Il medioevo in viaggio
 9788809808973

Table of contents :
Copertina......Page 1
Colophon......Page 2
Frontespizio......Page 3
Crediti......Page 7
Introduzione: Alessandra Marino......Page 9
Presentazione: Ilaria Ciseri......Page 11
Sommario......Page 13
Viaggiare. Una mostra dei musei d’arte medievale......Page 17
1865-2015. Il Medioevo al Bargello......Page 23
Il Medioevo al Bargello. Il percorso di un’idea tra storia, collezioni e allestimenti......Page 27
Un museo in divenire. Il Bargello, le sue collezioni e il mercato antiquario forentino: protagonisti e circolazione delle opere d’arte......Page 41
Saggi......Page 65
Camminare sui passi di Cristo......Page 67
Percorrere i mari nel Medioevo......Page 75
Viaggi d’artisti, vie dell’arte tra Spagna, Francia e Fiandre......Page 83
Signa peregrinorum: il contributo dei ritrovamenti archeologici lungo le vie di pellegrinaggio......Page 93
Il viaggio nella letteratura medievale......Page 101
Genova: una miniatura del XIV secolo al Museo Nazionale del Bargello......Page 105
Catalogo......Page 112
sezione 1 - la rappresentazione del mondo......Page 113
Capire il mondo......Page 114
Tempi, modi e mezzi del viaggiare......Page 116
sezione 2 - la salvezza dell’anima. Pellegrini, predicatori, chierici......Page 131
Il viaggio nell’immaginario cristiano......Page 132
La salvezza dell’anima......Page 134
Il pellegrinaggio......Page 136
sezione 3 - la guerra: crociate, cavalierie spedizioni militari......Page 163
La crociata......Page 164
L’uomo d’armi......Page 166
sezione 4 - il viaggio di affari. Mercanti, banchierie messaggeri......Page 187
Viaggi di affari. Mercanti, commercianti e banchieri......Page 188
sezione 5 - la visibilità politica e sociale. Il viaggio dei sovrani, le parate nuziali......Page 205
Il potere si esercita in sella.Visibilità politica e socialedei cortei signorili......Page 206
Bibliografa......Page 229

Citation preview

In copertina: Leriano e Laureola: il perdono del re, 1515-1530 circa (particolare), Parigi, Musée de Cluny, inv. Cl. 22742 (cat. 94) Sul retro: frammento di vetrata con san Giacomo in abiti da pellegrino, ultimo quarto del XV secolo (particolare) Colonia, Museum Schnütgen, inv. M 607 (cat. 19)

© 2015 Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo – Soprintendenza Speciale per il Patrimonio Storico, Artistico ed Etnoantropologico e per il Polo Museale della città di Firenze © 2015 Giunti Editore S.p.A. via Bolognese 165 - 50139 Firenze - Italia piazza Virgilio 4 - 20123 Milano - Italia www.giunti.it Prima edizione digitale: aprile 2015 Il logo “Firenze Mvsei” è un marchio registrato creato da Sergio Bianco È vietata la duplicazione con qualsiasi mezzo.

ISBN: 9788809808980

il medioevo in viaggio a cura di Benedetta Chiesi Ilaria Ciseri Beatrice Paolozzi Strozzi

il medioevo in viaggio Firenze Museo Nazionale del Bargello 20 marzo - 21 giugno 2015

Enti Promotori Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo

Soprintendente ad interim Alessandra Marino Direzione della mostra Ilaria Ciseri

Vicedirezione della mostra Marino Marini

Soprintendenza Speciale per il Patrimonio Storico, Artistico ed Etnoantropologico e per il Polo Museale della città di Firenze

Museo Nazionale del Bargello

Curatori Benedetta Chiesi Ilaria Ciseri Beatrice Paolozzi Strozzi con la collaborazione di Marino Marini Segreteria scientifica Benedetta Chiesi Segreteria generale Marta Bencini Silvia Vettori Assistenza ricerche bibliografiche Antonella Somigli Assistenza ricerche inventariali, movimentazioni e riprese fotografiche Maria Luisa Palli Squadra tecnica Vincenzo De Magistris Gestione e coordinamento del personale di vigilanza Guglielmo Lorenzini Alessandro Robicci Produzione e gestione della mostra Opera Laboratori Fiorentini-Civita Group Direzione amministrativa e del personale per la Soprintendenza S.P.S.A.E. e per il Polo Museale della città di Firenze Silvia Sicuranza

Media Partner Ufficio servizi aggiuntivi Simona Pasquinucci Veruska Filipperi Angela Rossi Responsabile della sicurezza Michele Grimaudo

Ufficio Mostre della Soprintendenza S.P.S.A.E. e per il Polo Museale della città di Firenze Sabrina Brogelli Monica Fiorini

La mostra è stata realizzata nell’ambito del Réseau des musées d’art médiéval in collaborazione con il Musée de Cluny di Parigi, il Museum Schnütgen di Colonia e il Museu Episcopal di Vic.

Comunicazione Opera Laboratori Fiorentini Civita Group Sito web www.unannoadarte.it Coordinamento, promozione e relazioni esterne Opera Laboratori Fiorentini Civita Group Mariella Becherini Ufficio Stampa Opera Laboratori Fiorentini Civita Group Salvatore La Spina Barbara Izzo e Arianna Diana Immagine coordinata e progetto grafico per sito web Senza Filtro Comunicazione Firenze

Allestimento

Garanzia di Stato

Prestatori

Ideazione e progettazione Giancarlo Lombardi, Maria Cristina Valenti

Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo Direzione Generale Musei: Ugo Soragni

Colonia, Museum Schnütgen Copenaghen, Danish Royal Library Firenze, Archivio di Stato Firenze, Biblioteca Nazionale Centrale Firenze, Museo Stibbert Firenze, Museo Galileo, Istituto e Museo di Storia della Scienza La Spezia, Museo Civico Amedeo Lia Lione, Bibliothèque Municipale Lucca, Archivio di Stato Nancy, Musée Lorrain Napoli, Museo Nazionale di Capodimonte Parigi, Bibliothèque nationale de France Parigi, Musée de Cluny Parigi, Musée du Louvre Prato, Archivio di Stato Saint-Germain-en-Laye, Musée d’Archéologie Nationale et Domaine National Tolosa, Musée des Augustins Tourcoing, Centre d’Histoire Locale Torino, Armeria Reale Vic, Museu Episcopal Vicopisano (Pisa), Pieve di Santa Maria Viterbo, Museo della Ceramica della Tuscia

Direzione dei lavori Maria Cristina Valenti Assistenza alla direzione dei lavori Michele Martino Vincenzo De Magistris Registrar Marta Bencini Maria Luisa Palli Silvia Vettori Assistenza tecnica e verifica conservativa alle opere in allestimento Julie Guilmette Traduzione apparati didattici Stephen Tobin Julia Weiss Realizzazione grafica Bernardo Delton Sistemi di sicurezza E.RI.SIST, Sesto Fiorentino Impianti elettrici Ditta Masi, Firenze Ditta Andrea Vannetti, Firenze Trasportatore ufficiale della mostra Apice Assicurazione commerciale del concessionario Willis Italia S.p.A.

Servizio I Valorizzazione del patrimonio culturale, programmazione e bilancio: Manuel Roberto Guido Marcello Tagliente Ufcio Garanzia di Stato: Antonio Piscitelli Opificio delle Pietre Dure e Laboratori di Restauro Soprintendente Marco Ciatti Francesca Ciani Passeri Istituto Superiore per la Conservazione e il Restauro Gisella Capponi Anna Milaneschi Maria Concetta Laurenti Ministero dell’Economia e delle Finanze Dipartimento Ragioneria dello StatoIspettorato Generale del Bilancio Ufcio XI Rosario Stella Sebastiano Verdesca Carla Russo Corte dei Conti Ufcio di controllo sugli atti del Ministero dell’istruzione, dell’università e della ricerca, del Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo, del Ministero della salute e del Ministero del lavoro e delle politiche sociali Maria Elena Raso Lina Pace Direzione Regionale per i beni culturali e paesaggistici della Regione Toscana Direttore Regionale Supplente Vera Valitutto Marinella Del Buono Maurizio Toccafondi Lucia Ezia Veronesi

Catalogo Giunti Editore Responsabile editoriale Claudio Pescio

Traduzioni dal francese: Enrica Crispino, Maria Mercedes Kechler e Evelyne Giumelli dal tedesco: NTL, Firenze - Giovanna Targia

A cura di Benedetta Chiesi Ilaria Ciseri Beatrice Paolozzi Strozzi

Supervisione tecnica delle immagini Nicola Dini

Contributi di Damien Berné Barbara Bertelli Benedetta Chiesi Ilaria Ciseri Rafael Cornudella Alberto Corti Béatrice de Chancel-Bardelot Christine Descatoire Joan Domenge Luca Giacomelli Michel Huynh Herberet L. Kessler Sophie Lagabrielle Marina Laguzzi Mario Marcenaro Marino Marini Roberta Masini Palmira Panedigrano Beatrice Paolozzi Strozzi Carla Pinzauti Erich Rieth Giorgio Strano Marc Sureda i Jubany Elisabeth Taburet-Delahaye Saskia Werth

COPERTINA: © RMN-Réunion des Musées Nationaux / distr. Alinari: foto Gérard Blot / Christian Jean

Progetto grafco Paola Zacchini Impaginazione Lorenzo Mennonna Redazione Filippo Melli Collaborazione redazionale Ilaria Rossi Ricerca iconografca Cristina Reggioli

Referenze fotografche

© 2015 British Library Board / Robana / Scala, Firenze: pp. 16, 78, 106, 207 © 2015 Foto Scala, Firenze - su concessione dei Musei Civici Fiorentini: p. 92 © 2015 Foto Scala, Firenze: p. 85 © Archivio di Stato di Prato - su concessione del Ministero dei beni e delle Attivita Culturali e del Turismo: p. 202 (cat. 78) © Archivio Fotografco - Soprintendenza per i Beni Storici Artistici ed Etnoantropologici del Piemonte. Su concessione del Ministero per i Beni e le Attività Culturali: p. 225 (cat. 100) © Archivio Giunti; p. 28; foto Rabatti & Domingie: p. 26; foto Nicola Grifoni: p. 188; p. 190 © Arcidiocesi di Pisa - Ufcio Diocesano per i beni culturali ecclesiastici - Archivio Fotografco, foto Gronchi Fotoarte, Pisa: p. 183 (cat. 52) © Barcellona, Museu Nacional Art Catalunya: p. 71, p. 82; p. 89 © Collection du Centre d’Histoire Locale de Tourcoing: p. 140 (cat. 11, 12) © Colonia, Rheinisches Bildarchiv Köln / Museum Schnütgen: p. 143 (cat. 19); p. 158 (cat. 34); p. 161 (cat. 37); foto Helmut Buchen: p. 153 (cat. 29); p. 156 (cat. 31); foto Marion Mennicken: p. 210 (cat. 82), p. 212 (cat. 85) © A. de Gregorio / De Agostini Picture Library concessa in licenza ad Alinari: p. 116 © Finsiel / Archivi Alinari. Per concessione del Ministero per i Beni e le Attività Culturali: p. 49 fg. 5 © Firenze, Biblioteca Marucelliana. Previa autorizzazione della Biblioteca Marucelliana, divieto di ulteriore riproduzione o duplicazione con qualsiasi mezzo: pp. 29-30 © Firenze, Museo Galileo - Istituto e Museo di Storia della Scienza / foto Sabina Bernacchini: p. 128 (cat. 7); foto Franca Principe: p. 129 (cat. 8) © Firenze, Museo Nazionale del Bargello, Fototeca

Storica e documentaria: p. 31 fg. 5; p. 33 fgg. 7-8; p. 35; p. 36; p. 37; p. 49 fg. 4; p. 50 © Firenze, Museo Stibbert: p. 191 (cat. 59) © Firenze, Rabatti & Domingie Photography: p. 31 fg. 6; p. 40; p. 53 fgg. 7-8 © Fotografsk Atelier, DKB: p. 223 (cat. 98) © Fototeca della Soprintendenza Speciale per il PSAE e per il Polo Museale della città di Napoli e della Reggia di Caserta: p. 119 (cat. 1) © G. Nimatallah / DeA Picture Library, concesso in licenza ad Alinari: p. 46 © La Spezia, Museo Civico “Amedeo Lia”: p. 145 (cat. 21); p. 183 (cat. 53) © Lione, Collection Bibliothèque municipale: p. 139 (cat. 10) © 2015 Foto Scala, Firenze / V&A Images / Victoria and Albert Museum, Londra: p. 72 © Lorenzo Mennonna: p. 22 © Ministero dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo - Soprintendenza Archeologica della Liguria: p. 94 fgg. 2-3; p. 97 fg. 5 © Nancy, Musée Lorrain: foto P. Mignot: p. 174 (cat. 47) © Norimberga, Stadtbibliothek Nürnberg: p. 189 fg. 3 © Parigi, Bibliothèque nationale de France: p. 19, p. 74; p. 87; p. 100; p. 102; p. 103; p. 114; pp. 124125 (cat. 4); p. 135; p. 136; p. 137; p. 164; p. 165; p. 189 fg. 2; p. 206 © Per gentile concessione della Parrocchia dei Santi Pietro Apostolo e Marco Evangelista in Pieve a Nievole: p. 95 © Photo MAN / Loïc Hamon: p. 173 (cat. 46) © RMN-Grand Palais (musée de Cluny - musée national du Moyen-Âge) / distr. Alinari: foto JeanGilles Berizzi: pp. 132-133; p. 134; p. 159 (cat. 35); p. 175 (cat. 48); p. 183 (cat. 55); p. 186 (cat. 58); p. 203 (cat. 79, 80); p. 209 (cat. 81); p. 214 (cat. 88, 89); foto Michel Urtado: p. 140 (cat. 13); pp. 141-142 (cat. 14, 16, 17, 18); p. 215 (cat. 90); foto Gérard Blot: p. 166; p. 213 (cat. 87); foto Franck Raux: p. 170 (cat. 40); p. 171 (cat. 41); p. 211 (cat. 83); foto Adrien Didierjean: p. 220 (cat. 95) © RMN-Grand Palais (musée du Louvre) / distr. Alinari: foto Jean-Gilles Berizzi: p. 195 (cat. 62); foto Daniel Arnaudet, p. 213 (cat. 86) © RMN-Réunion des Musées Nationaux / distr. Alinari: foto Tierry Ollivier: p. 118; p. 138 (cat. 9); foto Gérard Blot: p. 141 (cat. 15); p. 217 (cat. 93); foto Jean-Gilles Berizzi: p. 158 (cat. 33); p. 199 (cat. 71); pp. 218-219 (cat. 94); foto Jean Gourbeix / Simon Guillot: p. 167; foto Stéphane Maréchalle: p. 199 (cat. 72); p. 201 (cat. 77); foto Michel Urtado p. 223 (cat. 97)

© Rotterdam, Maritiem Museum: p. 79 © Soprintendenza Speciale per il Polo Museale Fiorentino - Gabinetto Fotografco: p. 47; p. 104; p. 107; p. 144 (cat. 20); p. 145 (cat. 22); p. 146 (cat. 23, 25, 26); pp. 168-169 (cat. 38, 39); p. 172 (cat. 42, 43); p. 173 (cat. 44, 45); pp. 178-179 (cat. 50); p. 183 (cat. 54); p. 184 (cat. 56); p. 194 (cat. 61); p. 195 (cat. 63); p. 196 (cat. 64); p. 197 (cat. 65, 66, 67, 68); p. 198 (cat. 69); p. 200 (cat. 73, 74); p. 201 (cat. 75, 76); p. 212 (cat. 84); p. 215 (cat. 91); p. 216 (cat. 92); p. 224 (cat. 99); p. 226 (cat. 101); p. 227 (cat. 102) © Su concessione del Ministero dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo - Soprintendenza ai Beni Archeologici dell’Emilia Romagna; riproduzione vietata a scopo di lucro, anche indiretto: p. 97 fg. 6 © Su concessione del Ministero dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo / Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze - divieto di ulteriore riproduzione o duplicazione con qualsiasi mezzo: p. 66; pp. 120-121 (cat. 2); pp. 122-123 (cat. 3); p. 177 (cat. 49); p. 181 (cat. 51); p. 193 (cat. 60) © Su concessione del Ministero per i Beni e le Attività Culturali / Archivio di Stato di Firenze divieto di ulteriore riproduzione o duplicazione con qualsiasi mezzo: p. 127 (cat. 6) © Su concessione del Ministero per i Beni e le Attività Culturali / Archivio di Stato di Lucca - divieto di ulteriore riproduzione o duplicazione con qualsiasi mezzo: p. 149 (cat. 27) © Tolosa, Musée des Augustins: foto Daniel Martin: p. 126 (cat. 5) © Vic, Museu Episcopal: p. 151 (cat. 28); p. 157 (cat. 32); p. 160 (cat. 36); p. 198 (cat. 70); foto Gabriel Salvans, Joan M. Diaz: p. 155 (cat. 30); p. 185 (cat. 57); p. 221 (cat. 96) © Vienna, Österreichische Nationalbibliothek: pp. 115, 117 Cortesia Fondazione Carivit: p. 147 (cat. 24) pp. 108-109: foto fornite dall’autore

L’editore si dichiara disponibile a regolare eventuali spettanze per quelle immagini delle quali non sia stato possibile reperire la fonte.

Ringraziamenti La Direzione del Museo Nazionale del Bargello e i curatori della mostra esprimono un ringraziamento speciale ai colleghi del Réseau des musées d’art médiéval Michel Huynh, Marc Sureda i Jubany, Elisabeth Taburet-Delahaye, Moritz Woelk. Ricordano inoltre con gratitudine tutti i responsabili dei musei prestatori, gli studiosi che hanno contribuito al catalogo e i tanti colleghi ed amici che a vario titolo hanno collaborato alla mostra, e in particolare: Rachel Beaujean-Deschamps, Mariella Becherini, Caroline Berne, Pierrette Besse, don Adriano Barsotti, Francesca Barsotti, Marc Bormand, Joelle Brière, Mario Brutti, Gianni Cinali, Enrico Colle, Simona Di Marco, Francesca Bulgarelli, Filippo Camerota, Silvia Cresti, Renata Curina, Richard Dagorne, Brigitte Daprà, Gérald Darmanin, Maria Rafaella De Gramatica, Alain Decouche, Jannic Durand, Gilles Éboli, Mario Epifani, Ilaria Ferraris, Erland Kolding Nielsen, Caterina Laganara, Nadia Lastrucci, Iris Metje, Edith Gabrielli, Paolo Galluzzi, Nathalie Gerber, Francesca Giorgi, Axel Hémery, Giancarlo Lombardi, Piero Marchi, Andrea Marmori, Jean-Luc Martinez, Linda Martino, Filippo Melli, Lorenzo Mennonna, Hilaire Multon, Daniel Perrier, Claudio Pescio, Elisabetta Piccioni, Carla Pinzauti, Bruno Racine, Anne-Laure Rameau, Cristina Reggioli, Josep M. Riba y Farrés, Francine Roze, Jean-Yves Sarazin, Maria Letizia Sebastiani, Jérôme Sirdey, Camilla Speranza, Giorgio Strano, Marilena Tamassia, Anders Toftgaard, Judith Verdaguer, Fabrizio Vona, Justine Wisniewski, Carla Zarrilli, Dimitrios Zikos. Tutto il personale del Museo Nazionale del Bargello. L’adesione al progetto del Réseau e la preparazione della mostra non sarebbero state possibili senza il supporto costante e concreto dell’ Associazione Amici del Bargello. Il nostro grazie più sentito va dunque al presidente Alessandro Ruggiero e a tutti i consiglieri.

nel segno di una comune eredità europea

Durante il corso dell’Ottocento – e in particolare nei decenni centrali del secolo – l’Italia vide uno straordinario forire di studi sull’età medievale: quei tempi antichi erano stati d’altra parte l’età dei liberi Comuni e avevano visto forire – pur tra guerre e violenze – il genio di Dante e l’arte di Giotto. La loro rievocazione alludeva quindi a un’età gloriosa della quale, a ragione, si additavano valori attorno ai quali costruire l’identità di un popolo che lottava nel sogno di un regno libero e unitario. Non è un caso che, coronato quel sogno e scelta nel 1865 Firenze come capitale provvisoria del nuovo Stato, la Camera dei Deputati trovasse spazio in Palazzo Vecchio e il Municipio nel trecentesco palazzo già degli Spini, pochi anni dopo sottoposto a un radicale restauro che, demolite sulle facciate le “deturpanti aggiunte barocche”, restituiva alla città il presunto volto medievale del severo edifcio. Nello stesso 1865, dopo un lungo e discusso restauro, il palazzo del Bargello sarebbe stato aperto come museo nazionale d’arte antica. E ancora, già nei decenni precedenti, ma ancor più negli anni a seguire – ben prima che Firenze diventasse nell’immaginario la città del Rinascimento – interi brani della città furono oggetto di ripristini in stile e le superfci intonacate demolite alla ricerca degli antichi parati in pietra. In realtà il richiamo al Medioevo, se da un lato testimoniava l’orgoglio municipale nel momento in cui lo si osservava all’interno dei confni ristretti di una città o di una regione, dall’altro, all’occhio dello storico capace di abbracciare con il proprio sguardo dimensioni più ampie, appariva – come bene documentano i contributi raccolti in questo volume – il tempo nel quale si erano gettate le radici di una comune cultura europea. Con questa convinzione, nel 2011, è nato il Réseau des musées d’art médiéval, una rete appunto di musei simili per collezioni e storia, che accoglie al proprio interno il Musée de Cluny di Parigi, il Museum Schnütgen di Colonia, il Museu Episcopal di Vic e il forentino Museo del Bargello. I viaggi di pellegrini, predicatori, mercanti (e ancora di poeti e di pittori così come di guerrieri e di avventurieri) sono stati il mezzo grazie al quale le culture locali sono diventate culture europee, e il viaggio è appunto il tema di questa mostra, realizzata e progettata dalle istituzioni sopra ricordate: ascoltando i racconti di quelle straordinarie e preziose testimonianze che l’esposizione ci ofre rendiamo così omaggio alle nostre comuni radici, prendendone sempre più consapevolezza. Un ringraziamento sincero a tutti coloro che hanno voluto farci questo dono, e un augurio al museo del Bargello per i suoi centocinquant’anni di attività, perché possa ancora a lungo mantenersi, anche come attivo membro in questa importante rete europea, scrigno prezioso della nostra storia. Alessandra Marino Soprintendente ad interim per il Patrimonio Storico, Artistico ed Etnoantropologico e per il Polo Museale della città di Firenze

|9

Presentazione

Pochi argomenti sono tanto vasti e aperti a un’indagine multilineare quanto il tema del viaggio. Dalle fonti documentarie più remote, fno alla ricchissima letteratura scientifca dei nostri tempi, alimentata da continue iniziative culturali (uno per tutti, il memorabile convegno Viaggiare nel Medioevo, tenutosi a San Miniato nell’ottobre 1998), gli innumerevoli itinerari percorsi dalla civiltà medievale ofrono un terreno sconfnato di studio. Più raro è invece che se ne sia afdata l’analisi alla formula oggi altrettanto difusa, ma necessariamente “visiva”, di un’esposizione. È pertanto da accogliere come una sorta di sfda, quella lanciata nel 2011 dai direttori di quattro musei europei (Bargello, Musée de Cluny, Museu Episcopal di Vic, Museum Schnütgen di Colonia), che all’indomani della costituzione del Réseau des musées d’art médiéval, stilarono il progetto di questa mostra. Oferta al pubblico parigino al Musée de Cluny tra l’ottobre 2014 e il febbraio scorso, il Medioevo in viaggio approda ora al Museo Nazionale del Bargello, ove si presenta con il medesimo percorso espositivo, rimodulato solo da alcune varianti, dettate sia da motivi di spazi, sia dalla necessaria rotazione dei materiali più delicati. Attraverso un itinerario tematico che si soferma su cinque tipologie di viaggiatori medievali, la mostra è costituita in parte da fonti fgurative, pitture e sculture che illustrano il peregrinare di uomini e donne, in parte da oggetti, alcuni preziosi, altri apparentemente modesti, ma non per questo di minor pregio: tutti rarissimi esemplari aferenti alla cosiddetta “cultura materiale”, così importanti per la comprensione di quell’aspetto meno ufciale della storia, vale a dire, di quelle “strutture del quotidiano” mirabilmente indagate da Fernand Braudel. L’efetto vuole essere di un riscontro immediato tra la storia narrata dalle immagini e le sue reali componenti, così che al visitatore è oferto un confronto diretto tra l’iconografa di quei viaggi e i dettagli minuti cui non sempre si pone attenzione, come le placchette cucite sui cappelli dei pellegrini, i bauli sul dorso dei muli, le spade sguainate dai guerrieri nelle scene di assedio, o le rafnate bardature dei cavalli. E con un gioco altrettanto curioso di rifessi e di accostamenti, il Medioevo di questa mostra giunge ad inaugurare in questo stesso 2015 le celebrazioni per i centocinquant’anni della fondazione del Museo del Bargello. Il Medioevo qui evocato attraverso i viaggi di navigatori, pellegrini o crociati, si ricollega infatti idealmente a quel Medioevo divenuto oggetto di un vero e proprio culto da parte dei maggiori protagonisti dell’Ottocento europeo: da John Ruskin, a Paul Lacroix, ai tanti intellettuali che nella Firenze ancora granducale lottarono per il recupero e per il restauro dell’antico Palazzo del Podestà, fatiscente e prigioniero esso stesso delle carceri che ne avevano invaso le mura, fno a vederlo trasformato, nel fatidico 1865, nella sede del primo Museo Nazionale dell’Italia Unita. Ilaria Ciseri Direttore del Museo Nazionale del Bargello

| 11

SommaRio Viaggiare. Una mostra dei musei d’arte medievale

16

1865-2015. Il Medioevo al Bargello Beatrice Paolozzi Strozzi

22

Il Medioevo al Bargello. Il percorso di un’idea tra storia, collezioni e allestimenti Luca Giacomelli

26

Un museo in divenire. Il Bargello, le sue collezioni e il mercato antiquario fiorentino: protagonisti e circolazione delle opere d’arte Barbara Bertelli

40

sezione i la rappresentazione del mondo

SAGGI Camminare sui passi di Cristo Herbert L. Kessler

66

Percorrere i mari nel Medioevo Erich Rieth

74

Viaggi d’artisti, vie dell’arte tra Spagna, Francia e Fiandre Joan Domenge e Rafael Cornudella Signa peregrinorum: il contributo dei ritrovamenti archeologici lungo le vie di pellegrinaggio Marino Marini

CATALOGO

Capire il mondo Michel Huynh

114

Tempi, modi e mezzi del viaggiare Bendetta Chiesi

116

sezione ii la salvezza dell’anima. pellegrini, predicatori, chierici Il viaggio nell’immaginario cristiano Marc Sureda i Jubany

132

La salvezza dell’anima Marc Sureda i Jubany

134

Il pellegrinaggio Marc Sureda i Jubany

136

sezione iii la guerra: crociate, cavalieri e spedizioni militari La crociata Marc Sureda i Jubany

164

L’uomo d’armi Marc Sureda i Jubany

166

82

92 sezione iv il viaggio di affari. mercanti, banchieri e messaggeri

Il viaggio nella letteratura medievale Michel Huynh

100

Genova: una miniatura del XIV secolo al Museo Nazionale del Bargello. Mario Marcenaro

104

Viaggi di affari. Mercanti, commercianti e banchieri Benedetta Chiesi

188

sezione v la visibilità politica e sociale. il viaggio dei sovrani, le parate nuziali Il potere si esercita in sella. Visibilità politica e sociale dei cortei signorili Benedetta Chiesi Bibliografia

206

230

Viaggiare. Una mostra dei musei d’arte medievale

L’Europa è nata nel Medioevo. La straordinaria fioritura artistica e culturale sviluppatasi nel corso di dieci secoli sul continente europeo è uno dei più incontestabili argomenti a sostegno di quest’affermazione, aldilà delle controversie che può aver suscitato. Le comuni fonti d’ispirazione, le affinità di espressione e di diffusione di tematiche e forme, hanno ampiamente contribuito alla creazione di un territorio europeo. Come attuali responsabili di musei nati fra il 1843 e il 1906, nel contesto del grande movimento di riscoperta dell’arte medievale, siamo dunque consapevoli di una comune eredità: quella dell’impulso creatore degli artisti del Medioevo come di quella dei pionieri della sua riscoperta. Abbiamo una missione in comune: suscitare la meraviglia del pubblico odierno davanti alle opere raccolte e trasmesse dai nostri predecessori. Per questa ragione abbiamo voluto unire le nostre competenze e i nostri mezzi in una “rete di musei d’arte medievale”. I nostri quattro musei differiscono per molti aspetti, ma sono accomunati dalla loro identità di fondo. Queste, in breve, le loro storie.

1. Jean de Mandeville in viaggio verso Constantinopoli (particolare), Boemia, primo quarto del XV secolo, Londra, The British Library, Add. Ms. 24189, c. 4v

Il Musée de Cluny è nato nel 1843 grazie all’eccezionale opportunità offerta dal ricongiungimento di due monumenti e di due collezioni notevoli. Infatti, le terme “a nord” di Lutezia conservavano dal 1819, nella grande sala a volte del frigidarium, il deposito di sculture della città di Parigi, mentre l’Hôtel di Cluny, sede degli abati cluniacensi ed eretto intorno al 1500 sulle vestigia del monumento galloromano, ospitava a sua volta dal dicembre 1832 la collezione di Alexandre du Sommerard (1779-1842), che desiderava aggiungere prestigio alla sua collezione grazie al suggestivo contesto architettonico. Dal 1833, l’architetto Albert Lenoir aveva concepito un progetto di museo che riunisse le Terme, l’Hôtel di Cluny e il convento dei Mathurins (che andrà distrutto nel 1860). Il 17 giugno del 1843 la Camera dei deputati stanziò la somma necessaria al riscatto del palazzo di Cluny e della collezione e della collezione di Alexander du Sommerard, contestualmente alla cessione da parte della Città di Parigi allo Stato, del “palazzo delle Terme”. Questa rara simbiosi fra contesto architettonico e opere d’arte ha rappresentato il primo nucleo dell’identità del museo, e ha determinato la scelta di consacrare le collezioni alle sole arti antiche e medievali, in occasione della riapertura dal

Viaggiare. Una mostra dei musei d’arte medievale | 17

1949 al 1956. Le raccolte furono in seguito arricchite, ma sempre nel solco della doppia identità d’origine. Dalla metà del XIX all’inizio del XXI secolo furono acquistate opere d’arte europea, eseguite con materiali e tecniche molto varie, fra le quali la Rosa e l’Altare d’oro di Basilea, o le famose tappezzerie della Storia di santo Stefano provenienti dalla cattedrale di Auxerre e della Dama con il liocorno, frutto dell’eccellente attività di Edmond du Sommerard, primo direttore (18431885). Fra le testimonianze della scultura parigina entrate nel museo nel XX secolo, spicca l’insieme di sculture provenienti da Notre-Dame, scoperte nel 1977 nell’ex palazzo Moreau, in via de la Chaussée-d’Antin, a Parigi. Il Museo Nazionale del Bargello fu inaugurato nel 1865, nello stesso anno in cui Firenze fu scelta come capitale del nuovo Regno d’Italia (1865-1870). Il museo fu allestito nell’ex palazzo del Podestà, costruito fra il XIII e il XIV secolo e trasformato in prigione sotto il principato dei Medici, restando tale fino alla metà del XIX secolo (“bargello” era chiamato il capo delle guardie della prigione). In seguito alla scoperta (1840), nella cappella del palazzo, del ritratto di Dante Alighieri attribuito dal Vasari a Giotto, si decise di trasferire altrove la prigione e di restituire al Palazzo la sua nobiltà, destinandolo a museo. I restauri furono eseguiti fra il 1857 e il 1865, anni durante i quali la fisionomia del futuro museo fu oggetto di vivaci dibattiti fra intellettuali, non solamente italiani. Il Musée de Cluny, considerato fra i più moderni d’Europa per quel che riguardava i materiali e le tecniche artistiche, rappresentò il modello al quale si ispirò il Bargello alla sua fondazione. Nell’ultimo quarto del XIX secolo, con l’acquisizione dei marmi e dei bronzi rinascimentali provenienti dalla Galleria degli Uffizi e dalle residenze già granducali, ma anche di opere dei Della Robbia provenienti da conventi soppressi, il Bargello cambiò parzialmente fisionomia per diventare un museo della scultura del Rinascimento e delle arti applicate, paragonabile sotto molti aspetti al South Kensington (oggi Victoria and Albert Museum) di Londra, anch’esso di recente istituzione. Contestualmente, il museo aveva anche ricevuto in dono importanti collezioni artistiche: in particolare, i lasciti Carrand (1889), Ressman (1899) e Franchetti (1906), che comprendevano opere diverse per tipologia – avori, smalti, armi, tessuti, maioliche, vetri… –, per epoca e per provenienza. Ancora oggi l’identità del museo è definita da questi due nuclei: la grande scultura del Rinascimento e la varietà enciclopedica delle collezioni di arti decorative che, in una vasta rete di scambi e di collaborazioni, indirizzano sia l’attività scientifica e pedagogica del museo sia il suo programma espositivo. Il Museu Episcopal di Vic, fondato nel 1889 dal vescovo Josep Morgades, è l’antenato dei moderni musei catalani. Dopo l’esposizione universale di Barcellona nel 1888, e non senza rapporto con i dibattiti culturali che contrassegnavano il tessuto sociale di Vic a partire dagli anni Sessanta dell’Ottocento, il Museo episcopale divenne una forma di espressione della consapevolezza del passato 18 |

medievale e della ricchezza dell’eredità artistica e tecnica dell’Europa dell’epoca. Fin dagli anni che seguirono la sua apertura, il museo espose una straordinaria collezione di paliotti d’altare dipinti e di sculture lignee del XII e XIII secolo, provenienti per la maggior parte dal centro della Catalogna e dalla regione dei Pirenei. Nello stesso periodo, le collezioni accoglievano una larga rappresentanza delle migliori scuole d’arte gotica catalana, soprattutto in pittura. Durante i primi decenni della sua esistenza, la collezione si arricchì ulteriormente di pitture murali staccate, di oggetti di oreficeria e di tessuti medievali, così come di rari esempi della produzione artigianale del Medioevo (cuoio, ferro forgiato, mobili). I direttori scientifici, in particolare Josep Gudiol i Cunill (1898-1931) e Eduard Junyent i Subirà (1931-1978), studiarono sia la collezione sia l’arte medievale occidentale: il primo, in particolare le tipologie e l’uso liturgico di numerosi gruppi di oggetti; il secondo, l’arte romanica. Ambedue offrirono al mondo scientifico degli spaccati inediti sull’arte del Medioevo in Catalogna. In una museografia totalmente rinnovata nel 2002, con allestimenti pensati in vista della conservazione preventiva delle sue collezioni, il MEV resta sempre fedele al suo scopo originale di mostrare e preservare le opere, e di essere insieme un luogo di accoglienza e un santuario, dove ogni volta proporre e suscitare la meraviglia per l’arte e la cultura del Medioevo europeo.

2. Maestro della Mazarine e collaboratori, Pellegrini in viaggio, da il Fiore delle storie d’Oriente di Aitone da Corico, Parigi, 1410-1412 circa, Parigi, Bibliothèque nationale de France, Ms. Français 2810, c. 265

Viaggiare. Una mostra dei musei d’arte medievale | 19

A Colonia, Alexander Schnütgen (1843-1918) era già da giovane prete un collezionista appassionato di arte cristiana, in particolare d’età medievale: visse infatti all’epoca del completamento della cattedrale gotica di Colonia (1842-1880). Ispirato dal concetto del neorinascimento di un’arte cristiana gotica, il canonico Schnütgen voleva costituire un repertorio di modelli per gli artisti del suo tempo e fu anche l’editore di una rivista storica dedicata all’arte cristiana. Aveva perciò previsto di donare la sua collezione al Museo diocesano, di cui era il responsabile. Ma, avendo il vescovo rifiutato l’unica condizione che poneva e cioè assumere un conservatore per la collezione, egli la offrì infine alla città di Colonia. Il consiglio municipale la accettò e, nel 1910, la collezione Schnütgen fu presentata per la prima volta in un contesto museale, come complemento storicistico del museo di arti decorative. Nel 1932, durante la gestione del suo primo direttore, Fritz Witte (1876-1937), il museo divenne indipendente e il suo allestimento modificato secondo i princìpi della così detta “Nuova Oggettività”. In seguito alla distruzione della città, nella seconda guerra mondiale, il museo fu trasferito a Santa Cecilia, una delle dodici chiese romaniche di Colonia, dove aprì le porte al pubblico nel 1956. A questo luogo prestigioso è stata aggiunta, nel 2010, una nuova galleria. Durante tutto il Medioevo, Colonia era stata un centro artistico. Al Museum Schnütgen le ricche collezioni medievali di arte renana sono integrate da importanti testimonianze degli scambi culturali e artistici avvenuti con altre regioni europee: dalle influenze stilistiche di Bisanzio, della Francia o dei Paesi Bassi, all’importazione di oggetti quali i tessuti italiani e all’esportazione di prodotti della città di Colonia, quali i reliquiari in osso del XII secolo o i busti-reliquiari di sante del XIV secolo. Forte di questa ricca e variegata eredità, la “rete” che vogliamo creare sarà rivolta soprattutto al pubblico, che ne determinerà il successo. È con questo spirito che proponiamo come primo evento una mostra sul tema del viaggio. La scelta potrebbe apparire scontata, ma non è affatto così, perché sebbene il soggetto sia stato ampiamente trattato dagli storici, la sua evocazione dal punto di vista storico artistico è molto più complessa. Infatti, non restano che poche testimonianze materiali degli spostamenti di uomini e di donne in questo lungo periodo, essendo il viaggio prima di tutto una convergenza di tempo trascorso e di spazio percorso. E, sebbene la storia dell’arte abbia evidenziato il diffondersi delle opere o degli stili così come il carattere spesso itinerante delle carriere artistiche, tuttavia le testimonianze materiali degli spostamenti degli artisti sono poco numerose in epoca medievale. Ciò malgrado abbiamo voluto raccogliere la sfida, non solo per il carattere emblematico del soggetto ma anche perché il 2014 è l’anno in cui si celebra, insieme con altre manifestazioni commemorative, l’VIII centenario del viaggio delle reliquie dei Re Magi da Milano a Colonia. Così è stato necessario organizzarci in due parti e in tre tappe. Mentre il Museum Schnütgen celebra i tre Re venuti da Oriente in Occidente e il periplo delle loro reliquie dalla capitale lombarda alla città sul Reno, il Musée de Cluny ospita 20 |

la prima tappa di una seconda parte, più ampia, consacrata agli aspetti principali del viaggio nell’Europa medievale. Senza voler ambire a trattare il tema in modo esaustivo (del resto, impresa impossibile per un simile soggetto), la mostra evidenzia gli aspetti principali del viaggio degli uomini e delle donne del Medioevo: chi viaggia? Come viaggia? Per quali ragioni? La mostra espone alcuni capolavori, dei rari pezzi emblematici, e delle testimonianze più modeste, e vuole anche mettere in luce la continuità fra il mondo medievale e il mondo di oggi. Dopo l’esposizione al Cluny, la mostra verrà presentata, in forma assai simile, al Museo Nazionale del Bargello (dal marzo al giugno 2015) e successivamente, secondo un più specifico progetto, al Museu Episcopal di Vic. I nostri ringraziamenti più calorosi vanno a tutti coloro che hanno contribuito alla realizzazione di questo progetto: i conservatori e i collaboratori scientifici dei nostri quattro musei, che hanno accettato di assicurarne in comune la curatela; la Réunion des musées nationaux-Grand Palais e il Polo Museale Fiorentino; i numerosi musei prestatori e i loro responsabili.

Elisabeth Taburet-Delahaye

Moritz Woelk

Direttrice del Musée de Cluny, Parigi

Direttore del Museum Schnütgen, Colonia

Beatrice Paolozzi Strozzi

Josep M. Riba i Farrès

Direttrice del Museo del Bargello, Firenze

Direttore del Museu Episcopal, Vic

agosto 2014

Viaggiare. Una mostra dei musei d’arte medievale | 21

1865-2015. Il Medioevo al Bargello Beatrice Paolozzi Strozzi

1. Il cortile del Museo Nazionale del Bargello

Esattamente centocinquant’anni fa, nella primavera del 1865, il Museo Nazionale del Bargello apriva le sue porte per una solenne inaugurazione e il Palazzo del Podestà cominciava da quel giorno un altro capitolo della sua storia secolare. Il nuovo museo si apriva nel nome di Dante (il cui ritratto, affrescato da Giotto nella cappella e riportato alla luce più di vent’anni prima, era stato all’origine del suo restauro e della sua destinazione museale) e nel nome del Medioevo, al quale era dedicata una grande mostra, allestita negli spazi suggestivi e ancora quasi vuoti del secondo piano, ad accompagnare preziosi codici danteschi esposti al primo, in prossimità della cappella. Era un “evento” che coronava solennemente il rango di Capitale d’Italia, che la città aveva assunto proprio in quell’anno, rendendo onore non solo al più grande dei suoi figli, il padre della lingua italiana, ma anche ai tempi in cui era vissuto, che erano stati forse i più straordinari per Firenze: mai più essa avrebbe raggiunto la vitalità e la crescita economica (e non meno civile) di quel XIII secolo, pure politicamente burrascoso, in cui s’erano scritti gli statuti del libero Comune, ampliate le mura della città per contenere una popolazione vertiginosamente crescente, fondate le basiliche di Santa Maria Novella e Santa Croce, edificata la torre e il primo nucleo del Palazzo del Capitano del Popolo e del Podestà (che sarà poi il Bargello, appunto) e battuto il primo fiorino d’oro, per molto tempo la moneta più celebre e accreditata in tutti i mercati d’Oriente e d’Occidente. Allora nascevano a Firenze – con Dante e con Giotto – la lingua e la pittura italiana e si avviavano quegli studi umanistici che avrebbero posto le basi del Rinascimento. V’era dunque più di una ragione perché fosse proprio il Medioevo a essere celebrato in quel maggio 1865, per inaugurare quello che fu – di fatto – il primo vero Museo Nazionale italiano. Dalla congerie veramente eterogenea di opere d’arte e di testimonianze “materiali” della mostra del 1865, cui contribuirono largamente prestiti privati, si può dedurre quanto vasto e indefinito fosse ancora il concetto di “età di mezzo”: si andava dai capolavori dell’oreficeria trecentesca, come l’Albero di Lucignano, a opere di Donatello e Della Robbia, per arrivare fino al Cellini e al pieno Cinquecento, con una intenzionale mescolanza di capolavori artistici, oggetti d’uso e “curiosità”. Fu quella, soprattutto, una prodigiosa esibizione dell’arte e dell’artigianato che per più secoli avevano assicurato a Firenze un indiscutibile primato e che il nuo-

1865-2015. Il Medioevo al Bargello | 23

vo museo s’apprestava a documentare in tutta la sua incomparabile varietà, assecondando il gusto collezionistico “enciclopedico” che s’andava affermando allora in Europa e in America. E tuttavia, il richiamo al Medioevo quale protagonista della rassegna sottintendeva anche ragioni politiche, ideali patriottici e di identità nazionale, in una temperie ancora romantica che celebrava, con l’unità del Paese e la sua nuova Capitale, la conclusione del Risorgimento. L’idea di dedicare una nuova mostra al Medioevo – ancora nel segno dell’unità, ma questa volta in un contesto europeo – in coincidenza di questo anniversario, ha trovato un motivo di slancio nella collaborazione internazionale, avviata nel 2011 su iniziativa del Musée de Cluny con l’istituzione del “Réseau des musées d’art médiéval”, che ha coinvolto quattro importanti musei europei: oltre al Cluny e al Bargello, il Museum Schnütgen di Colonia e il Museu Episcopal di Vic, in Catalogna. Pur nelle loro diversità di origine, di vicende e di raccolte, questi musei sono accomunati dal fatto di annoverare nelle loro collezioni importanti capolavori di età medievale, appartenenti in particolare ai generi della scultura e delle arti applicate. Ma, nel caso del Bargello e del Musée de Cluny, c’è di più. Un legame antico unisce infatti il museo fiorentino a quello francese fin da quando, oltre un secolo e mezzo fa, a distanza di circa vent’anni l’uno dall’altro, essi vennero inaugurati: il Cluny nel 1843 e il Bargello nel 1865. È ben noto (e i saggi in catalogo ne daranno ampio conto) quanto il museo parigino sia stato il principale riferimento cui s’ispirarono, prima ancora che Firenze divenisse la Capitale del nuovo Regno, i primi progetti e le prime proposte per il futuro Museo del Bargello, che avrebbe dovuto rappresentare dapprima la storia della Toscana e poi quella dell’intera Nazione. Accolti entrambi tra le mura di prestigiosi edifici gotici, i due musei ebbero in realtà una genesi assai diversa: il primo, formato da un grande nucleo originario – la collezione di quasi millecinquecento oggetti di arte medievale che Alexandre du Sommerard (1779-1842) aveva riunito nell’antica residenza degli abati di Cluny –; il secondo, messo insieme con opere dalle molteplici provenienze, pubbliche e private, in un momento di radicali cambiamenti anche nell’assetto dei musei fiorentini e delle collezioni già granducali, passate ora allo Stato Italiano. Denominatore comune fu non di meno quel Medioevo a cui ormai l’Europa da tempo guardava: per tutta l’età romantica, artisti, politici, letterati e intellettuali di ogni disciplina avevano recuperato e diffuso, proiettandoli nel presente, le forme e i valori di quel passato tutt’altro che “buio” e ricco invece di modelli, anche etici, cui ispirarsi. Non s’erano ancora affermate le teorie di Jacob Burckhardt (Die Cultur der Renaissance in Italien, 1860), che avrebbero poi sancito il primato del Rinascimento e del classicismo sul “gotico”, a marcare una cesura che avrà lunga fortuna; e per contro, il diffondersi in Europa della cultura positivista, legata alla nascente civiltà industriale, aveva se mai accresciuto l’interesse specie verso le arti applicate, non solo come “documenti” storici, ma come patrimonio di tecniche e modelli da riprodurre e diffondere su larga scala. La fondazione pressoché contemporanea (1852) del londinese South Kensington Museum (più tardi, Victoria and Albert), ispirato alla nuova “civiltà delle 24 | Beatrice Paolozzi Strozzi

macchine” e alla rivoluzione industriale – ma non meno, alla cultura materiale di ogni classe sociale e di ogni tempo – costituì difatti, anche nella raccolta delle opere da esporre e nel concorso dei prestiti privati, l’altro polo di attrazione e di ispirazione nel primo allestimento del Bargello. Per il suo esordio, in nome di una collaborazione internazionale tra musei europei, il Réseau ha trovato nel tema del viaggio e delle sue testimonianze nel corso del Medioevo, il soggetto di una mostra da condividere, ma diversamente declinata nelle quattro sedi. Tuttavia, e non a caso, le rassegne del Cluny e del Bargello presentano una stretta affinità, sia nel percorso, che nelle opere esposte, con numerosi prestiti reciproci e un catalogo in buona parte condiviso, a sottolineare lo speciale rapporto che fin dall’origine ha legato il museo fiorentino al modello francese. Nei secoli che videro un primo definirsi, in Occidente, degli stati nazionali, i tanti viaggiatori di allora – mercanti e soldati, pellegrini e regnanti, diplomatici, predicatori, artisti e uomini di scienza – consentirono la circolazione di idee, di costumi, di tradizioni e di modelli che costituì il denominatore comune all’origine della civiltà europea. Raccogliendo le rare testimonianze materiali superstiti del corredo che ogni viaggiatore doveva portare con sé (opere talvolta di gran pregio, esposte per la prima volta), la mostra si articola in cinque sezioni, ciascuna dedicata a un “tipo” di viaggio: a cominciare dalla rappresentazione del mondo, coi suoi confini e gli itinerari percorribili, illustrata nelle grandi pergamene (come il Portolano della Biblioteca Nazionale di Firenze) e più modestamente tradotta nelle prime “carte stradali” a uso dei viandanti. Dall’antichità, faceva loro da guida, all’imbrunire, la volta celeste: decifrata attraverso gli astrolabi e riprodotta in sfere di argento o di rame, minutamente incise (in mostra, un prezioso esemplare duecentesco). Il pellegrinaggio verso i luoghi santi e la raccolta delle reliquie fu certamente uno degli aspetti più rilevanti e più tipici del viaggio medievale e anche il più ricco di testimonianze letterarie e materiali di grande suggestione: a esso è dedicata la seconda sezione della mostra, cui segue il tema della guerra e delle Crociate in particolare, che col pellegrinaggio hanno notevoli punti di tangenza. A seguire, i viaggi dei mercanti, dei diplomatici, delle corti e dei signori in trasferta nei loro territori, ciascuno con il proprio specifico bagaglio: oggetti d’uso comune (come borse, “scarselle” e “tasche”; cofanetti e cassoni; denari e tessere mercantili; scarpe e finimenti di cavalcature), ma anche altaroli e candelieri “da campo” per le devozioni, giochi portatili per ingannare il tempo nelle soste, tavoli smontabili per imbandire il desco o scrivere missive, libri giuridici che notai e uomini di legge s’assicuravano alla cintura per poterli consultare anche durante gli spostamenti, in vista della stesura dei contratti (l’esemplare in mostra è uno dei venti a oggi superstiti). Due straordinarie selle ricoperte di lastre di corno e d’osso scolpite con temi d’amore, appartenenti alle collezioni del Bargello, concludono l’itinerario della mostra e illustrano il tema del viaggio “simbolico”: nel caso, quello del fastoso corteo che accompagnava la sposa, con tutta la sua dote, dalla casa paterna a quella del marito. Un “viaggio” spesso assai breve, ma che – al pari di ogni altro – significava accettare la sfida dell’ignoto. 1865-2015. Il Medioevo al Bargello | 25

Il Medioevo al Bargello. Il percorso di un’idea tra storia, collezioni e allestimenti Luca Giacomelli

Descrivere l’evoluzione dell’idea di Medioevo che si dipana nella storia e nelle sale del Museo del Bargello significa seguire percorsi labili, spesso divergenti e a volte senza un effettivo punto di arrivo. Il concetto stesso di Medioevo, in effetti, si trova declinato per tutto l’Ottocento secondo innumerevoli istanze, che rispondono via via a esigenze affatto differenti. Solo negli anni a cavallo tra Ottocento e Novecento, tramite un approccio rigoroso e filologico, si giungerà gradualmente a una lettura maggiormente scientifica di tale epoca e delle testimonianze materiali a essa legate, emendata dalle valenze simboliche di cui furono di volta in volta caricati1. Sono numerosi gli studi che hanno analizzato musei ed esposizioni quali luoghi privilegiati dove osservare l’evoluzione del concetto di Medioevo, tuttavia il museo del Bargello, probabilmente a causa della sua natura a dir poco anomala, è rimasto spesso ai margini di queste trattazioni2.

Il periodo granducale: il restauro del palazzo e il medioevo “civico” della nazione toscana

1. Giotto e bottega, Il Paradiso (particolare del ritratto di Dante), 1332-1337, Firenze, Museo Nazionale del Bargello, Cappella della Maddalena

Punto nodale della rievocazione medievale è l’edificio destinato a diventare sede del museo. Il Palazzo Pretorio, testimone di secoli di storia cittadina, costituiva già di per sé un perentorio richiamo a un passato che affondava le radici nei secoli della Firenze repubblicana, snaturato dalla trasformazione in carcere, metafora dell’oppressione assolutistica, infine riscattato a simbolo cittadino positivo dall’illuminato granduca. Il recupero del palazzo e la sua auspicata destinazione a Museo del Medioevo, ipotizzata fin dagli anni Quaranta dell’Ottocento3, si possono di fatto inserire nel solco delle commissioni pubbliche lorenesi tese a rinvigorire lo spirito patriottico e il senso di comune appartenenza alla patria toscana4, fortemente scossi dopo i fatti del 1848 che avevano coinvolto da vicino anche il palazzo5. Da tutto questo non vanno disgiunte le istanze civiche e moralizzatrici dell’epoca, evidenti nella dismissione dell’edificio da carcere e che emergono ben chiare nella pubblicistica dell’epoca, in una curiosa consonanza di valori tra passato e presente6. Il restauro dell’edificio, avviato nel 1857 dall’architetto Francesco Mazzei, venne condotto fin da subito sul sottile confine tra filologia e invenzione. Il testo di

Il Medioevo al Bargello | 27

2. Francesco Mazzei, Palazzo Pretorio prima e dopo i restauri, 1865, Firenze, Museo di Firenze com’era

Luigi Passerini sulla storia del palazzo7, dedicato all’architetto, per quanto frutto di una serrata ricerca archivistica, non intendeva porsi come guida metodologica ai lavori, che di fatto mirarono più alla ricostruzione di un medioevo immaginato, per quanto plausibile, scenario di romantiche rievocazioni degne dei romanzi di Walter Scott8. Tale volontà fu pienamente perseguita come risulta anche dalla pubblicistica dell’epoca, che, nonostante la demolizione di numerose testimonianze antiche soprattutto nelle grandi sale affacciate su via del Proconsolo (attuali sale di Michelangelo e di Donatello), salutò il lavoro del Mazzei come il ritorno allo stato originario del palazzo9. Su tutto sovrintendeva lo spirito di Dante, ben presto assurto a simbolo dell’Italia oppressa che anela all’unità, il cui ritratto attribuito a Giotto rinvenuto nel 1840 presso la cappella del palazzo aveva dato l’avvio al dibattito sulla riqualificazione dell’edificio10 (fig. 1). Un Medioevo letterario quindi, a cui si saldano fin da subito valori etici e patriottici11. Museo e Medioevo divengono perciò poli fondamentali nella costruzione della coscienza nazionale proprio in forza di questi valori, che si sarebbero con l’andar del tempo inevitabilmente adattati, oltre che al naturale progredire degli studi in materia, alle sorti della città e di coloro che la governavano. In effetti tutti gli sforzi granducali furono ben presto vanificati con l’abbandono della capitale da parte di Leopoldo II e della sua corte nel 1859, cui fece seguito il breve periodo dell’“Assemblea dei rappresentanti” che traghettò la Toscana verso l’unificazione12, che avrebbe caricato il Palazzo Pretorio e il costituendo museo di nuovi, ulteriori significati. 28 | Luca Giacomelli

3. Charles Rohault de Fleury, Palais du Podestat, Chambre du Podestat, in La Toscane au Moyen Age. Architecture civile et militaire, I, Paris 1873, PL. XII

Il Museo tra l’Unità e Firenze capitale: il Medioevo toscano da patrimonio locale a identità nazionale Nel 1859, a restauri già avanzati, si destinava ufficialmente il Palazzo a ospitare un «Museo di antichi Monumenti, dai quali per qualunque modo venga illustrata la storia della Toscana in tutto quello che si riferisce alle istituzioni, ai costumi e alle arti»13. Una formulazione che richiama da vicino l’esperienza francese del Musée de Cluny ma che curiosamente sembra non aprirsi troppo a istanze di carattere unitario. Con ogni probabilità, l’acceso dibattito sulle modalità con cui doveva avvenire l’unione tra Regno di Sardegna ed ex Granducato di Toscana ebbe un peso sull’iniziale scelta degli obiettivi del museo, in un’ottica di riaffermazione identitaria. Sentimento destinato ben presto a sfumare, se Bettino Ricasoli già nel 1861 incaricava Luigi Passerini Orsini de’ Rilli «di proporre il modo più conveniente di Il Medioevo al Bargello | 29

4. Charles Rohault de Fleury, Palais du Podestat, La Loge, in La Toscane au Moyen Age. Architecture civile et militaire, I, Paris 1873, PL. XIII

costituire tal Museo che sarebbe dovuto riuscire storico, archeologico, nazionale»14. Con il procedere del restauro, mano a mano che ci si allontanava dalle questioni relative all’edificio per passare a quelle legate alla scelta degli oggetti e dell’allestimento, l’idea di Medioevo si faceva più labile e confusa, fin quasi a risultare incompatibile con la proposta di istituire un museo nel palazzo. Ne è un esempio lo scontro che nel 1864 vide schierati da una parte Paolo Feroni, successore del Passerini quale ordinatore del museo, e dall’altra Mazzei con Gaetano Bianchi, l’artista responsabile della decorazione pittorica “in stile” dell’edificio15. Proprio la decorazione pittorica era al centro del contendere, sia per la sua congruità e correttezza filologica che, più significativamente, per la successiva destinazione museale dell’edificio, che Mazzei non vedeva di buon occhio. In effetti, l’inserimento di vetrine e di oggetti di varia natura, se non attentamente calibrata, avrebbe inesorabilmente rotto l’incanto della rievocazione romantica. A dirimere la questione fu chiamato Massimo d’Azeglio che, nel suo giudizio in merito al restauro in corso, espose alcune questioni di metodo di notevole rilevanza anche per il museo. Il celebre pittore, promuovendo il restauro in stile dell’edificio, riteneva che per il futuro le possibili linee guida potevano essere due: «La prima: ridurre l’interno dell’edificio a museo, e sacrificare ogni altra idea al solo scopo di far figurare gli oggetti che vi si vogliono collocare. La seconda: ridurre le camere del Palazzo quali si può supporre che fossero anticamente, e mobiliarle poi di vario genere di suppellettile, onde, essendo effettivamente un museo, sembrino però camere ancora abitate presentemente dall’antica Signoria della Repubblica» parteggiando per la seconda opzione16. 30 | Luca Giacomelli

Emergevano perciò per il museo medievale due modelli in qualche modo antagonisti, frutto di due culture differenti17. Da una parte il museo tipologico, manifesto di una cultura positivistica e mercantile che si esprimeva attraverso le esposizioni universali, da cui prese le mosse il South Kensington Museum di Londra18. Dall’altra il museo ambientato secondo una scansione cronologica, prodotto tipico degli studi francesi di antiquaria e che trovava nel Musée de Cluny di Parigi l’esempio più celebre19. Due istituzioni, degne di grandi capitali, che diverranno i riferimenti fondamentali della cultura museale ottocentesca, rappresentando di fatto i due poli tra cui oscillarono anche le soluzioni d’allestimento del Bargello e di gran parte dei musei di arti industriali che proliferarono in tutta la penisola a seguito dell’Unità, sempre in bilico tra volontà classificatoria e ambientazione20. Se il modello tipologico sembrava riscuotere successo soprattutto in occasione delle esposizioni temporanee, che spesso rivestivano un ruolo centrale di verifica pratica per le soluzioni d’allestimento dei musei, la scelta di sistemare le collezioni o parti di esse in ambienti “in stile” pareva più adatta a suscitare il coinvolgimento dei visitatori, facendo leva sul pittoresco. Per quel che riguarda l’ambito fiorentino inoltre, l’ambientazione trionfava nelle dimore dei collezionisti più celebri che risiedevano in città. Gli esempi più eclatanti erano il castello di Vincigliata di Temple Leader o il palazzo di Montughi di Stibbert, vere e proprie materializzazioni di un sogno medievale a opera degli stessi artigiani e architetti impiegati nel cantiere del Bargello21. Il Medioevo riviveva soprattutto tramite gli oggetti d’uso, diventando espressione di una progettualità unitaria che caratterizzava ogni aspetto della vita quotidia-

5. Figuranti in costume medievale in occasione dei festeggiamenti per lo scoprimento della facciata del Duomo di Santa Maria del Fiore e del centenario donatelliano, 1887, Firenze, Museo Nazionale del Bargello, Fototeca storica e documentaria 6. Gualtiero de Bacci Venuti, La porta della cappella dei condannati nel Palazzo del Podestà, 1887, collezione privata

Il Medioevo al Bargello | 31

na22, e che spostava quindi l’attenzione di studiosi e collezionisti verso le arti industriali fino a suggerire soluzioni innovative in fatto di studi critici e di allestimenti23. Proprio la saldatura tra collezionismo privato ed erudizione, evidente soprattutto in ambito francese, aveva contributo a una prima rivalutazione dei reperti medievali, come si può osservare nei grandi repertori a stampa o nei lussuosi cataloghi delle principali collezioni del tempo, di fondamentale importanza per il progredire degli studi sull’arte medievale24. Tuttavia tali oggetti erano considerati soprattutto in termini di documentazione storica e non ancora in chiave di apprezzamento estetico, né tantomeno di problematica di stile. Un approccio destinato a mutare di lì a poco, ma che risulta evidente nella scarsa autonomia disciplinare riconosciuta all’arte del Medioevo che per quasi tutto l’Ottocento, soprattutto in occasione delle esposizioni temporanee, si trova sempre accompagnata al Rinascimento25. Un atteggiamento simile lo si riscontra anche al Bargello fin dalla sua apertura al pubblico nel 1865, significativamente con due mostre: una dedicata a Dante, l’altra agli oggetti «dei Tempi di Mezzo e del Risorgimento»26. La situazione del museo alla chiusura delle due mostre ci è nota grazie alla relazione di Ferdinando di Breme, presidente del comitato organizzatore27. L’attenzione al Medioevo si limitava ancora alla volontà di suggestione così tanto inseguita da Mazzei e Bianchi, che si trovava soprattutto relegata al pianterreno. Il visitatore poteva immergersi in quell’atmosfera tanto cara al romanticismo storico già dall’ingresso nel museo, nelle sale dell’Armeria (attualmente sala della scultura del Cinquecento e biglietteria), luogo imprescindibile per ogni museo medievale, per poi passare al luminoso cortile, ancora sgombro dalla scultura monumentale ma carico delle decorazioni araldiche e degli antichi stemmi in pietra, fino allo scalone che dava accesso al Verone e al grande salone dell’Udienza, all’epoca quasi completamente vuoto. Nelle altre sale l’effetto della decorazione si perdeva a contatto con vetrine spesso di fortuna28, che accoglievano oggetti suddivisi indicativamente per materiale, organizzati con criteri di simmetria o per effetto d’insieme. In seguito le questioni relative alla rievocazione del passato medievale e all’etica unitaria sembrano sfumare di fronte ai più pressanti problemi di allestimento e conservazione legati al progressivo ingresso di raccolte eterogenee provenienti dalle collezioni medicee, dalle soppressioni ecclesiastiche e dai lavori di “risanamento” urbanistico della città. I numerosi depositi privati inoltre, vista anche la loro eterogeneità e il loro stato temporaneo, non riuscivano a dare coerenza a un patrimonio tanto variegato, che rese confusa la natura del museo, altrove definito come il risultato di semplici «accidentalità di recupero», allontanandolo dai ben più organici modelli di Kensington e Cluny29. Emersero tuttavia due percorsi privilegiati in fatto di acquisizioni: quello delle arti industriali, tipico della temperie ottocentesca di cui abbiamo già fatto cenno, inizialmente affidato soprattutto all’acquisizione di nuclei specifici dalle raccolte medicee30, e quello della scultura fiorentina del Quattro e Cinquecento, che pur allontanando il museo dall’iniziale attenzione alla rievocazione medievale, lo rendeva aggiornato ai più recenti orientamenti in fatto di studi critici e di allestimenti museali. 32 | Luca Giacomelli

Due linee: Donatello e Carrand La mostra donatelliana del 1887 segnò il trionfo della linea che mirava a fare del Bargello una raccolta organica di scultura fiorentina rinascimentale, intesa in senso ampio anche dal punto di vista dei materiali. Probabilmente il richiamo di J. C. Robinson, conservatore del South Kensington Museum, circa l’assenza di un museo dedicato alla scultura a Firenze, doveva aver sortito qualche effetto31. Tuttavia i riferimenti culturali in questi anni stavano mutando, soprattutto per quel che riguardava lo studio della scultura. L’influenza del South Kensington Museum si stempera, rispecchiandosi nel vago accenno a un museo che raccogliesse modelli per studenti e artigiani, ma senza che di fatto si realizzasse una saldatura tra la collezione e una scuola di disegno, come era successo altrove in Italia32. Saranno invece personaggi come Bode a influenzare gli sviluppi della collezione di scultura del Bargello, sia grazie ai suoi studi che alla sua aggressiva attività sul mercato antiquario fiorentino33. Un orientamento che in museo risultava evidente sia nel campo delle acquisizioni dai privati che degli ingressi dalle collezioni medicee, che cominciarono a essere organizzati in maniera più scelta concentrando l’attenzione su Donatello e i suoi seguaci34. Il progressivo riallestimento delle sale di scultura a seguito della mostra del 1887, necessario anche alla luce delle acquisizioni degli anni precedenti, si orientò verso una disposizione cronologica che riunisse in maniera più stringente artisti e tipologie di materiali, con il grande salone dell’Udienza che si confermava scrigno delle opere di Donatello, scalzando definitivamente l’idea di dedicarlo a Michelangelo e alla scultura cinquecentesca. Nonostante nella mostra si fosse molto insistito sulle qualità di artigiano di Donatello, riservando una notevole attenzione anche agli oggetti di arti applicate del periodo35, il Bargello si stava sempre più qualificando come museo di scultura. A riequilibrare la situazione arrivò nel 1889 la donazione del collezionista lionese

7. Veduta della Sala Carrand con la porta della Cappella della Maddalena, post 1898, Firenze, Museo Nazionale del Bargello, Fototeca storica e documentaria 8. Veduta della Sala Avori nell’allestimento di fine Ottocento (si possono riconoscere alcuni pezzi cinque e seicenteschi provenienti dalle raccolte medicee spostati in seguito al Museo degli Argenti a Palazzo Pitti), Firenze, Museo Nazionale del Bargello, Fototeca storica e documentaria

Il Medioevo al Bargello | 33

Louis Carrand, che lasciò in eredità al museo la sua stupefacente raccolta di oltre tremila oggetti di arti decorative36. La collezione Carrand, che partecipava di quello spirito antiquariale tipico francese di cui già abbiamo fatto cenno, contribuì a dare finalmente organicità alle raccolte di arti decorative del museo fiorentino; tuttavia la saldatura tra edificio e collezione, come era avvenuta per il Musée de Cluny, a Firenze non ebbe mai davvero luogo. L’esposizione degli oggetti di arte decorativa si mantenne sempre di natura tipologica, mettendo definitivamente da parte la volontà di documentazione degli usi e costumi medievali come avveniva nel museo parigino, e come in parte era stato auspicato fin dal decreto di fondazione del 1865. La collezione inoltre rispondeva a criteri di gusto tipicamente francesi, e difficilmente avrebbe potuto prestarsi alla ricostruzione di ambienti utili a definire una presunta identità medievale “italiana”. In questi anni il Palazzo sembra poter ancora servire, forse per l’ultima volta, come palcoscenico per romantiche messe in scena, come dimostra la foto scattata nel 1887 in occasione dei festeggiamenti in costume medievale per l’inaugurazione della facciata di Santa Maria del Fiore37 (fig. 5). Anche lo studio della porta della Cappella di Gualtiero de’ Bacci Venuti sempre del 1887, attardata reminiscenza delle evocazioni di Borrani, Abbati o Zandomeneghi, si lega probabilmente a tale evento (fig. 6).

Gli anni di Igino Benvenuto Supino e il museo moderno Nonostante queste tardive rivisitazioni medievali, gli obiettivi del Museo del Bargello sembravano ormai essere profondamente mutati, e non casualmente. Negli stessi anni infatti l’attenzione degli studi metodologicamente più aggiornati, soprattutto di area tedesca, si era concentrata proprio sulle direttrici della scultura e delle arti decorative medievali. Tale attenzione si rifletteva anche in Italia sulle pagine di riviste come “Arte e Storia” e soprattutto dell’“Archivio storico dell’arte”38. Per il Bargello ne sono esempio gli studi che Umberto Rossi, allora responsabile del museo, dedicò alla collezione Carrand nell’“Archivio Storico dell’Arte” e che, per quanto parziali, dimostrano un’evoluzione nell’approccio a queste opere già aggiornato alle istanze della Kunstwissenschaft39. Con l’arrivo di Igino Benvenuto Supino a capo del museo nel 1896 la spinta verso una più rigorosa organizzazione dei materiali si fece ancora più pressante, come dimostra la nota relazione che lo studioso inviò nel 1897 al Ministero della Pubblica Istruzione40, in cui si proponeva una razionalizzazione degli allestimenti nell’alveo di un progetto espositivo che, a quel punto, riusciva ad accogliere in maniera armonica aggiunte che in altre epoche avrebbero lasciato sgomenti gli ordinatori, come quella dei sigilli dell’Archivio di Stato, del Medagliere mediceo (1897), della donazione d’armi di Costantino Ressman (1899) e dei tessuti antichi di Giulio Franchetti (1906)41. Un progetto che andava di pari passo con quanto Enrico Ridolfi e in seguito con più organicità Corrado Ricci, nel ruolo di direttori delle Gallerie fiorentine, realizzavano negli stessi anni agli Uffizi42. 34 | Luca Giacomelli

Gli obiettivi erano ormai definitivamente mutati: non si trattava più di arredare un palazzo in stile medievale puntando sull’evocazione tramite l’accumulo di oggetti, ma di esporre le opere in maniera «più decorosa» per dare «l’opportunità di osservarl[e] con agio»43 secondo un ordinamento scientifico, dotando il museo di cataloghi aggiornati. Il nuovo approccio alle opere in museo si manifesta anche nella differente attenzione alla sistemazione delle sale, con le decorazioni di Bianchi, solo pochi anni prima al centro di feroci polemiche, che vengono in parte imbiancate probabilmente per dare maggiore risalto agli oggetti, come si osserva nella seconda sala dei bronzi (attuale sala delle maioliche), dove si cancellano le specchiature del registro centrale mantenendo solo la fascia superiore con gli stemmi e la zoccolatura inferiore (fig. 9). Unico residuo del vecchio allestimento rimase l’Armeria (fig. 10), per quanto sfoltita e aggiornata: evidentemente il richiamo a una dimensione evocativa e letteraria del Medioevo manteneva ancora il suo fascino, e per questa tipologia di oggetti era ritenuta ancora funzionale. Inoltre, come già notato altrove, dal punto di vista pratico la conservazione dell’allestimento delle due sale al pianterreno non impediva l’aggiornamento delle altre sale del museo44. Grazie a Supino, il Bargello si qualificava come il frutto maturo di una museografia figlia della cultura positivista ottocentesca, per niente attardata, culminata in Italia nel magistero di Adolfo Venturi45. Una tradizione che già alla fine del secolo era oggetto di forti contestazioni da parte degli ambienti estetizzanti, che a Firenze facevano capo al “Marzocco”, ma che di fatto seppe convivere con essi, se non addirittura compenetrarsi.

9. Veduta della Seconda sala dei bronzi (oggi Sala delle Maioliche), prima della mostra donatelliana del 1887, Firenze, Museo Nazionale del Bargello, Fototeca storica e documentaria

Il Medioevo al Bargello | 35

10. Veduta della Seconda sala dei bronzi (oggi Sala delle Maioliche) a seguito delle modifiche seguite alla mostra di Donatello del 1887, con le decorazioni di Bianchi parzialmente scialbate, 1890-1900 circa, Firenze, Museo Nazionale del Bargello, Fototeca storica e documentaria

Anche l’idea di ambientazione procedeva ormai su altri binari, ed è significativo che Federico Hermanin nel 1906, in un articolo a commento della proposta di apertura di un nuovo museo del Medioevo in Castel Sant’Angelo a Roma, non citi il Bargello tra i modelli possibili46. L’iniziale connotazione romantica del museo fiorentino non era ritenuta più funzionale come modalità di recupero degli stili di vita del passato, che in quegli anni scivolava verso la suggestione etnografica, già in parte suggerita nell’esperienza del Borgo Medievale di Torino del 188447 e che avrebbe trovato ulteriore sanzione nei padiglioni regionali dell’esposizione romana del 191148, marcando, insieme al fallimento della ricerca di uno stile nazionale, quello dell’idea di poter promuovere tramite il museo una cultura unitaria che fosse pienamente condivisa. Anche a Firenze era in atto un deciso cambiamento in materia. L’attività di collezionisti come Loeser e Horne ai primi del Novecento, impegnati ad arredare le loro residenze come veri palazzi antichi con esattezza filologica, esempi di un “vivere austero” ma non meno raffinato, marcava una sensibile differenza rispetto all’accumulo pittoresco di Stibbert o Temple Leader49. Allo stesso tempo, l’inaugurazione di Palazzo Davanzati nel 1910 come Museo della casa fiorentina antica per cura dell’antiquario Elia Volpi, che si avvaleva anche di recenti studi sull’arredamento del Tre e Quattrocento50, concorreva alla banalizzazione del concetto di ambiente come una tra le tante scelte possibili dell’arredo della casa moderna. Palazzo Davanzati divenne ben presto paradigma di quello “stile fiorentino” in bilico tra gotico e rinascimento, apprezzato soprattutto da anglosassoni e americani, che contribuì a diffondere il mito dell’artigianato artistico locale nel mondo51. Si era di fatto conclusa la fase del sogno di un Medioevo da ricreare in ambienti che trasportassero il visitatore in un passato popolato di castelli e cavalieri, per giungere negli anni intorno alla guerra alla messa a fuoco dell’arte medievale come campo di studi autonomo, con efficaci criteri critici. In tal senso saranno cruciali 36 | Luca Giacomelli

11. Veduta della Prima sala dell’Armeria (oggi Sala di Michelangelo e della Scultura del Cinquecento), 18701880 circa, Firenze, Museo Nazionale del Bargello, Fototeca storica e documentaria

le ricerche di Pietro Toesca: testi come La pittura e la miniatura nella Lombardia del 1912 e il Medioevo, che iniziò a uscire a dispense dal 1914, segnarono una svolta fondamentale dal punto di vista metodologico, evidente nell’introduzione al Medioevo e già sottolineato in più occasioni52. Tornando al Bargello, la definitiva “smedievalizzazione” avvenne con il riallestimento del 1931 a opera del direttore Filippo Rossi, seguendo una strada in parte già tracciata da Supino e perseguita nel solco della razionalizzazione delle collezioni, grazie anche alla fondazione di nuove istituzioni museali a Firenze. Le raccolte medicee di arti decorative come quelle delle ambre, dei cristalli di rocca o degli avori cinque e seicenteschi, che mal si integravano nel museo, furono spostate nel nuovo Museo degli Argenti a Pitti53, mentre si concluse entro il 1938 il definitivo trasferimento delle sculture della facciata di Santa Maria del Fiore al Museo dell’Opera del Duomo, privando così il Bargello del nucleo più organico di scultura medievale da esso conservato. Le opere furono sistemate nelle sale seguendo un ordine cronologico e stilistico, e non più per materia, mentre furono definitivamente abolite gran parte delle decorazioni del 1865, tranne dove potevano ancora intonarsi agli oggetti esposti54. Il Bargello raggiungeva così quella connotazione di scrigno della scultura fiorentina quattro e cinquecentesca e delle arti decorative, ribadito anche col riallestimento del 1966 a seguito dell’alluvione, che ha mantenuto fino a oggi55. Tuttavia il Medioevo era e rimane argomento centrale di ricerca, come dimostrano i cataloghi scientifici e gli studi sulle opere in collezione56. Della grande epopea ottocentesca rimane qua e là qualche resto di decorazione, come quello, quasi commovente, che si affaccia sulla parete est della Sala della scultura del Cinquecento. Forse proprio le vicende di questa sala, la vecchia Armeria trasformata in giardino manierista, possono essere assunte a paradigma della storia del museo e, forse, di un gusto. Il Medioevo al Bargello | 37

Desidero ringraziare Ilaria Ciseri e Beatrice Paolozzi Strozzi per la fiducia accordatami e per il loro sostegno durante tutte le fasi del lavoro. Per i consigli e il continuo e proficuo confronto su questi temi sono grato a Massimo Ferretti, Benedetta Chiesi e Barbara Bertelli. Questo testo è dedicato alla memoria di Maria Monica Donato. 1

Sulle varie, possibili interpretazioni del Medioevo, Eco 1985; una panoramica sull’idea di Medioevo nell’Ottocento si trova nei saggi contenuti in Arti e Storia 2004. Molto utili anche gli studi di Bordone 1993; Bordone 1995-1996. 2 Si veda Crivello 1997; Monciatti, Piccinini 2004; Le Pogam 2004. Da ultimo il volume Medioevo/Medioevi 2008. Sulla storia del Bargello si rimanda al completo Paolozzi Strozzi 2004. 3 Si vedano i testi di Ademollo e Jesi citati in Gaeta Bertelà 1985, pp. 181-184. 4 Ideali non diversi da quelle che spinsero Leopoldo II a farsi promotore della decorazione scultorea del Loggiato degli Uffizi, cfr. Iacopozzi 2000, in part. pp. 25-66; Gli Uomini Illustri 2001. 5 Paolozzi Strozzi 2004, p. 25. 6 Gaeta Bertelà 1985, pp. 181-187. 7 Passerini 1858. 8 Baldry 1997, p. 19, ma in generale tutto il volume per un’ottima panoramica sul revival medievale a Firenze. 9 Giorgi, Matracchi 2006, pp. 153-165; Matracchi 2006. pp. 175-183. 10 Barocchi 1985; Mazzocca 2002; Firenze 2011a. Sulla fortuna dei ritratti danteschi si veda Donato 2005, pp. 355-360. 11 Sull’importanza del romanzo storico come primo avvicinamento alla disciplina rimangono fondamentali le pagine di Croce 1921/1947, pp. 43-67. 12 Sul delicato passaggio storico, si veda il documentato e sintetico Ballini 2012. 13 Barocchi, Gaeta Bertelà 1985, pp. 213-214. 14 Barocchi, Gaeta Bertelà 1985, p. 220. Sul ruolo del Medioevo nella costruzione dell’identità unitaria cfr. Porciani 1988. 15 Barocchi, Gaeta Bertelà 1985, pp.240-248. 16 D’Azeglio 1870, pp. 3-5. 17 Levi 2008, pp. 22-24. Si veda anche Le Pogam 2004, pp. 763-764, che individua per i due modelli proposti da Inghilterra e Francia anche ragioni politiche. 18 Sul South Kensington Museum, Burton 1999, nonché gli studi di Clive Wainwright sui primi anni del museo nel numero monografico Gere, Sargentson 2002. 19 Bann 1978; Barocchi, Gaeta Bertelà 1989, pp. 39-62; Mazzocca 2004, 619-620. 20 Buzzoni 1980; Ferretti 1980; Buzzoni 1990. 21 Su Temple Leader, Baldry 1997; su Stibbert, Di Marco 2008; Firenze 2011b, pp. 109124. 22 Giacosa 1884, pp. 14-15. 23 Levi 2008, pp. 27-28. 24 Barocchi, Gaeta Bertelà 1989, pp. 52-57; Gaeta Bertelà 1994; Crivello 2004 pp. 634635.

