sottolineare alcune caratteristiche socio-economiche, politiche o culturali del gruppo per ottenere un certo tipo di risultato. Mettere in risalto che gli indios hanno rispetto per l'ecosistema locale a differenza dei /azendeiros, così come il porre l'enfasi sul fatto che le pratiche rituali e religiose praticate da un gruppo indigeno in uno specifico territorio rischierebbero di sparire se la comunità non avesse la possibilità di realizzarle in una terra propria al riparo dello sguardo dei non indigeni, sono strategie tese ad ottenere più facilmente il riconoscimento di una Terra Indigena (Schettino, 1999) . Tuttavia se l'impegno è quello di evitare che le perizie siano un' occasio­ ne per realizzare un' antropologia improvvisata ed ingenua, il modo migliore non sarebbe forse quello di sfruttare tutte le competenze disciplinari, per offrire il quadro più completo possibile del tema su cui si sta fornendo una consulenza, invece di mettere in evidenza solo alcuni aspetti della realtà socio-culturale indigena, con la finalità strategica di convincere i lettori della perizia? Per fare un esempio, un antropologo, per assolvere degnamente al com­ pito che gli era stato assegnato, oltre a descrivere il Toré, un rituale indigeno diffuso fra i popoli del Nordest brasiliano, e sottolineare che veniva pratica­ to all'interno di un dato territorio, avrebbe potuto accennare all'analisi che del rituale avevano fatto la maggior parte degli antropologi che se n'erano occupati (Pacheco de Oliveira, 1999a, 1999b; de Griinewald, 2004) . Analisi che interpretavano il Toré come un rituale politico di differen­ ziazione etnica. Si può facilmente comprendere che questo tipo di analisi possa essere stata celata per evitare che un pubblico di non antropologi ne traesse la conclusione che il rituale fosse "falso " . Tuttavia, se vogliamo che le perizie possano essere considerate a pieno diritto " qualcosa di antropo­ logico" , queste devono riuscire a imporre ai propri committenti e fruitori non specializzati i criteri di analisi propri dell' antropologia, senza bisogno di celare analisi o dati etnografici e senza dover descrivere i tratti dei gruppi studiati in modo funzionale a convincere tale pubblico di lettori sulla base del senso comune condiviso da questi ultimi. Anche Macintyre (2004) nella sua analisi della pratica della consulenza in antropologia sottolinea che un problema ricorrente che emerge durante questi lavori su committenza è che

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il ricercatore sarebbe tentato di smontare una serie di stereotipi relativi al tradizionalismo indigeno e al fatto che le comunità studiate vivano neces­ sariamente in completa armonia con la natura oltre ad essere democratici e privi di dinamiche conflittuali all'interno della loro comunità; ma queste riflessioni non sarebbero gradite alle ONG indigeniste. Tali organizzazioni, in molti casi per ingenuità o per una consapevole strategia politica, tendono infatti ad amplificare e a rafforzare tutti questi stereotipi, alcuni dei quali vengono accuratamente esposti da Olivier de Sardan (1995, pp. 6o-7) in un suo volume dedicato all'antropologia dello svi­ luppo («la communauté villageoise consensuelle, le paysan "petit entrepre­ neur" individuel, la paysannerie en sa traditionalité, la paysannerie soumise et passive, la paysannerie "non capturée , retive et rebelle») . Se l'antropologia riesce ad avere l'autonomia e l'autorevolezza per im­ porsi in questo dialogo con i committenti delle ricerche, allora la pratica della perizia antropologica può fungere da seria consulenza specialistica. Se invece, a fini strategici e per risultare convincenti nei confronti di giudici o avvocati, si sacrificano parti fondamentali della ricerca sia dal punto di vista analitico che metodologico, si rischia di produrre una sorta di antropologia improvvisata e superficiale, inutile a qualsiasi scopo e neppure ai fini di una breve consulenza. Se ci si dimentica delle fonti orali, o se si celano parti­ colari importanti per metterne in evidenza solo altri a fini strategici , non si assolve al compito di fornire una consulenza seria e non si è fatto neanche un "tipo di etnografia" . Questo può accadere se si teme di non essere con­ vincenti nei confronti di chi leggerà la perizia e ci si appiattisce completa­ mente sulle categorie di pensiero e giuridiche dei committenti. Il rischio è quello di produrre relazioni che soffrano una deriva verso le categorie ed i linguaggi dei giuristi e degli amministratori o risultino un'imitazione dei documenti scritti dalle ONG indigeniste per sostenere le lotte indigene. Pro­ prio le perizie schiacciate su linguaggi e posizioni giuridiche che finiscono per utilizzare concetti estranei alla disciplina, nel tentativo di " convincere" un pubblico di non specialisti, sono quelle che risultano sia più deboli dal punto di vista strettamente antropologico, sia inadeguate alla funzione a cui devono adempiere per conto delle istituzioni. A questo punto appare necessario dedicare una breve riflessione speci­ fica anche alla logica del do ut des, come l' abbiamo definita in precedenza, intendendo il meccanismo di " scambio" fra comunità indigene e ricerca­ tori , che sottintende che la disponibilità e l'ospitalità che la comunità ha assicurato al ricercatore debbano essere ripagate in qualche modo dall' an­ tropologo. Queste richieste e rivendicazioni da parte dei gruppi indigeni nei con­ fronti degli antropologi che hanno svolto il loro periodo di "campo" all'in­ terno delle loro comunità, sono sempre più pressanti.

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Qualsiasi comunità sociale o etnica, qualsiasi gruppo umano non è ob­ bligato a ricevere un antropologo che per alcuni mesi vaga alla ricerca di informazioni al suo interno; anche solo per questo educazione e cordialità a volte non bastano per permettere al ricercatore di indagare su qualsiasi tematica e di entrare in ogni ambito sociale, è quindi necessaria una fase di negoziazione spesso estremamente complessa. Ogni caso etnografico ha caratteristiche specifiche è quindi complesso e rischioso offrire consigli etici o metodologici che abbiano la presunzio­ ne di essere sempre validi . Tuttavia alcune considerazioni possono essere fatte. Premesso che l'attenzione da riporre alle fasi di negoziazione con la popolazione locale assume oggi un ruolo fondamentale, indipendentemen­ te da questa, sarebbe auspicabile che, nel caso in cui il ricercatore volesse impegnarsi attivamente in favore delle popolazioni indigene con cui ha con­ vissuto, queste azioni fossero indipendenti da ricatti o richieste pressanti da parte dei locali. Per alcuni ricercatori tale impegno è doveroso: Daly (2004, pp. 85-6) infatti concentrandosi sul tema delle consulenze in antropologia sostiene che la nostra disciplina non può mettersi al servizio di tutti ma solo delle popolazioni indigene che vivono in contesti postcoloniali. Daly sostiene che «our natural allies are the disempowered», ma tale approccio engagé va però messo in pratica in modo professionale tenendo conto sia dei processi globali sia delle dinamiche che provocano o hanno provocato cam­ biamenti culturali, oltre che con la consapevolezza che lo stesso scienziato sociale è inserito in un contesto postcoloniale basato su relazioni di potere evidenti e il suo stesso ruolo all'interno di questo quadro socio-economico generale non è neutrale (ibid. ) . Negli Stati Uniti il Code o/ eth ics dell' American Anthropological Asso­ ciation del 1971 , stabiliva che : «when there is a conflict of interests, the inter­ ests of those studied come first» (Daly, Milis, 1993 ci t. in Daly, 2004, p. 84) . L'antropologo durante le sue ricerche si trova sempre più spesso in una posizione interstiziale fra gruppi di potere. Nella maggior parte dei casi og­ getto dei suoi studi sono gruppi marginali che rivestono ruoli subalterni nella gerarchie di potere attive nei singoli Stati, così che l'antropologo può assumere un ruolo cruciale in caso di conflitti o contenziosi che interessano le popolazioni presso le quali conduce la sua ricerca. Abbiamo qui accennato al manifestarsi di queste problematiche durante studi sul campo di ricerca "pura" o "fondamentale " (secondo la definizione classica) , ma per quanto riguarda invece le perizie finalizzate chiaramente alla produzione di dati e analisi che avranno un effetto pratico importante per le comunità studiate, come si comportano gli antropologi brasiliani? Lo stesso Pacheco de Oliveira il cui approccio non è sicuramente di­ struttivo nei confronti della pratica della perizia mette in guardia da un at­ teggiamento ciecamente filo-indigeno, da parte degli antropologi:

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Bisognerà abbandonare una volta per tutte l'atteggiamento assistenzialista e le pre­ tese di arrogarci il compito di salvare le popolazioni indigene. [ . ] A parte situazio­ ni estremamente drammatiche ed eccezionali, l'antropologo non deve far passare l'immagine che sia il portavoce degli interessi indigeni (Pacheco de Oliveira, 1999b, p. 185). . .

Queste preoccupazioni sono motivate anche dal fatto che tale immagine viene spesso citata ed utilizzata anche dagli awersari politici degli indios che criticano il lavoro degli antropologi considerandolo come poco attendibile, perché condizionato da un' alleanza con gli indios che farebbe vacillare il loro ruolo di esperti super partes. Un ultimo aspetto importante su cui riflettere riguarda i canali preferen­ ziali a cui ha accesso l' antropologo durante la sua ricerca. Ci siamo dilungati in precedenza, nell'elenco delle molteplici difficoltà che un antropologo in­ contra nello svolgere una perizia, che unite soprattutto al tempo limitato a disposizione da passare sul campo, rendono incomparabili dal punto di vista qualitativo queste peculiari ricerche con una monografia di tipo "classico" . Tuttavia la peculiarità della ricerca in certi casi permette di far emergere dati etnografici e spunti analitici che altrimenti sarebbe difficile scorgere. Attra­ verso alcuni casi etnografici specifici emerge una caratteristica inaspettata dell'indagine periziale: la possibilità di raccogliere dati etnografici altrimenti difficili da raccogliere. Queste particolari situazioni di contatto etnografico fra ricercatore e attori sociali permettono di cogliere dati e strategie attivate all'interno del gruppo che sarebbe difficile, se non impossibile, notare in altre situazioni. D'altronde va messo in risalto che il ricercatore, in queste occasioni, è im­ merso in un processo sociale e politico cruciale per tutta la comunità che difficilmente potrebbe essere indagato e analizzato in profondità in condi­ zioni di ricerca differenti, che non prevedono poste in gioco così alte. Un nuovo genere di pratica antropologica, un nuovo modo di mettere in campo conoscenze e teorie disciplinari

Le perizie rappresentano una forma particolare di studio antropologico, un modo diverso di applicare le conoscenze disciplinari, rispetto alle ricerche effettuate a scopi esclusivamente teorici. Come sostiene Pacheco de Oli­ veira (1999b, p . 165) questo genere di "produzione" antropologica non è da considerare come antropologia applicata tout court, ma per il suo carattere di consulenza esterna e per il suo grado di indipendenza è più equiparabile a quella che negli Stati Uniti è conosciuta come anthropological advocacy (Maybury-Lewis, 1985) ; una collaborazione fra antropologi e awocati non necessariamente vincolata allo Stato. All'interno della letteratura antropo-