38 | Luca Giacomelli

25

Levi 2008, pp. 18-19. Firenze 1985. 27 Riprodotta in Barocchi, Gaeta Bertelà 1985, pp. 369-374. 28 Foresi 1867, pp. 10-11. 29 Barocchi, Gaeta Bertelà 1985, pp. 257-258. 30 Barocchi, Gaeta Bertelà 1985, pp. 215 passim; Paolozzi Strozzi 2004, pp. 32-34. 31 Robinson 1862, p. VII. 32 Sul dibattito museo-scuola, molto acceso intorno agli anni Settanta dell’Ottocento, Odescalchi 1871, Salazaro 1873; più di recente Alamaro 2000. 33 Seidel 2003; Niemeyer Chini 2009, pp. 52-94. Ringrazio Marco Mascolo per gli utili consigli. 34 Barocchi, Gaeta Bertelà 1986, pp. 90-110. 35 Paolozzi Strozzi 2004, p. 60. 36 Firenze 1989, in particolare sulle vicende relative alla donazione Gaeta Bertelà 1989; da ultimo Gaeta Bertelà 2004. 37 Probabilmente in occasione del corteggio storico del 15 maggio, Gotti 1890, pp. 8191. 38 Sciolla 1984, pp. 65-69; 1995, Sciolla Varallo 1999 pp. 73-82 39 Rossi 1889a; Rossi 1889b; Rossi 1890. 40 Badino 2010, pp. 171-173, ma tutto il saggio per il direttorato di Supino al Bargello. Nello stesso catalogo sono utili anche i saggi di M. Tamassia, F. Vannel Toderi, M. Maffioli e M. Ferretti per un inquadramento dell’attività di Supino a Firenze. 41 Paolozzi Strozzi 2004, pp. 62-63. 42 Barocchi 1999, pp. 303-304. Su Ricci si vedano Strocchi 2005; Innocenti 2004; Paolucci 2008. 43 Rossi 1893, p. 1. 44 Paolozzi Strozzi 2004, p. 63. 45 Agosti 1996, pp. 61-131. 46 Hermanin 1906. Sul progetto di un Museo medievale a Roma e sul ruolo di Hermanin da ultimo, Nicita Misiani 2008. 47 Boccalatte 2008, pp. 31-34. 48 Racheli 1980, pp. 241-250. 49 In merito si rimanda ai saggi contenuti in Horne e Firenze 2005; Firenze 2011b, pp. 155-177. 50 Schiaparelli 1908. 51 Gentilini 1989 pp. 155-176; Paolini 2000, pp. 153-159; Firenze 2009, in particolare i saggi di F. Baldry e R. Ferrazza. 52 Castelnuovo 1966, ripubblicato in Castelnuovo 2000; Sciolla 1995, pp. 56-61; Romano 1998, pp. 3-21. 53 Trasferimento che avvenne nel 1927, Paolozzi Strozzi 2004, pp. 66-67. 54 Su tutta la questione si veda il recente Paolozzi Strozzi 2012. 55 Paolozzi Strozzi 2004, pp. 67-68. 56 In particolare la serie di studi pubblicati nella collana “Lo specchio del Bargello”. 26

Il Medioevo al Bargello | 39

Un museo in divenire. Il Bargello, le sue collezioni e il mercato antiquario forentino: protagonisti e circolazione delle opere d’arte Barbara Bertelli

1. Benedetto da Maiano, Incoronazione di Ferdinando I d’Aragona da parte del cardinale Latino Orsini nel 1459, 14901495 circa, Firenze, Museo Nazionale del Bargello, inv. 83 S

La fisionomia del Museo Nazionale del Bargello non è il risultato di un progetto unitario, ma piuttosto la conseguenza di un articolato percorso in cui il progressivo modificarsi dell’idea iniziale corrisponde a una volontà di adeguamento allo scenario culturale europeo di modernità e progresso.1 Il Bargello è infatti “figlio” dei dibattiti intellettuali del suo tempo e la sua nascita deve essere considerata nel contesto della cultura internazionale dalla quale dichiaratamente prende le mosse2. In Europa si respirava una generale propensione per il Medioevo, che portava con sé l’esaltazione delle identità nazionali.3 Questo e il desiderio di avanguardia, spinsero il neo-costituito Stato italiano a improntare il nascente Museo Nazionale sull’esempio dei più innovativi musei d’Europa: il parigino Musée de Cluny e il museo londinese di South Kensington4. Questa auspicata impostazione di sintesi tra i due illustri modelli e l’adozione del deposito di opere di proprietà privata ebbero un grande peso nella formazione del Museo fiorentino, dove il contributo dello Stato e quello dei privati sarà a lungo sentito pressoché sullo stesso piano5. Il coinvolgimento del collezionismo privato, in un’epoca in cui la figura del conoscitore (mercante e/o collezionista) era in via di definizione, traspare a volte anche nella scelta di oggetti da esporre o da acquistare: la fisionomia delle collezioni del Museo può essere considerata il prodotto di una graduale messa a punto che risulta in stretta relazione con gli orientamenti del coevo panorama del mercato dell’arte sia fiorentino che nazionale e internazionale, dove i protagonisti spesso risultano operare indifferentemente in ambito pubblico e privato, svolgendo un ruolo di raccordo tra questi due mondi6. È doveroso, a questo punto, spendere qualche parola per illustrare brevemente il contesto del mercato d’arte antica a Firenze: caratterizzato da una grande vitalità, pullulante di venditori e di acquirenti, abbondante di merce di ogni tipo, esso vide crescere la sua posizione, inizialmente satellitare, fino a primeggiare in ambito italiano ed europeo7. Firenze divenne la meta eletta di mercanti e collezionisti di tutta Europa, che giungevano in Italia come all’ingresso di un grande bazar dove poter scegliere ogni sorta di capolavori da aggiungere alle proprie collezioni, agevolati da diversi fattori di natura politica, sociale e giuridica8. Vedremo come il fenomeno della dispersione delle opere d’arte e l’inadempienza dell’Amministrazione statale siano legati al disagio economico9.

Un museo in divenire | 41

Un lungo cammino verso il Museo Il ritrovamento nel 1840 del ritratto di Dante attribuito a Giotto all’interno della Cappella del fiorentino Palazzo del Podestà, e il conseguente restauro iniziato con gli affreschi della Cappella e poi esteso al resto dell’edificio, ebbero un’enorme risonanza in campo nazionale e internazionale dando luogo ad accesi dibattiti riguardanti le diverse questioni legate alla destinazione del Palazzo, da ormai tre secoli adibito a prigione10. Si fece subito spazio l’idea di adeguare l’edificio a sede museale, una soluzione che si presentava come la scelta più idonea e in linea con le più aggiornate tendenze europee11 e che in seguito, nel fervore dei lavori improntati alla “sistemazione” della città come Capitale del Regno, evitò al Palazzo del Podestà la sorte riservata a molti palazzi storici, destinati ad accogliere uffici pubblici12. Accogliendo le sollecitazioni di Samuele Jesi e di Agostino Ademollo, che fin dagli anni Quaranta avevano auspicato la formazione di un Museo di oggetti antichi della Toscana all’interno del palazzo13, e a seguito delle esperienze francesi e inglesi, una prima concreta idea di Museo, dedicato al Medioevo e al Rinascimento, fu proposta da Marco Guastalla nell’ottobre del 1859 in un progetto concepito nel rispetto dell’anima profonda del più antico palazzo pubblico fiorentino, di cui si era annunciato il recupero14. Nel decreto che in quell’anno assegnava il palazzo a sede museale, Guastalla vide confermato l’interesse delle istituzioni verso la sua proposta, tanto da intraprendere un viaggio in Europa e un intenso lavoro di preparazione e studio finalizzato alla progettazione del Museo15. Una dedizione appassionata e un impegno scientifico non sufficienti però a garantirgli l’incarico dell’allestimento assegnato, nel febbraio del 1861, a Luigi Passerini e, dopo le sue dimissioni l’anno seguente, effettivamente svolto da Paolo Feroni16. Il cammino verso la formazione del Museo Nazionale fu dunque lungo e tortuoso, come testimoniano questi passaggi, sempre accompagnati da polemiche e dibattiti. Vennero infatti formulati svariati progetti alternativi, ognuno con caratteristiche diverse, ma con una costante: il riferimento ai modelli di Cluny e di South Kensington. Tale richiamo non fu semplicemente ispirato a modelli noti solo attraverso la stampa, ma basato su conoscenze reali, data la presenza, in quegli anni, di personaggi fiorentini in Inghilterra17. In vista dell’Esposizione Nazionale dell’Industria Moderna che si doveva tenere a Firenze nel 1861, Guastalla presentò alla Commissione Reale – il 26 novembre 1860 – un nuovo progetto, “cucito su misura” per il Palazzo Pretorio. Ancora sulla scia di esperienze straniere e con un’impostazione innovativa, egli intendeva illustrare l’Industria del Medioevo e del Rinascimento nei suoi diversi generi e con un forte intento evocativo18. Le sue aspirazioni furono però nuovamente deluse e la Commissione, non ritenendo di sua competenza la valutazione di una proposta basata su oggetti antichi, non dette seguito all’idea. Guastalla non si dette per vinto: tale era la determinazione a sostenere la validità del suo progetto, da organizzare un’esposizione dimostrativa nella propria abita42 | Barbara Bertelli

zione, destinando parte degli introiti a favore di istituti benefici19. Collezionista egli stesso e forse favorevolmente colpito dal sistema dei depositi adottato nei musei stranieri, aveva compreso l’importanza del coinvolgimento dei privati ed ebbe l’astuzia di incoraggiarli a sostenere il suo progetto facendo leva non tanto sull’amor proprio o su sentimenti patriottici, quanto sulla prospettiva di vendite più vantaggiose sul mercato antiquario delle opere prestate ed esposte, grazie alla visibilità offerta dall’evento20. La mostra fu difatti costantemente pubblicizzata sulla stampa21 e l’organizzazione ben studiata per favorire l’afflusso di un pubblico per la maggior parte interessato, data la richiesta di un pagamento sia per il biglietto d’ingresso che per il catalogo22. La rassegna di casa Guastalla si svolse dal 21 settembre all’8 dicembre del 1861, e fu un successo: ebbe circa 12.000 visitatori23 e vide la partecipazione di 94 espositori, tra collezionisti e mercanti d’arte; e tale e inaspettata fu la quantità degli oggetti pervenuti che gli organizzatori furono costretti a rinviare la data di apertura24. Neppure un anno più tardi, il 10 novembre del 1862, Paolo Feroni otteneva l’incarico di istituire il Museo del Medioevo nel Palazzo del Podestà, ancora in corso di restauro. Non perse tempo: già pochi giorni dopo, ispezionò i magazzini delle Fabbriche Civili individuando «moltissimi pregevoli e rari oggetti da formare una sala di sculture del Medio Evo»25 che fece trasferire nel palazzo, insieme a un cassone della villa di Cafaggiolo. Intendeva mettere in atto l’idea, accolta pochi mesi prima dal Ministro della Pubblica Istruzione, di un Museo del Medio Evo plasmato sul modello del Musée de Cluny, che avrebbe potuto allestirsi con oggetti facilmente reperibili, senza provocare la spoliazione «di altri gabinetti, biblioteche, pinacoteche»26. Al fine di individuare opere che avrebbero potuto trovare posto nel nuovo museo, nel 1863 si compilarono elenchi di oggetti, di proprietà sia pubblica che privata, frutto di ricognizioni preliminari effettuate sul territorio27. Al Museo, intanto, vengono trasferite opere provenienti da altre sedi28 e, nei pressi di Siena, Feroni compie il suo primo acquisto per il Museo: un’armatura completa niellata in oro, che rischiava di lasciare l’Italia per entrare nella collezione del Sig. Kukn di Ginevra, e 34 pezzi di armi (alabarde, spade, pugnali)29. Una “nota spese” registra altri acquisti effettuati da Feroni fino al luglio del 1864, da cui si evince un interesse prevalente per le armi, che costituiscono 24 dei 28 pezzi acquisiti: non a caso, tra i venditori emerge il nome di Eligio Montelatici, uno dei fornitori di Frederick Stibbert30. I documenti e gli inventari del Museo raccontano di altri acquisti nel 1864, alcuni dei quali provenienti dall’eredità Galli Tassi di Santa Maria Nuova, e dell’unico “trasferimento” di alcuni vasi in cristallo di rocca dal Museo di Fisica e Storia Naturale. La questione delle opere di provenienza Galli Tassi merita un approfondimento e vi torneremo. In questa fase preliminare, dunque, Feroni raccolse prevalentemente armi e scultura in terracotta e in pietra, che necessitando di molto spazio, vennero provvisoriamente sistemate al secondo piano, fino al termine dei lavori all’edificio. Feroni però non vide il frutto delle sue fatiche: morì nel settembre del 1864 e l’incarico passò ad Aurelio Gotti, Direttore delle Gallerie. Un museo in divenire | 43

Firenze 1865. La Mostra del Medioevo I festeggiamenti previsti per il sesto centenario dantesco – che si andavano organizzando per il maggio del 1865 –, e la fama dell’edificio, attirarono l’attenzione degli intellettuali di tutta Europa, come ben testimonia il letterato francese Célestin Hippeau, che in riferimento al palazzo fa notare come «paraissait avoir été restauré tout exprès pour servir de théatre à cette exposition dantesque, qui n’a pas été le moindre des hommages rendus, en cette circostance, à l’auteur de la Divine Comédie»31. Le cerimonie in preparazione si prospettavano anche come degna celebrazione della capitale, a un anno dal passaggio di consegne da Torino a Firenze passato in sordina. L’istituzione del Museo Nazionale diveniva così uno strumento di propaganda e i festeggiamenti danteschi offrivano l’occasione propizia per verificare la validità di un museo dedicato al Medioevo all’interno del Palazzo del Podestà, «un edifizio che ci trasporta colla mente al secolo in cui venne innalzato»32. Parallelamente alla mostra dantesca il Palazzo accolse una «Mostra dei Tempi di Mezzo e del Risorgimento, armi, curiosità etc»33 dedicata alle opere di arte applicata (le cosiddette “arti congeneri”), con l’opportunità per gli organizzatori di misurarsi con l’opinione pubblica, verificarne la risposta ed eventualmente correggere il tiro per l’ormai prossimo allestimento del museo. All’epoca, il Medioevo e l’attenzione verso le arti decorative erano di gran moda. La solidità dell’interesse collezionistico per gli oggetti medievali era stata sperimentata in Inghilterra attraverso ben due mostre sull’argomento, organizzate nel giro di pochi anni: la prima nel 1857 a Manchester, la seconda nel 1862 a Londra34. Il precedente italiano cui fare riferimento era l’esposizione organizzata da Guastalla, che aveva spostato l’attenzione del pubblico su un genere di opere diverso da quello tradizionalmente atteso in una esposizione d’arte e aveva messo in evidenza la grande importanza del legame tra pubblico e privato in fatto di collezionismo dimostrando che, nonostante la diaspora di opere d’arte provocata dalla massiccia campagna d’acquisti attuata in quegli anni dai musei stranieri35, le collezioni private potevano ancora esibire veri capolavori: questi, uniti alle raccolte dello Stato, avrebbero surclassato i più blasonati musei d’Europa. La Commissione incaricata di organizzare la Mostra del Medioevo ebbe così modo di valutare il ruolo determinante che il sistema dei prestiti privati avrebbe potuto giocare per il buon esito del progetto e decise di far ricorso a questa risorsa; una scelta verso cui la stampa segnalava un clima di ostilità36. Si innescò dunque un meccanismo di reciproco scambio in cui gli organizzatori, costretti da tempi strettissimi e scarsa disponibilità di oggetti da esporre37, necessitavano della partecipazione dei privati e dall’altra parte, una vetrina come quella del Palazzo del Bargello si presentava come un’occasione imperdibile per collezionisti o antiquari per valorizzare le proprie opere d’arte e fornire loro una migliore condizione sul mercato. Il “deposito” fu in realtà un elemento chiave nella storia del Bargello; lo accomunò ai modelli europei, ma divenne “croce e delizia” per il nuovo museo: se da una 44 | Barbara Bertelli

parte consentì la sua veloce apertura, dall’altra ne determinò per almeno un ventennio la fisionomia mutevole, in cui le opere entravano e uscivano a piacimento dei proprietari, influendo negativamente sulle operazioni di inventariazione e sistemazione delle collezioni e ritardando la creazione di un’identità definita. A dispetto dell’importanza dell’evento, non sono molte le informazioni che riguardano la Mostra del Medioevo del 1865. L’assenza di un catalogo ci nega l’opportunità di conoscere le scelte di allestimento e nulla sappiamo dei criteri adottati dalla Commissione circa l’ammissione o meno delle opere proposte dai privati. Se infatti le schede di prestito, conservate nell’Archivio storico del Museo, pur senza pretesa di integrità documentaria, sono una fonte preziosa riguardo l’identità degli espositori e i relativi oggetti posti in mostra, nessun documento testimonia il rifiuto di opere proposte. Tale vuoto documentario parrebbe dar credito alle critiche di Alessandro Foresi, secondo il quale «si ebbe animo di contentare e d’abbarbagliare la turba magna dei visitatori col troppo e non con lo scelto»38. Quello che sicuramente emerge dall’elenco dei prestiti è l’enorme varietà di tipologie in mostra, dove tra gli oltre settecentocinquanta oggetti esposti39, si nota l’abbondanza delle armi – tipologia molto in voga nei musei dell’epoca, che non poteva mancare a Firenze, dove risiedevano molti noti collezionisti di questo settore –40, mentre spicca l’assenza della pittura (presente invece nella Mostra organizzata da Guastalla nel 1861) a favore delle arti decorative e della scultura. In ogni caso, la positiva esperienza vissuta dai pionieristici espositori di casa Guastalla contribuì senz’altro a convincere anche i più scettici tra i collezionisti privati, le cui opere dettero un apporto notevole alla riuscita della rassegna. Tra i circa novanta prestatori, oltre ad alcune istituzioni pubbliche e private, si riconoscono i nomi di collezionisti e antiquari noti e meno noti, alcuni dei quali già presenti alla mostra di Guastalla. Tra questi ultimi figurano i mercanti d’arte Tito Gagliardi, Vincenzo Corsi e Giovanni Petrilli, ma non mancano anche collezionisti veri e propri, intellettuali e aristocratici di illustri casate: tra loro, il Principe Ferdinando Strozzi, il senatore Ferdinando Bartolomei, Niccolò Frosali, il Professor Giuseppe Manuzzi – erudito accademico della Crusca e uno dei maggiori epigrafisti del XIX secolo –, Carlo Otler, Antonio Pratesi. Quasi tutti i componenti di questo gruppo di collezionisti, fatta eccezione ovviamente per gli antiquari, presentò alla Mostra del Medioevo gli stessi oggetti già esposti in casa Guastalla; ciò può indicare che tali manufatti fossero motivo di orgoglio dei loro proprietari, fieri di esibirli a ogni occasione, oppure suggerire che la Mostra del 1861 non aveva sortito gli esiti sperati e gli oggetti erano rimasti invenduti41. L’analisi delle schede di prestito se da un lato fornisce utili indicazioni circa un gruppo di antiquari fiorentini la cui attività era finora nota solo dagli anni Settanta dell’Ottocento42, dall’altro denota l’assenza di alcuni nomi tra quelli dei prestatori. Mi riferisco a Toscanelli, Spence, Corsini-Laiatico, Piatti e Guastalla, la cui presenza è invece attestata nell’articolo che annunciava l’apertura della mostra, uscito sul quotidiano “La Nazione”43, utile anche come indicatore di gusto nella scelta delle opere segnalate. A conti fatti, la Mostra del Medioevo metteva Un museo in divenire | 45

2. Bacile ispano moresco a lustri metallici, Valencia-Manises, prima metà XV secolo, Firenze, Museo Nazionale del Bargello, inv. 31 M

in campo uno spaccato del collezionismo fiorentino in tema di arte medievale, i cui protagonisti appartenevano non solo all’aristocrazia, ma anche al mondo variegato di borghesi, intellettuali, commercianti, professionisti, funzionari e (naturalmente) antiquari. La rassegna era anche stata una prova di allestimento per il nuovo museo, ma contrariamente alle parole del Ministro della Pubblica Istruzione – che descriveva la mostra al re come «una delle più belle cose della festa memorabile del Centenario dantesco»44 – la stampa ne sottolineava qualche difetto45. Torniamo brevemente alla collezione Galli Tassi, che proprio in quell’anno 1865 veniva messa all’asta46. Prima dell’asta, l’antiquario Ferdinando Sorbi si disse interessato all’acquisto di alcuni busti in terracotta valutati in totale 400 lire. La Galleria degli Uffizi (cui facevano capo tutti gli acquisti dello Stato) espresse l’interesse per tre di essi, attribuiti al Verrocchio, a Luca e ad Andrea della Robbia (fig. 8). Carlo Brini, banchiere e negoziante d’arte, avanzò un’offerta per i tre pezzi di ben 1.200 lire, che Emilio Santarelli, incaricato di un secondo esame per conto dello Stato, giudicò non «superiore al loro giusto valore, ora particolarmente che se ne fa molta ricerca»47. Con piena soddisfazione del Direttore, i tre busti arrivarono in Galleria l’11 novembre 1864 (e di lì passarono al Bargello), confermando in che misura le tendenze del collezionismo privato, aggiornato al mercato dell’arte, fungessero da indirizzo per le istituzioni pubbliche. Nell’imminenza dell’asta, venne offerta al Ministero un’ulteriore occasione di acquisto preventivo, ma il valore di 27.000 lire dei sei oggetti scelti, era una cifra troppo alta per le casse dello Stato. Nell’elenco dei pezzi prescelti figuravano «Due cassoni di noce intagliati di bello stile della fine del 1400», che il Museo del Bargello richiese per le proprie collezioni nel 1871, dietro un’offerta di 1.600 lire, che non fu sufficiente48.

Il Museo Nazionale prende forma Una “fotografia” della situazione all’interno delle sale all’indomani della Mostra del Medioevo ci viene offerta dalla Relazione del Presidente del Museo, Ferdinando Di Breme, inviata il 7 novembre del 1865 al Ministro della Pubblica Istruzione49. Chiusa l’esposizione il 1° luglio, egli si dedica immediatamente a portare a termine i trasferimenti di nuclei collezionistici di proprietà statale, assegnati al Bargello e sollecita l’autorizzazione da parte del Ministero al trasferimento nel Museo Nazionale «delle collezioni di sculture, bronzi, avori e cristalli di monte pertinenti alla Galleria delle Statue e di tutti gli oggetti convenienti al Museo Nazionale che si trovano nei magazzini della Galleria»50. Un’operazione approvata, ma per la quale si raccomandava di procedere lentamente per non allarmare il pubblico che avrebbe temuto lo svuotamento delle pubbliche gallerie. Fu così che nel 1865, da varie sedi museali fiorentine, arrivarono al Bargello una quantità davvero eterogenea di opere d’arte, tipologie collezionistiche e oggetti di pregio51. 46 | Barbara Bertelli

A fronte di molti arrivi, vanno registrati anche alcuni trasferimenti negati, per varie ragioni52. Contestualmente, le collezioni del Bargello si incrementano anche attraverso l’ingresso di oggetti (per lo più fregi e ornati architettonici, edicole, stemmi, iscrizioni ecc.), provenienti dai cantieri delle demolizioni dell’antico centro storico e del “Mercato vecchio”, la maggior parte dei quali fu più tardi trasferita nel “lapidario” del Museo di San Marco53. Un altro consistente nucleo di opere (mobili, arredi sacri, frammenti architettonici), proveniente dagli enti ecclesiastici soppressi54, arrivò alle Gallerie tra il 1866 e il 1869. Molti furono accolti nel Museo Nazionale e, attraverso un accurato studio e confronto documentario, è stato possibile individuare alcuni di essi55. Si decisero anche alcuni acquisti, tra i quali il bozzetto in terracotta dell’Appennino del Giambologna, comperato da Alessandro Foresi assieme a tre piatti arabomoreschi del XV secolo (fig. 2) e a uno delle Fabbriche di Urbino.56 In quello stesso 1866, oltre a 34 seggiole di noce intagliate, il Campani segnala l’acquisto (16 agosto) di una cassapanca e due cassoni intarsiati del XVI secolo; in quella stessa data, il direttore delle Gallerie invia al Museo una lettera in cui riferisce l’acquisizione di quattro cassoni57. In questa prima fase i mobili, oltre a essere oggetti d’arte, erano funzionali all’allestimento delle sale per le quali si acquistano infatti anche vetrine in stile antico per le collezioni di avori e ambre58. Nel 1867, è ancora Foresi a vendere al Museo un «cassone con lavori a grafito» del XVII secolo59. Poi gli acquisti si arrestano e bisogna arrivare al 1869 per registrare l’ingresso di una Croce trecentesca in rame proveniente dalla chiesa di Sant’Egidio a Campiano60. Anche solo a un rapido sguardo, la modesta quantità degli acquisti è assolutamente evidente. Questo in parte si può spiegare con il progressivo ridursi dello spazio espositivo per l’ingresso di una gran quantità di opere, anche ingombranti (tra cui frammenti architettonici e statuaria)61; ma motivo determinante della mancanza di nuovi acquisti fu la scarsa disponibilità di denaro, di cui abbiamo ampia testimonianza nella documentazione d’archivio62. Non manchiamo infine di evidenziare il primo dono attestato dai documenti. Si tratta di un lavabo scolpito in pietra serena, attribuito a Benedetto da Rovezzano, proveniente dalla casa della famiglia Acciaioli in borgo Santi Apostoli, donato al Museo da Giuseppe Pettini nell’ottobre 186663. Sebbene subito dopo il termine della mostra fossero iniziati i primi ritiri da parte dei privati64, ben presto per il numero e la mole delle opere pervenute dalle soppressioni e dalle demolizioni e in vista di altri trasferimenti già decisi dalle Gallerie, è l’amministrazione stessa del Museo che, per fare spazio, propone una prima epurazione65 attraverso l’invito al ritiro di alcuni degli oggetti in deposito contenuti in una lista approvata dalla Giunta66. Sull’argomento non ci sono altre testimonianze ma, considerati i documenti di ritiro degli oggetti segnati sulla lista (datati per la maggior parte dal 1870 al 1884), sembra di poter affermare che la proposta non ebbe un seguito immediato67. Si trattò di un primo timido tentativo di ordinamento, ma per arrivare a risultati concreti dovremo aspettare gli anni Ottanta. Il mercato antiquario era

3. Croce processionale abissina, fine XIV secolo, Firenze, Museo Nazionale del Bargello, inv. 22 OR

Un museo in divenire | 47

ancora dominato dalla pittura, ma cominciava rivolgere l’attenzione verso generi artistici fino a poco tempo prima completamente ignorati, come le terrecotte o le robbiane. Il “termometro” di questo andamento è indicato dalle licenze di esportazione, che per i primi anni Sessanta vengono richieste solo per i dipinti e, soltanto nel 1864, si registra una prima richiesta per una statua in terracotta, che rimane un caso isolato68. Racconta il Foresi che solo mezzo secolo prima «Le terre invetriate dei Della Robbia erano tanto abbondanti e sì poco stimate che l’antiquario Sorbi, non trovando da venderne alcune acquistate per un tozzo di pane, le mise nel prospetto di un’antica torre in Borgo San Jacopo […] Le terrecotte non le voleva né Dio né il Diavolo»69. Ora invece, spinti dalla nuova cultura di stampo tardo-romantico e preraffaellita, collezionisti e amatori, soprattutto stranieri, arrivavano a Firenze in cerca di cimeli del Medioevo e del primo Rinascimento, con un tale slancio da indurre alcuni abili artisti a dedicarsi alle riproduzioni in stile se non addirittura alle falsificazioni70. L’istituzione pubblica si trovava spesso in concorrenza con i facoltosi collezionisti privati che, grazie alla disponibilità di denaro, compravano di tutto. Caso esemplare è quello della robbiana della Pia Casa del Lavoro. Fu offerta alle Gallerie il 4 novembre 1867 al prezzo di 2.500 lire, destò subito l’interesse dei funzionari, ma già il 29 gennaio 1868 la Pia Casa aveva ritirato l’offerta. E il Ministro era costretto ad accettare di buon grado la revoca consolandosi di scongiurare il peggio: «il bassorilievo non è de’ più belli, e sì perché la vendita si farebbe al Sig. Leader per ornare il suo Castello di Vincigliata presso Firenze onde sarebbe assicurato che quell’opera d’arte resterebbe fra noi»71.

Gli anni Settanta Abbiamo visto come il timore più grande dei primi responsabili del Bargello fosse quello di avere delle sale vuote o sguarnite e come, per evitare questa eventualità, avessero mirato più alla quantità che alla qualità privilegiando l’ingresso di nuclei collezionistici di proprietà statale provenienti da altre sedi e il deposito più o meno indiscriminato di opere di proprietà privata. Il decennio successivo è segnato da una politica diversa. Si nota subito un maggior numero di acquisti che riguardano in particolare stoffe, monete, sigilli, oltre alle sculture.72 Tra il 1871 e il 1879 la maggior parte degli acquisti riguardano i sigilli, una scelta di indirizzo caldeggiata dal Ministro dell’Istruzione Pubblica, che in una lettera del 1871 sottolinea come la raccolta di sigilli del Museo Nazionale non abbia eguali negli altri Musei italiani e per questo raccomanda al Direttore delle Gallerie «di provvedere che essa abbia un esatto catalogo e sia convenientemente illustrata, e collocata in modo da porre in evidenza la serie storica»73, desiderio ben presto esaudito con l’apertura, nel 1873, della sala dei sigilli (fig. 4). Importanti acquisizioni in questo settore sono la collezione Guastalla74 e le collezioni, già in deposito, Strozzi e Gamurrini, ma 48 | Barbara Bertelli

non trascurabili sono anche gli acquisti di singoli pezzi testimoniati dai documenti d’archivio75 e lo scambio effettuato col medagliere della città di Ferrara76. Viene incrementata anche la collezione numismatica77. L’acquisizione più rilevante fu il deposito del medagliere dell’Abate Guido Ciabatti, costituito da monete fiorentine medievali, che fu acquistato al prezzo di 3.600 lire dal Comune e destinato al Museo Nazionale con l’intento di formare, unitamente alle altre collezioni già presenti e a quelle della Galleria, un’unica raccolta che andasse a illustrare la storia numismatica della città.78 A irrobustire il settore numismatico arrivarono anche monete, coni e quattro torchi monetari della soppressa Zecca fiorentina79. Gli acquisti, che riguardarono anche altre categorie, di evidente eterogeneità80, sono aumentati, ma rimangono ben poca cosa rispetto ai modelli europei cui ci si vorrebbe ispirare: la strategia prevalente, anche per contingenze economiche, è ancora quella di acquisizioni di nuclei collezionistici da altre sedi pubbliche. Facendo riferimento a un colloquio in cui il Ministro delle Finanze Quintino Sella chiedeva delucidazioni sulle intenzioni di Gotti «per rendere il nostro Museo Nazionale degno del nome che porta e pari agli altri Musei di simil genere che sono più famosi in Europa», Gotti dichiara che per elevare il livello del Museo basterebbe trasferirvi le opere sparse nella Reggia di Pitti81. Difatti, i trasferimenti proseguono. Nei primi anni Settanta riguardano soprattutto la statuaria82, portando la scultura rinascimentale a divenire il nucleo portante nelle raccolte del Bargello. La seconda metà del decennio vede invece arrivare soprattutto oggetti di arti minori (fig. 3)83. Nonostante l’eccedenza delle opere in deposito e la necessità di dare un ordine fosse stata chiaramente espressa dalla

4. Veduta della Sala dei sigilli e degli arazzi, Firenze, Museo Nazionale del Bargello, Fototeca storica e documentaria 5. Benedetto da Rovezzano, Camino Borgherini, 1515 circa, Firenze, Museo Nazionale del Bargello

Un museo in divenire | 49

6. Veduta parziale della Sala delle maioliche e delle robbiane, Firenze, Museo Nazionale del Bargello, Fototeca storica e documentaria

Presidenza già dal 1867, anche negli anni Settanta si accettano alcuni doni84 e si assiste all’ingresso di nuovi depositi. Oltre alle già menzionate raccolte della Zecca e dell’Abate Ciabatti, il Museo riceve in deposito nel 1870 un altorilievo in marmo che si diceva rappresentare Carlomagno incoronato dal papa (fig. 1)85. Oltre agli ingressi, sono da segnalare alcune uscite che, per lo più, riguardano singole opere. Sicuramente non passò inosservata la partenza dei centoquarantacinque oggetti (tra ceramiche, porcellane, bandiere e armi) della collezione di Ulisse Tantini, ritirata nel 1877 dalle figlie dopo la sua morte86. Nel 1873 anche Giuseppe Toscanelli ritirò il suo deposito e la vicenda che lo vide protagonista ben rappresenta il clima del mercato antiquario dell’epoca. Toscanelli chiese di ritirare gli oggetti di sua proprietà, per i quali avanzò richiesta di esportazione. Un’indagine accurata, condotta da Aurelio Gotti, rivelava che la «bellissima collezione di oggetti antichi» del Toscanelli, composta da tessuti in oro, argento e seta dei secoli XV, XVI e XVII, cuoi, armi, smalti (e fra questi una croce attribuita a Maso Finiguerra), vetri sottilissimi di Venezia, piatti di Urbino, bassorilievi di Della Robbia, sarebbe stata venduta per 130.000 lire a un certo Signor Mosel. La cifra era inarrivabile per il Governo, ma Gotti avrebbe voluto almeno impedirne l’esportazione: ormai però alcuni dei pezzi più preziosi – fra cui la croce – erano partiti, illegalmente, all’interno di un baule di biancheria dell’acquirente87. 50 | Barbara Bertelli

I movimenti appena esaminati lasciano intuire un vivace quanto spregiudicato commercio di arte antica che, in effetti, è testimoniato a Firenze anche da un forte incremento delle vendite pubbliche. Precedentemente, l’alienazione delle collezioni d’arte era affidata per lo più a mediatori che spesso liquidavano gli oggetti per vendita diretta, cercando di allargare quanto più possibile la platea dei compratori pubblicizzando l’avviso sul quotidiano “La Nazione”. Ora invece si ha prova di un mercato molto più organizzato, in cui cominciano a delinearsi ruoli precisi e a nascere le prime imprese di vendita. Frutto di questa crescita sono i cataloghi d’asta, che negli anni Settanta registrano una vera affermazione (a Firenze, in pochi anni, si contano trentatré vendite ed è stato possibile recuperare venti cataloghi). I cataloghi, la cui compilazione è sempre più scientifica e curata nell’aspetto estetico ed editoriale, sono un solido strumento che dà la misura del cambiamento di gusto negli anni. Il passaggio dagli anni Sessanta agli anni Settanta è segnato dalla quasi totale assenza di cataloghi dedicati ai soli dipinti, a fronte della comparsa di collezioni eclettiche, composte da oggetti d’arte di generi diversi, un fenomeno che trova corrispondenza nelle licenze di esportazione, in cui compaiono richieste per oggetti di ogni genere. È solo la premessa di quanto accade poi.

Gli anni Ottanta Lo sviluppo del mercato antiquario raggiunge l’acme negli anni Ottanta quando si assiste a una vera esplosione di questo settore commerciale (testimoniata dalle quarantaquattro vendite all’asta che si registrano nello spazio di dieci anni, e di cui è stato possibile rintracciare trentasette cataloghi)88. Il decennio si apre con la più grande asta di quei tempi, quella delle collezioni Demidoff della Villa di San Donato, curata dal francese Charles Pillet. Fu l’evento mondano dell’anno al quale nessun membro dell’alta società fiorentina poté rinunciare, e richiamò a Firenze collezionisti da tutto il mondo, dando un enorme impulso al commercio locale, pronto ad approfittare di tanta risonanza. I traffici aumentarono a dismisura e le oltre tremila richieste di esportazione ne sono la dimostrazione. Anche il Museo Nazionale venne investito da questa ondata di frenesia commerciale. Ne è la prova il moltiplicarsi delle proposte di acquisto, presentate sempre più spesso dagli stessi commercianti (non solo dai collezionisti o dai loro uomini di fiducia); molto attivi in questo senso furono Giuseppe Pacini, che trattava soprattutto stoffe, armi e pezzi archeologici, Vincenzo Cappelli, Salvatore Salvatori, Angelo Papini, i fratelli Castellani, Costantini. L’ampia offerta sembra aver liberato il museo da quella sorta di horror vacui che aveva all’inizio guidato le sue scelte; non era più necessario accettare ogni proposta per il timore di vedere le stanze vuote. Ora, vincolato “solo” dalla disponibilità economica, chi ne era alla guida si sentiva in grado di poter operare delle selezioni e il museo, gradualmente, poteva assumere una fisionomia più definita. Il Soprintendente delle Regie Gallerie, Egisto Chiavacci, scriveva al Ministro nel giugno 1880, dichiarandosi contrario alla pratica dei depositi, che riteneva solo un Un museo in divenire | 51

mezzo per i proprietari per trovare un acquirente tra i visitatori, mentre sarebbe stato opportuno «evitare che un Museo come oggi è il nostro non debba esser più una specie di Bazar e dove questa soprintendenza in faccia ai visitatori non fa che la figura del rigattiere». L’indignazione verso questa situazione lo portò a rifiutare la consegna di alcuni avori di Volterra che «certo Dura dice di aver acquistato da quel municipio per farne un pubblico incanto» e che si volevano esposti nel Museo89. La questione degli avori di Volterra destò molto interesse: i quattordici avori medievali sacrificati dal Comune per ristrettezze economiche, furono messi all’asta il 2 dicembre 1880 e sotto la direzione di Raffaele Dura furono venduti per la somma di 78.709 franchi90. Sul “New York Times” James Jackson Jarves, viceconsole americano a Firenze, espresse il suo biasimo che il Governo italiano non avesse destinato gli avori in questione al Museo Nazionale di Firenze e ne avesse invece permesso la dispersione91. Ma anche Annibale Campani, nel luglio del 1881, in una lettera a Cesare Donati, esprimeva l’avversione verso i depositi, che «hanno creato danno all’ordinamento delle collezioni»92. Essi tuttavia, seppur rari, proseguono e si dovrà aspettare il 1884 perché arrivi un ordine perentorio di restituzione di tutti i prestiti ai proprietari93. In quegli anni vennero fatti anche alcuni doni al Museo: tra i più importanti, le Nicchie marmoree di Benedetto da Rovezzano, provenienti da Palazzo Da Cepparello, acquistate dalla Cassa Centrale di Risparmi e Depositi e donate al Museo nel 1882; e il Legato di Antonio Conti, composto di opere eterogenee della sua collezione, nel 1886. Abbandonato dunque uno dei canali d’ingresso delle opere, ci si affacciò direttamente sul mercato valutando le decine di proposte di acquisto che in quegli anni pervennero al Museo. La procedura prevedeva che le opere proposte venissero sottoposte all’esame di un Comitato tecnico, che avrebbe deciso sulla possibilità di acquisto, rilasciando al proprietario copia del parere. Molte delle proposte, tra cui figurano oggetti di ogni genere (marmi, terrecotte, maioliche, arredi sacri, punzoni, bronzi, stoffe) vennero respinte, per lo più in base a tre diverse motivazioni: l’opera non era ritenuta di valore, il prezzo richiesto era giudicato troppo alto oppure, pur ritenendo l’opera valida, essa non era utile alle collezioni del Museo, già fornito di esempi simili. Anche questa procedura fu sfruttata da alcuni avidi collezionisti che, proponendo i propri oggetti a prezzi eccessivi, sicuri di ricevere un rifiuto, ottenevano una perizia gratuita da presentare a eventuali acquirenti94. Anche le proposte accettate sono un buon numero e di genere vario, ma più frequenti risultano gli acquisti di coni, punzoni, sigilli e stoffe, un dato che tradisce le scelte di allestimento orientate sulle arti applicate95. Tra i molti acquisti effettuati, alcuni sono celebri, come il busto di Niccolò da Uzzano da casa Capponi (fig. 7), o il monumentale camino di Benedetto da Rovezzano, proveniente dal palazzo Rosselli del Turco (fig. 5). Un altro importante acquisto fu quello delle tre robbiane che il Soprintendente dell’Educatorio della Concezione di Fuligno, Carlo Peri, metteva in vendita per fronteggiare spese straordinarie: la Samaritana al pozzo, il Cristo nell’orto e un San Giovannino seduto. Il Ministero riuscì a spuntarla su Temple Leader – che aveva offerto 2000 lire 52 | Barbara Bertelli

per la Samaritana – e su Stefano Bardini – che ne aveva offerte 1000 per il San Giovannino – aggiudicandosi il gruppo per 6000 lire96. Altre robbiane arrivarono in quegli anni per trasferimento da altra sede: un Presepe da San Vivaldo a Montaione, una lunetta da Santa Marta e un medaglione con San Francesco d’Assisi, un medaglione con Sant’Orsola e un bassorilievo raffigurante l’Apparizione di Cristo dalla Manifattura dei Tabacchi97. All’incremento della raccolta di robbiane seguì una revisione della sala del secondo piano (fig. 6), posteriore alla descrizione data dal Campani nella sua Guida (1884) e documentata dalla nota spese dei lavori necessari98. Si annotano anche altri trasferimenti: trentuno bronzi e altri oggetti dalle Gallerie e lo spostamento dei gruppi marmorei con le Fatiche di Ercole del De’ Rossi, in questo caso in partenza per Palazzo Vecchio.

7. Desiderio da Settignano (già attribuito a Donatello), Niccolò da Uzzano, 1430-1450, Firenze, Museo Nazionale del Bargello, inv. 555 S

8. Andrea della Robbia, Ritratto di bambino, 1475 circa, Firenze, Museo Nazionale del Bargello, inv. 75 Robbie

1

Da una prima idea di Museo di opere d’arte della Toscana (1859), si passa a una proposta di «Museo storico-archeologico-nazionale» (Passerini 1861), per arrivare alla definitiva scelta di un Museo del Medioevo (1862 Feroni) (Barocchi, Gaeta Bertelà 1985, Appendice IIIb, VII, XVII, XVIII e XIX). 2 Mi riferisco alla riscoperta del Medioevo in atto in Europa nella seconda metà dell’Ottocento, alla volontà della giovane nazione italiana di concorrere con il primato raggiunto da Francia e Inghilterra in fatto di istituzioni museali e alla diffusa nascita di musei di arti decorative e industriali. Tre fattori che ebbero un peso determinante nella scelta di indirizzo data al Museo Nazionale.

Un museo in divenire | 53

3

Come già in Germania, anche in Italia, in età romantica e nel clima risorgimentale, il Medioevo aveva perduto la connotazione negativa durata per tutto il Neoclassicismo e conosciuto una generale rivalutazione come l’età delle libertà comunali e delle identità nazionali (Fidanzia 2003). 4 Il Museo Nazionale del Bargello, si proponeva di riunire in sé due diverse anime: da una parte l’inclinazione verso il Medioevo, riflesso della cultura romantica e di un’idea patriottica, simile al Cluny; dall’altra, un orientamento verso le arti industriali, con una marcata attenzione al progresso tecnico e alla raccolta di modelli “didattici” per le arti applicate, come portato della nuova cultura positivista, che si esprimeva nel South Kensington: aspetto, quest’ultimo, in relazione al quale l’Italia arrivava in ritardo, non avendo vissuto come il nord Europa la rivoluzione industriale. Sebbene in ritardo, l’Italia sembrava comunque avere ben recepito le ragioni alla base della nascita dei musei di arti decorative. La nuova tipologia di Museo nasce in Inghilterra con l’istituzione, nel 1851, del South Kensington Museum (dal 1899, Victoria and Albert Museum) allo scopo di non disperdere gli oggetti più significativi presenti all’Esposizione Universale, dando vita a una collezione permanente in continuo aggiornamento. Secondo le indicazioni di Semper, che univano agli scopi commerciali, quelli formativi, al Museo si affiancò un programma didattico e una scuola: modello poi ripetuto anche in Italia, dove sorgono i primi musei di arte e industria affiancati a scuole a Torino (1862), Roma (1874), Napoli (1882). In merito al dibattito sviluppatosi intorno alle arti industriali e all’incoraggiamento delle scuole di arti applicate all’industria, vedi “L’Istruzione” 2013, in particolare le considerazioni di Giuseppe Colombo in occasione dell’Esposizione Nazionale di Firenze del 1861 (pp. 274-275). 5 Il diritto di proprietà dei prestatori era garantito dall’Art. I del Regolamento del Museo Nazionale (AB, F 4, pos. 17). 6 Quella del conoscitore, negli anni Sessanta dell’Ottocento, è una figura in via di definizione, che giungerà a piena maturazione a fine secolo. In mancanza di una figura professionale specifica, ci si affidava alla competenza in campo artistico maturata da artisti o restauratori, che spesso ricoprivano il ruolo di funzionari pubblici. In opposizione al tecnico di formazione accademica cresce l’importanza del connoisseur dilettante (il gentiluomo colto e spesso appassionato collezionista) e si fanno sempre più labili i confini tra il collezionismo privato e la pubblica istituzione. La compenetrazione di questi due mondi si traduce nella frequente presenza all’interno di Comitati o di Commissioni pubbliche, di famosi collezionisti o mercanti d’arte, considerati esperti del settore in nome della pratica acquisita sul mercato antiquario. Dello stesso Comitato Direttivo del Museo Nazionale del Bargello, nominato nel 1865, facevano parte il marchese Ferdinando di Breme, il senatore Sartirano, il cav. Giuseppe Toscanelli, il marchese Ferdinando Panciatichi Ximenes d’Aragona e il cav. Aurelio Gotti: a eccezione di Gotti, tutti stimati collezionisti d’arte. Alessandro Foresi, il barone Ettore Garriod e Marco Guastalla, noti collezionisti e mercanti, per il Museo svolsero il doppio ruolo di membri del Consiglio e venditori di oggetti d’arte. Una tendenza che sostiene la teoria di Le Pogam (2004, pp. 763-764), secondo cui le istituzioni pubbliche spesso seguirono la tendenza inaugurata dai collezionisti. 7 La posizione marginale di Firenze sul mercato antiquario internazionale negli anni Sessanta è sottolineata dalla scelta della piazza parigina per due vendite di importanti

54 | Barbara Bertelli

collezioni fiorentine, Guastalla (1867) e i dipinti Demidoff (1868). La nobiltà costretta dalla crisi economica a vendere le opere d’arte di famiglia, la borghesia in ascesa che le acquistava come simbolo di affermazione sociale, la rinnovata soppressione degli istituti religiosi e l’incameramento dei loro beni da parte dello Stato (1862), favorirono l’immissione sul mercato di una gran quantità di opere d’arte che spesso la normativa d’esportazione non riuscì a trattenere sul suolo nazionale. 9 Sul mercato antiquariale fiorentino della seconda metà dell’Ottocento, vedi Bertelli 2012. 10 Per approfondimenti sul dibattito inerente il restauro del Palazzo, la sua destinazione e la creazione del Museo si rimanda alle ampie e ben documentate analisi: Gaeta Bertelà 1985, pp. 181-209; Barocchi, Gaeta Bertelà 1985, pp. 213-377; Barocchi, Gaeta Bertelà 1985; Barocchi 1985, pp. 153-178; Paolozzi Strozzi 2004. 11 Perfettamente in accordo con quanto realizzato a Cluny, dove il Museo di arti del Medioevo fu sistemato dal 1843 nella residenza degli abati. 12 La macchina governativa in cerca di spazi adeguati ad accogliere Ministeri, corpi diplomatici, organi amministrativi e legislativi, segreterie e personale al seguito fece ricorso a palazzi nobiliari, edifici di enti religiosi soppressi, caserme, che subirono lavori di adattamento, e inevitabilmente distruzioni di testimonianze storico-artistiche (Roselli, Fantozzi Micali, Ragoni et al. 1985). 13 Gaeta Bertelà 1989, p. 128. 14 Su Marco Guastalla, stimato erudito, numismatico, collezionista e commerciante d’arte, in rapporto anche con John Charles Robinson, vedi (vedi Benetti, Paladini). 15 Per conoscere i più moderni sistemi espositivi e le più aggiornate soluzioni tecniche, tra il dicembre 1859 e il marzo 1860, visitò a sue spese vari musei italiani e stranieri e rese noto il suo lavoro in un opuscolo, dato alle stampe nel gennaio del 1861 (Guastalla 1861b). 16 Il Decreto del 9 novembre 1862 esonerava Passerini dall’incarico, affidato il 10 novembre 1862 a Feroni. 17 Oltre al già riferito viaggio didattico compiuto da Guastalla, ricordiamo il Reale Comitato Centrale Italiano per l’Esposizione internazionale di Londra del 1862 tra i cui membri figurano (Esposizione 1862), tra gli altri, il principe di Carignano, il Prof. Emilio Bechi, Ferdinando Ridolfi, Emanuele D’Azeglio, Cosimo Ridolfi, Giulio Richard e Emilio Burci, Conservatore della Reale Galleria degli Uffizi, che collaborò con Feroni alla progettazione dell’allestimento del Museo (Barocchi, Gaeta Bertelà 1985, Appendice XVIII). Allestimento che Feroni intese modellare sull’esempio di Cluny, denunciando la difficoltà di seguire il modello inglese, gestito da una ricca società che ne accresceva costantemente le collezioni con incessanti acquisti. Ancora nel 1899 sulla rivista “Arte Italiana e Decorativa” diretta da Camillo Boito, si legge che «per ora sarebbe impossibile neanche sognare in Italia istituzioni colossali e dispendiose come il Kensington» (p. 73). 18 Si ispirava alla mostra tenuta a Manchester nel 1857 e, uscendo dal solco tracciato dalla tradizione che affidava alle “arti maggiori” il predominio nelle esposizioni museali, intendeva descrivere la storia del costume attraverso gli oggetti d’uso (Guastalla 1861b, pp. 15-16). 19 Guastalla 1861a, p. 6; Guastalla 1861b, p. 29. 8

Un museo in divenire | 55

20

Guastalla 1861b, p. 19. Il canale usato fu “La Nazione”, il primo quotidiano italiano a diffusione nazionale che nel 1865 raggiunse una tiratura di 5000 copie. Nella prima settimana di apertura oltre alle solite informazioni pratiche, vennero elogiati alcuni tra i più interessanti oggetti esposti (24 settembre-2 ottobre 1861, p. 4). 22 La Nazione, 21 settembre 1861, p. 4. 23 La stampa annotava le visite illustri (“La Nazione” ottobre 1861). Il dato numerico è riferito dallo stesso Guastalla (Barocchi, Gaeta Bertelà 1985, Appendice VIII). 24 La Nazione, 18 settembre 1861, p. 3. 25 AB, F. 6, pos. 240. Barocchi, Gaeta Bertelà 1985, Appendice XXVI. Le opere selezionate, elencate in due diverse note (AB, F. 6, pos. 969 e 244, in Barocchi, Gaeta Bertelà 1985, Appendice XXVIII-XXIX) sono statue in pietra, marmo o terracotta di epoca compresa tra il 1200 e il 1700 e alcuni capitelli, colonne, vasche, mensole. 26 Barocchi, Gaeta Bertelà 1985, Appendice XVIII. In merito alla scelta di Cluny come modello vedi nota 15. 27 Oltre a ville, palazzi e istituti pubblici e di culto sul territorio fiorentino, lucchese o aretino, negli elenchi compaiono anche case private (del Signor Prat e il negozio dell’antiquario Valmori, ambedue di Firenze) e vengono segnalati particolarmente opere di oreficeria sacra e di scultura (AB, F. 6, pos. 269, Barocchi, Gaeta Bertelà 1985, Appendice XXX-XXXIII). Il panorama si allarga a nuove disponibilità grazie all’Ispettore Rondoni, incaricato di compilare gli inventari degli oggetti d’arte delle chiese del Comune di Fiesole, che invia al Feroni un elenco selezionato di oggetti ritenuti appropriati per il Museo (AB, F. 6, pos. 269, Barocchi, Gaeta Bertelà 1985, Appendice XXXVIII). 28 Da Palazzo Pitti due vasche e una testa di Ciclope in basalto; dal giardino del Palazzo della Crocetta una statuetta di angelo che suona il violino; tre sculture in pietra attribuite a Paolo di Giovanni raffiguranti La Vergine, san Pietro e san Paolo, provenienti dall’Oratorio fuori Porta Romana; e gli affreschi con Uomini e Donne illustri di Andrea del Castagno della villa di Legnaia (trasferiti al cenacolo di Sant’Apollonia nel 1891, e oggi agli Uffizi) vedi Campani 1884; per le sculture provenienti da Porta Romana vedi Inventario Sculture 137-139 e ASGFi, 1865, Museo Nazionale, 2. 29 Per l’acquisto di armi vedi Barocchi, Gaeta Bertelà 1985, Appendice XXXV-XXXVII. 30 Barocchi, Gaeta Bertelà 1985, Appendice XLII. 31 L’Italie 1865, p. 65. Insieme ai professori MM. Mézières e Hillebrand, Hippeau fu incaricato dal Ministro dell’istruzione pubblica M. Dury di rappresentare l’Università di Francia alle feste celebrate a Firenze in onore di Dante, fatto messo in risalto anche dalla cronaca (“La Nazione” 14 maggio 1865). 32 Del Pretorio 1865, p. 40. La frase sottolinea la capacità dell’edificio di creare un’empatia col visitatore. 33 La Mostra del Medioevo, allestita dal 14 maggio al 1° luglio, fu inizialmente collocata al piano secondo, e in seguito estesa al primo, dove era la cappella col ritratto del poeta, nei locali dedicati dal 14 al 16 giugno alla Mostra dantesca. 34 Mi riferisco alla Art Treasures of the United Kingdom tenutasi nel 1857 a Manchester, la prima esposizione di arte antica diretta da esperti qualificati che, pur ispirandosi alle 21

56 | Barbara Bertelli

esposizioni di Londra, le surclassò per la quantità di opere esposte e per la sua impostazione scientifica e didattica; e alla Special Exhibition of Works of Art on Loan del 1862 al South Kensington Museum di Londra (Londra 1863). Per una panoramica sulla storia delle mostre di arte antica, vedi Haskell 2000 e 2001. 35 I ricchi acquirenti privati e soprattutto i nascenti musei europei o americani, dotati di ampie disponibilità economiche, inviavano periodicamente i loro agenti in territorio italiano per le campagne di acquisti: ricordiamo tra gli altri Otto Mündler travelling agent della National Gallery di Londra, Charles Fairfaix Murray, che fu anche agente in Italia di alcuni direttori del Fitzwilliam Museum e fece acquisti per il South Kensingthon Museum e John Charles Robinson curatore del Sout Kensington Museum (vedi Levi 1989 e 1998). 36 «Qualche malevolo si è data cura di spargere la voce che i preziosi oggetti inviati dai privati all’esposizione dei tempi di mezzo che avrà luogo nel Palazzo del Potestà non verranno restituiti ai loro proprietari. Questa fiaba è tale che non merita alcuna smentita» (“La Nazione”, 12 maggio 1865, p. 3). 37 Fino a quel momento erano stati effettuati solo alcuni acquisti e un numero limitato di trasferimenti da altre sedi; inoltre era impossibile conoscere l’effettiva consistenza degli oggetti di provenienza statale che sarebbero pervenuti al Museo, specie dalle soppressioni. Questi elementi alimentarono il timore di ritrovarsi con le sale vuote e spinse verso il settore privato. 38 Foresi 1867, p. 9. 39 Il dato si ricava dall’analisi delle schede di prestito che rivelano l’imponente presenza dei ben 364 pezzi della collezione di Ferdinando Panciatichi, composta da armi orientali, bronzi, vasi e lavori in giada. 40 Il primo acquisto eseguito dal Feroni riguardava proprio questa categoria. Una fonte importante per conoscere la consistenza delle collezioni di armi depositate al Museo è il testo di Claudio Calandra (1867). In particolare cita le collezioni Panciatichi, De la Roche Pouchin, Toscanelli e Avondo. La raccolta del Generale La Roche Pouchin, costituita da ben 224 armi, fu depositata il 9 maggio 1865 (ASGFi, 1883, Museo Nazionale, 38). 41 A distinguersi, portando in mostra opere diverse rispetto a quelle esposte in casa Guastalla, fu Carlo Otler, che presentò alla Mostra del Medioevo un bassorilievo in marmo raffigurante la Madonna col Bambino, di Desiderio da Settignano; un Cristo in avorio, appartenuto a Pio VII e attribuito al Fiamminghetto; un Cristo in bronzo del Giambologna; un Nettuno, modelletto in bronzo attribuito a Benvenuto Cellini; un busto in marmo rappresentante Beatrice d’Aragona di Desiderio da Settignano. Alessandro Foresi acquistò dall’amico Otler il Nettuno e il bassorilievo di Desiderio da Settignano, poi rivenduto al barone de Rothschild (Foresi 1868, pp. 51, 64-65; una dichiarazione di Luigi Alberti p.117, dal quale il bassorilievo venne acquistato nel 1863 da Otley, ne attesta l’autenticità). Il Busto di Beatrice d’Aragona, opera di Francesco Laurana, si trova oggi alla Frick Collection di New York. La letteratura recente (C. Damianaki, in Firenze 2013-2014, pp. 162-165, cat. 41), alla quale si rimanda per i passaggi collezionistici, lo colloca erroneamente alla Mostra di Guastalla del 1861, confondendo probabilmente le due mostre. 42 Si tratta di Giuseppe Nardi, Angiolo Papini, Giulio Sambon, Giuseppe Valmori, Raffaello Venturini. Giuseppe Nardi, oltre a svolgere l’attività di antiquario, possedeva anche

Un museo in divenire | 57

un negozio di fotografia; nel ruolo di mercante d’arte Raffaello Venturini compare nelle guide commerciali della città per il solo anno 1873, ma un annuncio apparso su “La Nazione” (20 agosto 1863, p. 4) anticipa la data di dieci anni, inoltre l’attività è documentata dalle 13 richieste di permesso di esportazione (i cui oggetti risultano: dipinti su tela e su tavola, arazzi e un tabernacolo antico) concentrate negli anni tra il 1879 e il 1883; anche per Giuseppe Valmori l’attività è documentata per il solo anno 1873, ma lo troviamo nel 1877 tra i partecipanti alla Mostra di Arte Antica organizzata dalla Società Donatello, dove espone un frammento di mosaico di scuola bizantina (Firenze 1877, p. 92). Per maggiori approfondimenti sui protagonisti del mercato antiquariale fiorentino vedi Bertelli 2012, in particolare sull’attività di Giulio Sambon e della sua impresa di vendite pp. 139-142. 43 La Nazione, 9 maggio 1865, p. 2. 44 Barocchi, Gaeta Bertelà 1985, Appendice LXIII. 45 «[…] Nella fretta con cui è stata preparata la mostra, riescita non pertanto stupenda, non si è potuto pensare che negli ultimi momenti alla collezione Poirò, che giaceva alla rinfusa in uno stipo del Regio medagliere della Galleria degli Uffizi […]», Carlo Gonzales in “La Nazione” 22 maggio, p. 3. 46 La collezione, stimata quasi tre milioni di lire, fu lasciata dall’ultimo discendente della famiglia, Angiolo Galli Tassi, in eredità agli ospedali toscani con l’obbligo di venderla e impiegare il ricavato a favore degli istituti di beneficenza. 47 ASGFi, 1864 Galleria statue e Palatina, 88. Le tre opere sono, nell’ordine, il Busto di giovane, di Scuola del Verrocchio (inv. 552 S); il Busto di guerriero di Antonio del Pollaiolo (inv. 551 S); il Busto di bambino di Andrea della Robbia (in. 75 R). 48 Nonostante il Ministro dell’I. P. e il Direttore delle Gallerie, avessero ritenuto non conveniente acquistare gli oggetti Galli Tassi (ASGFi, 1869, Galleria delle Statue, 28). La trattativa servì solo a far salire il prezzo pagato dal Marchese Lottaringo Della Stufa per cassoni, attribuiti al Lippi, a £ 1800. Sulle vicende legate all’asta Galli Tassi vedi Bertelli 2012, pp. 156-211. I documenti esaminati sono in AB, F. 6, pos. 269; ASGFi, 1864, Reale Galleria delle Statue e Palatina, 88 e 1871, Museo Nazionale, 5; ACSR, Direz. Antichità e BB. Arti, Musei, Gallerie e Pinacoteche, 200, 46-6. 49 AB, F 4, pos. 23. Barocchi, Gaeta Bertelà 1985 pp. 369-374; le studiose fanno notare che dalla relazione si evince la presenza delle statue del salone dei Cinquecento all’interno del Bargello, già nell’ottobre del 1865, dato che andrebbe a smentire una consistente documentazione sparsa nell’Archivio delle Gallerie che data il trasferimento nel 1868. 50 AB, F 4, pos. 20, Barocchi, Gaeta Bertelà 1985 p. 375. 51 Da Palazzo Vecchio: armi e armature antiche, un Marzocco in pietra, parte inferiore di finestra con vetri decorati su disegno di Vasari e un medaglione antico in noce del libano dallo scrittoio di Cosimo I, intagliato su disegno di Vasari (ASGFi, 1865, Museo Nazionale, 3 e 9; Campani 1884, pp. 29-30). Dalla Galleria: lastra in rame smaltato esprimente il trionfo di un imperatore, due selle in avorio, un intaglio in legno di Gibbons Grinling, le maioliche medicee e le monete della Toscana (raccolta Poirot, direttore della Zecca dal 1823) (Campani 1884, pp. 75, 76, 106, 163. Riguardo alla Collezione Poirot, vedi anche La Nazione 22 maggio 1865). Da Palazzo Pitti: mobili, ambre, avori e bronzi medicei (Campani 1884, pp. 107, 108, 117; i mobili, registrati nell’Inv. Oggetti d’arte nn. 154-158, di-

58 | Barbara Bertelli

vennero proprietà del Museo nel 1911). Dalla Villa di Poggio Imperiale: una testa e un busto in porfido di Francesco Ferrucci (Campani 1884, p. 108). Dall’Istituto topografico: un bassorilievo raffigurante la Madonna col Bambino attribuito a Andrea Pisano (Inv. Sculture n. 163; Campani 1884, p. 58). Dal Museo di Fisica e Storia Naturale: vasi in corno di rinoceronte, in vetro di Boemia, tre turbini in avorio, una fiasca tedesca a corpo da polvere (Campani 1884, pp. 70, 75, 117). 52 ASGFi, 1865, Museo Nazionale, 4; AB, F. 4, pos. 82 e pos. 102. 53 Se ne dà ampia descrizione in Il Centro di Firenze 1989. Un gruppo consistente di oggetti (102) proveniva da San Pancrazio. 54 La liquidazione dell’asse ecclesiastico, attraverso la soppressione delle corporazioni religiose e l’incameramento dei loro beni fu disciplinata dal Regio decreto n. 3036 del 7 luglio 1866 e dalla Legge n. 3848 del 15 agosto 1867. Cfr. Gioli 1998. 55 La nota inviata il 30 agosto del 1869 da Aurelio Gotti al Ministro della P. I. (ASGFi, 1869, Galleria delle Statue, 99) parla di circa 850 oggetti tra quadri, arredi sacri, sculture, frammenti architettonici, libri, mobili, ecc. Il documento non rivela quali oggetti vennero destinati al Museo Nazionale, ma ci permette di conoscere le sedi di provenienza. Un accurato confronto tra questo elenco e le indicazioni contenute negli Inventari del Museo, ci ha permesso di individuare con certezza alcune opere. Le opere individuate con certezza sono quelle registrate oggi in diversi inventari: inv. Oreficerie Religiose: nn. 7 e 15; inv. Oggetti d’Arte: nn. 4, 9, 14, 15 o 17?; inv. Maioliche nn. 126, 130-133. 56 AB, F. 4, pos. 114 e Campani 1884, pp. 78 e 155. I piatti sono registrati nell’Inv. delle Maioliche ai nn. 29, 31, 33. 57 Le sedie, registrate nell’Inv. Oggetti d’Arte al n. 63, risultano acquistate il 29 agosto 1866; l’inserto relativo conservato nell’archivio di Roma, cita anche fucili antichi (ACSR, Direz. Antichità e BB. Arti, Musei, B 216, ins. 62, n. 7). In merito ai cassoni segnaliamo: un inserto che tratta l’acquisto di tre antichi cassoni nell’Archivio di Roma (ACSR, Direz. Antichità e BB. Arti, Musei, B 216, ins. 62, n. 8); l’acquisto approvato con decreto del 14 agosto 1866 (AB, Filza 4, Pos. 98) di quattro cassoni antichi, due presso l’antiquario Montelatici per £ 360, e gli altri due pagati a Torello Bacci £ 600. Il Bacci (lettera del 14 gennaio 1866) aveva consegnato a Spence una cassapanca e due casse in noce intagliate perché le esponesse con i propri oggetti, alla Mostra del Medioevo (forse quelli descritti nella collezione Spence dall’articolo della “Nazione” del 9 maggio 1865): al termine della mostra la cassapanca venne comprata dallo stesso Spence, mentre fu proposto l’acquisto dei due cassoni per il Museo dal barone Garriod (Campani 1884, p. 70). 58 Sull’acquisto di mobili antichi presso Pagliai e altri mobili, comprese le vetrine in stile vedi ACSR, Direz. Antichità e BB. Arti, Musei, B 216, ins 62, nn. 1 e 5. Il riferimento alle vetrine in stile si trova anche in Foresi 1867, p. 10. 59 Inv. Oggetti d’Arte n. 16 e Campani 1884, p. 106. 60 Il 7 gennaio 1869 il Ministero di Grazia e Giustizia e de’ Culti chiede una perizia sulla Croce, a seguito della richiesta d’acquisto avanzata da Sebastiano Fabbroni, Direttore del Museo aretino. Alla croce viene assegnato un valore di poco superiore a £ 50 per il non florido stato di conservazione, ma se ne caldeggia l’ingresso nel Museo Nazionale, che si concretizza con l’acquisto per £ 60, il 22 febbraio 1869 (Inv. OR n. 14 e ASGFi, 1869, Galleria delle Statue, 6 bis).

Un museo in divenire | 59

61

Già nel 1867 la mancanza di spazio, soprattutto in vista dei nuovi arrivi, giustifica la necessità di eliminare alcuni oggetti presenti nelle sale (la vicenda è trattata più diffusamente in questo stesso saggio). E ancora nel 1872 in riferimento ai frammenti più danneggiati della Porta della Badia, che ingombravano il loggiato del cortile, se ne chiede il trasferimento in uno dei magazzini del Municipio (ASGFi, 1872, Museo Nazionale, 8). Quelli andranno in San Marco, mentre al Bargello resterà l’architrave col fregio dei delfini (inv. 169 Sculture). 62 In varie occasioni le offerte di vendita di opere alle Gallerie, vengono respinte con questa motivazione; un’ampia casistica è trattata in Cinelli 1997. A questo proposito occorre segnalare un episodio significativo. Il 29 aprile 1867 Thomas Smith offrì in vendita un bassorilievo di Matteo Civitali per £ 5000, che il Ministro, come già per le vetrate di Guglielmo Marcillat offerte da Giuseppe Ridolfini, «non avrebbe saputo come acquistare» (AB, F. 5, pos. 132). Si trattava di un tabernacolo di scuola del Civitali passato da Smith a Spence, che lo lasciò al South Kensington, dove infatti risulta ancora oggi (Yriarte 1886. Victoria and Albert Museum Inv. n. 418 to:7-1869). Il Museo però registra l’ingresso dell’opera nel 1869 dietro pagamento (List of Objects 1870, p. 31) e manca di indicare l’ultimo possessore e il primo: non sono stati infatti riconosciuti gli stemmi sulla base, identificati invece, nella documentazione prodotta da Smith al Museo del Bargello, come armi della famiglia lucchese Sera-Agostini. Quest’opera, la cui vicenda collezionistica dimostra la concretezza della teoria di Feroni secondo cui non si potevano seguire le orme del South Kensington, mancando delle stesse possibilità economiche, può essere assunta a emblema del divario allora esistente tra le due istituzioni. 63 Inv. 159 Sculture. Cfr. Campani 1884, p. 60; ASGFi, 1882, 60; AB, F. 4, pos. 106. AB, F. 4, pos. 104. 64 Tra i molti ritiri, occorre segnalare anche due depositi. Il primo riguarda il calice in vetro azzurro di Murano del secolo XV esposto alla mostra dalla Società Colombaria che lo aveva depositato il 3 maggio 1865 e, dopo averlo ritirato, depositato di nuovo il 18 novembre 1865 (AB schede deposito e Campani 1884, p. 89); l’altro, relativo a un orcio grande di bucchero di forma ovale, effettuato il 22 febbraio 1866 dal Museo di Fisica e Storia Naturale (Inv. Maioliche n. 89 e Campani 1884, p. 83). 65 Il 18 luglio 1867 la Giunta si riunisce per decidere sulla collocazione delle opere nel Museo e sull’eventuale eliminazione di alcune di esse. La presidenza ritiene opportuno «designare fin d’ora quelli fra gli oggetti di privata proprietà che, senza sconcio del Museo, potrebbero esser fatti ritirare dai proprietari medesimi, onde meglio e più largamente accomodare i nuovi di pertinenza governativa» (era stato autorizzato il trasferimento dalla galleria delle Statue e dalla Palatina delle collezioni di scultura moderna, terrecotte, avori, cristalli e cere, cfr. ASGFi, 1873, Museo Nazionale, 16-). 66 La Giunta fornisce un primo elenco di oggetti da eliminare, ma sia Campani che Garriod (tra i membri più influenti) esprimono la loro disapprovazione. Garriod fa osservare che la proposta degli scarti di oggetti appartenenti agli espositori privati «offende tutte le convenienze» e che i prestatori si sarebbero indignati per gli oggetti prima ammessi e ora rifiutati. 67 Sebbene nel 1867 Panciatichi in un passaggio contenuto nella polemica sostenuta con Alessandro Foresi, che si consumò sulle pagine della rivista Il Diritto (Foresi 1867,

60 | Barbara Bertelli

p. 22) desse per scontato l’imminente ritiro dei suoi oggetti. Tutta la documentazione è in AB, F. 5, pos. 137. Interessante il prestito eseguito da Olivo Masi di Capannoli nel marzo del 1878 relativo a due opere scolpite in pietra: una Sfinge, lavoro attribuito a Michelangelo e L’Arrotino, copia dell’originale agli Uffizi. Riconoscendo nella Sfinge la figura di un’arpia, le due opere si possono identificare con quelle descritte da Pandolfo Titi (1751, p. 181) nel Palazzo Lanfranchi di Pisa, dove però risultano assenti al momento della vendita del Palazzo a Giuseppe Toscanelli, avvenuta nel 1827. La Chimera, attualmente conservata a Palazzo Blu a Pisa, viene segnalata nelle memorie di Nello Toscanelli (1929) «in cattivo stato» nella villa di Giovanni Masi a Capannoli (ASPi, Fondo Toscanelli, f. 994, cfr Bertelli 2004, p. 14). Luogo in cui si trovava anche L’Arrotino, che scomparve per riapparire negli anni Settanta sul mercato antiquario romano segnalato da Alessandro Parronchi. Riscoperta in Inghilterra, la scultura è stata recentemente esposta a una mostra a Göteborg (And there was light. The masters of the Renaissance, 2010). 68 In Toscana l’esportazione di opere d’arte era regolata da apposite leggi e fin dal 1780 era prevista l’approvazione dallo Stato che poteva, eventualmente, esercitare un diritto di prelazione. La licenza era rilasciata dal Direttore delle Gallerie, previo l’esame di un Ispettore. Per uno studio sistematico delle licenze di esportazione vedi Bertelli 2012. 69 Foresi 1886, p. 48. 70 Gli esiti della collaborazione tra l’antiquario Freppa e lo scultore Bastianini sono fin troppo noti, ma non possiamo ignorare che fu proprio grazie a Giovanni Freppa che la manifattura Ginori ebbe un nuovo impulso con la produzione di maioliche in stile rinascimentaleCirca il nuovo interesse del mercato per la maiolica vedi Levi 1998. Sul tema della riproduzione in stile e la diffusione di falsi nel settore della maiolica cfr. Jones, Spagnol 1993, pp. 242-247. 71 AB, F 5, pos. 153; ASGFi, 1867 Museo Nazionale, 4 e 1868 Galleria delle Statue, ins. 21. 72 Per esempio, dallo scultore Vincenzo Consani si acquista, nel 1870, un tabernacolo a frontone in marmo di Mino da Fiesole per £ 2000 (Inv. Sculture n. 264) e nel 1873, dal marchese Filippo Antonio Gualtiero di Orvieto, si acquista un Lucerniere in ferro battuto del XVII secolo a forma di cornucopia opera di Giulio Serafini Aquilano (inv. 25 Ferri battuti) per £ 2000. 73 ASGFi, 1871, Museo Nazionale, ins. 11. Nel 1872 il Ministro nominò una Commissione presieduta dal marchese Strozzi, col compito di riordinare la collezione di sigilli provocando l’indignazione del Comitato, che si sentì esautorato (ASGFi, 1872, Museo Nazionale, 5). 74 Nello stesso anno Guastalla mette in vendita tutta la ricca collezione di oggetti d’arte presso l’impresa Il Mediatore di Firenze. Su questa e altre vendite avvenute a Firenze nella seconda metà dell’Ottocento vedi Bertelli 2012. 75 La documentazione riguarda: un anello sigillario trovato presso Montepuciano con corniola incisa con testa di giovane «bel lavoro di Migliano figlio di Luca», un sigillo medievale, anelli e sigilli acquistati da Achille Pennarelli (che vende anche un cammeo del Gironetti), 27 sigilli romani e cristiani, sigilli e medaglie dal Sig. Scrosopi, Sigillo del

Un museo in divenire | 61

Carrettieri, sigilli medievali dall’antiquario Pacini e si trova nell’Archivio delle Gallerie di Firenze e nell’Archivio Centrale dello Stato di Roma. 76 Nel 1871 dalle Gallerie partono 29 monete moderne (doppie) e arrivano in cambio 14 sigilli antichi da Ferrara (ASGFi, 1871, Museo Nazionale, 4). Tra il 1871 e il 1875 si effettuarono altri scambi: un vaso antico di maiolica dal Municipio di Bologna in cambio di due vasi dalla Farmacia di San Marco (ASGFi, 1871, Museo Nazionale, 8), le campane del Cenni della Santissima Anunziata arrivano al Museo in cambio di altre di proprietà del Demanio disponibili in Lucca e Arezzo (ASGFi, 1871, Museo Nazionale, 4). Inoltre un vaso antico di maiolica di Faenza viene dato in deposito al Museo, dal Regio Istituto di Studi Superiori, in cambio di qualche dipinto dai magazzini, che abbia relazione con le Scienze Filosofiche da porre ne gabinetto di Fisica (ASGFi, 1875, Museo Nazionale, 3). 77 Per gli acquisti di monete cfr. ACSR, Direz. Antichità e BB. Arti, Musei, B 216, ins 62, nn. 32, 32a, 33 e B 217 n. 8. 78 Cfr. ASGFi, 1872, Museo Nazionale,13 e 1873, Museo Nazionale, 1. 79 ASGFi, 1871, Museo Nazionale, 13 e 1872, Museo Nazionale, 6. 80 Alcuni punzoni gotici, una sacca da viaggio in cuoio ricamato del XVI secolo appartenente al barone Garriod, un abito di velluto blu ricamato in oro del XVIII secolo con sottoveste di seta bianca a maniche ricamate in oro e una veste da camera di stoffa di seta rossa da Gaetano Gattinelli per £ 1600, uno spillone d’oro proveniente da una tomba etrusca infine, per opera di Gamurrini, arrivano al Museo una moneta antica della famiglia Numitoria per completare la serie consolare del medagliere, una croce di foglia d’oro, un sigillo del sec. XIV appartenente alla sede episcopale di Fiesole. La croce proveniente dal Duomo di Fiesole è registrata nell’Inv. Oreficerie e smalti al n. 13. Per gli oggetti elencati la documentazione è conservata presso l’Archivio delle Gallerie di Firenze e l’Archivio Centrale dello Stato di Roma. 81 «Gli argenti del Secolo XV attribuiti al Cellini e alla sua scuola; gli smalti e i nielli e i bronzi famosi fra i più belli, e che oggi stanno col resto della argenteria moderna, nella sala da questa chiamata degli argenti; e quando potessi accogliere le maioliche antiche che sono nei magazzini del Guardaroba reale e alcune tra le più rare curiosità che si trovano nelle sale così dette, di Giovanni da San Giovanni» (ASGFi, 1871, Museo Nazionale, 3). 82 Cornici, ornamenti e altri elementi delle cantorie di Donatello e Della Robbia, i resti della porta della Badia, una statua in marmo del XIV secolo da Santa Maria Novella, un’iscrizione di Diocleziano incisa sul frammento di colonna reperito negli scavi in Via Por Santa Maria. Dalla Galleria l’Adone ferito di Vincenzo de’ Rossi, attribuito a Michelangelo, il Bacco di Michelangelo, il David di Donatello, assieme a tutti i bronzi e i marmi “moderni” (Campani 1884, p. 67-69). 83 Un vaso di bucchero da Palazzo Pitti, 10 armi e una moneta d’oro rinvenute durante l’essiccamento del lago di Bientina (la moneta è stata inventariata col n. 208, Le armi con i numeri 347-356, ASGFi, 1878, Museo Nazionale, 10) e dalla Galleria, nel 1879, una Croce processionale abissina di metallo (Campani 1884, p. 99 dice con incisione in etiopico; Inv. Oreficerie e smalti n. 22), una Pace a niello rappresentante la Crocifissione di Matteo di

62 | Barbara Bertelli

Giovanni Dei (Inv. Oreficerie e smalti 34), una Pace a smalto del sec. XV (Inv. Oreficerie e smalti 38) e dal Museo di Fisica e Storia Naturale giunsero tre quadri ad altorilievo in cera opera di Gaetano Zumbo (Campani 1884, p. 89). 84 Tra le opere donate figurano alcuni sigilli (donati da Cesare Guasti, Angiolo Fontebuoni e Pollastrelli), 4 ritratti in avorio (Basevi), un capitello di colonna (Vagnoville), ma spicca il piatto in terraglia verde donato nel 1871 da Alessandro Foresi: regalato dal Bey d’Egitto a Lorenzo il Magnifico, apparteneva alle Gallerie e fu venduto con altre porcellane medicee (ASGFi, 1871, Museo Nazionale, 7 e Campani 1884, p. 82). 85 L’opera, di Benedetto da Maiano, raffigura Ferdinando I d’Aragona incoronato dal cardinal Latino (inv. 83 S) e proveniva dall’Orto di Santa Caterina del Bigallo (ASGFi, 1870, Museo Nazionale, 5). 86 ASGFi, 1876, Museo Nazionale, 10. 87 Un resoconto bancario e alcune dichiarazioni (Archivio Toscanelli) fanno luce sulla vicenda: il Toscanelli pagò i servizi a lui offerti da un custode del Bargello e da Settimio Laschi, Luigi Grassini e Gaetano Bianchi che lo aiutarono nella mediazione con il collezionista inglese Durlacher, reale acquirente delle opere (Bertelli 2012, pp. 131, 151-152). 88 In questo periodo operano personaggi della levatura di Stefano Bardini, Frederick Stibbert, Herbert Percy Horne, la cui attività è nota grazie a numerosi contributi a essi dedicati. 89 ASGFi, 1880, Museo Nazionale, 21. 90 L’oggetto più ambito, il pastorale, completo di custodia in cuoio, appartenuto a Benci Aldobrandini, vescovo di Gubbio nel 1331, fu aggiudicato per 19740 franchi e oggi si trova al Victoria and Albert Museum di Londra. 91 Il governo provò a esercitare il diritto di prelazione ma, la disponibilità economica non fu sufficiente. L’articolo di Jarves si intitolava A florentine art sale. Antique ivories struck off at high figures. 92 ASGFi, 1881, Museo Nazionale, 24. 93 Cfr. ASGFi, 1884, Museo Nazionale, 3; ASGFi, 1883, Museo Nazionale, 30. 94 Con l’andare del tempo funzionari statali, probabilmente stanchi di assecondare questa astuzia dei collezionisti iniziarono a rispondere al proponente con un semplice rifiuto, privo di giustificazioni. La riprova che il rifiuto fosse l’obiettivo dei proponenti, sta nel fatto che alcuni di essi chiedono di avere un rifiuto motivato. 95 L’acquisto delle stoffe offerte da Vincenzo Beni sarebbe servito «per la collezione dei tessuti che si sta allestendo nella Galleria degli arazzi» (ASGFi, 1882, Museo Nazionale, 72). 96 AB, Corrispondenza 1883-1896, ins. 6, 1883, Pratica 6. Inv. Maioliche 184-186 (oggi inv. 24 R, 57 R, 538 S). 97 Inv. Maioliche nn. 187-189 (oggi inv. 59 R, 55 R, 19 R). 98 Vennero rimosse le nove armi in pietra dalla parete a bozze scoperte e poste sopra le finestre; sulla stessa parete vennero collocate l’Adorazione dei Magi proveniente da San Vivaldo, Santa Marta tra due angeli proveniente dall’ex convento di Santa Maria a Montaione, il Cristo nell’orto e la Samaritana al pozzo, già ricordati, i due medaglioni e il Noli me tangere provenienti dalla Regia Manifattura dei Tabacchi (ASGFi, 1885, Museo Nazionale, 5).