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logica l'esempio più famoso è il processo giuridico dedicato al caso dell'i­ dentità etnica degli indiani Mashpee descritto da J ames Clifford ( 1988) . In realtà circoscrivere l' anthropological advocacy non è semplice, dal momento che gli stessi antropologi inseriscono all'interno di questo campo e di questa categoria di definizione, azioni anche molto differenti fra loro (Hastrup , Elsass, 1990) . Per tentare di essere esaustivi potremmo farvi rientrare tutte quelle iniziative finalizzate alla difesa degli interessi delle popolazioni indi­ gene dove è presente la partecipazione attiva di un antropologo. Quindi non esclusivamente azioni che riguardano l'ambito giuridico, ma anche consu­ lenze antropologiche fornite a popolazioni native o associazioni indigene interessate allo sviluppo di progetti di sviluppo, relativi agli ambiti più sva­ riati: dall'educativo, al sanitario, al culturale (Ramos, 20o4) 16• Per Strathern e Stewart (2004) le consulenze in antropologia danno un nuovo ruolo all' antropologo che non è solo osservatore partecipante ma diventa un agente e mediatore nei processi di cambiamento stessi. In re­ altà analizzando più approfonditamente la loro posizione su questo punto specifico si comprende che il ruolo dell'antropologo deve avvicinarsi più a quello del mediatore che a quello dell'agente protagonista del cambiamen­ to. Questa posizione viene condivisa da molti altri studiosi: Brutti (2004) per esempio sostiene che è meglio agire come mediatore che come militante e avvocato degli indigeni. Come abbiamo visto, anche analizzando l'operato degli antropologi che svolgono le perizie in Brasile, i laudos periciais possono essere interpretati come consulenze tecniche che offrono allo Stato un parere specialistico su determinate questioni, offrendo a giudici e amministratori le motivazioni che spingono le popolazioni indigene a rivendicare un dato territorio. Gli antropologi-periti negoziano con gli indios le ipotesi di demarcazione ter­ ritoriale che verranno proposte poi ufficialmente alle istituzioni brasiliane incaricate di "dire l'ultima parola" e procedere a formalizzare l'omologazio­ ne delle Terre Indigene . I ricercatori in questo caso mediano fra due mondi (quello indigeno e quello dell'amministrazione federale) impegnandosi in un prezioso quanto difficile lavoro di "traduzione " che avviene in due dire­ zioni differenti. Da una parte le logiche, le esigenze e le strategie indigene relative all' oc­ cupazione del territorio vengono analizzate e "tradotte" per renderle com­ prensibili a giudici e politici, dall'altro le leggi e le dinamiche politiche re­ lative alle demarcazioni territoriali ed esterne al mondo indigeno vengono fatte conoscere agli indios dall'antropologo durante i frequenti contatti sul campo con i rappresentanti del gruppo rivendicante la terra. Gli antropologi hanno quindi scelto una linea che concilia l' assunzione di responsabilità di fronte allo Stato con l'impegno nel fornire risposte effi­ caci alle domande e richieste degli indios.

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Un ulteriore problema che emerge da vari studi sulle consulenze in an­ tropologia anche in contesti non brasiliani riguarda la differenza di posizioni fra antropologo e comunità sulle soluzioni politiche o economiche (nel caso di indennizzi a popolazioni danneggiate) da perseguire. Alcuni come Hen­ riksen (2004, p. 74) in un saggio dedicato alla sua esperienza di consulente in Canada con gli lnnu sostiene che in alcuni casi, se vi sono divergenze con la comunità riguardo alle strategie da attuare o agli obiettivi da conseguire, è importante rispettare i voleri locali, poiché agire in modo contrario signifi­ cherebbe negare o castrare i diritti all'autodeterminazione del gruppo. Sicuramente non c'è un canone disciplinare unico da seguire e ogni caso specifico ha caratteristiche differenti. Una strategia valida da attuare può es­ sere quella di affidarsi ad un'intensa fase di negoziazione e di dialogo con la comunità, tentando da un lato di comprendere in profondità le motivazioni che spingono il gruppo ad optare per una soluzione specifica e dall 'altro di illustrare loro gli eventuali rischi nei quali possono incorrere. Inoltre se l'antropologo parla e prende posizione per gli indios il perico­ lo maggiore è che questi ultimi non abbiano più voce e non partecipino da protagonisti alle dispute politiche locali e nazionali. Una delle critiche più radicali che può essere mossa agli antropologi che accettano la responsabilità di eseguire consulenze per le istituzioni relativa­ mente a tematiche che interessano le popolazioni indigene, riguarda il fatto che essi rappresentano comunque una pedina inserita in un sistema post­ coloniale caratterizzato da relazioni di potere che schiacciano e opprimono tali popolazioni. Il pericolo concreto è quello di agire quindi come attori che contribuiscono a tenere in piedi e legittimare un sistema che riproduce logiche di dominazione coloniale. Alcuni ricercatori come Robins (2004, p. 98) e Henriksen ( 2004, p. 71) pur consci del rischio che l'azione dell' antropologo all'interno dei processi di consulenza possa contribuire a consolidare le dinamiche di dipendenza che legano gli indios agli Stati postcoloniali, non si rifiutano di prendersi la responsabilità di effettuare perizie. Questi studiosi sostengono che l'unica soluzione è affrontare tali dinamiche dall'interno tentando di destrutturarle attraverso l'applicazione di una radica! anthropology, un'antropologia forte­ mente critica che si propone di puntare l'indice sugli aspetti coloniali insiti nelle relazioni fra stato e popolazioni indigene per contribuire a sradicare quei legami di dominazione e dipendenza caratterizzati da una forte violen­ za strutturale. La sfida è quella di diffondere anche all'esterno delle accademie e all'in­ terno del mondo politico e giuridico questo tipo di riflessioni e questo ap­ proccio per far comprendere ad interlocutori che non partecipano ai di­ battiti scientifici (politici, giudici e avvocati) quanto regole e categorie di eredità coloniale determinino ancora oggi le relazioni fra stato e popolazioni

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indigene, per poi svelare le dinamiche di potere che stanno dietro alle rispet­ tive forme di produzione di sapere. Se abbiamo detto che nell'ambito di una singola perizia è importante che l'antropologo imponga anche al committente il rispetto del patrimonio teorico-concettuale della disciplina e sia intransigente sui criteri metodologi­ ci la cui importanza è ormai assodata (il valore attribuito alle fonti orali, la ne­ cessità di instaurare nel contatto etnografico un clima diverso da quello che si respira durante un'indagine poliziesca o un'inchiesta giornalistica ecc.), sarebbe auspicabile che la comunità antropologica brasiliana riuscisse ad im­ porsi anche ad un livello più alto, al livello di chi scrive le regole del gioco. Per essere più chiari, sarebbe opportuno che l' antropologia sfruttasse l'autorevolezza intellettuale ed accademica di cui storicamente gode in Bra­ sile, non solo per mettere in chiaro, di fronte alle istituzioni giuridiche e politiche, quali siano le metodologie di ricerca fondamentali ed i concetti te­ orici su cui si basa la disciplina, ma anche per far sì che questi vengano con­ siderati validi ed attendibili dagli stessi committenti delle perizie. In sintesi per facilitare il compito ai ricercatori incaricati di svolgere le perizie ed evi­ tare il rischio che stravolgano completamente i loro principi disciplinari più elementari, nel tentativo di risultare convincenti di fronte ad un pubblico completamente profano per quanto riguarda il corpus teorico-metodologico fondante per l'antropologia, il modo migliore è forse quello di tentare di far sì che tale patrimonio disciplinare venga non solo compreso, ma soprattutto considerato completamente legittimo anche a livello di chi le norme le sta­ bilisce e le fa applicare. Ed è su questo punto che la comunità antropologica brasiliana dovrebbe tentare di imporsi, passando così ad un livello più alto. La sfida è quella di fare un "salto più in alto " appunto in cui non si affer­ ma solo il rispetto dell'autonomia disciplinare all'interno delle consulenze, ma si tenta un'affermazione o "infiltrazione" delle categorie antropologiche anche all'interno delle regole del gioco vere e proprie. Sarebbe auspicabile che gli antropologi brasiliani si ponessero l'ambi­ zioso obiettivo di agire su due livelli: da una parte mettere a disposizione le proprie competenze disciplinari per effettuare consulenze relative alle Terre Indigene, attenti a salvaguardare l'indipendenza professionale del ricercato­ re e dall'altra tentare di influire su un livello più alto per tentare di cambiare o destrutturare le regole del gioco. Quest'ultima potrebbe sembrare una missione o un'impresa utopica, tuttavia il contesto brasiliano apre l'orizzonte alla speranza che qualche pas­ so in questa direzione si possa compiere. Certamente non sarà facile che categorie per loro natura rigorose, precise e puntuali come quelle giuridi­ che, subiscano l'influenza delle teorie antropologiche che ai concetti come quelli di identità etnica e territorio si rapportano usando definizioni che fanno riferimento soprattutto alla negoziabilità e flessibilità. Tuttavia ci sono

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speranze che concetti prettamente antropologici influenzino le categorie giuridiche, se si tiene conto del fatto che, in seguito all'adesione del Brasile nel 2oo2, alla Convenzione 169 dell'ILO (lnternational Labour Organization) relativa ad i popoli indigeni, è stata abolita la pratica della perizia di ricono­ scimento etnico, rendendo sufficiente l' autoattribuzione etnica affinché un popolo indigeno sia legittimato ufficialmente dallo Stato. Sebbene la par­ te del processo relativa alle demarcazioni territoriali sia rimasta identica al passato (quella che tocca gli interessi fondiari da sempre politicamente e economicamente cruciali nel mondo rurale brasiliano) , l' adozione e la legit­ timazione giuridica di un criterio come quello della selfascription etnica ha indubbiamente un valore rilevante dal punto di vista del diritto, oltre che dal punto di vista teorico e politico-morale. Benché gli antropologi-periti mantengano una posizione che delega ai politici la responsabilità di prendere le decisioni finali riguardo alla demar­ cazione delle Terre Indigene, come abbiamo accennato, vi sono vari esempi che mettono in luce quanto in Brasile gli stessi studiosi di discipline etna­ antropologiche abbiano tentato di agire anche a un livello più alto, non tanto per entrare all'interno delle "stanze dei bottoni " e decidere in prima persona sul futuro delle popolazioni indigene ma per tentare di cambiare le norme che regolano i processi di demarcazione delle terre. Il problema è infatti che le perizie awengono all'interno di un quadro generale legislativo e amministrativo definito da giudici, legislatori e politici . E forse utopico, ma la strategia da tentare è di influire su chi scrive le regole del gioco, per mutare tali norme, in quanto specialisti, in questo caso, dei contenuti interni a tali regole. Note 1. Questo intervento è frutto di una ricerca sul campo di 9 mesi svoltasi nel 2004 nella riserva indigena Xacriabà situata all'interno dello Stato brasiliano del Minas Gerais. I dati raccolti, una volta ricanalizzati, sono stati inseriti nella tesi di dottorato discussa presso l'Uni­ versità di Siena in Italia nel maggio 2006. 2. Gli antropologi brasiliani sono chiamati a realizzare anche altri tipi di consulenze e pe­ rizie relative alle popolazioni indigene (analisi dell'impatto di progetti statali realizzati all'in­ temo di Terre Indigene, perizie richieste dai giudici nel caso di coinvolgimento di indigeni in processi penali, consulenze relative agli indennizzi da offrire a gruppi danneggiati da progetti statali o realizzati da privati nei territori comunitari ecc . ) . Altre perizie vengono realizzate da antropologi che si occupano di popolazioni di origine afro-brasiliana, e riguardano essenzial­ mente la demarcazione dei territori da adibire a quilombos (comunità costituite da discendenti di schiavi "negros" fuggiti dalla schiavitù e riunitisi in luoghi isolati, sui quali oggi rivendicano diritti territoriali) . 3 · La Procuradoria Geral da Republica è un organo giuridico che ha il compito di difen­ dere singoli o gruppi di cittadini brasiliani, quando i loro diritti costituzionali vengono lesi. Quest'organo porta avanti cause legali contro privati che minacciano il patrimonio pubblico ma anche contro il potere pubblico che non rispetta i diritti dei cittadini. Secondo la Costitu­ zione del 1988 fra i suoi compiti ha anche quello di difendere i diritti delle comunità indigene.