Un museo in divenire | 63

saggi

Camminare sui passi di Cristo Herbert L. Kessler

1. Bottega di Gabriel de Vallseca, Portolano (particolare), Maiorca, 1440 circa, Firenze, Biblioteca Nazionale Centrale, Portolano 16 (cat. 2)

Il Cristo è l’archetipo stesso del viaggiatore. Di ritorno dall’esilio in Egitto attraversò la Palestina, predicò il Vangelo e fece dei miracoli prima di entrare in Gerusalemme, dove ebbe inizio la sua Passione, fermandosi sulla via che lo condusse alla morte sul Golgota. Dio, fattosi uomo, continuò a viaggiare persino dopo la sua resurrezione, facendo visita ai suoi discepoli a Emmaus e a Betania prima di tornare alla destra del Padre nei Cieli1. L’idea di Cristo come primo vero pellegrino, deriva in effetti dalla traduzione nella Vulgata del viaggio a Emmaus (Luca 24,13-16), e questo momento viene raffigurato in modo assai vivace in una delle scene rappresentate nella parte inferiore della Croce dipinta che si trova nell’abbazia di Santa Maria a Rosano, vicino a Firenze, realizzata intorno al 11002. Secondo quanto si legge nella legenda, Cristo si manifesta ai discepoli come un pellegrino («Discipuli dominus apparuit ut peregrinus»), ed è infatti raffigurato a torso nudo, con copricapo da viandante, un bastone e una morbida sacca di cuoio al fianco, mentre conduce verso la città due suoi discepoli (fig. 2). Come nel coevo dramma liturgico, noto come Peregrinus, nel quale, durante la messa pasquale i preti mettono in scena l’incontro dei discepoli a Emmaus, il riferimento al viaggio rende accessibile al pubblico dell’epoca questo episodio biblico: in modo particolare ai pellegrini, come il committente della croce di Rosano che, di ritorno da un viaggio in Terra Santa al seguito della prima crociata (1096-1099), ripose dietro la testa del Cristo un oggetto in forma di croce, che aveva acquistato durante il viaggio sui passi di Gesù. Gli apostoli furono i primi a imitare il Cristo nei suoi spostamenti, percorrendo il mondo dopo la Pentecoste per predicare il suo Vangelo, convertire i non credenti e morire loro stessi da martiri. Una lampada in bronzo del 400 circa, conservata a Firenze al Museo Archeologico Nazionale, illustra la più importante di queste missioni apostoliche, rappresentando Pietro e Paolo mentre salgono su una piccola imbarcazione, simbolo della Chiesa3. I fedeli cristiani nel mondo sentivano il bisogno di raggiungere la Terra Santa per pregare sul suolo che era stato calpestato dal loro Dio incarnato4. Identificati dall’epoca di Costantino, i loca sancta vennero arricchiti di monumenti decorati con rappresentazioni di avvenimenti storici5, dove il clero celebrava rituali commemorativi, come testimoniò Egeria nel suo Itinerarium già alla fine del IV se-

Camminare sui passi di Cristo | 67

2. Crocifissione con scene della Passione (particolare), 1100 circa, Rosano (Firenze), abbazia di Santa Maria

colo6. Nei dieci anni che seguirono la conversione di Costantino al cristianesimo, Elena, la madre dell’imperatore, compì anche lei il viaggio in Palestina (326-328), ispezionò i monumenti commemorativi e rientrò a Roma con alcune reliquie, fra le quali la terra del Golgota e frammenti della Vera Croce, che collocò nella basilica di Santa Croce di Gerusalemme. Nel corso dei secoli, altri viaggiatori tornarono dal pellegrinaggio portando con sé dei souvenir più modesti, talora acquistati sul posto e trasportati in cofanetti, come quello del Sancta Sanctorum a Roma che, oltre a un frammento della Croce, contiene del legno proveniente dalla mangiatoia di Betlemme, dei sassi della montagna di Sion e altri frammenti dei loca sancta, disposti in forma di croce su della terra proveniente dal sepolcro di Cristo. Il cofanetto è corredato da cinque immagini che, come le cartoline dei nostri tempi, ricordano i luoghi sacri visitati dal suo primo proprietario.7 Un equivalente più modesto di questo cofanetto, il Reliquario di san Martino di Tost (cat. 32), dell’XI secolo, contiene un frammento della Vera Croce e del materiale proveniente dal sepolcro, ma anche pezzi di indumenti e di scarpe della Vergine, accompagnati da un certificato di autenticità8. Questi reliquari portatili, che assomigliavano agli astucci di medicinali che una 68 | Herbert L. Kessler

volta portavano con sé i medici, consentivano di trasportare le “medicine dell’anima” verso luoghi lontani, dove erano necessarie. Secondo Antonius Piacentius, pellegrino del VI secolo, la richiesta di reliquie era tale che bisognava continuamente riempire di terra il Santo Sepolcro affinché «coloro che vi entrano possano portarne via come benedizione»9. Forse proprio a causa di questa richiesta, molti viaggiatori portavano a casa dalla Terra Santa altri tipi di souvenir (come la croce di bronzo inserita nel crocifisso di Rosano): li custodivano nella loro borsa o sotto i vestiti, insieme a piccole ampolle – le ampullae – che portavano appese al collo, riempite d’olio proveniente dai loca sancta. A Bobbio o a Monza, per esempio,se ne conservano ancora molte10. Come il reliquario del Sancta Sanctorum, erano decorate con scene che evocavano i momenti importanti della storia di Cristo, ma anche i santuari nei quali questi avvenimenti continuavano a essere commemorati, per esempio la nicchia dell’altare della Natività o il recinto del Santo Sepolcro11. Inoltre la maggior parte di queste ampolle era decorata di croci e di oggetti apotropaici (anelli per esempio) per garantire la sicurezza dei viaggiatori. Tale funzione di amuleto può spiegare la scoperta di numerosi souvenir di pellegrini sepolti in luoghi molto lontani, come Bull Wharf, alla foce del Tamigi, 12 o nella Senna, probabilmente gettati come segno di ringraziamento da viaggiatori tornati sani e salvi in patria. Come testimonia in termini assai vivaci il monaco franco Bernard nel racconto del suo pellegrinaggio nell’867-87013, le conquiste mussulmane resero particolarmente difficile qualsiasi viaggio nei luoghi santi dopo il VII secolo: oltre alle difficoltà inerenti al viaggio, bisognava ottenere le autorizzazioni necessarie e negoziare gli accessi. Le successive crociate per liberare i loca sancta consentirono l’avvio di una nuova ondata di pellegrini nel XII secolo. Nel 1204, con una spettacolare deviazione, la quarta crociata passò da Costantinopoli, che ospitava da molto tempo importanti reliquie sacre: i crociati saccheggiarono in particolare la cappella imperiale di Faro14, da dove riportarono a Parigi la corona di spine, il sudario di Cristo e altre preziose reliquie. Fu così che Luigi IX (12141270) fece costruire la Sainte Chapelle per ospitarle in una nuova «Jérusalem sur Seine»15. Nel frattempo erano diventati importanti altri luoghi sostitutivi della Terra Santa, in particolare Roma16, considerata da molto tempo la «Urbs beata Hierusalem». Dopo il 1300, divenne persino destinazione di viaggi di gruppo, poiché le celebrazioni dell’anno del Giubileo concedevano numerose indulgenze ai pellegrini che arrivavano fino alla tomba del principe degli apostoli. A Gerusalemme divennero meta di pellegrinaggio chiese come Santo Stefano: si narra che di fronte alla tomba del protomartire Eudossia, figlia dell’imperatore Teodosio II, fu miracolosamente liberata da uno spirito maligno; la scena è descritta in un suggestivo dipinto oggi conservato a Barcellona (fig. 3). Anche altrove si partì alla ricerca delle tombe dei santi che avevano lasciato la Terra Santa ancora vivi e i cui corpi si erano miracolosamente salvati dai pagani. Il monaco franco Bernard, per esempio, non si accontentò di visitare i luoghi dove aveva vissuto Gesù. All’anCamminare sui passi di Cristo | 69

data si fermò a Roma e sulla tomba di san Bartolomeo a Benevento, e al ritorno fece una deviazione passando dal santuario di san Michele sul Gargano17. Anche Santiago de Compostela dove, secondo la leggenda medievale, era sepolto san Giacomo Maggiore, divenne un grande centro di pellegrinaggio, superato solo da Roma. E a Venezia, dove numerosi viaggiatori s’imbarcavano per la Terra Santa, la basilica di San Marco fu costruita per commemorare il salvataggio delle ossa dell’apostolo, sottratte ai saraceni sulla via dell’Egitto. I santi più recenti ebbero anch’essi il loro culto, come testimonia Geoffrey Chaucer nel XIV secolo, che riferisce i racconti di pellegrinaggi sulla tomba di Thomas Becket a Canterbury (cat. 17). Sul modello dei souvenir portati dalla Terra Santa, questi diversi luoghi di pellegrinaggio cominciarono a proporre le loro “insegne” (cat. nn. 14-18), come si può vedere sul pellegrino del quadro di Barcellona, il cui copricapo è ornato a festone con una medaglia di san Pietro, il bastone e le chiavi dell’apostolo, e la conchiglia emblema di Santiago de Compostela18. L’accumulo di queste insegne, come le etichette che nel futuro verranno incollate sulle valige, dimostrava che il pellegrino aveva viaggiato lontano, ma ciò non rappresentava una prova di pietà, come testimonia nel XIV secolo il poeta inglese William Langland, in un ritratto parodistico di un pellegrino che «portava sul cappello un centinaio di ampolle»19. L’accumulo di queste innumerevoli riproduzioni di segni sacri ebbe come effetto quello di rafforzare la credenza che se il divino si esprimeva sotto forme materiali, aveva anche un’esistenza al di fuori di ogni manifestazione fisica precisa20. Gli oggetti riassumevano la struttura del viaggio sacro, basato sulla convinzione che i santi, quantunque vissuti in epoche e luoghi differenti, dividevano una stessa santità, grazie al loro rapporto con il Dio fattosi uomo, che aveva anche lui camminato sulla terra. I pii viaggiatori collezionavano non solo dei souvenir impregnati dell’aura della santità, ma portavano anche doni che lasciavano sul posto, in cambio dei miracoli che speravano ottenere grazie al loro viaggio spirituale. Ceri, lampade in argento, busti, medaglie e altre offerte votive lasciate dal pellegrino, come se ne vedono sopra la tomba di santo Stefano nel quadro di Barcellona (fig. 3), ricordavano al pellegrino sofferente (e similmente a coloro che osservavano il quadro) i benefici che ci si poteva aspettare da un pellegrinaggio: nel dipinto, l’uomo con le ha probabilmente appena offerto la gamba d’argento che si riconosce nel fondo a destra, nella speranza di trovare un rimedio alla sua condizione. La nave ex-voto (di cui rimane un unico esemplare medievale, fig 3 a p. 79), legata verso sinistra con i suoi tre alberi a croce, allude sia alla speranza di ritornare sani e salvi al proprio paese, sia al viaggio più importante di cui i pellegrini vogliono assicurarsi il successo: quello che li condurrà nei cieli alla presenza di Cristo, il quale ha peregrinato anche lui dopo il suo soggiorno terrestre aspettando i suoi compagni di viaggio. La destinazione finale è presente sul coperchio del reliquario del Sancta Sanctorum, sulle ampolle di Monza e negli episodi che incorniciano il Salvatore sulla croce di Rosano, rifacendo il percorso di Cristo in continua ascesa, dalla sua nascita a Betlemme e dal suo battesimo nel Giordano 70 | Herbert L. Kessler

3. La principessa Eudossia davanti alla tomba di santo Stefano, anta del Paliotto di santo Stefano di Granollers, 1500 circa, Barcellona, Museu nacional d’art de Catalunya, inv. 024146-000

Camminare sui passi di Cristo | 71

4. Libretto devozionale, Germania (Colonia?), 1330 circa, Londra, Victoria and Albert Museum, inv. 11-1872

fino alla Crocifissione, alla Resurrezione e all’Ascensione. Precursori delle stazioni del cammino della croce, che appaiono nel XV secolo e sono ancora presenti nelle chiese odierne, le storie della vita di Cristo furono codificate alla fine del Medioevo negli arma Christi21. Tra le centinaia di opere che le raffigurano, si può ricordare anche un libretto devozionale in avorio dipinto, oggi conservato al Victoria and Albert Museum (fig. 4) realizzato per un monaco che probabilmente non avrebbe mai fatto il viaggio reale. Le scene, che cominciano con la condanna di Cristo da parte di Ponzio Pilato, consentono al monaco di compiere un viaggio virtuale22 e di seguire il percorso della Passione fino a una serie di immagini che la rappresentano: il martello e i chiodi, la benda e le monete d’argento, la lancia, i dadi, la veste, la scala, la canna, la frusta e il sepolcro stesso, fino alla Veronica, il panno di lino dove rimase impressa la traccia del viso del Salvatore mentre saliva al Golgota. Principale obiettivo dei pellegrini che si recavano a Roma, specialmente negli anni del Giubileo, e diventato un souvenir diffuso, l’impronta del volto di Cristo sul tessuto permetteva all’umanità di avvicinarsi a quel “faccia a faccia” con Dio promesso agli eletti il giorno del Giudizio finale23. Quando le ante del polittico eburneo sono aperte, le scene illustrano un racconto di viaggio che coinvolge lo spettatore in un pellegrinaggio mentale, portandolo a camminare, come i santi prima di lui, sui passi di Cristo, mentre le tracce insanguinate dei suoi piedi, delicatamente dipinte nella parte inferiore di un’anta, lo guidano sulla strada verso la resurrezione e la rinascita spirituale. 72 | Herbert L. Kessler

1

Nelle immagini in avorio dell’inizio del IV secolo a Monaco (Nationalmuseum), il Cristo cammina persino nel momento della sua Ascensione, scalando la montagna che lo porta in cielo; vedi Volbach 1976, pp. 79-80. 2 Ciatti, Frosinini, Bellucci 2007. 3 Lundy 1876. 4 La letteratura sui pellegrinaggi è molto ricca. Fra i lavori recenti citiamo Coleman, Elsner 1995; D’Onofrio 1999; Elsner, Rutherford 2005; Architecture and Pilgrimage 2013. 5 Halbwachs - Jaisson 2008. 6 Itineraria 1965; Egeria - Wilkinson 1981. 7 Reudenbach 2008, pp. 9-32; Krueger 2010, pp. 5-17 e 69-78. 8 Pujol i Tubau 1947-1951, I, pp. 345-348; Gros 1986, p. 99; J. Verdaguer, in El cel pintat 2008, pp. 75-79, cat. 77. 9 Itineraria 1965, pp. 127-174. 10 Grabar 1959; Elsner 1997, pp. 117-130; Vikan 2010. 11 Weitzmann 1974, pp. 31-55. 12 Andersson 1989, p. 127; Beuningen, Koldeweij, Kicken 2001. 13 Itinerarium 2010. 14 Lidov 2012, pp. 63-103. 15 Parigi 2001. 16 Ousterhout 2012, pp. 139-154. 17 Avril, Gaborit 1967, pp. 269-298. 18 Pullan 2013, pp. 59-85. 19 Langland - Schmidt 2011, Passus V. Questo poema allegorico e satirico è noto in francese con il titolo di Pierre le Laboureur. 20 Si veda il mio articolo Configuring the Invisible by Copying the Holy Face, in Kessler 2000, pp. 64-87. 21 Cooper, Denny-Brown 2014. 22 È interessante notare che uno dei primi racconti sui santuari in Terra Santa, il De locis sanctis di Adamnan, si presenta sotto forma non di una testimonianza visiva ma di souvenir raccontati da un pellegrino che aveva fatto naufragio; vedi Ousterhout 2012, p. 144. 23 Belting 2000/2007, pp. 247-276; Roma 2000.

Camminare sui passi di Cristo | 73

Percorrere i mari nel Medioevo Erich Rieth

Dall’Atlantico del Nord al Mediterraneo orientale, la storia della navigazione nel Medioevo è complessa. Si deve prendere in considerazione sia lo spazio del navigare, sia i tipi di imbarcazioni, le funzioni e le tecniche di navigazione, ma anche le ragioni del navigare e le condizioni molto diverse della vita a bordo. Fra queste varianti tematiche dell’universo dei viaggi per mare, tutte a loro volta ricche di storia, ce n’è una che costituisce un filo d’Arianna, cioè l’imbarcazione1 come «attore e testimone di storia» secondo la bella e idonea espressione dell’etnologo François Beaudoin2.

Imbarcazioni, ambienti e spazi nautici

1. Maestro della Mazarine e collaboratori, Naviganti nell’Oceano Indiano (particolare), da Il livre des Merveilles di Jean de Mandeville, 14101412, Parigi, Bibliothèque nationale de France, Ms. Français 2810, c. 188v

L’ambiente nautico, costiero e d’alto mare, rappresenta un fattore importante di personalizzazione delle imbarcazioni ma anche dei modi di navigare e, in una certa misura, dei modelli economici, nel senso ampio del termine, dei trasporti sull’acqua. A questo proposito, la cartografia nautica dell’Europa del Nord e dell’Europa del Sud, come definita da François Beaudoin3, è molto significativa per le particolarità ambientali. L’Europa del Nord si caratterizza innanzitutto per le maree, d’intensità più o meno elevata, che agiscono sulle modalità della navigazione costiera. Nelle zone dove le correnti alternate sono molto forti, come nel Mare del Nord e nella Manica, la navigazione a vela4 è in gran parte ritmata dai cicli quotidiani delle maree, avendo i marinai sempre avuto la tendenza a preferire la navigazione a vela, utilizzando la corrente di flusso e riflusso, secondo la rotta da seguire. La seconda caratteristica dell’Europa del Nord riguarda l’importanza e la densità dei grandi bacini fluviali che, dal Baltico all’Atlantico, punteggiano tutta la costa. Questi bacini costituiscono altrettante vie di penetrazione all’interno dei territori, favorite dalla corrente di flusso delle maree che talvolta consente alle imbarcazioni di risalire verso l’interno per varie decine di chilometri. All’interno di questo quadro ambientale che associa ambiente costiero, estuariale e fluviale, la navigazione è condotta spesso in modo continuo e complementare. Questo sistema produce due principali conseguenze: o un certo numero di porti sono ubicati sui bordi di un fiume a una certa distanza dal litorale5, o si è dovuto

Percorrere i mari nel Medioevo | 75

adattare l’architettura delle imbarcazioni a questo tipo fluviale-marittimo della navigazione. La grande famiglia delle navi medievali note con il nome di “cocche anseatiche” (koggen),6 che va dal tipo d’alto mare simile al relitto della cocca di Brema (Germania), risalente al 13807, al tipo costiero regionale illustrato dal relitto del cabotiere di Beutin, nella Canche (Pas-de-Calais), risalente al 142514268, è rivelatrice di questa necessaria relazione fra architettura navale e spazi nautici. Le acque dell’Europa del Sud presentano una fisionomia molto diversa. Le due principali caratteristiche sono l’assenza di maree o, più esattamente, di ampiezza di maree in grado di produrre correnti alterne di flusso e riflusso dagli effetti consistenti e, proporzionalmente alla lunghezza della costa mediterranea, il numero ridotto di grandi bacini fluviali con l’eccezione, sulla riva nord, del bacino del Reno e sulla riva sud di quello del Nilo. Una delle conseguenze di queste due caratteristiche è una netta discontinuità fra la navigazione marittima e quella fluviale. Tranne qualche caso, fra cui quello del Reno e del Po, le imbarcazioni di mare non risalgono i fiumi. Alla difficoltà di navigare in delta ingombrati da canali e da secche pericolose, si aggiungeva l’assenza di correnti propulsive di flusso rendendo ovviamente meno facile la risalita dei fiumi. Quindi, sono altri modelli economici di trasporto su acqua, altri tipi di architettura navale e, in senso più ampio, altre culture nautiche che personalizzano l’universo marittimo mediterraneo e che lo differenziano da quello dell’Europa nautica del Nord. Secondo la problematica storica elaborata dall’etno-archeologo svedese Christer Westerdahl delle «traditional zones of transport geography in relation to ship types»9, l’Europa nautica del Nord e l’Europa nautica del Sud sono pertanto molto diverse per quello che egli definisce con pertinenza «paesaggi culturali marittimi»10 di cui le imbarcazioni rappresentano uno dei vettori essenziali. Due esempi possono illustrare questi “paesaggi culturali marittimi” del Medioevo: quello dei Vichinghi e dello spazio nautico dell’Europa del Nord e quello, più ampio spazialmente e storicamente, dell’Europa mediterranea.

Navigare ai tempi dei Vichinghi fra l’800 e il 1100 L’architettura navale dell’epoca vichinga è quella a fasciame sovrapposto (clinker). Senza eccezione, le imbarcazioni a clinker scandinave si individuano per uno scafo lungo e basso le cui tavole (il fasciame sovrapposto) sono parzialmente sovrapposte, come le tegole o le ardesie di un tetto. Delle file di chiodi di ferro assemblano le tavole, creando una specie di contenitore omogeneo di legno, detto portante, all’interno del quale si trova l’ossatura trasversale costituita da costole. Questa architettura a fasciame sovrapposto consente la costruzione di imbarcazioni relativamente leggere anche quando la loro lunghezza supera i 30 metri, leggerezza che consente un pescaggio ridotto dello scafo, facilitando la navigazione lungo le coste e sui fiumi, e la possibilità di tirare le imbarcazioni in secco facendole scivolare su percorsi dotati di rulli. 76 | Erich Rieth

Questa autentica «filosofia della costruzione navale»11 della cultura nautica dell’epoca vichinga e medievale scandinava e, inoltre, della cultura nautica tradizionale delle coste danesi, svedesi e norvegesi, non si è fossilizzata ma si è evoluta fra il IX e il XII secolo per quel che riguarda per esempio le tecniche di assemblaggio del fasciame sovrapposto alle costole o quello, molto più fondamentale per il sistema della navigazione, dei tipi e delle funzioni delle imbarcazioni. Fino alla fine del IX e agli inizi del X secolo, il tipo dominante d’imbarcazione vichinga è un veliero misto, attrezzato con molti remi che passano attraverso i sabordi intagliati nella parte alta delle fiancate. Così configurate, le imbarcazioni hanno una capacità di carico ridotta a qualche tonnellata, poiché la maggior parte del peso e del volume è quello degli uomini, marinai, rematori e combattenti compresi. Il tipico modello di questa categoria di velieri misti è la nave-sepoltura di Gokstand (Norvegia)12 risalente all’895, riutilizzata come sepoltura nel 900905, una replica della quale attraversò nel 1892 l’Atlantico del Nord dimostrando così le sue notevoli capacità nautiche. Dopo un periodo di esplorazione, di conquista e di espansione, comincia una seconda fase consacrata allo sfruttamento dei nuovi territori che portò a una specializzazione funzionale delle imbarcazioni, alcune destinate a operazioni militari, altre a imprese civili di commercio, trasporto e pesca. Quelle del primo tipo sono equipaggiate con remi su tutta la lunghezza dello scafo e mantengono il carattere misto di propulsione, mentre quelle del secondo tipo sono innanzitutto dei velieri armati con una vela quadrata e la maggior parte dello scafo è riservata al carico, alle attrezzature da pesca, ecc. In ambedue i tipi, la navigazione si divide fra navigazione costiera e navigazione d’alto mare, dove per molti giorni l’imbarcazione naviga in mare aperto senza orizzonte terrestre. A ciascun tipo di navigazione corrispondono modelli d’imbarcazioni e tecniche di navigazione particolari. Nell’ambito della navigazione costiera, di tipo non strumentale13, le tecniche poggiano durante il giorno sull’identificazione di punti cospicui a terra14, sulla conoscenza dei venti e delle correnti, sull’osservazione di segnali come la presenza di uccelli, l’esistenza di nuvole all’orizzonte o ancora il colore del cielo, del mare, la direzione delle correnti, l’orientamento delle onde ecc., tutti segnali che rimandano a una specie di “cartografia nautica mentale”. Di notte, l’esame delle costellazioni fornisce l’unico riferimento e, di giorno come di notte, lo scandaglio è il solo strumento di cui dispongono i naviganti. Il problema si pone in termini molto diversi nel contesto di una navigazione d’alto mare come, per esempio, il collegamento su più di 2500 chilometri fra la Norvegia15 e una delle due colonie della Groenlandia dove, fra l’XI e la metà del XIV secolo hanno vissuto, nell’epoca culminante della colonizzazione, più di quattromila scandinavi. Le saghe del XIII e XIV secolo come la Saga di san Olaf o il Libro della colonizzazione forniscono una specie di “istruzioni nautiche pratiche” consentendo, per esempio, di collegare la Norvegia all’arcipelago delle Shetland, poi all’Islanda e infine alla Groenlandia. Sebbene questa navigazione d’alto mare Percorrere i mari nel Medioevo | 77

2. Il conte di Warwick si fa legare insieme alla famiglia all’albero maestro del suo vascello per rimanere uniti in caso di naufragio, dal Beauchamp Pageants, 1485 circa, Londra, The British Library, Cotton Julius E.IV, art. 6, c. 25 b

nelle acque spesso difficili e brumose dell’Atlantico del Nord sia una navigazione su una latitudine16 più o meno costante, bisogna tuttavia poter navigare mantenendo la stessa rotta per rimanere allo stesso grado di latitudine. Uno “strumento” che permetteva di risolvere questa difficoltà potrebbe essere stato scoperto nel 1948 in Groenlandia nel sito archeologico vichingo del fiordo Unartoq dell’XI secolo. Si tratta di un semicerchio in legno suddiviso in una serie di archi uguali che è stato interpretato come una possibile bussola solare che indicava la traiettoria del sole agli equinozi di primavera e d’autunno e al solstizio d’estate17. 78 | Erich Rieth

Navigare nel Mediterraneo durante gli ultimi secoli del Medioevo La “filosofia della costruzione navale” delle imbarcazioni mediterranee medievali è invece all’opposto di quella delle imbarcazioni dell’Europa scandinava. Si tratta di architettura a fasciame “a paro” su “ossatura principale” le cui prime testimonianze archeologiche indicano una cronologia compresa fra l’inizio del VI e l’XI secolo. In questa architettura le tavole del fasciame dello scafo, senza legamento, sono disposte bordo contro bordo (cioè a fasciame “a paro”) e formano un contenitore “liscio”. Le imbarcazioni a fasciame “a paro” su “ossatura principale” sono concepite seguendo una prospettiva trasversale che si traduce, contrariamente all’architettura a clinker, in una costruzione che inizia, dopo la realizzazione dell’ossatura longitudinale (chiglia, prua, telaio di poppa), con l’applicazione della ossatura trasversale, poi con l’innalzamento delle tavole del fasciame che vengono direttamente innestate all’ossatura. Quest’altra “filosofia della costruzione navale”, contrassegnata fra altre specificità da un vocabolario caratteristico dello spazio mediterraneo18, si esprime anche per tipi di imbarcazioni, per forma dello scafo, per attrezzature (la vela latina triangolare coesistente, a partire dal XIX secolo, con la vela quadrata reintrodotta o presunta tale), per sistemi di timoni (i doppi timoni laterali, poi, a partire dall’inizio del XIV secolo, l’introduzione del timone di poppa19 detto “alla bayonnesca” coesistente fino alla fine del XV secolo con i doppi timoni laterali), assenti dai cantieri navali dell’Europa nautica del Nord. Sebbene si ritrovino nel Mediterraneo le stesse grandi categorie funzionali dell’Europa del Nord con, da una parte, gli armamenti militari rappresentati essenzialmente dai diversi modelli di imbarcazioni della famiglia delle galere e, dall’altra parte, gli armamenti per il commercio, per il trasporto di uomini e per la pesca – per le quali vengono utilizzati soprattutto i velieri ma dove le unità della famiglia delle galere non sono totalmente assenti –, tuttavia il paesaggio dell’architettura navale mediterranea non si confonde in alcun momento con quello dell’universo nordico. Un’altra differenza degna di nota riguarda la capacità di carico delle imbarcazioni mercantili che, per le più capienti, può raggiungere le 300 o 400 tonnellate o addirittura di più in qualche caso eccezionale. Sebbene tali capacità di carico non rappresentino assolutamente la maggioranza dei casi, sono tuttavia ben attestate fra gli armamenti delle grandi città marittime come Barcellona, Marsiglia, Genova, Venezia o anche Ragusa (oggi Dubrovnik). Una conferma archeologica sicuramente tardiva, risalente all’inizio del XVI secolo, ma molto rappresentativa delle ultime generazioni di navi medievali, è il relitto di Villefranche-sur-Mer (Alpes-Maritimes), la presunta Lomellina genovese colata a picco nel 1516 a causa di una tempesta20. Qualche cifra basta a comporre un ritratto di questa imbarcazione ben diversa dai knorrs dell’epoca vichinga lunghi una ventina di metri: 33,38 metri di lunghezza della chiglia, 46,50 metri di lunghezza totale, 14 metri di larghezza al quinto maestro, 4,4 metri di incavo, 825 tonnellate circa di capacità di carico (stimata). A queste imponenti dimensioni si aggiungono le sistemazioni interne

3. Ex-voto: modello di un’imbarcazione, Mataró (Barcellona), XV secolo, Rotterdam, Maritiem Museum

Percorrere i mari nel Medioevo | 79

che comprendono un ponte inferiore, un ponte principale, castelli di prua e di poppa. Forse è nell’interponte che l’equipaggio, ma anche i soldati e i passeggeri, talvolta da cento a centocinquanta persone, coabitavano, mangiavano, bevevano, si riparavano dal freddo, dal caldo, dall’umidità, dormivano, si dividevano per settimane uno spazio di vita ridotto a uno o due metri quadrati ciascuno, cioè poco più della superficie di vita utilizzata da un uomo a bordo di uno knorr vichingo. Sebbene la navigazione lungo le coste del Mediterraneo si servisse di pratiche non strumentali, fondamentalmente non tanto diverse da quelle in uso nell’Europa del Nord in epoca vichinga, e nelle quali la “cartografia nautica mentale” aveva un posto importante, la navigazione al largo, in compenso, si serviva, a partire dal XII secolo, di tecniche strumentali in sostanza ignorate in Europa del Nord fino al XV secolo, addirittura fino all’inizio del XVI secolo. La prima strumentazione, adottata in Occidente probabilmente grazie ai naviganti arabi, è la bussola magnetica21 che indica il nord magnetico. Essa offre la possibilità di seguire una rotta definita senza riferimenti a terra, di giorno e di notte, con bel tempo o con tempo coperto e visibilità ridotta. Il secondo “strumento nautico” caratteristico del mediterraneo medievale è il portolano che, basato su saperi tradizionali trasmessi oralmente, è una traduzione di tipo cartografico che rappresenta la linea litoranea, localizzando i porti e gli ormeggi principali, indicando le rotte da seguire in funzione delle linee dei quarti di vento. Con l’aiuto della bussola magnetica e, a partire dal XIII secolo, della clessidra, terzo strumento di navigazione, i portolani integrati da carte nautiche con istruzioni pratiche, come Il compasso da navigare testo anonimo risalente agli anni intorno al 1230 (Berlino, Staatsbibliothek, cod. Hamilton 396), aprono la via alla navigazione stimata dove, senza vedere le coste, l’imbarcazione può seguire una rotta controllata e il pilota rispondere alle domande che ogni navigante ieri come oggi si pone: qual è la mia posizione rispetto al mio punto di partenza? Dove mi sto dirigendo? Qual è la rotta da seguire per giungere al mio punto d’arrivo? Quanti giorni mi restano prima di arrivare a destinazione?

Arrivare a destinazione Sebbene nel Medioevo i viaggi nell’Atlantico del Nord e nel Mediterraneo provengano da culture nautiche ben distinte, sia a livello di imbarcazioni che di tecniche di navigazione, tutti i marinai del Medioevo, come quelli di oggi, condividono una dimensione comune: una necessaria e profonda conoscenza del mare perché conduca in porto con successo uomini e carichi.

1

Questa scelta non è estranea all’ambito della nostra ricerca che s’interessa all’archeologia nautica medievale. 2 François Beaudoin (1929-2013), fondatore del museo della Batellerie di ConflansSainte-Honorine, ha giocato un ruolo fondamentale nel rinnovarsi nella Francia degli anni

80 | Erich Rieth

Settanta del Novecento delle ricerche etnografiche sulle imbarcazioni marittime e sulla navigazione interna come oggetto di storia e di patrimonio. 3 Beaudoin 1994, pp. 1-13, in particolare pp. 12-13. 4 Le imbarcazioni a remi e raggruppate sotto il nome generico di galere, siano esse destinate alla guerra o al commercio, sono sempre dotate di attrezzatura e navigano per la maggior parte del tempo a vela tranne che in fase di manovra o quando si tratta di galere per la guerra in fase di operazioni. 5 Questa categoria di porti viene qualificata come porti marittimi “a monte di fiume” (upstream on a river) nella tipologia delle città marittime dell’Europa del Nord stabilita da Jan Bill (Bill 1999, p. 254), come per esempio in Francia il grande porto di Rouen sulla Senna o uno piccolo come Montreuil-sur-Mer sulla Canche. 6 Simboli dell’Ansa e presenti sui sigilli delle città portuali anseatiche, le cocche non sono tuttavia solo imbarcazioni da guerra. 7 Si tratta della data probabile della costruzione dell’imbarcazione come testimoniano i risultati delle analisi dendrocronologiche. All’interno di una notevole bibliografia, si veda Kiedel, Schall 1992. 8 Come nel caso del relitto della cocca di Brema, si tratta della data probabile di costruzione dell’imbarcazione. Si veda Rieth 2013. 9 Westerdahl 1995, pp. 213-230. 10 Westerdahl 1992, pp. 5-14. 11 In riferimento al titolo dell’opera pubblicata in omaggio a J. Richard Steffy, uno dei migliori specialisti della ricostruzione architettonica dei relitti e della loro interpretazione storica. Si veda Hocker, Ward 2004. 12 Nicolaysen 1882. 13 Secondo la tipologia di Joseph Needham, il quale ritiene che lo sviluppo delle tecniche di navigazione si è realizzata in tre fasi: fase non strumentale, fase strumentale, fase matematica. Si veda McGrail 1998, pp. 263-264. 14 Un’illustrazione di questa tecnica ci è offerta in una delle scene della tappezzeria di Bayeux (scena V) 15 Le 360 miglia (circa 2518 chilometri) fra Utvær (Norvegia) e il capo Discord (Groenlandia). 16 Fase strumentale (2) della tipologia di Joseph Needham. 17 Una linea diritta serve da riferimento per la prima traiettoria e una curva iperbolica per la seconda. 18 I bagli sono chiamati madieri, le ordinate staminali, i maestri alberi. 19 Questo tipo di timone assiale, detto “timone bayonnesco”, equipaggiava le imbarcazioni del golfo di Biscaglia 20 Guérout, Rieth, Gassend 1999. 21 La prima descrizione nota dell’uso di un ago magnetizzato all’interno di un recipiente riempito d’acqua che indica il nord magnetico, è attribuita ad Alexandre Neckan (11571217), autore di Ustensilibus redatto intorno all’anno 1180.

Percorrere i mari nel Medioevo | 81

Viaggi d’artisti, vie dell’arte tra Spagna, Francia e Fiandre Joan Domenge e Rafael Cornudella

Dal viaggio documentato al viaggio inventato

1. Lluis Dalmau, Vergine dei Consiglieri (particolare), 1443-1445, Barcellona, Museu Nacional d’art de Catalunya, inv. 015938-000

Gli artisti viaggiatori, insieme alla circolazione delle opere e dei libri di modelli, sono i grandi traghettatori della creazione artistica. Essi diffondono forme, iconografie e tecniche, e possono essere la fonte del rinnovamento artistico di fronte alle resistenze ancorate alla tradizione1. Tuttavia le prove evidenti che riguardano gli spostamenti di artisti cambiano molto secondo i periodi della lunga media aetas. Prima del XIV secolo i documenti sono rari, in seguito diventano sempre più abbondanti e ricchi, in modo da consentire talvolta di conoscere le ragioni e le circostanze che accompagnano il viaggio. I documenti che consentono di verificare l’importanza degli spostamenti durante epoche anteriori sono rari. Le firme di «Wolvinius magister faber» sull’altare d’oro di Sant’Ambrogio a Milano (verso l’840) o di «Engelram magistro et Redolfo filio» su una placchetta d’avorio del reliquiario di San Millán de la Cogolla (verso il 1067-1080, San Pietroburgo, Ermitage), suggeriscono, per esempio, l’insediamento di artisti di origine germanica rispettivamente in Lombardia e nel nord della penisola iberica. Le iscrizioni presenti su varie opere dell’orefice Nicolas de Verdun (Klosterneuburg, Tournai e Worms) consentono di avere un’idea dell’influenza che ebbe l’ampio itinerario in Europa centrale di questo grande rappresentante dello “stile 1200”. Quando manca la documentazione scritta, le opere consentono di immaginare possibili viaggi. Il fatto di ritrovare lo stesso stile, iconografie o tecniche in luoghi diversi ha lasciato spesso supporre che ciò dipendesse dal carattere itinerante di qualche artista. Se ne deduce così un viaggio senza averne alcuna prova documentaria. Risulta emblematico il caso particolare del maestro di Cabestany, scultore della metà del XII secolo, il quale lascia un insieme di opere d’arte dalle evidenti similitudini stilistiche in Catalogna, Linguadoca e Navarra, ma anche molto più lontano, in Toscana (fig. 2). Le ipotesi sugli itinerari degli artisti sono tuttavia rischiose. Per spiegare l’influenza di Jan van Eyck e l’adozione della tecnica della pittura a olio in Italia, Vasari (1550) “inventa” un improbabile incontro a Bruges fra Antonello da Messina e il maestro fiammingo, durante il quale quest’ultimo gli avrebbe comunicato i suoi segreti. Ipotesi speculative come quella del Vasari sono ancora oggi spesso avanzate, senza grande fondamento.

Viaggi d’artisti, vie dell’arte | 83

Grandi correnti lunghe distanze Pensando alle grandi rotte e ai viaggi su lunghe distanze, bisogna obbligatoriamente fare riferimento agli scambi che si produssero fra l’Oriente e l’Occidente cristiani2. L’infusso della cultura bizantina s’intensificò, per esempio, durante la lotta fra iconoclasti e iconolatri dell’impero d’Oriente. Le persecuzioni e la mancanza di committenze suscitarono una diaspora di artisti greci che si rifugiarono a ponente, specialmente in Italia. Quando, più tardi, la Sicilia fu occupata dai normanni (1071-1198), questi, sedotti dal prestigio di Bisanzio, fecero realizzare da artisti greci i grandi mosaici di Palermo e di Cefalù. Inoltre, i rapporti politici e dinastici dei re siculo-normanni favorirono in Inghilterra la diffusione di questo linguaggio figurativo che influenzò sia la miniatura che la pittura murale. A sua volta la politica di alleanze di Enrico II d’Inghilterra favorì la nascita di nuovi circuiti e di grandi spostamenti: basti pensare al modo in cui la pittura inglese, con il suo bizantinismo derivante dai modelli siciliani, ha lasciato tracce anche nel sud dei Pirenei, nello spettacolare ciclo murale di Sigena (Barcellona, Museu Nacional d’art de Catalunya)3. In un simile contesto storico, le crociate stimolarono i contatti artistici fra Occidente e Oriente. I territori occupati dai crociati – Palestina, Siria, Cipro o la stessa Costantinopoli, sotto dominazione “latina” fra il 1204 e il 1261 – divennero nuovi luoghi favorevoli agli scambi artistici. Secondo il ruolo che la storiografia ha loro tradizionalmente attribuito in rapporto all’arte romanica, le strade per Santiago di Compostela sarebbero state delle arterie lungo le quali si sarebbero sviluppate una nuova architettura – centrata sul tipo della “chiesa di pellegrinaggio” – e una nuova scultura monumentale4. Malgrado i limiti di questo modello, ci sono prove stilistiche del viaggio degli scultori lungo tutto il cammino di Santiago. Un presunto maestro di Frómista si sarebbe spostato a Palencia e Jaca, dove avrebbe ricostituito il suo atelier; il suo caratteristico stile scultoreo si ritrova in seguito a Loarre, Tolosa, Leon e Santiago, possibili tappe della sua bottega o di uno dei suoi membri5. Non sorprende che regioni o centri innovatori siano i più grandi esportatori di artisti, poiché le novità nascono generalmente là dove esiste una tradizione professionale potente e costante. Così a partire dalla rivoluzione pittorica iniziata da Giotto verso il 1300, i centri principali della Toscana, Firenze e Siena, e Roma in misura minore, esportano il nuovo paradigma anche in altri luoghi d’Italia e in Europa occidentale e centrale. Filippo il Bello invia il suo pittore Étienne d’Auxerre a Roma nel 1298, e qualche anno dopo (1308-1309) lavorano per lui tre pittori romani, fra cui Filippo Rusuti. Il dialogo fra la pittura gotica francese e la pittura italiana del Trecento si trova, da questo momento, al centro dello sviluppo della pittura europea. È anche vero che, malgrado il dinamismo della pittura parigina, la sua capacità di esportare talenti e stili si attenua verso la metà del XIV secolo. Ma alla fine del secolo, i territori del Nord della Francia e degli antichi Paesi Bassi inviano pittori non solo verso regioni e metropoli vicine, come a Parigi o in Inghilterra, 84 | Joan Domenge e Rafael Cornudella

2. Maestro di Cabestany, Daniele nella fossa dei leoni, seconda metà del XII secolo, Sant’Antimo (Siena), abbazia

ma anche verso territori più lontani e meridionali. Questo flusso nord-sud persistette durante i secoli seguenti6. La migrazione di grandi e piccoli maestri verso il sud consentì la nascita di fenomeni appassionanti come la fioritura pittorica avignonese e provenzale del XV secolo, con artisti come Barthélemy d’Eyck, Enguerrand Quarton o di Nicolas Froment7. Intorno al 1500, gli itinerari iberici di Jean de Flandres, Michel Sittow o Ayne Bru furono altrettanto importanti. Viaggi d’artisti, vie dell’arte | 85

Motivazioni personali o iniziative dei committenti? Perché un artista viaggia? Cosa lo spinge a lasciare il luogo di formazione o di attività abituali? Può senz’altro farlo di propria iniziativa assumendosi, in quel caso, i rischi che ne derivano. L’artista può partire per ragioni diverse, come inquietudini o motivazioni personali – compreso un certo spirito d’avventura –, la volontà di migliorare la sua situazione finanziaria e le sue condizioni di lavoro o il desiderio di imparare e di vivere nuove esperienze. Per riconoscere questi diversi casi bisognerebbe avere testimonianze dirette, ma per quel che riguarda i secoli passati non c’è nulla di simile al Diario di viaggio nei Paesi Bassi di Albrecht Dürer (1520-1521)8. In generale, ignoriamo anche come un maestro di allora scegliesse la sua destinazione, come s’informasse sui centri più aggiornati e sui mercati artistici più promettenti, nel caso in cui avesse cercato nuove opportunità. Gli archivi offrono maggiori dettagli sui viaggi che venivano fatti su incarico di un committente. Quando si dava inizio a un’opera ambiziosa, un re, un abate, un vescovo, un capitolo di cattedrale o un consiglio municipale potevano cercare maestri stranieri di prestigio che si fossero distinti per la novità delle loro creazioni, per aver introdotto tecniche sconosciute o poco comuni, o semplicemente per la loro fama. Per esempio, la diffusione della nuova tecnica dello smalto traslucido, inventata nelle botteghe senesi alla fine del XIII secolo, derivò in gran parte dall’esperienza diretta di maestri stranieri a Siena o dall’installazione di senesi nelle città che accolsero con entusiasmo i nuovi smalti. Non dimentichiamoci della presenza di senesi alla curia di Avignone o alla corte di Giacomo II d’Aragona (Tuxto di Senis, 1313-1323). Benché i regni cristiani ispanici abbiano ospitato più che esportato artisti, possiamo tuttavia citare il caso dei saraceni Giovanni di Valenza e Giovanni di Gerona, specializzati nel lavorare piastrelle di maiolica dipinte, che Giovanni I re d’Aragona prestò a suo “zio” Giovanni di Francia, duca di Berry. Questa attività si radicò a Bourges e a Poitiers per realizzare i progetti architettonici del duca. Anche altre città, come Digione, ne beneficiarono: è il caso di Giovanni di Gerona, ceduto nel 1383 da Giovanni de Berry a suo fratello, il duca di Borgogna. I monarchi aragonesi reclutavano molto più di frequente artisti nordici, persino “alla fonte”, come aveva cercato di fare quello stesso Giovanni I con il pittore fiammingo Jacques Coene, residente a Parigi, che gli era stato raccomandato da tre ricamatori del Brabante già al suo servizio a Barcellona9. Proprio come si reclutavano ricamatori stranieri, così in Catalogna, dove non c’era una solida tradizione professionale nel campo delle vetrate dipinte, bisognava far venire i maestri dalla Francia: il normanno Guillem Latungard, originario di Coutances, Joan de Sant Amat e Colí de Maraya (Maraye-en-Othe) sono solo alcuni dei maestri vetrai attestati in Catalogna. Far viaggiare gli artisti in luoghi dove, secondo i committenti, potevano prendere idee e modelli, rappresentava un’altra buona motivazione al viaggio. Così nel 1345 il maestro Bernat d’Alguaire fu inviato dal vescovo e dal capitolo di Tor86 | Joan Domenge e Rafael Cornudella

3. Albrecht Dürer, Il Cavaliere, la Morte e il Diavolo, 1513, Parigi, Bibliothèque nationale de France, Département des Estampes et de la Photographie, Réserve AC-296 (3), boite Fol

tosa ad Avignone «e in numerosi altri luoghi» non specificati, per vedere alcune opere e farne «disegni e copie» che dovevano servire per la nuova cattedrale da edificare. Alla fine del secolo il vescovo e il capitolo di Barcellona inviavano lo scultore Pere Sanglada a Gerona, Elne, Narbona, Carcassonne e in altri luoghi per studiarvi gli stalli del coro, «per riprodurre le forme dei cori più belli e più solenni». In seguito, fu persino inviato a Bruges per comprare il legno di quercia con il quale si doveva intagliare il coro10. Se da una parte i rapporti politici o dinastici spiegano molti spostamenti degli artisti, dall’altra i conflitti rappresentano il rovescio della medaglia, poiché potevano limitare o rendere impossibili certi percorsi. Nell’Italia del XIII e del Viaggi d’artisti, vie dell’arte | 87

XIV secolo il conflitto fra guelfi e ghibellini, rispettivamente partigiani del papa e dell’imperatore, ebbe precise conseguenze sulla mobilità degli artisti. Dopo una spettacolare carriera al servizio di rappresentanti della fazione guelfa, alla fine della sua vita Giotto va al nord per servire il signore di Milano, Azzone Visconti, uno dei capi del partito ghibellino e fino a quel momento nemico giurato di Firenze. Tuttavia questa anomalia si spiega con il recente capovolgimento di alleanze di Azzone e di altri signori del nord che avevano rotto con il re Giovanni di Boemia per firmare un accordo con Firenze. È nell’ambito di questo patto inatteso che il comune di Firenze inviò Giotto a Milano dove dipinse una «gloria mondana» nel nuovo palazzo di Azzone. I servizi resi da Giotto erano dunque un “regalo” diplomatico di Firenze al signore di Milano11. Quanto a Jan van Eyck, è un caso eccezionale. Oltre ai suoi impegni come ritrattista di corte, è possibile che abbia svolto altri ruoli quando, su ordine del duca di Borgogna Filippo il Buono, compì pellegrinaggi e viaggi “lontani” e “segreti”. È davvero andato, come lo si è immaginato, in Terra Santa passando dall’Italia? Sebbene sembri impossibile che il pittore abbia fatto parte dell’ambasciata che si recò a Valenza nel 1427, oggi sappiamo che ve ne era stata un’altra l’anno precedente, alla quale non si può escludere che abbia partecipato. In ogni modo, Jan van Eyck partecipò all’ambasciata che nel 1428 andò in Portogallo per negoziare le nozze di Filippo il Buono con l’infanta Isabella. Nel febbraio del 1429, dipinse ad Aviz un ritratto dell’infanta che fu mandato al duca.

L’artista girovago Nella prima metà del XV secolo ci è possibile seguire, con l’aiuto dei documenti, il viaggio del mastro scalpellino Pere Gelopa, originario della Ferté-Milon. Potrebbe trattarsi di un muratore formatosi sul cantiere del castello che Luigi d’Orléans fece costruire nel 1398 e che, essendosi interrotta la sua realizzazione in seguito all’assassinio del duca (1407), dovette cercare fortuna altrove, e si recò nel Midi. Troviamo tracce del suo passaggio nei documenti che lo individuano a Perpignan nel 1411, come aiuto del valenzano Pere Torregrossa, in un contesto professionale nel quale convergono Guillem Sagrera, originario di Maiorca, Joan de Liho di Bruxelles e il normanno Rotllí Gauthier. Gelopa segue il suo maestro a Barcellona, dove eseguono lavori di scultura in una cappella del chiostro della cattedrale (1411). In seguito Torregrossa si reca a Valenza mentre il suo discepolo intraprende un lungo e interessante percorso: lavora al palazzo d’Olite (1413-1414) del re di Navarra Carlo il Nobile, e poco dopo la sua attività si espande in terra aragonese, a Daroca (1417) al servizio del maestro Isambart, un altro muratore itinerante del nord. Più tardi esegue un intervento in una cappella della cattedrale di Saragozza e viene menzionato in qualità di maestro e capocantiere della cattedrale di Huesca, a conferma della sua ascesa professionale. Le ultime tappe del suo viaggio lo conducono in terra di Castiglia, a Toledo (1435) e Palencia (a partire dal 1443)12. 88 | Joan Domenge e Rafael Cornudella

Le sfide della mobilità In che modo un artista affronta le esigenze personali e professionali in una città straniera? Quali strategie usa per integrarsi in un nuovo ambiente? Possiamo intuire che le sfide erano di natura diversa a seconda che l’artista viaggiasse per conto proprio, che vi fosse stato spinto da un committente o che una volta arrivato a destinazione avesse rapidamente conquistato la fiducia di qualche importante cliente. Vari esempi testimoniano degli aiuti offerti da Alfonso il Magnanimo ad alcuni maestri, soprattutto quando li faceva viaggiare su suo incarico, come nel caso dell’orefice francese Rigaut Saunier per il quale nel 1418 venne sistemata una casa all’interno del palazzo dell’Aljafería di Saragozza, e del ricamatore italiano Conti del Castell per il quale fu affittata una casa a fianco del palazzo reale di Valenza allo scopo di installarvi la sua bottega13. Gli artisti che viaggiavano sotto protezione dei principi potevano dunque beneficiare di speciali condizioni. Nel 1431 Alfonso il Magnanimo inviò nelle Fiandre il suo pittore di corte, Lluís Dalmau. Dai documenti si deduce che fece il viaggio in compagnia di un maestro

4. Lluis Dalmau, Vergine dei Consiglieri, 1443-1445, Barcellona, Museu Nacional d’art de Catalunya, inv. 015938-000

Viaggi d’artisti, vie dell’arte | 89

tessitore di Arras, all’epoca al servizio del re d’Aragona Guillaume au Vaissel, ed è dunque probabile che costui abbia introdotto il pittore valenzano nell’ambiente artistico fiammingo. In ogni modo il paliotto che dipinse in seguito per i consiglieri di Barcellona (1443-1445) suggerisce che Dalmau ebbe accesso alla bottega di Jan van Eyck a Bruges, dove viveva una importante colonia di mercanti catalani, con un loro consolato14 (fig. 4). La situazione doveva essere ben diversa per l’artista itinerante che arrivava senza “protettore”, anche se le città, che non avevano maestri specializzati in certe attività, accordavano facilmente il diritto di cittadinanza. Dopo la regolarizzazione, bisognava sistemarsi e disporre di una bottega ben rifornita. Perciò poteva essere d’aiuto mettersi in società o allearsi con un maestro locale per condividere la bottega, i materiali e gli strumenti di lavoro. Così fece il pittore savoiardo Pere Nisard quando s’installò a Maiorca. Associatosi a Rafel Mòger, stipularono insieme il contratto riguardante il paliotto di san Giorgio per la confraternita dei cavalieri (1468). L’associarsi di maestri stranieri con mercanti locali poteva anche risultare una efficace strategia per garantire la vendita dei prodotti. I consigli municipali, desiderosi di stimolare la nascita di qualche “attività”, potevano attirare e facilitare, con condizioni vantaggiose, la permanenza di alcuni artefici. Verso il 1440 tre maestri tappezzieri o di “drap de ras”15 (Tomàs e Jacquet de la Lebra, e Joan Falsison) propongono, in cambio di un aiuto finanziario, di aprire una bottega a Barcellona per insegnare la loro arte ai maestri locali. Tuttavia Falsison partì in seguito «con sua moglie e tutta la sua famiglia» verso il sud e installò la sua bottega nella città di Tortosa in cambio di una pensione annuale. Dal momento che la municipalità considerava l’attività di questo maestro molto benefica per il prestigio della città, aderì alle richieste di Falsison allo scopo di sviluppare questa attività. Nel 1450 gli anticiparono due anni di salario affinché «dei bravi operai capaci e molto esperti in questo mestiere» s’installassero nel suo atelier, oltre ai quattro collaboratori che già lavoravano per lui16. I capitoli delle cattedrali cercavano anch’essi di essere generosi quando desideravano attirare maestri stranieri. Le indicazioni date nel contratto firmato (1514) fra i maestri francesi Philippus Fillo che veniva da Orléans e Antonius Duboys da Albavilla (Albi? Abbeville in Picardia?) e il capitolo della cattedrale di Maiorca per la realizzazione del coro in legno, sono assai rivelatrici dei bisogni di questi maestri venuti da altrove. Viene detto testualmente che i responsabili dell’opera si impegnano a fornire loro una casa dove abitare, mangiare e dormire. Nulla di sorprendente, dunque, se anticipano loro dei soldi per comperare un letto e altri utensili per uso domestico e professionale. Si incaricano anche di sistemare uno spazio, nel palazzo episcopale o vicino alla cattedrale, per portare a termine i lavori del coro. Dubois morì poco dopo, ma sappiamo a proposito di Mestre Felip, nome dato al falegname di Orléans, che visse durante la realizzazione del coro nella loggia della cattedrale, adeguatamente sistemata come abitazione17. Ma pur conoscendo i particolari della sua sistemazione sull’isola, il suo arrivo e la sua partenza rimangono oscuri, come gli spostamenti di tanti altri maestri che 90 | Joan Domenge e Rafael Cornudella

possiamo collocare solo in momenti precisi del loro percorso professionale, che forse si spinse più lontano. D’altronde non è sempre possibile precisare quale fu il risultato di questi passaggi, se ebbero ripercussioni sull’attività artistica locale o se questi maestri se ne andarono senza aver fatto scuola.

1

La bibliografia su questo tema è abbondante. Per il loro metodo segnaliamo i lavori di Recht 1998, Quintavalle 2000, Castelnuovo 2007 e Guillouët 2009. 2 Per una visione generale, vedi Demus 1970. 3 Pächt 1961; Oakeshott 1972. 4 Per conoscerne lo stato, vedi Gerson 2006. 5 Moralejo 1973, p. 433. 6 Natale 2002; Borchert 2002. 7 Laclotte 1983. 8 Dürer, ed. 1970. 9 Cornudella 2012. 10 Domenge 2003. 11 Cassidy 2012, pp. 97-99. 12 Ibanéz 2011. 13 Español 2009, p. 280; García 2005, p. 1913. 14 Cornudella 2009-2010, pp. 44-47. 15 Deformazione dal francese “Arras” città famosa per i suoi tappezzieri. (N.d.t) 16 Vidal 2007. 17 Domenge, in corso di pubblicazione.

Viaggi d’artisti, vie dell’arte | 91

Signa peregrinorum: il contributo dei ritrovamenti archeologici lungo le vie di pellegrinaggio Marino Marini

1. Andrea di Bonaiuto, La Chiesa militante e trionfante (particolare), 1365-1367, Firenze, Santa Maria Novella, sala capitolare

Le testimonianze di pellegrini in transito sulle direttrici che conducevano ai luoghi di culto, o in sosta presso strutture assistenzali, convergono prevalentemente con i ritrovamenti di quelle insegne di pellegrinaggio che i devoti portavano appresso dopo un lungo viaggio di fede. L’archeologia può dare un contributo apprezzabile nel ricostruire i percorsi seguiti, riconoscendo i peculiari signa dei pellegrini rinvenuti in sepolture, dove tali oggetti assumevano un forte valore religioso e la prova tangibile del viaggio compiuto; la stessa valenza documentaria non può essere però riservata ai manufatti erratici trovati lungo i corsi d’acqua, proprio perché non contestualizzati (vari ritrovamenti nel XIX secolo in Francia, Germania, Belgio e ancora a Londra e Roma)1. Era infatti costume dei devoti che riuscivano a raggiungere la meta appuntarsi sull’abito, sul cappello a larga falda o sulla bisaccia queste insegne di varia forma (conchiglia, Veronica, chiavi di san Pietro, Tau, campanella, etc.) dotate di occhielli e di una iscrizione lungo i bordi che identifica le figure effigiate, come ci tramandano le testimonianze iconografiche (fig. 1)2. Un celebre poema dello scrittore inglese William Langland (XIV secolo) narra di un pellegrino che aveva «un centinaio di ampolle attaccate al suo cappello, emblemi del Sinai e conchiglie di Galizia, e molte croci sul suo mantello e chiavi di Roma e la veronica, anzitutto; perché gli uomini devono sapere e vedere dai suoi simboli chi aveva ammirato»3. Tale pratica viene anche confermata da alcuni rinvenimenti archeologici: a Helsingborg (Svezia), sotto il cranio di un inumato, erano collocate ben dieci insegne fra cui quelle provenienti dai santuari di Roma, Lucca, Bari, Rocamadour e Tours, mentre a Lund, sempre in Svezia, le insegne di san Nicola, di Rocamadour e una conchiglia di san Giacomo furono ritrovate vicino alle ossa del bacino, poiché forse attaccate a una bisaccia. Dalla necropoli di Hierapolis, in Frigia, dalla sepoltura di un pellegrino europeo del XIII secolo provengono le insegne in piombo dei santuari di Santa Maria di Rocamadour, San Leonardo di Noblac, dei santi Pietro e Paolo a Roma; l’uomo probabilmente era diretto in Terra Santa e alla morte venne sepolto presso il Martyrion, poco distante dalla tomba dell’apostolo Filippo, luogo venerato dai pellegrini per le doti traumaturgiche del santo5. Forte era infatti il valore simbo-

Signa peregrinorum: il contributo dei ritrovamenti archeologici lungo le vie di pellegrinaggio | 93

2-3. Placchette con le immagini dei santi Pietro e Paolo da San Pietro in Carpignano a Quiliano (Savona)

94 | Marino Marini

lico attribuito a queste insegne devozionali che attestano il percorso di fede e di penitenza intrapreso in vita; probabilmente tali immagini venivano considerate come un lasciapassare per la vita eterna. La massima diffusione delle insegne di pellegrinaggio si ha fra XIII e XIV secolo quando alle più antiche placchette a rilievo venivano sostituendosi quelle traforate. La semplicità di realizzazione permetteva di ottenere una gran quantità di esemplari a basso costo che poi venivamo venduti ai pellegrini nei luoghi di culto, rivelandosi una notevole fonte di entrate; nel 1466 nel santuario della Vergine Maria a Einsiedeln (Svizzera) in soli quattordici giorni furono vendute oltre centotrentamila placchette6. In queste pagine si è deciso di limitarsi a ricordare gli esemplari che provengono da indagini archeologiche e rinvenimenti effettuati esclusivamente in territorio italiano, dove le testimonianze si concentrano particolarmente sul versante occidentale, soprattutto lungo il tragitto della via Francigena e delle direttrici minori che a questa si connettevano. Fra tutte le tipologie note quella maggiormente diffusa risulta essere la placchetta di forma quadrangolare (per questo detta quadrangula) con le immagini affiancate degli apostoli Pietro e Paolo, con o senza nimbo, e iscrizione perimetrale, attestanti il pellegrinaggio romeo ad limina Apostolorum che si perpetuò dal IIIIV secolo in avanti. Quattro insegne plumbee sono state rinvenute nel sepolcreto attiguo alla chiesa di San Pietro in Carpignano a Quiliano (Savona); tre di queste (di cui una a dittico cuspidato) sono decorate con le effigi dei due apostoli mentre la quarta (a losanga) solo con san Paolo7 (figg. 2-3). Probabilmente, considerata la disposizione rispetto alle ossa dell’inumato e la contiguità riscontrata in fase di scavo, le insegne erano state cucite sulla bisaccia del pellegrino, come si evince anche da testimonianze iconografiche, poi collocata a fianco del devoto viandante al momento della sepoltura avvenuta nell’XI-XII secolo.

Da uno scavo urbano nel centro di Ferrara, in un pozzo riempito da materiali di varia natura ma cronologicamente ben distinguibili (XI-XII secolo), proviene un’insegna romea in piombo che conserva i quattro occhielli angolari8. Nelle indagini archeologiche condotte sull’altura di Podium Bonizi (oggi Fortezza di Poggio Imperiale a Poggibonsi, Siena) sono riemerse cinque placchette di questo tipo, variamente databili fra X e XV secolo, a testimonianza di pellegrinaggi romei transitati da una delle diramazioni della via Francigena che lambiva l’antico borgo di Poggibonsi9. I rinvenimenti effettuati presso il castello di Monte Curliano (Poggio Moscona, Grosseto) non sono supportati da dati certi, quindi l’insegna plumbea con i santi Pietro e Paolo, molto rovinata e databile al XII-XIV secolo, forse è da considerare come sporadica10. Nel Lazio, durante gli scavi della prima cattedrale di Priverno (Latina), è venuta in luce un’insegna in bronzo con i due apostoli, nel classico impianto e con iscrizione, risalente al XII-XIV secolo11. La necropoli ubicata presso la chiesa di San Giuliano di Selargius (Cagliari) rivela un uso prolungato nel tempo, e fra i materiali recuperati si distingue una quadrangula in piombo con i santi Pietro e Paolo databile all’XI-XIII secolo: si tratta dell’unica testimonianza di pellegrinaggio romeo in Sardegna12. Il rinvenimento di un’insegna in lega, databile all’XI-XII secolo, negli scavi dell’antica città di Siponto (Foggia) conferma il transito dei pellegrini romei in Puglia13. Come variante alla serie con i due apostoli si ricorda una placchetta circolare in argento, graffita con l’immagine del solo san Pietro, e dotata di quattro fori, proveniente dagli scavi condotti presso la chiesa di San Domenico, nel complesso del Priamàr a Savona; il contesto di provenienza viene datato entro la prima metà del XVI secolo14. Si tratta dell’evoluzione delle insegne quadrangolari in piombo e stagno che proprio dal Cinquecento si convertirono nelle più note medagliette circolari. Altra tipologia documentata di signa peregrinorum sono le piccole croci metalliche con Cristo crocifisso, dotate di anelli ai quattro bracci per permetterne la cucitura sugli abiti. Un esemplare notevole è la crocetta plumbea rinvenuta negli scavi dell’antica “plebs de Neure” a Pieve a Nievole (Pistoia) in una osteoteca15: il manufatto è stato realizzato in piombo fuso tramite una matrice ed è riconducibile all’XI-XII secolo (fig. 4). La figura di Cristo ricorda il Volto Santo di Lucca, la celebre statua lignea oggetto di una diffusa venerazione fin dal Medioevo, anche se nel signum plumbeo Cristo indossa solo un perizoma. Dagli scavi condotti a Rocca San Silvestro (Livorno) è riemersa una piccola crocetta in bronzo dorato dove la figura di Cristo cita con più attinenza nell’abbigliamento l’immagine del Volto Santo di Lucca16. Si ricordano inoltre una crocetta plumbea frammentaria con piccoli globi agli angoli dei bracci, rinvenuta in scavo presso la via Emilia a Modena17, e due altre piccole croci, una delle quali in piombo, scoperta nell’alveo del fiume Panaro, e l’altra in bronzo, mutila ma con l’immagine della Madonna, da una tomba sconvolta anticamente a Gorzano di Maranello18, tutte databili fra X e XII secolo. Le insegne con l’effige di san Nicola di Bari sono una concreta testimonianza

4. Crocetta da Pieve a Nievole (Pistoia)

Signa peregrinorum: il contributo dei ritrovamenti archeologici lungo le vie di pellegrinaggio | 95

di quanto il culto del santo fosse diffuso; numerosi infatti erano i pellegrini che giungevano a Bari non solo dalle regioni italiane ma anche dalle lontane città del Nord Europa per venerare il sepolcro del santo prima di proseguire per Gerusalemme, loro destinazione finale. Prova di questa popolarità sono le placchette con san Nicola rinvenute nei paesi scandinavi (Svezia e Norvegia), spesso in associazione con signa peculiari di altri centri di pellegrinaggio19. Dagli scavi di Santa Maria in Alberese (oggi San Rabano, Grosseto) è riemersa un’insegna rettangolare in piombo e lato superiore arcuato (XIII-metà XIV secolo), con la figura a mezzo busto di san Nicola in abito episcopale e con l’Evangelario nella mano sinistra20. Una seconda insegna con san Nicola, con poche varianti rispetto a quella di Alberese, è stata rinvenuta, forse sporadicamente, fra i resti del vicino castello di Monte Curliano (Poggio Moscona, Grosseto)21. Si deve quindi ipotizzare un percorso dei pellegrini che tornando da Bari, dopo essersi fermati a Roma, transitavano sul litorale maremmano. Dallo stesso sito giunge anche un’insegna in piombo con santo non identificabile, perché lacunosa, di forma romboidale mancante degli occhielli angolari22. Un recente rinvenimento dalla “Cittadella nicolaiana” di Bari ha restituito un’insegna plumbea con san Nicola a mezzo busto databile al XIII-XIV secolo che, al momento, risulta l’unica testimonianza reperita localmente23. Da vecchie indagini condotte nella basilica della Santa Casa di Loreto proviene una placchetta ogivale in piombo con l’effige della Madonna col Bambino, databile all’inizio del XIV secolo; tutt’intorno corre un’iscrizione non decifrabile per il precario stato conservativo del manufatto24. Nelle stesse ricerche si ha notizia di un piccolo tondo in pergamena ritagliato sommariamente dove è stata riprodotta, tramite una matrice lignea, la stessa coppia Madonna-Gesù bambino a fianco della rappresentazione del santuario lauretano: i contorni del lembo sono cosparsi di piccoli fori e stanno probabilmente a indicare che l’immagine era stata applicata su un qualche supporto25. Il culto della Madonna lauretana si diffuse nel corso del XIV secolo grazie alla risonanza ricevuta per i molteplici eventi miracolosi verificatisi presso il santuario marchigiano, che divenne così uno dei punti di sosta prescelti anche dai pellegrini diretti a Roma o di ritorno dalla città santa. In occasione di scavi urbani ad Argenta (Ferrara) uno scarico di materiali diversi, ma con cronologia attendibile, ha restituito un’insegna in lega di stagno e piombo, di forma rettangolare con sommità conformata ad arco, databile all’ultimo quarto del XIII-primo quarto del XIV secolo, da ricondurre probabilmente al santuario francese di Saint-Gilles-du-Gard, sorto presso il tracciato della via Francigena26. Complementare alla Francigena era la via che conduceva i pellegrini dall’Europa centro-settentrionale verso Roma e poi verso la Puglia e la Terra Santa, e sia Argenta che Ferrara sono ricordate come tappe di questo tragitto. Una placchetta quadrangolare in piombo da Perti (Savona) rappresenta in modalità molto sintetica i santi Lorenzo e Stefano27: rimane quale testimonianza di un pellegrinaggio romeo ai sepolcri dei santi martiri della cristianità. 96 | Marino Marini

Al Kunstgewerbemuseum di Berlino si conserva una placchetta con l’Annunciazione dell’arcangelo Gabriele a Maria, probabilmente realizzata a Nazareth nel XIII secolo ma acquistata a Pisa nel 189628. Altro segno distintivo dei pellegrini sono le conchiglie tipo pecten, utilizzate tra il X e il XIII secolo dai devoti che si recavano in Terra Santa ma quasi contemporaneamente divenute anche il contrassegno di chi visitava il santuario di Santiago de Compostela. La conchiglia jacopea (pecten maximus) è infatti il simbolo del pellegrinaggio compiuto a Santiago de Compostela, dove, sulle sponde del mare della Galizia, si potevano trovare le conchiglie di quella peculiare forma che poi venivano vendute nel mercato situato presso il santuario. Le testimonianze iconografiche ci confermano che le conchiglie venivano cucite sul cappello, sul bavero, sul mantello o sulla bisaccia dei viandanti. Come succede per le insegne metalliche, anche per le conchiglie del tipo pecten le attestazioni collimano con i percorsi delle direttrici viarie maggiormente transitate dai pellegrini; il nucleo più consistente di quelle individuate si concentra in siti e sepolture del litorale ligure29. Ad Albenga si registrano quattro esemplari di pecten: due dagli scavi nell’area cimiteriale retrostante la chiesa di Santa Maria in Fontibus (XIV secolo)30 (fig. 5) e due dal sepolcreto situato dietro l’abside della chiesa di San Calocero31; una di queste ultime era collocata proprio sotto la nuca dell’inumato e potrebbe essere stata cucita sul cappello del pellegrino sepolto. Vari sono i ritrovamenti liguri di conchiglie provenienti da necropoli ubicate presso edifici religiosi e databili fra XIII e XVI secolo; a Genova tre esemplari dalla chiesa di San Silvestro e uno da Piazza Matteotti32, da San Fruttuoso di Capodimonte (Camogli) due pecten33, dalla canonica di San Siro a Sanremo quattro34, mentre a San Pietro in Carpignano-Quiliano (Savona) un pecten è stato rinvenuto a monte della chiesa35.

5. Conchiglie (pecten maximus) da Santa Maria in Fontibus (Albenga) 6. Conchiglia dall’Ospitale medievale di San Bartolomeo a Spilamberto (Modena): a sinistra l’impronta scura del bordone

Signa peregrinorum: il contributo dei ritrovamenti archeologici lungo le vie di pellegrinaggio | 97

A ridosso della cattedrale di Santa Maria Assunta a Reggio Emilia, quattro conchiglie jacopee sono emerse da una sepoltura a inumazione in fossa (XIII secolo) facente parte di una necropoli utilizzata dall’alto-medioevo fino al XV secolo36. Due conchiglie pecten provengono da sepolture del cimitero di XI-XVI secolo ubicato presso l’antico Ospitale medievale di San Bartolomeo a Spilamberto (Modena); una di queste era ancora situata sotto il cranio del defunto (forse era stata cucita sul cappello), mentre l’altra era posizionata vicino al bordone, il caratteristico bastone ligneo utilizzato dai pellegrini nei loro lunghi spostamenti, del quale si è conservata solo la traccia scura sul terreno37 (fig. 6). Gli scavi condotti nel distrutto borgo di San Genesio, presso San Miniato (Pisa), nodo viario cruciale situato alla confluenza fra l’Arno e l’Elsa, in prossimità dell’incrocio della via Pisana con la Francigena, hanno restituito un frammento di pecten38. Si tratta di un’area densamente abitata fra VIII e XIII secolo perché crocevia di importanti percorsi viari transitati da numerosi viandanti e pellegrini, come attestano le monete coniate da zecche diverse ritrovate nelle indagini archeologiche. Si ha pure notizia del rinvenimento di un pecten durante i lavori di ristrutturazione nella chiesa di San Giacomo al Tempio a San Gimignano; la conchiglia è stata ritrovata all’altezza della spalla di un individuo sepolto presso l’angolo della facciata. Pur non trattandosi di un mollusco bivalve, piace ricordare una placchetta circolare in bronzo recuperata negli scavi archeologici all’interno del monastero di San Michele Arcangelo alla Verruca (Pisa) e databile alla fine del XV secolo39: la piastra, con decoro a sbalzo e tre fori, presenta una cornice polilobata con quattro piccole conchiglie tipo pecten che fanno da contorno a una più grande posizionata al centro. L’accurata esecuzione del decoro però rende incerta l’attribuzione del reperto alla tipologia delle insegne da pellegrino, realizzate più semplicemente a stampo in piombo o stagno. Un esemplare che si relaziona a quello appena citato è la placchetta circolare in bronzo, con conchiglia a sbalzo e fori per la cucitura, rinvenuta in un “butto” di Viterbo e datata al XIV-XV secolo40. Una citazione anche per un altro elemento caratterizzante del pellegrino penitente, il lungo bastone con puntale in ferro e nodi in alto per la presa, conosciuto come “bordone’”. Da una sepoltura multipla rinvenuta presso la chiesa di Sant’Eusebio a Perti proviene il puntale in ferro che potrebbe appartenere al tipico bastone da pellegrino41. A San Silvestro (Genova), un vano sepolcrale del XIII-XIV secolo situato presso la chiesa ha restituito un puntale simile, mentre da Luni un terzo esemplare proviene dal selciato stradale altomedievale42. 1 2 3 4 5 6 7

98 | Marino Marini

Al riguardo si veda Guarnieri 1998, pp. 266-267. Koldeweij 2011, pp. 40-49. Langland 1869, pp. 85-86 (passus V, 524-531). Per i riferimenti bibliografici si rimanda a: Wentkowska 2000, pp. 426-428. D’Andria 2012, p. 42. Köster 1984, p. 205. Bulgarelli 1998, pp. 271-289 . I miei più sinceri ringraziamenti a Francesca Bulgarelli che ha

gentilmente agevolato le mie ricerche bibliografiche sui rinvenimenti liguri. Guarnieri 1998, pp. 267-268. 9 Francovich, Valenti 2007, p. 242. 10 Wentkowska 2000, pp. 428-429. 11 Quattrocchi 2001, p. 14. 12 Coroneo 1989, pp. 236-237; Serra 1999, p. 340. 13 Laganara, Laviano 2011, pp. 193-196. 14 C. Varaldo in Bulgarelli, Gardini, Melli 2001, pp. 114-115. 15 Ciampoltrini, Pieri 1998, pp. 103-115. 16 Francovich 1991, p. 123, fig. 123 n. 5; p. 125, fig. 126. 17 Labate 2011, p. 44. 18 Labate 2011, p. 45. 19 Wentkowska 2000, pp. 426-428. 20 Wentkowska 2000, p. 425. 21 Wentkowska 2000, pp. 425-426. 22 Wentkowska 2000, p. 430. 23 Cioce 2011, pp. 205-215. Ringrazio Caterina Laganara per le sue preziose indicazioni sui rinvenimenti pugliesi. 24 A. Trivellone in Roma 1999-2000, p. 354, n. 126. 25 Bertelli, Grimaldi 1968, pp. 109-110. 26 Guarnieri 1998, pp. 268-269. 27 Lena, Murialdo 2001, pp. 497-503. 28 Wulff 1911, p. 74, tav. VI n.1902; non si ha però conferma se l’esemplare sia stato rinvenuto effettivamente nella città toscana. 29 Per i ritrovamenti liguri di conchiglie tipo pecten si vedano i contributi di A. Girod e la sezione Scavi e scoperte in Bulgarelli, Gardini, Melli 2001, pp. 44-49 e 100-152. 30 D. Gandolfi in Bulgarelli, Gardini, Melli 2001, p. 106. 31 Gardini 2010, pp. 199-200. 32 A. Gardini in Bulgarelli, Gardini, Melli 2001, p. 122. 33 A. Gardini in Bulgarelli, Gardini, Melli 2001, p. 134. 34 A. Frondoni in Bulgarelli, Gardini, Melli 2001, pp. 100-101. 35 Bulgarelli, Gardini 2003, pp. 32-33. 36 Malfitano, Notari, Palazzini 2014. 37 Labate 2011, pp. 40-41. 38 Cantini 2007, p. 27, fig. 22. 39 Dadà 2003, pp. 53-55. 40 J. Caucci in Roma 1999-2000, p. 352, n. 123. In lega di piombo e stagno si possono ricordare alcune insegne di pellegrinaggio conservate al Museum of London; si tratta di placchette in piombo a forma di conchiglia, databili al XIV-XV secolo, con san Giacomo in abiti da pellegrino in rilievo al centro (inv. n. A14610) e di ampolle in piombo della stessa forma, forse utilizzate per contenere olio o acqua benedetta. 41 Lena, Murialdo 2001, p. 501. 42 A. M. Durante in Bulgarelli, Gardini, Melli 2001, pp. 150-151. 8

Signa peregrinorum: il contributo dei ritrovamenti archeologici lungo le vie di pellegrinaggio | 99

Il viaggio nella letteratura medievale Michel Huynh

«Vieni, inebriamoci d’amore fino al mattino, godiamo insieme amorosi piaceri, poiché mio marito non è in casa, è partito per un lungo viaggio». Proverbi, 7:18

1. Bottega del Maestro delle Cleres Femmes, Lancillotto deve viaggiare su un carro in seguito alla morte del suo cavallo, da Lancelot du lac (particolare), Parigi, inizi del XV secolo, Parigi, Bibliothèque nationale de France, Ms. Français 119, c. 312v

Cosa resterebbe di tutti i viaggi se, al ritorno da un lungo periplo, un pellegrino, un mercante o un ambasciatore non avessero risposto all’imperioso bisogno di stendere su pergamena il meraviglioso rendiconto delle settimane o degli anni passati sui mari e le strade? E per contro, che parte hanno, nella decisione della partenza, le innumerevoli pagine dei romanzi cavallereschi o delle vite dei santi? Dalla Bibbia, libro universale, alle guide del pellegrino della fine del XV secolo, talvolta straordinariamente moderne nella loro concezione, la letteratura di viaggio impregna in profondità tutta la cultura medievale. Da Abramo a Mosè, le figure dell’Antico Testamento sono, per volontà divina, in perpetuo movimento e arano, con i loro innumerevoli spostamenti, le terre su cui i passi di Gesù si innesteranno. Il Cristo percorse una vasta area geografica seguito dai suoi discepoli, ma scese anche agli Inferi e infine salì ai Cieli. I viaggi degli apostoli, lanciati alla conquista del mondo nel quale portarono la Buona Novella, o quello della Vergine, hanno intrecciato, a partire dal bacino del Mediterraneo, una serie di punti di convergenza, di diffusione e di attrazione di milioni di pellegrini a venire. L’agiografia abbonda di viaggi di santi e di sante. La principessa Orsola, ad esempio, che respinse un matrimonio combinato, partì per tre anni in pellegrinaggio con destinazione Roma, per finire catturata e martirizzata da Attila con le sue undicimila compagne, vergini come lei, rifiutando di sottomettersi agli invasori che le intercettarono lungo il loro percorso, a Colonia. Noto attraverso più di un centinaio di manoscritti, il più antico dei quali risale al X secolo, il viaggio di san Brendano è il più singolare di tutti, tanto nella sua rotta iniziale che nello scopo perseguito. Questo monaco irlandese, avendo sentito da un abate chiamato Barindo il racconto della scoperta di una terra luminosa parzialmente inaccessibile, decise di partire alla sua scoperta, convinto che si trattasse del Paradiso terre-

Il viaggio nella letteratura medievale | 101

stre. Si imbarcò con dodici compagni a bordo di una nave e intraprese una lunga avventura. Dopo aver errato per quaranta giorni, raggiunsero un’isola rocciosa dove potersi finalmente ristorare, poi un’altra piena di pecore gigantesche, poi si fermarono per un po’ su un’altra isola prima di realizzare che si trattava del dorso di una gigantesca balena. Navigando sul vasto oceano, questo equipaggio passò di sorpresa in sorpresa. Durante sei anni di viaggio, ogni anno trascorsero le feste di Pasqua su un’isola dove vivevano degli uccelli angelici. Uno di essi li salvò dall’attacco di un grifone. Ancora più lontano, essi furono trascinati verso una porta dell’Inferno, attaccati da alcuni demoni, incrociarono il cammino di Giuda che espiava la sua colpa incatenato a una roccia, poi approdarono su una terra meravigliosa, dove fu loro permesso di accedere solo su una metà, essendo l’altra riservata ai defunti. Nel viaggio di Brendano si combinano echi delle Sacre

2. L’arrivo di Galaad con il Graal nella paese immaginario di Sarras, una specie di Gerusalemme celeste in terra, dal Romanzo di Tristano, Parigi, primo quarto del XV secolo, Parigi, Bibliothèque nationale de France, Ms. Français 101, c. 397v

102 | Michel Huynh

3. Bottega del Maestro delle Cleres Femmes, Lancillotto deve viaggiare su un carro in seguito alla morte del suo cavallo, da Lancelot du lac, Parigi, inizi del XV secolo, Parigi, Bibliothèque nationale de France, Ms. Français 119, c. 312v

Scritture con una ricca invenzione fantastica, a formare una narrazione singolare, il cui successo fu considerevole. Il romanzo medievale non è, nel suo ricorso al meraviglioso, molto distante dalle vite dei santi. La maggior parte dei romanzi cortesi sono degli immensi peripli disseminati di insidie e di incontri meravigliosi. La ricerca del Graal, oggetto della materia arturiana, è alla base di uno di essi (fig. 2). I protagonisti, a seconda del viaggio intrapreso, fanno incontri soprannaturali che costituiscono la ricompensa del loro periplo. Nella materia arturiana, il viaggio è un fine indubbiamente tanto quanto l’oggetto della ricerca, poiché è il fatto stesso di lasciare il proprio universo familiare, nel quale per natura tutto è prevedibile, procura a colui che parte delle occasioni per distinguersi (fig. 3). La vita del cavaliere vale soltanto perché è rischiosa in ogni istante. Una categoria della letteratura medievale fa proprio del viaggio, dei suoi pericoli e degli straordinari colpi di scena che provoca separando due personaggi per riunirli alla fine, la molla principale dell’intrigo. La figura del cavaliere errante, che ha dato il suo nome a un romanzo di Tommaso III di Saluzzo, ha continuato a esistere molto dopo la scomparsa della cavalleria. Ciò che fa decidere a mettersi in cammino l’eroe del Don Chisciotte di Cervantes (la cui prima parte apparve nel 1605), è indubbiamente l’ossessione che nutre per i romanzi cavallereschi. Ma anche quando nell’ambiguo capitolo VI il curato procede alla distruzione col fuoco della biblioteca dell’hidalgo, è un esemplare del Tirant lo Blanch di Joanot Martorell, scritto verso il 1460, a essere risparmiato per primo, poiché è «un tesoro di allegria e una miniera di divertimenti […] per lo stile, questo libro è il migliore del mondo».

Il viaggio nella letteratura medievale | 103

Genova: una miniatura del XIV secolo al Museo Nazionale del Bargello Mario Marcenaro

1. Ignoto miniatore del secolo XIV, recto del foglio riportato a p. 107, Firenze, Museo Nazionale del Bargello, inv. 2065 C, r

Il foglio appartiene a un antico codice, noto come Codice Cocarelli (o Cocharelli), oggi smembrato e solo in parte conservato: una delle carte è presente nelle collezioni del Museo Nazionale del Bargello1. Un anonimo artista vi ha documentato i lavori di edificazione della facciata gotica della cattedrale di San Lorenzo a Genova, evento documentato in un’altra miniatura del manoscritto, oggi conservata alla British Library di Londra2 (fig. 2). L’autore eseguì alcune miniature con particolare precisione, e c’è da supporre che anche quelle che non hanno una precisa interpretazione siano eseguite fedelmente. È possibile ipotizzare che l’artista fosse genovese o almeno abbia soggiornato a Genova lungamente: infatti dimostra di conoscere bene la città e la sua storia. Il Codice Cocarelli fu datato attorno al terzo decennio del Trecento (1320-1330), basandosi su una precisa analisi degli abiti indossati dai personaggi che vi compaiono3, e quanto resta del testo lascia trasparire che contenesse un trattato sui vizi capitali e un poema in prosa sul Regno di Sicilia4. Il committente del codice si presenta nel prologo e sembra essere il nipote di Pellegrino Cocarelli che compare con il figlio Giovanni in alcune carte della British Library: si tratta di una famiglia genovese di origini provenzali, ben attestata ancora all’inizio del XVI secolo, impegnata in transazioni finanziarie e presente spesso nelle colonie genovesi d’Oltremare. Dei vari fogli superstiti, questo conservato a Firenze5 è abitualmente identificato come raffigurazione dell’assedio di Accon, cioè San Giovanni d’Acri – l’odierna Akko in Israele – da parte di truppe mamelucche. Per questa immagine Michael Rogers suggerisce un ambito «Nord Italia o Mar Nero, tardo secolo XIV» (fig. 3), aggiungendo che il testo tratta di vizi e virtù e che lo ritiene «eseguito nell’Italia del Nord, nel tardo Trecento per esponenti della famiglia Cocarelli di Genova…»6. Egli propone che si tratti di una raffigurazione di Alessandria d’Egitto, e che potrebbe richiamare la riconquista della città da parte delle truppe del sultano mamelucco al-Ashraf Sha’ ban dopo l’occupazione crociata del 1365. Il manoscritto, conclude Rogers, potrebbe essere stato eseguito sulle coste del Mar Nero e forse raffigurare una colonia genovese7. La miniatura presenta vari problemi: alcuni risolti con certezza, mentre per altri sono state solo avanzate ipotesi. Ovviamente non entro nel merito delle valutazioni espresse dagli specialisti del testo e della tecnica miniatoria, ma a mio avvi-

Genova: una miniatura del XIV secolo al Museo Nazionale del Bargello | 105

2. Ignoto miniatore del secolo XIV, I portali della cattedrale di Genova, Londra, The British Library, ms. Add. 27695 c. 7r

106 | Mario Marcenaro

so l’illustrazione raffigura Genova e non, come è stato scritto, Alessandria d’Egitto, Tripoli o, da ultimo, San Giovanni d’Acri. Nella miniatura a tutta pagina si vedono molti edifici imponenti e una cinta muraria, mentre Acri, attenendoci alla pianta di Pietro Vesconte, mai confutata dagli studiosi, ne possedeva due8. Ma bisogna pur dire che il nostro miniatore potrebbe anche aver raffigurato Acri attenendosi esclusivamente alla cinta muraria più interna. Nella miniatura del Bargello si vede al centro un edificio turrito che sembra affrescato con San Giorgio a cavallo che trafigge il drago. Potrebbe trattarsi – anche se l’edificio della miniatura non è proprio sul mare – del Palatium maris di Genova voluto nel 1260 dal capitano del popolo Guglielmo Boccanegra ed edificato da frate Oliverio «vir me(n)tis acu(m)ine» dell’abbazia «Sancti Andree de Sexto, cistercensis ordini», ricordato anche come «minister et operarius operis portus et moduli civitate Ianue» 9. L’edificio era il primo che vedeva chi giungeva in città via mare e, a differenza delle costruzioni private medievali genovesi che erano sviluppate principalmente in altezza, è caratterizzato dalla sua estensione orizzontale10, quasi a volere esprimere il potere che rappresentava. Alle spalle del presunto Palatium maris si vedono due grandi chiese a tre navate. Quella a destra potrebbe essere identificata con la cattedrale di San Lorenzo, mentre quella a sinistra potrebbe essere l’antica basilica di San Siro. Alle spalle della presunta cattedrale si nota una porta che potrebbe alludere a Porta Soprana.

3. Ignoto miniatore del secolo XIV, Assedio di città, ultimo quarto del XIV secolo, Firenze, Museo Nazionale del Bargello, inv. 2065 C, v

Genova: una miniatura del XIV secolo al Museo Nazionale del Bargello | 107

4. Pietro Vesconte (1320 circa), Mappa di Acri 5. Genova, il Molo Vecchio con l’isoletta ancora staccata (da P. Barbieri, Forma Genuae, carta zero)

108 | Mario Marcenaro

A mio avviso sono ancora ben identificabili e collocabili topograficamente le chiese di San Marco al Molo, eretta nel 1173 sulla penisoletta che poi diede origine al Molo Vecchio; e, sul versante opposto, un’altra fondazione ecclesiale che potrebbe essere identificata con la chiesa di San Tommaso: un antico monastero femminile benedettino documentato dal 1134, ma edificato secoli prima e abbattuto nell’Ottocento per far posto alla Stazione marittima11 (figg. 5 e 6). Sulla prima torre della cinta muraria, a sinistra nell’illustrazione, sventola una bandiera genovese crocesegnata – croce rossa in campo bianco –, che potrebbe alludere anche a un’insegna dei cavalieri Templari: insegna riscontrabile anche sulle bandiere di molte navi ancorate nel bacino portuale12. L’importanza del molo quale primitivo approdo è accertata dall’istituzione dei magistrati Salvatores Portus et Moduli13, ma bisogna rilevare che qui mancano totalmente i ponti dell’arco della “Ripa”, che molto probabilmente erano in legno14. I dubbi iconografici relativi all’immagine restano a mio avviso riferibili alla piccola isola antistante la radice del MoloVecchio, alla mancata evidenziazione della “Ripa” e dei moli, e soprattutto all’assedio da terra. L’isoletta in questione è nella miniatura molto staccata da terra mentre nei documenti e nelle piante sembra trattarsi più di un canale che di un braccio di mare aperto e nel XIV secolo doveva essere da tempo inglobata, o almeno collegata, essendo alla radice del promontorio roccioso nella struttura del Molo Vecchio. La mancanza della “Ripa” a mio avviso è giustificabile dall’evidenziazione dell’arco di costa e la mancanza dei pontili in legno può spiegarsi col fatto che le moltissime grandi navi presenti in rada, battenti varie bandiere, da qualche parte dovevano attraccare mentre le imbarcazioni più piccole potevano essere

trascinate sulla spiaggia. L’isola con faro antistante il Molo Vecchio è documentata dalla “carta zero” pubblicata da Piero Barbieri nel suo Forma Genuae del 1938 (fig. 5) e da Luciano Grossi Bianchi ed Ennio Poleggi nella seconda edizione di Una città portuale del Medioevo, edita nel 1987 (fig. 6)15. Francesco Podestà nel suo volume Il porto di Genova sostiene che il Molo Vecchio nel Medioevo «non fosse punto unito, ma disgiunto da terra, mediante un’apertura o canale marino», più tardi interrato16. Questa isoletta fu certamente inglobata nel Molo Vecchio durante la sua prima formazione o durante uno dei suoi allungamenti. Un altro grande problema che pone la miniatura riguarda l’assedio e i combattimenti da parte di truppe mussulmane. Un’ipotesi potrebbe essere quella che il miniatore non conoscesse la città d’Oltremare che voleva raffigurare e che seguendo l’Anonimo poeta genovese17 – che cantò come i genovesi facessero di ogni città conquistata un’altra Genova – abbia voluto ricordare l’assedio mussulmano a una colonia di Genova come se fosse un attacco alla città. La miniatura presenta infatti molte analogie con il capoluogo ligure. Non esiste, a mio avviso, alcun centro in Italia e nelle colonie genovesi che possa vantare nei primi decenni del XIV secolo edifici imponenti come quelli che abbiamo esaminato. Non sappiamo quanto grandiosi fossero gli edifici genovesi di San Giovanni d’Acri, ma sappiamo dalla pianta di Marin Sanudo/Pietro Vesconte e dalle sue rielaborazioni che la torre delle Mosche – conosciuta in epoca crociata con questo nome e durante la dominazione araba come al-Manara – che nella pianta è posta al centro del bacino portuale, fu effettivamente collegata con la costa mediante la costruzione di un molo (fig. 4); tuttavia l’isola restò, seguendo le varie rielaborazioni della pianta di Accon di Pietro Vesconte, la parte terminale del molo, mentre l’isoletta del Molo Vecchio di Genova fu precocemente inglobata nella struttura. Nella pianta elaborata da David Jacoby18 (fig. 7) si vedono chiaramente due moli: quello occidentale, che era stato realizzato collegando tra loro varie isolette e

6. L. Grossi Bianchi ed E. Poleggi, Una città portuale del Medioevo, 1987, p. 21 7. D. Jacobi, Revisione di Acri medievale, 1979, fig. 4

Genova: una miniatura del XIV secolo al Museo Nazionale del Bargello | 109

nell’ultima parte infissa la catena che chiudeva il porto interno, e quello orientale, che terminava appunto con l’isoletta sulla quale sorgeva la Torre delle Mosche. Il fondaco genovese vantava case, porte fortificate, torri – tra queste la “Monçoia”, (Mongioia), ipotizzata anche come banca del quartiere, amministrata forse da banchieri ebrei – e diverse chiese, la principale dedicata ovviamente a San Lorenzo, con accanto la torre vecchia e il palacium vetus: un quartiere ben compatto, quasi interamente di proprietà del Comune – case, magazzini, botteghe e banchi – al quale gli occupanti pagavano un censo annuale19. Come in tutti gli altri insediamenti coloniali, il quartiere genovese di Acri si affacciava sullo slargo prospiciente il porto: quindi penso che se il miniatore avesse veramente raffigurato Acri, avrebbe almeno fatto cenno alla ruga cathene prospiciente il bacino portuale chiuso con la catena, evidenziata chiaramente nella mappa di Pietro Vesconte e ancor meglio nella ricostruzione topografica elaborata da David Jacoby. In conclusione, mi sembra di poter affermare che la miniatura del Museo Nazionale del Bargello non raffigura San Giovanni d’Acri ma Genova, non fosse altro in quanto non vi è cenno di una possibile chiusura del bacino portuale né di una piazza adiacente la “Ripa” da poter individuare come la ruga cathene dove si affacciavano i quartieri delle Repubbliche marinare che avevano possedimenti nella città del Levante.

1

Firenze, Museo Nazionale del Bargello, Assedio di città, inv. 2065 C. Di Fabio 1998, pp. 108-113, 141; Cervini 1993, pp. 11-15; Londra, British Library, Add. ms 27695, c. 7r; Fabbri 1999, p. 317. 3 Robert Gibbs dice che il codice sia stato scritto tra il 1314 e il 1324 e subito dopo illustrato, mentre Michael Rogers assegna il codice al tardo Trecento (M. Rogers, in Firenze 1989, pp. 321-322). Si veda anche Fabbri 1999, pp. 305-320; Gibbs 1999, pp. 247-278 in particolare p. 271; Fabbri 2011, pp. 289-310, in particolare p. 289 e nota 2; Fabbri 2004, pp. 495-497. 4 Fabbri 1999, p. 305 e nota 3; Gibbs 1999, pp. 270-275; Fabbri 2011, p. 289. 5 Doria 1930, pp. 41-44; Fabbri 2011, p. 293. 6 M. Rogers, in Firenze 1989, p. 320. 7 Ivi. Cfr. inoltre Eslami 2000, p. 166. Semavi Eyce, dell’Università di Istanbul, mi escluse decisamente che la pagina miniata potesse raffigurare una città sulle rive del Mare Maius genovese. 8 Vedi Pietro Vesconte, Mappa di Acri in Jacoby 1985, p. 97. 9 Cavallaro 1992, pp. 31-33; Rovere 2009, p. 417. 10 Cavallaro 1992, pp. 25, 57. 11 Di Fabio 1998, pp. 105-106. 12 Negli Statuti di Savona del 1404 un passo prescrive a tutte le imbarcazioni savonesi l’obbligo di innalzare a poppa o in luogo eminente il vessillo del Comune di Genova e quello con l’aquila imperiale. Cfr. Archivio di Stato di Savona, Comune, Serie Prima, 7/7, c. 29r. Devo queste informazioni ad Angelo Nicolini che ringrazio.

2

110 | Mario Marcenaro

13

Cavallaro 1992, p. 35. Podestà 1913/1969, pp. 220-222; Bianchi, Melli 1996, pp. 63-67; Guglielmotti 2013, p. 5. Per l’isoletta divisa da un canale dal promontorio si veda anche Rovereto 1896, pp. 204-206 e nota 4 a p. 206. 15 Barbieri 1938, carta zero; Grossi Bianchi, Poleggi 1987, p. 21 fig. 13 e tav. 1: “Genova all’XI secolo”, pp. 36 e 37. 16 Podestà 1913 (1969), p. 221. 17 «E tanti sun li Zenoexi, / e per lo mondo sì destexi, / che und’eli van e stan / un’atra Zenoa ge fan» (tanti sono i Genovesi, e per il mondo così numerosi che dove essi vanno e stanno un’altra Genova vi fanno) in Mannucci 1901, p. 58; Anonimo genovese - Cocito 1970, CXXXVIII, pp. 20-21, 566; Basso 2008, p. 23. 18 D. Jacoby, Revisione di Acri medievale. Il quartiere genovese. Nn. 18, Porta fortificata della parte meridionale; 19, Corso principale (oggi via del Mercato); 20, la principale torre genovese: la Monçoia; 21, una casa; 22, chiesa di San Lorenzo; 23, «Torre vecchia»; 3, il Molo meridionale; 4, Estensione settentrionale del molo; 5, la catena che chiudeva un settore del porto; 6, Torre delle Mosche; 7, molo orientale, in Jacoby 1979, fig. 4. 19 Kedar, Stern 1995, p. 11. 14

Genova: una miniatura del XIV secolo al Museo Nazionale del Bargello | 111

c ata l o g o

sezione i

la rappresentazione del mondo

capire il mondo Michel Huynh

Scoperta alla fine del XV secolo in un manoscritto del XIII secolo, la Tavola Peutingeriana, la cui fonte è databile al IV secolo, dispiega, in un fregio di più di sei metri di lunghezza (680 x 33 cm), una visione del mondo incentrata su Roma ed estesa dalle Isole Britanniche fino ai confini dell’Asia. Duecento città e 200.000 chilometri di strade sono raffigurati su questa singolare anamorfosi, in cui la geografia familiare del nostro mondo diventa una sorta di astrazione dove l’occhio fatica a trovare un punto di riferimento. Lo stivale dell’Italia, così caratteristico, somiglia a un serpente che giace in orizzontale. Eppure, benché questo documento rappresenti catene montuose, mari, fiumi, sembra essere un insieme di itinerari piuttosto che una trascrizione fedele della terra. Ora, quali potevano essere per l’uomo medievale gli strumenti per rappresentare e capire il mondo attraverso il quale fare un viaggio? Per un contadino che va al mercato del borgo più vicino, il mondo è stretto nelle maglie delle barriere naturali (corsi d’acqua, montagne), ma ancor di più in quelle dello straordinario insieme di campanili e di torri che lo circondano da ogni parte. Ma due concezioni del mondo coesistono: l’una pratica, a cui si fa riferimento per spostarsi, e l’altra intellettuale, teorica, fondata sulla conoscenza geografica, le cui fonti sono tanto diverse quanto variamente affidabili. Per la grande maggioranza degli uomini e delle donne del Medioevo, la visione del mondo diventa sempre più sfocata e incerta man mano che si allontanano, fisicamente o mentalmente, dal centro di gravità della loro casa: sanno che c’è il papa a Roma, o ad Avignone, una Gerusalemme oltremare e un’altra celeste, conoscono centri di pellegrinaggio vicini e altri lontani. Il mercante, il soldato, il principe o il vescovo comprendono invece il mondo a tutt’altro livello, ma tutti vengono a patti con un misto di sapere teorico e di esperienza. Quanti hanno avuto accesso a una conoscenza tramandata sanno che il mondo è tondo, diviso in tre parti (Europa, Asia e Africa), circondato da un oceano circolare. Altri lo credono ugualmente tondo ma diviso in cinque fasce denominate “climi”. Queste rappresentazioni tradizionali della Terra risalgono all’antichità. Orosio, nelle sue Historiae adversus paganos (inizio del V secolo) abbozza una geografia terrestre che è illustrata in innumerevoli manoscritti e ripresa da Isidoro di Siviglia (secolo VII) nel libro IV delle sue Etymologiae. Il suo mondo, immaginato in forma di lettera T all’interno di una O, con l’est in alto e Gerusalemme al centro, si inscrive in un universo cristiano descritto minuziosamente tra il Paradiso e l’Inferno, che ne sono i limiti estremi. Macrobio, nel suo Commento al sogno di Scipione (IV secolo),

114 | sezione i

Fig. 1 Évrard d’Espingues, Mappamondo (particolare), dal Livre des propriétés des choses di Barthélemy l’Anglais, 1479-1480, Parigi, Bibliothèque nationale de France, Ms. Français 9140, c. 243v

Fig. 2 L’Africa del Nord, con due popoli dell’impero romano, i Getuli e i Garamanti (particolare), dalla Tavola Peutingeriana, XIII secolo, Vienna, Österreichische Nationalbibliothek

descrive «due zone temperate in cui gli dei hanno posto gli infelici mortali, non ce n’è che una abitata da uomini della nostra specie, Romani, Greci o Barbari: è la zona temperata boreale. […] Quanto alla zona temperata australe […] la ragione soltanto ci dice che anch’essa deve essere il luogo di soggiorno degli umani in quanto posta sotto latitudini simili. Ma noi non sappiamo e non potremo mai sapere qual è questa specie di uomini, poiché la zona torrida è un luogo intermedio che ci impedisce di poter comunicare con loro». A queste concezioni geografiche si aggiungono i numerosi racconti di viaggiatori, come Il Milione di Marco Polo (cat. 60) o la Rihla di Ibn Battuta (1304-1369), che ebbero sia l’uno che l’altro un successo considerevole. Tutte queste relazioni di viaggio, per una sorta di emulazione, alimentano una visione del mondo in cui regnano il fantastico e l’insolito: in quelle contrade lontane, qual è il viaggiatore che non riporterà di aver visto con i suoi occhi dei liocorni o degli uomini selvaggi? Mano a mano che la cartografia fa progressi, la conoscenza si accresce, spostando sempre un po’ più in là, generazione dopo generazione, i limiti del mondo conosciuto, che Virgilio situava per esempio sull’isola di Thule (probabilmente l’Islanda). Quanto al cielo, la sua conoscenza si affina durante tutto il Medioevo. Il mondo musulmano amò indagare la sfera celeste e i suoi meccanismi, trasmettendo poi alla cultura occidentale il frutto delle conoscenze astronomiche. Le stelle possono in alcuni casi essere d’aiuto alla navigazione, a complemento di pratiche quali la triangolazione dei punti di riferimento su una costa o l’uso della bussola, ma l’astrolabio (cat. 7, 8) sarà utile ai marinai solo a partire dal XVI secolo, in una versione semplificata. Questo strumento, destinato a determinare le ore, l’altezza degli astri o a fissare le date delle feste mobili, non serve dunque, paradossalmente, al viaggio, anche se certi esemplari medievali che si sono conservati racchiudono parecchi “timpani” che possono essere impiegati a differenti latitudini, a riprova che essi invece sono stati concepiti per essere portati in viaggio! L’uomo medievale conosce dunque con differenti mezzi il mondo che abita, anche se, a parte rare eccezioni, non possiede né strumenti per orientarsi né carte. Egli segue strade ancestrali fidandosi dei testi ereditati dall’antichità e dei racconti dei viaggiatori del suo tempo, di cui diventa, al termine del proprio itinerario, l’anello successivo di una catena infinita.

la rappresentazione del mondo | 115

Tempi, modi e mezzi del viaggiare Bendetta Chiesi

Il viaggio è l’immagine che più frequentemente è stata associata alla condizione umana. Per i cristiani l’uomo è sulla terra come un peregrinus in attesa della vita eterna, e anche ai nostri giorni il viaggio rende l’idea della stagionalità e del divenire della vita. Non a caso l’enigma della sfinge riguarda l’uomo e il suo camminare, che lo qualifica in ogni fase dell’esistenza, divenendo il viaggio una metafora della vita tout court. Ma, fuor di metafora, come si viaggiava nel Medioevo? Dall’XI secolo l’Europa è nuovamente attraversata da un flusso costante di viandanti che appartengono a ogni classe sociale e professione. Il metodo di spostamento più diffuso erano le proprie gambe, anche in caso di lunghi tragitti, con o senza l’aiuto di un animale da soma. Il viaggio a piedi è una peculiarità dei pellegrini, per i quali la fatica assume un valore penitenziale, ma si spostano a piedi anche i contadini o i piccoli mercanti per raggiungere le piazze vicine, talora i messaggeri e i soldati. Inoltre, un uomo in salute era in grado di trasportare un carico superiore rispetto a un animale da sella, e per di più senza particolari esigenze in fatto di condizioni del fondo stradale che, del resto, dovette rimanere piuttosto impraticabile fino all’epoca moderna, con strade bianche o mulattiere, percorsi sterrati e spesso privi di fossi di scolo per le acque. Solo con l’avvento delle grandi cattedrali e l’intensificarsi del fenomeno del pellegrinaggio vennero ampliati alcuni assi viari, e sicuramente l’arteria principale del periodo era la via Francigena (o Romea) che collegava Roma con i territori d’oltralpe.

Fig. 1 I vecchi sposi in cammino verso la fontana della giovinezza (particolare), 1420 circa, Cuneo, Castello della Manta

Fig. 2 L’incidente dell’antipapa Giovanni XXIII nel 1414 sulla strada verso Costanza, dalla Cronaca del Concilio di Costanza di Ulrich de Richental, 1470 circa, Vienna, Österreichische Nationalbibliothek. Cod. Nr. 3044, c. 34v

Non esistevano scarpe adatte al viaggio: le scarpe del XIII e XIV secolo erano in cuoio con contrafforti in pelle, spesso senza legature, alte fino alle caviglie (cat. 11). Contro la pioggia e il fango potevano essere utilizzati delle specie di pattini, che permettevano di camminare con il piede sollevato da terra (cat. 12). Le soste per riparare le scarpe o cambiare le suole erano tuttavia un imprevisto da mettere bene in conto nel calcolo dei tempi del viaggio. Per chi poteva permetterselo, il percorso era intrapreso in sella a un cavallo, come è proprio dei dignitari ecclesiastici, dei nobili e dei commercianti agiati. L’animale era di loro proprietà o preso in affitto giusto per il tempo della missione. I ceti meno abbienti utilizzavano per gli spostamenti l’asino, e non a caso la tradizione cristiana ci consegna la Sacra Famiglia in viaggio verso l’Egitto proprio a dorso di un asino (cat. 28), e Cristo fece il suo ingresso a Gerusalemme su quest’umile animale. Merci resistenti, ma anche malati, donne e nobili potevano affrontare lo spostamento su un carro coperto da teli di cuoio, trainato da cavalli o da buoi. Il mezzo, per quanto di lusso, offriva poche comodità, principalmente per l’assenza di sospensioni e la poca affidabilità dei freni in discesa. Dal Trecento si diffuse un carro da viaggio con la cabina sorretta da catene o su fasce di cuoio, al fine di migliorare il confort dei viaggiatori. Il cattivo stato delle strade, tuttavia, rendeva poco adatto questo mezzo, soprattutto nei passi di montagna, come sembra indicare il noto incidente occorso all’antipapa Giovanni XXIII nel 1414, mentre era sulla via per Costanza, testimoniato dalla cronaca di Ulrich de Richental (fig. 2). Il trasporto via terra era comunque lento e soggetto a variabili quali le condizioni meteorologiche e l’insicurezza del cammino, oltre a dover prevedere il pagamento di numerosi pedaggi per attraversare una valle, una chiusa o un ponte. L’unità di misura del viaggio medievale era la giornata di marcia, ovvero il tempo necessario per percorrere una determinata distanza in sicurezza e con la luce del sole. Una trentina di chilometri al giorno erano una buona prestazione per chi si spostava a piedi, ed era ragionevole prevedere, ad esempio, da Lubecca a Santiago cinque mesi per coprire i circa 3.000 chilometri. Il sistema dei trasporti nel Medioevo registra complessivamente progressi limitati. Si trattò, soprattutto dall’XI secolo, della sistemazione e manutenzione di strade di terra battuta, spesso ancora eredità dell’as-

la rappresentazione del mondo | 117

Fig. 3 Cat. 9 (particolare)

se viario romano o ricostruite in base alle esigenze dei nuovi centri urbani e monastici. Fu migliorato l’attacco degli animali da soma, ricostruiti ponti e aperte nuove vie di collegamento, tra cui la più celebre è sicuramente la via alpina del San Gottardo, citata già nell’Annales Stadenses, sorta di guida per i pellegrini che dal nord Europa volevano raggiungere Roma, della metà del XIII secolo. I progressi più notevoli tuttavia si registrarono in campo marittimo. In particolare dal XII secolo, con la diffusione anche nel Mediterraneo dell’uso della bussola e poi successivamente del timone girevole fissato alla poppa della nave, con il perfezionamento della velatura e della precisione delle carte nautiche, furono apportate notevoli migliorie alla sicurezza e alla tecnica della navigazione. Alla fine del Medioevo battelli europei erano ormai in grado di avventurarsi in alto mare, e non erano più costretti all’inattività durante la cattiva stagione. Una novella trecentesca del lucchese Giovanni Sercambi è intitolata De periculo in itinere e racconta della sventura di un mercante fiorentino, assalito in un «mal passo» mentre percorreva a cavallo la strada di ritorno da Bologna. Il binomio pericolo-viaggio dovette essere tanto drammatico quanto frequente, sia che il tragitto fosse per mare o per terra. L’alto tasso di rischio che comportava, coscientemente, il mettersi in viaggio, ha motivato il nascere di una fitta rete di santuari lungo le principali vie di spostamento, dedicati alla Vergine e ai santi venerati dai viandanti, quali san Cristoforo (cat. 9), san Giacomo Maggiore (cat. 16, 19, 29), san Nicola e santa Brigida. La consapevolezza dei rischi non ha tuttavia ridotto la mobilità di mercanti, pellegrini, cavalieri e avventurieri, spinti ad affrontarli da una forte motivazione religiosa o economica, e talora anche dalla curiositas, dal desiderio di “vedere con i propri occhi” che costituisce ancora oggi il sapore intimo e la ricompensa di ogni viaggio.

118 | sezione i

| Cat. 1 Globo celeste Siria o Egitto, 1225 Bronzo, argento, rame; Ø 22 cm Napoli, Museo Nazionale di Capodimonte Inv. AM 1137

Il globo rappresenta le costellazioni visibili sulla volta celeste e, come una mappa tridimensionale, serviva da strumento didattico e di calcolo astronomico. Le stelle fisse infatti, secondo un modello perfezionato da Tolomeo (II secolo d. C.) si muoverebbero in modo circolare e uniforme attorno alla terra, immobile, infisse su una sfera cristallina. Questi oggetti furono prodotti particolarmente da astronomi arabi che per tutto il medioevo primeggiarono in questo studio e a cui dobbiamo la trasmissione dei testi greci, oltre che la creazione di oggetti astronomici quali appunto i globi e gli astrolabi. I globi celesti sono giunti sino a noi in pochi esemplari, in tutto circa una decina quelli databili anteriormente al XV secolo. Uno si conserva a Firenze, al Museo Galileo, ed è ritenuto il più antico di cui si abbia notizia. Composto da due coppe in ottone saldate insieme, è datato e firmato: «1085 / Ibrâhim ibn Saîd al Sahlì» (Strano 2010, pp. 16-17). Un secondo globo si conserva attualmente al Musée du LouvreLens (Dectot 2012, p. 176 , n. 113). Non presenta iscrizioni ma è tuttavia riferito all’Iran grazie al confronto con un altro esemplare (oggi al British Museum) prodotto per il grande osservatorio di Maragheh, creato sotto i mongoli dall’astronomo persiano Nasir al-Din Tusi, e ritenuto uno dei più prestigiosi osservatori del mondo allora conosciuto. Databile al 1315 circa, il globo di Lens è composto da due coppe in ottone dorato saldate insieme, con incise le figure delle costellazioni e iscrizioni. L’esemplare qui in mostra proviene dal Museo di Capodimonte, dove è giunto grazie all’acquisto nel 1817 dell’eclettica raccolta del cardinale Stefano Borgia (1731-1804). Questo è formato da due emisferi sui quali sono incise le quarantotto costellazioni visibili nella volta celeste. Le figure sono incrostate in rame e le relative stelle sono indicate da un punto in argento, e riportano inciso anche il nome. Altre due iscrizioni incise sul globo, in caratteri cufici, documentano il nome del committente, il sultano ayyubide al-Kamil (1218-1237), e la data in cui è stata terminata l’opera, corrispondente al 1225. La frequenza di iscrizioni con nomi e date su questi oggetti attesta da un lato la loro preziosità e rarità, dall’altro la volontà di legare la fama dell’oggetto alla memoria della munificenza del committente e, talora, anche al nome dell’artefice, matematico o astronomo, che lo realizzò. Benedetta Chiesi Bibliografia: L. Ambrosio, L. Martino, in Museo Nazionale di Capodimonte 1994, p. 232; C. Tonghini, in Venezia 1993, pp. 297-298, cat. 168; L. Martino, in Museo di Capodimonte 2002, p. 47, n. 2.

la rappresentazione del mondo | 119

| Cat. 2 Bottega di Gabriel de Vallseca Portolano Maiorca, 1440 circa Pergamena; 96 x 134,3 cm Firenze, Biblioteca Nazionale Centrale Portolano 16

Il prezioso portolano è uno degli esemplari di maggior pregio della cartografia nautica medievale posseduta dalla Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze. È un magnifico esempio del lavoro svolto dalla Scuola di Cartografia di Maiorca, che raggiunse i suoi più alti risultati fra il XV e il XVII secolo con una vasta e apprezzata produzione. I portolani furono le prime mappe a riportare in scala, e in maniera realistica, le terre allora conosciute e in particolare i porti sulle coste (da cui il nome), grazie anche alla documentazione raccolta durante i sempre più numerosi viaggi e con le nuove scoperte. Pur continuando a essere il latino la lingua della scienza e della cultura, nel Portolano 16, così come in molti altri della scuola maiorchina, i toponimi e i cartigli sono scritti in catalano, lingua alla quale potevano accostarsi più facilmente i marinai e gli stessi cartografi. L’autore di questa carta è anonimo, ma apparteneva con ogni probabilità alla bottega di Gabriel de Vallseca. Non restano oggi molte notizie di Vallseca, esperto cartografo di origine ebraica poi convertito al cristianesimo. Nato a Barcellona, si trasferì a Maiorca, dove già intorno al 1430 dirigeva una efficiente e ben organizzata bottega. Egli è

120 | sezione i

particolarmente noto per essere l’autore del Portolano del Museo Marittimo di Barcellona, ugualmente eseguito su pergamena e datato 1439, tra le più importanti carte nautiche medievali di Spagna. Il Portolano di Firenze non è invece datato, ma è stato collocato, con ogni probabilità, intorno al 1440. La carta riporta l’Europa con le isole britanniche (la Penisola Scandinava è solo accennata), il Mediterraneo e una larga fascia dell’Africa del Nord. A ovest sono presenti le isole Azzorre e le Canarie (in diversi colori), mentre a est, nonostante le dimensioni poco realistiche, si riconoscono il mar Caspio e il golfo Persico. Il portolano ha un ricco apparato iconografico: testine dei venti, vessilli, edifici a indicare le città, i regnanti nelle loro tende e animali in Africa; alcuni mari sono indicati con un tracciato ondulato in blu, mentre il mar Rosso è in arancione. Roberta Masini Bibliografia: Gori [1881], I, cc. 16r-19v; Pujades I Bataller 2007, pp. 260261, 270-271; Kretschmer 2009, tavv. XIV-XV.

| Cat. 3 Claudius Ptolemaeus Ptolomei cosmographia XV secolo (ante 1496) Codice membranaceo miniato; 57,5 x 42 cm Firenze, Biblioteca Nazionale Centrale Magl. XIII, 16 [cc. 110 v -111-r: Italia]

Introdotta a Firenze nella seconda metà del Trecento dallo studioso bizantino Manuele Crisolora, la Geografia di Tolomeo destò grande interesse tra gli studiosi. Ma fu soprattutto grazie alla passione di alcuni umanisti, tra i quali Niccolò Niccoli, considerato grande conoscitore dell’opera tolemaica, e il cartografo Paolo del Pozzo Toscanelli, tra i più fedeli sostenitori del modello antico della geografia  tolemaica, che gli approfondimenti sull’opera del geografo alessandrino conobbero un nuovo impulso. Le novità provenienti soprattutto dalle navigazioni portoghesi e quindi l’elaborazione di nuove carte, le cosiddette “carte novelle”, tra le quali molto note erano quelle di Niccolò Germano, contribuirono a sviluppare ulteriormente il dibattito sull’opera di Tolomeo, mettendone in luce sia i pregi che i difetti. È dunque in questo ambiente che opera il cartografo tedesco Enrico Martello o Martelli, presente a Firenze dal 1480 al 1496, autore del grande manoscritto tolemaico della Nazionale di Firenze. Il codice, in littera antiqua identificata nella mano del copista Niccolò Mangona, era destinato a Carlo Maria Vitelli di Città di Castello, il cui stemma familiare campeggia alla c. 2r. Le miniature sono state attribuite ai fratelli Gherardo e Monte di Giovanni; il testo, tradotto da Iacopo Angeli, è dedicato a papa Alessandro V. Le trentanove tavole che compongono il manoscritto, tutte precedute da descrizioni di viaggi, comprendono sia carte antiche che “novelle”. Eseguite dal Martello, le carte sono ricche di disegni minuti e particolareggiati e hanno colori vivissimi, che spaziano dal bianco al marrone e dal verde all’oro, con prevalenza dell’azzurro e del blu intenso. Alle cc.110v111r vi è la grande tavola dell’Italia moderna, dove la rappresentazione dei centri abitati, delle montagne, dei corsi d’acqua, dei laghi, delle zone paludose del basso Po e del ravennate è eseguita con grande precisione. In questa carta la Sicilia e la Corsica, seppure raffigurate parzialmente, mostrano per la prima volta una completa rappresentazione degli elementi relativi alle regioni interne. Le carte successive (cc. 112v-113v) compensano questa parzialità con la raffigurazione completa delle due isole, unitamente alla Sardegna e a Cipro. La carta dell’Italia di questo manoscritto, pur con evidenti tracce di continuità con le precedenti rappresentazioni risalenti alla prima metà del Trecento, registra un notevole passo avanti nel perfezionamento della figurazione cartografica della penisola. Palmira Panedigrano Bibliografia: Almagià 1914-1915, pp. 84-88; A. Cattaneo, A. Ferrand Almeida, in La cartografia europea 2003, pp. 342-343; Ptolemaeus ed. 2004.

122 | sezione i

la rappresentazione del mondo | 123

| Cat. 4 Ehrard Etzlaub (1455-1460 - 1532 circa) “Das ist der Rom Weg von meylen zu meylen mit puncten verzeychnet von eyner stat zu der endern durch Deutzche lantt” Norimberga, 1500 Xilografia; 40 x 28,9 cm Parigi, Bibliothèque nationale de France, Département des Cartes et Plans Inv. GED-7686

Ehrard Etzlaub, attivo a Norimberga, era geografo, cartografo, medico, liutaio e fabbricante di strumenti scientifici. Pubblicò per il giubileo del 1500 una mappa intitolata Das ist der Rom Weg von meylen zu meylen mit puncten verzeychnet von eyner stat zu der endern durch Deutzche lantt (Questo è il percorso verso Roma di miglio in miglio con disegnati i punti da una città all’altra attraverso il paese germanico) sulla base di una mappa che aveva inizialmente realizzato nel 1492. L’Anno Santo dava diritto a un’indulgenza plenaria a coloro che facevano un pellegrinaggio a Roma. Dal XIV secolo la città eterna aveva preso il posto, come destinazione privilegiata, della Terra Santa, diventata difficilmente accessibile. La mappa di Etzlaub è orientata con il sud in alto e presenta, in un formato quasi identico all’odierno A3, l’insieme dei paesi germanici, la Francia dell’Est e la metà settentrionale della penisola italiana. Dei riferimenti graduati si trovano sui bordi tutt’intorno, mentre istruzioni dettagliate per l’uso sono scritte nella parte inferiore, con una bussola al centro. Le numerose città sono indicate con il loro nome ma anche illustrate schematicamente, e le strade che le collegano sono rap-

124 | sezione i

presentate con linee punteggiate. La distanza fra ciascun punto equivale a un “miglio tedesco”, cioè 10.000 passi, che corrisponde a 7,4 km odierni. Il pellegrino che disponeva di una simile mappa era dunque in grado non solo di orientarsi con precisione, ma anche di pianificare il viaggio in funzione del suo ritmo di marcia (sapendo che un camminatore in buona salute può percorrere 30 km al giorno in media) e di effettuare le scelte necessarie, in particolare fra il valicare le Alpi, faticoso e pericoloso, o l’aggirarle, percorso più lungo ma più sicuro. Si può stimare la tiratura di questo tipo di mappa a decine di migliaia di esemplari, poiché la tecnica della xilografia, contrariamente all’incisione su metallo, consentiva una grande produzione. Tuttavia, malgrado la sua estesa diffusione e il lungo periodo di utilizzazione, ne rimangono oggi appena una decina di esemplari, e quasi altrettanti della seconda edizione della mappa, stampata nel 1501. Michel Huynh Bibliografia: Krüger 1951, pp. 17-26; Englisch 1996, pp. 103-123; Aliprandi, Aliprandi 2002, pp. 37-54.

la rappresentazione del mondo | 125

| Cat. 5 Capitello con imbarcazioni 1180-1196 circa Pietra calcarea; 36 x 46 x 31 cm Tolosa, Musée des Augustins Inv. ME 176

Il capitello proviene dal monastero benedettino di NotreDame de la Daurade a Tolosa. Originariamente si trovava nel chiostro, che era decorato da una serie di colonne binate e da capitelli istoriati. Il chiostro è andato distrutto a partire dal XVIII secolo, saccheggiato poi dalla Rivoluzione e infine demolito tra 1811 e 1814 insieme con la sala capitolare e le cappelle, allorquando si stabilì l’École des Beaux-Arts nei luoghi precedentemente occupati dai benedettini. Rimangono a testimonianza una ventina di capitelli, oggi esposti al Musée des Augustins. Tra questi si distinguono diverse maestranze, con diverse scansioni cronologiche. Il ciclo più importante e omogeneo raffigura la Passione di Cristo, mentre altri rilievi, come quello qui in mostra, rimangono isolati e non sono inseriti in una narrazione continua. Il rilievo, per quanto notevolmente mutilo, mostra una scena di navigazione, con cinque rematori incitati, decisamente e con l’aiuto di una frusta, dal nocchiere collocato all’estremità della barca. Tra le onde, segnate con linee incise e continue, si distinguono le code squamose di due grossi pesci o sirene. Questo capitello, su base stilistica, è stato attribuito al gruppo di sculture de la Daurade databili verso l’ultimo quarto del XII secolo, per

126 | sezione i

le quali non è stato rintracciato né un ciclo narrativo né l’esatta localizzazione nel complesso del chiostro. Lo stile del rilievo è vivace ma non particolarmente raffinato nel modellato, distinguendosi quindi dagli altri capitelli con scene minutamente dettagliate o rigogliosi racemi abitati. Anche l’iconografia rimane non risolta, a causa della parziale perdita del rilievo. Per quale motivo si è scelto di raffigurare un’imbarcazione per un chiostro benedettino? Secondo alcuni si tratterebbe della storia di Giona, o di un episodio dei viaggi di san Paolo (Mesplé 1961). Ma il significato è probabilmente da cercare anche nel senso metaforico che il viaggio e la navigazione assumono nell’iconografia cristiana. La Chiesa, infatti, come una nave, è governata da Cristo che da la cadenza ai rematori (i fedeli), mettendoli in grado con la propria Parola di resistere al canto delle sirene – il peccato – e di superare le insidie del mare, così come quelle della vita (cat. 30 e P. Ercoli, in Parma 2003). Benedetta Chiesi Bibliografia: Mesplé 1961, [s.p.], n. 176; H. Blaquière, in Tolosa 1971, pp. 97-100; D. Milhau, in Tolosa 1971, pp. 20-23 e p. 87, cat. 126; P. Ercoli, in Parma 2003, pp. 122-123, cat. 38.

| Cat. 6 Pietro Vesconte (XIV secolo) Carta nautica del Mediterraneo orientale, del mar Nero e del mare d’Azov 1311 Pergamena; 48 x 63 cm Firenze, Archivio di Stato Inv. Carte nautiche, geografiche e topografiche, 1

È la più antica carta nautica fra quelle sicuramente datate, opera del genovese Pietro Vesconte, redatta a Venezia nel 1311 e da lui sottoscritta. Sono raffigurate le coste italiane, balcaniche, russe, asiatiche e africane e le isole di Sardegna, Corsica, Sicilia, Malta, Creta, Cipro, Rodi e altre del mare Egeo. La carta presenta il caratteristico reticolo a “rombi di vento” costituito dall’intersecarsi delle linee che indicano la direzione dei venti e che hanno origine dalle rose. Queste sono di trentadue venti a linee nere, verdi e rosse: 8 nere per i “venti cardinali”, 8 verdi per i “mezzi venti”, 16 rosse per le “quarte di vento”. Le linee si incrociano in più luoghi, formando altre rose di ventiquattro e sedici venti. È priva di legenda e di disegni; sono segnalati con una mano Venezia, Pisa, Roma e Negroponte e vi si legge la firma «Petrus Vesconte de Janua fecit ista carta anno domini MCCCXI». La creazione di carte nautiche si sviluppa in Italia e nell’area mediterranea a partire dalla seconda metà del XIII secolo: Genova, Venezia e Palma di Maiorca sono le sedi più importanti di produzione e diffusione. Questo genere di strumenti crebbe in rapporto ai bisogni pratici della navigazione e del commercio marittimo, che si intensificano nei primi secoli dopo il Mille per diverse circo-

stanze: la crescita dell’economia di mercato, l’espansione delle città, i pellegrinaggi e le crociate. Sono disegni delle coste e dei mari dell’Europa e della regione mediterranea rilevati con la bussola e corredati da una fitta successione di toponimi lungo la costa, in contrasto con i territori interni del tutto privi di indicazioni, a testimonianza di una navigazione prevalentemente costiera, fatta di rotte di cabotaggio. Mentre le carte più antiche hanno scarsità di raffigurazioni, quelle dal XV al XVII secolo contengono una ricca tipologia di elementi decorativi come bandiere, stemmi, animali, figure stereotipate di sovrani, vedute prospettiche a volo d’uccello per i centri abitati. Fin dal secolo XIV compaiono inoltre gli atlanti nautici che, più delle singole carte, rivelano i progressi delle conoscenze geografiche: infatti, poco dopo la scoperta dell’America e dell’Oceano Pacifico, numerosi atlanti nautici riporteranno già le carte relative alle coste americane su entrambi gli oceani. Marina Laguzzi Bibliografia: Uzielli - Amat di San Filippo 1882, pp. 52-53; Caraci 1922, p. 102; Rombai 1993, pp. 83-145; Fonseca 2000, pp. 1-17; Tucci 2000, pp. 39-57.

la rappresentazione del mondo | 127

| Cat. 7 Manifattura inglese Astrolabio piano (o planisferico) Tomba-Koelliker XIV secolo Ottone, Ø 14,6 cm circa Firenze, Museo Galileo Inv. 3931

Come testimonia Roger Bacon (1214-1294), per un paio di secoli gli studiosi europei si adattarono a dover acquistare a caro prezzo strumenti astronomici, e in particolare gli astrolabi piani, dagli arabi. Dal XIV secolo, tuttavia, alcuni studiosi si preoccuparono di delineare la costruzione e l’uso dell’astrolabio piano in trattati ricavati da traduzioni latine di testi arabi. Fra questi studiosi figura il poeta Geoffrey Chaucer (1343-1400) che, intorno al 1391, scrisse A Treatise on the Astolabe. I manoscritti di questo lavoro contengono disegni raffiguranti strumenti con una rete dalla caratteristica forma a “Y”. Questi strumenti sono perciò detti astrolabi “tipo Chaucer”, anche se ne sono stati trovati esempi anteriori al trattato. L’ Astrolabio piano Tomba-Koelliker deve il nome allo scopritore, Tullio Tomba, e all’ultimo proprietario, Luigi Koelliker. Molto probabilmente è uno dei più antichi dei soli dieci astrolabi “tipo

128 | sezione i

Chaucer” esistenti, poiché risale alla seconda metà del XIV secolo. Quasi tutte le 24 stelle presenti nella rete sono ancora indicate con i nomi arabi: Algomeyza (Procione), Alcimiek (Spica), Alhayok (Capella), eccetera. Tre indicatori si distinguono per essere caratterizzati da teste di animali: di un cane per Alhabor (Sirio), di un drago per Alacrab (Antares) e di un uccello per Wega (Vega). L’astrolabio risulta esser stato realizzato da – o costruito per – qualcuno che viveva nei dintorni di Londra. Il collare del cane, con la peculiare incisione «SSS», rappresenta il cosiddetto livery collar, emblema dei dignitari della casa dei Lancaster. Giorgio Strano Bibliografia: Gingerich 1987, pp. 92-93; Tomba 1994, pp. 46-53; Bennett, Strano 2014, pp. 179-229; M. Huynh, in Parigi 2014, p. 38, cat. 3.

| Cat. 8 Manifattura araba Astrolabio piano (o planisferico) XIII secolo Ottone dorato, Ø 18 cm circa Firenze, Museo Galileo Inv. 1112

L’astrolabio piano nasce dalla “proiezione stereografica polare” che permette di trasferire sul piano le posizioni delle stelle, delle circonferenze celesti (equatore, tropici e zodiaco) e della griglia delle cosiddette “coordinate azimutali”. La “rete” traforata e girevole dello strumento riporta gli indicatori di alcune stelle brillanti e lo zodiaco. Il “timpano”, fisso dietro la rete, riporta invece la griglia delle coordinate azimutali del luogo d’osservazione. Rete e timpano sono inseriti nella “madre” dello strumento, dal bordo graduato, e trattenuti al centro da un perno. Sul retro dello strumento è presente un dispositivo di mira chiamato in arabo alidada (braccio girevole). Sebbene alcuni studiosi lo attribuiscano a Claudio Tolomeo (II secolo d. C.), la prima testimonianza certa sull’esistenza dell’astrolabio piano è il trattato che ne scrisse Severo Sêbôkht (VII secolo d. C.). La fortuna dello strumento iniziò dal IX secolo con gli astronomi arabi. L’astrolabio piano era usato,

fra l’altro, per conoscere l’ora attraverso la misura dell’altezza del sole o di una stella sopra l’orizzonte. Tale impiego rendeva lo strumento particolarmente utile agli astronomi delle moschee, il cui compito principale consisteva nel determinare i cinque momenti del giorno in cui il muezzin doveva invitare i fedeli a pregare. La prima diffusione dello strumento in Europa avvenne per importazione dalle aree di sovrapposizione culturale araba e latina: Spagna, Sicilia e Balcani. Astrolabi arabi medievali figurano nelle più importanti collezioni principesche del Rinascimento, come quella dei granduchi della famiglia Medici. Giorgio Strano Bibliografia: M. Miniati, in Miniati 1991, p. 8, n. 4; Tega 2007, p. 56; M. Miniati, in Firenze 2008, p. 43, n. I.1.9; G. Strano, in Parigi 2010, p. 203, n. 107; G. Strano, in Firenze 2012, pp. 116-117, n. 13.

la rappresentazione del mondo | 129

sezione ii

la salvezza dell’anima. pellegrini, predicatori, chierici

Il viaggio nell’immaginario cristiano Marc Sureda i Jubany

La nozione di viaggio è fondamentale nell’immaginario della società cristiana medievale. Il popolo d’Israele aveva origini nomadi: Dio aveva ordinato ad Abramo di partire con la famiglia e il gregge verso Sichem, poi verso l’Egitto, a causa della carestia, poi ancora verso Hebron, il Negheb o Gherar nella città di Canaan. Con Giuseppe è un intero popolo a spostarsi verso l’Egitto. Il ritorno verso la Terra promessa, sotto la guida di Mosè e di Aronne, costituisce allo stesso tempo la grande epopea del popolo ebraico e la metafora del popolo cristiano: il passaggio del mar Rosso ne fa il popolo eletto di Dio, la traversata del deserto ne conferma la condizione di popolo peccatore. Prima della sedentarietà e della costruzione del Tempio da parte di Salomone la presenza di Dio stesso, in un’Arca portatile, era itinerante. Il popolo ebraico ne conserverà la memoria ogni anno, nella festa di Sukkot e nel pellegrinaggio a Gerusalemme a Pasqua. Gesù non era nomade, ma partecipava di questa cultura propizia agli spostamenti. Alla sua nascita, tre saggi provenienti dalle parti più remote del mondo sono venuti ad adorarlo (fig. 1-2). Poi viene il viaggio più lungo, la fuga in Egitto per sfuggire alla persecuzione di Erode (cat. 28). La proiezione sulla figura del Cristo della storia del suo popolo è all’origine della tradizione su questo viaggio, l’unico effettuato da Cristo fuori da Israele. Nella sua vita pubblica Cristo compie “viaggi” a vari livelli, fisici e spirituali: si perde nel deserto in un viaggio interiore, parte alla ricerca di discepoli, fa un ingresso solenne e regale nella città di Gerusalemme, acclamato dalla folla. Il sabato santo scende agli Inferi e dopo la Resurrezione si sposta ancora per incontrare i suoi discepoli, convocandoli in Galilea, prima di intraprendere l’Ascensione, il suo viaggio definitivo verso il Padre.

132 | sezione ii

Fig. 1-2 Cassetta dei re Magi, Limoges, 1200 circa, Parigi, Musée de Cluny, Cl. 23822

I discepoli di Cristo diventano essi stessi dei viaggiatori: a partire dalla Pentecoste essi sono mandati a predicare la buona novella nel mondo. Pietro va a Roma, Paolo percorre quasi tutto il Mediterraneo e fonda molte comunità. Altri testi apocrifi descrivono i peripli degli evangelizzatori in tutti gli angoli del mondo conosciuto, dall’India alla Spagna. Le chiese più antiche fonderanno il loro prestigio sul preteso arrivo di tale o tal altro santo, che segna talvolta la nascita di linee di successioni episcopali, in una “agiogeografia” del mondo cristiano. Dopo la morte di un santo, il suo corpo resta ancora depositario della propria virtus e può manifestare l’accettazione o il rifiuto di eventuali spostamenti, grazie a fatti miracolosi riportati dai racconti leggendari. Più pragmaticamente le reliquie presenti in quasi ogni chiesa o parrocchia costituivano umili testimonianze di questi eventi straordinari. La nozione di viaggio le accompagnava molto spesso, quando si riteneva che queste provenissero dalle terre lontane in cui i santi avevano vissuto o subito il martirio. Venivano riportate dalla Terra Santa o da altri luoghi d’Oriente e d’Occidente, quasi come dei souvenir. Venivano diffuse dappertutto, poiché dall’inizio del Medioevo esse erano indispensabili ai riti di consacrazione dell’altare. Venivano conservate in contenitori più o meno lussuosi, talvolta venuti anch’essi da molto lontano: vetri arabi o persiani (cat. 57), sacchetti di tessuti preziosi (cat. 31), scatole di oreficeria, destinate a essere poste negli altari o da mostrare alla pubblica venerazione. Reliquie e reliquiari erano dunque testimoni di viaggi reali o immaginari per molti uomini e donne che non avevano mai oltrepassato l’orizzonte del loro panorama quotidiano ma che, in quanto cristiani, sapevano che la loro routine quotidiana era una tappa transitoria nel loro viaggio verso la Gerusalemme celeste.

la salvezza dell’anima. pellegrini, predicatori, chierici | 133

La salvezza dell’anima Marc Sureda i Jubany

Ancora ai nostri giorni, la religione costituisce una delle principali motivazioni del viaggio secondo l’Organizzazione mondiale del turismo. Nel Medioevo – quando la nozione di “turismo” non esisteva – l’immaginario religioso impregnava la vita intellettuale, sociale e politica, e sono pochi i viaggi che non abbiano comportato un aspetto spirituale, oltre a quelli motivati dalla fede stessa. Nell’Europa medievale, il viaggio a motivazione strettamente religiosa per eccellenza è il pellegrinaggio: in primo luogo una pratica spirituale. Anche se il percorso doveva contare più del punto di arrivo, questi spostamenti rispondevano generalmente a uno scopo preciso: la guarigione da una malattia, l’ottenimento della fertilità, il perdono di una colpa, l’adempimento di una pena imposta, la certezza della salvezza per sé o per i propri cari. Si intendeva attivare la virtus dei santi visitando la loro tomba e le loro reliquie; si attendevano per esempio da san Pietro facilitazioni per oltrepassare la porta del Cielo di cui egli era il guardiano. Indubbiamente, altri motivi potevano combinarsi a queste richieste spirituali o anche rimpiazzarli, ma la salvezza dell’anima restava sempre la motivazione essenziale, o almeno predominante, del pellegrinaggio. La dimensione religiosa della società medievale ha condotto ad altri tipi di spostamento. È il caso dei viaggi degli ecclesiastici verso Roma o Avignone per cercare privilegi, o verso altri centri per assistere ai sinodi o ai concili. Allo stesso modo, l’abitudine monastica di affidare l’annuncio del decesso di un monaco o di un grande personaggio a un membro della comunità o a un messaggero, ha lasciato nei cosiddetti “rotoli dei morti” tracce preziose e prove materiali di lunghi viaggi. I predicatori – soprattutto francescani e domenicani a partire dal XIII secolo – viaggiavano per la salvezza delle anime. La questua di elemosine per le crociate, la costruzione di una nuova chiesa o il soccorso dei poveri è una pratica peculiare dei secoli medievali. Anche i piccoli spostamenti nel territorio o nel villaggio potevano anche prendere una portata spirituale. È il caso delle processioni, piccoli viaggi rituali che evocavano quelli di Cristo o del popolo cristiano verso la salvezza. Un’umile saliera liturgica a forma di chiesa (cat. 36) allude simbolicamente al viaggio di un chierico di parrocchia per benedire, ogni anno nel periodo di Pasqua, tutte le persone, case e beni di cui si componeva quel popolo. Allo stesso modo, portare un’ostia consacrata a un malato che affrontava il suo ultimo viaggio verso l’aldilà era a sua volta un riflesso del viaggio soprannaturale del Dio incarnato verso la dimora degli uomini. La parola stessa viaticum, il nutrimento di colui che viaggia, mostra bene che nell’immaginario cristiano la vita non è che un viaggio verso l’aldilà. I dignitari ecclesiastici in viaggio dovevano assicurarsi di poter celebrare la messa: da qui l’uso degli altari portatili (cat. 33-35), che rappresentavano anche l’universalità della Chiesa in una celebrazione all’aperto, riservata per esempio alle truppe in cammino o pronte per la battaglia. Era normale portare in viaggio pendagli, reliquiari portatili (cat. 37), o piccoli dipinti, supporto per la devozione e la preghiera, fosse quest’ultima per il viaggiatore una pratica quotidiana o un’ultima risorsa in caso di pericolo. I molti rischi potevano, in effetti, fare di uno spostamento qualunque l’ultimo e vero viaggio dell’anima.

134 | sezione ii

Fig. 1 Cat. 35 (particolare)

Fig. 2 Luca di Leyda, Pellegrini a riposo, 1508 circa, Parigi, Bibliothèque nationale de France, Département des Estampes et de la Photographie, Réserve CB-4 Boîte écu

la salvezza dell’anima. pellegrini, predicatori, chierici | 135

Il pellegrinaggio Marc Sureda i Jubany Il pellegrinaggio, viaggio verso un luogo santo, è una pratica comune a più religioni, più culture, più epoche, dall’antichità classica ai nostri giorni. Il Medioevo europeo ha particolarmente celebrato la figura del pellegrino, quasi fino a farne un topos, anche se nella cristianità – al contrario dell’Islam – il pellegrinaggio non è un atto obbligatorio. Il pellegrino è innanzitutto colui che, per motivi religiosi o dichiarati tali, si mette in viaggio verso un santuario cambiando status sociale: una volta ottenuto il permesso di partire, egli lascia la sua cornice di vita quotidiana per diventare “straniero” (peregrinus). Questa forma di ascesi penitente, analoga a quella dei monaci, portava alla purificazione, se non addirittura alla santità. Il bordone e la bisaccia, benedetti dal vescovo o dal curato (cat. 10) e, più tardi, le insegne appese al cappello o alla giacca, sono i segni di uno status particolare del pellegrino, che lo rende degno della protezione e della carità di tutti, e che giustifica d’altronde la manutenzione e le migliorie delle strade e degli alberghi nelle città come lungo i percorsi. Ma le ragioni del pellegrinaggio medievale oltrepassano la sola motivazione religiosa. Così era per i nobili o per i principi– raramente a piedi, poiché i loro corteggi costituivano anche una parata sociale e politica – o per quelli che ne approfittavano per abbandonare la famiglia, scoprire il mondo e condurre una vita libera, se non licenziosa (in occasione del pellegrinaggio uomini e donne potevano talvolta viaggiare insieme, cfr. fig. 2 a p. 137). Esistevano però anche i falsi pellegrini, che si davano al saccheggio e divennero causa di una diffidenza crescente nei confronti di questa categoria. Il pellegrinaggio medievale aveva come prima destinazione i luoghi più importanti della cristianità. Costantino riorganizzò i Luoghi Santi e istituì Gerusalemme quale santuario cristiano (fig. 2) ma le conquiste prima persiana (614) e poi araba (638) non ne permisero più una visita agevole; fu necessario attendere il nuovo slancio delle crociate per veder apparire nuove strutture di protezione – Ospitalieri, Templari, Francescani… – che restarono per qualche secolo al servizio di un pellegrinaggio comunque rischioso. L’esperienza di quelli che ne erano tornati, raccolta nei resoconti di viaggio, diveniva così prezio-

136 | sezione ii

Fig. 1 Maestro della Mazarine e collaboratori, Pellegrini che fanno il bagno nel Giordano, dal Liber de quibusdam ultramarinis partibus di Guillaume de Boldensele, Parigi, 1410-1412, Parigi, Bibliothèque nationale de France, Ms. Français 2810, c. 129v

Fig. 2 Maestro della Mazarine e collaboratori, Pellegrini che pagano per accedere al Santo Sepolcro, dal Liber de quibusdam ultramarinis partibus di Guillaume de Boldensele, Parigi, 1410-1412, Parigi, Bibliothèque nationale de France, Ms. Français 2810, c. 125

sa. Parallelamente, altri centri maggiori si consolidarono in Europa nel corso dell’Alto Medioevo. Roma fondò la sua importanza come centro di pellegrinaggio, come pure il suo ruolo politico, sui martyria dei principi della Chiesa, Pietro e Paolo; i loro busti, simboli della città pontificia a partire dalla tarda antichità, figuravano sulle insegne dei pellegrini come nelle bolle papali (cat. 14). La città eterna offriva anche innumerevoli reliquie dei martiri e molti altri oggetti santi, come le Veroniche del Laterano e del Vaticano, anch’esse riprodotte in altre insegne di pellegrinaggio (cat. 15). Nel 1300, poiché la strada per Gerusalemme era diventata molto difficile, il primo giubileo consolidò il pellegrinaggio a Roma: la ricompensa dell’indulgenza plenaria determinò il moltiplicarsi dei “romei” sulle strade europee (cat. 27). Due secoli più tardi per l’Anno Santo del 1500 si diffuse la mappa di Erhard Etzlaub, strumento di orientamento e di pianificazione per i “romei” dei paesi germanici (cat. 4). Un terzo luogo di pellegrinaggio di grandissimo prestigio compare nel IX secolo: Santiago de Compostela. Lo sviluppo eccezionale del culto tributato al santo apostolo, la cui tomba era stata scoperta grazie a eventi straordinari, e la cui protezione si era manifestata attraverso molti miracoli all’epoca della lotta contro i saraceni in Spagna, finì per fare di chi si recava a Santiago de Compostela il pellegrino europeo per eccellenza nei secoli XI-XIII. La conchiglia di san Giacomo, ricordo attestante il passaggio dei pellegrini lungo le spiagge galiziane, diventa un loro attributo simbolico, mentre il santo apostolo vestito col cappello e la mantellina decorati di conchiglie, tanto nelle immagini di culto che nelle placchette e nelle insegne, assume le sembianze del pellegrino (cat. 16, 19, 21-23). I Cammini di Santiago divennero delle vere e proprie arterie transeuropee: il Codex Calixtinus, composto verso il 1150 dal monaco originario del Poitou Aymeric Picaud, ne fa menzione. I flussi di pellegrini si dirigevano anche verso altri santuari più o meno antichi, di rilievo internazionale, regionale o semplicemente locale (Mont-Saint-Michel, il promontorio del Gargano, Reims, Tours, Canterbury, Colonia, Conques, Padova, Le Puy, Rocamadour, Montserrat...). Alcuni riuscirono perfino a concedere dei benefici spirituali simili a quelli dei centri maggiori. Questa espansione, legata in parte all’aumento demografico verificatosi attorno all’anno Mille, fu indubbiamente un fattore importante di sviluppo economico e contribuì alla crescita, se non addirittura alla creazione di città e villaggi, e alla costituzione di una vera rete europea.

la salvezza dell’anima. pellegrini, predicatori, chierici | 137

| Cat. 9 Arte francese Vetrata con san Cristoforo 1430 circa Vetri colorati, giallo d’argento, pittura a grisaille, piombo; 177 x 73 cm Parigi, Musée de Cluny Inv. Cl. 22759

La figura monumentale del santo è situata sotto una nicchia gotica e si staglia sul fondo blu damasco: il traghettatore del guado si è caricato sulle spalle il Bambino Gesù ed entra nel fiume pescoso. Secondo la leggenda iconografica del “portatore di Cristo” apparsa nel XII secolo e messa per iscritto durante il secolo seguente, il gigante sente aumentare il peso del suo carico durante la traversata fino a capire che sta trasportando proprio il Cristo. Del viaggiatore, questo san Cristoforo porta i simboli: la barba, la veste corta, l’ampio mantello cinto in vita e un bastone nodoso al quale si appoggia. Fra il XII e il XV secolo, nelle regioni alpine che dalla Baviera o dall’Austria portano in Italia, il santo è stato oggetto di molte rappresentazioni murali. L’iscrizione del 1263 che accompagna la pittura della chiesa di San Pellegrino a Bominaco (Abruzzo) ne fornisce la ragione: «Christophori per viam cernit cum quisque figuram / tutus tunc ibit subita nec morte peribit». Si presume, infatti, che guardare la figura di san Cristoforo protegga da una morte improvvisa tutti coloro che si mettono in viaggio. Il santo diventa il modello dei pellegrini e dei viaggiatori. Prima della partenza è buon uso munirsi di una piccola imma gine protettrice di san Cristoforo che, al ritorno, viene appesa in casa (si veda, ad esempio, l’immagine del santo appesa sul camino nell’interno domestico dell’Annunciazione di Robert Campin, Bruxelles, Musées royaux des Beaux-Arts). San Cristoforo, protettore universalmente riconosciuto, è dotato della virtù di proteggere dalla morte per carestia o per epidemia, come la peste. Ma è per allontanare la “mala morte”, la morte improvvisa senza il conforto dei sacramenti e della preghiera, che viene soprattutto invocato. Questa vetrata proviene da una chiesa o da una cappella sconosciuta. Per la finezza del tratto grafico e l’utilizzo delicato della spugnatura nelle zone d’ombra, il pittore-vetraio firma un’opera francese del primo terzo del XV secolo, più narrativa che realista. Difficile stabilire se questa figura faccia riferimento a un culto locale, a delle reliquie conservate in loco o a un preciso santo patrono personale, ma la popolarità del santo alla fine del Medioevo fa pensare che essa derivi più semplicemente dalla devozione apotropaica. Sophie Lagabrielle Bibliografia: Rosenfeld 1937; V. Beyer, in Strasburgo 1965, cat. 179; F. Perrot, in Amsterdam 1974, pp. 70-71, cat. 15; F. Perrot, in Colonia 1974, pp. 103-105, cat. 63; Favreau 1976-1977, p. 36; Perrot 1977, pp. 103-105; Rigaux 1996, pp. 235-266.