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Sia dal contributo specifico offerto da Losano (2oo6, pp. 97-8), sia attraverso l'analisi di alcuni casi giudiziari osservati durante la ricerca, si può mettere in evidenza che le Procure della Repubblica sono caratterizzate da un forte attivismo democratico, in favore della difesa dei diritti delle popolazioni indigene. 4· I sertanistas sono gli esploratori brasiliani che si sono inoltrati all'interno del sertao e delle foreste amazzoniche, alcuni di loro sono stati i primi a entrare in contatto con gli indios. Celebri sertanistas sono i fratelli Claudio, Leonardo e Orlando Villas Boas. 5· In Brasile gli antropologi sono chiamati a svolgere perizie su molte altre questioni: par­ tendo dalla sostenibilità socio-culturale di progetti sviluppati in regioni occupate da gruppi indigeni, per passare alle consulenze in ambito giuridico in seguito a reati commessi da indios fino a tutti gli altri casi in cui è necessario un parere specialistico da parte di uno studioso di popolazioni indigene. 6. Per comprendere il livello di conflittualità sociale e politica scatenata dalle singole demarcazioni di Terre Indigene in Brasile e la complessità delle problematiche giuridiche che questi processi implicano, un contributo utile è quello offerto da Losano (2oo6) che fa anche riferimento alla Terra Indigena Raposa-Serra do Sol, nello Stato del Roraima, che è al centro di un disputa che vede le comunità indigene contrapporsi agli interessi degli amministratori locali, di gruppi di risicoltori e dell'esercito brasiliano. 7· Oggi tale processo è regolato dal decreto 1775 dell'8 gennaio 1996 ed in particolare dalla Portaria: M], 14 del 9 gennaio 1996. 8. L'arrivo sulle coste brasiliane del primo navigatore portoghese è datato 1500, anno dello sbarco di Pedro Alvares Cabrai e del suo equipaggio. 9· Anche molti antropologi preferiscono usare questa definizione, anche se Pacheco de Oliveira ( 1999a ha intitolato un suo famoso saggio introduttivo allo studio di tali comunità in­ digene: Uma etnologia dos ((indios misturados" ma questa classificazione va considerata come una citazione della definizione più diffusa fra gli amministratori e utilizzata anche da Eduardo Galvao (1979 , p. 225). ro. La lista degli studi sull'etnicità è molto più lunga naturalmente (Amselle, M'Bokolo, 1985; gli studi raccolti da Maher (1994) per limitarsi ad alcuni esempi interessanti), visto che il tema, dagli anni Sessanta è stato analizzato in profondità da molti studiosi. I testi di Fabietti (1998) e di Gallissot, Kilani, Rivera (2oor) offrono una visione d'insieme, mentre il lavoro di Eriksen (1993) affronta il tema soprattutto in relazione col nazionalismo come accade nel caso di Comunità immaginate di Benedict Anderson (1996). n. Dati ISA (lnstituto Socioambiental), aprile 2008. 12. Pacheco de Oliveira (1999a) offre altri spunti interessanti per smontare gli approcci culturalisti al tema dell'identità etnica che integrando le teorie di Barth, forniscono un contri­ buto fondamentale per lo studio dei popoli indigeni ((misturado/'. 13. Esploratori portoghesi che anche attraverso razzie e uccisioni di indios, partendo dalla regione di San Paolo si inoltrarono nelle regioni occidentali e nordoccidentali del Brasile, espandendo così la dominazione coloniale sul territorio. 14. Per un approfondimento su queste tematiche si confrontino non solo gli studi classici di Lévi-Strauss, sul totemismo (1964a, 1964b), ma anche i più recenti contributi offerti dal " prospettivismo" approccio teorico elaborato da Eduardo Viveiros de Castro (2002) e gli studi diJoanna Overing ( 1975) e Peter Gow ( 1991, 1995) nello studio delle società amazzoniche. 15. Lo "Estatuto do fndio" è il nome della legge 6oor del 1973, che regola i rapporti giu­ ridici fra indios, Stato e società brasiliana. Nel caso specifico in questione, secondo lo Statuto do Indio, un indigeno che desidera affrancarsi dal suo status giuridico e quindi dalla tutela speciale da parte dello Stato, deve presentarsi da un giudice e dimostrare di: «aver almeno 21 anni, conoscere la lingua portoghese, essere in grado di svolgere un'attività utile all'interno della società nazionale, e avere una ragionevole conoscenza degli usi e costumi della società nazionale» (legge 6oorlr973, titolo m, cap. n, art. 9). Con lo stesso processo un'intera comunità indigena può emanciparsi se la maggioranza dei suoi membri lo richiede e ne ha i requisiti necessari (legge 6oorlr973, titolo m, cap. n, art. n).

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16. Per l'analisi dell'evoluzione storica dell'anthropological advocacy in Brasile è partico­ larmente interessante il contributo di Alcida Ramos (2004) dal significativo titolo: Advocacy Rhymes with Anthropology.

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Il ruolo dell'antropologo-consulente presso le organizzazioni internazionali di Viviana Sacco

Introduzione

n capitolo presenta alcune riflessioni sul ruolo dell'antropologo-consulente

presso le organizzazioni internazionali maturate in seguito a diverse esperien­ ze professionali di consulenza realizzate per conto dell'IFAD (lnternational Fund for Agricultural Development) . In particolare, descrive le competenze antropologiche messe in campo a partire dalle diverse richieste dei commit­ tenti e propone, inoltre, di riflettere sulle potenzialità dell'antropologo di agire come stimolo al "cambiamento istituzionale, delle organizzazioni inter­ nazionali. A integrazione dell'esperienza professionale diretta si sono rivelate molto interessanti alcune criticità emerse da una precedente ricerca focaliz­ zata sulla dimensione culturale nelle attività e nei programmi dell'uNESCO\ nell'ambito della quale è stato approfondito l'apporto di alcuni antropologi che hanno collaborato in qualità di funzionari/ collaboratori dell'organizza­ zione, congiuntamente al progressivo assorbimento di concetti e categorie antropologiche all'interno di politiche e programmi dell'organizzazione. In particolare, le vicende lavorative di due antropologi francesi, quali Alfred Métraux e Claude Lévi-Strauss, offrono interessanti e attuali spunti di rifles­ sione riguardo al loro contributo all'organizzazione e in generale alle aspet­ tative da essi riposte circa la possibilità per le scienze sociali di apportare innovazioni alle politiche e pratiche delle organizzazioni internazionali delle Nazioni Unite. In conclusione, il capitolo suggerisce l'importanza dell"' etno­ grafia istituzionale " , come un campo da rafforzare in ambito accademico per la possibilità che essa offre di facilitare la comprensione delle dinamiche isti­ tuzionali di organismi internazionali preposti a promuovere la cooperazione economica e sociale e il rispetto dei diritti umani. L'antropologo-consulente