138 | sezione ii

| Cat. 10 Pontificalis ordinis liber incipit Francia, inizio XVI secolo Codice membranaceo; 41 x 28 cm Lione, Bibliothèque Municipale Inv. MS 565 [c. 175 bis: Benedictio baculi et perae peregrinorum]

La scena illustra la benedizione impartita dal vescovo alle bisacce e ai bordoni, gli attributi che meglio caratterizzano i pellegrini, prima della partenza per il viaggio di fede. Si tratta di una delle molte miniature che impreziosiscono le pagine di questo genere di libro liturgico (Pontificale) dove vengono descritte le celebrazioni delle sacre funzioni, le formule e i rituali da seguire secondo le regole della Chiesa cattolica. Solitamente le cerimonie si diversificavano a seconda dei soggetti interessati, così si hanno espressioni rituali appositamente riservate alle persone (chierici, sacerdoti, vescovi, abati, sovrani, etc.) e alle cose (altari, paramenti sacri, campane, armi, vessilli, etc.). In questo caso sull’altare sono poggiate due bisacce e due bordoni e il vescovo, solennemente abbigliato e seguito da un folto numero di chierici tonsurati, è raffigurato nell’atto di benedizione; a lato dell’altare due personaggi sembrano in raccoglimento, coinvolti dalla cerimonia, e potrebbero essere riconosciuti come i pellegrini ai

quali sono destinate le bisacce e i lunghi bastoni oggetto della scena. La pratica di benedire i signa peculiari del devoto viandante viene testimoniata in Francia e Germania già nei testi di Pontificali del XXII secolo che ci tramandano i formulari di Benedictio perae et baculi peregrinantium e ancor prima, nel IX secolo, bisaccia e bordone venivano benedetti in occasione del pellegrinaggio ad limina beatorum Petri et Pauli ( Jacomet 2009, pp. 477-544, pp. 522-528, 543). Si può osservare in questa miniatura come l’accento della benedizione, e dello sguardo dell’artista, sia posto più che sulla persona, sui signa propri del viandante, che ne esaltano la sua condizione transitoria. Attraverso i signa peregrinationis gli effetti della benedizione si trasmettono al corpo, di cui sono sostegno, e quindi all’anima ( Jacomet 2009, pp. 519-521 e n. 148). Marino Marini Bibliografia: M. Gargiulo, in Roma 1999, p. 308, cat. 42.

la salvezza dell’anima. pellegrini, predicatori, chierici | 139

| Cat. 11 Due calzature Fine del XIII secolo Cuoio; 9 x 22,6 x 9 cm; 8 x 29,4 cm Tourcoing, Centre d’Histoire Locale Inv. R 209; R 210

| Cat. 12 11

Pattino XIII secolo Legno e ferro; 5,7 x 15,6 x 6,6 cm (parte conservata) Tourcoing, Centre d’Histoire Locale Inv. R 211

| Cat. 13 Calzatura detta “a zampa d’orso” Francia, fine del XV secolo Cuoio; 12 x 27 cm Parigi, Musée de Cluny Inv. Cl. 20370

Tutta la società medievale viaggia, dal semplice contadino al re, e per quasi tutti questi uomini e donne viaggiare a piedi è la regola, perché poche persone posseggono un cavallo o un carro. La calzatura è dunque essenziale per il viaggiatore. Tuttavia nel Medioevo non esistono delle scarpe specifiche per camminare e, tranne pochi casi, le calzature sono piuttosto generiche. Averne un paio rappresenta già un lusso per il pellegrino e alcuni di loro vanno a piedi scalzi sia per economia che per penitenza. Le calzature medievali sono spesso interamente di cuoio, confezionate secondo la tecnica del “guardolo rivoltato”, ancora in uso attualmente. Alcune, tuttavia, usate negli ambienti paludosi, umidi, o gelati, possono essere fornite di accessori, come i pattini o i ramponi da ghiaccio, che evitano di sprofondare, scivolare e di

12

140 | sezione ii

inumidire la suola. La scarpa “a zampa d’orso” prende il nome da un’analogia zoomorfa, in quanto si allarga molto all’estremità. È la calzatura maschile di moda alla fine del Medioevo. Viene raffigurata ai piedi di tutti i personaggi importanti in numerosi arazzi dell’epoca e si iscrive, insieme alla poulaine (scarpa a punta) o alla pantofola che van Eyck dipinge nel ritratto dei coniugi Arnolfini, nella gamma delle calzature alla moda, diverse dalle generiche scarpe medievali. Michel Huynh Bibliografia: N. Meyer-Rodrigues, in Parigi 1998, pp. 431-432, cat. 350 e 351; Karlsruhe 2001, p. 290.

13

| Cat. 14

| Cat. 16

Quadrangula con i santi Pietro e Paolo

Insegna con la conchiglia di san Giacomo

Roma, XIII-XIV secolo Piombo-stagno; 2,9 x 3,5 cm Parigi, Musée de Cluny Inv. Cl. 4809

Santiago de Compostela, XV secolo Piombo-stagno; 1,7 x 1,5 cm Parigi, Musée de Cluny Inv. Cl. 23351

| Cat. 15

| Cat. 17

Insegna con la Veronica

Ampolla di pellegrinaggio con san Thomas Becket

Roma, XIII-XIV secolo Piombo-stagno; 3,2 x 3,7 cm Parigi, Musée de Cluny Inv. Cl. 23459

Canterbury, XIII secolo Piombo-stagno; 9,8 x 8,1 cm Parigi, Musée de Cluny Inv. Cl. 18063

| Cat. 18 Insegna di Notre-Dame de Boulogne Boulogne-sur-Mer, XV secolo Piombo-stagno; 4,2 x 5,5, cm Parigi, Musée de Cluny Inv. Cl. 4697

14

15

Le insegne di pellegrinaggio, al pari degli scudetti e degli stemmi araldici, dei gioielli o degli altri oggetti applicabili alle vesti, nel Medioevo erano un elemento di immediato riconoscimento visivo. Cominciarono a essere prodotte in serie dal XII secolo, utilizzando materiali economici (stagno e piombo) e vendute a buon prezzo nei pressi dei santuari, principalmente ai pellegrini ma non solo: nulla impediva a un devoto mercante di acquistarne per proteggere il suo viaggio e le sue merci. Tuttavia, le insegne cucite sull’abito o sul cappello identificavano colui che le portava in primo luogo come un pellegrino, degno quindi della carità, accoglienza e benevolenza di tutti i buoni cristiani. Le insegne esibivano visivamente i differenti luoghi santi visitati da colui

16

che le indossava ed evocavano le esperienze – persino le grazie spirituali – accumulate durante il pellegrinaggio; ma, nel contempo, potevano caratterizzare chi ne portava tante come qualcuno che avesse trovato nel viaggio devoto, vero o falso, una forma di vita più libera, che poteva oscillare tra spiritualità e malizia. Lo sguardo critico e ironico sulle insegne di un pellegrino, che possiede anche altri oggetti meno “spirituali”, si mostra nei versi dell’antico poema inglese Piers Plowman (1370 ca.): «Una coppa e un fagotto aveva al fianco / un centinaio di ampolle sul cappello / ricordi eran del Sinai, conchiglie di Galizia / sul mantello più croci e le chiavi di Roma / davanti una Veronica, perché tutti sapessero / e gli emblemi indicassero dove si era recato».

la salvezza dell’anima. pellegrini, predicatori, chierici | 141

17

18

Al ritorno dal viaggio, il pellegrino spesso buttava l’insegna in un fiume come ex-voto. Ma poteva conservarla con una funzione di richiamo alla virtus del santuario d’origine. Colui che conservava l’insegna dopo un pellegrinaggio e che talora faceva parte di una confraternita, per esempio quella di san Giacomo per coloro recatisi a Compostela, poteva indossarla nuovamente quand’era vicino alla morte, per essere riconosciuto come pellegrino anche al momento del Giudizio. Se ne poteva fare anche un amuleto per proteggere la casa, i beni, la famiglia, talora seppellendola nelle fondazioni di un nuovo edificio. Le insegne di pellegrinaggio conservate attestano tutti questi usi, e sono state rinvenute, infatti, per la maggior parte nei cimiteri, in scavi di fondazioni e soprattutto nei letti dei fiumi (Koldeweij 2006, pp. 9-15). Alcune insegne prodotte a Boulogne-sur-Mer (cat. 18), Canterbury (cat. 17), Roma (cat. 14, 15) e Compostela (cat. 16), recuperate tutte sul fondo della Senna, offrono un campionario della varietà di destinazioni dei pellegrini che, al loro ritorno incolumi nella città di origine, hanno buttato migliaia di questi oggetti nel fiume parigino. La conchiglia è dall’XI secolo l’insegna per eccellenza del pellegrino giacomeo: questo esemplare in metallo non fa altro che richiamare l’elemento naturale d’origine, raccolto sulle spiagge della Galizia. Quella di Boulogne, rappresentante la Vergine su di una nave, evoca in primo luogo l’antica tradizione dell’arrivo miracoloso, nel porto della città, di una scultura lignea della Madonna, su una barca senza remi né marinai; ma una tale insegna, in questo santuario situato nei pressi di Calais e spesso primo approdo dei

pellegrini inglesi e irlandesi diretti verso Roma o Gerusalemme, richiama anche la protezione offerta dalla Vergine durante i viaggi per mare, soprattutto nel passaggio della Manica. Le insegne di provenienza romana sono perlopiù dedicate ai santi principali della città eterna (Pietro e Paolo), ma testimoniano anche l’abbondante varietà di santuari e di oggetti sacri di Roma – come la Veronica o Volto Santo qui rappresentato – visitati dai pellegrini che giravano almeno le Sette Chiese. Da parte sua, l’ampolla di Canterbury (santuario regionale per gli inglesi, d’oltremare per i francesi) rivela un doppio uso, poiché conteneva un po’ d’acqua con tracce del sangue di san Tommaso Becket, dalle proprietà ritenute taumaturgiche. La raffigurazione del martirio del santo vescovo sull’ampolla rende evidente l’eccezionalità del suo contenuto. Esempio di altre ampolle riempite di semplice acqua benedetta, il sovrapporsi in questo oggetto delle funzioni di insegna, reliquario e amuleto è assai eloquente riguardo alla spiritualità del pellegrinaggio medievale. Marc Sureda i Jubany

142 | sezione ii

Bibliografia: Bruna 1996, p. 50, n. 7 (Cl. 23459), p. 85, n. 78 (Cl. 4697), p. 154, n. 223 (Cl. 23351), p. 198, n. 305 (Cl. 4809), p. 210 n. 327 (Cl. 18063); Taburet-Delahaye 2009, p. 120.

| Cat. 19 Frammento di vetrata con san Giacomo in abiti da pellegrino Colonia o Basso Reno, ultimo quarto del XV secolo Vetri colorati, pittura a grisaglia, piombo; 41,1 x 43 cm Colonia, Museum Schnütgen Inv. M 607

La vetrata rappresenta san Giacomo di tre quarti, nimbato, raffigurato nella tradizionale iconografia del pellegrino, con tunica, ampio mantello e cappello a larghe falde e la conchiglia appuntata sulla fronte. Il volto è circondato da una fluente barba e capelli canuti e ricci. Il frammento, di forma quadrangolare, inquadra il santo a mezzo busto contro un’architettura gotica di tre arcature, coperte in primo piano da un tendaggio di broccato verde e da una cornice dorata, decorata da perle bianche. I colori della vetrata sono accesi, attorno all’arancio caldo dell’aureola e il blu e verde intenso del fondale. Il disegno dei tratti del volto, delle onde della barba e dei capelli, mostra un’estrema qualità pittorica, mentre il sensibile sfumato tra toni chiari e scuri conferisce un’intensità volumetrica al busto del santo.

San Giacomo ha un’espressione assorta e severa, con lo sguardo diagonale, rivolto alla sua destra. La distanza dello sguardo e dei pensieri di san Giacomo contrasta e risalta sul fondo prezioso ed elaborato della tenda di broccato e delle perle. Per l’iconografia, il frammento di vetrata può essere accostato ad altre raffigurazioni della fine del XV secolo, tra cui una suggestiva incisone, attribuita a Lucas Cranach (Firenze, Gabinetto Disegni e Stampe degli Uffizi, 3121 St.Sc.) dove san Giacomo Maggiore appare in età avanzata, severo e dalla lunga barba, con il volto incorniciato da un pètaso dalle larghe falde, con quella frontale sollevata e con la conchiglia spillata al centro. Benedetta Chiesi Bibliografia: Lymant 1982, pp. 133-134, n. 75 (con bibliografia precedente).

la salvezza dell’anima. pellegrini, predicatori, chierici | 143

| Cat. 20 Arte francese (Limoges) Placchetta con pellegrino Primo quarto del XIII secolo Rame sbalzato, inciso, cesellato e dorato; 13,7 x 6 cm Firenze, Museo Nazionale del Bargello Inv. 754 C

La placchetta raffigura un pellegrino che incede verso destra, con il bordone nella mano sinistra e la destra alzata in atto di indicare la via o in atteggiamento interlocutorio. Indossa un’ampia tunica, stretta in vita da una cintura e lunga fino alle ginocchia. I piedi sono coperti da alti calzari che arrivano sin sopra le caviglie; la testa invece sembra avvolta da un berretto calato sulle orecchie. Pur nella raffigurazione sintetica, la figura esemplifica vivacemente, e in modo immediatamente riconoscibile, il tipico abbigliamento del pellegrino. Le pieghe dei panneggi non sono plastiche ma quasi disegnate e incise sul rame, con tratti fermi e profondi. Sono sottolineate le curve del tessuto attorno alle cosce e tra le gambe, così come la piega della tunica trattenuta in vita dalla cintura. Un lembo dell’abito si attarda, come sospinto dal vento, alle spalle del viandante, a voler suggerire visivamente il senso del moto e della direzione. Questo particolare trattamento volumetrico e la vivacità narrativa inducono a datare il rilievo agli inizi del XIII secolo. La forma della placchetta e la presenza di due fori per rivetti circolari (uno sulla base tra i piedi, e l’altro sulla spalla del pellegrino), la connotano come una figura d’applique. Ma dove doveva essere inserita in origine? Probabilmente su una cassetta o un cofanetto composito, con altre figure che ne completavano l’iconografia e forse il gesto sospeso del viandante. Il soggetto, tuttavia, non trova confronti se comparato con le pur numerose cassettine composite con figure ad applique degli inizi del XIII secolo, che mostrano principalmente scene cristologiche, agiografiche o la serie degli Apostoli. Considerate le dimensioni del rilievo e la sede per i rivetti, appare comunque poco credibile l’ipotesi che questa figura fosse da cucire alle borse o all’abbigliamento dei pellegrini, come un’insegna. La placchetta è entrata a far parte delle collezioni del Museo del Bargello nel 1888, grazie al lascito di Louis Carrand, ed era all’epoca montata su una tavoletta coperta di seta rossa, come riportato nel legato manoscritto redatto alla morte del collezionista. Benedetta Chiesi Bibliografia: Supino 1898, p. 145, n. 754; A. Osimo, in Milano 1993, p. 363, cat. 180; M. Gargiulo, in Roma 1999, p. 302, cat. 34; S. Pettenati, E. Storti, in Mantova 2008, pp. 292-293, cat. II.30; V. Türck, in Mannheim 2010, II, p. 192, cat. V.A.1.

144 | sezione ii

| Cat. 21

| Cat. 22

Placchetta con pellegrino

Placchetta con san Giacomo in abito da pellegrino

Italia o Francia (?), inizio del XIV secolo Rame dorato e smaltato; Ø 6,2 cm La Spezia, Museo Civico Amedeo Lia Inv. S 7

Francia (?), ultimo quarto del XV secolo Bronzo dorato; Ø 2,4 cm Firenze, Museo Nazionale del Bargello Inv. 1015 C

Il medaglione raffigura al centro, inscritto in un profilo quadrilobato, un pellegrino, connotato da tutti gli attributi tipici: il cappello, o pètaso, su cui in rosso si riconosce una spilla, trattenuto sotto al mento da un cordino; la mantella, qui resa come un ispido vello lungo fino ai piedi; il bastone o bordone, stretto nella mano destra, e al fianco la bisaccia. Il pellegrino cammina scalzo, a indicare la fatica del percorso e l’umiltà dell’impresa. Il fondo azzurro del medaglione è punteggiato da sette conchiglie di san Giacomo in oro. Questa decorazione rende ancora più marcata l’iconografia, che sembra voler indicare una possibile ambiguità tra la raffigurazione di san Giacomo medesimo (come talora proposto) e la raffigurazione standardizzata di un pellegrino giacomeo, diretto ovvero in pellegrinaggio a Compostela o di ritorno da questa meta. Nel contesto dell’iconografia di san Giacomo, rimane piuttosto insolita la raffigurazione dell’abito di vello, indumento comune ai pellegrini specie nei periodi freddi (G. Pace, in Roma 1999, p. 307, cat. 41), piuttosto che la tipica mantella, così come pare intenzionalmente ambigua l’assenza dell’aureola e del libro, simbolo della predicazione evangelica. La placchetta doveva in origine appartenere a un cofanetto, o forse essere utilizzata come medaglietta da applicare alle vesti, anche se la preziosità della lavorazione e lo spessore della placca rendono più plausibile la prima ipotesi. Le drôleries su fondo rosso nei pennacchi esterni della cornice quadriloba, richiamano simili soluzioni su oggetti di lusso molto in voga nel XIV secolo quali gli specchi in avorio, ove la raffigurazione centrale spesso è incorniciata da un profilo polilobo e animata nei pennacchi esterni da animali fantastici. Il carattere gotico della placchetta è vivacizzato dall’uso di colori accesi e linee marcate, che ne hanno fatto talora proporre una produzione in ambito italiano piuttosto che oltralpe (P. Leone de Castris, in La Spezia 1999). Benedetta Chiesi

La piccola placchetta circolare raffigura san Giacomo nimbato e di prospetto, in abito da pellegrino col bordone nella sinistra e il libro nella destra. Le dimensioni ridotte, il soggetto e i due fori circolari eseguiti nel bordo perimetrale del rilievo, lasciano ipotizzare che fosse originariamente una medaglietta da cucire al cappello o alla mantella dei pellegrini. Si tratterebbe quindi di un documento, databile su base stilistica alla fine del XV secolo, della tradizione pressoché immutata nei secoli di applicare signa super vestes come ostentazione e testimonianza del viaggio compiuto. Le stampe della fine del Quattrocento e degli inizi del Cinquecento offrono interessanti elementi di confronto per contestualizzare piccoli oggetti erratici come questa placchetta. Si veda, ad esempio, l’incisione di Luca di Leyda Pellegrini a riposo (1508 circa, fig. 2 a p. 135), con una raffigurazione di genere e familiare – quanto sottilmente ironica – di una coppia di pellegrini sorpresi in una sosta lungo il percorso a rifocillarsi. Sui cappelli di entrambi è appuntata una ricca selezione di placchette, tra cui si riconoscono la conchiglia di san Giacomo e piccole stampe col sudario. Il presente rilievo trova un generico confronto anche con la raffigurazione di san Giacomo nella vetrata di Colonia qui in mostra (cat. 19), riferibile anch’essa all’ultimo quarto del XV secolo. In entrambe, san Giacomo è immediatamente riconoscibile per i comuni tratti somatici, la folta barba e i capelli canuti, così come per le vesti e gli attributi, indice di un’iconografia ormai altamente standardizzata. Benedetta Chiesi Bibliografia: Supino 1898, p. 182, n. 1015.

Bibliografia: P. Leone de Castris, in La Spezia 1999, p. 309, n. 9.31

la salvezza dell’anima. pellegrini, predicatori, chierici | 145

| Cat. 23

| Cat. 26

Sigillo del Comune e Popolo della città di Pistoia Inizio del XIV secolo Bronzo; Ø 5,5 cm Firenze, Museo Nazionale del Bargello Inv. 1752 Sigilli

Sigillo di Fra Iacopo di Paolo, dell’Ospedale di San Jacopo di Altopascio XIII secolo Bronzo; 5,5 x 3,2 cm Firenze, Museo Nazionale del Bargello Inv. 273 Sigilli

| Cat. 25 Sigillo di Fra Richo, del capitolo di Altopascio Fine del XIII secolo Bronzo; 5,5 x 3,5 cm Firenze, Museo Nazionale del Bargello Inv. 272 Sigilli

23

Denominatore comune di questi tre sigilli è sant’Jacopo, patrono della città di Pistoia e apostolo titolare di un importantissimo centro di accoglienza medievale: l’Ospedale di Altopascio. Nel primo dei tre esemplari, il sigillo trecentesco del Comune e del Popolo di Pistoia (attestato dalla scritta «s’ comunis et popvli civitatis pistoriis»), il santo appare affiancato da due tradizionali conchiglie, reca il bastone e la borsa da pellegrino, un libro nella mano sinistra, ed è vestito di pelli, in una sorta di contaminazione iconografica con san Giovanni Battista. Gli altri due sigilli sono entrambi connessi all’antico ospedale che sorgeva ad Altopascio, strategico crocevia lungo la via Francigena. Il grande sviluppo delle comunicazioni verificatosi nel corso del Medioevo, portò a moltiplicare i cosiddetti “ospizi” o “spedali” collocati lungo i principali tragitti di cammino o presso i centri abitati, per dare alloggio e ricovero ai pellegrini e ai viaggiatori. Il caso di Altopascio è particolare. La Domus Hospitalis Sanctis Jacobi de Altopassu risale probabilmente all’XI secolo: data l’intensa e preziosa attività di questo centro di accoglienza, alla comunità che vi operava fu conferita la dignità di ordine religioso cavalleresco. I Frati di sant’Jacopo o “Frati del Tau”, appartenenti in origine all’ordine agostiniano, per il loro grande lavoro di assistenza verso i pellegrini e i crociati, ebbero infatti speciali riconoscimenti prima da papa Urbano II e poi da papa Gregorio IX, che nel 1239 approvò la loro regola, assimilandoli all’Ordine dei Cavalieri ospedalieri di Gerusalemme. Noti quindi anche come “Cavalieri del Tau”, o di sant’Jacopo, i frati si diffusero non solo in gran parte d’Italia, costruendo “spedali” lungo le direttrici che conducevano a Santiago de Compostela, ma anche oltralpe: nel 1180, per esempio, a Parigi fondarono una sede

146 | sezione ii

25

26

dove ancora oggi sorge l’omonima chiesa di Saint-Jacques-du-HautPas. Oltre a offrire ricovero e accoglienza, i frati si distinsero da altri ordini assistenziali perché provvedevano alla cura delle strade, costruendo anche ponti in legno o muratura e regimentando perfino i piccoli corsi d’acqua (Magnotta 2009; Tangheroni 2012). Tra i più antichi rettori documentati dell’Ospedale di Altopascio è frate Ricco, attivo tra il 1277 e il 1295: il suo sigillo mostra appunto san Jacopo con un libro in mano affiancato dalla conchiglia e dal Tau. La scritta «+ s’ frate: richo. d’chapitolo: d altopascio» sancisce la sua appartenenza all’ordine. Fu uomo di grande autorità, ricordato non solo per la alacre attività della “magione” (a lui si attribuisce per esempio la costruzione del ponte di Castelfiorentino e del campanile di Altopascio), ma anche per il determinante ruolo politico diplomatico svolto nella pace tra Pisa e Genova del 1293 (Magnotta 2009, pp. 194-195). Il sigillo giunse al Bargello con la collezione di Marco Guastalla nel 1871. Proviene invece dalla collezione di Carlo Tommaso Strozzi il sigillo di un predecessore di Fra’ Ricco, il rettore Jacopo di Paolo da Fucecchio, attivo forse intorno al 1230: vi è incisa la scritta «s friacob pavlo d ficechio d hospit//alis s iacobi de altopassv» che racchiude all’interno la sola immagine del Tau, antica e suggestiva insegna dell’Ordine, evocatrice di numerosi significati simbolici (Frugoni 2014). Ilaria Ciseri Bibliografia: A. Muzzi, in Sigilli 1990, pp. 80-81, n. 170 (inv. 1752 Sigilli); B. Tomasello, in Sigilli 1988, p. 238, n. 622; Magnotta 2009, p. 194 (inv. 272 Sigilli); B. Tomasello, in Sigilli 1988, pp. 232-233, n. 602 (inv. 273 Sigilli).

| Cat. 24 Manifattura orvietana Boccale con figura di pellegrino Prima metà del XIV secolo Maiolica; h. 14,3 cm Viterbo, Museo della Ceramica della Tuscia Inv. 35

Proveniente dal mercato antiquario, il boccale è a profilo ovoidale, piede a disco e bocca trilobata, decorato nella bicromia tipica del periodo, verde ramina e bruno di manganese. Il decoro a pigne in rilievo distribuite nelle zone laterali del boccale è quello ripetutamente adottato dalle fornaci orvietane, che così si distinguono dalle altre coeve produzioni dell’Italia centrale. Entro un medaglione ovale risparmiato è stato realizzato, in leggero rilievo e poi dipinto, un personaggio avvolto da una lunga tunica con cappuccio che sembra incedere con difficoltà appoggiato a un lungo bastone. La figura è stata interpretata in precedenza come uno di quei liberi predicatori che i documenti medievali attestano aggirarsi nelle campagne umbre (il cosiddetto “bizocone”). Sembra invece più plausibile che si tratti di un pellegrino, al quale ben si addice sia un’andatura apparentemente affaticata, sia soprattutto la forma peculiare del bastone, che molto si avvicina al

classico “bordone”, caratterizzato da una punta metallica in basso e da nodi presso la sommità per migliorarne la presa. Orvieto era infatti situata non lontano dal tragitto della via Francigena, che lambiva il lago di Bolsena, e certamente avrà condiviso il transito dei pellegrini che, grazie alle direttrici viarie minori, si connettevano all’arteria principale per proseguire il loro viaggio di fede fino a Roma.La stessa figura viene replicata, con un confronto veramente stringente, su un boccale già nella collezione romana di Alexandre Imbert (Imbert 1909 - Riccetti 2005, tav. XII, n. 45) attribuibile anch’esso a una bottega ceramica di Orvieto e databile sempre al XIV secolo. Marino Marini Bibliografia: Luzi, Romagnoli 1992, p. 244, n. 98; Riccio, Luzi 2010, p. 62, n. 15.

la salvezza dell’anima. pellegrini, predicatori, chierici | 147

| Cat. 27 Giovanni Sercambi (Lucca 1348-1424) Croniche 1400 circa Codice membranaceo miniato; 25,5 x 15 cm Lucca, Archivio di Stato Inv. ms. 107 [c. 29 r: Pellegrini a Roma durante il Giubileo del 1300]

Il noto codice delle Croniche contiene la prima parte della narrazione degli eventi di Lucca e d’Italia dal 1164 al 1400. Un secondo codice, rimasto incompiuto e conservato sempre all’Archivio di Lucca, narra le vicende dal 1400 al 1424. La copia delle Croniche è autografa dello speziale e novelliere Giovanni Sercambi, realizzata probabilmente dal cronista per uso personale e per l’arricchimento della propria biblioteca; vi si notano infatti gli stemmi della sua famiglia e il suo ritratto. Il testo ha un’importanza centrale per la documentazione storica, grazie anche al vasto corredo illustrativo, composto da 540 vignette di diverso formato, schizzate a penna e acquerellate, che compongono un vivace supporto visivo al testo. Quella presentata in mostra (c. 29 r) raffigura l’arrivo a Roma dei pellegrini per il Giubileo del 1300 indetto da Papa Bonifacio VIII. L’artista ha illustrato, come in un’istantanea, un corteo di pellegrini immediatamente riconoscibili dall’abbigliamento: lungo mantello, bordone con puntale rinforzato di metallo, usato in alcuni casi anche per appenderci la bisaccia o la mantella; folle di cappelli e pètasi; differenti tipologie di borse a tracolla o sulle spalle; borracce. Il numero esorbitante di persone richiamate a Roma dal primo Giubileo della storia è qui evocato dalla fila ininterrotta di pellegrini che affluiscono oltre le mura della città:

148 | sezione ii

sulla sinistra la punta superiore dei bordoni segna la loro presenza anche in lontananza e similmente sulla destra i loro cappelli si perdono tra i colli, senza soluzione di continuità. L’anno giubilare, proclamato con bolla solenne del 22 febbraio 1300, assicurava indulgenza plenaria e grandi privilegi al fedele che avesse visitato San Pietro e le basiliche apostoliche di San Paolo, Santa Maria Maggiore e San Giovanni in Laterano. «Nel corso dell’anno giunsero a Roma più due milioni di romei rispetto ai cinquantamila abitanti di una piccola città fitta di rovine che allora era l’ombra della Capitale del mondo e aveva soltanto pochi alberghi e locande a prezzo carissimo, ospizi e monasteri» (Paloscia 1999, p. 121). Un simile evento non sfuggì certo ai cronisti del tempo, quali Dino Compagni e Giovanni Villani, ma la sua portata trova eco anche nelle cronache successive, come questa di Sercambi, e la miniatura qui proposta sembra evocare ancora lo stupore di uno dei primi eventi globali del tempo. Benedetta Chiesi Bibliografia: M. Gargiulo, in Roma 1999, p. 280, cat. 1 (con bibliografia precedente); M. Brogi, in Roma 2012, p. 141, cat. I,6 (con bibliografia precedente).

la salvezza dell’anima. pellegrini, predicatori, chierici | 149

| Cat. 28 Jaume Ferrer II (attivo tra il 1430 e il 1461) Fuga in Egitto Catalogna, 1432-1434 Tempera su legno; 159 x 92,5 cm Vic, Museu Episcopal Inv. MEV 1779

Lo scomparto con la Fuga in Egitto è uno dei dodici che ancora si conservano del retablo della chiesa parrocchiale di Santa Maria di Verdú (Urgell, provincia di Lleida), dipinto tra il 1434 e il 1436 da Jaume Ferrer II, uno dei pittori più rappresentativi della seconda fase del gotico internazionale catalano. I documenti conservati relativi all’opera dell’altare maggiore di Santa Maria di Verdù attestano come l’incarico dovette essere assunto da Ferrer verso il 1434, dopo che lo scultore Pere Joan aveva lasciato il cantiere per seguire i lavori all’altare maggiore della Cattedrale di Saragozza. Le dodici tavole, dedicate ai Goigs mariani che celebravano i momenti principali della vita di Maria (Presentazione di Maria al tempio, Annunciazione, Natività, Adorazione dei pastori, Epifania, Circoncisione, Presentazione di Gesù al tempio, Fuga in Egitto, Resurrezione, Ascensione, Pentecoste, Dormitio), dovevano originariamente disporsi attorno a un’immagine centrale della Vergine. I dodici scomparti sono entrati a far parte delle collezioni del Museu Episcopal di Vic nel 1892. All’interno del gusto del gotico internazionale catalano per i dettagli preziosi e di lusso, come si nota negli indumenti o nell’abbondanza dell’utilizzo dell’oro (qui, in particolare nell’angelo che apre la strada, praticamente l’unico elemento soprannaturale nella scena), la Fuga in Egitto è caratterizzata da un approccio intenzionalmente prossimo alla pittura “di genere”, particolarmente caro al gusto del tempo (Québec 2012, p. 109111; G. Macías, in Barcellona 2012, p. 217). Quest’attenzione al dettaglio narrativo si riscontra nella caratterizzazione dei personaggi in primo piano, come ad esempio nell’ancella (forse la levatrice Salomé), che segue la Sacra Famiglia e che porta sulla

150 | sezione ii

testa alcuni bagagli. Questa incede svogliatamente e con una verga appuntita incita il bue, che si è fermato sornione a pascolare. Similmente si può notare lo sfondo, nel quale si riconosce in lontananza al centro una città murata, seppur con un profilo architettonico sintetico e anacronistico; a destra una casa con delle recinzioni lignee sproporzionate, e a sinistra una torretta, ancora in costruzione e non completamente rivestita. Al centro del paesaggio scorre una strada, percorsa da una figura femminile con una brocca in testa e un bambino al fianco, mentre un contadino con il suo mulo, pesantemente caricato di masserizie, li precede. La scelta di caratterizzare il soggetto biblico della Fuga con una famiglia umile, in frettolosa marcia, che può essere comparata con l’episodio di vita domestica che scorre sulla strada di fondo, intende forse sottolineare il lato umano ma anche la portata drammatica dell’episodio, trattandosi del primo esilio di Dio incarnato verso l’Egitto, riflesso e metafora della condizione peregrina della vita terrena dei cristiani. Marc Sureda i Jubany Bibliografia: Catálogo del Museo 1893, p.118, cat. 1779; Sanpere i Miquel 1906, p. 121; Arderiu 1908, p. 7; Post I (1930), p. 340, IV (1933), p. 564; VII (1938), pp. 513-528; Gudiol Ricart 1938, pp. 16-17; Gudiol Ricart 1955, p. 112; Piquer 1968, p. 12; Alonso 1976, p. 123; Gudiol Ricart, Alcolea Blanch 1986, p. 151, cat. 441; Alcoy 1990, pp. 21-25; Alcoy 1991a, p. 131; Gonzalvo 1991, p. 114; Boleda 1991, pp. 19-24; Puig 1998, p. 78-96; Carbonell 2002, pp. 28-42; Trullén 2003, pp. 140-141; Puig 2004, pp. 84103; Puig 2005a, pp. 19, 29, 33-94; Puig 2005b, pp. 307-309; Alcoy 2010, pp. 541-542; G. Macías, in Barcellona 2012, pp. 217-218, cat. 40.

la salvezza dell’anima. pellegrini, predicatori, chierici | 151

| Cat. 29 San Giacomo Maggiore Colonia, 1350-1360 Legno policromo; 85 x 32 x 19 cm Colonia, Museum Schnütgen Inv. A 770

La scultura raffigura l’apostolo san Giacomo Maggiore. L’iconografia è caratterizzata dalla conchiglia, utilizzata con delicata invenzione come spilla di chiusura del manto, conchiglia che sarà ricorrente nelle insegne di pellegrinaggio proprio come memoria del completamente del percorso fino a Compostela (cat. 16). Gli altri attributi tuttavia lo connotano come apostolo, e cioè il libro tenuto e osteso nella mano sinistra, e la spada, che fu lo strumento del suo martirio, puntata verso il suolo, di cui rimane solo il pomo e parte dell’impugnatura. Il rilievo è elegante e intenso, come si può notare nell’esecuzione della barba e del capelli, attorti in onde e ricci corposi, nello sguardo profondo segnato dalle sopracciglia abbassate, ma anche nel panneggio, che sul petto si apre in sinuosi risvolti. Il retro della statua è solo parzialmente scolpito, indice di una collocazione

152 | sezione ii

originaria che ne privilegiava la visione frontale. La statua ha una provenienza documentata dal retablo del convento francescano di Santa Chiara a Colonia. In seguito alla secolarizzazione – e successiva distruzione – del convento delle clarisse all’inizio del XIX secolo, l’altare venne spostato nel Duomo, dove è registrato almeno dal 1811 e vi si trova tutt’ora. L’altare, con ante apribili e dipinte, era decorato anche da sculture lignee, tra cui la serie dei Dodici Apostoli. Due di queste si trovano oggi al Museum Schnütgen, dove è conservato anche un San Giacomo Minore, che fa da pendant all’apostolo qui esposto in mostra. Benedetta Chiesi Bibliografia: Bergmann 1989, pp. 333-339; Schneider 2000, pp. 113-124.

la salvezza dell’anima. pellegrini, predicatori, chierici | 153

| Cat. 30 Attribuito a Ferrer Bassa (documentato tra il 1324 e il 1349) Scene della vita di san Bernardo di Chiaravalle (?): salvataggio di una nave ed esorcismo Barcellona (?), 1330-1350 Tempera su legno; 150 x 80 cm Vic, Museu Episcopal Inv. MEV 10728-10729

In queste due scene, scomparti di un retablo, sono rappresentati, sovrapposti, il salvataggio di una nave dal rischio di un imminente naufragio e un esorcismo praticato all’interno di una chiesa a una giovane donna, assistita da altre cinque figure femminili. Un santo barbato e in abito bianco, accompagnato da un religioso più giovane e con tonsura, esercita in prima persona la liberazione della giovane dallo spirito maligno. Nella scena del naufragio il salvataggio dei marinai, invece, è operato da un altro personaggio, riconoscibile in alto ma parzialmente perduto: in vesti all’antica rosa e azzurre, forse si tratta di un altro santo o di Cristo stesso, invocato o semplicemente contemplato dal santo protagonista in abito bianco, inginocchiato sulla costa in basso a sinistra. Nel contesto della spiritualità medievale si stabiliva un’analogia tra le due drammatiche scene di esorcismo e di naufragio qui giustapposte. La nave in balia delle onde, così come la possessione diabolica, diventano immagini di pericoli non dipendenti della volontà degli uomini, anche se originati nella natura umana peccatrice. Il risultato di questo incontro con un male soprannaturale può facilmente essere il naufragio nel viaggio marittimo, e la condanna eterna nel viaggio della vita, rischio a cui va incontro l’anima che non si redime. Solo la fede in Dio – nei casi qui rappresentati, tramite la virtus del santo – permette di sperare nella salvezza fisica e spirituale e incoraggia alla confessione dei peccati e alla penitenza. L’immagine del naufragio, di fatto, fu spesso utilizzata in questo senso nell’ambito della predicazione basso medievale (Nuet Blanch 2000-2001). La tavola, di cui si ignora l’originaria provenienza, testimonia l’emergere della pittura “all’italiana” in Catalogna nel secondo quarto del XIV secolo. La storia e l’iconografia del pannello restano ancora da chiarire. Questo è arrivato al Museu Episcopal di Vic nel 1898, dove l’allora conservatore Josep Gudiol giudicò le scene come appartenenti alla vita di san Bernardo e ne considerò autore Ferrer Bassa, pittore e miniatore che lavorò per la monarchia

154 | sezione ii

e la nobiltà catalana nei decenni 1330-1340. Entrambe le affermazioni sono state successivamente messe in discussione, senza arrivare finora a proposte definitive e condivise. D’altra parte le scene non corrispondono con esattezza ai miracoli narrati nella vita di san Bernardo o in quella di altri santi che si possono ritenere anche più probabili in base all’iconografia, come san Romualdo di Camaldoli (Alcoy 1992). Il salvataggio dal pericolo di naufragio, inoltre, compare nella narrazione agiografica anche di altri santi (soprattutto Nicola di Bari, Nicola da Tolentino o anche Pietro martire), che ricorrono frequentemente nella pittura italiana del Trecento e Quattrocento. Infine, le indagini stilistiche nel corso dell’ultimo mezzo secolo tendono a rifiutare una identificazione stretta con Ferrer Bassa in favore di altre possibili personalità artistiche, come il cosiddetto Maestro della Incoronazione di Bellpuig o lo Pseudo-Ferrer Bassa (forse meglio definito come “bottega” di Ferrer Bassa). Tutte queste ipotetiche personalità, in ogni caso, presuppongono una formazione o toscana o di ambito marchigiano – magari grazie alla mediazione avignonese – e delineano un milieu particolarmente dinamico e recettivo delle novità pittoriche del centro Italia in Catalogna alla metà del XIV secolo. Marc Sureda i Jubany Bibliografia: Gudiol i Cunill 1899; Gudiol i Cunill 1924, p.127; Post II (1930), p. 204; Meiss 1941, pp. 56-60; Durán 1953, pp. 32, 34-35; Laclotte 1960, p. 58; Bologna 1961, pp. 34-42; Castelnuovo 1962, pp. 148150; Boskovits 1969, pp. 4-19; R. Alcoy i Pedrós, in Barcellona 1985, pp. 125-127, cat. 71; Gudiol Ricart, Alcolea Blanch 1986, pp. 44-45, n. 87; Alcoy 1991b, pp. 166-167; Alcoy i Pedrós 1992, pp. 211-248; Gibbs 1992, pp. 231-232; Condorelli 1997, pp. 93-94; Yarza Luaces 2001, pp. 37-40; J. Trullen, in Trullén 2003, p. 110; R. Alcoy i Pedrós 2005, pp. 162-163; P. Di Simone, in Roma 2009, pp. 250-251, cat. 94; Cornudella 2009, pp. 126-131.

la salvezza dell’anima. pellegrini, predicatori, chierici | 155

| Cat. 31 Borsa per reliquie Renania, XIV secolo Tela ricamata in seta e oro; 22,2 x 20,9 cm Colonia, Museum Schnütgen Inv. P 870

Nel Medioevo i borsellini in seta erano ritenuti oggetti di particolare pregio. Frequenti erano i casi in cui questi manufatti – utilizzati in origine per altri scopi – giungevano a seguito di atti di donazione tra le proprietà ecclesiastiche, dove erano impiegati per custodire reliquie. A loro volta le reliquie, spesso giunte da molto lontano e immancabili nelle chiese, ricevevano così una preziosa custodia degna del contenuto. Rilavorare materiali più antichi e altri elementi tessili era una prassi consueta. Anche il tessuto qui presentato, privo di pigmento ma ricamato con fili colorati e risalente al XIV secolo, aveva in origine un formato più grande, e solo intorno al 1400 fu trasformato in un astuccio per reliquie. Questa datazione si basa sul ritrovamento di due frammenti di pergamena, tratti da un manoscritto renano, inseriti in una tasca dell’astuccio. Di forma quadrata, con gli angoli lievemente arrotondati, la piccola borsa corrisponde al formato in uso fino alla fine del XIV secolo; anche il gallone con le nappe è tipico di questo genere di sacchetti. Un piccolo bottone sferico e un cordoncino servivano a chiudere la borsa e proteggere il prezioso contenuto. L’astuccio

156 | sezione ii

ha mantenuto la funzione di portareliquie fino al XVIII secolo, come dimostra il sigillo in ceralacca rossa, di epoca barocca. Un tempo il ricamo in seta doveva brillare di colori vivaci; l’effetto risultava ancora più intenso grazie ai bagliori dei fili d’oro. I colori del filato di seta sono molto sbiaditi, e la struttura reticolare simmetrica, composta di punti a squadra e ornamenti intricati, appare oggi ormai di una tonalità rosa pallido. Allo stesso modo, forme romboidali in verde e blu scuro scandiscono il ricamo. Queste decorazioni si inseriscono in una tradizione molto lunga, soprattutto nella storia della seta ricamata a disegni, in cui fin dall’inizio si prediligevano le forme a losanga. Una cassetta ricamata, destinata a contenere il corporale e proveniente dal tesoro dell’ex convento di San Dionigi a Enger-Herford (Germania), datata intorno al 1400 e oggi al Kunstgewerbemuseum di Berlino (Inv. 88.651), presenta una variante dal disegno molto simile. Saskia Werth Bibliografia: Von Wilkens 1982, pp. 85-88; Sporbeck 1996, pp. 34-35.

| Cat. 32 Reliquiario della Vera Croce Bisanzio, Italia o Catalogna, ante 1040 (reliquiario); Bisanzio, ante 1040 (sciamito) Legno e sciamito; 2,8 x 11,5 x 8,5 cm Vic, Museu Episcopal Inv. MEV 8641 e 8642

Si tratta di un cofanetto di legno rettangolare, con coperchio scorrevole, suddiviso all’interno in cinque scomparti. La sezione centrale, a forma di croce, è a sua volta suddivisa in tre sacelli, come dei piccoli contenitori protetti da un coperchio rimovibile. Le reliquie sono oggi perdute, ma vi si conservano ancora lacerti di tre tessuti, probabilmente bizantini, con i quali erano avvolti il coperchio, il cofanetto e i vari sacelli. Uno di questi tessuti appartiene a una lussuosa tela in seta (sciamito), decorata con il motivo orientale di due senmurvs affrontati entro medaglioni, nei colori nero, verde, ocra e porpora. Il reliquiario ha una storia conosciuta e ben nota grazie alla testimonianza di una pergamena conservata all’interno, che ci permette di ripercorrere il suo viaggio. Fu infatti inviato come dono ufficiale da parte di Oliba, vescovo di Vic e abate di Ripoll e di Cuxa, al signore di Ager, Arnau Mir, in occasione della consacrazione della chiesa di San Martino di Tost, che si svolse il 7 ottobre 1040. Nella lettera inviata ad Arnau, il cui testo si conserva in una copia del XIII secolo, Oliba enumera le reliquie contenute nella lipsanoteca e spiega che la stessa era stata acquistata a Lodi, in Italia. Sappiamo, infatti, che Oliba si recò in pellegrinaggio a Roma almeno due volte, una prima nel 1011 e una seconda nel 1016-1017, e poté probabilmente acquistare il reliquiario in una di queste occasioni. La lipsanoteca fu trovata da Pere Pujol nel 1922 a Tost (provincia di Lleida, al nord-ovest della Catalogna), e all’epoca era già sprovvista delle reliquie. È finalmente entrata nel Museu Episcopal di Vic solo nel 1930. Anche se dall’aspetto modesto, l’oggetto si propone di imitare le

lussuose stauroteche prodotte nei secoli precedenti a Costantinopoli in metalli preziosi e smalti, come la stauroteca Fieschi Morgan (ca. 800), oggi al Metropolitan Museum di New York, il cui interno è suddiviso nello stesso modo, o – meno direttamente – le tante altre lipsanoteche con scomparto centrale a forma di croce e coperchio scorrevole, più correnti, spesso modificate o completate in Occidente tra X e XII secolo (per esempio B. Drake-Boehm, H.A. Klein e M. Bagnoli, in Cleveland-Baltimora-Londra 2010, pp. 81-82, 88-91, cat. 37, 45-49). Il tentativo di emulazione risulta comunque motivato dal contenuto, in quanto le reliquie inviate a Tost erano in primo luogo del Lignum Crucis; le altre due invece erano reliquie del Santo Sepolcro e della Vergine (parti dell’abbigliamento e di una calzatura), dunque similmente legate sia alla basilica del Santo Sepolcro a Gerusalemme che alla cappella imperiale di Pharos a Costantinopoli, sebbene progressivamente diffuse in Occidente. Pertanto, anche se acquisita a Lodi, in considerazione del modello formale di riferimento e del tipo di tessuti conservati all’interno, si può immaginare che l’intero cofanetto fosse arrivato, a sua volta, dall’Oriente bizantino. Marc Sureda i Jubany Bibliografia: Pujol I Tubau 1947-1951, pp. 345-348; Abril 1986a, p. 253; M. d. S. Gros i Pujol, in Barcellona 1986, pp. 99-101, cat. 54-58; Ylla-Català 1992, p. 295; R.M. Martín, in Trullén 2003, p. 211; G. Curatola, in Saragozza-Tarragona-Siviglia 2006, p. 93, cat. 68; J. Verdaguer, in Vic 2008, pp. 76-79, cat. 1-4; Sureda 2010, p. 59.

la salvezza dell’anima. pellegrini, predicatori, chierici | 157

| Cat. 33 Altare portatile Inghilterra, metà dell’XI secolo Porfido rosso, argento inciso, niellato e parzialmente dorato su anima di rovere, ferro (chiodi), tracce di tessuto; 26,1 x 13,8 x 1,5 cm Parigi, Musée de Cluny Inv. Cl. 11459

| Cat. 34 Altare portatile Vestfalia o Bassa-Sassonia, inizio dell’XI secolo; rilievi VIII-X secolo Porfido verde, rame sbalzato e dorato, argento sbalzato, su anima di rovere, avorio, ottone; 7,6 x 18,5 x 11,7 cm Colonia, Museum Schnütgen Inv. G 13

| Cat. 35 Altare portatile Fulda o Bamberga (?), primo terzo dell’XI secolo Porfido verde, argento inciso e parzialmente dorato su anima di legno; 25,6 x 23 x 1,7 cm Parigi, Musée de Cluny Inv. Cl. 13072

Durante i loro vari viaggi e spostamenti, missioni di evangelizzazione, pellegrinaggi, spedizioni militari, gli uomini di chiesa dovevano poter continuare a dire messa. Così portavano con sé un altare portatile, di piccole dimensioni, un oggetto itinerante per la celebrazione eucaristica, come questi tre esemplari. Come la mensa degli altari fissi, gli altari portatili erano consacrati e ospitavano delle reliquie: l’iscrizione sui bordi di uno di questi (cat. 35) evoca quelle di san Giovanni Battista e dei santi martiri Ciriaco, Pancrazio e Chiliano, venerati in Germania. Questi tre altari portatili sono costituiti in maniera classica da una placca centrale incassata in un’anima di legno, ornata tutt’intorno da elementi di oreficeria. In tutti e tre i casi, la lastra centrale è di porfido, verde per gli esemplari germanici (cat. 34, 35), e rossa (caso più raro) per l’altare inglese (cat. 33). Effettivamente, come nel caso di tutti gli oggetti che hanno un legame con la

34

158 | sezione ii

33

celebrazione eucaristica, erano raccomandati i materiali preziosi sia per la pietra d’altare (porfido, alabastro) che per le montature (foglie d’oro o d’argento, smalti, gemme). Le forme sono abbastanza diverse, gli oggetti su piede (cat. 34) si differenziano dalle semplici tavolette (cat. 33, 35), simili in questo al famoso altare portatile di Sainte-Foy a Conques. Mentre l’esemplare del Museum Schnütgen, d’altronde molto rimaneggiato, è quasi completamente decorato da motivi ornamentali (trecce, zig-zag), tranne una figura di un santo con un coltello (l’apostolo Bartolomeo?), gli altri due altari illustrano, come accade frequentemente per questi oggetti, un’iconografia coerente, in rapporto con la loro funzione liturgica. L’altare inglese (cat. 33), collegabile per lo stile delle sue figure incise all’ambito artistico di Winchester della metà dell’XI secolo, mostra un’iconografia legata alla Passione di Cristo e all’Eucarestia, esplicitata dalle iscrizioni sui bordi. Sui

lati corti dell’altare sono associate la Crocifissione e l’Agnus Dei, immagine sia eucaristica che apocalittica; da una parte e dall’altra del Cristo e dell’Agnello appaiono i simboli degli evangelisti. Sui lati lunghi, rivolti verso la scena della Crocifissione, si riconoscono Maria e Giovanni e gli arcangeli Raffaele e Gabriele, quest’ultimo con un’ostia in mano. Per quanto riguarda l’altare ottoniano (cat. 35), realizzato a Fulda o a Bamberga nel primo terzo dell’XI secolo, stilisticamente vicino all’antependium di Basilea (Musée de Cluny), mostra un programma iconografico complesso. Sul verso, in una ricca decorazione di racemi e di palmizi, si vedono l’Agnello di Dio e le quattro virtù cardinali all’interno di medaglioni. L’iconografia del recto è centrata sul significato della messa. Sul registro inferiore è rappresentato il Sacrificio di Isacco, simbolo veterotestamentario del sacrificio di Cristo. Sul registro mediano Melchisedech, che tiene in mano il calice e la patena, preannuncia similmente l’Ultima Cena;

di fronte a lui si trova Aaron, l’altro grande sacerdote dell’Antico Testamento. Sul registro superiore è infine rappresentata la scena della Traditio legis et clavium, la consegna delle chiavi a san Pietro e della legge a san Paolo, incaricati di diffondere il messaggio evangelico. Da una parte e dall’altra compaiono san Biagio e san Nicola, due santi orientali il cui culto era diffuso largamente anche in Occidente, rappresentati qui come dei vescovi latini. Christine Descatoire Bibliografia: Braun 1924; Buddensieg 1957; L. Webster, in Londra 1984, pp. 92-93, cat. 76; Caillet 1985, pp. 237-240, n. 164; Budde 1998, pp. 6670, 79-84, 177-182, nn. 9, 11 e 29; G. Suckale-Redlefsen, in Bamberg 2002, pp. 333-334, cat. 166; P- Malgouyres, in Parigi 2003, pp. 82-84, cat. 16; C. Descatoire, in Bari 2006, p. 326, cat. VI.1; Palazzo 2008; I. Bardiès-Fronty, in Parigi 2008, p. 61, cat. 33; C. Ruhmann, in Paderborn 2009, pp. 441443, cat. 169; A. Tsakalos, in Atene 2014; Parigi 2014, pp. 75, cat. 51 e 52.

35

la salvezza dell’anima. pellegrini, predicatori, chierici | 159

| Cat. 36 Saliera liturgica Catalogna, fine XIII-inizio XIV secolo Legno di bosso; 14 x 10,5 x 6,5 cm Vic, Museu Episcopal Inv. MEV 4219

Il sale, da sempre considerato uno dei minerali più importanti e costosi per le sue molteplici proprietà, è frequentemente citato nella Bibbia come simbolo di conservazione, purificazione, fedeltà, saggezza e vita (si vedano ad esempio: Levitico 2, 13; 2 Re 2, 19-22; Ezechiele 16, 4; Neemia 18, 19; Matteo 5, 13). Secondo questa tradizione, ma anche nel segno della continuità di alcune pratiche pagane, i cristiani hanno utilizzato il sale sin dai primi secoli durante i rituali di iniziazione – di fatto ridotti al solo battesimo dal Medioevo – e specialmente per la produzione dell’acqua benedetta. I rituali romani prevedevano quasi sempre la benedizione (o esorcismo) con l’aspersione dell’acqua e del sale, e in alcune occasioni speciali, come durante la consacrazione di una chiesa, potevano essere aggiunte anche delle ceneri e del vino. Nei contesti rurali era tradizione – e continua a esserlo ancora oggi – l’aspersione delle case, degli animali e dei beni con l’acqua e il sale benedetto durante il periodo di Pasqua; similmente avveniva lo spostamento di intere famiglie che, per far battezzare il figlio, dovevano recarsi alla chiesa parrocchiale. La dimensione fisica della parrocchia, del suo territorio e dei suoi confini, quindi, prendeva corpo e visibilità proprio in occasione di queste

160 | sezione ii

celebrazioni e dei piccoli viaggi rituali che ne conseguivano. Questo raro oggetto in legno di bosso, datato al XIII secolo in occasione del suo ingresso al museo nel 1911 da Josep Gudiol, conservatore del Museo Episcopale di Vic (1898-1931), doveva contenere in origine il sale destinato a celebrare il battesimo e a comporre l’acqua benedetta in una piccola parrocchia della regione di Olot, in Catalogna. Si inserisce nella produzione di opere in legno intagliato, tipica della lavorazione artigianale dei Pirene, ancora attiva ai giorni nostri. La forma caratteristica dell’opera ne testimonia il suo utilizzo esclusivo in ambito liturgico: l’intagliatore ha infatti voluto rendere, seppur in maniera schematica e geometrica, il volume di una chiesa con copertura a spioventi, un’abside semicircolare sporgente e, soprattutto, un alto campanile alleggerito da monofore. Questo esempio di micro-architettura evoca il viaggio del sacro all’interno dei territori parrocchiali, che materializza di fatto l’onnipresenza della chiesa stessa anche nelle terre più lontane e negli angoli più remoti delle montagne dell’Occidente medievale. Marc Sureda i Jubany Bibliografia: Gudiol i Cunill 1911, p. 6.

| Cat. 37 Trittico Reliquiario della Vera Croce Treviri, 1270 circa Argento dorato, legno, tessuto e pergamena; 6,8 x 5,1 x 1,8 cm Colonia, Museum Schnütgen Inv. G 645

Questo piccolo reliquiario, in forma di gioiello apribile, poteva essere portato appeso al collo con una catena. All’esterno mostra la Crocifissione e all’interno un’antologia salvifica di reliquie. Nella metà posteriore del trittico, infatti, sono ricavati sedici alveoli, attorno alla croce centrale, che doveva evidentemente contenere una scheggia della Vera Croce. Questa era sicuramente la reliquia più importante dell’insieme, e motiva il soggetto rappresentato sulla copertura del trittico. Nei compartimenti laterali le diverse reliquie sono identificate da didascalie su pergamena, con il nome del santo scritto in caratteri moderni, a indicare una continuità nella devozione e nell’utilizzo della stauroteca portatile. Tra i frammenti di ossa e tessuto conservati, si trovano le reliquie di alcune delle principali figure della cristianità, tra cui Gioacchino, Giovanni Battista, Pietro, Anna, Margherita e Tommaso. La forma e la presenza della stauroteca centrale pongono quest’o-

pera in connessione ideale con i filatteri prodotti in oriente bizantino dall’XI secolo (cat. 52, 53) per quanto lo stile della Crocifissione e la manifattura inducano ad attribuire quest’opera a una bottega localizzata dalla critica a Treviri. L’oggetto sembra rispondere alle esigenze della devozione medievale, in cerca di un contatto individuale quanto materiale con il sacro, da avere nella propria casa (anconette e altalorli) ma anche da poter portare sulla persona, come dimostra questo pendaglio, moltiplicando le proprietà taumaturgiche e protettive in modo direttamente esponenziale con il numero dei santi evocati. Benedetta Chiesi Bibliografia: Lenger 1991, pp. 191-195; Willberg 1998, pp. 30-31 (con bibliografia precedente); H. Westermann-Angerhausen, in Dresda 2006, p. 166 cat. IV.60.

la salvezza dell’anima. pellegrini, predicatori, chierici | 161

sezione iii

la guerra: crociate, cavalieri e spedizioni militari

La crociata Marc Sureda i Jubany Se la guerra condotta per motivazioni o pretesti religiosi è presente nella storia di molte culture, la nozione di “crociata” rinvia invece al Medioevo occidentale. La crociata propriamente detta ha come obiettivo la liberazione della Terra Santa. Dal 637 la Palestina si trovava sotto la dominazione musulmana; alcuni eventi come la distruzione del Santo Sepolcro nel 1009 per mano del califfo fatimide Al-Hakim, o la presa della città da parte dei turchi selgiuchidi nel 1071 (che erano meno favorevoli alla circolazione dei pellegrini cristiani), convinsero i pontefici e i principi feudali a rispondere alle richieste di aiuto degli imperatori bizantini e delle comunità cristiane orientali. Appoggiandosi a vari precedenti, come le concessioni fatte ai cavalieri che combattevano l’Islam in Sicilia e in Aragona nell’XI secolo, papa Urbano II indisse la prima crociata a Clermont il 27 novembre 1095. Il suo scopo era quello di mettere fine alle sofferenze dei cristiani orientali, di contestare lo scisma del 1054 e, anche, di canalizzare la violenza feudale attraverso un’azione militare estera, fatto che doveva facilitare l’instaurazione durevole della pace di Dio nei regni cristiani (fig. 1). I crociati venuti dai regni occidentali (Francia , Italia e Germania) presero Gerusalemme nel 1099 e fondarono i principati latini di Terra Santa, che sopravvissero più o meno fino alla fine del XIII secolo. La conservazione o la riconquista di questi territori giustificò l’organizzazione di altre sette crociate tra il 1146 e il 1263, accompagnate da diverse

164 | sezione iii

Fig. 1 Maestro della Mazarine e collaboratori, Battaglia tra crociati e saraceni, da Il Fiore delle storie d’Oriente di Aitone da Corico, Parigi, 1410-1412 circa, Parigi Bibliothèque nationale de France, Ms. Français 2810, c. 266

Fig. 2 Jean Fouquet, San Luigi muore davanti a Tunisi e l’arrivo della fotta di Carlo d’Anjou, dalle Grandes chroniques de France, Tours, 1455-1460 circa, Parigi Bibliothèque nationale de France, Ms. Français 6465, c. 284v

iniziative analoghe, di cui la Terra Santa non sempre fu il teatro. La celebre quarta crociata (1204), per esempio, giunse solo a saccheggiare Costantinopoli; la settima (1248) si diresse anche verso l’Egitto, dove il re di Francia Luigi IX (canonizzato nel 1297) perse molti uomini e fu lui stesso fatto prigioniero (cat. 56); infine, l’ottava (1263) vide la morte di quel re ai piedi delle mura di Tunisi nel 1270 (fig. 2). Benché “l’effetto crociata” abbia anche sollevato dei movimenti popolari, come la “crociata dei bambini” del 1212 o quelle “dei pastori” nel 1251 o nel 1320, le crociate promulgate dai papi si rivolgevano soprattutto alla nobiltà, a cui la Chiesa proponeva una forma di pellegrinaggio particolarmente adatta allo status militare. Il re, il principe, il barone o il miles formulavano i loro voti di crociata ciascuno “impegnandosi per la crociata” o “prendendo la croce”. A livello materiale, la croce cucita sul mantello identificava il crociato, e perfino la sua natio: nella terza crociata (1188) si accordò infatti la croce rossa ai cavalieri francesi, la bianca agli inglesi e la verde ai fiamminghi. I crociati portarono nei territori conquistati le loro armi e le loro armature occidentali (cat. 40), le loro tecniche di combattimento e i loro sistemi di organizzazione; in compenso, le croci orientali, reliquie e altri oggetti rinvenuti nelle zone di guerra, si diffusero in Occidente al rientro dei crociati (cat. 52-55). La creazione dei principati latini in Terra Santa non aveva uno scopo unicamente religioso. L’installarsi di mercanti, comunità, famiglie intere che a volte vissero il resto dei loro giorni in questi nuovi territori (cat. 48) dimostra che il fenomeno delle crociate fece scattare delle modifiche nelle reti commerciali mediterranee. Il caso già ricordato della quarta crociata mostra che gli interessi economici e geopolitici (nel caso specifico soprattutto quelli della repubblica di Venezia) potevano essere più forti della motivazione religiosa. Come ogni guerra, la crociata era anche una questione di affari. Infine, in un senso più largo, la parola “crociata” poté servire a indicare ogni campagna militare che, con una motivazione religiosa, serviva anche un progetto politico: fu il caso della celebre crociata contro gli Albigesi (1209-1229), che scacciando o massacrando gli eretici, contemporaneamente permise di assicurare il dominio del re di Francia sulla parte meridionale del regno.

la guerra: crociate, cavalieri e spedizioni militari | 165

Fig. 1 La presa di una città (particolare), dal Romuléon di Benvenuto d’Imola, Francia, 1475-1485 circa, Parigi, Musée de Cluny, Cl. 886

L’uomo d’armi Marc Sureda i Jubany

Il cavaliere errante, figura emblematica del mondo medievale, ha goduto di una fortuna particolare nell’immaginario romantico e contemporaneo. Al di là dell’idealizzazione, la figura del cavaliere viaggiatore corrisponde a una realtà ben precisa, quella della sua condizione di uomo d’armi. Il cavaliere è innanzitutto un guerriero e a dire il vero è colui che quasi detiene il “monopolio” della guerra nell’immaginario feudale. A partire dall’XI secolo, la parola miles designa normalmente il guerriero a cavallo capace di maneggiare una lancia al galoppo, il professionista delle armi piuttosto che il fante di un corpo di leva progressivamente svalutato. Tuttavia, associati alla nobiltà attraverso questo esercizio delle armi, a volte i piccoli signori potevano assicurare un tale ruolo solo al primogenito; i fratelli più giovani, diventati scudieri o cavalieri in attesa di investitura, erano generalmente spediti al servizio di un signore di più alto livello (nell’assolvimento dell’auxilium), o semplicemente spinti a cavalcare sulle strade in cerca di esperienze, di prestigio o di bottino. In poche parole, l’eccedente dell’ordine dei bellatores doveva procurarsi i mezzi di sussistenza. I cavalieri iuvenes viaggiavano spesso in gruppo verso terre dove potevano dimostrare la loro abilità e guadagnare beni e prestigio. È il caso dei normanni dell’XI secolo in Puglia o a Bisanzio, dei franchi in Spagna, dei tedeschi verso l’Oriente slavo: un po’ più tardi in Italia le repubbliche guerreggiavano le une contro le altre. Ma spostamenti più brevi nel quadro dei conflitti interni ai feudi erano sempre possibili. Con un po’ di fortuna, la protezione di un signore prestigioso poteva far acquisire una posizione più agiata o far contrarre un matrimonio vantaggioso che permettesse di fissare una residenza stabile. Il racconto di Guillaume le Maréchal (1145-1219 circa), magistralmente commentato da Georges Duby, è l’esempio di un tale percorso eccezionalmente riuscito: il protagonista diventa reggente del regno d’Inghilterra, ma prima ha viaggiato senza posa in Normandia, Inghilterra, Fiandre, Poitou, Dordogna e in Terra Santa. I signori si disputavano il valente cavaliere per un tempo e in uno spazio determinato: così, Fernando de Juan, cavaliere castigliano, rende nel 1277 omaggio al re di Francia per servirlo con dieci cavalieri, ma solamente in Aragona, Castiglia, Portogallo, Navarra e nella contea di Tolosa. Indubbiamente la lunghez-

166 | sezione iii

Fig. 2 Arazzo di Bayeux: La fotta di Guglielmo duca di Normandia attraversa la Manica (particolare), Normandia o in Inghilterra, seconda metà dell’XI secolo, Bayeux, Musée de la Reine Mathilde

za del viaggio dipende dal tempo del contratto e dall’ampiezza del teatro delle operazioni: Guglielmo il Catalano, col suo seguito di più di sessanta cavalieri venuti un po’ da ogni dove, offre le proprie prestazioni prima ai senesi (1277-1285), poi ai bolognesi (1288-1289), infine ai fiorentini (1290-1292). Lo spirito imprenditoriale militare e anche economico di questi guerrieri via via sempre più intraprendenti rivela già un approccio mercenario, e con una semplice condotta o contratto in virtù del quale le truppe si spostano da un luogo all’altro. Così, le compagnie mercenarie del XIV secolo presentano questi manipoli che si spostano sia per mare, come nel caso degli Almogravi in Grecia (dal 1303), sia per terra, come le temibili compagnie guidate da Bertrand du Guesclin in Spagna (dal 1365). Un’opzione pericolosa che lasciava le strade e i villaggi alla mercé di quei soldati difficilmente controllabili. Questi movimenti di truppe non erano certo una novità visto che dall’antichità in poi gli eserciti erano soliti viaggiare e devastare i paesi. I Vichinghi, a volte mercanti, a volte guerrieri, ma sempre navigatori, si spostavano in nave lungo le coste del mare del Nord fino all’Atlantico e anche più lontano, risalendo i fiumi navigabili. I soldati passavano più tempo in marcia che in combattimento; gli scontri erano per quanto possibile evitati: la battaglia di Azincourt, nel 1415, ebbe luogo solo perché Enrico V non riuscì a rientrare con il suo esercito velocemente in Inghilterra; i soldati non marciavano da soli ma con i loro impedimenta, incluse le tende dei nobili, degli ambulanti, delle prostitute. Nell’806 Carlomagno chiese all’abate Fuldrad, per il suo esercito, dei carri pieni di utensili di ogni tipo, vivande bastanti per tre mesi, armi e di vestiti per sei; i carri dovevano essere coperti di cuoio e impermeabilizzati per poter attraversare i corsi d’acqua. Il celebre Arazzo di Bayeux è un notevole esempio di cosa fosse la preparazione di una campagna oltre Manica nell’XI secolo: le pesanti cotte di maglia portate una sull’altra, i carri pieni di lance, il vino e le vivande, i cavalli: tutto dev’essere imbarcato per la conquista. Nell’esercito feudale, di cui il cavaliere è l’elemento essenziale, un nobile moderatamente ricco (primus miles) poteva portare con sé tre o quattro cavalli e cinque o sei uomini armati (armigeri), mentre il “baccelliere” se ne andava solo col suo ronzino e, se possibile, con uno scudiero e un palafreniere. Jean Froissart descrive nelle sue Chroniques (I, 469) l’immagine completa e varia degli eserciti della guerra dei Cent’anni in marcia, con la parata reale e nobiliare, insieme agli strumenti destinati a rendere l’esercito autonomo e mobile.

| Cat. 38

| Cat. 39

Cotta di maglia ad anelli

Spada di stocco

Germania o Italia, XV secolo Acciaio o ferro, ottone; altezza 78 cm, Ø anelli 0,9 cm Punzoni: corona tricuspide; crocetta greca a bracci patenti Firenze, Museo Nazionale del Bargello Inv. 1240 AM

Francia, metà del XV secolo Acciaio; spada 99 x 19,5 cm; lama 80,8 x 6,5 cm Punzone: giglio sopra puntino Firenze, Museo Nazionale del Bargello Inv. 81 R

Il vestimento guerresco di anelli metallici ha difeso per secoli il milite a cavallo e a piedi. Risale ai Celti del V-III secolo a.C., ha grande diffusione nel Basso Medioevo e permane fino al XVI secolo. Veniva fabbricato inizialmente con filo di ferro fucinato, ma già dal XIII secolo si ricorse alla tecnica ben più omogenea della trafilatura (Ffoulkes 1912, p. 44). Si ottenevano così fili di vario diametro e sezione, a seconda dei fori attraverso i quali un masselletto di ferro veniva tirato. Ottenuto il filo, lo si avvolgeva intorno a una barra a sezione di tondino e lo si tagliava lungo l’asse creando varie spire. Queste si schiacciavano alle due estremità, si foravano, si sovrapponevano e si chiudevano con un rivetto passante. Ogni anello si attaccava ad altri quattro e così via. L’attività di ammagliatura veniva svolta dagli stessi titolari della

168 | sezione iii

bottega o più spesso da apprendisti e donne, e comunque le fasi progettuali e più difficoltose erano compito dell’armaiolo. Cotte, giachi e camicie di maglia erano prodotte su misura, mostrando o inviando un campione (medro) al committente. Da un rapporto epistolare del 1396 del commerciante pratese Francesco Datini col suo agente a Milano, si ricava, fra le altre cose, che il tempo per produrre una cotta di un certo pregio ammontava a 6-10 giorni (Frangioni 1981, p. 11). Il che presuppone, data la ristrettezza del tempo, una bottega dotata di pezze di maglia prefabbricate. La conferma di un commercio di pezze prefabbricate per il mercato ci viene sempre dal Datini, che parla di «quadrelletti» di 3840 anelli (Brun 1951, p. 219). Ancora, si menzionano tipologie di taglio, come «usbergo», «giaco», «cotta», «coretto», e tipo-

logie di anelli a «bozza», a «bozzino», «suori» (d’ottone?), «chaciati» (schiacciati?), su cui ancora è tanto da esplorare (Scalini 1996, I, p. 183). Come produttori, in Italia si ricorda il milanese Simone Corrente, in Europa il prolifico centro di Norimberga. La cotta presente in museo è smanicata, accollata, tagliata sul dietro ai glutei, sul davanti a mezza coscia. Si potrebbe assimilare a quello che i documenti datiniani definiscono «coretto», in uso sia a piedi che a cavallo (Brun 1951, p. 219). Un armato in tale maniera è scolpito sul retablo ligneo di Wiblinger di Tilman Riemenschneider, databile al 1485, ora al Bayerisches Nationalmuseum di Monaco (Habenicht 1999, p. 263). Questi sulla maglia smanicata porta una giubba in cuoio o tessuto (che non sembra corazzata) affibbiata sul davanti. Sembra proprio un armamento da fante o almeno da cavallo leggero. Gli anelli del nostro pezzo sono tutti rivettati e portano una protuberanza sferoide (il grano d’orzo) sulla faccia interna e un punzone sulla esterna. Per lo più ricorre il punzone della corona, più raro quello della croce. Questi si ritrovano sulla camicia L20 dell’Ermitage (Rose 1930, p. 103) e, in parte, sulla cotta smanicata A5 della Wallace Collection di Londra (Mann 1962, 1, p. 2). La spada è sempre stata l’arma per eccellenza del cavaliere medievale e i romanzi cavallereschi sia bretoni che carolingi ne hanno esaltato le qualità reali e fantastiche. Le istituzioni religiose se ne sono appropriate anche in virtù della sua forma crociata, le hanno benedette e le hanno donate a re, principi e condottieri. È interessante che spada e calice abbiano un simile processo costruttivo: lama e coppa sono provvisti di codolo, ribadendo il quale se ne fissano i restanti elementi. Al di là di questo, la spada era un’arma di dimensioni contenute, maneggevole e facilmente trasportabile. L’arma presentata in mostra (cat. 39) contemperava una doppia funzione: era larga abbastanza per portare fendenti e acuta a sufficienza per gli affondi. Nelle due cavità contrapposte del pomo vi sono ancora resti di pasta rossa che costituivano due smalti armeggiati. Il manico è sufficiente per l’uso a una mano. L’elsa è nastriforme e piega le estremità verso il basso; alla crociera ha una cuspide con 3 nervature. La lama ha profilo triangolare e sezione di losanga schiacciata. Lo stile ci porta a una serie di spade ritrovate nel 1973 sul letto del fiume Dordogna, vicino Castillon, di cui per lo meno due sono similissime alla nostra. L’affondamento di tali pezzi è collocato temporalmente nelle fasi finali della Guerra dei Cent’anni (Oakeshott 1982, ff. 1-2). Varie miniature francesi corroborano la datazione alla metà del secolo, la più calzante delle quali è dal Libro d’Ore di Simon de Varie, miniato da Jean Fouquet nel 1460 circa (Dizionario 2007, XXIII, p. 343). Alberto Corti Bibliografia: L. G. Boccia, in Firenze 1971, p. 39; Corti 2011, pp. 49-97.

la guerra: crociate, cavalieri e spedizioni militari | 169

| Cat. 40 Tre pomi di daga Libano, XII - XIII secolo Bronzo, smalto; 4,8 x 4,1 x 3,2 cm Parigi, Musée de Cluny, deposito del Musée du Louvre Inv. OA 8196 (Cl. 21583), OA8197 (Cl. 21584) e OA 8198 (Cl. 21585)

Questi tre pomi, quasi certamente di daga, compongono un piccolissimo corpus, tanto coerente quanto isolato. La loro fattura non trova equivalenti in Europa e sia lo stile che la generica decorazione araldica ci interrogano sulla loro origine. Verosimilmente fabbricati negli stati latini d’Oriente, non sono stati identificati né gli artigiani né i committenti. Venivano, i primi, dall’Europa o erano artigiani locali, ma eventualmente formati da artisti occidentali? E i secondi erano cristiani o saraceni? Le numerose domande

170 | sezione iii

che li riguardano sono pari alla rarità degli oggetti collegati direttamente alle crociate. Infatti, mentre questa impresa medievale ha portato sui mari e sulle strade centinaia di migliaia, addirittura di milioni di uomini e di donne, paradossalmente non ha lasciato quasi nessuna testimonianza materiale, eccetto chiaramente le opere architettoniche erette negli stati latini d’Oriente. Michel Huynh Bibliografia: M. Huynh, in Parigi 2011, p. 22, fig. 13, p. 118, cat. 18; Malgouyres 2014, pp. 38 e 260-262.

| Cat. 41

| Cat. 44

Morso

Sprone destro a brocco

Francia, fine XIII - inizi XIV secolo Bronzo inciso e dorato, ferro, smalti; 27 x 23,5 cm Parigi, Musée de Cluny Inv. Cl 11461

Europa, fine XII - inizio XIII secolo Rame inciso e dorato; 7 x 13,5 cm Firenze, Museo Nazionale del Bargello Inv. 38 R

| Cat. 42

| Cat. 45

Morso

Sprone a rotella

Europa occidentale (Italia?), XVI secolo Ferro battuto; bronzo dorato; altezza 33,5 cm Firenze, Museo Nazionale del Bargello Inv. 66 R

Italia (?), prima metà del XV secolo Bronzo inciso e dorato; 23 cm Iscrizione: «Memor» Firenze, Museo Nazionale del Bargello Inv. 43 R

| Cat. 43 Staffa

| Cat. 46 Quattro ferri di cavallo

Europa (Italia?), seconda metà del XV secolo Bronzo; 16 x 13 cm Firenze, Museo Nazionale del Bargello Inv. 65 R

41

Francia, XIII secolo Ferro battuto; lunghezza da 11 a 13,5 cm Saint-Germain-en-Laye, Musée d’Archéologie nationale Inv. 30726, 30762, 30763, 42836

Dalle invasioni dei popoli migratori fino al XV secolo, la cavalleria è considerata l’arma risolutiva sui campi di battaglia. Le difese del cavallo seguono per lo più quelle del suo padrone; infatti saranno di maglia ad anelli nei primi secoli dopo il 1000, di tessuti rinforzati (coverte) nel XIII secolo, di groppa e petto in cuoio bollito (paio di barde) nel Trecento, di pesanti piastre nel XV secolo. Ma le attrezzature che permettevano all’uomo di interagire coll’animale erano del tutto peculiari. La postura era assicurata dalla sella che nel migliore dei casi aveva tre punti di ancoraggio: alla coda, alla pancia e al petto. La forcata del cavaliere era contenuta dai due arcioni, imbottiti nella parte interna, corazzati all’esterno. L’azione frenante fu il primo problema da risolvere, e lo si fece con la creazione di una imbrigliatura per il capo dell’animale con una imboccatura, che veniva tirata con più o meno energia contro gli angoli della bocca dell’animale tramite le redini. Questo era il morso a filetto. Dall’XI secolo (anche se conosciuto già in età imperiale) comincia a diffondersi un altro tipo di morso, più energico, basato su una leva. Questo aveva due lunghe aste (guardie) che partono dall’imboccatura e una catenella o barbozzale che passava sotto la mandibola del cavallo. Le aste manovrate dalle redini tendevano a schiacciare la mandibola tra barbozzale e imboccatura. Tutto ciò produceva un arresto molto più immediato e confacente a guerrieri sempre più pesantemente armati. Il morso di Cluny è di questo tipo (cat. 41), anche se purtroppo l’imboccatura in ferro è andata perduta. Così pure sono state asportate le lamine quadrate, sostituite da

la guerra: crociate, cavalieri e spedizioni militari | 171

43

42

quadrilobi a occhio smaltato di qualche decennio posteriori. Per morsi completi a quadranti smaltati si osservino quelli dell’Armeria Reale di Torino e del Metropolitan di New York, pezzi eccezionali della metà del Trecento, di cui il primo è un probabile dono nuziale dei Grimaldi al genero, il fiorentino Angelo Acciaioli (Venturoli, Bertolotto, Cervini 2001, p. 70), il secondo, anch’esso a sfondo matrimoniale, unisce due famiglie catalane (Nickel 1991/1999, p. 13). La caratteristica di questi pezzi è la presenza di bozzette in forma di lamine quadre armeggiate. L’altro morso in esame (cat. 42), con le bozzette a girandola e le aste incurvate a S, testimonia di un periodo, il XVI secolo, in cui l’equitazione assurge a vera scienza a partire dalla trattatistica del

172 | sezione iii

napoletano Federico Grisone (Gli Ordini del Cavalcare, stampato nel 1551). Da notare il barbozzale in catena metallica che passava sotto il mento del cavallo. Nella stabilizzazione del cavaliere sulla sella, la staffa, portata in Europa dai popoli migratori intorno al V secolo, ebbe una grande importanza, soprattutto nel facilitare i movimenti del combattente. L’accelerazione del cavallo era fornita originariamente da frustini, ma si passò presto agli sproni che liberavano le mani per altri scopi. I primi esempi sono in bronzo e risalgono al III secolo a.C.: consistono in uno spuntone uscente da una arcata con le estremità bottonate. Veniva tenuto alla caviglia tramite una cinghia a due asole. Fino all’XI secolo le branche intorno alla caviglia rimasero disposte in piano, dal secolo seguen-

44

45

46

te presero le forme curve dei malleoli. Interessante fu il passaggio dal brocco (una punta) alla rotella, intorno agli anni Trenta del Trecento, che dovette garantire l’animale da ferite eccessivamente profonde. Lo sprone a brocco in esame (cat. 44) è decorato con incisione di listelli a zig-zag su un fondo punzonato a denti di lupo. Un unico cinghietto, inchiodato a una branca, lo fissava al piede passandone sotto e risalendo attraverso il passante rettangolare, per fissarsi sul dorso grazie a una fibbia. L’altro sprone (cat. 45) è reso elegante dal lungo collo tipico del XV secolo e dal cartiglio iscritto «memor», che sembra essere dedica amorosa. È andata perduta la sferetta uscente dal becchetto, che impediva il ferimento del tendine d’Achille. In questo caso le cinghie di fissaggio erano

tre. In ultimo, i ferri di cavallo proteggevano gli zoccoli dall’usura (cat. 46). È interessante un ferro regolabile conservato al Poldi Pezzoli di Milano che doveva sostituire temporaneamente quello eventualmente perduto: è avvolgente sugli spigoli dello zoccolo, snodato al colmo e regolabile sul dietro tramite vitone avvitato in madrevite (Boccia, Godoy 1985-1986, 1, p. 137, n. 389). Alberto Corti Bibliografia: Gauthier 1950, p. 55 (Cl 11461); Boccia [1972], ad vocem (Inv. 66 R); Boccia [1972], ad vocem (Inv. 65 R); L. G. Boccia, in Firenze 1971, p. 57 (Inv. 38 R); L. G. Boccia, in Firenze 1971, p. 57; Corti 2011, p. 68 (Inv. 43 R).

la guerra: crociate, cavalieri e spedizioni militari | 173

| Cat. 47 Il ritorno del crociato (Hugo I di Vaudémont) Lorena, terzo quarto del XII secolo Pietra calcarea; 111 x 40 x 30 cm Nancy, Musée Lorrain Inv. D.2004.0.2

La scultura, classificata “monument historique” nel 1908, è una delle poche testimonianze materiali e artistiche legate direttamente alla crociate nel loro aspetto più intimo e familiare, raffigurando l’abbraccio di una coppia di sposi al momento della partenza, o più probabilmente del ritorno, del crociato. La figura è riconoscibile dalla veste e dal bastone, simile al bordone da pellegrino, oltre che dalla croce sul petto, appuntata sul mantello, “signum” per eccellenza dei crociati (cat. 52-55). Al fianco, probabilmente appesa alla cintura, pende una piccola borsa o scarsella rettangolare. Secondo la tradizione, la scultura raffigurerebbe il conte Hugo di Vaudémont, partito nel 1147 per la seconda crociata e tornato in patria solo nel 1161. Pur essendo stato dato per morto, trova la moglie Adeline ad attenderlo fedelmente e la scultura, secondo una romantica lettura, ne immortala, in un unico blocco di pietra, il ricongiungimento e il tenero abbraccio della sposa. I dati relativi al percorso biografico del conte di Vaudémont sono attestati dai documenti, che registrano anche la sua morte nel 1165, mentre più discussa è l’identificazione del personaggio raffigurato dalla scultura, seppur carica di enorme fascino. Interessante la proposta che il gruppo scultoreo, non scolpito sul retro e quindi destinato a una visione frontale, facesse parte di un complesso funebre dei coniugi, da completare probabilmente con una lapide con iscrizione, oggi perduta ( J.R. Gaborit, in Parigi 2005). Benedetta Chiesi Bibliografia: J.R. Gaborit, in Parigi 2005, p. 160, cat. 107.