È indubbio che le opportunità per gli antropologi di lavorare in qualità di consulenti presso agenzie governative e non governative, e presso organi-

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smi di cooperazione internazionale siano aumentate progressivamente nel corso degli ultimi anni. Questo è awenuto in seguito all' affermarsi di una visione dello sviluppo inteso non solo in senso meramente economico, ma anche come processo connotato di complesse dinamiche socio-culturali. In questo contesto, il sapere e le competenze dell' antropologo hanno suscitato un interesse progressivamente maggiore per le agenzie preposte alla coope­ razione internazionale, da cui è derivato un aumento delle opportunità di impiego per gli antropologi, ma più in generale per gli scienziati sociali nelle organizzazioni internazionali per lo sviluppo. Diverse consulenze realizzate per conto dell'IFAD nel corso degli ulti­ mi anni hanno permesso di approfondire alcune problematiche legate alla consulenza antropologica. A partire dalla personale esperienza di lavoro, si potrebbero differenziare almeno due tipologie diverse di consulenza: quelle di ricerca e accompagnamento di progetti/programmi e quelle finalizzate a fornire orientamento e suggerimenti di politiche e/o strategie. Esse si caratterizzano a loro volta per essere state realizzate "sul cam­ po" o " a tavolino" , quasi a richiamare una consueta antinomia della ricerca antropologica. Le consulenze sul campo hanno comportato la realizzazio­ ne di attività ricerca applicata a progetti realizzati dall'organizzazione, con incarichi variabili di corto/medio/lungo periodo. Sebbene in forma rara, esse vengono commissionate dall' organizzazione allo scopo di approfon­ dire una determinata tematica e/o aggiornare l'organizzazione rispetto alla stessa. In questo caso l'antropologo ha la possibilità di interagire diretta­ mente con le pratiche dell'istituzione (progetti/programmi) , svolgendo un ruolo di accompagnamento, monitoraggio, valutazione o identificazione di progetti . La seconda casistica di consulenze, owero quelle realizzate " a tavolino" presso l' headquarter dell'organizzazione, riguarda lo svolgimento di attività di ricerca e documentazione finalizzate a raccogliere e analizzare informa­ zioni qualitative e quantitative sulla base delle quali elaborare suggerimenti ed indicazioni in vista di politiche e/o strategie da adottare. Normalmente tali consulenze sono calibrate su un breve periodo (tra 15 giorni e 3 mesi) e sono realizzate attraverso incarichi " a tavolino" relativi a quantificare e qualificare il lavoro dell'organizzazione rispetto a una tematica specifica, documentare le buone pratiche e facilitare processi di definizione di strate­ gie e/o linee guide. C onsulenza " s ul campo " di ricerca/accompagnamento di progetti/processi Un esempio di consulenza realizzata "sul campo" è stata realizzata in Bolivia per conto di un programma focalizzato sullo sviluppo dei popoli indigeni

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amazzonici. La consulenza ha avuto una durata di otto mesi con base a La Paz, Bolivia, e frequenti missioni nella zona amazzonica della Bolivia e del Peni Il tema principale attorno a cui ruotava la consulenza era il turismo comunitario indigeno come sbocco imprenditoriale in forte crescita per le comunità indigene di tutto il continente latinoamericano. In particolare, è stato richiesto di predisporre una metodologia di valutazione degli impatti di questo fenomeno che potesse essere applicata sia da consulenti esterni che da leader indigeni. Inoltre bisognava analizzare fino a che punto le mol­ teplici iniziative di turismo che stavano progressivamente prendendo piede in forme diverse tra le comunità indigene tanto andine quanto amazzoniche costituissero un'attività redditizia e sostenibile a integrazione delle attività economiche tradizionali. Approfondire in che modo gli indigeni stessero beneficiando di tale attività, se si trattasse dell'ennesima illusione o panacea in grado di salvare le loro sorti oppure di una concreta alternativa, erano le domande guida della consulenza. Un ulteriore proposito della consulenza consisteva nel facilitare contatti ed accordi commerciali tra iniziative di turismo comu­ nitario già avviate in Pen1 e Bolivia con i tour operator italiani di turismo responsabile. Nell'ambito di questa consulenza è stata concessa, nei limiti del pos­ sibile, una sostanziale flessibilità nell'orientare il lavoro, lasciando spazio alla ricerca sociale applicata. A voler identificare a posteriori le competenze antropologiche messe in campo nell'ambito di questa consulenza bisogna menzionare la proposta di una metodologia di monitoraggio multidimensio­ nale delle iniziative di turismo indigeno, ovvero una metodologia che inclu­ de indicatori relativi alla dimensione sociale, culturale ed ambientale, e non solo di resa economica dell'attività turistica. Nella definizione di tale metodologia, sono state utilizzate modalità partecipative di coinvolgimento degli indigeni per comprovare e testare gli indicatori più adatti per ognuna delle componenti tematiche di valutazione considerate. Durante le "Rutas de Aprendizaje" - una modalità di training orizzontale utilizzata dall'IFAD in numerosi programmi2 - sono state propo­ ste e testate insieme ad indigeni provenienti da diversi paesi latinoamericani alcuni indicatori multidimensionali per la valutazione delle iniziative di turi­ smo comunitario. Inoltre, durante le Rutas de Aprendizaje i leader indigeni hanno avuto l'opportunità di applicare e testare gli indicatori proposti con esercizi di monitoraggio partecipativo. La comparazione tra più iniziative di turismo comunitario rispetto alle quali è stato realizzato un lavoro di monitoraggio partecipativo, ha permes­ so di riflettere insieme agli indigeni sui limiti e sui punti di forza delle inizia­ tive turistiche visitate e analizzare, ad esempio, le ragioni socio-culturali per cui persistessero a distanza di anni problemi nell' avvio economico di alcune