174 | sezione iii

| Cat. 48 Epitaffio di Gautier Meinne Abeuf (m. giugno 1278) e di Alemanne, sua sposa (m. agosto 1278) Acri o San Giovanni d’Acri, reimpiego di un frammento di lapide del IV secolo, incisa nel giugno e agosto 1278 Marmo, tracce di pasta colorata; 56 x 48,5 x 7 cm Iscrizione: «+ ici : gist : sire : gavti / er : meinne : abevf : / qvi : trespas[s]a : an : / lan : de : lin : carna / acion : notre : seig / gn[o] r : ih[es]v[s] : cri[s]t : m° : cc° : / : lxx : viii : a [:] xx : iors : de : / : ive :» Iscrizione complementare: «e scespovze / ma / dame aleman|n]e / qvi / trespas[s]a a xxvii / iors / dov mois daovs/t» Parigi, Musée de Cluny, deposito del Musée du Louvre Inv. R.F. 861

Nel 1881, Charles Simon Clermont-Ganneau, orientalista che conduce, parallelamente alla sua carriera diplomatica al servizio della Francia, un’intensa attività d’archeologo e di epigrafista, dirige una missione scientifica «in Palestina e in Fenicia». Questi territori, che corrispondono agli attuali Israele e Libano, all’epoca dipendevano dall’Impero ottomano. I suoi corrispondenti in situ gli forniscono numerosi oggetti trovati durante gli scavi o acquistati nei mercati locali, adatti ad arricchire la sua collezione d’iscrizioni. Ne destina tuttavia una parte anche al Louvre, a favore del dipartimento delle Antichità Orientali creato in quello stesso anno. Tra le iscrizioni antiche figura anche qualche epitaffio scritto in francese e trovato nei porti del Levante, a Tiro o ad Acri. In particolare da quest’ultima città, l’ex San Giovanni d’Acri nota nei secoli XII e XIII per la presenza dei crociati e ultimo bastione degli Stati latini d’Oriente, proviene l’iscrizione funeraria di un certo Gautier Meinne Abeuf, cavaliere franco, e della sua sposa Alemanne. La menzione della sua precisa localizzazione non è stata conservata nelle fonti e l’identità di questo personaggio deve essere ancora chiarita, ma questo monumento funerario costituisce, sia per la qualità che per la relativa rarità, una testimonianza rappresentativa dell’insediamento dei crociati – e più generalmente dei cittadini cristiani provenenti dall’Europa occidentale – in Terra Santa. L’iscrizione è stata incisa su un pezzo di marmo bianco rettangolare. L’ esame del retro mostra dei motivi scolpiti in leggero rilievo che sembrano risalire all’epoca paleocristiana: al centro i resti di una croce patente sbozzata sono iscritti in un cerchio in forma di corona di alloro, essa stessa incorniciata da una losanga posta sulla punta; i lati della losanga sono fiancheggiati da medaglioni che occupano tutto lo spazio disponibile negli angoli della lapide. Dei fioroni sono posti sugli angoli. Si tratta evidentemente di un reimpiego, partendo da un elemento proveniente dall’arredo liturgico di una chiesa, forse la

lastra di un pluteo ritagliata. Per quel che riguarda l’iscrizione commemorativa di Gautier Meinne Abeuf, essa consiste in otto righe di eleganti onciali, eseguite e impaginate con estrema cura. Dopo una piccola croce all’inizio, le parole sono separate da doppi punti, mentre l’angolo inferiore destro è occupato dall’impresa araldica del defunto, con lo stemma a tre fasce. Il campo di fondo dello scudo, così come i solchi incisi delle lettere, presenta tracce della pasta colorata che originalmente li riempiva, conferendo un aspetto bicromo all’epitaffio. Poco dopo la morte di Gautier nel giugno 1278, la moglie Alemanne muore a sua volta, il 27 agosto dello stesso anno. Lo spazio restante nella metà inferiore della lapide appena completata viene dunque coperto da un secondo incisore con una nuova incisione di quattro righe, disposte in modo asimmetrico ai lati dello stemma. Questo espediente tradisce forse una preoccupazione d’ordine economico, come potrebbe suggerire il reimpiego di un elemento antico, motivato anche dai due decessi vicini nel tempo, oppure risponde al desiderio di donna Alemanne? Per quanto quest’aggiunta manifesti un lavoro più rapido, meno profondamente inciso e poco regolare, si tratta comunque di una testimonianza di un monumento funebre realizzato in due tempi, e in rottura evidente con il progetto iniziale. Soprattutto, la resistenza al tempo di questo doppio epitaffio su marmo, il cui materiale di reimpiego costituisce un trait d’union fra i due momenti, antico e medievale, della storia cristiana di Acri, presenta un forte contrasto con l’effimero destino del regno di Gerusalemme, caduto insieme alla città nel 1291, cioè tredici anni appena dopo la morte dei due sposi. Damien Berné Bibliografia: Clermont-Ganneau 1882, pp. 311-313; Haraucourt, Montremy 1922, p. 145, n. 797; J.-P. Babelon, in Parigi 1970, p. 98, cat. 192; Baron 1996, p. 268; Dectot 2010; Parigi 2014, p. 93, cat. 80.

la guerra: crociate, cavalieri e spedizioni militari | 175

| Cat. 49 Alfonso El Sabio Cantigas de Santa Maria XIII secolo Codice membranaceo miniato; 44,8 x 31,5 cm Firenze, Biblioteca Nazionale Centrale Banco Rari 20 [c. 59 v: Come Santa Maria protesse una nave di cristiani bloccata in un fiume da dove era attaccata dai mori]

Le Cantigas de Santa Maria di Alfonso X sono considerate uno dei repertori poetico-musicali più interessanti del XIII secolo, dove il perfetto equilibrio tra poesia e musica raggiunge un felicissimo risultato. Scritte in lode della Vergine, le Cantigas raccontano degli innumerevoli miracoli operati dalla Madonna o tramite sua intercessione: salvataggi di persone in percolo di vita, guarigioni di infermi, interventi in difesa dei cristiani minacciati dalle invasioni dei mori e miracoli ricevuti dallo stesso re. Alfonso X si presenta non solo come autore dell’opera e cantore delle virtù della Santa Vergine ma, soprattutto, come il sovrano «Dell’Algarve, che strappò ai mori, introducendovi la nostra fede; e inoltre ripopolò Badaijoz, che è un regno molto antico; e tolse ai mori Niebla e Jerez, e prese Vejer e Medina e una seconda volta Alcala» come si legge nel prologo. Egli, dunque, avendo strappato molti territori al dominio musulmano riconquistandoli alla fede cristiana, può essere considerato a buon diritto un “re crociato”. Ritenuto solo in parte autore, il saggio sovrano fu sicuramente l’ispiratore e il supervisore delle Cantigas che, verosimilmente, commissionò a esperti traduttori, copisti, miniaturisti, forse appartenenti a un suo scriptorium di cui purtroppo non è rimasta testimonianza. Oggi sono conosciuti quattro testimoni dell’opera, tutti risalenti al secolo XIII: il MS 10.069 della Biblioteca Nacional di Madrid, i due manoscritti MS T.I.1 e MS B.I.2 del Real Monasterio de San Lorenzo (El Escorial) e il Banco Rari 20 della Biblioteca Nazionale Centrale. La comparazione tra il manoscritto MS

176 | sezione iii

T.I.1 (El Escorial) con l’esemplare della Biblioteca Nazionale di Firenze ha indotto alcuni studiosi a considerare i due manoscritti come parte di uno stesso progetto editoriale, di cui il codice fiorentino sarebbe la seconda parte. Il codice, scritto in dialetto gallego, pervenne alla biblioteca Magliabechiana dalla Libreria Palatina, come attesta il timbro sulla prima carta (c. 1r). Ogni cantiga è illustrata all’interno di sei scomparti riquadrati da una cornice a formelle geometriche interrotte dagli stemmi, e occupa in genere una pagina intera. I disegni mostrano un grande uso di elementi nelle figure e molta cura dei particolari. Le miniature che risentono dell’influenza francese sono state eseguite non sempre da una stessa mano. Le carte miniate sono complessivamente novantuno, ma alcune sono incomplete nel disegno o prive del tutto dell’illustrazione, mantenendo soltanto i riquadri destinati a contenerle. Nel codice, scritto generalmente su due colonne, compaiono spesso le linee del rigo musicale ma mancano costantemente le note musicali. La qualità elevata della fattura di queste Cantigas fa ipotizzare che siano state eseguite per un alto personaggio, forse appartenente alla stessa corte reale. Palmira Panedigrano Bibliografia: G. Muzzioli, in Roma 1953, pp. 293-294, cat. 468; Firenze 1957, p. 162, cat. 101; Alfonso X el Sabio ed. 1989; El códice ed. 1991; Alfonso X el Sabio, De Berceo, De Coinci, Gonzalo - Beretta 1999; A. Dominguez Rodriguez, in Murcia 2009, pp. 370-371.

| Cat. 50 Ignoto miniatore del secolo XIV Assedio di città Ultimo quarto del XIV secolo Miniatura, inchiostro e acquarelli su pergamena; 16,1 x 10,1 cm Firenze, Museo Nazionale del Bargello Inv. 2065 C

Questo esemplare è una “carta sciolta” appartenente a un manoscritto oggi smembrato, di cui si conservano pochi fogli, noto come Codice Cocarelli. Il nome rimanda a un’antica famiglia di origine genovese attestata nell’ultimo quarto del Trecento, cui appartenne il committente dell’opera. Il manoscritto conteneva il Trattato dei Septem Vitiis, il cui testo compare anche sull’altra faccia di questo stesso foglio, in una cornice decorata con una ricca varietà di uccellini, due scimmiette e tre personaggi mongoli seduti (fig. 1 a p. 104). Sulla pagina qui esposta è invece miniata una splendida veduta di città, per la cui identificazione si rimanda al saggio di Mario Marcenaro qui in catalogo (pp. 104-111). Al di là delle varie interpretazioni a carattere “geografico”, la scena qui raffigurata è ricca di spunti che ben si inseriscono nel tema dei viaggi, della guerra e delle spedizioni militari cui è dedicata questa sezione della mostra. Partendo dalla sommità del foglio sono infatti visibili personaggi in vesti orientali seduti entro tende di un probabile accampamento militare; segue una scena di

178 | sezione iii

assedio, con soldati a cavallo, arcieri in procinto di scoccare le loro frecce e, sulla sinistra, un gruppo di armati recanti insegne di un diverso schieramento. Nella metà inferiore della composizione, dominata da una dettagliata veduta di città, con le mura e i tanti edifici civili e religiosi, il tema della guerra lascia spazio a un panorama di ben più ampio respiro. Il porto, in particolare, offre una singolare scena marittima, animata da ben ventisei imbarcazioni che sembrano voler offrire una vera e propria rassegna di tipologie navali: a vela e a remi, grandi e destinate ai lunghi viaggi, oppure piccole barche di varia foggia, approdate a riva o affiancate ai velieri in attesa dello sbarco dei marinai. La miniatura è entrata a far parte delle raccolte del Museo Nazionale del Bargello nel 1889, con il lascito di Louis Carrand. Ilaria Ciseri Bibliografia: M. Rogers, in Firenze 1989, pp. 321-322 (con bibliografia precedente); E. Carrara, in La storia del Bargello 2004, p. 226; Molà, Rosati, Wetzel 2012, pp. 116-117.

| Cat. 51 Febus el Forte XIV-XV secolo Manoscritto cartaceo, legatura di restauro (1970) in assi, dorso in pelle; 29 x 21,5 cm Firenze, Biblioteca Nazionale Centrale Banco Rari 45 (Magl. VII, 19; II.II.33) [c. 22v: Scontro tra cavalieri]

Il Libro di Febusso e Breusso, come recita la nota di possesso a c. Ir, contiene sei cantari in ottava rima (per un totale di 361 ottave), che narrano le gesta di Febus, prode cavaliere errante della corte di re Artù. L’opera, di autore anonimo, si inserisce nel fortunato filone del cantare cavalleresco in rima, genere che nel tardo Trecento conobbe un periodo di grande successo: per lo più rielaborazioni dei volgarizzamenti dei testi francesi più conosciuti, i cantari divertono il pubblico delle piazze con trame semplici e avvincenti e Firenze fu un centro privilegiato di quest’arte di intrattenimento popolare. Quando l’anonimo compilatore del Febusso scrive il suo testo, in Toscana sono già apparse opere come quella di Rustichello da Pisa sul ciclo arturiano, la Tavola Ritonda e il cosiddetto Tristano Riccardiano, per citarne solo alcune. Nello stesso periodo a Firenze Antonio Pucci, versatile banditore del Comune, declama in piazza i suoi cantari di matrice arturiana. Tra i testi in ottava rima, questo codice è l’unico testimone conosciuto dei cantari di Febus el Forte, nei quali un cavaliere errante, Brehus, si imbatte in un vecchio eremita, incontrato per caso in un sotterraneo, dove una perfida fanciulla l’ha fatto cadere a tradimento. In una delle sontuose camere del sotterraneo è conservata la maestosa spoglia del paladino Febus, e davanti a essa il vecchio eremita ricorda le gesta avventurose del suo antenato, in un succedersi di spettacolari scontri tra rivali, assalti di fortezze, raggiri, fino all’innamoramento per la bella Albiera, figlia del re di Norbellanda, che lo porterà alla morte. Un ricco apparato figurativo illustra con immediatezza l’intero testo: vivaci disegni,

180 | sezione iii

parzialmente coloriti, presentano scene a effetto, permeate da un forte senso teatrale. I personaggi sono ritratti in pose e abbigliamento spesso ripetitivi, le ambientazioni sono essenziali, i duelli tra cavalieri sono resi con grande profusione di sangue. È assai probabile, come è stato ipotizzato, che l’artista si sia ispirato a modelli iconografici già collaudati in area padana, mentre per i caratteri stilistici del manoscritto risulta plausibile che esso sia stato confezionato in Toscana, tra la fine del Trecento e il primo decennio del Quattrocento. Sul verso della carta di guardia iniziale il possessore del manoscritto, Giovanni Mazzuoli detto padre Stradino (1480-1549), annota di averlo ricevuto in dono da Jacopo e Giovanni, figli di Domenico di Cante Compagni, «trovato in una buca del fondamento della fortezza di Monte Bicchieri», nei pressi di San Miniato; appassionato collezionista di romanzi cavallereschi, il Mazzuoli lo aveva «restuorato, rattoppato e alluminato». Dalla sua libreria personale, o «armadiaccio», come l’aveva definito l’amico A. F. Grazzini, il manoscritto passò nella biblioteca privata di Cosimo I, poi nella biblioteca granducale, la Mediceo-Lotaringio-Palatina, che nel 1771 fu assegnata alla Magliabechiana per volere di Pietro Leopoldo. Carla Pinzauti Bibliografia: Limentani 1962, pp. XV-XVIII; CX-CXV; Maracchi Biagiarelli 1982, pp. 53-54, n. 10; Villoresi 2000, p. 41; G. Bartoletti, G. Lazzi, in Firenze 2003, pp. 58-61, cat. 4.

la guerra: crociate, cavalieri e spedizioni militari | 181

| Cat. 52

| Cat. 54

Enkolpion o filatterio (croce pettorale)

Croce pendente

Costantinopoli (?), seconda metà del IX secolo o inizio del X secolo Argento, niello, oro; 8,1 x 6,5 cm Vicopisano (Pisa), Pieve di Santa Maria

Costantinopoli, VI-VII secolo Oro e smalti cloisonnés; 4,4, x 2,6 cm Firenze, Museo Nazionale del Bargello Inv. 973 C

| Cat. 53

| Cat. 55

Enkolpion o filatterio (croce pettorale)

Croce pettorale

Centro monastico greco, VIII secolo Bronzo con tracce di smalto; 9 x 5,5 cm La Spezia, Museo Civico Amedeo Lia Inv. S 111

Turchia, V-VII secolo o IX-X secolo (?) Bronzo; 6,7 x 5,7 cm Parigi, Musée de Cluny Inv. Cl. 2508

Nell’anno 1095, Urbano II invitò i soldati cristiani a «prendere la propria croce», secondo l’espressione evangelica (Mt 16, 24). Il termine “crociata” non è in uso se non dal XIII secolo, ma è evidente che senza la croce, invocata dall’inizio dell’avventura («crucem predicare, recipere, in scapola dextra suere»), queste spedizioni militari in Oriente non avrebbero avuto tale nome. La croce diviene dunque il segno e l’immagine principale, l’insegna primordiale del pellegrinaggio dei crociati. Già dalla prima crociata, la scoperta di nuove reliquie in Terra Santa – in particolare il ritrovamento miracoloso, nel 1099, di un frammento della Vera Croce, nascosto all’interno del Santo Sepolcro novanta anni prima – o il fenomeno di “reliquarizzazione” di alcune testimonianze materiali dei Loca Sancta, determina una rinnovata e intensa circolazione della croce in Occidente. La croce, sia essa come reliquiario o come semplice segno da esibire appeso al collo o cucito sugli abiti, mantiene costantemente un posto d’onore. La forza del simbolo spiega la diffusione e la richiesta di croci pettorali in Occidente soprattutto dalla fine dell’XI secolo, facendo ricorso spesso a croci pendenti o reliquiari prodotti nell’Oriente cristiano durante i secoli precedenti. Sarebbe suggestivo motivare in tal senso la presenza in Toscana del

182 | sezione iii

bell’enkolpion di Vicopisano, databile tra il IX e il X secolo, anche se la più antica menzione documentaria dell’oggetto risale solo al 1858 (cat. 52). Realizzato, come il suo più evidente termine di confronto – il filatterio di Pliska in Bulgaria (G.R. Parpulov, in Cleveland-Baltimora-Londra 2010, p. 49, cat. 32) – da un atelier probabilmente di Costantinopoli, l’oggetto mostra una ricca iconografia che tocca i punti essenziali del mistero della Salvezza, evidenziando su entrambi i lati la natura ora umana ora divina di Cristo. Sul recto si nota al centro la Crocifissione, con l’affidamento reciproco di Maria a Giovanni (Gv 19, 26-27); questa è poi circondata dal ciclo dell’Incarnazione (Annunciazione, Nascita, Presentazione, Battesimo di Cristo); sul verso, invece, la combinazione in verticale della Discesa al Limbo (in basso) e dell’Ascensione (in alto) si intreccia con la raffigurazione, nei bracci orizzontali, del collegio apostolico, presieduto dalla Vergine orante al centro. Nello stesso spirito, ma più semplice nello stile e nei materiali, l’enkolpion di La Spezia mostra uno schema simile, ma ridotto alla sola Crocifissione e all’affidamento su una faccia, e alla Vergine orante, circondata da quattro clipei con i busti degli Evangelisti, sull’altra (cat. 53). A differenza della croce precedente, questa appartiene a un gruppo più ampio, formato da filatte-

52

53

ri prodotti in ambito bizantino, palestinese o copto entro un vasto arco cronologico, dal VI al XII secolo, nel quale la croce spezzina trova abbondanti termini di confronto conservati in Occidente (Roma, Milano, Fornovo, Berlino, Parigi, Waterloo, Madrid, Girona, si veda M. Santacatterina, in Parma 2006, pp. 228-229, cat. 120). Anche se oggetti di grande mobilità potenziale per loro stessa natura, alcune di queste croci furono ritrovate all’interno di altari o in sacelli per reliquie (come quella di Fornovo o, particolarmente, quella di Sant Pere de Rodes oggi a Girona, si veda Guidol i Cunill 1917, pp. 101-108; Lorés 2002, pp. 167-172), motivo per il quale sono potute rimanere inedite e sconosciute sino a tempi recenti, il che, al tempo stesso, non impedisce – anzi consiglierebbe – di proporre per loro una presenza in Occidente molto antica. Per quanto riguarda la croce del Bargello (cat. 54), questa riprende il tipo formale della croce patente, propria degli enkolpia, ma con dimensioni ridotte e i bracci terminanti a coda di rondine, che l’avvicinano alla croce di Malta. Sul retro reca l’iscrizione «ZOE-PHOS». Grazie al confronto con oggetti datati alla fine del VI secolo – che invocano Dio come luce e vita del mondo (Giovanni 8, 12, , cfr J. Hanson, in Bühl 2008, p. 88) –, si presenta come una raffinata produzione bizantina da usare come

54

55

ciondolo con materiali di lusso (oro e smalti per la raffigurazione degli uccelli); ci si può chiedere se il vetro centrale, molto importante rispetto alle dimensioni dell’oggetto, non potesse originariamente svolgere il ruolo di piccola teca-reliquiario, il che metterebbe l’oggetto ulteriormente in rapporto con la tipologia degli enkolpia. Meno lussuosa nella veste esteriore, la croce di bronzo di Parigi si dimostra tuttavia molto interessante in virtù della sua storia (cat. 55). Questa fu rinvenuta nel 1853, durante scavi archeologici in Cilicia, nei pressi di Tarso, e fu immediatamente pubblicata su la Revue Archéologique. La critica ottocentesca, in virtù della sua provenienza, la fece appartenere a un cavaliere crociato caduto sul campo di una ipotetica battaglia detta di Hadji-Bouzan (“la sconfitta del pellegrino”), della quale non abbiamo di fatto alcuna prova documentaria. L’oggetto riflette, quindi, il desiderio che si provava ancora nel XIX secolo verso oggetti nei quali si credeva di poter ravvisare delle testimonianze materiali del cammino dei crociati. Marc Sureda i Jubany Bibliografia: Notes, 1856, pp. 56-57; Supino 1898, p. 175, n. 973; Caillet 1985, p.188, n. 112; La Spezia 1999, pp. 212-213, n. 8.3; A. del Grosso, in Lucca 2010, pp. 117-118, cat. 58.

la guerra: crociate, cavalieri e spedizioni militari | 183

| Cat. 56 Tavoletta da scrittura con san Luigi Parigi, 1320-1330 circa Avorio; 8 x 4 cm Firenze, Museo Nazionale del Bargello Inv. 115 C

La piccola tavoletta d’avorio raffigura un episodio della vita di Luigi IX, re di Francia dal 1226 al 1270. Nel 1248 il re, fervente cristiano, s’impegnò nella VII crociata e partì da Parigi in direzione dell’Egitto, riportando una prima vittoria a Damietta, città sul delta del Nilo. L’avventura tuttavia si rivelò ben presto poco fortunata: lo stesso re si ammalò e fu successivamente fatto prigioniero. Riuscì a essere liberato sotto riscatto, grazie all’intervento della madre Bianca di Castiglia, reggente del regno di Francia. La biografia del sovrano, canonizzato nel 1297, è narrata con dovizia di particolari dal francescano Guillaume de SaintPathus, considerato l’agiografo ufficiale di san Luigi. Nella biografia troviamo una puntuale descrizione dell’episodio scolpito nell’avorio, che raffigura uno degli atti di pietà mostrata dal sovrano durante la crociata. Nel luglio del 1253 l’esercito cristiano subì una pesante disfatta a Sidone, sulle coste dell’attuale Libano. Informato dell’accaduto, san Luigi accorse a Sidone per dare una dignitosa sepoltura ai corpi rimasti sulla spiaggia, sotto il sole. Lo scultore nell’avorio ha reso in modo molto efficace e teatrale il disgusto dei cavalieri che accompagnavano san Luigi davanti a quello spettacolo: alcuni si tappano il naso per il fetore, altri quasi nascondono il volto nelle vesti. Il re, come riportano le fonti, invece si tolse i guanti e raccolse i resti dei cristiani trucidati toccandoli a mani nude, come fossero reliquie. L’ episodio è raffigurato in modo pressoché identico da Jean Pucelle nel Livre d’Heures de Jeanne d’Evreux (1325-1328), conservato oggi al Metropolitan Museum di New York. Il retro della placchetta è scavato e mostra i bordi rialzati per accogliere uno strato di cera, su cui scrivere con uno stiletto metallico. Si tratta quindi di una tablette à écrire, e doveva in origine essere completata con un secondo foglio di avorio, scolpito all’esterno e con la cera all’interno, con il quale comporre un piccolo libretto da portare appeso alla cintura o nelle borse. Benedetta Chiesi Bibliografia: Supino 1898, p. 234, n. 115; Gerspach 1904, p. 26, fig. 91; Koechlin 1924, I, p. 444, nota 1; Chiesi 2011, pp. 189-204.

184 | sezione iii

| Cat. 57 Lipsanoteca (reliquiario) Catalogna, Cordoba o Oriente mediterraneo, XI secolo Vetro; 7 x 6 cm Vic, Museu Episcopal Inv. MEV 9714

Questo vasetto di vetro traslucido a forma di globo, con il collo rotto, fece il suo ingresso nel Museu Episcopal nel novembre del 1896, provenendo senza dubbio dalla cattedrale di Vic. Secondo quanto riferisce Josep Gudiol, al suo interno furono trovate alcune reliquie e dei frammenti di pergamena con la firma del vescovo di Vic Guillem de Balsareny (1046-1075), il successore del famoso vescovo Oliba (vedi cat. 32). Non vi è dubbio quindi che il contenitore sia stato riutilizzato e adattato a lipsanoteca in uno degli altari della cattedrale romanica, nel terzo quarto dell’XI secolo. Si può forse ipotizzare che provenga dall’altare del Santo Sepolcro, che fu consacrato in quel periodo. Era comune nell’XI secolo reimpiegare, in un diverso contesto e spesso come contenitori di reliquie, dei vasi di vetro a forma sferica, con collo lungo stretto, solitamente concepiti in origine come contenitori di cosmetici e profumi. Solo in Catalogna se ne conservano numerose testimonianze, quali le lipsanoteche di Casserres, di Mogrony o di Santa Eugènia di Berga, oggi tutte esposte al Museu Episcopal di Vic ( J. Barrachina, in Trullen 2003, pp. 250-252), o la lipsanoteca di Tredòs recentemente pubblicata (Velasco, Ros, Vilarrúbias 2011, pp. 243-245). Per adattare il vaso a questo nuovo uso era necessario rompere il collo tubolare per introdurvi le reliquie; l’oggetto veniva poi nuovamente chiuso con della cera e una miscela di bitume, sulla quale

il vescovo consacrante era solito imprimere il proprio sigillo, che garantiva la protezione e l’autenticità del sacro contenuto. A differenza di altri casi, la lipsanoteca presentata in mostra ha perso il suo sigillo originale. Collegate a un commercio di beni di lusso come quello dei profumi, queste fiale di vetro erano prodotte in Andalusia califale (Rontomé 2006) o arrivate lì dall’Egitto o dalla Persia (Whitehouse 2010), ed erano considerate quali oggetti di importazione, rari, costosi e provenienti da terre lontane, in parallelo, in un certo senso, con la sorte di molte delle reliquie orientali, memorie di santi antichi, che avevano viaggiato per giungere sino agli altari dell’Europa occidentale. Pertanto, una volta separati dalla loro funzione originaria, questi oggetti erano considerati degni di essere utilizzati per uno scopo di grande importanza simbolica: contenere le reliquie necessarie per il rito di consacrazione di un altare. Una funzione onorevole, giustificata dalla rarità, dal carattere esotico e dalla lontananza da cui arrivavano questi contenitori, che molto spesso ne ha permesso la conservazione sino a noi, protetti nell’interno degli altari o nei tesori delle chiese. Marc Sureda i Jubany Bibliografia: Gudiol i Cunill 1901, pp. 878-880; Abril 1986b, p. 254; Sureda Jubany 2010, p. 57.

la guerra: crociate, cavalieri e spedizioni militari | 185

| Cat. 58 Placchette da cofanetti Spagna o Cipro (?), XIV secolo Lega di stagno e piombo; 8,5 x 17,8 x 4,6 x 10 cm Parigi, Musée de Cluny Inv. Cl. 17746a e Cl. 17746b

Queste placchette di metallo con decorazioni di animali fantastici in medaglioni giustapposti e incorniciati da un’iscrizione, sono degli ornamenti per piccoli cofanetti. Vengono realizzate con lo stesso procedimento delle insegne di pellegrinaggio, cioè mettendo in fusione una lega di stagno e piombo in uno stampo poco profondo. Questa tecnica molto economica permette di realizzare velocemente oggetti in serie. L’iscrizione che orla la placchetta principale mette in risalto l’origine lontana, reale o presunta, del cofanetto: «Sono lo scrigno venuto da Cipro per essere venduto, benedetto sia chi mi acquisterà fra poco [(e)…] mi porterà ».

186 | sezione iii

Questa produzione si inserisce nell’ambito dei pellegrinaggi e dello scambio di reliquie che vi è associato. Simili oggetti, poco costosi, consentivano di fabbricare piccoli cofanetti destinati ad accogliere delle reliquie, sia che fossero state realmente riportate dal pellegrino sia che fossero state acquistate da un intermediario. La provenienza non accertata da Cipro o dalla Spagna di questi pezzi s’iscrive in questa stessa tendenza. Michel Huynh Bibliografia: Ph. Trélat, in Parigi 2012, pp. 273-274, cat. 121-122.

sezione iv

il viaggio di affari. mercanti, banchieri e messaggeri

Viaggi di affari. Mercanti, commercianti e banchieri Benedetta Chiesi

La straordinaria crescita demografica verificatasi in Europa a partire dall’XI secolo aveva portato alla rinascita e all’ampliamento dei centri urbani, decaduti durante l’Alto Medioevo. Alcune città affacciate sul mare furono tra le prime protagoniste della cosiddetta “rivoluzione commerciale”, con la messa a punto di raffinate tecniche degli affari. Dal XII secolo il movimento mercantile ormai solca, attraverso vie marittime, tutto il Mediterraneo per risalire fino alle coste atlantiche, penetrare nel mar Nero e nel mar Caspio e spingersi fino a Oriente. Lo sviluppo del commercio portò con sé l’espansione dell’economia monetaria e il ritorno alla coniazione di monete d’oro in Europa. Firenze cominciò a coniare il fiorino d’oro dal 1252 (cat. 65), e la piccola moneta lucente divenne la valuta preferenziale per gli scambi commerciali con i tanti partner europei, da Cipro a Londra, da Barcellona a Costantinopoli. Anche i confini dei luoghi di scambio si ampliarono: dai mercati delle piazze locali alle grandi fiere il cui orizzonte era regionale, se non, in alcuni casi, internazionale. Nel Duecento le grandi fiere europee erano quelle della Champagne, dove si potevano scambiare prodotti dell’Europa settentrionale e quelli dell’area

Fig. 1 Ambrogio Lorenzetti, Efetti del Buon Governo in campagna (particolare), 13381339, Siena, Palazzo Pubblico

Fig. 2 Amynandro e messaggeri, da Ab Urbe Condita di Tito Livio, Parigi, fne del XIV secolo, Parigi, Bibliothèque nationale de France, Ms. Francais 272, c. 89v

Fig. 3 Il messaggero Dyetrich Leufel, dal Livre de raison de la fondation des douze frères de Mendel, Norimberga, 1425 circa, Norimberga, Germanisches Museum, Amb. 317.2°, c. 16 v (Mendel I)

mediterranea, ma se ne tenevano anche a Parigi, Lione, Colonia, Augusta, Magonza, Venezia, Mantova, Milano, fino a Napoli e Brindisi, e costituivano occasioni in cui affluivano mercanti da ogni paese. Tra Due e Trecento, con l’avvento della “pax mongolica”, si aprirono infine anche le porte dell’immenso continente asiatico, che uomini di affari genovesi e veneziani percorrevano alla ricerca dei prodotti di lusso. Questi commerci portarono un fruttuoso incontro di idee, merci e tecniche, che fiorirono lungo la Via della Seta. In questi viaggi, particolarmente urgente era la necessità di garantire sicurezza e rapidità allo spostamento di denaro, così come dei documenti e dei beni. I denari venivano trasportati dai mercanti in apposite scarselle (cat. 64) composte da più tasche chiudibili con lacci in pelle, mentre i messaggeri erano soliti conservare al sicuro le lettere in piccoli contenitori o cofanetti con le insegne del mittente (cat. 79-80), spesso di dimensioni veramente ridotte, o in tasche di cuoio da tenere saldamente legate alla cintura (cat. 73-74). I materiali usati per le borse dei messaggeri – resistente cuoio bollito o metallo – e la semplicità formale dei decori, rispondevano quindi a chiare esigenze pratiche. La velocità del commercio, e di conseguenza la buona riuscita degli affari, era affidata anche alle alleanze e alla sicura riconoscibilità dei messi: per questo i messaggeri portavano sulle borse o cucite all’abito le insegne della propria provenienza (cat. 75-77). Similmente, nell’ambito delle compagnie mercantili, tessere con impresso il blasone della società (cat. 66-67) funzionavano come segno di riconoscimento per il ritiro delle balle di mercanzia e talora come esenzione, o riduzione, della gabella. Al fine di offrire maggior sicurezza al commercio, fu elaborata anche la formula della lettera di cambio (cat. 78). Si tratta infatti di uno atto notarile con la duplice funzione di trasferimento di denaro e strumento di credito, che permetteva di concludere transazioni senza il rischioso spostamento fisico del denaro. Nel viaggio del mercante era messa a rischio non solo la merce trasportata, ma anche la sua vita nel caso in cui fosse stato assalito da briganti o da ladri. Il mercante spesso si mette in viaggio senza sapere cosa l’aspetta, affidandosi al protettore della categoria, san Nicola. Tuttavia, ogni ricorso, tra sacro e profano, era lecito se poteva garantire un percorso sicuro. Alcuni oggetti-amuleto evocano in maniera suggestiva questa ambiguità. Si sono conservati infatti numerosi anelli e spille con iscrizioni (cat. 62-63) cui era attribuito un potere magico e protettivo legato alla formula che vi era incisa: talora semplici invocazioni religiose, ma il più ricorrente era un versetto tratto dal Vangelo di Luca (4,30): «Iesus autem transiens per medium illorum ibat» («ma Gesù, passando in mezzo alla folla, se ne andò»). Questa citazione augurava

il viaggio di affari. mercanti, banchieri e messaggeri | 189

a chi la indossava di poter passare sano e indenne dai pericoli dei ladri e assicurava il possesso e la salvaguardia dei beni. La sicurezza viaria attorno ai maggiori centri urbani dal XIII secolo divenne un elemento di vanto e un impegno delle singole città, come è ben esemplificato dagli affreschi di Ambrogio Lorenzetti nel Palazzo Pubblico a Siena (1338-1339). Nelle scene che illustrano gli Effetti del Buon Governo vediamo la città con le porte aperte, dove fervono le attività commerciali, mentre nella visione idealizzata dei territori adiacenti, questi sono percorsi da mercanti e nobili a cavallo, da venditori e contadini che trasportano verso l’abitato le balle delle mercanzie. Nel cartiglio, sorretto dalla Securitas sopra la rigogliosa campagna, si legge esemplarmente: «Senza paura ogn’uomo franco cammini …». Il bisogno di leggere, scrivere e far di conto avvicinò il commercio e la cultura. Il mercante della fine del Medioevo è esso stesso un uomo colto, amante delle arti e committente di opere importanti per la propria dimora, talora autore di cronache e ricordanze che vanno oltre il dato oggettivo del libro di conti, ma che consegnano delle individuali memorie. Tra i resoconti di viaggio più ricchi di suggestioni private e curiosità narrative si trovano i diari dei commercianti, soprattutto veneziani e toscani, redatti in volgare tra Tre e Quattrocento, documenti fondamentali e terra di incontro per interessi di carattere storico, autobiografico, per la letteratura di viaggio. Tra questi, uno dei primi e sicuramente il più famoso è Il Milione, scritto nel 1298 circa, che raccoglie l’esperienza del veneziano Marco Polo, che partì da Venezia nel 1271 alla volta dell’estremo Oriente, giungendo sino in Cina (cat. 60). Grazie a queste memorie, che rendono anche la dimensione umana del rischio, dell’avventura e delle difficoltà provate in prima persona, la figura del mercante, assieme al pellegrino, è diventata nell’immaginario collettivo l’icona del viaggiatore medievale per antonomasia.

190 | sezione iv

Fig. 4 Ambrogio Lorenzetti, Efetti del Buon Governo in città (particolare), 1338-1339, Siena, Palazzo Pubblico

| Cat. 59 Approdo di navi Seconda metà del XIV secolo Tempera su tavola; 27 x 38,5 cm Firenze, Museo Stibbert Inv. 16212

La tavola in mostra è la porzione di una più ampia predella, che stava probabilmente a completare una pala d’altare, e raffigura l’approdo di due imbarcazioni in prossimità di una città fortificata. Nella prima nave si riconosce un marinaio che tiene ferma con un piede una passerella per mezzo della quale due figure sono sbarcate a terra; i due personaggi, uno dei quali vestito con abiti eleganti, si incamminano all’ingresso della città attraverso un’ampia porta. Nell’imbarcazione che segue due marinai sono intenti a serrare la vela maestra. La città raffigurata appare protetta da una cortina muraria merlata e nello spazio aperto fuori dalle mura si intravedono due tende,

molto simili a quelle spesso ritratte nelle narrazioni di assedi. L’iconografia precisa del soggetto (che unisce uno sbarco di marinai in abiti civili e una scena di assedio sullo sfondo) rimane ancora da identificare, non potendo più beneficiare del contesto d’insieme in cui questa scena si inseriva. Il dettaglio della grande nave, con profondo scafo e poppa prominente, permette tuttavia di evocare visivamente le grandi navi che dal XIV solcano i mari e sostavano nei porti, lungo le nuove tratte commerciali tracciate dai mercati. Benedetta Chiesi Bibliografia: Cantelli 1974-1976, 2.1 (1974), p. 69, n. 531.

il viaggio di affari. mercanti, banchieri e messaggeri | 191

| Cat. 60 Marco Polo (Venezia, 1254-1324) Il Milione 1392 (eccetto integrazioni del sec. XVII alle cc. 63-64, 69-72) Manoscritto cartaceo miscellaneo; legatura in pergamena su cartoncino; 29,7 x 23,5 cm Firenze, Biblioteca Nazionale Centrale II.II.61 (Magl. XIII, 44) [c. 40v: explicit con sottoscrizione del copista, Amelio Bonaguisi, podestà di Cerreto Guidi]

L’esemplare contiene alle carte 1r-40v la versione trecentesca in lingua toscana del fortunato testo dettato da Marco Polo al compagno di sventura Rustichello da Pisa nel carcere di Genova, dove il mercante veneziano era stato imprigionato nel 1298, dopo la battaglia di Curzola. Si tratta di una delle cinque copie prese in esame da Luigi Foscolo Benedetto nel suo attento studio volto al recupero della redazione originaria del testo poliano (Benedetto ed. 1962). Non vi sono dubbi sulla datazione del manoscritto, vergato in una corsiva mercantesca dal fiorentino Amelio Bonaguisi, che nell’explicit si sottoscrive affermando di averlo copiato mentre era podestà di Cerreto Guidi e di averlo completato il 12 novembre 1392 (c. 40v). In calce al testo egli aggiunge l’annotazione: «Questo libro è di Amelio di Giachino Bonaguisi del popolo di santo Michele in Orto di Firenze». È noto che il racconto del “diario di viaggio” di Marco Polo in terre sconosciute quali la Mongolia e la Cina, ricco di riferimenti a luoghi e personaggi di paesi mai visti, ebbe facilmente presa nell’ambito del ceto mercantile, allora in fase emergente. La prosa semplice e stringata del Milione stuzzicò la curiosità e la fantasia di un pubblico di media levatura, affascinato dagli usi e dai costumi di popoli così lontani dalla realtà quotidiana, tanto più che la narrazione del mercante veneziano si soffermava a descrivere dettagliatamente,

192 | sezione iv

oltre a «cose meravigliose», anche le coltivazioni del cotone e del riso, ma soprattutto la produzione della seta, dalla selezione dei bachi all’allevamento dei bozzoli, secondo il processo di lavorazione adottato dai “Seres”. L’esemplare in esposizione testimonia senza dubbio l’interesse che queste memorie di viaggio suscitarono nell’ambiente fiorentino già alla fine del XIV secolo, ossia agli albori di un’epoca che porterà alla scoperta di terre inesplorate. Il manoscritto proviene dalla biblioteca Gaddi, una fra le biblioteche private più antiche di Firenze, il cui primo nucleo risaliva ad Angelo di Zanobi (1398-1474). I Gaddi, avviati alle attività bancarie e mercantili già dalla seconda metà del Trecento, erano divenuti ben presto protagonisti della vita politica fiorentina, anche in virtù del sostegno dato al casato dei Medici. Pur con l’estinzione della famiglia nel 1607, il patrimonio librario era rimasto intatto fino a metà Settecento e fu venduto da Gasparo Pitti Gaddi al granduca Francesco di Lorena nel 1755, che lo suddivise tra la Biblioteca Laurenziana, l’Archivio di Stato e la Magliabechiana. Carla Pinzauti Bibliografia: Benedetto ed. 1962; Polo 1298 circa - Bertolucci Pizzorusso 1975

il viaggio di affari. mercanti, banchieri e messaggeri | 193

| Cat. 61 Sigillo dei Consoli del mare post 1356 Bronzo; Ø 3,4 cm Firenze, Museo Nazionale del Bargello Inv. 506 Sigilli

Questo sigillo reca l’immagine di una barca con una figura al suo interno e la scritta «s. consulum artis maris», allusivi a un’importante magistratura fiorentina: i Consoli del mare. Già attestata intorno alla metà del Trecento, fu sospesa nel 1364 e nuovamente istituita nel 1421 a seguito dell’acquisto della città di Livorno. La presenza di una simile magistratura a Firenze non deve meravigliare, ma consente anzi di comprendere il potere politico ed economico della città anche al di fuori dei suoi confini in terraferma. I Consoli – o Ufficiali – del mare esercitavano infatti il controllo su tutto ciò che concerneva le attività marittime, in particolare il commercio e la costruzione delle navi a esso legata. I trasporti via mare avevano non a caso un ruolo fondamentale nel commercio internazionale e già nel Trecento i mercanti fiorentini realizzano i loro migliori affari grazie al noleggio di navi provenienti dalle flotte di tutto il Mediterraneo. Ma la svolta sostanziale avvenne quando Firenze, già conquistata Pisa nel 1406, nel 1421 acquistò Livorno e il vicino Porto Pisano (pagan-

194 | sezione iv

do 100.000 fiorini ai genovesi), impossessandosi così degli scali principali del sistema portuale toscano. Fu alla fine di quello stesso anno che i Consoli del mare vennero nuovamente istituiti, con l’incarico di sovrintendere alla costruzione di navi e galee tali da creare una marina mercantile concorrenziale con Venezia e Genova, non solo sulle rotte mediterranee, ma soprattutto sui mari del Nord e dei paesi d’Oriente (Guidi 1981, pp. 345-347; Tangheroni 1998, pp. 52-54). Ai sei Consoli (tre dei quali dal 1423 ebbero sede anche a Pisa) venivano «assegnati, ogni sei mesi, 600 fiorini sulle somme stanziate per lo Studio fiorentino»; inoltre i magistrati dovevano tenersi «informati delle condizioni in cui trovavasi ognuna delle ventuna Arti di Firenze, onde aver notizia di quanto potessero produrre di adatto all’esportazione» (Müller 1879, pp. XXXVIII). Ilaria Ciseri Bibliografia: B. Tomasello, in Sigilli 1990, p. 39, n. 85 (con bibliografia precedente).

| Cat. 62

| Cat. 63

Anello d’oro con sigillo, detto del “Principe Nero”

Arte francese Spilla

Inghilterra (?), terzo quarto del XIV secolo Oro, tracce di smalto, rubino; Ø 2,4 cm Parigi, Musée du Louvre, Département des Objets d’art Inv. OA 9597

XIV secolo Oro e smalto; Ø 3,5 cm Firenze, Museo Nazionale del Bargello Inv. 994 C

62

Il prezioso anello con castone è tradizionalmente riferito a Edoardo Plantageneto, soprannominato “il Principe Nero” (13301370). Il proprietario dell’anello accumulava in un solo oggetto molteplici virtù protettive: quella della pietra – il rubino, lavorato qui come un cammeo con testa di putto –, e l’invocazione a san Giorgio, che si legge nel testo inciso sullo spessore del castone ottagonale: «s/ ge/or/gi/us». Attorno al castone invece si legge: «+sigillum secretum». Un versetto biblico, che corre lungo l’anello, accresce le proprietà taumaturgiche dell’oggetto: «+iesus avtem transiens. per. me/divm illorvm ibat. et. verbum c» (Luca 4,30). Questo raffinato gioiello è un evidente esempio di fusione di credenze religiose e profane in un unico oggetto, destinato evidentemente a un committente laico. Si pensava, infatti, che gli anelli avessero una proprietà magica, legata al tipo di pietra utilizzata e all’iscrizione che portavano incisa. Tra le iscrizioni si trovano spesso le semplici invocazioni mariane o versetti del Vangelo, ri-

63

correnti soprattutto negli anelli italiani e inglesi. Il versetto biblico più utilizzato era, come nel presente anello, tratto dal Vangelo di Luca. In virtù di questo, chi indossava l’amuleto si augurava di passare incolume in mezzo ai pericoli e di mantenere i propri beni al riparo dai ladri. Nella spilla fiorentina sono incisi sulla faccia anteriore quattro volti di Cristo, disposti in croce. Sul bordo corre in caratteri gotici un’iscrizione su fondo bianco, molto simile a quella leggibile sull’anello precedente: «jesus autem tranciem per med», a testimonianza della diffusa credenza. Al pari dell’anello, questa poteva essere indossata sulle vesti e garantiva al proprietario di avere sempre vicino un talismano, al quale confidava la salvezza e sicurezza durante i viaggi così come le missioni fuori dalla propria città. Benedetta Chiesi Bibliografia: Supino 1898, p. 179, n. 994; D. Gaborit-Chopin, in Parigi 1981, p. 248, cat. 201 (con bibliografia precedente).

il viaggio di affari. mercanti, banchieri e messaggeri | 195

| Cat. 64 Arte fiamminga o francese Borsa a scarsella con otto tasche XVI secolo Cuoio ricamato, metallo forgiato, brunito e dorato; 28 x 26 cm Firenze, Museo Nazionale del Bargello Inv. 1810 C

Gli esemplari di scarselle da viaggio medievali a oggi conservatisi sono estremamente rari. È per tale motivo, e a testimonianza di una tipologia rimasta abbastanza invariata nel tempo, che si espone qui questo manufatto del XVI secolo, giunto al Bargello con la collezione Carrand. La borsa “a scarsella”, o semplicemente “scarsella”, era anticamente un oggetto presente quasi in ogni famiglia, ma fin dal Medioevo veniva utilizzato soprattutto da mercanti e viaggiatori. Il Vocabolario della Crusca già nella prima edizione del 1612 la definì: «Spezie di taschetta, o borsa di cuoio, cucita a una imboccatura di ferro, o d’altro metallo, per portarvi dentro danari». L’etimologia rimanda al provenzale escarsela, derivante secondo alcuni dal latino scarpsus (“scarso”), a indicare quindi la modica quantità di monete cui erano destinate, secondo altri dall’antico tedesco scherbe (“tasca”). Al latino medievale bursa sembra invece risalire il termine più generico di “borsa”, che designava in origine un sacchetto di pelle per tenere denari o altri piccoli oggetti, ma

196 | sezione iv

che a partire dalla fine del Cinquecento, in area nordica, avrebbe assunto un ulteriore significato: quello di luogo di contrattazione e di scambi commerciali, la cui prassi era peraltro strettamente connessa alle fiere medievali. Questo esemplare conservato al Bargello corrisponde alla tipologia classica delle borse che, grazie a un anello che consentiva di assicurarla alla cintura o a una tracolla, costituivano uno dei più comuni accessori del viandante/viaggiatore: all’esterno sono sei tasche, tre sul retro e tre sul fronte, chiuse con lacci in pelle; internamente uno scomparto più piccolo permetteva di custodire in modo ancor più sicuro il denaro, gli oggetti preziosi, o perfino le reliquie da portarsi appresso durante il tragitto. Ilaria Ciseri Bibliografia: Supino 1898, p. 267; F. G. Bruscoli, in Firenze 1989, pp. 471472; Bruges 2002, p. 174, cat. 53; H. Derschka, in Augusta-Füssen 2010, p. 114 (con bibliografia precedente); I. Ciseri, in Firenze 2011b, p. 164.

| Cat. 65

| Cat. 67

Fiorino

Tessera mercantile

Firenze 1252-1303 Oro; Ø 2,03 cm Firenze, Museo Nazionale del Bargello Inv. 117 Monete

XIV-XV secolo Lega di rame; Ø 2,2 cm Firenze, Museo Nazionale del Bargello Inv. 40 Tessere Mercantili

| Cat. 66

| Cat. 68

Tessera mercantile

Tesoretto: 96 monete e gettoni

XIV-XV secolo Lega di rame; Ø 2,5 cm Firenze, Museo Nazionale del Bargello Inv. 3 Tessere Mercantili

Francia, ultimo quarto del XV secolo Oro, argento e piombo Parigi, Musée de Cluny Inv. Cl. 9381

65

66

67

Le monete nel Medioevo non avevano, come le nostre cartemonete, un valore nominale fissato da una banca centrale, ma valevano quanto potevano comprare, per questo erano di oro o di argento. Tra quelle che si imposero a livello europeo, vi era il fiorino d’oro, battuto a Firenze a partire dal 1252. Questo aveva un valore indiscusso e un peso concordato in 3,53 grammi, coniato in oro puro a 24 carati. Questa moneta era usata soprattutto per le transazioni internazionali e per il commercio, mentre per l’economia cittadina vi erano monete di minor valore, in argento. Il tesoretto, rinvenuto in uno scavo a Parigi nel 1875 e oggi al Musée de Cluny (cat. 68), offre una suggestiva immagine d’insieme delle varietà di monete di minor taglio che si potevano trovare e usare per l’economia domestica. Il fiorino d’oro, invece, era fatto per viaggiare e per questo ben presto lo troviamo nei maggiori banchi europei e nelle fiere; fu la valuta preferenziale per gli scambi commerciali, acquistando un sicuro primato su ogni altra valuta. La produzione e coniazione del fiorino era una pratica strettamente regolata e controllata da appositi ufficiali, come sancito negli Statuti dei Monetieri. Gli ufficiali dovevano garantire il peso e la forma della moneta aurea, e vigilare contro il reato di falsificazione. Il fiorino aveva sul dritto un fiore (da cui il nome), ovvero il giglio di Firenze, e sul retro san Giovanni Battista, patrono della città. Nessun sovrano o autorità individuale avrebbe potuto prestare

68

il volto alla moneta, ma solo il patrono e il fiore emblema della città, a indicare la forza e l’autonomia della ricca Repubblica fiorentina. La fortuna che riscosse il fiorino garantì un aspetto pressoché invariato per quasi tre secoli. Le piccole tessere circolari (cat. 66, 67), dall’aspetto simile a delle monete, assolvevano invece un compito ben diverso, usate principalmente come segni distintivi nell’ambito dei mercati e del ritiro delle mercanzie. In particolare, la presentazione delle tessere, ciascuna contrassegnata da una specifica arma, assicurava il riconoscimento degli agenti di una società commerciale, permetteva di dimostrare che le merci in vendita avevano ricevuto regolare autorizzazione o, in alcuni casi, garantivano la riduzione del pagamento di pedaggi e gabelle. Su una di quelle in mostra si riconosce il tipo di decorazione tradizionalmente chiamata “Androclo e il leone”, con sul dritto un uomo nudo, stante, con le gambe incrociate e un bastone nella mano sinistra, e sul rovescio un leone alato e nimbato (Vanni 1995, pp. 153-159). Sulla seconda tessera invece (cat. 67) si riconosce il giglio fiorentino (Vanni 1995, p. 26). Benedetta Chiesi Bibliografia: Du Sommerard 1883, p. 598, n. 7502; B. Paolozzi Strozzi, in Firenze 2011b, pp. 127-128, cat. 1.3.

il viaggio di affari. mercanti, banchieri e messaggeri | 197

| Cat. 69

| Cat. 71

Cofanetto

Cofanetto

Francia, 1500 circa Legno, ferro forgiato, stoffa e cuoio; 9,9 x 15,6 x 11,4 cm Firenze, Museo Nazionale del Bargello Inv. 1501 C

Francia, 1500 circa Legno, ferro forgiato; 12,3x 16 x 25 cm Parigi, Musée de Cluny Inv. Cl. 493

| Cat. 70

| Cat. 72

Cofanetto

Cofanetto con stampa all’interno del coperchio

Francia, 1500 circa Legno, ferro forgiato, stoffa; 13,2 x 26,2 x 19 cm Vic, Museu Episcopal Inv. MEV 7831

Francia, 1510 circa Legno, ferro forgiato, stoffa e cuoio; 14 x 23 x 36 cm Parigi, Musée de Cluny Inv. Cl. 23877

69

È qui presentata una serie di cofanetti dalla struttura costante e simile, a forma di prisma rettangolare, in alcuni casi con la parte superiore leggermente convessa, composti da un’anima di legno rinforzata da una lama traforata in ferro. Sulla faccia anteriore vi è la serratura, con boncinello e ornati gotici, e sulle facce più lunghe due anelli. La toppa della chiave è nascosta da un piccolo moraglione e circondata da pilastrini architettonici modanati, ed è inoltre sormontata da una rappresentazione vegetale stilizzata, identificata come l’albero della vita, con «rami, radici e un elemento cuoriforme alla sommità» (Boccalatte 2008a, p. 72). Fa eccezione a questa regola solo il cofanetto di Cluny con all’interno la stampa (cat. 72), come vedremo leggermente diverso anche nella destinazione d’uso, che presenta la copertura della toppa con il moraglione decorato con un motivo di foglia lanceolata e seghettata. Cofanetti di questo tipo, rinforzati da una maglia e una lama in ferro, erano destinati a contenere monete, tesoretti, e spesso documenti o libri d’ore, offrendone una sicura protezione non solo da occhi indiscreti, ma anche dai rischi che si potevano correre

198 | sezione iv

70

durante gli spostamenti. La sicurezza del prezioso contenuto era garantita dalla solidità della materia prima e dal sistema di chiusura, con una serratura solitamente complicata ad aprirsi. Gli anelli che si vedono sui lati lunghi servivano, tramite il passaggio di un cordone o di una cintura di cuoio, ad assicurare i cofanetti alla sella, ad ancorarli all’interno di bauli più grandi, oppure per portarli a tracolla o legati alla cintura quando viaggiavano direttamente con il loro proprietario. Questa tipologia di forzierino è spesso definita anche “porta messale” o “cofanetto da messaggero”, anche se non vi sono documenti o testimonianze iconografiche certe per confermare quest’uso esclusivo, potendo invece, date anche le misure maneggevoli e l’ampio numero in cui si sono conservati, essere destinati a un pubblico più ampio, dai chierici agli studenti, dai messaggeri ai mercanti, senza escluderne un utilizzo in ambito domestico. Solo la decorazione ricorrente – e peculiare di questo tipo di cofanetti – del cosiddetto albero della vita sopra la toppa della chiave, come messo in luce da Boccalatte, potrebbe indurre a supporre uno specifico utilizzo di que-

71

sti contenitori per oggetti di carattere sacro (Boccalatte 2008a, p. 72). In alcuni casi all’interno del coperchio potevano essere applicate immagini, per lo più stampe a carattere devozionale, di cui se ne conservano oltre un centinaio. Le immagini dovevano servire come protezione ulteriore del contenuto, ma permettevano anche, una volta aperto il cofanetto, di utilizzarlo come una sorta di luogo privato di preghiera e devozione, trasformandolo in un altarolo portatile (Parigi 2007). Si può anzi ritenere che i cofanetti a stampe, dalla struttura meno resistente rispetto a quelli a maglie e che non avrebbero sopportato facilmente un viaggio appesi alla sella o alla cintura del proprietario, fossero specificatamente destinati a un uso domestico se non limitato al trasporto di libri o documenti all’interno dello spazio delle mura urbane (Huynh, Lepape 2011). Nel caso del cofanetto di Cluny (cat. 72), all’interno si conserva una xilografia con un episodio relativo ai racconti della miracolosa traslazione della Santa Casa di Loreto. La xilografia può essere riferita a un artista, o meglio a un atelier parigino, al quale appartengono circa la metà delle

72

stampe rinvenute nei cofanetti. L’anonimo maestro è nominato dalla critica come “maestro allo stile d’Ypres”, per identificare appunto una produzione attiva a Parigi all’inizio del Cinquecento attorno a Jean d’Ypres, poliedrico pittore, miniatore, autore di disegni per stampe e cartoni per vetrate (Huynh, Lepape 2011). Oggetti di questo tipo, come dimostra la serie qui esposta, proveniente da Parigi, Firenze, Vic, erano particolarmente ricercati dal collezionismo ottocentesco, e poi dai primi nascenti musei come esempi di artigianato e modello per le nuove arti legate all’industria. Le raffinate decorazioni delle serrature, infatti, sembrano ispirarsi agli elementi dell’architettura monumentale tardo gotica, ripresi in piccola scala. Benedetta Chiesi Bibliografia: Supino 1898, p. 263, n. 1501; Guidol i Cunill 1926, p. 11; I Carrand e il collezionismo francese 1989, p. 50, n. 56; F. Guidi Bruscoli, in Firenze 1989, p. 281, cat. 74; La Storia del Bargello 2004, pp. 212-213; Le Pogam 2004a; Huynh 2011; Huynh, Lepape 2011.

il viaggio di affari. mercanti, banchieri e messaggeri | 199

| Cat. 73

| Cat. 74

Tasca da messaggero

Tasca da messaggero

Francia (?), inizio del XVI secolo Cuoio e velluto; 19,5 x 20,5 cm Firenze, Museo Nazionale del Bargello Inv. 1338 C

Francia (?), inizio del XVI secolo Cuoio e velluto; 21,5 x 19 cm Firenze, Museo Nazionale del Bargello Inv. 1339 C

73

74

Le due tasche da messaggero del Museo Nazionale del Bargello sono in discrete condizioni di conservazione, seppur mancanti di alcune parti: in particolare la prima ha perso la pattina di chiusura, mentre l’altra è completa nell’insieme, ma il tessuto e il cuoio sono parzialmente deteriorati, il che rende meno evidente la raffinata decorazione a motivi vegetali e floreali. Le borse, nelle loro varianti tipologiche e funzionali, erano un accessorio di moda necessario dal XIV sino almeno alla metà del XVI secolo, poiché non usavano ancora le tasche interne cucite agli abiti, ed erano indossate particolarmente dagli uomini, diventando un elemento distintivo dei ceti di classe elevata (Levi Pisetzky II (1964), pp. 77-81; Wilcox 1999, pp. 12-18). Le tasche da messaggero, nello specifico, dalla struttura rigida e rettangolare, erano perfettamente adatte a contenere documenti, lettere e carte. L’apertura sommitale, protetta dalla pattina, permetteva un agile accesso al contenuto e il suo sicuro trasporto. Nell’ambito dei commerci, la sicurezza e segretezza dello scambio d’informazioni erano elementi centrali per la buona riuscita delle trattative e anche i tempi più o meno lunghi di quest’ultime incidevano notevolmente nell’entità del guadagno che era possibile ricavare dalle operazioni di cambio. Le tasche da messaggero erano portate alla cintura e appese tramite dei passanti cuciti sul retro. La posizione così ravvicinata al corpo, e spesso protetta sotto il mantello, offriva una garanzia di maggiore sicurezza rispetto alle borse a tracolla: le fonti del

tempo, infatti, non mancano di descrivere la diffusa presenza dei “tagliaborse” che, approfittando della calca, tagliavano i borselli in cuoio o tessuto per derubarne il contenuto (Levi Pisetzky 1964-1969, II (1964), pp. 79-80; Wilcox 1999, p. 17). La forma delle tasche, quindi, rispondeva a delle necessità pratiche ben chiare, e la decorazione, di conseguenza, appare semplificata rispetto alle coeve borse o scarselle da cerimonia che erano quasi per abbellimento della persona, preferendo materiali resistenti come il cuoio e decorate solo sulla parte frontale. Nel caso delle due presenti tasche la decorazione è ottenuta senza l’impiego di ricami o di filati preziosi, ma con un ornato di cuoio traforato, a motivo vegetale e floreale, applicato su un fondo di velluto. Per entrambe le tasche si può proporre una datazione tra la fine del XV e l’inizio del XVI secolo, senza indicare un’area di produzione specifica, data la circolazione di simili manufatti. Nonostante le numerose testimonianze iconografiche di scarselle e tasche, in pittura come in miniatura, oggi si conservano solo poche borse medievali e rinascimentali. In tale contesto la collezione di oltre venti opere in cuoio del Museo del Bargello, provenienti dalla collezione di Louis Carrand, si evidenzia come un nucleo di grande interesse storico e collezionistico. Benedetta Chiesi

200 | sezione iv

Bibliografia: Supino 1898, pp. 306-307, nn. 1338, 1339; B. Chiesi, in Firenze 2011b, p. 170, cat. 4.12-4-13.

| Cat. 75 Scudo con l’arme dell’Arte della Lana Firenze, fine del XIV secolo Rame, smalto champlevé, doratura parziale; 12 x 7,5 cm Firenze, Museo Nazionale del Bargello Inv. 765 C

| Cat. 76 Scudo con l’arme pontificale 75 Italia, inizio del XV secolo Rame, smalto champlevé, doratura parziale; 11,5 x 8,5 cm Firenze, Museo Nazionale del Bargello Inv. 764 C

| Cat. 77 76

Scudo con l’insegna della Corte di Mercanzia Italia, inizio del XV secolo Rame, smalto champlevé, doratura; 11,3 x 8,2 cm Parigi, Musée du Louvre, Département des Objets d’art Inv. OA 6284

77

Piccole insegne a forma di scudetto, come le tre presentate in mostra, venivano indossate dai messaggeri ufficiali quali segni distintivi e per un rapido riconoscimento. I forellini che si notano alle estremità degli scudi servivano infatti per cucirle alle vesti, e solitamente erano esibite sulla spalla o alla cintura. L’iconografia del tempo, soprattutto in ambito delle miniature, ci ha consegnato numerose testimonianze di questa pratica. Tra i possibili esempi, si possono ricordare alcune delle vivaci scene en bas-de page nel manoscritto Royal 10 EIV della British Library, una copia dell’inizio del XIV secolo delle Decretales di Gregorio IX, dove ricorrono a più riprese indaffarati messaggeri, tra cui l’immagine di un messo giunto al cospetto del re, ancora con il manto agitato dal vento (c. 302 v): gli sta consegnando una lettera, sigillata con rossa cera lacca, e al suo fianco pende uno scudetto, nel quale si può riconoscere un’insegna o forse una borsa da messaggero, come quelle qui in mostra (cat. 7980). Nel caso delle tre insegne a scudetto, il retro è completamente convesso e liscio, e non lascia ipotizzare per queste un utilizzo come scatole porta messaggi, ma solo come segni identificativi. I tre esemplari recano insegne che li collegano al contesto italiano della fine del Trecento-inizi del Quattrocento. In quello a mandorla del Bargello si riconosce l’insegna dell’Arte della Lana di Firenze, con l’Agnus Dei argentato su fondo azzurro, aureola crociata e vessillo con croce rossa su campo bianco. In alto il simbolo della parte guelfa, con quattro gigli d’oro sotto un rastrello rosso, derivato dallo stemma angioino. Notevole la qualità del disegno e della

policromia degli smalti, che lo rendono come un piccolo gioiello e un segno distintivo di lusso, simbolo anche dell’importanza della corporazione che intratteneva numerosi scambi commerciali anche con il Nord Europa, e dovette sicuramente aver bisogno di un sistema organizzato e funzionante di messi, in un periodo in cui ancora non esisteva un regolare servizio postale. Di questo scudetto se ne conserva un secondo esemplare, pressoché identico, al Museum of Fine Art di Boston (R.L. Lopez, in New York 1975, p. 138, cat. 156). La stessa qualità di esecuzione e la stessa vivacità di colori si ritrovano in altre due insegne, legate alla Chiesa e alla Corte di Mercanzia. Queste presentano un profilo a scudetto e non a mandorla come la precedente, anche se paiono poco più tarde. La prima, con le chiavi di san Pietro decussate su campo rosso, era usata dai messaggeri del papa o della Chiesa. Interessante notare la resa volumetrica del disegno nelle due chiavi di san Pietro, dove il contrasto tra le zone dorate e le zone incise, specie nell’impugnatura e nel pettine delle chiavi, crea un’illusione di profondità e di ombre. La seconda, oggi al Louvre, con il giglio rosso su campo oro, era l’emblema della Corte di Mercanzia, l’organo che racchiudeva in sé le funzioni di tribunale e di camera di commercio. Benedetta Chiesi Bibliografia: Gay 1887, I, col. 608; Supino 1989, p. 147, nn. 764-765; Gauthier 1972, p. 393, n. 182, fig. p. 229; Hackenbroch 1986, pp. 14-17, nn. 1-2.

il viaggio di affari. mercanti, banchieri e messaggeri | 201

| Cat. 78 a) Lettera di cambio da Deo Ambrogi e Benedetto Cambini a Francesco di Marco Datini e comp. Parigi-Avignone, 18 dicembre 1385 Carta; 7,48 x 2,25 cm Prato, Archivio di Stato, Datini Inv. 1142/143, cod. 317468

c) Lettera di cambio da Salvestro Mannini e comp. a Francesco di Marco Datini e Manno Agli di Albizo e comp. Parigi-Pisa, 5 gennaio 1397 Carta; 4,4 x 2,27 cm Prato, Archivio di Stato, Datini Inv. 1143/158, cod. 1404026

b) Lettera di cambio da Bonaccorso Pitti a Franceschino di Mongrande

d) Lettera di cambio da Diamante e Altobianco degli Alberti e comp. a Francesco di Marco Datini e Luca del Sera e comp.