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imprese comunitarie indigene, o si riscontrassero dei processi di consolida­ mento dell'attività turistica molto lenti. Consulenze "da scrivania" di orientamento e suggerimenti di politiche e/ o strategie Esempi relativi alla seconda tipologia di consulenze cui si fa riferimento in questo capitolo sono alcune short term consultancies svolte " a tavolino" presso la sede centrale (headquarter) dell'IFAD focalizzate sulla tematica dei popoli indigeni . Tali consulenze sono state finalizzate ad informare e docu­ mentare i funzionari dell'organizzazione circa la complessità della proble­ matica indigena nelle sue molteplici dimensioni, oltre a ricostruire approcci e strategie adottati dall'organizzazione e quantificare e qualificare risultati raggiunti in precedenti programmi/progetti rivolti direttamente e/o indiret­ tamente ai popoli indigeni. Tra le committenze più ricorrenti nell' headquarter bisogna menziona­ re il desk review (letteralmente: analisi a tavolino) , con il quale si intende un lavoro di revisione di documenti di progetti finalizzato a quantificare e qualificare il tipo di operato svolto dall'organizzazione e offrire una rico­ struzione il più possibile completa da un punto di vista sincronico e dia­ cronico. La finalità principale consiste generalmente nel dare indicazioni e suggerimenti circa le politiche e/o le strategie da adottare su un determi­ nato argomento. La letteratura di riferimento per tali lavori sono normalmente i docu­ menti strategici e di policy dell' organizzazione oltre che i rapporti di pro­ getto (valutazioni ex ante, valutazioni di medio termine e/o finali) prodotti internamente dall'organizzazione e in alcuni casi da organismi esterni. Tali consulenze, se svolte approfonditamente, permettono di identifica­ re e ricostruire l'insieme degli approcci e delle strategie adottate dall' orga­ nizzazione nei confronti di determinati temi. In questi casi, alcuni progetti selezionati sono stati analizzati dettagliatamente insieme alle politiche ed alle strategie esistenti sul tema in questione , con il proposito di evidenziare le criticità e identificare strategie vincenti e buone pratiche da replicare in progetti futuri dell'organizzazione. Tra i propositi di queste consulenze c'è anche la volontà di favorire un confronto e un dialogo all'interno dell'organizzazione circa i diversi approc­ ci adottati, oltre ad elaborare e suggerire le politiche e le strategie che sa­ rebbe ottimale che l'organizzazione adottasse in relazione al tema di analisi . Affinché tale lavoro abbia una ricaduta effettiva nelle politiche e nel­ le pratiche dell'organizzazione, è fondamentale accompagnare le attività di desk review con momenti di condivisione dei risultati finali del lavoro, al fine di presentare ai funzionari interessati i principali esiti del lavoro, di-

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scutere le criticità emerse ed eventualmente promuovere l'adozione di in­ novazioni e cambiamenti nelle pratiche, nelle politiche e/ o nelle strategie dell'organizzazione. Considerazioni incrociate

Nella tipologia di consulenza che prevede l'accompagnamento di progetti/ processi, si evidenzia il vantaggio di poter condurre il lavoro secondo le esi­ genze del caso, e adoperando la propria creatività e intuito. Ciononostante la possibilità di incidenza del lavoro del consulente è maggiormente legata alle pratiche quotidiane piuttosto che alla produzione di documenti. Infat­ ti, nelle attività di consulenza basate sulla ricerca e/ o accompagnamento di progetti/processi esiste un riconoscimento dell'antropologo/scienziato so­ ciale in qualità di professionista capace di fornire elementi innovativi di ri­ flessione e accompagnamento delle attività progettuali. Inoltre, i documenti prodotti possono anche non adottare necessariamente il linguaggio e la reto­ rica peculiare dell'organizzazione. Ciononostante esiste seppur velatamente un limite di incisività di tali la­ vori di consulenza rispetto alle politiche ed alle attività dell'organizzazione stessa che per cautelarsi ne prende a suo modo le dovute distanze. L'obbligo di inserire nelle relazioni del consulente la formula «All views expressed in this artide are those of the author and do not necessarily represent the views of, and should not be attributed to, the organization», suggerisce una presa di distanza dell'organizzazione nei confronti del documento presentato dal ricercatore/consulente. Con questa frase l'organizzazione si cautela e non si assume le responsabilità di quanto viene scritto nel documento, adottando una certa lontananza rispetto ai contenuti presentati nel documenti dal con­ sulente esterno. Se tali documenti non si trasformano, dopo una disamina interna, in un documento ufficiale nel quale non compare più il nome dell'autore, ma solo quello dell'organizzazione, per quanto interessanti o approfonditi, sono relegati a un ruolo di scarsa incisività nella prassi e nei discorsi dell' organiz­ zazione. Per quanto riguarda invece la tipologia di suggerimento/orientamento sopra descritta, i committenti richiedono di realizzare una desk review in un ambito specifico e offrire a partire da questo indicazioni precise su come orientare le attività future. Sicuramente essa ha il vantaggio di poter influire più direttamente sull'istituzione, proprio perché nasce con il proposito di suggerire ed orientare le politiche e le strategie da adottare. In questo caso il consulente e/o lo scienziato sociale ha la possibilità di mettere in campo competenze di analisi qualitative oltre che quantitative, cercando di modulare e differenziare il più possibile le variabili da analizzare.