Parigi-Genova, 14 febbraio 1396 Carta; 6,6 x 2,25 cm Prato, Archivio di Stato, Datini Inv. 1144/240, cod. 135973 (non riprodotto)

Bruges-Barcellona, 2 settembre 1398 Carta; 7,5 x 2,3 cm Prato, Archivio di Stato, Datini Inv. 1145/1, cod. 1403803 (non riprodotto)

A

C

Se i fiorini (cat. 65) permettevano di contrattare sui mercati internazionali, l’utilizzo della lettera di cambio voleva invece venire incontro all’esigenza di maggior sicurezza e agilità nelle transazioni, evitando lo spostamento fisico di denaro contante da una piazza all’altra. Poteva altresì essere utilizzata per erogare crediti. Questo strumento, quasi un antenato dei nostri traveler’s checks o delle cambiali, era già in uso dal XIII secolo ma è nel XIV secolo che arrivò a una formulazione ben definita, con l’istruzione di pagamento scritta su una piccola striscia di carta, senza più bisogno di intermediari o di notai in alcuna fase delle operazioni. Invece di far viaggiare denaro, questo veniva depositato presso un banco, in cambio il mercante otteneva la ricevuta (che valeva quanto il denaro lasciato in custodia), e con questa saldava i propri debiti cedendola a terzi, che potevano riscuotere la somma presso un banco diverso. I luoghi di emissione e di riscossione della lettera di cambio risultano quindi necessariamente distinti, così come le valute, come nel caso della lettera qui presentata di Bonaccorso Pitti. Le lettere di cambio presentano un formulario

202 | sezione iv

specialistico e codificato, su un formato cartaceo piuttosto standard, e sono sempre specificate la data di emissione, la valuta, il tasso di cambio, e ovviamente il beneficiario. Questi documenti provengono dall’archivio di Francesco di Marco Datini, nato a Prato nel 1335, che rappresenta il modello di mercante moderno, impegnato in innumerevoli traffici in tutta Europa e fondatore di compagnie commerciali legate soprattutto all’acquisto, alla lavorazione e alla vendita della lana a Pisa, Genova, Barcellona, Valencia, Maiorca, Ibiza. Nel suo carteggio si conservano numerose lettere di cambio e per questo motivo erroneamente gliene viene attribuita talora l’invenzione. Tale documentazione rappresenta l’unico archivio mercantile interamente conservato (registri e libri contabili, 150.000 lettere private, delle quali oltre 5.000 lettere di cambio), sito ancora oggi all’interno del Palazzo Datini e aperto alla consultazione. Benedetta Chiesi Bibliografia: C. Marescalchi, in Firenze 2011b, p. 171, cat. 4.14.

| Cat. 79

| Cat. 80

Scatola da messaggero con lo stemma di Giovanni senza Paura

Scatola da messaggero con lo stemma di Jean d’Argies

Francia, ante 1419 Rame, smalto, tracce di doratura; 5,3 x 4,4 x 1,2 cm Parigi, Musée de Cluny Inv. Cl. 17707

Francia, fine del XIII - inizio del XIV secolo Lega di rame, smalto; 12,5 x 9 cm Parigi, Musée de Cluny, deposito del Musée du Louvre Inv. OA 6282

79

80

I messaggeri fanno del viaggio la loro professione. Prima della fine del Medioevo e dell’organizzazione di un servizio postale regolare, messaggeri e portalettere lavorano al servizio di un signore o di una collettività, che si tratti di una città, di un’università o di una comunità monastica. La loro attività è necessaria per la trasmissione d’informazioni di ordine privato, politico o commerciale. Il raggio d’azione di un messaggero si estende da qualche lega fino alla traversata di buona parte del mondo conosciuto. La maggior parte di questi messi è rimasta anonima, di alcuni invece conosciamo il nome, per esempio Dyetrich Leuffel, morto nel 1414 circa e rappresentato con cappa, bastone, lancia e al fianco la sua scatoletta porta messaggi nel Livre de raison de la fondation des frères Mendel a Norimberga (fig. 3 a p. 189). O Sauvigny, messaggero di Mahaut d’Artois, pagato quarantotto soldi per aver portato nel 1308 delle lettere in Inghilterra a Jeanne, figlia della contessa. Alcuni di essi andavano a piedi e potevano percorrere una distanza di una trentina di chilometri al giorno,

altri, andando a cavallo e in caso di trasmissioni strategiche o politiche, riuscivano a coprire una distanza di 600 chilometri in quattro giorni.I messaggi erano trasportati e custoditi all’interno di scatole di metallo di piccole dimensioni, che si potevano chiudere a chiave, spesso decorate con lo stemma del mittente, facilitando così l’identificazione dei messaggeri e dunque il loro viaggio. Queste scatole, a forma di cuore o di scudo, erano fornite di passanti per agganciarle alla cintura o a una tracolla, allo scopo di renderne più sicuro il loro trasporto. Pochissimi di questi oggetti sono arrivati fino a noi. Nel caso dei due in mostra, recano l’emblema araldico di Giovanni senza Paura, duca di Borgogna (1371-1419) e di Jean d’Argies. Michel Huynh Bibliografia: Coornaert 1959, pp. 198-201; Weber 1972, p. 30; J. Fritsch, in Digione-Cleveland 2004, p. 84, cat. 25; Z. Jékely, in Budapest-Lussemburgo 2006, p. 444, cat. 5.3.

il viaggio di affari. mercanti, banchieri e messaggeri | 203

sezione V

la visibilità politica e sociale. il viaggio dei sovrani, le parate nuziali

Il potere si esercita in sella. Visibilità politica e sociale dei cortei signorili Benedetta Chiesi L’autorità, fosse essa del re o del signore locale, aveva bisogno regolarmente di essere affermata attraverso momenti di visibilità pubblica, e lo stesso esercizio del potere era legato a continui viaggi. I fastosi cortei d’ingresso nelle città, così come i cortei nuziali e persino quelli funebri, diventano un momento di sfoggio e di affermazione, faticosamente regolamentati dalle leggi suntuarie, che specialmente in Italia nel XV secolo, cercheranno di porre limiti al lusso, alle spese per gli abiti femminili e alla pubblica ostentazione di ricchezze. Il sovrano si sposta per controllare i territori, ma anche per mantenere i contatti con i vari rappresentanti politici del regno e verificare l’amministrazione delle terre. Ne consegue che il signore, fosse esso laico o ecclesiastico, principe o piccolo sovrano regionale, era spesso in sella. In area francese e tedesca si sono conservati numerosi documenti che ci permettono di ricostruire l’imponenza degli spostamenti dei sovrani, e non si può certo dire che viaggiassero leggeri: i signori non mancavano di portarsi dietro tutto il corredo materiale che potesse essere di conforto nei luoghi di permanenza e nelle residenze territoriali, ma anche artigiani, sarti, maniscalchi e dottori, per rispondere a ogni possibile esigenza della vita quotidiana. Anche in viaggio era importante manifestare il proprio status, mostrato non solo dalle dimensioni del corteo ma anche dalle insegne araldiche, che spesso erano visibili sulla copertura di cuoio che proteggeva il convoglio e sulle gualdrappe delle cavalcature. Per la nobiltà, inoltre, muoversi a cavallo era l’unico modo per spostarsi adatto al rango. La cavalcatura è tenuta in conto persino nella progettaFig. 1 Jean Fouquet, L’ingresso dell’imperatore Carlo IV in Saint-Denis, dalle Grandes chroniques de France, Tours, 1455-1460 circa, Parigi, Bibliothèque nationale de France, Ms. Français 6465, c. 442

Fig. 2 Maestro d’Harley, L’arrivo della dame de Coucy a Boulogne, dalle Chroniques di Jean Froissart, Bruges, 1470-1472, Londra, Te British Library, Harley MS 4380, c. 189v

206 | sezione v

zione architettonica, in modo che il cavaliere non sia mai obbligato a scendere da cavallo per entrare in una città o spostarsi in essa. La torre dei Minimes (chiamata anche tour cavalière) al castello d’Amboise, che permetteva il passaggio a cavalli e carrozze con un ampio percorso voltato alto oltre 30 metri, che sale in una leggera rampa sino alla terrazza centrale dell’edificio, costituisce uno degli esempi più notevoli di quest’adattamento degli spazi architettonici alle convenzioni della nobiltà cavalleresca. L’imperatore Carlo IV, durante la sua visita ufficiale a Parigi (1377-1378), fu colto da un accesso di gotta che gli impediva di camminare. Nell’iconografia tramandata dalle miniature di Fouquet per le Grandes Chroniques de France, tuttavia, l’elegante portantina trainata da cavalli bianchi è in grado di emanare l’autorità e dignità del sovrano seduto al suo interno, come in una sorta di chimera moderna, esorcizzando il limite fisico (fig. 1). La folla accorre alle finestre e si accalca ai lati della cattedrale per assistere al passaggio dell’imperatore. Viaggi e immagini di questo tipo segnano nettamente la distanza sociale e di rango con il comune viaggiatore, costretto a impolverarsi i piedi e a marciare con le proprie gambe. La mole incredibile dei bagagli che si spostava al seguito dei signori può solo essere evocata grazie agli inventari. Le masserizie erano trasportate in cassoni di legno, foderati esteriormente di cuoio bollito, che garantiva una certa impermeabilità, mentre la forma spesso convessa dei coperchi permetteva alla pioggia di scivolare e non ristagnare sulla superficie (cat. 81). I cassoni più preziosi potevano essere dipinti con le imprese dei proprietari, mentre i più comuni presentavano solo una serie di rinforzi metallici. Per agevolare il trasporto dei cassoni, questi avevano maniglie sui lati corti e talora sul fronte e sul retro (fig. 2). Gli oggetti più preziosi erano conservati in piccoli cofanetti di legno o di metallo, talora simili nella forma a riduzioni dei cassoni da viaggio (cat. 82-85). In alcune occasioni non erano i signori stessi a viaggiare, ma erano inviati rappresentanti e ambasciatori. Nell’ambito delle missioni diplomatiche i tempi e le modalità del viaggio erano regolati dall’autorità che inviava il suo delegato. L’apparato dell’ambasciata è commisurato al rango dell’inviato e all’importanza della missione. Anche lo sfarzo del seguito dell’ambasciatore era concordato prima della partenza. Questo, da un minimo indispensabile di un famiglio e qualche cavalcatura, poteva arrivare sino a cortei di quaranta o cinquanta tra cavalli e muli, con notai, segretari, corrieri, cancellieri addetti alla cifratura e decifrazione. Non solo le parate politiche o diplomatiche, ma anche i matrimoni erano occasioni di esibizione della ricchezza e di affermazione del proprio status sociale. Il tragitto percorso dalla donna dalla casa della famiglia alla casa dello sposo era un’occasione pubblica per mostrare la dote e, in un corteo sontuoso, l’importanza della famiglia (cat. 100-102). Mutatis mutandis, sostituiti i cavalli e le preziose selle incrostate di avorio e osso con rombanti macchine o limousine, ancora oggi la cultura popolare porta l’eco di queste esibizioni pubbliche del benessere privato, quelle che le leggi suntuarie cercavano di regolamentare sia per intenti moraleggianti sia per la sottostante intenzione di mantenere ben chiare, anche nella veste esteriore, le differenze tra le classi sociali.

208 | sezione v

| Cat. 81 Cassone da viaggio Francia, 1500 circa Legno, ferro, cuoio; 93 x 162 cm Parigi, Musée de Cluny Inv. Cl. 13119

L’iconografia medievale presenta una grande varietà di cassoni da viaggio. Pur variando la misura – da piccolo bagaglio a mano all’imponente baule – la loro forma resta costante: rettangolare, forniti di maniglia sulla parte superiore per quelli di piccola dimensione o di impugnature laterali per i più grandi, coperchio bombato e sistema di chiusura a una o più serrature. Questi bagagli servivano per trasportare ogni tipo di bene necessario a una vita itinerante. Vi venivano sistemati i vestiti, i libri, i gioielli, le armi, la biancheria di casa, il mobilio pieghevole. I cassoni più grandi erano dotati di un piccolo compartimento interno, che si poteva a sua volta chiudere a chiave, e che consentiva di rinchiudervi i beni più preziosi e fragili. Talvolta era presente un congegno che permetteva di appendere, all’interno dei bauli più grandi, piccoli cofanetti metallici di sicurezza per mezzo di aste o

catenelle passanti attraverso gli anelli predisposti. Questi grandi cofani, di cui ne esistono non più di una mezza dozzina, erano costituiti da una cassa di legno (rovere nell’Europa settentrionale, abete nel sud) ricoperta esternamente di cuoio e di ferro. Tale struttura, insieme alla forma bombata del coperchio, garantiva una notevole solidità e una buona tenuta alle intemperie. L’ornamento metallico poteva comprendere stemmi sbalzati oltre a motivi vegetali e geometrici. Simili cassoni servivano da bagagli durante gli spostamenti e i viaggi, e trovavano poi posto all’interno delle dimore come mobilio domestico, capaci, come in questo caso, di contenere un metro cubo di beni di tutti i generi. Michel Huynh Bibliografia: Thirion 1999, pp. 32-33.

la visibilità politica e sociale. il viaggio dei sovrani, le parate nuziali | 209

| Cat. 82

| Cat. 84

Cofanetto nuziale

Cofanetto

Francia o Italia, seconda metà XIV secolo Legno, cuoio, argento dorato, seta; 8 x 14 x 8 cm Colonia, Museum Schnütgen Inv. C 11

Francia, fine XIV secolo Legno, cuoio; 10,7 x 16,6 x 8,4 cm Firenze, Museo Nazionale del Bargello Inv. 1323 C

| Cat. 83

| Cat. 85

Cofanetto nuziale

Cofanetto

Francia o Italia, 1500 circa Legno, cuoio dipinto e dorato; 14,2 x 23 x 13,1 cm Parigi, Musée de Cluny, deposito del Musée du Louvre Inv. OA 263

Francia o Italia, fine XIV secolo Legno, cuoio, rame dorato; 13 x 36 x 24 cm Colonia, Museum Schnütgen Inv. C 310

82

210 | sezione v

Cofanetti preziosi come questi erano offerti in dono dal fidanzato alla futura sposa durante le fasi del corteggiamento, prima dello scambio degli anelli che suggellava la nuova unione e l’alleanza tra le due famiglie. Spesso i forzierini, specie tra le classi agiate, erano inviati con all’interno pegni come gioielli o perle, che potevano non di rado superare il valore materiale del contenitore stesso (Tomasi 2003, pp. 134-136). Al pari dei cassoni, portati in processione durante il corteo matrimoniale con all’interno la dote, i piccoli forzieri svolgevano quindi un ruolo importante nel rituale del fidanzamento. Questi poi, sempre al pari dei cassoni, trovavano spazio nella dimora dei coniugi e prima ancora nella casa della sposa. Chiudibili a chiave, diventavano un luogo intimo e segreto dove riporre tesori e lettere destinati a essere protetti da occhi indiscreti.

Il raffinato e lezioso cofanetto di Colonia (cat. 82) si collega alla tipologia dei Minnekästchen, i cosiddetti “cofanetti d’amore”, diffusi soprattutto in Francia e Germania nel Trecento, realizzati in legno, avorio o cuoio, e connotati dalla comune iconografia cortese. Sul coperchio si riconosce una coppia di amanti a colloquio, elegantemente abbigliata secondo la moda diffusa dagli anni Quaranta del Trecento, con lunghi manicottoli e scollo abbassato sulle spalle, per la donna, e un abito azzimato e stretto in vita per l’uomo. Le due figure sono sedute in un “viridario” con esili alberi dalle chiome a rilievo e alcuni uccelli. Il tema del giardino d’amore continua anche sulla cassettina, che mostra coppie di uccelli affrontate a rilievo su un fondo dipinto con alberelli e motivi decorativi a rombi. La scelta cromatica contribuisce alla piacevolezza del racconto, con un utilizzo abbondante di rosso vermiglio, bianco e oro. Sui lati corti

83

la visibilità politica e sociale. il viaggio dei sovrani, le parate nuziali | 211

si vedono due armi partite, che collegano quindi questo raffinato portagioie a un contesto nuziale. Il cofanetto di Cluny (cat. 83) si presenta come una versione ridotta di un cassone da viaggio, con coperchio sbaulato e rinforzato da montanti metallici. Il cuoio che lo riveste, tuttavia, è minutamente punzonato e decorato nei toni del rosso e del bianco, con motivi floreali e due clipei con monogramma «M L», probabilmente da riferirsi al nome degli sposi. Gli altri due esemplari di cofanetti (cat. 84, 85), meno appariscenti ed elaborati nelle decorazioni, appartengono a una tipologia più corrente e domestica, destinati a contenere libri, documenti o oggetti di piccole dimensioni, tanto nelle dimore quanto

84

85

durante gli spostamenti, potendo essere inseriti all’interno di forzieri o casse da viaggio più grandi e robusti (si veda cat. 81). Entrambi presentano una minuta decorazione punzonata sul cuoio, con girali e racemi vegetali abitati da creature mitologiche e “grilli”. In particolare, il cofanetto di Firenze riprende nella forma quella dei grandi bauli lignei, con la cassa sollevata dal suolo, che nei grandi forzieri ha lo scopo di mantenere il contenuto al riparo dall’umidità (M. Scalini, in Firenze 1989). Benedetta Chiesi Bibliografia: M. Scalini, in Firenze 1989, pp. 274-275, cat. 62; F. LécuyerChampagne, in Nogent-le-Rotrou 2004, p. 68, cat. 53.

| Cat. 86 | Cat. 87

Sei candelieri portatili a incastro

Tre candelieri pieghevoli Limoges, ultimo terzo del XIII secolo Rame inciso, smaltato e dorato; h. 23; 21,5; 19; 16,5; 14; 10,5; ¯ 10; 9,5; 9,3; 8,7; 8,3; 7,8 cm Parigi, MusŽe du Louvre, DŽpartement des Objets dÕart Inv. da MR 2660 a MR 2665

Gli elementi di comfort al servizio di una società itinerante riguardano in particolare lÕilluminazione. Poter disporre di una fonte di luce durante gli spostamenti e nella dimora temporanea • importante tanto quanto i vestiti o tutti gli oggetti familiari. I candelieri a incastro, di taglia regolarmente decrescente, hanno unÕasta cava che consente di impilarli e dunque trasportarli facilmente, ottimizzando lo spazio occupato. Lo stemma raffigurato sulla base • puramente decorativo, pur conferendo a questi oggetti un carattere di ostentata ricchezza. Al contrario, i candelieri pieghevoli, di fattura pi• semplice, privilegiano lÕaspetto funzionale e il massimo risparmio di spazio a

Francia, XIV secolo Rame dorato e smaltato; h. 24; 21,8 e 16 cm Parigi, MusŽe de Cluny Inv. da Cl. 17534 a 17536

scapito del lusso. I piedi si ripiegano gli uni sugli altri per poterli facilmente sistemare in poco spazio, senza rischio di danneggiarli durante gli spostamenti. Questi piccoli candelieri da viaggio potevano venire utilizzati sia in un contesto religioso che laico, per esempio dai mercanti, bisognosi di portare con sŽ una fonte di luce artificiale dal peso contenuto. Michel Huynh Bibliografia: T. Hoving, in New York 1975, pp. 148-149; Feug•re, Villeval 1987, pp. 167-170; E. Taburet-Delahaye, in Parigi-New York 1995, p. 380, cat. 136.

86

87

la visibilità politica e sociale. il viaggio dei sovrani, le parate nuziali | 213

| Cat. 88

| Cat. 89

Trittico della vita della Vergine

Reliquario in forma di libro

Paesi Bassi del Sud, primo quarto del XVI secolo Legno di bosso; 14 x 12,3 x 3,5 cm Parigi, Musée de Cluny Inv. Cl. 13532

Germania, 1469 Rame inciso e dorato; 9 x l 7,5 x 1,5 cm Parigi, Musée de Cluny Inv. Cl. 19968

88

Anche se in movimento perpetuo, la società medievale consacra una parte significativa della giornata alle pratiche religiose. Le pratiche devozionali alla fine del Medioevo accentuano progressivamente l’intimo rapporto dell’uomo con il sacro, facendo appello a tutta la ricca gamma delle emozioni e dei sentimenti. I supporti materiali di questa devozione vengono realizzati con tutta la varietà delle tecniche artistiche e alla portata di tutte le borse. Queste immagini sacre sono facilmente maneggevoli e ovviamente trasportabili, e favoriscono un rapporto intimo, vicino, in certo modo quasi sensuale: come il piccolo trittico in bosso (cat. 88) che, a queste caratteristiche, aggiunge il piacere di possedere un’opera relativamente costosa, di notevole abilità tecnica. Su una superficie minima vengono raffigurati l’Annunciazione, la Natività, l’Assunzione in cielo e l’Incoronazione della Vergine. Quest’opera fa parte di un ristretto corpus che comprende prin-

214 | sezione v

89

cipalmente dei paliotti, nei quali lo stile monumentale contrasta con la loro reale piccola dimensione, e dei grani di rosario, generalmente apribili. Lo scultore conferma il suo virtuosismo tecnico scolpendo a tutto tondo, direttamente nello spessore del legno, il minuscolo anello fissato nel muro laterale della capanna, ma libero di muoversi. Per quanto riguarda il piccolo reliquiario (cat. 89), esso ricalca la forma dei libri d’ore, secondo una moda che si diffonde nel XV secolo. Fornito di anello, può essere portato con sé per mantenerne ininterrotta la devozione. Michel Huynh Bibliografia: Fritz 1966, p. 11; N. Breton, in Avignone 1997, p. 99, cat. 45; E. Antoine, in Parigi 2002, pp. 38-39, cat. 6; D. Eichberger, in Mechelen 2005 , p. 270, cat. 113.

| Cat. 90 Pendaglio: Vergine col Bambino in una torretta Francia (?), prima metà del XV secolo Argento dorato; 4 x 1,3 cm Parigi, Musée de Cluny Inv. Cl 18206

| Cat. 91 Statuetta di santa Margherita d’Antiochia Francia (Ile-de-France), 1325-1330 circa Avorio; h. 7,5 cm Firenze, Museo Nazionale del Bargello Inv. 94 C

90

Il piccolo pendente a forma di torretta era destinato a essere indossato come un monile (cat. 90), con all’interno la preziosa immagine protettrice della Vergine, rappresentata come un’elegante madre che sorregge un erculeo Bambino nella destra. Il carattere ricercato dell’oggetto e anche l’effetto di sorpresa della struttura, apribile e capace di offrirsi a uno sguardo intimo, lo rendono ben avvicinabile alla statuetta-amuleto della santa Margherita, entrambi oggetti di lusso domestico, collocabili in un terreno a mezza strada tra il sacro e il profano. Nel caso del pendaglio con la Vergine, l’oggetto è concepito espressamente per essere appeso al collo o a una spilla, grazie all’anello alla sommità del tetto. La piccola immagine della Vergine ha un carattere lezioso, quasi da giocattolo, ma anche un marcato aspetto apotropaico. La statuetta, infatti, seppur non vista e nascosta all’interno della torricciola, può comunque proteggere chi la indossa osservandolo dalle finestrelle aperte sui due lati della costruzione. All’esterno della stessa, sui segni dei conci di pietra, si legge in caratteri gotici «Ave Maria». Il tipo di architettura, con l’alto tetto slanciato, e il carattere elegante della veste della Vergine, con lo scollo abbassato sulle spalle, rimandano a un gusto ancora tardo gotico, per un oggetto quasi sicuramente destinato a un committente privato. Dallo stesso ambiente proviene la statuetta eburnea di santa Margherita. Secondo la Legenda Aurea, la giovane Margherita fu incarcerata per non aver accettato di abiurare la sua fede, e qui venne assalita e divorata dal demonio, sotto forma di drago. La giovane riuscì miracolosamente a salvarsi e squarciare il ventre del drago con la croce che stringeva tra le mani in preghiera. L’avorio del Bargello rappresenta proprio questa vittoria (cat. 91), con una narrazione vivace ed efficace. La giovane santa, con le mani giunte (che in origine dovevano tenere una crocetta), emerge serena dal corpo squarciato del demonio, come se fuoriuscisse da un pozzo. Il drago, dall’aria ormai sconfitta, stringe ancora tra i denti un lembo della veste di Margherita, a memoria del fallito tentativo di inghiottirla. Per questa tradizione agiografica, la santa, il cui culto è particolarmente attestato in Francia nel XIV e XV secolo, è di-

venuta la protettrice delle partorienti, invocata per avere un parto sicuro e senza dolori. Piccole statuette come questa potevano essere portate appese alla cintura o tenute comunque vicine al corpo della gestante. Se ne conserva un secondo esemplare, leggermente più grande e policromo, oggi al British Museum. Entrambi questi oggetti, raffinati per la manifattura e per la materia prima impiegata, sono testimonianza di amuleti destinati principalmente a un pubblico femminile, da poter portare discretamente sulla persona – al collo o alla cintura – durante gli spostamenti quotidiani così come durante viaggi più lunghi. Benedetta Chiesi Bibliografia: Supino 1898, p. 224, n. 94; Taburet-Delahaye 1989, p. 152, n. 57; Chiesi 2011, pp. 226-238.

91

la visibilità politica e sociale. il viaggio dei sovrani, le parate nuziali | 215

| Cat. 92 Dittico con la Vergine in gloria e la Crocifissione Francia, 1350-1360 circa Avorio; 10,2 x 6,2 cm Firenze, Museo Nazionale del Bargello Inv. 104 C

Il dittico, di dimensioni ridotte e di tipologia relativamente comune, rappresenta sull’anta sinistra la Vergine in gloria e sulla destra la Crocifissione, tra Maria e Giovanni. Entrambe le scene sono inscritte sotto un arco trilobo sorretto da mensoline decorate con motivi vegetali. L’accostamento dei due soggetti è uno dei più ricorrenti nei piccoli dittici eburnei sacri, soprattutto per i manufatti destinati alla devozione privata, quindi funzionali a indirizzare e stimolare la preghiera individuale del proprietario. Questi piccoli altaroli, come dei libri scolpiti chiudibili, contenevano al loro interno, in una sintesi estrema, i due momenti cruciali del messaggio di sal-

216 | sezione v

vezza cristiano: la gloria della Vergine, come madre e intercessore; e la morte di Cristo sulla croce per la redenzione dell’umanità. Il rilievo presenta dei soggetti estremamente diffusi, e anche lo stile, per quanto raffinato, non denuncia alcuna cifra particolare, potendolo giudicare come un’opera di buona qualità ma seriale, destinata a un mercato consolidato, che doveva prevedere la possibilità di acquistare, a un costo relativamente contenuto, degli altaroli “già pronti” per la preghiera individuale o da offrire come doni. Benedetta Chiesi Bibliografia: Supino 1898, p. 230, n. 104; Chiesi 2011, pp. 329-337.

| Cat. 93 Tavolo ottagonale smontabile Francia, 1490-1525 circa Rovere; h. 75 cm Parigi, MusŽe de Cluny Inv. Cl. 22795

Le classi superiori della società medievale avevano un modo di vivere itinerante, spostandosi continuamente da una residenza allÕaltra. Questi spostamenti, proprio come quelli legati alle campagne militari, prevedevano una logistica importante. I vestiti, gli arazzi, i libri, i mobili, cio• una parte significativa dei beni mobili di proprietà e legati al comfort della vita quotidiana, venivano trasportati da un luogo di soggiorno allÕaltro. Per farsene unÕidea, basta pensare allÕimmenso bottino di cui si impossessarono gli svizzeri nellÕaccampamento del duca di Borgogna, Carlo il Temerario, a Grandson nel 1476. Tuttavia, il mobilio medievale • conosciuto quasi esclusivamente grazie alle testimonianze iconografiche e artistiche, in quanto gli esempi conservatesi sono relativamente rari. Questo tavolo • di per sŽ rappresentativo del tipo di mobilio funzionale e polivalente che piaceva a questa società itinerante. Le sue dimensioni, in particolare lÕaltezza di 75 cm, lo iscrivono nei canoni standard del mobilio. Oltre alla perfezione delle sue proporzioni, questo tavolo presenta delle caratteristiche tecniche notevoli, pur impiegando un legno di qualità mediocre.

Il piano ottagonale • costituito da tre assi, montate con il sistema a falsi tenoni incastrati. Le due laterali provengono da uno stesso pezzo di legno segato longitudinalmente. Togliendo il piano, si possono smontare le gambe del tavolo. Due elementi traforati si incastrano grazie a un perno. Le significative variazioni di larghezza di questi pannelli, per quanto impercettibili una volta montato lÕoggetto, impediscono a ciascuno di essi di essere intercambiabile. Il montaggio del tavolo viene facilitato da riferimenti e richiami, numerati da 1 a 4 tramite un sistema di punti incavati effettuati con un succhiello. Questo tavolo, senza uguali nelle collezioni pubbliche, • di fondamentale importanza per la storia del mobilio occidentale. La sua datazione tramite lÕanalisi del legno, oltre a confermarne lÕintegrità, lo situa con certezza fra lÕultimo decennio del XV e lÕinizio del XVI secolo. Michel Huynh Bibliografia: Thirion 1999, pp. 54-55; Taburet-Delahaye 2009, p. 306.

la visibilità politica e sociale. il viaggio dei sovrani, le parate nuziali | 217

| Cat. 94 Leriano e Laureola: il perdono del re Francia del Nord, 1515-1530 circa Arazzo, lana e seta; 372 x 390 cm Iscrizione: in un cartiglio «Le roy, retourné en Macedoyne, reçoit sa fille Laureole en grant joye; chascun luy faict honneur et Lerian demouré a Suze, retourné aux passions d’amour, rescript à elle unes lectres par le viateur et elle luy faict responce» («Il re, ritornato in Macedonia, riceve sua figlia Laureola con grande gioia; tutti la onorano e Leriano, rimasto a Susa e preso nuovamente dalla passione amorosa, le invia una lettera tramite un viaggiatore e lei gli risponde») Altre iscrizioni: «La città di Susa» \ «Leriano» \ «La città Macedonia» \ «Il viaggiatore» Parigi, Musée de Cluny Inv. Cl. 22742

L’arazzo, facente parte di un parato, s’ispira a La Prigione d’amore, scritto in spagnolo con il titolo di Cárcel de amor da Diego de San Pedro verso il 1490 circa. Questo romanzo sentimentale, in forma epistolare, venne subito tradotto in italiano, poi in francese e diffuso tramite esemplari manoscritti e molte edizioni nelle tre lingue. Leriano, principe di una città chiamata Susa, in Macedonia, ama Laureola, figlia del re del posto. Laureola è stata ingiustamente imprigionata da suo padre, a seguito di una denuncia calunniosa di Persius (Perseo) – rivale di Leriano – che accusa i due giovani di essersi incontrati illecitamente. La principessa viene infine dichiarata innocente grazie all’intervento decisivo del narratoreviaggiatore, che fa circolare delle lettere fra i personaggi. Sullo sfondo dell’arazzo, Leriano e il re si stringono la mano davanti alla città di Susa. Il re si è appena convinto dell’innocenza di sua

figlia e toglie dunque l’assedio alla città per ritornare a casa: un mulo, che porta dei cassoni di ferro protetti da una stoffa stemmata e un altro cofano ancora a terra, illustrano il tema del viaggio e del trasporto dei bagagli. La scena principale, in primo piano, rappresenta il ricongiungimento fra la coppia reale e la loro figlia. Nella loggia aperta, sullo sfondo a destra, il narratore-viaggiatore riceve da Laureola una lettera per Leriano che gli annuncia il suo categorico rifiuto: la principessa preferisce mantenere intatto il suo onore e rifiutare l’amore di Leriano, anche se costui dal dolore si lascerà morire, fino al gesto estremo di ingoiare la lettera di rifiuto dell’amata. Béatrice de Chancel-Bardelot Bibliografia: N. Breton, in Avignone 1997, p. 96, cat. 40; Diego de San Pedro - Parilla, Roubaud 2002; Joubert 2002, p. 130, n. 10-b.

la visibilità politica e sociale. il viaggio dei sovrani, le parate nuziali | 219

| Cat. 95 Carta da gioco: la nave Italia, seconda metà del XV secolo Miniatura su pergamena; 16,5 x 8,4 cm Parigi, Musée de Cluny Inv. Cl. 23526

Questa carta faceva parte di un gioco di società che consisteva nell’associare la carta al carattere dei partecipanti, facendo nel contempo mostra della propria cultura classica. La nave evocava il disprezzo del nobile per il popolo, in sintonia con il verso tratto dalle Odi di Orazio, scritto nella parte inferiore della carta: «Odi profanum / volgus et arceo» che si traduce con «Odio il profano volgo e me ne tengo lontano». L’imbarcazione, rappresentata di tre quarti da poppa, è una grande nave, con il cassero di poppa prominente, sotto il quale è raffigurato il timone di dritta e la sua barra, sormontato da un frontone con un personaggio sotto un’arcata. Sul fianco di tribordo tre grandi remi pendono da tre portelli di murata aperti nello

220 | sezione v

scafo. I due alberi portano ciascuno una grande vela quadrata, una con la croce di Malta, l’altra a scacchi d’oro e rossi. Questi vari elementi (vele quadrate adatte alla navigazione in alto mare, timone di dritta, scafo di grandi dimensioni) ricordano i vascelli più grandi della fine del Medioevo, in grado di coprire grandi distanze e così di contribuire ad incrementare la conoscenza del mondo. Michel Huynh Bibliografia: Le Pogam 2004a, pp. 27-38; J. Fritsch, in Parigi 2006, cat. 37.

| Cat. 96 Scatola da gioco portatile Italia del Nord (?), XV secolo Legno, osso, ebano, tessuto; 6,3 x 19,3 x 15,8 cm Vic, Museu Episcopal Inv. MEV 4184

Questa piccola scatola in legno e osso, decorata con tarsie alla certosina, permetteva di giocare, sulle due facce, sia agli scacchi che al tric-trac o backgammon. Al suo interno poteva contenere le pedine e i gettoni necessari al gioco, purtroppo andati perduti nel corso del tempo. In tutta lÕEuropa occidentale, a partire del tardo XIV secolo e poi per tutto il XV, si sono diffusi cofanetti di simili materiali, dimensioni e motivi; forse i pi• famosi sono quelli assegnati alla bottega degli Embriachi, dalla quale vennero prodotte placchette semicilindriche dÕosso o dÕavorio scolpite con figure a coppie, scene profane o temi religiosi, spesso inquadrate da cornici con intarsi simili (Brescia 2001; Castell— 2007). Questo esemplare pi• semplice, che arriv˜ al Museu Episcopal di Vic nel 1911 da una provenienza sconosciuta, trova parecchi confronti in vari musei, normalmente attribuiti a botteghe norditaliane (L. Martini, in Brescia 2001, pp. 100-101, cat. 33-34). Le fasce pi• alte della società, frequentemente in viaggio, solevano intrattenersi con questi giochi portatili. In confronto alle grandi scacchiere decorate ed esibite nelle sale di rappresentanza, o agli scacchi conservati per il loro valore e prestigio nei tesori ecclesiastici, queste piccole tavole da gioco, dallÕaspetto gradevo-

le ed elegante, ma dalla fattura e dal prezzo modesto, potevano facilmente essere trasportate e destinate a ingannare il tempo durante gli spostamenti. Il matrimonio era di fatto una delle principali occasioni non solo per costosi doni, ma anche per intraprendere un viaggio, talora a grande distanza, o talvolta, invece, breve ma simbolico, come quando la sposa raggiungeva la sua nuova dimora, distante solo qualche strada dalla casa paterna. Metafora della conquista amorosa nellÕiconografia cortese, il gioco degli scacchi appartiene di fatto, cos“ come i cofanetti e i forzierini che recano le armi partite dei committenti (associando quelle di ciascun membro della coppia, solitamente lo stemma dello sposo a sinistra, quello della donna a destra), a un insieme di oggetti galanti legati ai doni matrimoniali e al contesto coniugale (P. Lurati, in Rancate 2014, pp. 124-125). La scacchiera, cos“, diventa comparabile ai cofanetti decorati da motivi amorosi; inoltre, lo stesso materiale Ð avorio o osso Ð poteva riferirsi simbolicamente alle virt• coniugali ( JosŽ Pitarch 2007, pp. 44-46). Marc Sureda i Jubany Bibliografia: Gudiol [1911], p. 32; Gudiol 1912, p. 17.

la visibilità politica e sociale. il viaggio dei sovrani, le parate nuziali | 221

| Cat. 97 Custodia per libri Francia, XV secolo Cuoio inciso dipinto e dorato su anima di legno; 18 x 15 x 7 cm Parigi, Musée de Cluny Inv. Cl. 21586

I libri sono oggetti rari e preziosi. La rilegatura assicura loro protezione, ma quest’ultima è insufficiente quando devono essere trasportati o semplicemente depositati. Per evitare i danni che potrebbero colpire un libro durante il trasporto, sia su breve distanza sia nell’ambito di un utilizzo quotidiano frequente (per esempio nel caso dei libri d’ore), l’uomo medievale ha pensato a varie soluzioni. L’iconografia mostra, in particolare nelle numerose rappresentazioni di san Gerolamo nel suo studio, libri protetti da sacchi di tessuto o di cuoio, scatole in legno bianco o cofanetti di legno foderati di cuoio e provvisti o meno di serratura, secondo la loro tipologia. La custodia in cuoio, con coperchio a incastro e

passanti predisposti sui due lati per il trasporto a tracolla, consente di trasportare un libro conciliando leggerezza e praticità. La decorazione vegetale incisa e dorata la inserisce a un livello superiore di fattura e l’iscrizione «abbiate il mio», associata alla rappresentazione di un cuore in un cartiglio sulla parte superiore del coperchio, la colloca in modo evidente nella sfera cortese. Per quanto riguarda il libro contenuto in una simile custodia, doveva trattarsi di un libro dal formato relativamente spesso. Michel Huynh Bibliografia: Parigi 2004, p. 228.

| Cat. 98 The Law of Jutland - Libro giuridico da cintura Danimarca, testo 1490 circa, legatura 1530 circa Pergamena e cuoio; 13 x 9,6 cm (il libro); 30 cm (la legatura) Copenaghen, The Royal Library Inv. Rostgaard 6, 8º

Il carattere peculiare di questo piccolo volume, che lo rende adatto a essere agilmente trasportato, è la sua legatura, grazie alla quale poteva essere appeso alla cintura oppure al braccio come una borsa. Le testimonianze offerte dalla documentazione iconografica – miniature, ma anche pitture e sculture – mostrano questo tipo di legatura destinato sia a un pubblico maschile, come mercanti o giudici (per lo più libri di conti o libri giuridici, come il codice in mostra), sia alle donne o ai membri dell’alta società nel caso di elaborati libri di preghiere. Chiamati libri da cintura (girdle book in inglese), si caratterizzano per le piccole dimensioni e per una copertura in cuoio o stoffa preziosa che deborda oltre le tavole di legno delle coperte, creando un avanzo di tessuto che resta libero nella parte inferiore del volume e termina con un robusto nodo, che poteva essere incastrato alla cintura.

222 | sezione v

Il libro, quindi, pendeva lungo il fianco, rivolto verso il basso, come una scarsella o una borsa da cintura. Questo tipo di legatura e coperta permettevano una buona protezione del volume dalle intemperie e dallo sfregamento con le vesti, ma al contempo lasciavano le mani libere durante gli spostamenti e permetteva, all’occorrenza, di consultare rapidamente il testo. L’esemplare di Copenaghen unisce un volume del 1490 circa con una legatura leggermente più tarda, databile agli anni Trenta del Cinquecento. Probabilmente fu dotato di una simile coperta in un secondo momento, proprio in virtù del suo uso e utilità. Il volumetto, composto di 135 carte, è stato riferito allo scriba Jens Nielsen e contiene un testo giuridico, la Law of Jutland. Si tratta di uno dei più importanti codici giuridici danesi, adottato dal 1241 e considerato il precursore della legislazione e della costitu-

98

97

zione danese. Si conservano altre quattro copie dello stesso testo che possono essere riferite similmente a Nielsen, che evidentemente si specializzò nella produzione di piccoli testi giuridici in formati convenienti e tascabili. Alcune di queste copie recano la data 1490, che può quindi essere presa come riferimento cronologico anche per il presente volume. Dovette essere un testo utilizzato frequentemente da giudici e notai, e il proprietario che nel XVI secolo decise di farci aggiungere la nuova legatura “a borsetta” sicuramente doveva avere necessità di portarlo costantemente con sé e averlo sempre pronto alla consultazione. Se le testimonianze iconografiche del libro da cintura sono numerose e varie, tanto da renderlo come un accessorio di lusso dell’abbigliamento e uno status symbol del livello sociale e di eru-

dizione raggiunto da chi lo indossava, si conservano relativamente pochi esemplari, circa una ventina. Questi sembrano essere stati comuni principalmente in area tedesca e dei Paesi Bassi, tra il XIV e XVI secolo, per scomparire quasi del tutto con l’affermarsi e il diffondersi dei libri a stampa, che resero poi desueta la complicata copertura in cuoio al fine di proteggere il costoso manoscritto. Benedetta Chiesi Bibliografia: J. Plummer, in New York 1975, pp. 164-165, cat. 183; B. Olrik Frederiksen, in Living Words & Luminous Pictures 1999, pp. 44-45, n. 57; Szirmai 1999, pp. 237-239; Smith, Bloxam 2005, pp. 15-24; Smith 2014, pp. 195-212.

la visibilità politica e sociale. il viaggio dei sovrani, le parate nuziali | 223

| Cat. 99 Arte francese Pettine con astuccio di cuoio XV secolo Pettine: legno di bosso con intarsi in legno e osso colorati; 20 x 18,7 cm Astuccio: cuoio cotto, sbalzato e punzonato; 21,5 x 19,8 cm Firenze, Museo Nazionale del Bargello Inv. 1362 C; inv. 1325 C

Il pettine presenta la caratteristica forma rettangolare con una doppia fascia di denti, radi e grossi da un lato, e fitti e sottili dall’altro. Al centro corre un’iscrizione – su un lato in francese, sull’altro in tedesco –, ed è ornato da una minuta decorazione a intarsio, con legno e osso colorati. La decorazione “alla certosina” era preconfezionata, ovvero composta su una fascia di tela e applicata poi al pettine, come si può notare nelle zone ove oggi questa è sollevata. Dal XV secolo pettini in legno di bosso, traforati e spesso con iscrizioni di carattere amatorio e cortese, sostituiscono quelli in avorio, in voga come preziosi doni di fidanzamento o nozze nel secolo precedente. I pettini in avorio, e molto probabilmente anche quelli in legno di maggior valore, erano frequentemente venduti e conservati in astucci di cuoio, che li proteggevano e permettevano di portarli appesi alla cintura o come piccole borse. Nell’inventario redatto alla morte di Louis Carrand, dalla cui collezione provengono le due opere in mostra, è registrato questo pettine assieme a un astuccio di cuoio, che può essere correttamente identificato con

224 | sezione v

la custodia 1325 C del Bargello, per quanto il naturale ritiro e irrigidimento del cuoio oggi renda l’astuccio troppo preciso per le dimensioni del pettine. La custodia in cuoio bollito presenta su entrambi i lati una rigogliosa decorazione vegetale e solo sulla fronte si nota un cartiglio, anch’esso con iscrizione, e un’arma con uno stemma a balzana, che porta nella parte superiore tre pali caricati di gigli. Su entrambi i lati, al centro dell’astuccio si notano delle piccole protomi leonine stilizzate, attraverso le quali passava il cordino con cui si chiudeva e si trasportava la custodia e il suo contenuto. Lo stato di consunzione di queste asole e il segno lasciato dal passaggio della corda lasciano immaginare un uso prolungato di questo raffinato strumento di comfort portatile. Benedetta Chiesi Bibliografia: Supino 1898, p. 304, n. 1325, p. 308, n. 1362; Nuttall 2010, p. 722.

| Cat. 100 Arte limosina Imboccatura a morso Metà del XIV secolo Ferro, bronzo dorato, rame sbalzato, inciso, cesellato e dorato; 40 x 17 x 20 cm Torino, Armeria Reale Inv. D 58

Il presente morso è decorato ai lati da due piastroni quadrati con smalti policromi (per le tipologie dei morsi, si veda qui cat. 4142). Lo strumento doveva essere tanto efficace e sgradevole per l’animale, così quanto raffinate e cortesi sono invece le decorazioni che lo ingentiliscono sia sul nodo poliedrico sulle guardie che sui grandi piastroni quadrati ai lati. Sul nodo si riconosce un uccello dorato su campo azzurro in smalto champlevé, fiori in oro e rosso. Nei piastroni invece si vede al centro uno stemma partito, il primo fusato di argento e rosso, il secondo con leone rampante a sinistra. L’impresa araldica è affiancata da due coppie di figure femminili: una suonatrice di liuto e una di ribecca; sull’altro una suonatrice di liuto e una figura che brandisce una spada. La decorazione e lo stemma partito rimandano a un contesto coniugale, e gli stemmi sono stati riconosciuti come quelli di due delle principali famiglie nobili dell’Italia Meridionale: Acciaiuoli e Grimaldi. Più precisamente, si tratterebbe di un manufatto creato in occasione delle nozze di Angelo Acciaiuoli, figlio del gran

siniscalco del re di Napoli, con una Grimaldi, figlia di Antonio, signore di San Giorgio in Calabria (Cervini 2011, p. 379). Un morso elaborato come questo doveva completare la bardatura del cavallo in occasione del corteo nuziale o di parata, al pari delle selle qui in mostra, concepite per lo stesso scopo (cat. 101-102). Si tratta quindi di oggetti destinati al fasto, per un uso limitato e spesso apprezzabili solo a una vista ravvicinata, ma di grande impatto simbolico proprio per la loro raffinatezza e costo. La presenza di smalti di manifattura limosina per uno stemma partito di due famiglie italiane sottolinea ulteriormente come oggetti e manufatti di lusso, quali smalti, avori, ma anche alabastri e tessuti, potessero largamente circolare e viaggiare nell’Europa medievale, attraverso le richieste e il mercato delle alte classi della società. Benedetta Chiesi Bibliografia: P. Allevi, in Milano 1993, pp. 371-373, cat. 197; Cervini 2011, pp. 376-387 (con bibliografia precedente).

la visibilità politica e sociale. il viaggio dei sovrani, le parate nuziali | 225

| Cat. 101

| Cat. 102

Arte tedesca Sella da parata

Arte italiana Sella da parata

Secondo quarto del XV secolo Cuoio, legno, osso e corno; 39,5 x 48 x 34 cm Firenze, Museo Nazionale del Bargello Inv. 15 Avori

Metà del XV secolo Cuoio, legno, osso e corno; 39 x 35 x 41 cm Firenze, Museo Nazionale del Bargello Inv. 3 Avori

101

Nel Medioevo il principale mezzo di trasporto, di combattimento, ma anche di manifestazione dello status sociale, era il cavallo. Selle di questo tipo, tuttavia, riccamente scolpite e decorate, non erano concepite per lunghi spostamenti né per confortevoli cavalcate. Le due selle del Bargello, provenienti dalle collezioni medicee, sono formate da una struttura di legno e cuoio, su cui sono applicate, tramite perniolini in osso e colla animale, lastre di osso e corno scolpite a bassorilievo. L’insieme è particolarmente elegante ma sicuramente poco adatto per l’utilizzo e poco elastico per sopportare le tensioni e il peso del cavaliere. Si tratta, infatti, di selle da parata, destinate a essere esibite e utilizzate per brevi e ben studiati spostamenti. La sella di dimensioni maggiori (cat. 101) si attaglia a una produzione di area germanica del secondo quarto del Quattrocento, e presenta scene cortesi, cacce amorose e un elegantissimo dispiegamento di cartigli. Si noti in particolare sul lato sinistro san Giorgio, santo cavaliere per eccellenza, che uccide il drago al cospetto di una dama. Questa, per stile iconografia e forma, può essere inserita in

226 | sezione v

un corpus di almeno altre venti selle simili, da parata o da pompa, riferite ora ad area centro europea, ora piuttosto al Tirolo. Di particolare interesse la piccola sella meno nota e ancora poco studiata (cat. 102), che può essere attribuita a una produzione del Nord Italia della seconda metà del XV secolo. Vi sono raffigurati, in uno stile vivace e con ancora evidenti tracce di policromia, scene che rimandano all’iconografia cortese. Sulla fronte una coppia di amanti si scambiano doni d’amore, ciascuno chiuso nel proprio giardino rigoglioso. L’iconografia, che evoca storie drammatiche come quella di Piramo e Tisbe, richiama tuttavia anche l’idea di un amore conveniente e pudico. Sul lato è rappresentata una seconda coppia di amanti, affrontati e in dialogo, ma separati dagli elementi decorativi della sella, che sembrano tenerli a una casta distanza. Le vesti che li adornano sono estremamente eleganti e alla moda, e la fanciulla tiene nella mano destra un piccolo cuore che palpita, come sembrano indicare le linee ondulate al suo lato, indizio di un amore vibrante e intenso. Nella parte centrale della sella, sul lato sinistro, il contesto corte-

102

se si fa più esplicito anche nelle iscrizioni: una donna mostra a un giovane un cartiglio con la scritta «amor», mentre un cavaliere armato di lancia affronta un leone dalla chioma raggiante e dal muso grottesco più che ferino. Sul lato destro una dama, con ai piedi un falco, tiene un cartiglio con l’iscrizione «aspeto tempo» e attende la vittoria finale del cavaliere che affronta un drago posto sotto. Sul retro della sella, entro una ghirlanda di alloro, dovevano trovarsi le imprese araldiche del committente, forse partite in occasione di un matrimonio, oggi purtroppo perdute. La piccola sella non ha termini di paragone nel corpus delle selle conosciute, tranne con quella oggi alla Galleria Estense, databile agli anni settanta del Quattrocento e riferita a Ercole I d’Este grazie allo stemma raffigurato sulla guardia dell’arcione anteriore e al motto che si può leggere sulla sella. Le due opere, messe a confronto, dimostrano di condividere da vicino lo stesso stile e dettagli di costume, così come minuti elementi decorativi e il gusto per l’iconografia amorosa, ancora fortemente debitrice di una moda tardo gotico. Proprio l’iconografia cortese e pudica della

sella fiorentina ben si adatta a un oggetto di lusso che doveva essere utilizzato – ed esibito – in occasione dei fastosi cortei di nozze, ovvero durante la domumductio, il percorso scenografico che conduceva la donna dalla casa paterna a quella dello sposo, segnando così, in un viaggio simbolico, il suo passaggio da figlia a moglie, ed esibendo la preziosa dote. La solenne cavalcata che accompagnava la sposa nel suo viaggio simbolico suggellava ufficialmente la nuova alleanza sociale, economica e politica, stretta per via del vincolo matrimoniale. Il matrimonio era infatti una delle principali occasioni delle famiglie per commissionare opere importanti, così come per manifestare, nello scambio di preziosi e costosi doni, le capacità economiche della casata. Benedetta Chiesi Bibliografia: Campani 1884, pp. 106-107; Schlosser 1894, pp. 260-294, n. 19 fig. 11; n. 20 fig. 12; Supino 1898, pp. 373-374; Koechlin 1924, I, p. 212; II, n. 476; M. Verö, in Budapest-Lussemburgo 2006, pp. 270-278, cat. 24, pp. 362-363, cat. 4.71 (con bibliografia precedente).

la visibilità politica e sociale. il viaggio dei sovrani, le parate nuziali | 227

bibliografa

Abbreviazioni AB Archivio Museo Nazionale del Bargello, Firenze ASGFi Archivio Storico delle Gallerie, Firenze ACSR Archivio Centrale dello Stato, Roma ASPi Archivio di Stato, Pisa

Aliprandi - Aliprandi 2002 L. Aliprandi, G. Aliprandi, Les Alpes et les premières cartes - itinéraires au XVIe siècle, “Revue de geographie alpine”, 90, 2002, 3, pp. 37-54 Almagià 1914-1915 R. Almagià, La carta d’Italia di G.A. Vavassori, “La Biblioflia”, XVI, 1914-1915, pp. 81-88

Abril 1986a J. M. Abril, Lipsanoteca 3, in Catalunya Romànica XXII, Barcelona 1986, p. 253

Alonso 1976 G. Alonso, Los Maestros de la “Seu Vella de Lleida” y sus colaboradores, Lleida 1976

Abril 1986b J. M. Abril, Lipsanoteca 4, in Catalunya Romànica XXII, Barcelona 1986, p. 254

Andersson 1989 L. Andersson, Pilgrimsmärken och vallfart. Medeltiden Pilgrimkultur I Skandinavie, Lund 1989

Agosti 1996 G. Agosti, La nascita della storia dell’arte in Italia. Adolfo Venturi dal museo all’università 1880-1940, Venezia 1996 Alamaro 2000 E. Alamaro, Musei artistici industriali e scuole ofcine: cultura del progetto e risorse del territorio, “Faenza”, LXXXVI, 2000, 4-6, pp. 80-92 Alcoy 1990 R. Alcoy i Pedrós, Pintures del gòtic a Lleida, Lleida 1990 Alcoy 1991a R. Alcoy i Pedrós, Ferrer Bassa y el italianismo. Revisiones sobre la trama de un nuevo catálogo, “Antichità Viva”, 1-2, 1991, pp. 166-167 Alcoy 1991b R. Alcoy i Pedrós, La pintura de la Seu Vella de Lleida de l’italianisme al Gòtic Internacional, in Congrés de la Seu Vella de Lleida, atti del convegno (Lleida, 6-9 marzo 1991), a cura di F. Vilà i Imma Lores, Lleida 1991, pp. 119-132 Alcoy 1992 R. Alcoy i Pedrós, Sant Romuald de Camaldoli i el problema de les taules de Vic relacionades amb Ferrer Bassa, “Analecta Sacra Tarraconensia”, 65, 1992, pp. 211-248 Alcoy 2005 R. Alcoy i Pedrós, Ferrer Bassa, un creador d’estil, in L’Art Gòtic a Catalunya. Pintura, vol I: De l’inici a l’italianisme, Barcelona 2005, pp. 146-170 Alcoy 2010 R. Alcoy i Pedrós, La bottega in fabula nella scuola pittorica di Lleida. Lavoro individuale e collettivo nelle ofcine catalane tardogotiche, in Medioevo: le ofcine, atti del convegno (Parma, 22-27 settembre 2009), a cura di A. C. Quintavalle, Milano 2010, pp. 529-548 Alfonso X El Sabio ed. 1989 Alfonso X el Sabio, Cantigas de Santa María. Edición facsímil del códice B.R.20 de la Biblioteca nazionale centrale de Florencia, siglo 13, Madrid 1989 Alfonso X El Sabio, De Berceo, De Coinci, Gonzalo - Beretta 1999 Miracoli della Vergine. Testi volgari medievali, a cura di G. de Coinci, G. de Berceo, Alfonso X el Sabio, ed. a cura di C. Beretta, Torino 1999

230 | Bibliografa

Balard 2003 M. Balard, Croisades et Orient latin (XIe-XIVe siècle), Paris 2003

Belting 1994 H. Belting, Likeness and Presence. A History of the Image before the Era of Art, Chicago 1994

Baldacci 1990 O. Baldacci, Introduzione allo studio delle geocarte nautiche di tipo medievale e la raccolta della Biblioteca comunale di Siena, Firenze 1990

Belting 2000/2007 H. Belting, Image et culte. Une histoire de l’image avant l’époque de l’art (München 2007), ed. Paris 2007

Baldry 1997 F. Baldry, John Temple Leader e il Castello di Vincigliata. Un episodio di restauro e di collezionismo nella Firenze dell’Ottocento, Firenze 1997

Benedetto ed. 1962 L. F. Benedetto, La tradizione manoscritta del Milione di Marco Polo, ristampa anastatica, Torino 1962

Ballini 2012 P. L. Ballini, L’Assemblea Toscana del 1859-60, Firenze 2012

Angelier 2011 F. Angelier, Dictionnaire des Vvoyagueurs et Explorateurs occidentaux du XIIIe au XXe siècles, Paris 2011

Bann 1978 S. Bann, Historical Text and Historical Context: Te Poetics of the Musée de Cluny, “History and Teory”, XVII, 1978, 3, pp. 251-266

Anonimo Genovese - Cocito 1970 Anonimo genovese, Poesie, ed. a cura di L. Cocito, Roma 1970

Barnes, Branfoot 2006 R. Barnes, C. Branfoot, Pilgrimage: Te Sacred Journey, Oxford 2006

Archeologia dei pellegrinaggi 2001 Archeologia dei pellegrinaggi in Liguria, a cura di F. Bulgarelli, A. Gardini e P. Melli, Savona 2001

Barocchi 1985 P. Barocchi, La scoperta del ritratto di Dante nel Palazzo del Podestà. Dantismo letterario e fgurativo, “Quaderni del seminario di storia della critica d’arte”, vol. 2: Studi e ricerche di collezionismo e museografa, Firenze 18201920, Pisa 1985, pp. 153-178

Architecture and Pilgrimage 2013 Architecture and Pilgrimage in the Mediterranean World 1000-1500, atti del convegno (Cambridge, 2005), a cura di P. Davies, D. Howard e W. Pullan, Farnham 2013 Arderiu 1908 E. Arderiu, Excursió a Verdú, “Butlletí del Centre Excursionista de Lleida”, 1908 Te Art, Science 2008 Te Art, Science, and Technology of Medieval Travel, a cura di R. Bork e A. Kann, Aldershot 2008 Arti e Storia 2004 Arti e Storia del Medioevo, a cura di E. Castelnuovo e G. Sergi, vol. IV: Il Medioevo al passato e al presente, Torino 2004 Ashley, Deegan 2009 K. Ashley, M. Deegan, Being a Pilgrim. Art and Ritual on the Medieval Routes to Santiago, Farnham 2009 Avril, Gaborit 1967 F. Avril, J.-R. Gaborit, L’Itinerarium Bernardi Monachi et les pèlerinages d’Italie du Sud pendant le haut-Moyen-Age, “Melanges d’archeologie et d’histoire”, LXXIX, 1967, pp. 269-298 Badino 2010 G. Badino, Igino Benvenuto Supino: gli anni del Bargello nelle carte dell’Archivio delle Gallerie Fiorentine, in Firenze 2010, pp. 169-195 Balard 1988 M. Balard, Les Croisades. Les noms, les thèmes, les lieux, Paris 1988

Barocchi 1999 P. Barocchi, Firenze 1880-1903: cultura fgurativa e conservazione, in Storia dell’arte e politica culturale intorno al 1900. La fondazione dell’Istituto Germanico di Storia dell’Arte di Firenze, atti del convegno internazionale (Firenze, 2124 maggio 1997), a cura di M. Seidel, Venezia 1999, pp. 297-311 Barocchi, Gaeta Bertelà 1985 P. Barocchi, G. Gaeta Bertelà, Ipotesi per un Museo nel Palazzo del Podestà tra il 1858 e il 1859, “Quaderni del seminario di storia della critica d’arte”, vol. 2: Studi e ricerche di collezionismo e museografa, Firenze 1820-1920, Pisa 1985, pp. 213-377 Barocchi, Gaeta Bertelà 1989 P. Barocchi, G. Gaeta Bertelà, La genesi della collezione Carrand (1820-1888), in Firenze 1989, pp. 39-132 Baron 1996 F. Baron, Musée du Louvre. Département des Sculptures. Catalogue. Sculpture française. I – Moyen Âge, Paris 1996 Basso 2008 E. Basso, Insediamenti e commercio nel Mediterraneo bassomedievale. I mercanti genovesi dal Mar Nero all’Atlantico, Torino 2008 Beaudoin 1994 F. Beaudoin, L’économie motrice pré-mécanique. Les chemins qui marchent, “Neptunia”, 160, 1994, pp. 1-13

Benetti, Paladini [s.d.] S. Benetti, E. Paladini, Le collezioni di storia patria di Francesco Tamassia e di Marco Guastalla, “Musei per la storia in Lombardia”, (http://www.museiperlastoria.com/ita/articoli.php?idcat=6&idsez=23&idart=61) Bennett, Strano 2014 J. Bennett, G. Strano, Te So-Called ‘Chaucer Astrolabe’ from the Koelliker Collection, Milan. An Account of the Instrument and Its Place in the Tradition of Chaucer-Type Astrolabes, “Nuncius”, 29, 2014, pp. 179-229 Bergmann 1989 U. Bergmann, Die Holzskulpturen del Mittelalters (1000-1400), Köln 1989 Bertelli 2004 B. Bertelli, I dipinti Toscanelli: vendita e dispersione di una collezione pisana dell’Ottocento, tesi di laurea (Pisa, Università degli Studi), A.a. 2003-2004 Bertelli 2012 B. Bertelli, Commercio antiquario a Firenze nel primo trentennio dopo l’Unità d’Italia: protagonisti, transazioni e circolazione delle opere d’arte, tesi di dottorato (Udine, Università degli studi ), XXIII ciclo, A.a. 2011-2012 Bertelli, Grimaldi 1968 C. Bertelli, F. Grimaldi, Oggetti devozionali antichi rinvenuti nella Santa Casa di Loreto, “Studia Picena”, XXXVI, 1968, pp. 104-112 Beuningen, Koldeweij, Kicken 2001 Heilig en profaan. 2. 1200 laatmiddeleeuwse insignes uit openbare en particuliere collecties, a cura di H. J. E. van Beuningen, A. M. Koldeweij e D. Kicken, Rotterdam 2001 Bianchi, Melli 1996 S. Bianchi, P. Melli, Evoluzione dell’arco portuale, in La città ritrovata. Archeologia urbana a Genova 1984-1994, a cura di P. Melli, Genova 1996, pp. 62-72 Bill 1999 J. Bill, Port topography in medieval Denmark, in Maritime topography and the medieval town, atti del convegno (Copenaghen, 14-16 maggio 1998), a cura di J. Bill e B. Clausen, København 1999, pp. 251-261 Boccalatte 2008a P. E. Boccalatte, Cofanetti, scrigni e forzieri nelle Civiche Raccolte d’Arte Applicata (XVXVII secolo), “Rassegna di Studi e Notizie”, 31, XXXIV, 2007/2008 (2008), pp. 67-87

Boccalatte 2008b P. E. Boccalatte, La sezione di Storia dell’arte all’Esposizione di Torino del 1884, in Medioevo/Medioevi 2008, pp. 31-59

Buddensieg 1957 T. Buddensieg, Die Basler Altartafel Heinrichs II, “Wallraf-Richartz-Jahrbuch”, XIX, 1957, pp. 133-192

I Carrand e il collezionismo francese 1989 I Carrand e il collezionismo francese 18201888, a cura di P. Barocchi e G. Gaeta Bertelà, Firenze 1989

Boccia [1972] L. G. Boccia, Schede Collezione Ressman (ciclostile), [1972]

Buhl 2008 G. Buhl, Dumbarton Oaks. Te Collections, Washington, Harvard Uniuversity Press, 2008, p. 86

La cartografa europea 2003 La cartografa europea tra primo Rinascimento e fne dell’Illuminismo, atti del convegno internazionale (Firenze, BNCF-EUI, 13-15 dicembre 2001), a cura di D. Ramada Curto, A. Cattaneo e A. Ferrand Almeida, Firenze 2003

Boccia, Godoy 1985-1986 L. G. Boccia, J. A. Godoy, Museo Poldi Pezzoli. Armeria, 2 voll., Milano 1985-1986 Boleda 1991 R. Boleda, El temple parroquial de Santa Maria de Verdú. Evolució històrica i arquitectònica, in Santa Maria de Verdú i altres temes verdunins, Solsona 1991, pp. 19-24 Bologna 1961 F. Bologna, Di alcuni rapporti tra Italia e Spagna nel Trecento e Antonius Magister, in Studi di Arte Antica, Firenze 1961, pp. 34-42 (Arte Antica e Moderna; 13-16) Borchert 2002 T.-H. Borchert, La mobilité des artistes. Aspects du transfert culturel à la veille des Temps modernes, in Le siècle de Van Eyck 14301530. Le monde méditerranéen et les primitifs famands, catalogo della mostra (Bruges, Groeningemuseum, 15 marzo-30 giugno 2002), a cura di T.-H. Borchert e A. Beyer, Bruges 2002, pp. 33-45 Bordone 1993 R. Bordone, Lo specchio di Shalott. L’invenzione del Medioevo nella cultura dell’Ottocento, Napoli 1993 Bordone 1995-1996 R. Bordone, Il medioevo nell’immaginario dell’Ottocento italiano, in Studi medievali e immagine del Medioevo fra Ottocento e Novecento, “Bullettino dell’Istituto Storico Italiano per il Medioevo”, 100, 1995-1996, pp. 109-149 Boskovits 1969 M. Boskovits, Il problema di Antonius Magister e qualche osservazioni sulla pittura marchigiana del Trecento, “Arte Illustrata”, 18-19, 1969, 2, pp. 4-19 Braun 1924 J. Braun, Der christliche Altar in seiner geschichtlichen Entwicklung, vol. I, Munchen 1924 Brun 1951 R. Brun, Notes sur le commerce des armes à Avignon au XIVe siècle, “Bibliothèque de l’ècole des chartes”, 109, 1951, 2, pp. 209-231 Bruna 1996 D. Bruna, Musée national du Moyen Âge Termes de Cluny. Catalogue: Enseignes de pèlerinage et enseignes profanes, Paris 1996 Budde 1998 M. Budde, Altare portatile. Kompendium der Tragaltäre des Mittelalters, 600-1600, Munster 1998

Bulgarelli 1998 F. Bulgarelli, Insegne di pellegrino da S. Pietro in Carpignano-Quiliano (SV), “Archeologia Medievale”, XXV, 1998, pp. 271-289 Bulgarelli, Gardini 2003 F. Bulgarelli, A. Gardini, Testimonianze di pellegrini a San Pietro in Carpignano, in San Pietro in Carpignano a Quiliano. Dall’insediamento romano all’edifcio di culto, a cura di F. Bulgarelli, Genova 2003, pp. 32-33 Burton 1999 A. Burton, Vision & Accident. Te story of the Victoria & Albert Museum, London 1999 Buzzoni 1980 A. Buzzoni, Musei dell’Ottocento, in Capire l’Italia, vol. 4: I Musei, Milano 1980, pp. 155-197 Buzzoni 1990 A. Buzzoni, Musei industriali e artistico-industriali: realtà nazionale e realtà locale, in Musei locali. Luoghi e musei, atti del convegno (Roma, San Michele a Ripa, 14-16 ottobre 1987), a cura di E. Borsellino, Roma 1990, pp. 44-51 Caillet 1985 J.-P. Caillet, L’antiquité classique, le haut moyen âge et Byzance au musée de Cluny, Paris 1985 Calandra 1867 C. Calandra, Delle armi a fuoco portatili esistenti nel Museo Nazionale del Palazzo del Podestà per C. Calandra deputato al Parlamento Nazionale, Firenze 1867

Cassidy 2012 B. Cassidy, Artists and Diplomacy in Late Medieval Tuscany: Te Case of Giotto, Simone Martini, Andrea Pisano, and Others, “Gesta”, 51, 2012, 2, pp. 91-110 Castelnuovo 1962 E. Castelnuovo, Un pittore italiano alla corte di Avignone. Matteo Giovanetti e la pittura in Provenza, Torino 1962 Castelnuovo 1966 E. Castelnuovo, Nota introduttiva, in La pittura e la miniatura nella Lombardia. Dai più antichi monumenti alla metà del Quattrocento, a cura di P. Toesca, Torino 1966, pp. XXXIII-LXI Castelnuovo 2000a G. Castelnuovo, Difcoltà e pericoli del viaggio, in Viaggiare nel Medioevo 2000, pp. 447-464 Castelnuovo 2000b E. Castelnuovo, Iconografe del viaggio, in Viaggiare nel Medioevo 2000, pp. 481-491 Castelnuovo 2000 c E. Castelnuovo, Pietro Toesca e l’antica arte lombarda, in Id., La cattedrale tascabile. Scritti di storia dell’arte, Livorno 2000, pp. 224-247

Chareyron 2013 N. Chareyron, Ethique et esthétique du récit de voyage à la fn du moyen âge, Paris 2013 Chiesi 2011 B. Chiesi, Catalogo degli avori gotici del Museo Nazionale del Bargello, tesi di dottorato, (Firenze, Università degli studi), A.a. 2011 Ciampoltrini, Pieri 1998 G. Ciampoltrini, E. Pieri, Pieve a Nievole (PT). Saggi preventivi nell’area della plebs de Neure, “Archeologia Medievale”, XXV, 1998, pp. 103-115 Ciatti, Frosinini, Bellucci 2007 La croce dipinta dell’Abbazia di Rosano. Visibile e invisibile, a cura di M. Ciatti, C. Frosinini e R. Bellucci, Firenze 2007 Cinelli 1997 C. Cinelli, Acquisti eccellenti mancati per conto delle Gallerie forentine durante la direzione di Aurelio Gotti (1864-1878): alcuni spunti per un contributo alla storia della tutela del patrimonio artistico nazionale all’indomani dell’unità italiana, “Bollettino della società di studi forentini”, 0, 1997, pp. 85-95 Cioce 2011 M. Cioce, Sanctus Nicolaus, un’insegna di pellegrinaggio dallo scavo del convento di largo abate Elia, “Nicolaus. Studi Storici”, XXII, 2011, 1-2, 42-43, pp. 205-215 Clermont-Ganneau 1882 C. S. Clermont-Ganneau, Premiers rapports sur une mission en Palestine et en Phénicie, Paris 1882 El códice ed. 1991 El códice de Florencia de las Cantigas de Alfonso X el Sabio. Ms. B.R. 20 de la Biblioteca nazionale centrale, a cura di A. S. Luque, Madrid 1991

Els camins 2007 Els camins, el viatge, els artistes, a cura di J. Camps i Soria e F. M. Quilez i Corella, Barcelona 2007

Castelnuovo 2007 E. Castelnuovo, Voyages d’artistes, voyages d’oeuvres: ou la quête des étoiles, in Entre l’Empire et la mer, atti del convegno (Losanna-Ginevra, 2002), a cura di M. Natale e S. Romano, Roma 2007, pp. 1-10

Campani 1884 A. Campani, Guida per il visitatore del R. Museo Nazionale nell’antico Palazzo del Podestà di Firenze, Firenze 1884

Catálogo del Museo 1893 Catálogo del Museo Arquelógico-Artistico Episcopal de Vich, a cura di J. Gudiol, P. Bofll, A. d’Espona e J. Serra, Vic 1893

Concile 1997 Le concile de Clermont de 1095 et l’appel à la croisade, atti del convegno (Clermont-Ferrand, 23-25 giugno 1995), Paris 1997

Cantelli 1974-1976 G. Cantelli, Museo Stibbert a Firenze, 4 voll., Firenze 1974-1976

Cavallaro 1992 L. Cavallaro, Il Palazzo del Mare. Il nucleo medioevale di Palazzo San Giorgio, Genova 1992

Cantini 2007 Con gli occhi del pellegrino. Il borgo di San Genesio: archeologia lungo la via Francigena, a cura di F. Cantini, Borgo San Lorenzo (FI) 2007

Il Centro di Firenze 1989 Il Centro di Firenze Restituito. Afreschi e Frammenti Lapidei nel Museo di San Marco, a cura di M. Sframeli, Firenze 1989

Conde 2011 R. Conde y Delgado De Molina, De Barcelona a Anagni para hablar con el Papa. Las cuentas de la Embajada del Rey de Aragón a la Corte de Bonifacio VIII (1295), Zaragoza 2011

Caraci 1922 G. Caraci, Catalogo della mostra di carte, di manoscritti e di stampe d’interesse geografco fatta presso il R. Archivio di Stato di Firenze (marzo-aprile 1921), “Atti dell’VIII Congresso geografco italiano”, III, 1922, pp. 94-140

Cervini 1993 F. Cervini, I portali della Cattedrale di Genova e il gotico europeo, Firenze 1993

Carbonell 2002 J. Carbonell, El retaule de Verdú, “Urtx. Revista cultural de l’Urgell”, 15, 2002, pp. 28-42

Cervini 2011 F. Cervini, Lame benedette. Qualche rifessione per studiare le armi e i loro committenti, in Medioevo: i committenti, atti del convegno (Parma, 21-26 settembre 2010), a cura di A. C. Quintavalle, Milano 2011, pp. 376-387

Coleman, Elsner 1995 S. Coleman, J. Elsner, Pilgrimage. Past and Present in the World Religions, Cambridge (Mass.) 1995

Condorellli 1997 A. Condorelli, Maestro dell’Incoronazione di Bellpuig, in Enciclopedia dell’Arte Medievale VII, Roma 1997, pp. 93-94 Contamine 1980/2003 P. Contamine, La guerre au Moyen Âge (Paris 1980), ed. Paris 2003 Cooper, Denny-Brown 2014 Te Arma Christi in Medieval and Early Modern Material Culture, a cura di L. H. Cooper e A. Denny Brown, Famham 2014

Bibliografa | 231

Coornaert 1959 É. Coornaert, Messagers et services des postes au XVe et au XVIe siècle, “Comptes rendus des seances de l’Academie des Inscriptions et Belles-Lettres”, 103 1959, 2, pp. 198-201 Cornini 2010 G. Cornini, Non Est in Toto Sanctior Orbe Locus: Collecting Relics in Early Medieval Rome, in Cleveland-Baltimora-Londra 2010, pp. 69-78 Cornudella 2009 R. Cornudella i Carre, Escenes de la vida de Sant Bernat (?), in Convidats d’Honor. Exposició commemorativa del 75è aniversari del MNAC, catalogo della mostra (Barcellona, Museu Nacional d’Art de Catalunya, 2 dicembre 209911 aprile 2010), a cura di C. Mendoza e M. T. Ocaña, Barcelona 2009, pp. 126-131 Cornudella 2009-2010 R. Cornudella i Carre, Alfonso el Magnánimo y Jean van Eyck. Pintura y tapices famencos en la corte del rey de Aragón, “Locus Amoenus”, 10, 2009-2010, pp. 39-62 Cornudella 2012 R. Cornudella i Carre, Obres i artistes de França i dels Països Baixos a Catalunya al voltant de 1400. Manuscrits il·luminats, pintura sobre fusta, vitralls, brodats i tapissos, in Barcellona 2012, pp. 25-37 Coroneo 1989 R. Coroneo, Insegna di pellegrinaggio romeo, in P. B. Serra, R. Coroneo, R. Serra, San Giuliano di Selargius, “Quaderni della Soprintendenza Archeologica per le Provincie di Cagliari e Oristano”, 6, 1989, pp. 236-241 Coroneo 2000 R. Coroneo, Segni e oggetti del pellegrinaggio medioevale in Sardegna. L’età giudicale, in Gli Anni Santi nella Storia, atti del convegno (Cagliari, 16-19 ottobre 1999), a cura di L. D’Arienzo, Cagliari 2000, pp. 465-496 Corti 2011 A. Corti, Una selezione di armi quattrocentesche dal Museo del Bargello, “Nuovi quaderni dell’Archivio storico della città di Piombino”, 2, 2011, pp. 49-97 Crivello 1997 F. Crivello, L’Esposizione d’Arte Sacra di Torino del 1898 e lo sviluppo degli studi sulla miniatura in Italia, “Annali della Scuola Normale Superiore di Pisa, classe di lettere e flosofa”, IV, 1997, II, 1, pp. 97-143 Crivello 2004 F. Crivello, Il Medioevo riprodotto: incisioni e litografe negli studi storici e antiquari, in Arti e Storia 2004, pp. 625-649 Croce 1921/1947 B. Croce, Storia della storiografa italiana nel secolo decimonono (Bari 1921), Bari 1947 Dadà 2003 M. Dadà, Un’insegna da S. Michele Arcangelo alla Verruca, in Monasteri e castelli 2003, pp. 53-55

232 | Bibliografa

D’andria 2012 F. D’Andria, Hierapolis. Nella città dell’apostolo Filippo, “ARCHEO. Attualità del passato”, 326, 2012, pp. 28-43

Doria 1930 J. Doria, in Annali genovesi di Cafaro e dei suoi continuatori, IX, parte seconda, traduzione di G. Monleone, Genova 1930

D’azeglio 1870 M. d’Azeglio, Intorno al restauro del Palazzo del Podestà, Firenze 1870

Du Sommerard 1883 E. du Sommerard, Musée des thermes et de l’hôtel de Cluny. Catalogue et description des objets d’art de l’Antiquité, du Moyen Âge et de la Renaissance exposés au musée, Paris 1883

Dectot 2010 X. Dectot, Sculptures du XIIIe siècle. Collections du musée de Cluny, Reunion des musees nationaux, http://www.sculpturesmedievales-cluny.fr, consultato il 20 gennaio 2015 Dectot 2012 X. Dectot, Louvre-Lens. Le Guide 2013, Paris 2012 Demus 1970 O. Demus, Byzantine Art and the West, New York 1970 Deville 1930 E. Deville, La reliure française, vol. I: Des origines à la fn du XVIIe siècle, Paris 1930 Di Fabio 1998 C. Di Fabio, La Cattedrale di Genova nel Medioevo. Secoli VI-XIV, Milano 1998

Durán 1953 R. M. Durán, Iconografía española de San Bernardo, Poblet 1953 Dürer - Goris, Marlier 1970 A. Dürer, Le journal de voyage d’Albert Dürer dans les anciens Pays-Bas, 1520-1521, a cura di J.-A. Goris e G. Marlier, Bruxelles 1970 Eco 1985 U. Eco, Dieci modi di sognare il Medioevo, in Id., Sugli specchi e altri saggi, Milano 1985, pp. 78-89 Egeria - Wilkinson 1981 J. Wilkinson, Egeria’s Travels to the Holy Land, traduzione di J. Wilkinson, Jerusalem 1981

Di Marco 2008 S. Di Marco, Frederick Stibbert 1838-1906. Vita di un collezionista, Torino 2008

Elsner 1997 J. Elsner, Replicating Palestine and Reversing the Reformation. Pilgrimage and collecting at Bobbio, Monza and Wahingham, “Journal of the History of Collections”, 9, 1997, pp. 117-130

Diego de San Pedro - Parilla, Roubaud 2002 Diego de San Pedro, Cárcel de amor. La Prison d’amour, suivi de la continuation de Nicolás Núñez, a cura di C. Parilla e S. Roubaud, Paris/Roma 2002

Elsner, Rutherford 2005 Pilgrimage in Graeco-Roman & Early Christian Antiquity. Seeing the Gods, a cura di J. Elsner e I. Rutherford, Oxford 2005

Dizionario 2007 Dizionario dell’arte Electa, a cura di S. Zuè, 28 voll., Milano 2007 Domenge 2003 J. Domenge, Els intercanvis amb el migdia de França, in Art gòtic a Catalunya, Arquitectura II, Barcelona, 2003, pp. 342-347 Domenge in corso di stampa J. Domenge, Antonius Duboys d’Albavilla et Philipus Fillo de Orlenis en la catedral de Mallorca (1514-1519), in corso di stampa Donato 2005 M. M. Donato, Il primo ritratto documentato di Dante e il problema dell’iconografa trecentesca. Conferme, novità e anticipazioni dopo due restauri, in Dante e la fabbrica della commedia, atti del convegno (Ravenna, 14-16 settembre 2006), a cura di A. Cottignoli, D. Domini e G. Gruppioni, Ravenna 2008, pp. 355-380 D’Onofrio 1997 M. D’Onofrio, Pellegrinaggio medievale e cultura artistica itinerante, in Homo Viator, nella cultura, nella fede, nella storia, atti del convegno (Tolentino, Abbazia di Chiaravalle di Fiastra, 18-19 ottobre 1996), a cura di B. Cleri, Urbino 1997, pp. 175-187

Englisch 1996 B. Englisch, Erhard Ertzlaub´s Projection and Methods of Mapping, “Imago Mundi”, 48, 1996, pp. 103-123 Eslami 2000 A. N. Eslami. Genova e il Mediterraneo. I rifessi d’oltremare sulla cultura artistica e l’architettura dello spazio urbano. XII–XVII secolo, Genova 2000 Español 2009 F. Español, Artistas y obras entre la Corona de Aragón y el Reino de Francia, in El intercambio artístico entre los reinos hipanos y las cortes europeas en la baja edad media, a cura di C. Cosmen et al., León 2009, pp. 253-294 Esposizione 1862 Esposizione internazionale di Londra del 1862, Atti Ofciali del Reale Comitato, Torino 1862 Fabbri 1999 F. Fabbri, Il Codice “Cocharelli”: osservazioni e ipotesi per un manoscritto genovese del XIV secolo, in Tessuti, orefcerie 1999, pp. 305-320 Fabbri 2004 F. Fabbri, Maestro del Codice Cocharelli, in Dizionario biografco dei Miniatori italiani. Secoli IX - XVI, a cura di M. Bollati, Milano 2004, pp. 495-497

Fabbri 2011 F. Fabbri, Il codice Cocharelli fra Europa, Mediterraneo e Oriente, in La pittura in Liguria. Il Medioevo. Secoli XII–XIV, a cura di G. Algeri e A. De Floriani, Genova 2011, pp. 289-310 Fani, Farina 2012 Le vie delle lettere: La Tipografa Medicea tra Roma e l’Oriente, a cura di S. Fani e M. Farina, Firenze 2012 Favreau 1976-1977 R. Favreau, L’Inscription de Saint-Christophe à Pernes-les-Fontaines, “Bulletin archeologique du Comite des travaux historiques et scientifques”, 12-13, 1976-1977, pp. 33-39 Ferretti 1980 M. Ferretti, La forma del museo, in Capire l’Italia, vol. IV: I Musei, Milano 1980, pp. 46-79 Feugère, Villelal 1987 M. Feugère, G. Villeval, Chandeliers portatifs en bronze des XIIIe et XIVe siècles, “Archeologie du Midi medieval”, V, 1987, pp. 167-170 Ffoulkes 1912 C. J. Ffoulkes, Te Armourer and his Craft, London 1912 Fidanzia 2003 R. Fidanzia, Il Medioevo nel Risorgimento italiano, “Storia del mondo” 11, 2003 ISSN 1721-0216 (periodico telematico) Filopová 2014 A. Filipová, Te Memory of Monza’s Holy Land Ampullae: from Reliquary to Relic, or Tere and Back Again, in Objects of Memory Memory of Objects. Te Artworks as a Vehicle of the Past in the Middle Ages, a cura di A. Filipová et al., Brno 2014, pp. 44-53 Flori 1998 J. Flori, Croisade et chevalerie, XIe-XIIe siècles, Paris/Bruxelles 1998 Fonseca 2000 C. D. Fonseca, Viaggiare nel Medioevo: percorsi, luoghi, segni e strumenti, in Viaggiare nel Medioevo 2000, pp. 1-17 Foresi 1867 A. Foresi, La Galleria degli Ufzi e il Museo Nazionale del Palazzo del Podestà. Controversia tra il dottore Alessandro Foresi e il Marchese Ferdinando Panciatichi, Firenze 1867 Foresi 1868 A. Foresi, Tour de Babel ou Objets d‛art faux pris pour vrais et vice versa par le docteur Alexandre Foresi, Paris/Firenze 1868 Foresi 1886 A. Foresi, XII capitoli delle memorie del dottore Alessandro Foresi, Firenze 1886 Francovich 1991 R. Francovich, Rocca San Silvestro, Roma 1991 Francovich, Valenti 2007 Poggio Imperiale a Poggibonsi. Il territorio, lo scavo, il parco, a cura di R. Francovich e M. Valenti, Cinisello Balsamo (MI) 2007

Frangioni 1981 L. Frangioni, Una cotta di maglia milanese a Firenze sulla fne del Trecento, “Armi antiche. Bollettino dell’Accademia di san Marciano”, Torino 1981, pp. 3-18 Fritz 1966 J. M. Fritz, Gestochene Bilder. Gravierungen auf deutschen Goldschmiedearbeiten der Spätgotik, Köln 1966 Frugoni 2001 C. Frugoni, Medioevo sul naso. Occhiali, bottoni e altre invenzioni medievali, Roma 2001 Frugoni 2014 C. Frugoni, Istud signum tau cum capite, “Bollettino della Deputazione di Storia Patria per l’Umbria”, 110, 2013 (2014), 1/2, pp. 5-16 Gaeta Bertelà 1985 G. Gaeta Bertelà, Il restauro del Palazzo del Podestà, in Studi e ricerche di collezionismo e museografa, Firenze 1820-1920, “Quaderni del seminario di storia della critica d’arte”, vol. 2: Studi e ricerche di collezionismo e museografa, Firenze 1820-1920, Pisa 1985, pp. 181-209 Gaeta Bertelà 1986 G. Gaeta Bertelà, La fortuna di Donatello nel Museo Nazionale del Bargello, in Omaggio a Donatello 1886-1986, catalogo della mostra (Firenze, Museo Nazionale del Bargello, 19 dicembre 1985-30 maggio 1986), a cura di P. Barocchi e G. Gaeta Bertelà, Firenze 1986, pp. 77-121 Gaeta Bertelà 1989a G. Gaeta Bertelà, I contributi stranieri nella storia del Museo nazionale del Bargello, in L’idea di Firenze, temi e interpretazioni nell’arte straniera dell’Ottocento, atti del convegno (Firenze, 17-19 dicembre 1986), a cura di M. Bossi e L. Tonini, Firenze 1989, pp. 127-137 Gaeta Bertelà 1989b G. Gaeta Bertelà, La donazione Carrand al Museo Nazionale del Bargello, in Firenze 1989, pp. 1-38 Gaeta Bertelà 1994 G. Gaeta Bertelà, Introduzione, in Tessuti del Rinascimento nei repertori ornamentali, catalogo della mostra (Firenze, Museo Nazionale del Bargello, 1994), a cura di P. Peri, Firenze 1994, [s.p.] Gaeta Bertelà 2004 G. Gaeta Bertelà, Le arti “minori” al Bargello: la collezione Carrand, in La storia del Bargello 2004, pp. 117-137 GarcÉa 2005 J. V. García, Maestros de ultramar. Artistas italianos y franceses al servicio de la monarquía aragonesa (siglos XIV y XV), in La Mediterrània de la Corona d’Aragó, segles XIII-XVI, a cura di R. Narbona, València 2005, vol. II, pp. 1907-1921 Gardini 2010 A. Gardini, Un pellegrino di Santiago di Compostella a San Calocero di Albenga, in Albenga. Un antico spazio cristiano. Chiesa e monastero

di San Calocero al Monte. Un complesso archeologico dal I d.C al XVI secolo, a cura di P. Pergola, G. Spadea Noviero e S. Roascio, Genova 2010, pp. 199-200 Gauthier 1950 M. M. Gauthier, Emaux limousins: champlevè des XIIe, XIIIe et XIVe siècles, Paris 1950 Gauthier 1972 M. M. Gauthier, Emaux du Moyen Age occidental, Fribourg 1972 Gauthier 1983 M. M. Gauthier, Les routes de la foi. Reliques et reliquaires de Jérusalem à Compostelle, Paris/ Fribourg 1983 Gay 1887 V. Gay, ad vocem Écuisson, in Glossaire archéologique du Moyen Age et de la Renaissance, Paris 1887, vol. I, col. 608 Gentilini 1989 G. Gentilini, Arti applicate, tradizione artistica forentina e committenti stranieri, in L’idea di Firenze. Temi e interpretazioni nell’arte straniera dell’Ottocento, atti del convegno (Firenze, 17-19 dicembre 1986), a cura di M. Bossi e L. Tonini, Firenze 1989, pp. 155-176 Gere, Sargent 2002 C. Gere, C. Sargentson, Te making of the South Kensington Museum: curators, dealers and collectors at home and abroad, “Journal of the History of Collections”, 14, 2002, 1 Gerson 2006 P. Gerson, Art and Pilgrimage: Mapping the Way, in A Companion to Medieval Art, a cura di C. Rudolph, Oxford 2006, pp. 599-618 Gerspach 1904 E. Gerspach, La collection Carrand au Musée National de Florence, “Les Arts”, 32, 1904, 3, pp. 2-64 Giacosa 1884 G. Giacosa, Introduzione, in Esposizione generale italiana. Torino 1884. Catalogo ufciale della Sezione Storia dell’Arte. Guida Illustrativa al Castello Feudale del Secolo XV, Torino 1884, pp. 2-24 Gibbs 1992 R. Gibbs, Ferrer Bassa and the Pseudo-Ferrer at Pedralbes, “Apollo”, CXXXVI, 1992, 368, pp. 231-232 Gibbs 1999 R. Gibbs, Antifonario N: a bolognese choirbook in the context of genoes illumination between 1285 and 1385, in Tessuti, orefcerie 1999, pp. 247-278 Gingerich 1987 O. Gingerich, Zoomorphic Astrolabes and the Introduction of Arabic Star Names into Europe, in From Deferent to Equant: A Volume of Studies in the History of Science in the Ancient and Medieval Near East in Honor of E.S. Kennedy, a cura di D. A. King e G. A. Saliba, New York 1987, pp. 89-104

Gioli 1998 A. Gioli, Monumenti e oggetti d’arte nel Regno d’Italia. Il patrimonio artistico degli enti religiosi soppressi tra riuso, tutela e dispersione. Inventario dei “Beni delle corporazioni religiose” 1860-1890, Città di Castello (PG) 1998 Giorgi, Matracchi 2006 L. Giorgi, P. Matracchi, Il Bargello a Firenze. Da Palazzo del Podestà a Museo Nazionale, in S. Maria del Fiore 2006, pp. 125-173 Girod 2001 A. Girod, Conchiglie. Studio malacologico, in Archeologia dei pellegrinaggi 2001, pp. 44-49 Gonzalvo 1991 G. Gonzalvo, Documents de Verdú a l’arxiu històric comarcal de Tàrrega, “Urtx. Revista cultural de l’Urgell”, 3, 1991 Gori [1881] P. Gori, Indice dei portolani, carte nautiche e planisferi posseduti dalla Biblioteca Nazionale di Firenze, vol. I, Firenze [1881] Gotti 1890 A. Gotti, Narrazione delle Feste fatte in Firenze nel maggio 1887 per lo scoprimento della facciata di S. Maria del Fiore e del V centenario della nascita di Donatello, Firenze 1890 Grabar 1959 A. Grabar, Les Ampoules de Terre Sainte, Paris 1959 Graboïs 1998 A. Graboïs, Le pèlerin occidental en Terre Sainte au Moyen Âge, Paris/Bruxelles, 1998 Gros 1986 M. Gros, Reliquiari de la Veracreu, lliurat per Oliba, bisbe d’Osana, a Arnau Mir de Tost, senyor d’Àger, Tesaurus. Estudis, Barcelona 1986 Grossi Bianchi, Poleggi 1980/1987 L. Grossi Bianchi, E. Poleggi, Una città portuale del Medioevo. Genova nei secoli X-XVI (Genova 1980), ed. Genova 1987 Guarnieri 1998 C. Guarnieri, Due insegne di pellegrinaggio provenienti da scavi urbani a Ferrara ed Argenta (FE), “Archeologia Medievale”, XXV, 1998, pp. 265-270 Guastalla 1861a M. Guastalla, Catalogo della esposizione di oggetti d’arte del medio evo e dell’epoca del risorgimento dell’arte fatta in Firenze in casa Guastalla in Piazza dell’Indipendenza, contemporanea a quella dell’Industria Nazionale, Firenze 1861 Guastalla 1861b M. Guastalla, Progetto d’una esposizione di oggetti del Medio Evo e del Rinascimento dell’arte da farsi nel Palazzo Pretorio, contemporanea a quella dell’Industria Nazionale in Firenze, Firenze 1861 Gudiol i Cunill 1899 J. Gudiol i Cunill, El Museu ArqueológichArtístich Episcopal de Vich en 1989. Memòria del Conservador llegida el dia 27 de Març de 1899 (manoscritto inedito), Vic 1899

Gudiol i Cunill 1901 J. Gudiol i Cunill, Colocació de les santes reliquies en els altars, “La Veu del Montserrat”, XXIV, 1901, 10, pp. 878-880 Gudiol i Cunill [1911] J. Gudiol i Cunill, Inventari manuscrit del Museu Episcopal de Vic 4000-4999, [1911] Gudiol i Cunill 1911 J. Gudiol i Cunill, Un saler litúrgich, “La Veu de Catalunya, Página Artística”, 106, 28-XII1911 Gudiol i Cunill 1912 J. Guidol i Cunill l, El Museu ArqueologichArtístich Episcopal de Vich en 1911. Memòria, Vic 1912 Gudiol i Cunill 1917 J. Guidol i Cunill, Un tesoro sagrado, “Anuario Eclesiástico”, 1817, pp. 101-108 Gudiol i Cunill 1924 Guidol i Cunill, Els Trescentistes (II), Barcelona 1924 Gudiol i Cunill 1926 J. Guidol i Cunill, El Museu ArqueològichArtístich Episcopal de Vich en 1925. Memòria, Vic 1926 Gudiol Ricart 1938 J. Gudiol Ricart, La pintura gótica en Catalunya, Barcelona 1938 Gudiol Ricart 1955 J. Gudiol Ricart, Pintura gótica, Madrid 1955 Gudiol Ricart, Alcolea Blanch 1986 J. Gudiol Ricart, S. Alcolea Blanch, Pintura Gótica Catalana, Barcelona 1986 Guérout, Rieth, Gassend 1516 M. Guerout, E. Rieth, J.-M. Gassend, Le navire génois de Villefranche. Un naufrage de 1516?, Paris 1999 Guglielmotti 2013 P. Guglielmotti, Genova, Spoleto 2013 Guidi 1981 G. Guidi, Il governo della città-repubblica di Firenze del primo Quattrocento, vol. 2: Gli istituti “di dentro” che componevano il governo di Firenze nel 1415, Firenze 1981 Guillouët 2009 J.-M. Guillouët, Les transferts artistiques: un outil opératoire pour l’histoire de l’art médiéval, “Histoire de l’art”, 64, 2009, pp. 17-25 Habenicht 1999 G. Habenicht, Die ungefassten Altarwerke des ausgehendes Mittelalters und der Durerzeit, tesi di laurea, Gottingen 1999 Hackenbroch 1986 Y. Hackenbroch, Smalti e gioielli dal XV al XIX secolo. Museo Nazionale del Bargello, Firenze 1986

Bibliografa | 233

Halbwachs - Jaisson 2008 M. Halbwachs, La topographie légendaire des Évangiles en Terre sainte. Étude de mémoire collective, a cura di M. Jaisson, Paris 2008 Haraucourt, Montremy 1922 E. Haraucourt, F. de Montremy, Musée des Termes et de l’Hôtel de Cluny. Catalogue général, vol I: La pierre, le marbre et l’albâtre, Paris 1922 Haskell 2000 F. Haskell, Te Ephemeral Museum. Old Master Painting and the Rise of the Art Exhibition, New Haven/London 2000 Haskell 2001 F. Haskell, Antichi maestri in tournée: le esposizioni d’arte e il loro signifcato, a cura di T. Montanari, Pisa 2001 Herbert Percy 2005 Herbert Percy Horne e Firenze, atti della giornata di studi (Firenze, 2005), a cura di E. Nardinocchi, Firenze 2005 Hermanin 1906 F. Hermanin, Il Museo romano del Medio Evo e del Rinascimento a Castel Sant’Angelo, “Nuova Antologia”, CXXV, 1906, 836, pp. 585-588 Hocker, Ward 2004 F. M. Hocker, C. A. Ward, Te Philosophy of Shipbuilding. Conceptual Approaches to the Study of Wooden Ships, College Station (Tx) 2004 Homo viator 2007 Homo Viator. Errance, pèlerinage et coyage initiatique dans l’Espagne médiévale, “Cahiers d’etudes hispaniques medievales”, 30, 2007 Huynh 2011 M. Huynh, Principales acquisitions, “Revue des Musees de France - Revue du Louvre”, 2, 2011, pp. 51-52 Huynh, Lepape 2011 M. Huynh, S. Lepape, De la rencontre d’une image et d’une boite: les cofrets à estampe, “Revue des musees de France. Revue du Louvre”, 4, 2011, pp. 37-50 Iacopozzi 2000 S. Iacopozzi, Le statue degli “Illustri toscani” nel Loggiato degli Ufzi, Firenze 2000 Ibáñez 2011 J. Ibáñez, Seguendo il corso del sole: Isambast, Pedro Jalopa e il rinnovamento dell’ultimo gotico nella Penisola Iberica durante la prima metà del XV secolo, “Lexicon”, 12, 2011, pp. 27-44 Imbert 1909 - Riccetti 2005 A. Imbert, Ceramiche orvietane dei secoli XIII e XIV: note su documenti (Roma 1909), edizione anastatica a cura di L. Riccetti, Foligno (PG) 2005 Imperiale 2012 M. L. Imperiale, “Signa Aopostolorum Petri et Pauli”. Note sulla produzione delle “quadrangulae” di pellegrinaggio a Roma, in Pre-Atti del VI Congresso Nazionale di Archeologia Me-

234 | Bibliografa

dievale, (L’Aquila, 12-15 settembre 2012), a cura di F. Redi e A. Forgione, Firenze 2012, pp. 698-703

Keen 1984/2005 M. Keen, Chivalry (London 1984), ed. New Haven/London 1984

Labbé, Lacroix, Quéruel 2000 A. Labbe, D.W. Lacroix, D. Queruel, Guerres, voyages et quetes au Moyen-Age, Paris 2000

Innocenti 2004 P. Innocenti, Corrado Ricci e gli Ufzi, “Rivista dell’Istituto Nazionale d’Archeologia e Storia dell’Arte”, 26, 2003 (2004), 58, pp. 323-373

Kessler 2000 H. L. Kessler, Confguring the Invisible by Copying the Holy Face, in Spiritual Seeing. Picturing God’s Invisibility in Medieval Art, a cura di H. L. Kessler, Philadelphia 2000, pp. 64-87

Laclotte 1960 M. Laclotte, L’École d’Avignon. La peinture en Provence au XIVe et XVe siècles, Paris 1960

L’istruzione 2013 L’istruzione secondaria nell’Italia unita 18611901 a cura di C. G. Lacaita e M. Fugazza, Milano 2013 L’Italie 1865 L’Italie en 1865. Souvenir d’une mission à Florence, à l’occasion du 600° anniversaire de Dante par C. Hippeau, Caen/Paris 1866 Itineraria 1965 Itineraria et alia geographica, a cura di P. Geyer e O. Cuntz, Turnhout 1965 (Corpus Christianorum, Series Latina; 175) Itinerarium 2010 Das Itinerarium Bernardi monachi, a cura di J. Ackermann, Peine 2010 Jacoby 1979 D. Jacoby, Crusader Acre in the Tirteenth Century: Urban Layout and Topography, “Studi Medievali”, III, 1979, 20, pp. 1-45 Jacoby 1985 D. Jacoby, L’évolution urbaine et la fonction méditerranéenne d’Acre a l’époque des crosaides, in Città portuali del Mediterraneo. Storia e archeologia, atti dell convegno (Genova, 1985), a cura di E. Poleggi, Genova 1989, pp. 95-109 Jacomet 2009 H. Jacomet, Vovere in pera et baculo. Le pèlerin et ses attributs aux XIe et XIIe siècles, in Pellegrinaggi e santuari di San Michele nell’Occidente medievale/Pèlerinages et sanctuaires de Saint-Michel dans l’Occident médiéval, atti del convegno (Sacra di San Michele, 26-29 settembre 2007), a cura di G. Casiraghi e G. Sergi, Bari 2009, pp. 477-544 Jenning 1974 C. Jenning, Early Chests in Wood and Iron, London 1974 (Public Records Oèce Museum pamphlets; 7) Jones, Spagnol 1993 Sembrare e non essere. I falsi nell’arte e nella civiltà, a cura di M. Jones e M. Spagnol, Milano 1993 José Pitarch 2007 A. Jose Pitarch, Cofres de amor y Baldassare Embriachi en la Corona de Aragón en tiempos del rey Martín, in Castelló 2007, pp. 40-62

Kessler, Zacharias 2000 H. B. Kessler, J. Zacharias, Rome 1300. On the Path of the Pilgrim, New Haven/London 2000 Kiedel, Schnall 1992 K. P. Kiedel, U. Schnall, Te Hanse Cog of 1380, Bremen 1992 Koechlin 1924 R. Koechlin, Les Ivoires gothiques français, 3 voll., Paris 1924 Koldeweij 2006 J. Koldeweij, Introuction. Dévotion Et Parure: Foi Et Bonne Fortune, in Bruges 2006, pp. 9-15 Koldeweij 2011 J. Koldeweij, Insegne del pellegrino rinvenute in Fiandra e provenienti da Roma, da Santiago e da altri santuari, “Compostella”, 32, 2011, pp. 40-49 Köster 1984 K. Köster, Mittelalterliche Pilgerzeichen, in Wallfahrt kennt keine Grenzen: Temen zu einer Ausstellung des Bayerischen Nationalmuseums und des Adalbert Stifter Vereins, München, catalogo della mostra (Monaco, Nationalmuseums und des Adalbert Stifter Vereins, 28 giugno-7 ottobre 1984), a cura di L. Kriss-Rettenbeck e G. Möhler, München 1984, pp. 203-223 Kretschmer 2009 K. Kretschmer, Els portolans de l’edat mitjana. Una contribuciò a la història de la cartografa i la nàutica, Barcelona 2009 Krüger 1951 H. Krüger, Erhard Etzlaub’s Rom weg map an dits dating in the holy year of 1500, “Imago mundi”, 8, 1951, pp. 17-26 Krueger 2010 D. Krueger, Te Religion of Relics in Late Antiquity and Byzantium, in Cleveland-Baltimora-Londra 2010, pp. 5-17 e pp. 69-78

Joubert 2002 F. Joubert, La tapisserie médiévale, Paris 2002

La Spezia 1999 La Spezia. Museo Civico Amedeo Lia. Sculture e oggetti d’arte, a cura di M. Ratti e A. Marmori, La Spezia 1999

Kedar, Stern 1995 B. Z. Kedar, E. Stern, Un nuovo sguardo sul quartiere Genovese di Acri, in Mediterraneo genovese, Storia e Architettura, atti convegno internazionale (Genova, 29 ottobre 1992), a cura di G. Airaldi e P. Stringa, Genova 1995, pp. 11-28

Labate 2011 D. Labate, Archeologia del pellegrinaggio: il rinvenimento di due tombe di pellegrini nell’Ospitale medievale di Spilamberto (MO) ed altre testimonianze di signa peregrinationis dal Modenese, “Compostella”, 31, 2011, pp. 40-45

Laclotte, Thiebaut 1983 M. Laclotte, D. Tiebaut, L’école d’Avignon, Paris 1983 Laganara, Laviano 2011 C. Laganara, R. Laviano, IV.19. La Quadrangula, in Siponto: archeologia di una città abbandonata nel Medioevo, a cura di C. Laganara, Foggia 2011, pp. 193-196 Langland - Schmidt 2011 W. Langland, Piers Plowman: A Parallel-Text Edition of the A, B, C, and Z Versions, a cura di A. V. C. Schmidt, Kalamazoo (Mic.) 2011 Langland - Skeat 1869 W. Langland, Te vision of William concerning Piers the Plowman, a cura di W. W. Skeat, London 1869 Le Goff 2010 J. Le Gof, Il Medioevo. Alle origini dell’identità europea, Roma 2010 Le Pogam 2004a P.-Y. Le Pogam, Deux cofrets à estampe des environs de 1500, l’un inédit, l’autre méconnu, in Etudes d’histoire de l’art ofertes à Jacques Tirion, a cura di A. Erlande-Brandenbourg e J. M. Leniaud, Paris 2001, pp. 105-123 Le Pogam 2004b P.-Y. Le Pogam, Entre tarot et jeux de cour. Une carte à jouer italienne, “Te playing card”, 33, 2004, 1, pp. 27-38 Le Pogam 2004c P.-Y. Le Pogam, Il Medioevo al Museo. Dal “Musée des Monuments francais” ai “Cloisters”, in Arti e storia nel Medioevo, IV, Il Medioevo al passato e al presente, a cura di E. Castelnuovo e G. Sergi, Torino 2004, pp. 759-784 Leed 2007 E. J. Leed, La mente del viaggiatore. Dall’Odissea al viaggio globale, Bologna 2007 Lena, Murialdo 2001 A. Lena, G. Murialdo, Una insegna pellegrinale a Perti - Finale Ligure (SV), “Archelogia Medievale”, XXVIII, 2001, pp. 497-503 Lenger 1991 A. Lenger, Rheinische Kunst und das Kölner Schnütgen-Museum, Köln 1991 Levi 1989 D. Levi, Mercanti, conoscitori “amateurs” nella Firenze di metà Ottocento: Spence, Cavalcaselle e Ruskin, in L’idea di Firenze, temi e interpretazioni nell’arte straniera dell’Ottocento, atti del convegno (Firenze, 17-19 dicembre 1986), a cura di M. Bossi e L. Tonini, Firenze 1989, pp. 105-116

Levi 1998a D. Levi, Appunti sulla fortuna dell’arte robbiana nell’Ottocento inglese, in I Della Robbia e l’arte nuova della scultura invetriata, catalogo della mostra (Fiesole, Basilica di Sant’Alessandro, 29 maggio-1 novembre 1998), a cura di G. Gentilini, Firenze 1998, pp. 117-130 Levi 1998b D. Levi, Ricognizioni d’arte in Toscana a metà Ottocento. La fortuna di mercato della scultura toscana del Medioevo e del Rinascimento, in Viaggio di Toscana, percorsi e motivi del secolo XIX, atti del convegno (Firenze, Kunsthistorisches Institut, Gabinetto G. P. Vieusseux, Centro Romantico, 28-29 novembre 1996), a cura di M. Bossi e M. Seidel, Venezia 1998, pp. 171-198

MacGregor 2000 N. MacGregor, Seeing Salvation. Images of Christ in Art, New Haven/London 2000 Magnotta 2009 A. Magnotta, I Cavalieri del Tau in Valdelsa, in La via Francigena in Valdelsa: storia percorsi e cultura di una strada medievale, atti del convegno (Colle di Val d’Elsa, 3 ottobre 2009 e Sant’Appiano, 24 ottobre 2009), a cura di R. Stopani e F. Vanni, Firenze 2009, pp. 191-210 Malfitano, Notari, Palazzini 2014 O. Malftano, M. Notari, C. Palazzini, Le indagini archeologiche, in La Cattedrale di Reggio Emilia, a cura di G. Cantino Wataghin e P. Prodi, Milano 2014, [s.p.]

Levi 2008 D. Levi, Il Medioevo in mostra nell’Ottocento: alcuni spunti e rifessioni, in Medioevo/Medioevi 2008, pp. 1-29

Malgouyres 2014 P. Malgouyres, Armes européennes, histoire d’une collection au musée du Louvre, Paris 2014

Levi Pisetzky 1964-1969 R. Levi Pisetzky, Storia del costume in Italia, 5 voll., Milano 1964-1969

Mann 1962 J. G. Mann, Wallace Collection catalogues. European Arms and Armour, 2 voll., London 1962

Lidov 2012 A. Lidov, A Byzantine Jerusalem. Te Imperial Pharos Chapel as the Holy Sepuchre, in Jerusalem as Narrative Space. Erzählraum Jerusalem, a cura di A. Hofmann e G. Wolf, Leiden/ Boston 2012, pp. 63-103 Limentani 1962 A. Limentani, Dal roman de Palamedes ai cantari di Febus el Forte, Bologna 1962 Lipszyc 2011 G. Lipszyc, Conditions de voyage et vision de ‘l’Autre’ à travers les récits de pèlerinage à Jérusalem aux XIVe et XVe siècles, tesi di dottorato (Universite de Bruxelles), A.a. 2010-2011 List of Objects 1870 List of Objects in the Art Division, South Kensington, Acquired During the Year 1869, Arranged According to the Dates of Acquisition, London 1870 Living Words & Luminous Pictures 1999 Living Words & Luminous Pictures. Medieval book culture in Denmark. Catalogue, a cura di E. Petersen, Copenhagen 1999 Lores 2002 I. Lores, El monestir de Sant Pere de Rodes, Bellaterra/Barcelona/Girona/Lleida 2002 Lundy 1876 J. P. Lundy, Monumental Christianity. Or Te Art and Symbolism of the Primitive Church, New York 1876 Luzi, Romagnoli 1992 R. Luzi, M. Romagnoli, Italia centrale, in Barcellona-Viterbo 1992, pp. 196-256 Lymant 1982 B. Lymant, Die Glasmalereien des Schnütgen Museums. Bestandskatalog, Köln 1982

Mannucci 1901 F. L. Mannucci, L’Anonimo genovese e la Sua raccolta di rime (sec. XIII-XIV), Genova 1901 Maracchi Biagiarelli 1982 B. Maracchi Biagiarelli, L’armadiaccio di padre Stradino, “La Biblioflia”, LXXXIV, 1982, pp. 51-57 MartÉn 1986 R. M. Martín, Fragments de teixit, in Catalunya Romànica XXII, Barcelona 1986, pp. 269-270 Matracchi 2006 P. Matracchi, Restauro e storia. Documenti sulla costruzione e sui restauri del Palazzo del Bargello, in S. Maria del Fiore 2006, pp. 175-197 Mazzocca 2002 F. Mazzocca, Fortuna visiva e interpretazioni di Dante nella cultura artistica tra la Restaurazione e il Risorgimento, in Lo studiolo del collezionista restaurato. Il Gabinetto dantesco del Museo Poldi Pezzoli, a cura di L. M. Galli Michero, Milano 2002, pp. 57-69 (Quaderni di studi e restauri; 5) Mazzocca 2004 F. Mazzocca, L’immagine del Medioevo nella pittura di storia dell’Ottocento, in Arti e Storia 2004, pp. 611-640

Meiss 1941 M. Meiss, Italian style in Catalonia and a Fourteenth Century Catalan Workshop, “Te Journal of the Walters Art Gallery”, IV, 1941, pp. 45-87

Notes 1856 Notes sur une croix de bronze trouvée en Cilicie, “Revue Archeologique”, 13, 1856, 1, pp. 56-57

Mesple 1961 P. Mesple, Les Sculptures romanes du musée des Augustins, Paris 1961

Nuet Blanch 2000-2001 M. Nuet Blanch, El salvamento de náufragos, metáfora de la penitencia en el gótico catalán, “Locus Amoenus”, 5, 2000-2001, pp. 53-65

Molà, Rosati, Wetzel 2012 L. Molà, M. L. Rosati, A. Wetzel, Dialogo tra Oriente e Occidente, in Roma 2012, pp. 116-122

Nuttall 2010 P. Nuttall, Te Bargello gamesboard: a northsouth hybrid, “Te Burlington Magazine”, 1292, 2010, CLII, pp. 716-722

Monasteri e castelli 2003 Monasteri e castelli fra X e XII secolo. Il caso di San Michele alla Verruca e le altre ricerche storico-archeologiche nella Tuscia occidentale, atti del convegno (Uliveto Terme-Pisa, 17-18 novembre 2000), a cura di R. Francovich e S. Gelichi, Firenze 2003

Oakeshott 1972 W. Oakeshott, Sigena: Romanesque Paintings in Spain and the Winchester Bible Artists, London 1972

Monciatti, Piccinini 2004 A. Monciatti, C. Piccinini, Medioevo in mostra. Note per la storia delle esposizioni d’arte medievale, in Arti e Storia 2004, pp. 811-845 Moralejo 1973 S. Moralejo, Sobre la formación del estilo escultórico de Frómista y Jaca, in Actas del congreso Internacional de Historia del Arte, Granada 1973, vol. I, pp. 427-434 Müller 1879 J. Müller, Documenti sulle relazioni delle città Toscane coll’Oriente cristiano e coi turchi fno all’anno MDXXXI, Firenze 1879 Museo di Capodimonte 2002 Museo di Capodimonte, a cura di M. Utili, Milano 2002 Museo di Storia della Scienza 1991 Museo di Storia della Scienza. Catalogo, a cura di M. Miniati, Firenze 1991 Museo Nazionale di Capodimonte 1994 Museo Nazionale di Capodimonte, a cura di N. Spinosa, Napoli 1994 Nicita Misiani 2008 P. Nicita Misiani, Un Museo del Medioevo e del Rinascimento per Roma: il dibattito e i progetti nei primi decenni del Novecento, in Tracce di pietra. La collezione dei marmi di Palazzo Venezia, a cura di M. G. Barberini, Roma 2008, pp. 61-88 Nickel 1991/1999 H. Nickel, Arms and Armor from the Permanent Collection: Te Metropolitan Museum of Art (New York 1991), ed. New York 1999

McGrail 1998 S. McGrail, Ancient Boats in Ancient NorthWest Europe. Te Archaeology of Water Transport to AD 1500, London 1998

Nicolaysen 1882 N. Nicolaysen, Te Viking-Ship discovered at Gokstad in Norway, Christiania 1882

Medioevo/Medioevi 2008 Medioevo/Medioevi. Un secolo di esposizioni d’arte medievale, a cura di E. Castelnuovo e A. Monciatti, Pisa 2008

Niemeyer Chini 2009 V. Niemeyer Chini, Stefano Bardini e Wilhelm. Mercanti e connaisseur fra Ottocento e Novecento, Firenze 2009

Oakeshott 1982 R. E. Oakeshott, A River-Find of 15th Century Swords, in Stuber, Wetter 1982, pp. 17-32 Odescalchi 1871 B. Odescalchi, I musei d’arte e d’industria in Italia: considerazioni e proposte, Roma 1871 Ohler 1988 N. Ohler, I viaggi nel Medioevo, Milano 1988 Ohler 2000 N. Ohler, I mezzi di trasporto terrestri e marittimi, in Viaggiare nel Medioevo 2000, pp. 90-120 Ousterhout 2012 R. Ousterhout, Te Memory of Jerusalem. Text, Architecture, and the Craft of Tought, in Jerusalem as Narrative Space. Erzählraum Jerusalem, a cura di A. Hofmann e G. Wolf, Leiden/Boston 2012, pp. 139-154 Pácht 1961 O. Pächt, A Cycle of English Frescoes in Spain, “Te Burlington Magazine”, CIII, 1961, pp. 166-175 Palazzo 2008 É. Palazzo, L’espace rituel et sacré dans le christianisme. La liturgie de l’autel portatif dans l’Antiquité et au Moyen Âge, Turnhout 2008 Paloscia 1999 F. Paloscia, Viaggi e pellegrinaggi nell’età medievale, in La società dei viaggiatori. Viaggi e turismo dall’antichità al ventesimo secolo, a cura di F. Paloscia, Milano 1999, pp. 85-142 Paolini 2000 C. Paolini, Oggetti come specchio dell’anima: per una rilettura dell’artigianato artistico forentino nelle dimore degli anglo-americani, in Gli anglo-americani a Firenze. Idea e costruzione del Rinascimento, atti del convegno (Fiesole, Georgetown University, Villa “Le Balze”, 1920 giugno 1997), a cura di M. Fantoni, Roma 2000, pp. 143-163 Paolozzi Strozzi 2004 B. Paolozzi Strozzi, La storia del Bargello, in La storia del Bargello 2004, pp. 11-77

Bibliografa | 235

Paolozzi Strozzi 2012 B. Paolozzi Strozzi, Il Bargello e l’Opera di Santa Maria del Fiore fra le due guerre. Proposte, rifessioni e scambi tra musei in formazione, in E l’informe infne si fa forma... Studi intorno a Santa Maria del Fiore in ricordo di Patrizio Osticesi, a cura di L. Fabbri e A. Giusti, Firenze 2012, pp. 234-243 Paolucci 2008 A. Paolucci, Corrado Ricci a Firenze, in La cura del bello. Musei storie, paesaggi per Corrado Ricci, catalogo della mostra (Ravenna, Loggetta Lombardesca, 9 marzo-22 giugno 2008), a cura di A. Emiliani e C. Spadoni, Milano 2008, pp. 224-235 Passerini 1858 L. Passerini Orsini de’ Rilli, Del Pretorio di Firenze, Firenze 1858 Passerini 1865 Del Pretorio di Firenze. Lezione accademica detta nella tornata della Società Colombaria l’11 luglio 1858 da Luigi Passerini, seconda edizione rivista e corredata di aggiunte dall’autore, Firenze 1865 Pauthier Moghaddassi 2010 F. Pauthier Moghaddassi, Géographies du monde, géographies de l’âme: le voyage dans la littérature anglaise de la fn du Moyen Âge, Paris 2010 Pèlerinages 2000 Les pèlerinages à travers l’art et la société à l’époque romane. Les Cahiers de Saint-Michel de Cuxa, “Les Cahiers de Saint-Michel de Cuxa”, 31, 2000 Perrot 1977 F. Perrot, Le vitrail de saint Christophe au musée de Cluny, “Kölner Berichte zur Kunstgeschichte”, 1977, pp. 103-105 Pibiri 2011 E. Pibiri, En voyage pour Monseigneur. Ambassadeurs, ofciers et messagers a la cour de Savoie (XIVe-XVe siècles), Lausanne 2011 Piàuer 1968 J. J. Piquer i Jover, El senyoriu de Verdú; introducció per a l’estudi del règim jurisdiccional que els abats de Poblet exerciren sobre la vila, Tarragona 1968 Podestà 1913/1969 F. Podestà, Il porto di Genova. Dalle origini fno alla caduta della Repubblica genovese (1797) (Genova 1913), ristampa anastatica Genova 1969 Polo 1298 - Bertolucci Pizzorusso 1975 M. Polo, Milione: versione toscana del Trecento; edizione critica a cura di Valeria Bertolucci Pizzorusso; indice ragionato di Giorgio R. Cardona, Milano 1975 Porciani 1988 I. Porciani, Il medioevo nella costruzione dell’Italia unita: la proposta di un mito, in Il Medioevo nell’Ottocento in Italia e Germania, atti della settimana di studio (Trento, 16-20 novembre 1985), a cura di R. Elze e P. Schiera, Bologna 1988, pp. 163-191

236 | Bibliografa

Post 1930-1960 C. R. Post, A History of Spanish Painting, 14 voll., Cambridge (Mass.) 1930-1960

Littoral-Côte d’Opale (Boulogne-sur-Mer, 4-6 settembre 1997), a cura di E. Bozoky e A. M. Helvetius, Turnhout 1999

Prud’homme 2012 C. Prud’homme, Le discours sur le voyage chez les écrivains de la fn du Moyen Âge, Paris 2012

Reudenbach 2008 B. Reudenbach, Loca sancta. Zur materielien Übertragung der heiligen Stätten, “Vestigia bibliae; Jahrbuch des Deutschen Bibel-Archivs Hamburg”, XXVIII, 2008, pp. 9-32

Ptolemaeus ed. 2004 C. Ptolemaeus, Ptolomei cosmographia, Firenze 2004 (Riproduzione facsimilare dal manoscritto conservato presso la Biblioteca nazionale centrale di Firenze) Puig 1998 I. Puig, Los Ferrer, una familia de pintores leridanos vinculados con la Seu Vella de Lleida, in La pintura gòtica dels Ferrer i altres aspectes (in)coneguts al voltant de la Seu Vella de Lleida s. XIII-XVIII, a cura di X. Company e I. Puig, Lleida 1998, pp. 78-96 Puig 2004 I. Puig, Documents per a la història de l’art de l’església parroquial  de  Santa Maria  deVerdú, Tàrrega 2004, pp. 84-103 Puig 2005a I. Puig, Jaume Ferrer II. Pintor de la Paeria de Lleida, Lleida 2005 Puig 2005b I. Puig, Jaume Ferrer II, in L’art gòtic a Catalunya, a cura di A. Pladevall i Font, vol. 2: El corrent internacional, Barcelona 2005, pp. 307-309 Pujades i Bataller 2007 R. J. Pujades i Bataller, Les cartes portulanes. La representació medieval d’una mar solcada, Barcelona 2007 Pujol i Tubau 1947-1951 P. Pujol i Tubau, El reliquiari de Tost, in Miscel·lània Puig i Cadafalch: recull d’estudis d’Arqueològia, d’història de l’art I història oferts a Josep Puig I Cadafalch, Barcelona 19471951, vol. I, pp. 345-348 Pullan 2013 W. Pullan, Tracking the Habitual: Observations on the Pilgrim’s Shell, in Architecture and Pilgrimage 2013, pp. 59-85 Quattrocchi 2001 G. Quattrocchi, Novità da Priverno, “ARCHEO. Attualità del passato”, 198, 2001, p. 14 Racheli 1980 A. M. Racheli, Le sistemazioni urbanistiche di Roma per l’Esposizione internazionale del 1911, in Roma 1911, catalogo della mostra (Roma, Galleria Nazionale d’Arte Moderna, 4 giugno-15 luglio 1980), a cura di G. Piantoni, Roma 1980, pp. 229-264 Recht 1998 R. Recht, La circulation des artistes, des œuvres, des modèles dans l’Europe médiévale, “Revue de l’art”, 120, 1998, 2, pp. 5-10. Les reliques 1999 Les reliques. Objets, cultes, symboles, atti del convegno internazionale dell’Universite du

Riccio, Luzi 2010 F. Riccio, R. Luzi, Museo della Ceramica della Tuscia, Viterbo 2010 Rieth 2013 É. Rieth, L’épave de la première moitié du xve siècle de la Canche à Beutin (Pas-de-Calais), “Revue du Nord”, 20, 2013 Rigaux 1996 D. Rigaux, Une image pour la route. L’iconagraphie de saint Christophe dans les régions alpines (XIIe-XVe siècle), in Voyages et voyageurs au Moyen Age. Actes des congrès de la Société des historiens médiévistes de l’enseignement supérieur public, atti del covegno (Aubazine, maggio 1995), Paris 1996, pp. 235-266 Robinson 1862 J. C. Robinson, Italian Sculpture of the Middle Ages and period of the Revival of Art. A descriptive catalogue of the works forming the above section of the museum, with additional illustrative notices, London 1862 Rodolfo 1999 A. Rodolfo, Signa super vestes, in Roma 1999, pp. 151-156 Romano 1998 G. Romano, Storie dell’arte. Toesca, Longhi, Wittkower, Previtali, Roma 1998 Rombai 1993 L. Rombai, La nascita e lo sviluppo della cartografa a Firenze e nella Toscana granducale, in Imago et descriptio Tusciae. La Toscana nella geocartografa dal XV al XIX secolo, a cura di L. Rombai, Venezia 1993, pp. 83-159 Rontomé 2006 E. Rontome, El vidrio andalusí, in Vidrio islámico en al-Andalus, catalogo della mostra (Segovia, Real Fábrica de Cristales de La Granja, Fundación Centro Nacional del Vidrio, 3 novembre 2006-22 aprile 2007), a cura di E. Rontome Notario e T. Carreras i Rossell, Madrid 2006, pp. 37-45 Rose 1930 W. Rose, Behördliche Beschau Sarwürcher- und Eigentümer-Marken auf okzidentalischer Maschenpanzer, “Zeitschrift fur historische Waffen und Kostumkunde“, 3, 1930, 5, pp. 99-104 Roselli, Fantozzi Micali, Ragoni 1985 P. Roselli, O. Fantozzi Micali, B. Ragoni et al., Nascita di una Capitale. Firenze, settembre 1864 / giugno 1865, Firenze 1985 Rosenfeld 1937 H. F. Rosenfeld, Der hl. Christophorus, Seine Verehrung und seine Legende. Eine Untersuchung zur Kultgeographie und Legendenbildung des Mittelalters, Leipzig 1937

Rossi 1889a U. Rossi, La collezione Carrand nel Museo Nazionale di Firenze, “Archivio Storico dell’Arte”, 2, 1889, I, pp. 10-23 Rossi 1889b U. Rossi, La collezione Carrand nel Museo Nazionale di Firenze, “Archivio Storico dell’Arte”, 2, 1889, V-VI, pp. 215-228 Rossi 1890 U. Rossi, La collezione Carrand nel Museo Nazionale di Firenze, “Archivio Storico dell’Arte”, 3, 1890, I, pp. 24-34 Rossi 1893 U. Rossi, Il Museo Nazionale di Firenze nel triennio 1889-1891, “Archivio Storico dell’Arte”, 6, 1893, 1, pp. 1-24 Rovere 2009 A. Rovere, Sedi di governo, sedi di cancelleria e archivi comunali a Genova nei secoli XII e XIII, in Spazi per la memoria storica, atti convegno (Genova, 7-10 giugno 2004), a cura di A. Assin e P. Caroli, Genova 2009, pp. 409-426 Rovereto 1896 G. Rovereto, Alcune note sul porto di Genova, “Atti della Società Ligustica di Scienze naturali e geografche”, VII, 1896, pp. 201-219 Salazaro 1878 D. Salazaro, Sulla necessità d’istituire in Italia Musei Industriali Artistici con le scuole di applicazioni. Pensieri e proposte, Napoli 1878 Sanpere i Miàuel 1906 S. Sanpere i Miquel, Los cuatrocentistas catalanes. Historia de la pintura en Cataluña en el siglo XV, Barcelona 1906 S. Maria del Fiore 2006 S. Maria del Fiore. Teorie e storie dell’archeologia e del restauro nella città delle fabbriche arnolfane, a cura di G. Rocchi Coopmans de Yoldi, Firenze 2006 Scalini 1996 M. Scalini, L’armeria Trapp di Castel Coira, 2 voll., Udine 1996 Schiaparelli 1908 A. Schiaparelli, La casa forentina e i suoi arredi nei secoli XIV e XV, Firenze 1908 Schlosser 1894 J. von Schlosser, Elfenbeinsättel des ausgehenden Mittelalters, “Jahrbuch der Kunsthistorischen Sammlungen des allerhöchsten Kaiserhauses”, 15, 1894, pp. 260-294 Schneider 2000 J. Schneider, Eine thronende Madonna aus dem Clarenaltar im Kölner Dom, “Kölner Domblatt”, 65, 2000, pp. 113-124 Sciolla 1984 G. C. Sciolla, La scuola di Vienna e la critica d’arte in Italia agli inizi del XX secolo, in Akten des XXV. Internationalen kongresses für kunstgeschichte. Band 1 Sektion 1. Wien und die entwicklung der kunsthistorischen methode, atti del convegno (Vienna, 4-10 settembre 1983), a cura di L. D. Ettlinger, Wien/Köln/Graz 1984, pp. 65-81

Sciolla 1995 G. C. Sciolla, La critica d’arte del Novecento, Torino 1995 Sciolla, Varallo 1999 L’“Archivio Storico dell’Arte” e le origini della “Kunstwissenschaft” in Italia, a cura di G. C. Sciolla e F. Varallo, Alessandria 2009 Seidel 2003 M. Seidel, Il Renaissance-museum di Belino. Wilhelm Bode “allievo” di Jacob Burckhardt, in Arte italiana del Medioevo e del Rinascimento, vol. 2: Architettura e Scultura, a cura di M. Seidel, Venezia 2003, pp. 821-862 Senatore 2000 F. Senatore, I diplomatici e gli ambasciatori, in Viaggiare nel Medioevo 2000, pp. 267-285 Sigilli 1988 Sigilli del Museo Nazionale del Bargello, vol 3: Sigilli ecclesiastici, a cura di A. Muzzi, B. Tomasello e A. Tori, Firenze 1988 Sigilli 1990 Sigilli del Museo Nazionale del Bargello, vol. 3: Sigilli civili, a cura di A. Muzzi, B. Tomasello e A. Tori,. Firenze 1990 Smith 2014 M. J Smith, Te Medieval Girdle book: a constant companion, in Care and conservation of manuscripts 14, atti del XIV seminario internazionale (Copenhagen, University of Copenhagen, 17-19 ottobre 2012), a cura di M. J. Driscoll, Copenhagen 2014, pp. 195-212 Smith, Bloxam 2005 M. J. Smith, J. Bloxam. Te Medieval Girdle Book Project, “Te International Journal of the Book”, 3, 2005, 4, pp. 15-24 Sporbeck 1996 G. Sporbeck, Textile Kunst aus tausend Jahren, Köln 1996 La Storia del Bargello 2004 La Storia del Bargello. 100 capolavori da scoprire, a cura di B. Paolozzi Strozzi, Cinisello Balsamo (MI) 2004 Strano 2010 G. Strano, L’astronomia e il tempo, in Museo Galileo. Guida ai tesori della collezione, a cura di F. Camerota, Firenze 2010, pp. 16-21 Strocchi 2005 M. L. Strocchi, La compagnia della Ninna. Corrado Ricci e Firenze 1903-1906. Personaggi opere istituzioni, Firenze 2005 Stuber, Wetter 1982 K. Stuber, H. Wetter, Blankwafen, Stäfa 1982 Sumption 2003 J. Sumption, Te Age of Pilgrimage: Te Medieval Journey to God, Mahwah 2003 Supino 1898 I. B. Supino, Catalogo del R. Museo Nazionale di Firenze, Roma 1898

Sureda 2010 M. Sureda Jubany, Las reliquias del altar. Colección de lipsanotecas del Museu Episcopal de Vic,”De reliquiis, Feuillets de la Cathedrale de Liège”, 102-112, 2010, pp. 47-62 Szirmai 1999 J. A. Szirmai, Te archaeology of medieval bookbinding, Aldershot 1999 Taburet-Delahaye 1989 E. Taburet-Delahaye, L’Orfèvrerie gothique au musée de Cluny, Paris 1989 Taburet-Delahaye 2009 E. Taburet-Delahaye, Musée de Cluny, musée national du Moyen Âge. Le guide, Paris 2009 Tangheroni 1998 M. Tangheroni, Firenze centro culturale ed economico nel tardo Medioevo, in Arti forentine. La grande storia dell’artigianato, vol I: Il Medioevo, a cura di F. Cardini, Firenze 1998, pp. 29-55 Tangheroni 2012 E. Tangheroni, Sotto il segno del Tau: il centro ospedaliero di Altopascio: storia e funzioni, in La Via Francigena: società e territorio nel cuore della Toscana medievale, a cura di R. Cecchetti, Pisa 2012, pp. 205-255

Gli Uomini Illustri 2001 Gli Uomini Illustri del Loggiato degli Ufzi. Storia e restauro, a cura di M. Scuderi, Firenze 2001 Uzielli, Amat di San Filippo 1882 G. Uzielli, P. Amat di San Filippo, Mappamondi, carte nautiche, portolani ed altri monumenti cartografci specialmente italiani dei secoli XIII-XVII, Roma 1882 Vanni 1995 F. M. Vanni, Il segno dei mercanti, tessere mercantili medievali del Museo Statale d’Arte Medievale e Moderna di Arezzo, Firenze 1995 Velasco, Ros, Vilarrúbias 2011 A. Velasco, E. Ros, D. Vilarrúbias, Una botella de producción persa (s. IX-X) reutilizada como lipsanoteca en la iglesia de Santa Maria de Cap d’Aran (Val d’Aran, España), “Journal Of Glass Studies”, 53, 2011, pp. 243-246 Venturoli, Bertolotto, Cervini 2001 P. Venturoli, C. Bertolotto, F. Cervini et al., L’Armeria reale di Torino. Guida breve, Torino 2001 Viaggi e viaggiatori 2008 Viaggi e viaggiatori nel Medioevo, a cura di F. Novoa Portela e F. J. Villalba Ruiz de Toledo, Milano 2008

Tega 2007 W. Tega, Il viaggio. Mito e scienza, Bologna 2007

Viaggiare nel Medioevo 2000 Viaggiare nel Medioevo, a cura di S. Gensini, Roma 2000

Tessuti, orefcerie 1999 Tessuti, orefcerie, miniature in Liguria: XIIIXV secolo, atti del convegno (Genova-Bordighera, 22-25 maggio 1997), a cura di A. R. Calderoni Masetti, C. Di Fabio e M. Marcenaro, Bordighera (IM) 1999

Viajar en la Edad Media 1994 Viajar en la Edad Media. IV Semana de estudios medievales de Nájera, a cura di J. I. De La Iglesia, Logroño 1994

Thirion 1999 J. Tirion, Le mobilier du Moyen Âge et de la Renaissance en France, Dijon 1999 Titi 1751 P. Titi, Guida per il passeggiere dilettante di pittura, scultura ed architettura nella città di Pisa, Lucca 1751 Tomasi 2003 M. Tomasi, Miti antichi e riti nuziali: sull’iconografa e la funzione dei cofanetti degli Embriachi, “Iconographica”, 2, 2003, pp. 126-145 Tomba 1994 T. Tomba, Poesia e scienza delle stelle nel Medioevo inglese: un astrolabio della ‘Tradizione Chaucer’, “FIMAntiquari. Arte viva. Pubblicazione della Federazione italiana mercanti d’arte”, 3 1994, 5, pp. 46-53 Trullén 2003 J. M. Trullen, Museu Episcopal de Vic. Guia de les colleccions, Vic 2003 Tucci 2000 U. Tucci, Gli itinerari marittimi nel tardo Medioevo, in Viaggiare nel Medioevo 2000, pp. 39-57

Viajar en la Edad Media 2009 Viajar en la Edad Media. XIX Semana de estudios medievales de Nájera, a cura di J. I. De La Iglesia, Logroño 2009 Vidal 2007 J. Vidal, El centro de producción de tapices de Tortosa (ca. 1425-1493/1513), “Ars Longa”, 16, 2007, pp. 23-38 Le vie del Medioevo 2000 Le vie del Medioevo, atti del convegno (Parma, 28 settembre-1 ottobre 1998), a cura di A. C. Quintavalle, Milano 2000 Vikan 2010 G. Vikan, Early Byzantine Pilgrimage Art, Washington 2010 Villoresi 2000 M. Villoresi, La letteratura cavalleresca: dai cicli medievali all’Ariosto, Roma 2000 Volbach 1976 W. F. Volbach, Elfenbeinskulpturen der Spätantike und des frühen Mittelalters, Mainz 1976 Von Wilkens 1982 L. Von Wilkens, Zur kunstgeschichtlichen Einordnung des Reliquienbeutels, “Jahrbuch der Bayerischen Denkmalpäege. Forschungen und Berichte”, XXXIV, 1982, pp. 85-88

Voyages 1996 Voyages et voyageurs au Moyen Âge. Actes des congrès de la Société des historiens médiévistes de l’enseignement supérieur public, atti del convegno (Limoges, Aubazine, maggio 1995), Paris 1996 Wade Labarge 1982/2005 M. Wade Labarge, Medieval Travellers. Te rich and restless (London 1982), ed. London 2005 Weber 1972 R. E. J. Weber, La boîte de messager en tant que signe distinctif du message à pied, Haarlem 1972 Weitzmann 1974 K. Weitzmann, Loca Sancta and the Representational Arts of Palestine, “Dumbarton Oaks Papers”, XXVIII, 1974, pp. 31-55 Wentkowska 2000 A. Wentkowska, Alcune insegne di pellegrinaggio dall’area grossetana, “Archeologia Medievale”, XXVII, 2000, pp. 423-432 Westerdahl 1992 C. Westerdahl, Te Maritime Cultural Landscape, “Te International Journal of Nautical Archaeology”, 21,1992, 1, pp. 5-14 Westerdahl 1995 C. Westerdahl, Traditional zones of transport geography in relation to shiptypes, in Shipshape. Essays for Ole Crumlin-Pedersen, a cura di O. Olsen, J. Skamby-Madsen Jan e F. Rieck, Roskilde 1995, pp. 213-230 Whitehouse 2010 D. Whitehouse, Islamic Glass in Te Corning Museum of Glass, vol. 1: Objects with scratchengraved and wheel-cut ornament, Corning 2010 Widder 2000 E. Widder, I viaggi di imperatori, principi e sovrani nel tardo Medioevo, in Viaggiare nel Medioevo 2000, pp. 163-194 Wilcox 1999 C. Wilcox, Bags, London 1999 Willberg 1998 A. Willberg, Goldschmiede-Kunst des Mittelalters. Meisterwerke im Schnütgen-Museum Köln, Köln 1998 Wulff 1911 O. Wulf, Altchristliche und mittelalterlichbyzantinische und italienische Bildwerke, vol. 2: Mittelalterliche Bildwerke, Berlin 1911 Yarza Luaces 2001 J. Yarza Luaces, Bassa e il Maestro dell’Incoronazione di Bellpuig, “Notizie da Palazzo Albani”, XXII-XXIX, 1993-2000 (2001), pp. 37-40 Ylla-Català 1992 G. Ylla-Català, Lipsanoteca de Tost, in Catalunya Romànica VI, Barcelona 1992, p. 295 Yriarte 1886 C. Yriarte, Matteo Civitali, sa vie et son œuvre par Charles Yriarte, Paris 1886

Bibliografa | 237

MOSTRE Amsterdam 1974 Vitraux de France. Franse kerkramen, catalogo della mostra (Amsterdam, Rijksmuseum, 15 dicembre 1973-17 marzo 1974), a cura di F. Perrot, Amsterdam 1974

Brescia 2001 “Bottega degli Embriachi”. Cofanetti e cassettine tra Gotico e Rinascimento, catalogo della mostra (Brixiantiquaria, Quartiere Fieristico EIB, 17-25 novembre 2001), a cura di L. Martini, Brescia 2001

Atene 2014 Trésor du musée de Cluny au musée byzantin, catalogo della mostra (Atene, Museo bizantino e cristiano, 2014), Athina 2014

Bruges 2002 Les marchands de la Hanse et la Banque des Médicis. Bruges, marché d’échanges culturels en Europe, catalogo della mostra (Bruges, 2002), a cura di A. Vandewalle, Oostkamp 2002

Augusta-Füssen 2010 Bayern-Italien, catalogo della mostra (Augusta, Maximilianmuseum, 21 maggio-10 ottobre 2010; Füssen, Kloster Sankt Mang Füssen, 21 maggio-10 ottobre 2010), a cura di W. Wüst, Augsburg 2010

Bruges 2006 Foi et bonne fortune. Parure et dévotion en Flandre médiévale, catalogo della mostra (Bruges, Musee Gruuthuse, 2 settembre 2006-4 febbraio 2007), a cura di A. M. Koldeweij, Arnhem 2006

Avignone 1997 Histoires tissées, catalogo della mostra (Avignone, Palais des Papes, Musee du Petit Palais, 14 giugno-28 settembre 1997), a cura di S. Lagabrielle, Avignon 1997

Budapest-Lussemburgo 2006 Sigismundus Rex et Imperator. Art et culture au temps de Sigismond de Luxembourg 13871437, catalogo della mostra (Budapest, Szepmuveszeti Muzeum, 18 marzo-18 giugno 2006; Lussemburgo, Musee national d’Histoire et d’Art, 13 luglio-15 ottobre 2006), a cura di I. Takács et. al., Mainz am Rhein 2006

Bamberg 2002 Kaiser Heinrich II. 1002-1024, catalogo della mostra (Bamberg, Diözesanmuseum, 9 luglio-20 ottobre 2002), Stuttgart 2002 Barcellona 1985 Tesaurus. L’art als bisbats de Catalunya 1000/1800. Estudis, catalogo della mostra (Barcellona, Fundació “la Caixa”, 4 dicembre 1985-2 marzo 1986), Barcelona 1985 Barcellona 1986 Tesaurus. L’art als bisbats de Catalunya 1000/1800. Estudis, catalogo della mostra (Barcelona, Fundació Caixa de Pensions, 24 dicembre 1985-2 marzo 1986), a cura di J. M. Martì Bonet, M. T. Carne et al., Barcelona 1986 Barcellona 2012 Catalunya 1400. El Gòtic Internacional, catalogo della mostra (Barcellona, Museu Nacional d’Art de Catalunya, 29 marzo-15 luglio 2012), a cura di R. Cornudella, Barcelona 2012 Barcelona 2013 Del Más Allá al Nuevo Mundo. Los viajes medievales y las Capitulaciones de Colón en el Archivo de la Corona de Aragón, catalogo della mostra (Barcellona, Archivo de la Corona de Aragón, giugno-dicembre 2013), Barcelona 2013 Barcellona-Viterbo 1992 Mediterraneum. Ceramica medievale in Spagna e Italia, catalogo della mostra (Barcellona; Viterbo, 1992), Viterbo 1992 Bari 2006 San Nicola: splendori d’arte d’Oriente e d’Occidente, catalogo della mostra (Bari, Castello Svevo, 7 dicembre 2006-6 maggio 2007), a cura di M. Bacci, Milano 2006

238 | Bibliografa

Castelló 2007 Cofres de Amor, catalogo della mostra (Castelló, Museu de Belles Arts, 19 aprile-15 luglio 2007), a cura di L. de Sanjose, Castelló de la Plana 2007 Cleveland-Baltimora-Londra 2010 Treasures of Heaven. Saints, Relics, and Devotion in Medieval Europe, catalogo della mostra (Cleveland, Te Cleveland Museum of Art, 17 ottobre 2010-17 gennaio 2011; Baltimora, Te Walters Art Museum, 13 febbraio-15 maggio 2011; Londra, Te British Museum, 23 giugno-9 ottobre 2011), a cura di M. Bagnoli et al., New Haven/London 2010 Colonia 1974 Vor Stefan Lochner. Die Kölner Maler von 1300 bis 1430, catalogo della mostra (Colonia, Wallraf-Richartz-Museum, 29 marzo-7 luglio 1974), a cura di S. Lochner, Köln 1974 Digione-Cleveland 2004 L’art à la cour de Bourgogne. Le mécénat de Philippe le Hardi et de Jean sans Peur (13641419). Les Princes des feurs de lis, catalogo della mostra (Digione, Musee des BeauxArts, 28 maggio-15 settembre 2004; Cleveland, Te Cleveland Museum of Art, 24 ottobre 2004-9 gennaio 2005), Paris 2004 Firenze 1877 Esposizione di arte antica nel refettorio dell’exconvento di S. Croce e nel cappellone dei Pazzi in Firenze. Cataloghi degli arazzi, dei disegni e degli altri oggetti di arte antica, catalogo della mostra (Firenze, ex-convento di S. Croce e cappellone dei Pazzi, 1877), Firenze 1880 Firenze 1957 Mostra di codici romanzi delle biblioteche forentine, catalogo della mostra (Firenze, 1957), Firenze 1957

Firenze 1971 Mostra delle armi storiche restaurate dall’aiuto austriaco dopo l’alluvione, catalogo della mostra (Firenze, Forte Belvedere, 1971), a cura di L. G. Boccia e B. Tomas, Firenze 1971 Firenze 1985 Dal ritratto di Dante alla Mostra del Medio Evo 1840-1865, catalogo della mostra (Firenze, Museo Nazionale del Bargello, 1985), a cura di P. Barocchi e G. Gaeta Bertelà, Firenze 1985 Firenze 1989 Arti del Medio Evo e del Rinascimento. Omaggio ai Carrand, 1889-1989, catalogo della mostra (Firenze, Museo Nazionale del Bargello, 20 marzo-25 giugno 1989), Firenze 1989 Firenze 2003 Paladini di carta: la cavalleria fgurata, catalogo della mostra (Firenze, Biblioteca Riccardiana, 8 maggio-8 agosto 2003), a cura di G. Lazzi, Firenze 2003 Firenze 2008 I Medici e le scienze. Strumenti e macchine nelle collezioni granducali, catalogo della mostra (Firenze, Museo degli Argenti, 15 maggio 2008-11 gennaio 2009), a cura di F. Camerota e M. Miniati, Firenze 2008 Firenze 2009 Palazzo Davanzati tra realtà e sogno. Federigo e la bottega degli Angeli, catalogo della mostra (Firenze, Palazzo Davanzati, 23 ottobre 2009-17 gennaio 2010), a cura di R. C. Proto Pisani e F. Baldry, Livorno 2009 Firenze 2010 Il metodo e il talento. Igino Benvenuto Supino primo Direttore del Bargello (1896-1906), catalogo della mostra (Firenze, Museo Nazionale del Bargello, 5 marzo-8 giugno 2010), a cura di B. Paolozzi Strozzi e S. Balloni, Firenze 2010 Firenze 2011a Dante vittorioso. Il mito di Dante nell’Ottocento, catalogo della mostra (Firenze, Biblioteca Nazionale Centrale, 31 maggio-31 luglio 2011), a cura di E. Querci, Torino 2011 Firenze 2011b Denaro e Bellezza. I banchieri, Botticelli e il rogo delle vanità, catalogo della mostra (Firenze, Palazzo Strozzi, 17 settembre 2011-22 gennaio 2012), a cura di L. Sebregondi e T. Parks, Firenze 2011 Firenze 2011c Le stanze dei Tesori. Collezionisti e antiquari a Firenze tra Ottocento e Novecento, catalogo della mostra (Firenze, Palazzo Medici Riccardi, 3 ottobre 2011-15 aprile 2012), a cura di L. Mannini, Firenze 2011 Firenze 2012 Le vie delle lettere. La Tipografa Medicea tra Roma e l’Oriente, catalogo della mostra (Firenze, Biblioteca Medicea Laurenziana, 26 ottobre 2012-22 giugno 2013), a cura di S. Fani e M. Farina, Firenze 2012

Firenze 2013 Mattia Corvino e Firenze. Arte e umanesimo alla corte di Ungheria, catalogo della mostra (Firenze, Museo di S. Marco, Biblioteca di Michelozzo, 10 ottobre 2013-6 gennaio 2014), a cura di P. Farbaky, D. Pócs, M. Scudieri et al., Firenze 2013 Göteborg 2010 And there was light. Te masters of the Renaissance, catalogo della mostra (Göteborg, Eriksbergshallen, 20 marzo-15 agosto 2010), a cura di F. Buranelli, Roma 2010 Karlsruhe 2001 Große Landesausstellung: Spätmittelalter am Oberrhein. Alltag, Handwerk und Handel. 1350-1525, catalogo della mostra (Karlsruhe, Badisches Landesmuseum, 29 settembre 2001-3 febbraio 2002), a cura di B. Herrbach-Schmidt, C. Itzel e D. Schumacher et al., Stuttgart 2001 Londra 1863 Catalogue of the Special Exhibition of Works of Art of the Medieval, Renaissance, and More Recent Periods, on Loan at the Kensington Museum, catalogo della mostra, (Londra, South Kensington Museum, giugno 1862), a cura di J. C. Robinson, London 1863 Londra 1984 Te Golden Age of Anglo-Saxon Art, 9661066, catalogo della mostra (Londra, British Museum, British Library, 1984), a cura di J. Backhouse, D. H. Turner e L. Webster, London 1984. Lucca 2010 Lucca e l’Europa. Un’idea di Medioevo, V-XI secolo, catalogo della mostra (Lucca, Fondazione Ragghianti, 25 settembre 2010-9 gennaio 2011), a cura di C. Baracchini e C. Balbarini, Lucca 2010 Madrid-Valencia 2001 El Renacimiento Mediterráneo. Viajes de artistas e itinerarios de obras entre Italia, Francia y España en el siglo XV, catalogo della mostra (Madrid, Museo Tyssen-Bornemisza, 31 gennaio-6 maggio; Valencia, Museo de Bellas Artes, 18 maggio-2 settembre 2001), a cura di M. Natale, Madrid 2001 Mannheim 2010 Die Staufer und Italien, catalogo della mostra (Mannheim, Reiss-Engelhorn-Museen, 17 settembre 2010-20 febbraio 2011), a cura di A. Wieczorek. B. Schneidmüller e S. Weinfurter, 2 voll., Darmstadt 2010 Mantova 2008 Matilde di Canossa, il Papato, l’Impero, il papato, l’impero. Storia, arte, cultura alle origini del romanico, catalogo della mostra (Mantova, Museo Casa del Mantegna, 31 agosto 200811 gennaio 2009), a cura di R. Salvarini e L. Castelfranchi Vegas, Cinisello Balsamo (MI) 2008 Mechelen 2005 Women of distinction. Margaret of York Margaret of Austria, catalogo della mostra (Mechelen, Lamot 17 settembre-18 dicembre 2005), a cura di D. Eichberger, Davidsfonds 2005

Milano 1993 Milano e la Lombardia in età comunale: secoli XI-XIII, catalogo della mostra (Milano, Palazzo Reale, 15 aprile-11 luglio 1993), a cura di E. A. Arslan, Cinisello Balsamo (MI) 1993 Milano 2001 Segni e sogni della terra. Il disegno del mondo dal mito di Atlante alla geografa delle reti, catalogo della mostra (Milano, Civico Museo d’Arte Contemporanea, 2001), a cura di P. Barber e C. Pirovano, Novara 2001 Murcia 2009 Alfonso X el Sabio, catalogo della mostra (Murcia, Sala San Esteban, 27 ottobre 200931 genniao 2010), Murcia 2009 New York 1975 Te Secular Spirit. Life and Art at the End of the Middle Ages, catalogo della mostra (New York, Metropolitan Museum of Art, 26 marzo-3 giugno 1975), New York 1975 Nogent-le-Rotrou 2004 Le Roman des Nogentais. Des origines à la guerre de Cent Ans, catalogo della mostra (Nogent-le-Rotrou, Musee château SaintJean, 20 maggio-20 settembre 2004), a cura di F. Lecuyer-Champagne, Nogent-le-Rotrou 2004 Paderborn 2009 Für Königtum und Himmelreich : 1000 Jahre Bischof Meinwerk von Paderborn, catalogo della mostra (Paderborn, Museum in der Kaiserpfalz & Erzbischöäichen Diözesanmuseum, 23 ottobre 2009-21 febbraio 2010), a cura di C. Stiegemann e M. Kroker, Regensburg 2009 Parigi 1970 La France de saint Louis, catalogo della mostra (Parigi, Salle des gens d’armes du Palais, ottobre 1970-gennaio 1970), a cura di J. O. Babelon, Paris 1970 Parigi 1981 Le Fastes du gothique. Le siècle de Charles V, catalogo della mostra (Parigi, Galeries Nationales d’Exposition du Grand Palais, 9 ottobre 1981-1 febbraio 1982), a cura di D. Alcoufe, Paris 1981 Parigi 1998 L’Art au temps des rois maudits. Philippe le Bel et ses fls, 1285-1328, catalogo della mostra (Parigi, Galeries Nationales du Grand Palais, 17 marzo-29 giugno 1998), a cura di D. Gaborit Chopin, Paris 1998 Parigi 2001 Le trésor de la Sainte-Chapelle, catalogo della mostra (Parigi, Musee du Louvre, 31 maggio-27 agosto 2001), a cura di J. Durand e M.-P. Laète, Paris 2001 Parigi 2002 Sur la terre comme au ciel. Jardins d’Occident à la fn du Moyen Age, catalogo della mostra (Parigi, Musee de Cluny, Musee National du Moyen Age, 6 giugno-16 settembre 2002), a cura di E. Antoine, Paris 2002

Parigi 2003 Porphyre. La pierre pourpre des Ptolémées aux Bonaparte, catalogo della mostra (Parigi, Musee du Louvre, 17 novembre 2003-16 febbraio 2004), a cura di P. Malgouyres e C. Blanc-Riehl, Paris 2003 Parigi 2004 Le  cas  du  sac. histoires d’une utopie portative, catalogo della mostra (Parigi, Musee de la Mode et du Textile, 6 ottobre 2004-20 febbraio 2005), a cura F. Chenoune, Paris 2004 Parigi 2005 La France romane au temps des premiers Capétiens (987-1152), catalogo della mostra (Parigi, Musee du Louvre, 10 marzo-6 giugno 2005), a cura di D. Gaborit-Chopin, Paris 2005 Parigi 2006 Œuvres nouvelles, 1995-2005. Termes et hôtel de Cluny, musée national du Moyen Age, catalogo della mostra (Parigi, Musee de Cluny, Musee National du Moyen Age, 10 maggio-25 settembre 2006), a cura di E. Taburet, Paris 2006 Parigi 2007 Collection Marie-Térèse et André Jammes. Cofrets de Messagers. Images du Moyen Age et Traditions populaires, Drouot Richelieu, Paris, vendita 7 novembre 2007 Parigi 2008 Celtes et Scandinaves. Rencontres artistiques VIIe-XIIe siècle, catalogo della mostra (Parigi, Musee de Cluny, Musee National du Moyen Age, 1 ottobre 2008-12 gennaio 2009), a cura di G. Andersson e L. Posselle, Paris 2008 Parigi 2010 Trésor des Medicis, catalogo della mostra (Parigi, Musee Maillol, 29 settembre 201031 gennaio 2011), a cura di M. Sframeli e P. Nitti, Paris 2010 Parigi 2011 L’épée. Usages, mythes et symboles, catalogo della mostra (Parigi, Musee de Cluny, 28 aprile-26 settembre 2011), a cura di M. Huynh, Paris 2011 Parigi 2012 Chypre entre Byzance et l’Occident, IVe-XVIe siècle, catalogo della mostra (Parigi, Musee du Louvre, 28 ottobre 2012-28 gennaio 2013), a cura di J. Durand e D. Giovannoni, Paris 2012 Parigi 2014 Voyager au Moyen Âge, catalogo della mostra (Parigi, Musee de Cluny, 22 ottobre 2014-23 febbraio 2015), Paris 2014 Parigi-Città del Vaticano-Santiago de Compostela 2010 Compostela y Europa. La historia de Diego Gelmírez, catalogo della mostra (Parigi, Musee des Monuments Français, 16 marzo-16 maggio 2010; Città del Vaticano, Musei Vaticani, 3 giugno-1 agosto 2010; Santiago de Compostela, Monasterio de San Martín Piñeiro, 15 agosto-15 ottobre 2010), a cura di M. Castiñeiras, Milano 2010

Parigi-New York 1995 L’œuvre de Limoges. Emaux limousins du Moyen Age, catalogo della mostra (Parigi, Musee du Louvre, 23 ottobre 1995- 22 gennaio 1996; New York, Metropolitan Museum of Art, 4 marzo-16 giugno 1996), a cura di E. Taburet-Delahaye e B. Drake Boehm, Paris 1995 Parma 2003 Il Medioevo europeo di Jacques Le Gof, catalogo della mostra (Parma, Galleria Nazionale, 28 settembre 2003-6 gennaio 2004), a cura di D. Romagnoli, Cinisello Balsamo (MI) 2003 Parma 2006 Vivere nel Medioevo. Parma la tempo della Cattedrale, catalogo della mostra (Parma, Palazzo della Pilotta, 8 ottobre 2006-14 gennaio 2004), a cura di C. Bertelli, Parma 2006 Quebec 2012 Art et nature au Moyen Âge, catalogo della mostra (Quebec, Musee des Beaux-Arts du Quebec, 4 ottobre 2012-6 gennaio 2013), a cura di A. Gilbert, Quebec 2012 Rancate 2014 Doni d’amore. Donne e rituali nel Rinascimento, catalogo della mostra (Rancate, Pinacoteca cantonale Giovanni Züst, 12 ottobre 2014-11 gennaio 2015), a cura di P. Lurati, Cinisello Balsamo (MI) 2014 Roma 1953 Mostra storica nazionale della miniatura. Palazzo di Venezia, Roma, catalogo della mostra (Roma, Palazzo Venezia, 1953), cura di G. Muzzioli, Firenze 1953 Roma 1999 Romei e giubilei: il pellegrinaggio medievale a San Pietro (350-1350), catalogo della mostra (Roma, Palazzo Venezia, 29 ottobre 199926 febbraio 2000), a cura di M. D’Onofrio, Milano 1999

Santiago de Compostela 1993 Santiago, Camino de Europa. Culto y Cultura en la Peregrinación a Compostela, catalogo della mostra (Santiago de Compostela, 1993), a cura di S. Moralejo Alvarez e F. López Pinario, Santiago de Compostela 1993. Saragozza-Tarragona-Siviglia 2006 Marco Polo i el Llibre de les meravelles, catalogo della mostra (Saragozza, aprile-maggio 2006; Tarragona, luglio-novembre 2006, Siviglia, novembre 2006-gennaio 2007), a cura di J.-P. Desroches, Barcelona 2006 Strasburgo 1965 Mille Ans d’art du vitrail, catalogo della mostra (Strasburgo, 5 giugno-31 agosto 1965), a cura di V. Beyer, Strasbourg 1965 Tolosa 1971 Les grandes étapes de la sculpture romane toulousaine. Des monuments aux collections, catalogo della mostra (Tolosa, Musee des Augustins, 1971), a cura di M. Durliat, H. Blaquière, M. Bouissy, Toulouse 1971 Venezia 1993 Eredità dell’Islam. Arte islamica in Italia, catalogo della mostra (Venezia, Palazzo Ducale, 30 ottobre 1993-30 aprile 1994), a cura di G. Curatola, Milano 1993 Vic 2008 El cel pintat. El Baldaquí de Tost, catalogo della mostra (Vic, Museu Episcopal, 12 luglio-16 novembre 2008), a cura di M. Castiñeiras, Vic 2008 Vicopisano 2005 L’aratro e il calamo. Benedettini e cistercensi sul Monte Pisano. Dieci anni di archeologia a San Michele alla Verruca, catalogo della mostra (Vicopisano, Palazzo Pretorio, 25 giugno 2005-15 gennaio 2005), a cura S. Gelichi e A. Alberti, Pisa 2005

Roma 2000 Il volto di Cristo, catalogo della mostra (Roma, Palazzo delle Esposizioni, 9 dicembre 200016 aprile 2001), a cura di G. Morello e G. Wolf, Milano 2000 Roma 2009 Giotto e il Trecento, catalogo della mostra (Roma, Museo Centrale del Risorgimento, 6 marzo-29 giugno 2009), cura di A. Tomei, Milano 2009 Roma 2012 I Papi della memoria, catalogo della mostra (Roma, Museo Nazionale di Castel Sant’Angelo, 28 giugno-8 dicembre 2012), a cura di M. Lolli Ghetti e G. S. Ghia, Roma 2012 Roma 2012 Sulla Via della Seta. Antichi sentieri tra Oriente e Occidente, catalogo della mostra (Roma, Palazzo delle Esposizioni, 27 ottobre 2012-10 marzo 2013), a cura di M. A. Norell, Roma 2012

Bibliografa | 239