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In questo caso i documenti finali prodotti avranno uno stile piuttosto standardizzato poiché dovranno avvicinarsi il più fedelmente possibile al linguaggio e alla retorica propri dell'istituzione, alle sue modalità di rappre­ sentazione e di pensiero. Tale tipologia di consulenza, lascia poco spazio alla creatività poiché la richiesta è piuttosto di fornire documentazione sintetica, tecnica, chiara, e appropriata al linguaggio dell'istituzione. L'abbondanza di desk reviews richieste, sembra rispondere alla "man­ canza di memoria" delle organizzazioni internazionali, ovvero la tendenza che esse hanno a dimenticare, riducendosi a re-inventare continuamente pratiche e teorie spesso già applicate in passato. Alla mancanza di memoria istituzionale si aggiunge, inoltre, spesso, una scarsa comunicazione e scambio di informazioni tra le unità e i dipartimenti interni all'organizzazione. Entrambi questi fattori fanno sì che ci sia man­ canza di consapevolezza della storia dell'organizzazione, che invece è orien­ tata al presente e al futuro, con risultati di riproduzione costante di approcci e processi simili nella sostanza, seppure diversi nella forma. Si osserva che questa tipologia di consulenza finalizzata a dare suggeri­ menti e orientamenti sulla base di un' attenta analisi e revisione delle poli­ tiche e dei progetti può raggiungere un elevato livello di incisione nell'or­ ganizzazione e assumere una valenza critica che spinge al cambiamento e all'innovazione dell'organizzazione, qualora il lavoro venga capito, suppor­ tato e promosso internamente dai funzionari dell'organizzazione. Criticità

Dopo aver analizzato diverse tipologie di consulenza antropologica, è op­ portuno chiedersi quanto incida il lavoro di consulenza degli antropologi rispetto all'assorbimento da parte di tali istituzioni di tematiche e considera­ zioni proprie dell'antropologia. Inoltre è interessante chiedersi se esiste per gli antropologi l'opportunità di intuire spazi e opportunità di cambiamento istituzionale, e quanto sia possibile orientare e accompagnare tali cambi isti­ tuzionali, oltre che eventualmente suggerirli. A partire da alcune interviste effettuate a funzionari e/ o consulenti dell'uNESCO realizzate nell'ambito di una ricerca di antropologia istituzio­ nale dell'organizzazione\ e dalle testimonianze documentate di due antro­ pologi francesi all'uNESCO, quali Alfred Métraux e Claude Lévi -Strauss4, è possibile trarre alcuni spunti di riflessioni circa le criticità legate al ruolo dell'antropologo nelle organizzazioni internazionali. Innanzitutto si riscontra un prevalente ricorso esterno ed estemporaneo del consulente antropologo, con scarse opportunità di occupare ruoli di po­ tere ed avere facoltà di prendere decisioni all'interno dell'organizzazione. Lavorare in qualità di consulente esterno senza appartenere fino in fondo

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alle dinamiche istituzionali e decisionali dell'organizzazione, di fatto inde­ bolisce la possibilità che il lavoro di consulenza degli antropologi possa fa­ cilitare alcun cambiamento istituzionale. Si riscontra, infatti, una tendenza ad impiegare gli antropologi come outsourcing delle organizzazioni interna­ zionali; mentre è evidente una scarsa presenza di antropologi che svolgono ruoli decisionali e manageriali nell'istituzione, laddove sono altri gli esperti elo le professionalità che abbondano. Se da un lato si riscontra dunque una scarsa presenza di antropologi come figure che occupano un ruolo stabile e con ruoli decisionali dentro l'i­ stituzione, bisogna anche riconoscere che quegli antropologi che vengono assorbiti dall'organizzazione in qualità di funzionari internazionali, perdo­ no spesso la propria capacità di innovare e di agire da attore di cambiamen­ to istituzionale. Succede, infatti, che colui che viene inserito stabilmente nell'organizzazione si appiattisca nei linguaggi e nelle pratiche dell'istitu­ zione, "deprofessionalizzandosi " perdendo dunque quelle capacità critico­ analitiche proprie dell' antropologia. È difficile affermare che nelle organizzazioni internazionali si possa rea­ lizzare un' attività di ricerca, per come essa è intesa a livello accademico, ciononostante laddove essa è possibile, viene normalmente depotenziata e appiattita nei linguaggi e nelle metodologie. Io come antropologo mi sono occupato dei sistemi simbolici dei culti dei marinai, e quando sono entrato a lavorare qui mi sono detto: magari sto un paio d ' anni all'uNESCO e scriverò il mio grande libro sui marinai. Ma qui ci sono continui conflitti interni, competitività, astuzie, è come il gioco del poker, e alla fine ti " deprofessionalizzi " , ed esci dalla rete del sistema accademico. Qui impari a fare il funzionarios.

Qualora la ricerca venisse incoraggiata da funzionari e manager delle or­ ganizzazioni internazionali, essa si scontrerà con una prevalente mentalità burocratico - amministrativa propria di queste organizzazioni. In generale, si riscontra, infatti, una scarsa propensione da parte delle organizzazioni ad investire nella potenzialità della ricerca sociale applicata a progetti di sviluppo, soprattutto quella di più lungo periodo. Inoltre, il complesso funzionamento burocratico di queste organizzazioni complica e ritarda notevolmente i processi di innovazione e cambiamento istituzionale che potrebbero essere suggeriti dalla ricerca sociale applicata. Algunos investigadores a veces se van de aqui, esta es una maquina enorme, no es muy agii, y la jerarquia es muy rigida. Ha lavorato per due anni all'UNESCO, poi se ne è andata, non ne poteva più ed è tornata tra i suoi dottorandi nell'università, non ce la faceva più a combattere con la burocrazia 6•

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janvier 19 52. Déjeuner avec Mme Myrdal, je parle 2 de la difficulté de faire de la science dans une organisation aussi rigide et aussi peu faite pour entreprendre des recherches. 8 octobre 1953. Déjeuner chez les Lévi-Strauss. Celui-ci: