Il giornalista quasi perfetto

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Il giornalista quasi perfetto

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Tiziano Scarpa La vita, non il mondo

David Randall

Il giornalista quasi perfetto Traduzione di Bruna Tortorella e Bruno Giovagnoli

Editori Laterza

Titolo dell’edizione originale The Universal Journalist, Pluto Press (1996, 20002, 20073), London (www.plutobooks.com) © 1996, 2000, 2007, David Randall Il diritto di David Randall a essere riconosciuto come autore di questa opera viene affermato in accordo con il Copyright, Designs and Patents Act 1988 La presente traduzione viene pubblicata secondo gli accordi presi con la Pluto Press Ltd., London, ed è stata condotta sulla terza edizione del 2007. La traduzione degli aggiornamenti è a cura di Bruna Tortorella Prima edizione 2004 Nuova edizione riveduta e ampliata 2009

Questo libro è stampato su carta amica delle foreste, certificata dal Forest Stewardship Council

Proprietà letteraria riservata Gius. Laterza & Figli Spa, Roma-Bari Finito di stampare nell’ottobre 2009

SEDIT - Bari (Italy) per conto della Gius. Laterza & Figli Spa ISBN 978-88-420-9155-4

alla memoria di John Merritt, il miglior cronista che abbia mai incontrato

Indice

Ringraziamenti

IX

Prefazione

XI

1.

Come si riconosce un buon giornalista?

2.

I limiti del giornalismo

25

3.

Che cos’è una notizia?

39

4.

Da dove arrivano i buoni articoli?

53

5.

Ricerche

74

6.

Gestire le fonti senza farsi gestire da loro

94

7.

Interviste

110

8.

Dati e statistiche

136

9.

Il giornalismo investigativo

161

10.

Come trattare gli eventi tragici

182

11.

Errori, rettifiche e bufale

201

12.

L’etica professionale

218 VII

3

13.

Il giornalista come scrittore

236

14.

L’attacco

270

15.

Composizione e descrizione

290

16.

Citazioni

311

17.

Diversi modi di raccontare

325

18.

Commenti, espliciti e impliciti

333

19.

Come si diventa grandi giornalisti

353

Letture consigliate

361

Indice analitico

367

Ringraziamenti

A rischio di sembrarvi uno di quei noiosi che vanno a ritirare gli Oscar, devo dire che c’è una lunga lista di persone i cui consigli e il cui spirito animano questo libro. Partirò dal compianto Geoff Collard, con il quale ho lavorato nel mio primo giornale e dal quale ho appreso che un giornalismo privo di senso dell’onore non è degno di tale nome, e dalla capocronista Cathryn Sansom, le cui minacciose lezioni sulla professionalità all’epoca mi sembravano una maledizione, ma poi si sono dimostrate una grande benedizione. All’«Observer», Peter Corrigan (con la sua attenta supervisione) e giornalisti come Peter Dobereiner, Hugh McIlvanney e lo scomparso Lawrence Marks (con il suo esempio) mi hanno insegnato che cosa significa scrivere in modo chiaro e preciso. In quello stesso giornale, Paul Routledge e John Merritt mi hanno tenuto un corso permanente su come dovrebbe pensare e respirare il bravo cronista. Durante i nostri giri di conferenze in Russia, John Shirley mi ha insegnato molto su «come tenere sotto controllo il materiale». E all’«Independent», dove ho festeggiato trent’anni di giornalismo, ho imparato ancora una volta che non si finisce mai di imparare. In particolare, il commento quotidiano di Simon Ritter sui contenuti del giorno ha affinato la mia capacità di individuare le sciocchezze che scriviamo, e lavorare con Michael Williams è stato quasi come seguire un master privato su IX

come trattare le notizie, mentre Keith Howitt mi ha ricordato costantemente che la qualità del giornalismo comincia e finisce con l’attenzione per i dettagli. Non passa giorno senza che io metta a confronto mentalmente una possibile introduzione, un titolo o un commento con i princìpi stabiliti da queste persone. Infine devo ringraziare il direttore di «Internazionale», Giovanni De Mauro, per avermi permesso di riportare alcuni brani della rubrica sul giornalismo che scrivo per la sua rivista. E un ringraziamento va anche a mio figlio Simon, che durante la correzione delle bozze ha individuato diversi errori che mi erano sfuggiti.

Prefazione

Questo libro contiene tutto quello che ho imparato e tutti i consigli migliori che ho raccolto in trent’anni di giornalismo. Alcune cose mi sono arrivate direttamente e senza che gliele chiedessi dai vecchi saggi, altre le ho apprese osservando come lavorano i cronisti di classe, altre ancora cercando di indovinare che cosa passava loro per la mente, alcune dai libri, altre dai siti web e molte commettendo errori e imparando a mie spese qual era il modo migliore e più creativo di fare questo lavoro. Ma qualunque sia la loro origine, le lezioni contenute in questo volume mi hanno salvato la pelle in diverse occasioni e in altri casi mi hanno permesso di ottenere posti di lavoro meravigliosi. Il libro si intitola Il giornalista quasi perfetto per rispondere a chi pensa che ogni tipo di pubblicazione produca una forma di giornalismo diversa, invariabilmente considerata superiore alle altre da chi la pratica. Scrivendo e leggendo un numero sufficiente di articoli, ci si rende conto che in realtà esistono solo due tipi di giornalismo: quello buono e quello cattivo. Il giornalismo cattivo è praticato da coloro che si affrettano a esprimere giudizi invece di scoprire le cose, che si preoccupano più di se stessi che del lettore, che scrivono tra le righe invece che dentro le righe, che scrivono e pensano in termini di formule, stereotipi e cliché, che considerano l’accuratezza un extra e l’esageXI

razione uno strumento; e che preferiscono la vaghezza alla precisione, il commento all’informazione e il cinismo agli ideali. Il buon giornalismo è intelligente, divertente, affidabile dal punto di vista delle informazioni, correttamente inserito nel contesto, onesto nelle intenzioni e negli effetti, usa un linguaggio originale e non serve altra causa se non quella della verità. Qualunque sia il pubblico. Qualunque sia la cultura. Qualunque sia la lingua. In qualunque circostanza. Questo tipo di giornalismo potrebbe essere pubblicato ovunque, perché è universale in tutti i sensi della parola: quasi perfetto. E questo libro si ripromette di dirvi come arrivare a produrlo. Il secondo motivo per cui ho scelto questo titolo è che oggi, in un mondo nel quale sia il numero dei mezzi di comunicazione sia la quantità delle informazioni che ci bombardano continuano a moltiplicarsi, chiunque aspiri a essere un buon giornalista ha bisogno di acquisire tutta una gamma di nuove competenze. La facilità di parola non è più sufficiente. Bisogna saper intervistare con perspicacia e scetticismo, lavorare con le statistiche, capire come funzionano i media online, saper usare internet come strumento di ricerca, saper valutare fonti d’informazione sempre più sofisticate e riconoscere chi le manipola, ed essere in grado di produrre un giornalismo più informativo, originale e affidabile di quello dei sempre più numerosi concorrenti. Se vi sembra un compito troppo arduo, è perché lo è veramente. Lo scopo di questo libro è descrivere le nuove tecniche che, aggiunte a quelle tradizionali, contribuiscono a fare il giornalista quasi perfetto.

Il giornalista quasi perfetto

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Come si riconosce un buon giornalista?

Le uniche qualità per avere successo nel giornalismo sono un’astuzia da roditore, modi accettabili e un po’ di abilità letteraria. Nicholas Tomalin

Gli eroi del giornalismo sono i cronisti. Quello che fanno è scoprire le cose. Arrivano per primi, nel caos del presente, battendo alle porte chiuse, a volte correndo dei rischi, e catturano l’inizio della verità. Se non lo fanno loro, chi dovrebbe farlo? I direttori? I commentatori? C’è una sola alternativa ai cronisti: accettare la versione ufficiale, quella che i poteri economici, i burocrati e i politici scelgono di darci. Dopotutto, senza i cronisti, che cosa saprebbero i commentatori? I cronisti, come quasi tutti gli eroi, sono imperfetti. Come categoria, hanno una reputazione peggiore di molte altre: una buona parte di loro ha l’abitudine di esagerare, semplificare e distorcere la verità per costruire una specie di favola con disonestà calcolata. Non per nulla, sceneggiatori e drammaturghi in cerca di un cattivo da disapprovare di solito optano per il cronista di un giornale scandalistico. Risparmiano tempo. Non devono sprecare pagine e pagine a dimostrare che manca di morale, basta semplicemente dire che lavoro fa perché il pubblico capisca subito

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che quel personaggio è pronto ad adulare e ingannare. Poi ci sono i pigri – quelli che preferiscono la pappa pronta e le semplificazioni, piuttosto che il duro, faticoso e spesso rischioso lavoro di avvicinarsi il più possibile alla verità. La storia del giornalismo è sicuramente lastricata di malafede calcolata e lavoro scadente. Ma c’è anche tanto di eroico, e assai più di quanto i critici dei mezzi di informazione e le scuole di giornalismo vogliono far credere ai neofiti. C’è la denuncia di John Tyas sul «Times» delle atrocità commesse dagli inglesi contro i manifestanti di Manchester nel 1819; ci sono i racconti di William Howard Russell dei pasticci combinati dall’esercito britannico in Crimea; le cronache di William Leng per lo «Sheffield Telegraph» sulla corruzione e la violenza della città (aveva ricevuto così tante minacce che teneva un revolver carico sulla scrivania e la polizia lo scortava fino a casa ogni sera); c’è Emily Crawford, che rischiò giorno dopo giorno la vita per raccontare la Comune di Parigi del 1871 sul «Daily News» e ne informò per prima tutto il mondo alla successiva conferenza di Versailles; c’è Nellie Bly, che si finse malata di mente per entrare in un manicomio: vi scoprì orrori e crudeltà e li descrisse in una serie di articoli sul «New York World» che aiutarono a migliorare le condizioni degli internati; ci sono i reportage di W.T. Stead della «Pall Mall Gazette» sulla prostituzione infantile; e gli articoli di Ida Tarbell sul «McClure’s Magazine» che documentarono i casi di corruzione e intimidazione della Standard Oil Company nel 1902-1904, preparando la strada alla chiusura dell’azienda. Ci sono poi Emilie Marshall, che abbatté diversi steccati maschilisti diventando la prima giornalista accreditata alla Camera dei Comuni e la prima redattrice sia al «Daily Mail» sia al «Daily Express»; le cronache della rivoluzione russa di John Reed; le rivelazioni di Roland Thomas del «New York World» sulle violenze razziste del Ku Klux Klan; la rivelazione da parte del giornalista freelance George Seldes dei rapporti tra fumo e cancro al polmone – dieci anni prima che la stampa tradizionale ne parlasse. I

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reportage di Il’ja Erenburg sulla «Krasnaja Zvezda», in cui per primo descrisse i campi di sterminio nazisti; quelli di John Hersey e Wilfred Burchett da Hiroshima, che smentirono le menzogne ufficiali secondo cui non si erano verificati casi di malattia da radiazioni; la coraggiosa opposizione dell’«Observer» e del «Manchester Guardian» all’invasione di Suez nel 1956; la battaglia – e la vittoria – di Alice Dunnigan contro il pregiudizio razziale per lavorare come cronista a Washington negli anni Cinquanta; l’incessante ricerca di violazioni alla massima sicurezza, lanciata dall’intera stampa britannica nei primi anni Sessanta; la scoperta da parte di Seymour Hersh, all’epoca un giovane freelance, degli orrori del massacro di My Lai nel 1968; la campagna del «Sunday Times» sulle vittime del talidomide, i bambini nati senza arti; l’indagine sul caso Watergate di Carl Bernstein e Bob Woodward per il «Washington Post», con la quale dimostrarono che il presidente degli Stati Uniti era bugiardo e corrotto; gli articoli di Randy Shilts per il «San Francisco Chronicle» sull’emergenza Aids che costrinsero le autorità sanitarie a rendersi conto del problema; e il rifiuto dell’inviato dell’«Independent» Robert Fisk di accettare la linea della Nato (o di chiunque altro) sulla guerra del Kosovo nel 1999 e sui conflitti ancora in corso in Medio Oriente. Ci sono anche quelli i cui nomi vengono letti di sfuggita e di rado ricordati; quelli i cui sforzi per informare i lettori si scontrano non con ostacoli ufficiali o risposte evasive, ma con l’intimidazione. O peggio. Ogni anno, migliaia di giornalisti vengono arrestati e minacciati, centinaia vengono imprigionati, e molti uccisi. Nella sua forma più estrema, può diventare quella che la giornalista peruviana Sonia Goldenburg ha chiamato «censura della morte». Nel 1994, ben 103 giornalisti sono morti per essersi avvicinati troppo alla verità. Alla fine del ventesimo secolo il numero delle vittime si era ridotto per poi risalire nel 2005, con 63 giornalisti e cinque collaboratori uccisi, 807 arrestati e 1308 aggrediti o minacciati. Ognuno di loro è la risposta definitiva a chi, dentro e fuori la categoria, pensa che il giornalismo sia un segmento

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del marketing che riorganizza le banalità e le trasforma in esagerazioni. Dopotutto, nessuno si prenderebbe il disturbo di ostacolare, imprigionare o assassinare qualcuno soltanto per questo. Ci sono infine le decine di migliaia di altri giornalisti, spesso locali, il cui compito non è niente di più affascinante o eroico che scoprire la versione più esauriente di quanto è accaduto dalle loro parti e raccontarlo. Non si aspettano ricchezza o gloria, non c’è motivo perché debbano averle. Ma sono comunque un antidoto, sociale e professionale, contro quelli che hanno venduto la loro credibilità per uno stipendio più alto o una vita più facile. E tutti questi bravi cronisti hanno qualcosa in comune. Anche se sanno nasconderlo bene sotto la maschera del duro, obbligatoria per la loro professione, che siano immortali, perseguitati o misconosciuti, condividono tutti la stessa convinzione sulla natura del loro lavoro. Bisogna soprattutto fare domande, e in questa maniera riuscire a: – scoprire e pubblicare informazioni che vadano a sostituire voci e illazioni; – resistere ai controlli governativi o eluderli; – informare l’elettore dandogli così maggior potere; – rovesciare coloro la cui autorità dipende dalla mancanza di informazione del pubblico; – analizzare quello che fanno e non fanno i governi, i rappresentanti eletti e i servizi pubblici; – analizzare l’attività imprenditoriale, il trattamento che riserva a lavoratori e consumatori e la qualità dei prodotti; – confortare gli afflitti e affliggere chi vive nel comfort, dando voce a quelli che di solito non possono far sentire la loro; – mettere la società davanti a uno specchio, che rifletta le sue virtù e i suoi vizi, ma sfati anche i suoi miti più cari; – assicurarsi che giustizia sia fatta, che lo si sappia in giro e che in caso contrario si indaghi; – promuovere il libero scambio di idee, dando soprattutto spazio a coloro la cui filosofia è diversa da quelle dominanti.

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Se riuscite a leggere questa lista senza sentire un brivido lungo la schiena, forse il giornalismo non fa per voi. QUALITÀ Raggiungere regolarmente gli obiettivi che abbiamo elencato è difficile. Con la capacità di scrivere, che molti fuori dal mondo del giornalismo ritengono sia una qualità fondamentale per un cronista, non si arriva neanche a metà dell’impresa. L’abilità letteraria è solo una componente del mestiere, e spesso neanche la più importante. Per diventare un buon giornalista non basta nemmeno acquisire un piccolo bagaglio di trucchi e stratagemmi, tra cui scegliere quello giusto a seconda delle circostanze. Ciò che serve sono le qualità e il carattere. Lo strumento più importante di un giornalista è nella sua testa. Alcune di queste qualità sono istintive, altre si imparano in fretta, ma la maggior parte si costruisce in anni di esperienza – indagando e scrivendo, indagando di nuovo e riscrivendo centinaia e centinaia di articoli. Il giornalismo è uno di quei mestieri che si imparano sbagliando. Nella mia prima settimana da cronista, ad esempio, lavoravo in un piccolo settimanale nell’Inghilterra meridionale e, un po’ per fortuna, un po’ perché ero deciso a farmi notare, mi imbattei in una buona storia sull’inquinamento di un fiume. Andai sul posto, feci la mia inchiesta e poi tornai di corsa in ufficio sognando gli elogi che avrei ricevuto alla consegna del pezzo. «Che diavolo è questo?», urlò il redattore capo quando lesse l’articolo, «Dove sono i nomi?». Ero così emozionato dalla mia scoperta che avevo dimenticato di chiedere il nome delle persone che avevo intervistato. C’erano molte dichiarazioni interessanti ma erano tutte attribuite a «cittadini preoccupati», «ingegneri idraulici», «ispettori della sanità», e così via. Passai le ventiquattr’ore successive a correre in giro, chiedere i nomi, intervistare di nuovo la gente e rimediare a buona parte dei miei errori. Quella settimana il mio articolo appar-

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ve in prima pagina. Da allora, sono sempre stato grato alla mia stupidità, perché mi ha permesso di imparare due cose preziose proprio nella mia prima settimana. Una è che le dichiarazioni non servono a nulla se restano anonime. L’altra, ancora più importante, è che il lavoro del giornalista è molto difficile. Essere entusiasti e avere una buona laurea non è affatto sufficiente, bisogna anche avere le qualità giuste. Quello che segue è un elenco delle principali. Acuto senso della notizia È indispensabile per tre motivi. Prima di tutto in senso positivo, per individuare una buona pista e riuscire a cogliere la notizia essenziale tra tutto il ciarpame. In secondo luogo, in senso negativo, per non sprecare tempo a inseguire storie dalle quali non uscirà mai niente di buono. Spesso dovrete chiedervi: «Che cosa posso tirar fuori di buono da questa storia? Quale sarà il punto forte della notizia se riesco a raccogliere tutte le informazioni che mi servono?». A volte la risposta è che non ne verrà fuori nulla: quindi lasciate perdere. Il terzo motivo è che, se non avete il senso della notizia, oppure lo avete ma non lo usate, vi sfuggiranno delle cose e vi renderete ridicoli. Prendiamo il caso di Duncombe Jewell, un giornalista dei primi tempi del «Daily Mail». Era stato mandato a seguire il varo della nave di Sua Maestà Albion ai cantieri del Tamigi di Londra e alla fine era tornato in redazione con un elaborato brano di prosa che, per usare le sue parole, era «la cosa più vicina a un tramonto di Turner che si potesse scrivere». Mentre lo consegnava, al giornale arrivò la notizia che durante il varo erano affogate trenta persone. Il suo redattore capo era fuori di sé dalla rabbia. «Beh», disse Jewell, «in effetti avevo visto delle persone che annaspavano nell’acqua mentre venivo via, ma...». Amore per la precisione Quando ero redattore capo, questa era la qualità che apprezzavo più di ogni altra nei miei giornalisti. Potevo fare conto sul loro la-

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voro e fidarmi della loro precisione? Un giornalista si rende subito conto che la sua fama di persona precisa e che non gonfia le informazioni, sia quando scrive sia durante il lavoro di preparazione, è una merce preziosa. Se la perde, sarà molto difficile riconquistarla. Per essere precisi bisogna preoccuparsi di tre cose. Prima di tutto, ovviamente, registrare e appuntare correttamente quello che la gente vi dice. Secondo, assicurarvi non solo dell’accuratezza di ogni minimo dettaglio, ma anche del fatto che l’esito complessivo sia fedele allo spirito e all’atmosfera della situazione o dell’avvenimento – quindi fornire il contesto e spiegare i retroscena. Terzo, non prendere la pericolosa e diffusa abitudine di dire: «Beh, se è successo questo e questo, allora deve essere successo anche quest’altro». Non dovreste mai formulare dei desideri, ma limitarvi a scrivere solo quello che sapete. Se c’è un vuoto in una sequenza di eventi, cercate di scoprire esattamente che cosa manca: non pensate che se è successo A, poi qualche altra cosa e poi C, allora ciò che manca deve essere B. Magari vi sbagliate. Determinazione a scoprire le cose L’ottusità del cattivo cronista si riconosce facilmente dal fatto che torna continuamente in redazione lamentandosi: «Non riesco a trovare niente!». Quello buono, invece, non si fa smontare da qualche telefonata senza esito o da fonti che fanno ostruzione. Ciò che conta è la sua determinazione ad andare un po’ più a fondo (o a perdere un po’ più di tempo) per avere il pezzo. Ad esempio, nel 1996 un tizio sospettato di essere il famigerato Unabomber (la cui serie di lettere-bomba a università e su aerei aveva già causato tre vittime e 29 feriti) venne arrestato nella cittadina fuori mano di Lincoln, nel Montana. Una corrispondente locale della rivista «People», di nome Cathy Free, divenne famosa perché chiese alla segretaria di una scuola di faxarle tutte le pagine dell’elenco

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telefonico della città (erano appena quattro, per fortuna); quindi telefonò a tutte le persone per raccogliere informazioni sul sospetto. Se questo significa che devi chiamare per sette giorni di seguito il padre di un suicida prima che si decida a parlare con te, come fece una volta George Esper dell’Associated Press, bene: è proprio ciò che devi fare. I giornalisti straordinari fanno anche molto di più. Nel 1917, Floyd Gibbons del «Chicago Tribune» volle salire su una nave che aveva buone probabilità di essere silurata dai tedeschi per poterlo raccontare. Andò come previsto e lui fece il pezzo. O ancora Evelyn Shuler, del «Philadelphia Ledger», la quale sapeva che avrebbe battuto la concorrenza su un caso di omicidio se fosse riuscita a testimoniare l’esumazione del corpo della vittima. Così rimase sveglia per tre giorni e tre notti a fare la guardia in un cimitero e, finalmente, la mattina presto del quarto giorno, ebbe il suo pezzo. Mai fare supposizioni Questo vale per tutte le supposizioni – logiche, su identità, fatti o motivazioni. Il grosso problema delle supposizioni è che molto spesso si rivelano corrette: è questo che le rende così pericolose e seducenti. Non correte rischi, raccontate solo quello che sapete, non quello che credete di sapere. Così eviterete di essere imprecisi, disonesti e fuorvianti – o licenziati. C’è un caso famoso in proposito: una volta un fotografo freelance vendette a un rotocalco britannico una foto che ritraeva il principe Carlo mentre abbracciava una signora che non era sua moglie. All’epoca tutti sapevano che il suo matrimonio era piuttosto infelice. Il giornale pubblicò la foto con un titolo che suggeriva l’esistenza di una relazione sentimentale tra i due. Ma si sbagliava. Non sapeva che la foto era stata scattata al funerale del figlio della donna, morto di leucemia all’età di quattro anni. Il principe stava facendo quello che chiunque di noi avrebbe fatto in una circostanza simile – stava confortando una madre affranta.

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Mai aver paura di sembrare stupidi Per quanto elementari pensate che siano le cose che ignorate, se non sapete, chiedete; se non capite, sollecitate spiegazioni. Non vi preoccupate che qualcuno rida di voi. I giornalisti veramente stupidi sono quelli che fingono di sapere, quelli che annuiscono per tutto il tempo dell’intervista anche se non capiscono, e quando poi cercano di scrivere l’articolo si accorgono che non ci riescono. Il momento giusto in cui mostrare la propria ignoranza è quando si fanno le domande, non quando si scrive l’articolo. Diffidare di qualsiasi fonte Un’altra qualità essenziale per un cronista, anzi per qualsiasi giornalista, è diffidare delle fonti. Perché mi racconta queste cose? Quali possono essere i suoi motivi? È veramente in grado di sapere quello che dice di sapere? Di questa complessa questione ci occuperemo nel capitolo 6. Essere intraprendenti Aguzzare l’ingegno e usare il proprio fascino per aggirare gli ostacoli fa parte del divertimento del mestiere. A volte significa sfidare la sorte chiedendo il numero di telefono di una fonte che potrebbe rivelarsi importante, o magari riuscire a entrare con un espediente dove non si potrebbe. Come fece, per esempio, Marguerite Higgins, che negli anni Quaranta per poter scrivere un pezzo su un matrimonio dell’alta società si fece prestare la divisa di una guardarobiera dell’albergo e riuscì a intrufolarsi senza essere notata dove si teneva il ricevimento. Nel 1989, la cronista del «Daily Mail» Ann Leslie era così furiosa per la distanza alla quale era stata messa la stampa al funerale dell’imperatore Hirohito che indossò una lussuosa pelliccia e marciò imperiosamente oltre i servizi di sicurezza fino a trovarsi seduta accanto al presidente George H. Bush. E poi c’è la tecnica usata da Floyd Gibbons per

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convincere le guardie di frontiera polacche che era una persona importante. Trovò un’uniforme di tipo militare e si appese al petto una fila di vistose medaglie (due delle quali erano state conquistate a una mostra canina). Le guardie gli fecero il saluto e lo lasciarono passare. In un’altra occasione, durante la Grande Guerra, voleva scrivere un articolo sull’arrivo del generale americano John J. Pershing, ma gli dissero che i servizi di sicurezza inglesi non avrebbero permesso ai giornalisti di scrivere dove era sbarcato. Allora Gibbons mandò un telegramma alla sua redazione dicendo: «Oggi Pershing è sbarcato in un porto inglese ed è stato accolto dal sindaco di Liverpool». Ingegnoso. Lasciare a casa i pregiudizi Nessuno si aspetta che un giornalista metta da parte tutte le sue convinzioni più radicate, ma non dovreste mai permettere che queste condizionino coscientemente il vostro lavoro. Un giornalista dovrebbe riferire accuratamente quello che è accaduto, non vedere ogni fatto attraverso la lente dei propri pregiudizi, per quanto li ritenga colti e intelligenti. Questo appello si applica a tutti i pregiudizi, quelli nuovi di zecca e quelli più vecchi e radicati. Non lasciate che le opinioni che vi siete fatti all’inizio del lavoro di ricerca influenzino il vostro giudizio sugli eventi. Il grande errore di alcuni cronisti, soprattutto quelli ai quali viene spesso chiesto di scrivere pezzi di colore, è che scrivono l’introduzione nella loro testa prima ancora di aver fatto l’intervista. Il loro attacco sarà anche perfetto, una bella prova di scrittura, ma è probabile che ci riveli più cose su di loro che non sull’argomento in questione. Rendersi conto che si fa parte di un sistema Un giornalista è sempre soggetto alle richieste del direttore. Potete assolutamente discutere con i vostri capi, alzare la voce, cercare di convincerli, ma alla fine dovrete sottostare alla loro deci-

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sione – o andare a lavorare da un’altra parte. È una questione di professionalità. Come lo è accettare l’organizzazione e i tempi del vostro giornale. Molti giornalisti pensano che sia una sorta di indice del talento letterario maturo essere in ritardo o sforare la lunghezza prestabilita. Non è così. Sono i tratti distintivi del dilettante inaffidabile. Stesso discorso per il giornalista che, quando sta seguendo una storia, non passa regolarmente in ufficio. Spesso, tuttavia, potete sfruttare le necessità del giornale a vostro vantaggio, per dare rilievo ai vostri pezzi potete calcolare a che punto del suo ciclo produttivo ha più bisogno di articoli di solo testo o corredati da immagini, grafici, tabelle e così via. Immedesimazione con i lettori Se nessuno legge i vostri articoli, potreste anche borbottarli a voi stessi in una stanza buia. Vi leggeranno se terrete conto di loro – quando scrivete, ma soprattutto quando raccogliete il materiale. Che cosa vorranno sapere i lettori? Che cosa gli va spiegato? Che cosa li aiuterà a capire? Trovate aneddoti, fate vedere come l’accaduto influirà sulla loro vita o su quella di altri; usate esempi che fanno parte della loro esperienza; ma soprattutto, ogni volta che potete, raccontate la storia come farebbe la gente normale. Voglia di farcela Prima o poi il neofita comincerà a rendersi conto che il resto del mondo non è al servizio dei giornali. I fatti accadono nel momento sbagliato e in posti scomodi, non sempre c’è un telefono disponibile, o che funziona; e, se siete fuori della vostra città o del vostro paese, potreste aver esaurito i soldi, il tempo, il cibo, le bevande, le energie. Dovete essere seriamente determinati a superare qualsiasi difficoltà si presenti sulla vostra strada, catturare la notizia e dettare il pezzo al giornale il più in fretta possibile. Come Ed Cody del «Washington Post». Nel suo bellissimo libro Who Stole the News? Mort Rosenblum racconta che, una notte di

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dicembre del 1988, Cody era a Parigi quando gli arrivò la notizia che un jumbo della Pan Am era precipitato su Lockerbie, una cittadina scozzese. Erano le 20.20 e l’ultimo volo per la Gran Bretagna era già partito. Cody scovò un charter, chiamò gli Stati Uniti, convinse il capo della redazione esteri ad autorizzare la spesa e qualche ora dopo era a Glasgow. Lockerbie era un centinaio di chilometri più a sud e la zona era stata già isolata dai posti di blocco della polizia. Miracolosamente Cody trovò un tassista di quella città e, con la sua conoscenza del posto e i suoi contatti, riuscì ad arrivare sulla scena dell’incidente. L’autista aveva addirittura un amico proprietario di un pub, che lo aprì apposta perché il cronista potesse chiamare Washington e dettare il pezzo. Il disastro aereo, nel quale morirono 259 passeggeri e undici persone che si trovavano a terra, fu uno degli avvenimenti più clamorosi degli anni Ottanta. Cody poté fare un ottimo lavoro grazie alla sua determinazione. Certo, aveva anche un giornale disposto a pagare 6mila dollari per un charter, ma nella maggior parte dei casi la voglia del giornalista di arrivare alla notizia non costa così cara e verrà sempre premiata. Sotto pressione I giornali vogliono che i loro cronisti dettino il pezzo per primi e raccolgano più dettagli possibile. Un po’ di sana, o anche malsana, competizione per arrivare primi fa parte della realtà – e del divertimento – del mestiere. È anche nell’interesse dei lettori, purché non vi costringa a prendere troppe scorciatoie. Battere la concorrenza, ad esempio, era una delle preoccupazioni principali dei fotografi dell’Associated Press (Ap) e della United Press International (Upi) incaricati di riprendere il Dalai Lama mentre fuggiva dal Tibet nel 1959. Entrambe le agenzie avevano affittato aerei e organizzato staffette di motociclisti per far arrivare le loro foto dal confine cinese al più vicino ufficio di corrispondenza in India. Appena il Dalai Lama uscì dal suo aereo, i fotografi gli saltarono addosso, scattarono le foto e si preci-

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pitarono verso i loro aerei pronti al decollo. Dopo una corsa a rompicollo a terra e nei cieli, la Upi ebbe la meglio. L’inviato della Ap era distrutto. Se ne tornò in albergo e restò lì seduto a rimuginare su come sarebbero potute andare le cose, vergognandosi di essere stato battuto. Poi ricevette un telegramma dal suo ufficio: «Il Dalai Lama della concorrenza ha i capelli lunghi e ispidi. Il tuo è calvo. Come mai?». Il telegramma di risposta fu: «Perché il mio è quello giusto». Nella fretta disperata di arrivare per primo, l’inviato dell’Upi aveva fotografato l’interprete. Il piacere di battere la concorrenza Battere la concorrenza e arrivare per primi sulla notizia fa parte del divertimento del mestiere quanto usare il proprio ingegno per superare gli ostacoli. Una concorrenza accettabile ha comunque dei limiti, che furono sicuramente raggiunti – e notevolmente superati – dall’ex giornalista del «New York Post» Steve Dunleavy, che da giovane era cronista come suo padre, ma lavorava per la concorrenza. Era stato assegnato a entrambi lo stesso incarico e lui era così deciso ad arrivare sul posto per primo, che impedì al padre di muoversi tranciandogli le gomme della macchina. (La cosa sconvolgente non è tanto il sabotaggio in sé quanto la crudezza del metodo. In Gran Bretagna, la tecnica più elegante era quella di infilare un fiammifero nella valvola di una soltanto delle gomme.) Ma quando si scopriva che i propri rivali erano già partiti, bisognava prendere provvedimenti più drastici. Nei cronisti dei giornali per cui ho lavorato io, la vista dei rivali nello specchietto laterale non provocava niente di più che un sospiro di rammarico, ma per quelli dei tabloid più competitivi era il segnale dell’inizio di un’operazione di guerriglia. Una volta, Wensley Clarkson del «Sunday Mirror» di Londra convinse una coppia che aveva cambiato sesso a raccontare la sua complicata storia soltanto a lui. Fuori era pieno di concorrenti. Perciò gettò una coperta sulla testa dei due transessuali (per impedire agli altri giornali di foto-

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grafarli), li infilò nella sua macchina e partì a tutta velocità verso un albergo dove avrebbe potuto intervistarli a suo piacimento senza essere interrotto da nessuno. I suoi rivali naturalmente li inseguirono. Che fare? Clarkson aspettò il primo semaforo rosso, scese dalla macchina, corse verso quella dei suoi inseguitori e batté sul finestrino del guidatore. Si aprì. «Lasciatemi in pace, ragazzi», disse. «No», risposero loro. A quel punto, Clarkson infilò la mano nell’abitacolo, afferrò le chiavi e le gettò in un tombino. Fine del problema. Professionalità È il contrario dell’atteggiamento che porta a dire «questo può bastare», e significa imparare a lavorare in modo efficiente, approfondito e veloce quanto vi consente il vostro talento. Se volete un esempio di professionalità, non posso fare di meglio che citare quello che fece Meyer Berger del «New York Times» il 7 settembre 1949. Quella mattina cominciarono ad arrivare notizie di un uomo armato che sparava a casaccio sulla gente a Camden, nel New Jersey. Berger fu spedito lì, e quando arrivò sul posto un giovane reduce di nome Howard B. Unruh aveva già ucciso 12 persone tra vicini e passanti. Nelle sei ore successive, Berger ripercorse tutto il tragitto dell’assassino intorno alla sua casa di East Camden. Intervistò 50 testimoni, compresi i pubblici ministeri che lo avevano interrogato appena arrestato, poi tornò nel suo ufficio di New York, si sedette e in sole due ore e mezzo scrisse per la prima edizione del giornale un articolo di 4mila parole, nessuna delle quali fu cambiata. Il pezzo cominciava così: Stamattina, Howard B. Unruh, un giovane di 28 anni dall’aria dolce e mansueta, reduce di tante battaglie in Italia, Francia, Austria, Belgio e Germania, con la Luger che aveva conservato come ricordo di guerra ha ucciso dodici persone intorno alla sua casa nel quartiere di East Camden, e ne ha ferite altre quattro. Unruh, un ragazzo magro dalle guance infossate alto un metro e ottanta paradossalmente dedito alla lettura della Bib-

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bia e alla pratica costante con le armi da fuoco, non aveva mai dato alcun segno di malattia mentale, ma stasera gli specialisti hanno dichiarato che si tratta senza dubbio di un caso psichiatrico, e che l’uomo covava da almeno due anni un complesso di persecuzione.

L’articolo di Berger non conteneva neanche una citazione ovvia, non una parola di gergo poliziesco, e parole come «scioccante», «tragico» o «io» non comparivano neanche una volta. Il tutto era stato scritto direttamente a macchina al ritmo di 2mila parole l’ora. Con questo articolo Berger vinse meritatamente il premio Pulitzer. E regalò la somma alla madre vedova e traumatizzata dell’assassino. Individualismo I governi di tutto il mondo stanno sviluppando mezzi sempre più sofisticati per gestire le notizie, controllano rigidamente quali informazioni devono essere divulgate e a chi. In alcuni paesi, per accedere a questi canali i giornalisti devono entrare a far parte di una specie di «circolo» informale, con le sue regole su che cosa costituisce un comportamento «responsabile» e minacce di esclusione dall’informazione ufficiale per chi esce dal seminato. Questo non è sano, come non lo è l’abitudine che a volte hanno i giornalisti di collaborare, scambiandosi dichiarazioni e numeri di telefono. Quando serve, un buon giornalista dovrebbe sempre essere pronto a prendere l’iniziativa andando dove non va nessun altro e, se gli va male, a prendersi anche i rimproveri. Deve essere disposto a rifiutare la pappa pronta delle fonti ufficiali perché sa che c’è qualcosa di molto più succulento per chi va a cercarsi le informazioni da sé. CARATTERE Più o meno qualunque essere umano intelligente, se si applica, può diventare un giornalista competente. Ma per andare oltre,

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per essere bravi o grandi giornalisti, bisogna possedere un vero talento e l’attitudine alla ricerca o alla scrittura, o entrambe le cose. Bisognerebbe anche avere il carattere giusto; perché è questo che distingue i giornalisti eccezionali da quelli comuni. Quasi tutto quello che so sulla personalità del vero cronista lo devo a un solo uomo. Era dieci anni più giovane di me e lo conobbi solo per un breve periodo prima che morisse di leucemia all’età di 34 anni, ma non ho mai incontrato nessuno che si avvicinasse alla perfezione in questo mestiere come lui. Era l’inviato di punta dell’«Observer» di Londra e si chiamava John Merritt. Quel ragazzo magro, dal volto affilato, aveva tutte le virtù, e buona parte dei vizi, di un grande giornalista. La prima cosa che mi colpì di John, anche prima di capire che era un ottimo giornalista, fu che piaceva alla gente. Aveva lo sguardo aperto e sapeva essere spiritoso, ma il motivo per cui le persone lo prendevano in simpatia era che si interessava a loro e lo dimostrava con la sua natura estroversa. Questo non significa che andasse in giro per il mondo con un sorriso stampato sulla faccia, trasudando amicizia fasulla e salutando la gente come il presentatore di un quiz televisivo. Ma la sua capacità di entrare in rapporto anche con dei perfetti estranei gli fu sempre di aiuto. Con i tipi rudi e alla mano (come i suoi colleghi giornalisti) poteva bere, fumare e bestemmiare, in compagnia di un vescovo sapeva prendere il tè e parlare di teologia. Qualunque cosa pensasse di una persona, sapeva essere disponibile e farla sentire a proprio agio. Questa piacevolezza mascherava, finché non la voleva svelare, una caratteristica che è tipica di tutti i giornalisti di prim’ordine – la determinazione. John era risoluto sia a trovare le storie giuste sia a combattere contro tutti gli ostacoli, i ritardi e le reticenze che gli impedivano di chiudere il suo pezzo. La sua determinazione appariva più evidente quando una particolare informazione si rivelava difficile da reperire. Allora era pronto a starsene seduto alla sua scrivania per ore, facendo una telefonata dopo l’altra, seguendo le strade più improbabili fino a quando non otteneva quello che gli serviva.

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Gli tornava molto utile il fatto che questa determinazione fosse associata a una buona dose di un’altra grande qualità per un giornalista – la faccia tosta. Aveva il coraggio di telefonare a casa di un alto funzionario, o di chiedere la copia di un certo rapporto o un certo favore a un perfetto sconosciuto. Non gli sentivi mai pronunciare il lamento del povero cronista: «Oh, non serve a niente chiedere questa cosa, non me lo diranno mai». Cercava sempre il momento giusto, ma non esitava mai a fare la telefonata. «Il massimo che possono fare è mandarmi al diavolo», diceva mentre sollevava la cornetta per tentare un’ultima chiamata – e spesso funzionava. John non aveva mai paura di chiedere. Né aveva paura di molte altre cose, meno che mai delle minacce, della fatica, dei pezzi grossi o dei governi. Non era per arroganza (anche se a volte ne aveva da vendere), ma per la passione e il senso di giustizia che metteva nel suo lavoro. John non era un santo (in redazione chiunque non fosse d’accordo con lui sperimentava la sua lingua affilata), ma aveva veramente a cuore le vittime della società e dei governi. Considerava una parte importante del suo lavoro dare voce a chi non l’aveva. Per lui, essere imparziale non significava essere indifferente; non significava essere vaccinato contro i torti della società. Era convinto che la rabbia e il senso di giustizia dovessero costantemente ispirare i giornalisti, condizionare il loro giudizio sui temi da affrontare e spingerli a portare avanti le loro ricerche fino in fondo. John sapeva scrivere anche pezzi leggeri, ma era famoso per i suoi articoli sulle vittime della tortura in tutto il mondo, sui senzatetto sfruttati da avidi proprietari, e sulle spaventose condizioni in cui i ritardati mentali venivano tenuti in paesi come la Grecia. Ma era sempre professionale – non dimenticava mai la differenza tra un articolo e un sermone. Aveva anche entusiasmo, a livelli talvolta travolgenti. È facile che un giornalista si esalti per una grossa storia, ma la prova della sua bravura è la voglia di tirare fuori il meglio da un fatto apparentemente poco promettente. John aveva questo entusiasmo,

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era sempre pronto ad arrivare presto e a fermarsi fino a tardi quando era necessario. E non solo in redazione. I giornalisti che si precipitano a una riunione, a una conferenza stampa o in qualsiasi altro posto all’ultimo minuto, e se ne vanno appena possono, forse pensano che è così che si comportano gli adulti, ma non è vero. I bravi cronisti spesso scoprono le notizie arrivando in anticipo alle conferenze stampa o fermandosi alla fine per fare due chiacchiere con i funzionari. E poi c’era la sua incessante curiosità. Faceva domande. Costantemente. John Merritt era interessato a tutto e a qualsiasi cosa. Voleva capire perché le cose sono come sono, che cosa sono, perché funzionano, oppure no. Ovunque andasse, non smetteva mai di fare domande. Probabilmente sarebbe stato capace di scovare una notizia in un campo deserto. UN GRANDE GIORNALISTA Volendo scegliere un esempio che per qualità e forza rappresenti il meglio del giornalismo, forse conviene tornare indietro di 125 anni all’Europa centrale lacerata dai nazionalismi e dalla violenza. Qualsiasi similitudine con quanto sta accadendo ora in quella parte del mondo non è quasi sicuramente una coincidenza. La storia comincia con il sospetto che vengano commesse delle atrocità mentre i governi mentono, l’informazione viene censurata e un impero sta morendo. Si svolge in Turchia, Russia, Gran Bretagna e nella nascente Bulgaria, prosegue con una serie di atti di eroismo e una guerra, e si conclude nientemeno che con la nascita di diversi nuovi Stati nazionali e una mappa d’Europa ridisegnata. A tenere insieme tutti questi fili è un ex corrispondente da San Pietroburgo, un americano di origine irlandese di nome Januarius Aloysius MacGahan. Perfino per gli standard avventurosi del tempo, MacGahan era un tipo che andava a caccia di emozioni a tutti i costi. In un’epo-

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ca in cui ci si spostava da un paese all’altro a cavallo o sui battelli a vapore, in cinque frenetici anni MacGahan inviò le sue corrispondenze dalla Comune di Parigi (dove fu imprigionato), dalla corte di San Pietroburgo, dall’Asia centrale, da Cuba, dall’Artide, dal Caucaso e dai Pirenei. Particolarmente famoso per la sua imparzialità e la sua perspicacia, MacGahan era anche il tipo che non indietreggiava mai davanti a una sfida. Nel 1875 attraversò le acque ostruite dai ghiacci dell’Artide in una barca di legno e due anni prima aveva sfidato l’embargo russo contro i giornalisti lanciandosi in un’incredibile cavalcata attraverso le steppe dell’Asia centrale. Voleva raggiungere una spedizione militare russa in marcia verso il Turkestan. Decisi ad annientarlo, i cosacchi lo avevano inseguito per quasi mille miglia, ma dopo 29 giorni, accompagnato da due assistenti, dopo essere stato costretto varie volte ad avanzare faticosamente affondando nella sabbia fino al ginocchio ed essersi perso in diverse occasioni, aveva raggiunto il campo. In quell’occasione, la sua reputazione di grande affidabilità e coraggio aveva toccato nuove vette. Nell’estate del 1876, all’età di 32 anni, era a Londra con la moglie Barbara, di origine russa, e un figlio piccolo. Progettava di scrivere il suo terzo libro e di riposarsi un po’. Ma la tranquillità non sarebbe durata a lungo. Il «Daily News», un importante quotidiano progressista londinese, lo contattò per un incarico urgente. Il giornale era nei guai. Un giorno o due prima, il 23 giugno, aveva pubblicato un servizio del suo inviato a Costantinopoli, sir Edwin Pears, che riportava voci di tremende atrocità commesse dall’esercito turco contro la popolazione cristiana nella Bulgaria meridionale. Il ministero degli Esteri britannico era furioso. E lo era anche il Primo ministro Benjamin Disraeli, favorevole ai turchi. Definendo le denunce «chiacchiere da bar», le aveva seccamente smentite, aveva apertamente accusato il giornale di mistificazione e, come fanno spesso i politici, di «irresponsabilità». I turchi, che avevano imposto una censura totale su quanto stava accadendo, avevano negato tutto.

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Adesso spettava al «Daily News» dimostrare le proprie accuse, o fare un’umiliante marcia indietro. Quindi mandarono a chiamare MacGahan e lo incaricarono di andare in Bulgaria per cercare di scoprire la verità. All’inizio di luglio era già in viaggio; a metà del mese era sul posto e stava già indagando e intervistando centinaia di sopravvissuti. Quello che scoprì andava anche oltre la sua incallita immaginazione: il massacro selvaggio e indiscriminato di 12mila uomini, donne e bambini bulgari. Nella sua prima corrispondenza, pubblicata dal «News» il 28 luglio, MacGahan scriveva: «Credo di essere venuto qui con un atteggiamento equo e imparziale [...] ma temo di non essere più imparziale, e certamente non sono più distaccato». Il resoconto più toccante fu quello inviato dal villaggio di Batak. Nonostante le sue dichiarazioni di imparzialità, è un esempio di come il racconto controllato di fatti, piuttosto che di emozioni, sia la forma più efficace di giornalismo. Man mano che ci avvicinavamo al centro della città, le ossa, gli scheletri e i teschi crescevano di numero. Non c’era una casa sotto le cui rovine non scorgessimo resti umani, e anche la strada ne era ricoperta [...]. La chiesa non era molto grande, ed era circondata da un basso muretto di pietra che racchiudeva un piccolo cimitero di una cinquantina di metri per settanta. All’inizio non notammo nulla di particolare [...] ma a uno sguardo più attento scoprimmo che quello che sembrava una massa di pietre e rifiuti era in realtà un immenso cumulo di corpi umani ricoperto da un sottile strato di pietre [...]. Ci dissero che solo in quel piccolo cimitero c’erano tremila persone. Tra questa massa in putrefazione c’erano testoline ricciute spaccate da pesanti pietre; piedini non più lunghi del dito di una mano con la carne seccata dal sole cocente prima ancora che avesse il tempo di decomporsi; manine tese come a chiedere aiuto; neonati che erano morti sorpresi dall’intenso bagliore delle sciabole e dalle mani rosse degli uomini dallo sguardo feroce che le brandivano; bambini che erano morti rattrappiti dallo spavento e dal terrore; ragazze morte singhiozzando e implorando pietà; madri che avevano cercato di fare scudo ai loro piccoli con i deboli corpi. Giacevano tutti insieme,

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e marcivano in un’unica, orrida massa. Erano silenziosi ormai. Non ci sono lacrime né grida, né pianti o urla di terrore, né preghiere o implorazioni. I raccolti marciscono nei campi, e i mietitori marciscono in questo cimitero.

I resoconti di MacGahan (che furono pubblicati in tutto il mondo e poi raccolti in un libro tradotto in molte lingue) innescarono immediatamente una reazione a catena di enormi proporzioni. Nell’indignazione a livello mondiale che ne conseguì, il governo britannico fu costretto ad ammettere la verità, crebbero le pressioni per un intervento militare e, nella primavera del 1877, la Russia dichiarò guerra alla Turchia. Furono inviati ottanta corrispondenti per seguire la guerra dalla parte dei russi, ma i rigori di quella campagna erano tali che un anno dopo, alla fine del conflitto, solo quattro degli inviati originari erano ancora sul campo. MacGahan, naturalmente, era uno di loro. Era partito con un piede ingessato perché se l’era fratturato in una caduta. Non aveva dato importanza a quell’incidente e a un altro paio che lo costringevano a zoppicare, ma aveva continuato a scrivere, seguendo i combattimenti da un carro dell’artiglieria. Sei mesi e due trattati dopo, erano nati gli Stati di Bulgaria, Serbia, Montenegro e Romania, la Russia si era ingrandita e la Gran Bretagna aveva ottenuto Cipro. MacGahan però non era più lì per raccontarlo. Qualche settimana dopo la fine della guerra era andato a Costantinopoli per assistere un amico, Francis Greene, colpito da febbre tifoidea. Greene era guarito, ma MacGahan era rimasto contagiato e il 9 giugno era morto, all’età di 34 anni. I bulgari, che lo avevano già battezzato «il Liberatore», lo seppellirono a Pera, furono celebrate messe per la sua anima a San Pietroburgo; Londra, Parigi e l’America piansero la sua scomparsa. A Sofia fu eretta una statua in suo onore e per anni la sua morte fu commemorata con una messa da requiem a Tirnovo. Cinque anni dopo il suo corpo fu trasportato a New York da

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una nave da guerra americana, e dopo aver ricevuto gli onori di Stato nel palazzo del municipio venne trasferito nella sua ultima dimora a New Lexington, nell’Ohio. Sua moglie, che era stata la corrispondente in Russia del «New York Herald», attraversò l’oceano con il corpo del marito e divenne la corrispondente in America del quotidiano moscovita «Russkaja Vedomosti». Quello stesso anno, un’inchiesta ufficiale confermò, con il distacco di ogni retrospettiva, tutto quello che MacGahan aveva scritto dai caotici campi di sterminio della Bulgaria. Il giornalismo quasi perfetto non è una novità dei nostri tempi. Se vedi centinaia o migliaia di persone normali che cercano di scappare da un posto, mentre un manipolo di pazzi cerca di entrarci, non c’è dubbio: sono giornalisti. H.R. Knickerbocker

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I limiti del giornalismo

I giornali possono appartenere a persone o società, ma la libertà di stampa appartiene al popolo. Anonimo

Ogni giornale dovrebbe pubblicare quotidianamente un’avvertenza più o meno del genere: Questo giornale, con la sua massa di parole, è stato prodotto in una quindicina di ore da un gruppo di esseri umani non infallibili, che lavorano in redazioni anguste e cercano di scoprire che cosa è successo nel mondo da persone che a volte sono riluttanti a parlare, e altre volte oppongono un deciso ostruzionismo.

Esistono dei limiti a quello che un giornalista può fare. La frequente mancanza di tempo e di disponibilità delle informazioni costituisce due limiti endemici. Come lo sono gli errori che i giornalisti commettono quando lavorano sotto pressione. Alcuni limiti al buon giornalismo vengono anche creati dai giornalisti stessi e da coloro che controllano o possiedono i giornali. Uno dei grandi miti di questa professione è che il modo in cui è trattata una notizia sia condizionato dallo stile e dal sistema di valori di un giornale. Magari fosse così semplice. La qualità e la natura del lavoro di un quotidiano sono anche condizionate dalle priorità

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dei loro padroni, dalla cultura giornalistica prevalente e da quelli che si ritiene siano i valori dei lettori. Fattori che spesso sono in conflitto tra loro. LE PRIORITÀ DEI PADRONI I proprietari possono anche aderire in modo formale ai princìpi di verità, onestà e comportamento virtuoso, ma di solito hanno scelto di operare in questo settore per fare soldi o propaganda, o entrambe le cose. Il fatto che coloro che tengono i cordoni della borsa dei giornali li usano per fare propaganda è così noto che non vale la pena riaffermarlo qui in tutti i suoi cruenti dettagli. La promozione delle loro idee, l’esclusione di quelle dei loro avversari, la presentazione tendenziosa delle notizie per adattarle a un certo punto di vista o a certi interessi commerciali, e le vendette personali, fanno ormai parte della storia della stampa. Sarà sufficiente citare un esempio. Riguarda William Randolph Hearst, il magnate dell’editoria americano che si comportò per tutta la vita come se non sapesse dove stesse di casa l’onestà. Fu lui che, quando venne realizzato Quarto potere, un film palesemente ispirato alla sua vita, offrì del denaro alla casa di produzione perché distruggesse l’originale e tutte le copie prima della distribuzione. Fallito questo tentativo, chiese all’autrice della sua rubrica di pettegolezzi, Louella Parsons, di telefonare ai dirigenti dello studio e ai distributori minacciandoli di raccontare alcuni dettagli della loro vita personale. Pare che dicesse: «Ragazzi, il signor Hearst vi avverte che se volete avere una vita privata, ve la darà lui». Come molti proprietari unici, Hearst pagava bene i giornalisti; non perché fosse un filantropo, ma perché questo significava che i suoi dipendenti, per timore di essere licenziati o per il desiderio di continuare a fare la bella vita, si adattavano a formulare le notizie in modo che rispecchiassero i pregiudizi del proprietario. Una volta indottrinati, non avevano quasi più bisogno di ricevere istruzio-

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ni specifiche e facevano eco spontaneamente alla voce del padrone. La routine era sempre la stessa. Nel 1919, per esempio, i giornali di Hearst riportarono la notizia dello scoppio della rivoluzione comunista a Torino. L’articolo era accompagnato da una foto degli operai armati di spade, pistole e baionette, schierati davanti a un muro della fabbrica Fiat sul quale era scarabocchiato con la vernice «Viva Lenin». Più tardi si venne a scroprire che l’uomo che aveva scattato la fotografia, Ariel Vargas, aveva pagato qualcuno per scrivere lo slogan sul muro della fabbrica, aveva fatto il giro dei negozi di antiquariato per comprare tutte le armi antiche che era riuscito a trovare, le aveva date ai «rivoluzionari» e aveva detto loro di non ridere mentre li fotografava. Perché? Beh, alla sua redazione di New York era giunta voce di una rivolta e si era sentito in obbligo di fornirgliene le prove, vere o false che fossero. Non c’è niente, tuttavia, che possa illustrare l’atteggiamento di Hearst, e quello di molti altri proprietari nel corso degli anni, meglio di uno scambio di telegrammi del 1898. Hearst era molto preoccupato, per ragioni politiche personali e per motivi di tiratura, che scoppiasse una guerra tra spagnoli e americani per Cuba. Il suo quotidiano principale, il «New York Journal», pubblicava servizi tendenziosi e sciovinisti, con titoli sensazionali e distorti (Prigionieri dati in pasto agli squali; Il peggior insulto subìto dagli Stati Uniti in tutta la loro storia, e così via). Spedì anche i suoi uomini a cercare le prove delle «atrocità» degli spagnoli. I più onesti non mandarono nulla al giornale (e la loro carriera ne risentì), altri usarono la fantasia. Uno dei primi fu un disegnatore di nome Frederic Remington. Avendo trovato tutto tranquillo e visto che non c’erano spargimenti di sangue, telegrafò a Hearst: «Non ci sarà nessuna guerra. Vorrei rientrare». Hearst gli rispose: «Resta dove sei. Tu pensa alle immagini. Io penserò alla guerra». Oggi molti dubitano che abbia veramente spedito questo telegramma, ma, pubblicando una serie di articoli distorti e inventati, sicuramente contribuì a far scoppiare il conflitto. Un’altra caratteristica tipica dei proprietari unici era spesso

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l’eccentricità. Il colonnello Robert McCormick, proprietario del «Chicago Tribune», una volta ordinò al suo corrispondente da Parigi, William Shirer, di recarsi nella campagna francese per cercare un binocolo che aveva dimenticato in un fienile nove anni prima. Il campione degli eccentrici, tuttavia, fu James Gordon Bennett Junior. Non solo insistette perché il suo «International Herald Tribune» pubblicasse le stesse previsioni del tempo per 24 anni, ma un giorno entrò a passo di marcia in redazione e licenziò tutti gli uomini che si trovavano sul lato destro della stanza, buttò fuori un critico musicale perché portava i capelli lunghi e festeggiò il Capodanno del 1877 a casa dei genitori della fidanzata orinando nel caminetto e sfidando a duello il fratello. Suo padre era molto più disponibile con i giornalisti. Incaricò Henry Morton Stanley di andare a cercare l’esploratore David Livingstone, disperso in Africa centrale. Prima di partire, Stanley disse a Bennett che era preoccupato per il costo della missione. Bennett gli rispose: «Ti dico io come devi fare. Ritira mille sterline subito, quando le avrai finite ritirane altre mille, e quando avrai speso anche quelle, prendine altre mille, quando le avrai finite prendine ancora mille, e continua così. Ma trovami Livingstone». Oggi è molto più probabile che un giornale appartenga a una società le cui esigenze di propaganda sono semplicemente quelle di sostenere un certo partito, blandire i politici che possono esserle utili (o prendere a calci quelli che non possono) e sollecitare articoli che favoriscano i suoi interessi commerciali. In generale, le società fanno meno propaganda dei proprietari unici e mostrano pochissimo interesse per gli editoriali finché uno di questi non spaventa gli inserzionisti. Quello che sta loro a cuore è soprattutto ottenere i più alti margini di profitto e, se hanno finanziatori esterni, anche nel minor tempo possibile. Negli ultimi due decenni del ventesimo secolo questo ha comportato un’eccessiva concentrazione sull’abbattimento dei costi e, soprattutto nelle situazioni di monopolio, una forte riduzione del personale di redazione. L’esperienza del settimanale regionale che un tempo ho di-

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retto, e la cui redazione è passata da ventuno a meno di dieci giornalisti, è molto comune. Il risultato, in termini di copertura delle notizie e di rapporti con la burocrazia, è stato disastroso. Per quanto riguarda i rapporti con le autorità locali, ad esempio, la vecchia abitudine di assegnare a un cronista il compito di seguire un certo settore (istruzione, spettacolo, ambiente, servizi sociali, e così via) è stata ormai abbandonata quasi da tutti. Se ci aggiungiamo la proliferazione degli uffici per i rapporti con il pubblico dei comuni, dei presìdi sanitari e via dicendo, avremo la ricetta di una copertura delle notizie che nel migliore dei casi è fortuita e nel peggiore pilotata. La conseguenza di questi tagli al personale, e della pretesa che ogni cronista scriva più articoli di quanti ne scrivesse in precedenza (a volte formalizzata in schemi semplicistici per misurare la «produzione» dei giornalisti), è che molti cronisti che adesso passano le giornate dietro la scrivania incollati a un telefono non riconoscono più l’esperienza dei loro colleghi che, solo una generazione fa, battevano ogni giorno le strade parlando con i loro contatti (e con i lettori) alla ricerca di notizie. Se pensate che si tratti di nostalgia, date un’occhiata alla vostra redazione, immaginatela con il doppio del personale e pensate come cambierebbe il vostro lavoro (e la vostra vita). Negli ultimi vent’anni le priorità dei padroni dei giornali hanno probabilmente imposto più limiti alla pratica del giornalismo di qualsiasi altro fattore. LA CULTURA GIORNALISTICA Questa cultura stabilisce ciò che i direttori e i capiservizio considerano una notizia buona o «noiosa» e determina quali argomenti si possono ritenere «appetitosi» e quali no. Crea anche l’atmosfera morale di un giornale e di conseguenza è più responsabile della sua etica quotidiana di qualsiasi principio teorico.

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Nell’ambito di questa cultura, una delle qualità più ammirate è «avere naso per le notizie». Può trattarsi di una vera abilità nel trovare l’aspetto significativo e interessante in cose che ad altri sono sfuggite oppure, nella sua forma più degenerata, di un’astuta tecnica per presentare il banale come se fosse eccezionale. Questo gioco di prestigio giornalistico si esegue eliminando il contesto, come fece il direttore del «New York Daily Post» che, in una giornata morta dei primi anni Ottanta, riempì la prima pagina del quotidiano chiedendo ai suoi cronisti di raccogliere tutti i dettagli possibili su ogni piccolo crimine avvenuto in città e mettendoli insieme in un unico servizio da far restare col fiato sospeso sotto il titolo Il caos delle nostre strade. La caratteristica di questi disonesti colpi di bravura è che una serie di notizie più o meno esatte va a costituire un insieme assolutamente inesatto. E questo genere di cose non viene solo ammirato nei rotocalchi che lo hanno inventato. Influisce anche su quello che viene considerato da tutti un comportamento abile e intelligente. Il trucco di giocare con i fatti e scegliere con cura le informazioni per poi presentarle al di fuori del loro vero contesto viene spesso usato, anche se in forma più limitata, da tutti i giornalisti. In parte è inevitabile, perché la realtà, che per sua stessa natura è caotica e complessa, quando viene tradotta in parole deve essere semplificata, o almeno organizzata con un certo linguaggio e una certa coerenza. Molti giornalisti, tuttavia, eliminano intenzionalmente il contesto e intensificano esageratamente questo effetto per rendere più drammatica la realtà. Dopo un po’ di tempo, lo fanno quasi senza rendersene conto. La cultura dei giornali a grande tiratura apprezza anche uno stile narrativo agile. Per questo ci vuole sicuramente un po’ di talento, ma anche, e soprattutto, la capacità di forzare i fatti e il significato delle parole per ottenere un certo effetto. Il modo più comune è quello di aggiungere alla storia un’introduzione fasulla in cui si deduce da alcuni elementi un’ipotesi falsamente sensazionale (ma probabilmente inverosimile e forzata). Una spia di ciò

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è di solito l’uso di parole come «forse», «potrebbe» o «sostiene». Come per i giochi di prestigio di cui abbiamo parlato in precedenza, la furbizia sta nella possibilità di difendere in modo plausibile ogni elemento utilizzato, ma l’articolo nel suo complesso rimane comunque una menzogna. Il processo di scrittura e di revisione non è esente da questo tipo di corruzione neanche nei giornali più seri e «di qualità». In questo caso nasce dal personale di redazione, che tende a «ripassare il pezzo» per «rimpolparlo leggermente». Con tutte queste attenzioni, spesso gli articoli ci guadagnano, ma in genere, come molti ammettono apertamente, tutto si riduce a stendere sul servizio una patina di sensazionalismo artificiale, a forzare ogni possibile implicazione dei fatti creando così un quadro complessivo falsato. E quello che oggi avviene a livello redazionale, probabilmente domani avverrà a livello giornalistico. I cronisti costretti a farsi concorrenza per veder pubblicati i loro articoli anticipano i desideri dei capi sposandone i valori e sono pronti (o si sentono obbligati) ad adottare metodi in contrasto con i loro valori personali. Questa schizofrenia professionale diventa ancora più cronica dove la cultura prevalente preferisce le storie dai contrasti netti in bianco e nero ai grigi confusi e agli ambigui mezzi toni della realtà. In qualche misura, tutti i giornalisti preferiscono queste storie. Una situazione in cui A imbroglia B falsificando in modo dimostrabile dei documenti e con il suo disonesto guadagno decide di andare a fare la bella vita ai Caraibi, a livello immediato, è chiaramente più interessante per tutti noi di una situazione in cui tra A e B c’è una disputa commerciale, entrambi sostengono di essere stati imbrogliati, e si scopre che la vacanza ai Tropici non è stata altro che un viaggio d’affari per aprire un conto all’estero. Qualunque giornale, in qualsiasi lingua, preferirebbe la prima versione alla seconda. È più insolita e ha indubbiamente un maggior valore di notizia. Il problema è che nella cultura giornalistica queste preferenze vengono comprensibilmente formalizzate. Cronisti e redattori, sapendo che le storie semplicistiche in bianco e nero

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piacciono di più ai direttori, le vanno a cercare tralasciando notizie più sfumate, ma sicuramente più realistiche. Per non parlare del fatto che questa idea preconcetta su che cosa costituisce una «notizia forte» influisce sul lavoro di ricerca e di scrittura e toglie equilibrio al pezzo. C’è una tendenza inconscia a smettere di fare domande quando tutto è chiaro, semplice e netto. «Non controllare troppo» è il consiglio che danno ridacchiando fin troppi capocronisti. Da questo a considerare le notizie come qualcosa che deve essere confezionato per renderlo conforme a una ricetta o a uno schema prestabiliti il passo non è molto lungo. Nei giornali a grande tiratura, in particolare, i direttori sono determinati ad avere articoli di un certo tipo – leggeri e spumeggianti oppure tanto sensazionali da lasciare senza fiato. Appena arriva una notizia, i capiservizio decidono il titolo e il taglio e poi loro stessi (o i cronisti) organizzano i fatti o il taglio in modo da far rientrare ad ogni costo la notizia nello schema. È un tipo di giornalismo che si basa sui titoli. Presenta ai lettori un mondo in cui succedono sempre cose straordinarie, esistono solo certezze e cose semplici, chi ha torto e chi ha ragione, e soprattutto stereotipi. I giornali inglesi si macchiano di questa colpa più di quelli americani. Per vari motivi, il più importante dei quali è l’influenza della stampa popolare nazionale, tutti usano lo stesso stile di scrittura «giornalistico», il cosiddetto «giornalese». Interi quotidiani sono pieni di vecchie battute scontate, espressioni trite (nessuna storia sui gatti è mai completa senza un accenno alle loro «sette vite»), cliché e una disinvolta esagerazione di routine (gli scontri politici, per esempio, sono sempre definiti «liti furibonde»). Per motivi che vanno oltre il buon senso e qualsiasi spiegazione logica, molti insegnanti delle scuole di giornalismo e non pochi direttori alle prime armi incoraggiano questo tipo di linguaggio limitato e poco originale ritenendolo una prova di «professionalità». C’è qualcosa di quasi totalitaristico nell’insistenza a usare il giornalese. In America, dove non ci sono tabloid che influiscono

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sull’idea comune di buon giornalismo, ci si conforma meno a uno «stile giornalistico» preciso. Editorialisti e cronisti godono di maggiore libertà, e il risultato è una scrittura migliore. Inoltre, se si esclude qualche isolata eccezione, la stampa americana cura la scrittura molto più di quella britannica. Alcuni giornali americani assumono addirittura insegnanti a questo scopo. Provate a suggerire una cosa del genere a un giornale inglese e probabilmente vi manderanno subito dal medico per farvi curare. Questi sono i limiti più estremi del lavoro giornalistico. Molti quotidiani non arrivano a tanto, ma quelli che lo fanno, e i cronisti di quei giornali che hanno in parte assorbito questa cultura, danno sempre la stessa risposta a chi solleva obiezioni: i lettori. Nessun altro gruppo di persone viene chiamato in causa così spesso per difendere qualcosa che altrimenti sarebbe indifendibile. Non esiste nessun altro gruppo di persone i cui desideri vengono più regolarmente e intenzionalmente dati per scontati, il cui vocabolario e la cui intelligenza vengono tanto paternalisticamente sottovalutati. «È ora che vada a scrivere le mie 200 parole per quelli che muovono le labbra quando leggono», era solito dire un corrispondente di un rotocalco britannico. I VALORI DEI LETTORI È in nome dei lettori che si scelgono articoli e argomenti, si stabilisce il taglio di una notizia, si scrivono e riscrivono introduzioni, si decidono presentazione e struttura. Tuttavia, tra tutti gli elementi spesso in conflitto tra loro che fanno un giornale, vale a dire le persone che forniscono possibili notizie (fonti), quelle che le elaborano (cronisti, direttori, proprietari o amministratori) e quelle che le consumano (lettori), queste ultime sono le sole a non partecipare al processo di creazione. Occorre prevedere i loro gusti. I giornali più consolidati e sofisticati lo fanno in vari modi. Nel corso degli anni, gli stessi quotidiani e i loro giornalisti si costrui-

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scono, sulla base delle reazioni agli articoli, della posta e delle telefonate, delle lamentele e così via, una «conoscenza aneddotica» di quello che vogliono i loro lettori. O piuttosto di quello che credono che i loro lettori vogliano. Questa presunta conoscenza non sempre funziona e non sempre è precisa. Finché non viene verificata da una ricerca seria, nessuno lo saprà mai. Spesso però questo non succede. Va piuttosto a combinarsi con i pregiudizi dei giornalisti, dei capiservizio e dei proprietari per dare origine a un’idea fortemente personalizzata di quello che i lettori vogliono, o che essi credono che dovrebbero volere. Non si contano le volte che nelle riunioni di redazione si sente dire: «Quello che il lettore vuole è...». Troppo spesso questo si basa sulle preferenze personali e sui gusti di chi parla, o dei suoi amici, oppure, peggio che mai, su quelli che vorrebbe imporre. Il problema è che i giornalisti spesso vivono in ambienti molto lontani da quelli dei loro lettori, e hanno anche stili di vita, abitudini e gusti diversi. È probabile, se sono giornalisti «seri», che si trovino spesso a contatto con autorità e personalità importanti e quindi assorbano i loro valori. In molti paesi sviluppati, gli stipendi relativamente da capogiro pagati da molti quotidiani fanno sì che i giornalisti respirino un’aria diversa, mangino cose diverse e conducano una vita che si discosta molto da quella dei loro lettori. Ci vuole molta più immaginazione di quella che ha la maggior parte di loro per rendersi conto che i ristoranti che frequentano, i vestiti che comprano e le vacanze che fanno non sono gli stessi piaceri di cui godono i loro lettori. E se usano l’immaginazione, corrono il rischio di costruire un’arrogante parodia dei gusti dei lettori. Le ricerche, se condotte in modo scientifico, possono costituire una soluzione parziale. Alcuni giornali giustamente utilizzano un istituto di ricerca per scoprire tutto quello che possono sui loro lettori: età, rapporto tra uomini e donne, reddito, occupazione, livello di istruzione, interessi, preoccupazioni, gusti, come passano il tempo libero, come spendono i loro soldi, e così via. A

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quel punto sanno, ad esempio, quanti dei loro lettori tra i 35 e i 40 vanno in vacanza in Francia, o quanti tra i 25 e i 35 hanno un telefono cellulare. L’unico problema è che queste informazioni vengono raccolte per l’ufficio commerciale e molto raramente vengono passate ai giornalisti. Le ricerche avviate dall’ufficio di redazione, invece, riguardano di solito gli atteggiamenti dei lettori, nei confronti sia del giornale sia dei problemi e degli argomenti di cui si occupa. Si possono ottenere informazioni con semplici sondaggi realizzati tramite un modulo pubblicato sul giornale, con «gruppi di lettori», oppure chiedendo a un istituto di ricerca di formulare domande strutturate per scoprire che cosa legge (o sostiene di leggere) il loro pubblico. I sondaggi, tuttavia, sono disseminati di trappole per gli sprovveduti. Dovrebbero porre domande specifiche su alcune questioni precise. Non serve a nulla chiedere alle persone se vogliono più notizie: è chiaro che le vogliono, ma di che tipo? E che cosa si dovrebbe tagliare per fare più spazio alle notizie? Poi c’è il problema delle persone che dicono agli intervistatori quello che ritengono vogliano sentirsi dire, o, peggio ancora, esprimono preferenze che vogliono far credere di avere, invece di quelle reali. Poco dopo il 1945, il quotidiano britannico «News of the World» era il giornale più venduto al mondo. Ogni domenica vendeva 7 milioni di copie a persone pronte a divorare il suo menù fatto di omicidi e scandali sessuali, inframmezzati da qualche articolo «serio». Poi un giorno il direttore ebbe la sensazione che la moralità e i gusti stessero cambiando e quindi commissionò un sondaggio. Vennero incaricate delle persone di andare a casa dei lettori per chiedere cosa piacesse e non piacesse del giornale. Dato che le interviste venivano fatte durante la giornata, trovavano in casa soprattutto donne. Comprensibilmente, nessuna di loro era disposta a dire a un intervistatore uomo: «Sì, mi piacciono le storie di stupro e tutte le oscenità, e mio marito ama molto le storie sui preti che infastidiscono i bambini». Giuravano piuttosto agli intervistatori che loro compravano il giornale solo per gli

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articoli seri. Il direttore lesse i risultati del sondaggio e il giornale smise immediatamente di parlare di sesso. Dopo due settimane, la tiratura era diminuita di 500mila copie. Alla terza settimana, il giornale aveva cambiato direttore, il contenuto era tornato alla sua squallida normalità e nel giro di poco tempo le vendite finirono per toccare gli 8 milioni e mezzo di copie. In effetti i lettori tendono a fuorviare affermando che a loro piace una cosa mentre ne preferiscono un’altra, e dichiarando in pubblico che disdegnano certe forme di giornalismo, mentre in privato le divorano avidamente. È per questo che alcuni ricercatori usano gli specchi segreti per osservare gruppi di lettori che leggono un giornale e ne discutono il contenuto senza inibizioni. Esistono anche degli apparecchi simili a visori che si applicano alla testa delle persone e seguono i movimenti degli occhi per registrare esattamente quello che leggono, guardano di sfuggita o ignorano. Se non si dispone della tecnologia o dei fondi necessari per questo tipo di pratiche negromantiche, esiste un’alternativa che, per un giornalista, è molto più efficace di qualsiasi ricerca: passare più tempo possibile con i lettori e osservarli. Quanti giornalisti si sono mai soffermati a guardare le persone mentre scelgono un giornale in edicola? O le hanno studiate nei bar o sui treni e hanno visto come leggono i giornali? Questo fa parte dell’insaziabile curiosità che un giornalista dovrebbe provare nei confronti dei lettori e che dovrebbe spingerlo a parlare con loro appena ne ha l’opportunità, a incontrarli e a cercare di sapere più che può sul loro conto. Gli inserzionisti sono l’altra componente del pubblico di un giornale, e per i quotidiani a bassa tiratura sono economicamente più importanti dei lettori. Questa loro forza commerciale fa sospettare a molti che gli inserzionisti esercitino continuamente il loro potere per spingere i giornali a confezionare le notizie secondo le loro esigenze. La cosa sorprendente è che casi di questo genere, anche se esistono, non sono molto frequenti. Naturalmente ci sono state volte in cui i grandi inserzionisti hanno ritira-

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to la loro pubblicità per protestare contro una notizia data (o non data) da un giornale, molti hanno minacciato di farlo e un numero ancora maggiore ha provato a fare una telefonata amichevole al direttore o all’editore per ottenere quello che voleva. E qualcuno ci è anche riuscito. Il pericolo è maggiore quando un giornale, di solito un quotidiano di provincia, dipende eccessivamente da un solo inserzionista o da un solo gruppo di inserzionisti. Ma molto più comune di queste pressioni esplicite è l’influsso che i potenziali inserzionisti hanno sulla scelta degli argomenti. L’ufficio commerciale esercita spesso forti pressioni sul direttore affinché scelga certi argomenti perché sa o prevede che attireranno pubblicità. Questo può comportare che ad alcuni argomenti venga dedicata più attenzione di quella che altrimenti riceverebbero. Di solito la cosa è relativamente innocua in sé, ma spesso si dimostra il primo passo verso la richiesta di ulteriori attenzioni. Questi limiti del processo giornalistico – quelli endemici alla raccolta di informazioni e quelli imposti dalle priorità dei padroni, dalla cultura redazionale e dai gusti dei lettori – significano che forse la clausola di esonero consigliata alla maggior parte dei giornali all’inizio di questo capitolo dovrebbe essere un po’ più lunga: Questo giornale, e le centinaia di migliaia di parole che contiene, sono stati prodotti in circa 15 ore da un gruppo di persone non infallibili, che lavorano in uffici angusti e cercano di scoprire quello che è successo nel mondo da persone che sono a volte riluttanti a parlare, e altre volte oppongono un deciso ostruzionismo. Il suo contenuto è stato determinato da una serie di giudizi soggettivi dei cronisti e dei capiservizio, temperati da quelli che sanno essere i pregiudizi del direttore, del proprietario e dei lettori. Alcune notizie appaiono avulse dal loro contesto essenziale perché altrimenti risulterebbero meno sensazionali o coerenti e in alcuni casi il linguaggio usato è stato deliberatamente scelto per il suo impatto emotivo, piuttosto che per la sua precisione. Alcuni articoli sono stati pubblicati solo per attirare gli inserzionisti.

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Questi limiti sono inevitabili come gli incubi ricorrenti. I giornalisti possono rispondere in un solo modo: stabilendo dei princìpi e degli standard universali e applicandoli. Sono la loro unica difesa. Se lo faranno, potranno sconfiggere questi limiti. È un obiettivo perseguibile, perché ogni giorno, in qualche parte del pianeta, qualcuno ci riesce. I giornalisti continuano a denunciare la corruzione e la negligenza, a svelare pericoli, a smascherare criminali e a raccontare fatti che qualcuno voleva tenere nascosti. I giornali continuano a pubblicare informazioni e, per parafrasare il direttore del «Times» di un secolo fa, a renderle di pubblico dominio. Perfino i cattivi giornali fanno più bene che male, cosa che non possiamo dire dei governi. Non posso darvi la formula del successo, ma posso darvi quella dell’insuccesso: cercate di compiacere tutti. Herbert Bayard Swope, direttore di un giornale americano

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Che cos’è una notizia?

I giornali, a quanto sembra, sono incapaci di distinguere tra un incidente di bicicletta e il crollo della civiltà. George B. Shaw

Il compito di un giornale è quello di reperire informazioni nuove su questioni di pubblico interesse e di comunicarle ai lettori nel modo più rapido e accurato possibile. Tutto qui. Può fare molte altre cose, ad esempio dir loro che cosa pensa di un film, come si piantano le patate, come si prospetta la giornata per i nati sotto il segno del Toro o perché il governo dovrebbe dimettersi. Ma senza informazioni nuove, si limiterà a commentare cose già note. Saranno interessanti, forse anche stimolanti, ma un commento non è una notizia. Un’informazione sì. L’affermazione più spesso citata a questo proposito la dobbiamo a C.P. Scott, all’epoca direttore del «Manchester Guardian», il quale, in un editoriale firmato del 5 maggio 1921, scriveva che per un giornale lo scopo principale è quello di raccogliere notizie. Anche a scapito della sua anima deve fare in modo che non siano mai inquinate. Né in quello che dice, né in quello che non dice, né nel modo di presentazione, deve mai fare torto alla pura verità.

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Questo significa pretendere molto, se non addirittura l’impossibile. Ma più avanti Scott aggiunge una frase che poi è stata citata almeno un milione di volte: «Il commento è libero, ma i fatti sono sacri». Il nocciolo di questa affermazione sta nella contrapposizione tra il valore dei fatti e quello dei commenti. Se entrate in una stanza piena di giornalisti e chiedete chi ha un’opinione su un’importante notizia del momento, tutti alzeranno la mano. Provate a chiedere chi ha informazioni nuove, mai pubblicate, sull’argomento e quasi tutte le mani si abbasseranno. Il fatto è che quasi tutti hanno opinioni, più o meno interessanti, ma pochissimi hanno nuove informazioni. Le prime sono comuni, le seconde sono merce rara e quindi di valore. CHE COS’È UNA NOTIZIA? Esistono più o meno altrettante definizioni di notizia quante sono le storie stesse. La definizione più comune e più trita è quella coniata nel 1882 da John B. Bogart, caporedattore del «New York Sun», per cui un cane che morde un uomo non fa notizia, ma un uomo che morde un cane sì. Questo ci ricorda che a fare notizia è tutto ciò che è insolito. Ma non basta. Deve essere anche qualcosa di nuovo, qualcosa di cui la gente non ha mai sentito parlare e, soprattutto, che interessa i lettori. Questo significa che non fanno notizia solo le questioni che riguardano il pubblico o che hanno un impatto sulla vita pubblica, ma anche quelle che presentano un qualche interesse per il pubblico. La notizia del divorzio di due famosi attori non è di interesse pubblico ma interessa il pubblico. Il miglior esempio di questo è ancora la vecchia vignetta del «New Yorker» con due uomini in treno: uno tiene in mano un giornale in cui spicca il titolo Tutte le cose importanti che dovete sapere e l’altro ha un giornale in cui compare il titolo Chiacchiere, pettegolezzi e notizie stravaganti. La cosa divertente è che il primo non riesce a distogliere gli occhi dal giornale del secondo.

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IL VALORE DI UNA NOTIZIA Una notizia, quindi, è tutto ciò che è nuovo, mai pubblicato, insolito e interessante in senso generale. I primi tre elementi si possono quasi sempre stabilire in modo obiettivo. È l’ultima parte – che cosa è interessante in senso generale? – a provocare le discussioni che ogni giorno si accendono in tutte le redazioni del mondo. Ai due estremi, generalmente non c’è problema. Se muoiono 450 persone perché l’aereo del presidente è precipitato su un grande magazzino del centro, si tratta sicuramente di una grossa notizia, che farà senza dubbio esclamare «Accidenti!», seppure tra sé e sé, a chiunque la leggerà. All’estremo opposto, il fatto che io ho appena comprato una macchina è una notizia? È una novità, mai pubblicata e indubbiamente insolita. Ma non è una notizia perché interessa solo la mia famiglia, la mia banca e il concessionario. È su tutte le informazioni che si trovano tra questi due estremi che i giornalisti discutono, cercando di decidere se una storia è forte o «appetitosa», se vale 200 parole o 700, un trafiletto o un titolo a caratteri cubitali in prima pagina. Per chi è alle prime armi questo è, insieme all’attacco, uno dei grandi misteri del suo lavoro, reso ancor più impenetrabile dalla facilità con cui i più esperti giudicano rapidamente e con apparente sicurezza il valore di una notizia. Fortunatamente, possono ricorrere a un aiuto pratico e articolato. I FATTORI CHE DETERMINANO IL VALORE DI UNA NOTIZIA Anzitutto stabiliamo subito una cosa: nel giudicare una notizia non si può sfuggire alla soggettività. Tutto il processo giornalistico ne è pervaso e nessun cronista o capocronista, per quanto cerchi di essere professionale e di soffocare i propri pregiudizi, ci riuscirà mai completamente. Questo è più evidente che mai quando deve scegliere l’argomento dell’articolo di fondo. Io penso che quello

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dei senzatetto sia un problema interessante e importante, tu pensi che sia scontato e noioso. Questa soggettività, anche se inevitabile, è un pericolo sempre in agguato, soprattutto quando i giornalisti (spesso i capocronisti) cercano di spacciare le loro convinzioni personali per obiettività. Essere consapevoli di questa tendenza è comunque una difesa contro i suoi peggiori eccessi. La soggettività non è la prima cosa che molti giovani giornalisti notano appena mettono piede in una redazione. A volte, con loro grande sorpresa, non assistono neanche a lunghe discussioni sul valore di una notizia. Vedono piuttosto che molti giudizi vengono emessi con rapidità e sicurezza, apparentemente sulla base ben poco scientifica dell’istinto. Il procedimento, tuttavia, è molto più ponderato di quello che sembra. Può apparire istintivo perché buona parte delle riflessioni necessarie per decidere l’importanza di una notizia sono state così automatizzate che vengono fatte molto rapidamente – a volte troppo rapidamente. Quello che segue è un tentativo di descrivere ciò che frulla – o dovrebbe frullare – nella testa di un giornalista mentre giudica una notizia. In mancanza di un’espressione migliore, potremmo definirli i fattori che determinano il valore di una notizia. E sono otto. Sei riguardano la storia (argomento, mode, sviluppo, fonte, notorietà e tempestività); uno riguarda il pubblico (i lettori); l’ultimo concerne il mondo in cui il pubblico e il giornale vivono (contesto). 1) Argomento È la categoria più generale in cui rientra la notizia – crimine, ambiente, salute, diplomazia, economia, consumi, guerra, politica, e così via. In teoria tutti gli argomenti sono uguali, ma alcuni sono più uguali degli altri*. Il crimine, ad esempio, vale più della moda perché notoriamente interessa a più persone. Ognuna di * Questa frase è una citazione letterale da La fattoria degli animali di George Orwell [N.d.T.].

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queste categorie può essere poi suddivisa in sottocategorie: ad esempio, il crimine si suddivide in omicidio, truffa, rapimento, malavita organizzata, droga, rapina, ricatto, stupro, aggressione, e via dicendo. Per il pubblico in generale, ognuna di queste categorie ha un suo valore approssimativo che solitamente dipende dalla sua eccezionalità in un certo ambito sociale o in una certa zona. È qui che interviene il «contesto» (vedi sotto, all’ottavo punto). Ad esempio, i rapimenti in genere hanno maggior valore di notizia delle aggressioni perché sono più rari. 2) Mode Esiste anche un fattore legato alle mode – certi argomenti balzano improvvisamente alla ribalta e per un certo periodo non si parla d’altro. Questo risulta più evidente nel caso di notizie che circolano con discrezione da molto tempo, e poi all’improvviso qualcuno inventa un’espressione o una parola per descriverle. Grazie a quel nuovo nome accattivante, ricevono un’attenzione spropositata. Termini nuovi come air rage (furia aerea) ne sono un classico esempio. Le rapine nelle strade, le liti tra automobilisti e l’uso di un’automobile per irrompere in un locale esistono da quando esistono le strade e le macchine. Ma con il nome di mugging (aggressione selvaggia), road rage (furia sulla strada) e ram raiding (colpo d’ariete) danno quel brivido in più e sono andati tutti di moda per un certo periodo. La storia di questi fenomeni risale a molto tempo fa. Nel 1862, il «Times» scatenò un certo panico per l’improvvisa diffusione di quelle che chiamava garroting – aggressioni alle spalle. In alcuni quartieri, quando questi resoconti andavano per la maggiore, la gente si rifiutava di uscire di casa. Il fenomeno, tuttavia, si placò ben presto. Da allora, tra questi tipi di notizie possiamo annoverare il Grande Terrore dei Ciclisti, negli anni Novanta dell’Ottocento. All’epoca il «Daily Graphic» fece sobbalzare i cuori dei borghesi con il racconto di orde di ciclisti che «suonavano il campanello e si aspettavano che la gente si togliesse di mezzo continuan-

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do a pedalare a 15 chilometri l’ora». Negli anni Cinquanta del Novecento, ogni giovane operaio maschio era un Teddy Boy; negli anni Sessanta chiunque girasse in scooter era un fanatico del rock; negli anni Settanta ogni giovane con i capelli lunghi era un hippie e un drogato; negli anni Ottanta ogni grande raduno di giovani era un concerto di rock psichedelico e negli anni Novanta ogni minimo screzio tra automobilisti era un episodio di road rage. Adesso è facile sogghignare, ma è difficile resistere quando tutti scrivono titoli allarmistici. In genere, qualche articolo che esamina freddamente i dati relativi al fenomeno può fungere da antidoto. Ci sono anche altre mode più durature nel mondo dei giornali. Alcune sono dovute al cambiamento degli stili di vita e alle nuove tecnologie, altre no. Trent’anni fa, le inchieste, i servizi sui diritti dei consumatori e le analisi sulla povertà erano molto comuni. Oggi sono stati sostituiti dalle notizie sui personaggi famosi, i media, gli stili di vita, i sondaggi d’opinione e le nuove tendenze, molte delle quali sono quasi interamente false. I motivi di questo cambiamento sono due: il costo (scrivere articoli sulle celebrità e sui loro stili di vita costa meno che investigare perché di solito le notizie arrivano direttamente dai loro uffici stampa) e la necessità che molti direttori sentono di rendere i loro giornali «più attraenti» e «più accessibili». O addirittura, come dicono alcuni, «più vicini ai gusti delle donne», poiché molti giornali danno paternalisticamente per scontato che alle lettrici interessino gli articoli sulle tendenze della moda e i rapporti personali e non le notizie serie. 3) Sviluppo È l’evento specifico all’interno dell’argomento e della sottocategoria che è al centro della notizia. La sua eccezionalità ne determina in buona parte il valore anche senza fare riferimento al pubblico. È la valutazione pura e semplice di quanto sia insolito questo particolare sviluppo. Come esempio potremmo prendere la disputa in corso da diversi anni tra Regno Unito e Francia perché quest’ultima rifiuta di acquistare carne di manzo inglese a

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causa della possibilità che sia contaminata dal morbo della mucca pazza. Il progetto di nuovi colloqui sarebbe una notizia minore (a meno che una delle due parti non avesse rifiutato l’incontro). I colloqui sui vari problemi, dopotutto, si tengono continuamente. Ma la notizia di una delle due parti che abbandona i colloqui sarebbe molto più rara e quindi più importante. La scarsa eccezionalità è il motivo principale, insieme al momento sbagliato, per cui una notizia viene scartata o le viene concesso meno spazio. Dello sviluppo fanno parte i tre elementi che seguono. 4) Fonte Il valore dello sviluppo dipende anche dalla fonte da cui proviene. Un politico dell’opposizione può dirvi che il presidente sta per dare le dimissioni, ma se ve lo dice il presidente stesso, o uno dei suoi collaboratori più stretti, la notizia è ovviamente più forte. Lo sarà ancora di più se siete voi a scoprire che sta per dimettersi, ma non vuole che se ne sappia il vero motivo – e voi lo sapete e lo comunicate ai vostri lettori. 5) Notorietà Vale a dire quante persone sono a conoscenza dello sviluppo. Le notizie di maggior valore sono quelle che riportano per la prima volta uno sviluppo ignoto a tutti tranne che alla fonte (o alle fonti), forse perfino ai colleghi o alla cerchia di persone a loro più vicina. Il valore di una notizia diminuisce se è già nota al pubblico perché ne ha parlato un altro giornale. Una notizia trasmessa in televisione o alla radio può perdere valore, ma non nella stessa proporzione. Nelle redazioni dei giornali nazionali si sente spesso dire di una notizia: «Credevo che lo sapessimo già», intendendo dire che è stata già raccontata da quella angolatura. Se controllando gli archivi salta fuori un articolo precedente, la notizia viene eliminata. Tuttavia, questo metodo viene spesso usato dai capiservizio per minimizzare una notizia che a loro non piace. Sentirlo dire di frequente senza un buon motivo dovrebbe far scattare il vostro campanello d’allarme contro i pregiudizi.

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6) Tempestività Diversamente dal vino, le notizie non migliorano invecchiando. Il tempo trascorso, tuttavia, non è in sé il fattore principale. Se scoprite uno sviluppo importante tre settimane dopo che si è verificato un dato evento, l’elemento cruciale non è il ritardo, ma quante persone sono venute a conoscenza di tale sviluppo nel frattempo. Se la notizia non è ancora di pubblico dominio, il suo valore non diminuirà perché sono passate tre settimane; anzi, a seconda del motivo del ritardo, potrebbe addirittura aumentare. In genere lasciar trascorrere poco tempo tra il momento in cui lo sviluppo si è verificato e quello in cui voi lo riportate può aggiungere valore alla notizia, mentre la mancanza di tempestività è spesso un fattore negativo, perché il ritardo consente alla notizia di divenire di pubblico dominio. 7) Lettori Questo è il primo dei fattori non direttamente collegati alla specificità della notizia. L’importanza del giudizio del pubblico su una notizia è il motivo per cui dovreste fare di tutto per sapere il più possibile sui lettori. Altrimenti, non sarete mai in grado di conoscere i loro gusti e i loro interessi, né quindi di giudicare correttamente il valore dell’argomento e dello sviluppo. Sarebbe come parlare in una stanza buia a un pubblico sconosciuto. Ma la vostra conoscenza dei lettori dovrebbe servire a orientare i vostri giudizi in generale e non a condizionarli sempre e comunque. Il giorno in cui vedrete le notizie come una merce da vendere sul mercato smetterete di essere giornalisti. Assecondare troppo avidamente quelle che ritenete siano le preferenze dei lettori può portarvi al punto di filtrare o eliminare quelle notizie che non concordano con le loro opinioni o di omettere alcuni aspetti scomodi, come il contesto, le spiegazioni e le precisazioni. Questa è una cosa importante. Sfatare le false credenze popolari e mettere in discussione le ipotesi più facili fa parte della missione di un giornalista. Non potete farlo se siete troppo consapevoli delle reazioni del pub-

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blico e troppo preoccupati di assecondarle. Finirete per diventare affidabili quanto un innamorato così desideroso di compiacere l’amata da dirle soltanto quello che pensa voglia sentirsi dire. Lo scrittore satirico inglese Michael Frayn aveva questo in mente quando, in The Tin Men, ha raccontato la storia di un computer che veniva programmato per produrre quotidiani in base ai risultati dei sondaggi di massa. Alla gente veniva chiesto quali storie preferiva, con quale frequenza voleva leggerle e quali dettagli gradiva di più. Dovrebbe esserci un disastro aereo al mese o più spesso? Preferite che vengano trovati dei giocattoli tra i rottami o no? Se si parla di un delitto, la vittima dovrebbe essere una bambina, una vecchia signora o una donna incinta non sposata? E il corpo dovrebbe essere nudo o «semivestito»? Nel mondo esistono tanti giornalisti commerciali che, armati delle loro ipotesi sui desideri dei lettori piuttosto che dei risultati di un sondaggio, affrontano il giornalismo come fa il computer immaginato da Frayn. A volte entrano in gioco anche altri preconcetti sui gusti dei lettori. Negli ultimi anni sono tornate di moda le «interviste estemporanee» (in cui persone comuni esprimono la loro opinione, non sempre molto originale, su una notizia) e le storie personali, box collocati accanto all’articolo principale in cui qualcuno racconta la propria esperienza. Più spesso di quanto sarebbe ragionevole aspettarsi, la malsana fissazione dei direttori per queste aggiunte non è dovuta alla drammaticità dell’esperienza raccontata, ma all’età, al sesso e all’aspetto della persona. Quello che ha da dire una donna attraente sulla trentina, anche se è assolutamente banale, viene quasi sempre preferito alla commovente testimonianza di una più anziana e meno fotogenica. Questa scelta può anche non essere difendibile o edificante, ma è un fatto della vita per la maggior parte dei giornali. 8) Contesto È la situazione della zona di diffusione di un giornale (ambiente sociale, città o regione) che vi aiuta a valutare l’ecceziona-

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lità dell’argomento e dello sviluppo. Il valore di notizia di un evento varia a seconda di dove si verifica. Questo spiega perché un settimanale della campagna danese darà a una sparatoria molto più valore di un rotocalco di New York. Nel primo caso è un’eccezione, nel secondo è un evento che si verifica molte volte al giorno. A volte questo funziona al contrario, quando si accumulano molti casi dello stesso sviluppo. Ad esempio, il fatto che un cane morda un uomo di solito non viene considerato una notizia. Ma se una certa razza di cani continua a mordere le persone – e con ferocia – il fatto diventa una notizia. È per questo motivo che il contesto dovrebbe sempre essere chiarito, a volte in modo particolareggiato. In alcuni casi, il contesto è generalmente noto, ma molto spesso richiede una ricerca e quindi diviene inseparabile dallo sviluppo della storia. Perciò non andrebbe mai trascurato. Il contesto è importante anche per difendere i giornalisti dall’accusa di essere sempre negativi, sensazionalisti o interessati solo alle cose brutte. Ad esempio, se vivete in un posto dove tutte le persone che entrano in ospedale vengono curate e accudite, farà notizia se qualcuno improvvisamente viene trascurato e muore. Raccontare una cosa del genere di solito viene considerato disfattismo. A parte il fatto che non è compito del giornalista essere né negativo né positivo, chi lancia queste accuse dovrebbe chiedersi quanto dovrebbero essere scadenti gli standard di assistenza medica per produrre titoli come Si ricovera in ospedale e sopravvive. LA MOBILE GRADUATORIA DELLE NOTIZIE Una volta tenuto conto di questi fattori generali, l’importanza di una notizia può essere giudicata solo caso per caso. Facciamo qualche esempio. – Una nuova iniziativa di pace dell’Onu in un paese africano dilaniato dalla guerra civile.

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– Il divieto del governo di importare tutte le automobili straniere. – Il divorzio di una famosa attrice di un serial televisivo. – Un politico dell’opposizione che convoca una conferenza stampa per condannare la politica finanziaria del governo. – Un altro politico dell’opposizione che convoca una conferenza stampa per annunciare che probabilmente concorrerà per la carica di Primo ministro. – Quattro ragazze assassinate in tre giorni da un maniaco in un piccolo quartiere della vostra città. – Il governo annuncia nuovi controlli igienici nei ristoranti. Quale notizia ritenete più importante? Quale mettereste in prima pagina? Naturalmente questo diventa un esercizio impossibile se non sappiamo di che giornale si tratta e chi sono i suoi lettori. Quindi provate prima tenendo a mente il giornale di maggior tiratura della vostra capitale e poi un importante quotidiano economico. Io sceglierei le ragazze assassinate per il giornale popolare e il divieto di importazione delle automobili straniere per il quotidiano economico. Per raggiungere questa decisione ho esaminato le notizie in base a una graduatoria che uso da anni, in modo essenzialmente automatico e inconscio, come spesso si fa in questi casi. Non è stata mai pubblicata finora, ma adesso ve la rivelo. In fondo alla graduatoria ci sono le notizie su quello che dice la gente Si tratta di notizie sui conflitti di idee o su nuove idee. Sono solo ‘chiacchiere’, non è successo niente, qualcuno ha semplicemente detto qualcosa. A tradire la natura di queste notizie è la presenza nel titolo di parole come «avverte», «sollecita» o «invita». Nel maggio del 1994, in un numero del «Moscow Times» – un giornale russo in lingua inglese per altri versi eccellente – nove articoli su tredici erano di questo tipo. Significava veramente che, in

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un paese enorme che si estende per otto fusi orari, nell’arco di un fine settimana erano successe solo quattro cose che meritassero di essere pubblicate? Sono due le trappole in cui un giornalista può cadere in questi casi. La prima è supporre che dovremmo riportare qualcosa solo perché l’ha detto un politico. Non è vero. Ogni giornalista dovrebbe avere sulla sua scrivania un cartello col motto «Sono solo politici». Il fatto che un uomo di mezza età in doppiopetto grigio abbia deciso di fare un discorso o una dichiarazione non fa necessariamente notizia. La maggior parte dei discorsi e delle dichiarazioni è espressione dell’ovvio. È solo quando contengono qualcosa di sorprendente che diventano notizie. Un noto riformista e politico progressista che condanna la lentezza con cui si evolve la società non dice niente di nuovo. Ma se annuncia di essersi convertito al comunismo, allora sì che fa notizia. La seconda trappola è quella del cosiddetto pseudo-evento: conferenze stampa, interviste e cose simili. Le conferenze stampa non fanno, come alcuni giornalisti sembrano credere, notizia di per sé. Non è successo nulla. Il mondo non è cambiato di una virgola. È accaduto solo che un politico o una persona famosa hanno voluto rilasciare una dichiarazione, di solito per motivi personali, il primo dei quali è farsi pubblicità. L’unica cosa che conta è il contenuto del messaggio. Siate sempre scettici nei confronti di questi pseudo-eventi. Poi vengono le notizie su quello che la gente dice che succederà Di solito si tratta di persone che denunciano pericoli o richiedono interventi. I politici abusano di questo tipo di sollecitazioni, aiutati e spalleggiati da giornalisti pigri che trovano molto più facile assistere alle conferenze stampa che andare in giro a cercare vere notizie. Ma a volte questi eventi hanno almeno il pregio di darci, insieme all’aria fritta, qualche informazione seria e concreta su una certa situazione.

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A seguire ci sono le notizie su quello che la gente dice che sta succedendo o è successo in passato Sono le notizie sui risultati delle ricerche, in cui qualcuno vi racconta che cosa ha scoperto. Sotto sotto dev’esserci qualcosa. In cima alla lista ci sono le notizie su quello che è accaduto Sono le notizie che riguardano sviluppi, avvenimenti, incidenti, disastri, processi e molti altri fatti concreti, reali e dimostrabili. Un elemento importante per giudicare il valore di una notizia è quanti dei vostri lettori riguarda Più sono numerose le persone coinvolte in un evento, più forte sarà l’articolo che ne parla. Se i lettori sono coinvolti direttamente, tanto meglio. Più durano gli effetti di quello che state raccontando, più valido e forte sarà l’articolo Un articolo su qualcosa i cui effetti durano solo un giorno o due è chiaramente più debole di uno su qualcosa i cui effetti sono permanenti. Come accade per tutte le norme empiriche, esistono sempre delle eccezioni alla regola. Un fattore determinante è spesso la moda. Notizie che una settimana prima avrebbero a malapena meritato un trafiletto all’interno del giornale, finiscono improvvisamente in prima pagina sull’onda dell’attualità. Ulteriori sviluppi, un avvenimento, un incidente, un disastro, possono fare dell’argomento la notizia della settimana. Ma può anche funzionare al contrario, e questo spiega perché essere i primi a pubblicare una notizia spesso non è conveniente come sembra. Quando si ha a che fare con le notizie, spesso la scelta del momento giusto è essenziale. Infine, i cronisti dovrebbero sempre ricordare che il fatto che sono stati loro a scoprire qualcosa non ne fa necessariamente una

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notizia. Possono esserci voluti giorni o anche settimane di indagini per trovare le ‘informazioni’ che stanno cercando di vendere al loro direttore, possono aver affrontato ogni genere di difficoltà e superato ogni genere di ostacoli – ma questo non rende la storia più interessante. Soltanto in casi molto eccezionali al lettore interessa sapere come il cronista ha scoperto le informazioni. In questo giornale, la separazione tra le pagine di cronaca e quelle degli editoriali e dei commenti è solenne e totale. Questa separazione è intesa come un servizio ai lettori, che hanno il diritto di trovare i fatti in cronaca e le opinioni nelle pagine dei commenti e negli editoriali. Ma questa separazione di funzioni non è mai intesa a eliminare dalla cronaca gli approfondimenti, le analisi o i commenti onesti che siano chiaramente distinti dai fatti. Ben Bradlee (quando lavorava al «Washington Post»)

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Da dove arrivano i buoni articoli?

È la cronaca che cattura l’attenzione dei lettori, ma sono gli approfondimenti che li tengono avvinti. Lord Northcliffe

A volte le storie migliori sembra saltino fuori dal nulla – sono incidenti inaspettati, dimissioni e catastrofi così spaventose che bastano i fatti puri e semplici a farli finire in prima pagina. Noi giornalisti non possiamo contribuire a crearli in alcun modo, possiamo solo studiarli accuratamente e darne dei resoconti scritti. Invece molte altre buone storie esistono proprio grazie ai giornalisti. Sono quelle notizie che nascono come incidenti minori ma diventano sensazionali grazie alla scoperta di qualche aspetto che fino a quel momento nessuno aveva mai rivelato; e le vere storie impreviste, di cui il pubblico non sa nulla fino a quando un giornalista non le scopre e le racconta. Non c’è niente di casuale in tutto ciò. I buoni articoli di questo tipo non saltano fuori dal nulla; nascono perché un bravo giornalista sa dove andare a cercare e conosce il proprio mestiere: proprio per questo capita più spesso a lui di scriverli che a un giornalista qualunque. L’apparente mistero dell’origine di una buona storia in realtà non è affatto un enigma. Basta avere un solido metodo di lavoro, e sapere dove andare – e non andare – a cercare.

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QUALI SONO LE ABITUDINI DI UN CRONISTA AFFERMATO? I migliori cronisti trovano le storie migliori perché hanno un acuto senso della notizia e sanno dove cercare, con chi parlare e che cosa chiedere. Dei dettagli parleremo nei prossimi tre capitoli sulle ricerche, sulle fonti e sulle interviste. Esistono però altre abitudini dei giornalisti, forse meno ovvie ma altrettanto essenziali, che producono sempre buoni articoli. Non lasciare nulla di intentato La determinazione è forse la qualità che distingue più di qualsiasi altra cosa un buon giornalista da un cronista qualunque. È proprio quando gli altri cronisti dicono: «Oh, non vale la pena di chiamarli», o «Non ha senso restare ancora qui», che i reporter migliori si mettono all’opera. Un esempio classico, ma più che mai importante perché riguarda il nostro lavoro quotidiano, è quello della notizia che Derek Lambert scoprì quando era in prova al «Daily Mirror». All’inizio sembrava si trattasse di un banale caso di omicidio. Un polacco era stato trovato accoltellato nello scantinato di una squallida pensione di Manchester e Lambert era stato mandato a scoprire quello che poteva. La faccenda non sembrava molto promettente. I vicini non sapevano (o dicevano di non sapere) nulla, il poliziotto messo a guardia della scena del delitto non voleva parlare, e quando Lambert andò al distretto di polizia gli dissero che non potevano aggiungere nulla alla breve dichiarazione che avevano già rilasciato. A questo punto un giornalista qualunque sarebbe tornato in redazione e avrebbe riferito che non si sapeva molto di quella storia; ed è esattamente ciò che fecero i concorrenti di Lambert. Ma lui era di una stoffa diversa: rimase dov’era, deciso a saperne di più, magari strappando qualche parola a un poliziotto fuori servizio. Dopo un po’, vide degli agenti che uscivano dal distretto e salivano in macchina. Nella speranza che stessero indagando su

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quel caso, tornò sulla scena del delitto. Arrivato lì vide due uomini in borghese che bussavano alle porte. Si presentò a loro e cominciò a parlare del caso. L’uomo che era stato ucciso, gli dissero, era un informatore della polizia che era stato prima investito da una macchina e poi accoltellato. Lambert aveva la sua storia, e nel giro di pochi minuti la stava dettando in redazione. Il pezzo cominciava così: «Ieri sera la polizia ha cominciato a indagare sul mistero dell’uomo ucciso due volte». L’articolo finì in prima pagina e Lambert si assicurò un posto al «Mirror». Andare in giro A volte le buone storie arrivano anche a quelli che se ne stanno seduti ad aspettarle in ufficio, ma molte persone sono più disposte a parlare faccia a faccia che non al telefono. E un’esperienza di prima mano, piuttosto che di seconda, tende a produrre articoli migliori, che si tratti di un funzionario appostato in fondo alla sala dove si tiene una conferenza stampa che vi dice quello che si nasconde dietro l’annuncio ufficiale, o di qualcosa che vedete con i vostri occhi. Per esempio, William G. Shepherd, un cronista della United Press, il 25 marzo 1911 si trovava per caso a passare per Washington Square, quando gli cadde lo sguardo su uno sbuffo di fumo che usciva da un palazzo vicino. L’edificio apparteneva alla Triangle Shirtwaist Company, e l’incendio appena scoppiato sarebbe diventato una famosa tragedia, anche grazie al racconto di Sheperd delle giovani donne che lavoravano agli ultimi piani e che all’avanzare delle fiamme si gettarono dalla finestra. «Ho imparato un nuovo suono, un suono più orribile di quanto si possa descrivere», scrisse Shepherd. «Il tonfo di un corpo ancora in vita che piomba a gran velocità su un marciapiede di pietra. Tonfo-morta, tonfo-morta, tonfo-morta, tonfo-morta. Sessantadue volte... C’era tutto il tempo di vederle cadere. Il palazzo era alto venticinque metri». È ovvio che in questo caso Shepherd ebbe la fortuna di imbattersi in una storia importante, ma è anche vero quello che ha det-

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to qualcuno: «Ho incontrato un sacco di cronisti fortunati, ma non ne ho mai conosciuto uno che fosse fortunato e anche pigro». E la fortuna può assumere le forme più strane. Un caso paradossale, qualche anno fa, fu quello del cronista norvegese Lars Gustavsen, inviato dal suo giornale a occuparsi di un inseguimento della polizia. Mentre si recava sul posto, raccolse un autostoppista e ci chiacchierò per una buona decina di minuti prima di essere fermato a un posto di blocco, dove l’autostoppista venne immediatamente tratto in arresto: era proprio l’uomo che la polizia stava cercando. Gustavsen ne uscì con un grande pezzo, anche se un po’ imbarazzante. Tenere gli occhi aperti in cerca di possibili storie I cronisti migliori imparano presto a osservare quasi tutto quello che succede al di fuori della loro vita privata (e a volte anche al suo interno) nella speranza di poterne ricavare una storia, come le balene setacciano il mare alla ricerca di krill. Vediamo esempi di questo atteggiamento quasi ogni giorno, ma una giovane cronista inglese ha dimostrato che un’attenzione continua e un buon senso della notizia pagano sempre. Un giorno del 2005, Ruth Lumley stava attraversando in treno la contea del West Sussex quando notò una scritta sulla porta della toilette. Diceva: «Cercasi ragazze dagli 8 ai 13 anni a scopo sessuale», e seguiva un numero di telefono. Forse si trattava solo di uno scherzo di cattivo gusto ma, essendo una brava giornalista, Ruth Lumley decise di indagare. Fingendo di essere una ragazzina di 11 anni, mandò un sms al numero scritto sulla porta, e le tornò indietro una serie di messaggi osceni. Contattò la polizia, che fece le sue indagini e arrestò quattro uomini i quali finirono meritatamente in prigione per reati sessuali, e Lumley ebbe un bel pezzo da scrivere. Anche se con risultati meno sensazionali, era tenendo gli occhi sempre aperti che Meyer Berger del «New York Times» riusciva a scrivere tanti articoli di interesse umano per la sua rubrica settima-

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nale: dalla storia del discendente di cacciatori di teste che aveva un negozio di barbiere a Manhattan a quella della signorina Delphine Binger e della sua collezione di 500mila forcelle di pollo, tacchino e oca; da quella del negozio di abbigliamento per obesi di Sig Klein (la cui specialità erano i pantaloni taglia 62) a quella dell’unico allevamento di mantidi religiose di New York. Restare sul posto Quando gli viene affidato un servizio, a meno che non possa proprio evitarlo, un bravo cronista non arriva mai affannato e all’ultimo momento. Tende anzi ad arrivare prima e, se ha tempo, a fermarsi dopo l’evento ufficiale. In questo modo può capire di che cosa si tratta veramente e chi sono le persone coinvolte, sentire delle cose, osservare qualche dettaglio utile, parlare con la gente, fare domande. Di qualsiasi cosa si tratti – un processo, un’inchiesta pubblica, una riunione politica, il lancio di una campagna, la presentazione di un rapporto – le notizie interessanti non si scoprono mai nella fase ufficiale, ma prima o dopo, parlando con gli interessati. Dopotutto, chi non è del mestiere in genere non ha idea di che cosa serva per scrivere un buon articolo. È solo quando chiacchiera informalmente, prima o dopo una riunione, un’intervista o qualsiasi altro evento, che può accennare a qualcosa di molto più interessante del motivo ufficiale per cui in origine è andato lì. Non si sa mai quello che può succedere se ci si ferma. Forse l’esempio migliore di un giornalista che si trovava nel posto giusto al momento giusto è quello di Lawrence Gobright dell’Associated Press. La sera del 14 aprile 1865 si era fermato a lavorare fino a tardi nel suo ufficio di Washington, quando un amico che era andato al vicino Ford’s Theatre si precipitò da lui e gli disse che avevano sparato al presidente Lincoln. Gobright spedì un breve comunicato e corse al teatro. Arrivò così presto che nella sala regnava ancora una gran confusione, così riuscì a entrare nel palco presidenziale, a esaminare il sangue sul-

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lo schienale della sedia a dondolo di Lincoln, a vedere lo strappo sulla bandiera prodotto dagli speroni dall’assassino mentre saltava giù dal palco, e perfino a raccogliere l’arma che l’attentatore aveva lasciato cadere mentre fuggiva. Più tardi ci sarebbe stato Alistair Cooke della Bbc, che si trovava nella parte giusta dell’Hotel Ambassador di Los Angeles quando spararono al senatore Robert Kennedy. La fortuna dipende da noi Per essere fortunati, bisogna mettersi nella situazione giusta. In parte è una questione di tenacia, in parte di quell’istinto che ci fa capire dove succedono veramente le cose e in parte, soprattutto nel caso di eventi importanti di cui si occupano molti giornalisti, significa non seguire il gregge. Nel 1981, quando ci fu l’attentato di Ali Agca al papa Giovanni Paolo II, arrivarono a Roma giornalisti da tutto il mondo. Tra loro c’era anche John Edwards del «Daily Mail». Come parecchi altri, atterrò a Roma alle 23.30, ma invece di recarsi direttamente al suo albergo come il resto del gregge, decise di mettersi subito al lavoro. Ma dove andare? Piazza San Pietro era piena di suore che pregavano per la guarigione del papa. La polizia si limitava a rilasciare qualche concisa dichiarazione e quindi Edwards pensò di gettarsi direttamente sugli sviluppi della vicenda: andò all’ospedale dove Wojtyła stava lottando con la morte. Incredibilmente, quando all’una di notte arrivò lì, scoprì di essere l’unico giornalista presente. E non solo: non trovò neanche un poliziotto a sbarrargli la strada. Quindi entrò, e dopo aver gironzolato per qualche minuto trovò una sala d’attesa dove poteva sedersi e tenere d’occhio la situazione. Dormicchiò un po’ e poi, intorno alle sei di mattina, sentì il rumore di porte che si aprivano, passi e voci. Vide sei chirurghi con i camici schizzati di sangue attraversare la sala d’attesa e uscire su un balcone. Mentre fumavano e respiravano la prima aria del mattino, Edwards vide che

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sorridevano. Si avvicinò a loro e fu fortunato. Erano proprio quelli che avevano salvato la vita al papa e alcuni di loro parlavano anche bene inglese. Erano soddisfatti del lavoro di quella notte e si sbottonarono con Edwards: gli disegnarono perfino sul taccuino i tagli che avevano praticato e gli descrissero in dettaglio ogni fase dell’operazione. Non è difficile credere che in seguito Edwards lo avrebbe definito il miglior articolo che avesse mai scritto. Sapere quale può essere lo sviluppo più interessante Buona parte di quello che gli inesperti pensano sia il misterioso istinto di un buon cronista è, in realtà, il prodotto di un semplice calcolo. Uno dei metodi che i giornalisti affermati usano è quello di pensare più o meno una cosa del genere: quale potrebbe essere lo sviluppo più interessante? Tenendo conto di tutti gli scenari possibili e di tutti i fatti, quale potrebbe essere l’attacco più incisivo? Questo calcolo spesso si rivela utile sia per capire quali notizie non vale la pena di seguire, sia per scoprire quelle che meritano attenzione. Costruire un rapporto di fiducia con le fonti di informazione Un buon cronista mantiene rapporti regolari con i suoi contatti e non si fa vivo solo quando ha bisogno di loro. Li coltiva andando a riunioni che altrimenti diserterebbe e di tanto in tanto passa loro delle informazioni. Di conseguenza i contatti si ricordano di lui quando hanno una notizia interessante. I contatti meno regolari si ricordano di un giornalista anche perché il suo lavoro si è dimostrato corretto e accurato. Una fonte di informazione che si fida di un giornalista può essere utile da vari punti di vista. Una volta, una parlamentare del partito di governo che conoscevo mi aiutò a far entrare in Iraq uno dei maggiori esperti di politica estera dell’«Observer» perché potesse controllare le notizie che stavano arrivando al giornale sulle atrocità commesse da Saddam Hussein contro gli arabi delle paludi. Se non fossi stato in rapporto con lei,

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se non si fosse fidata dell’onestà del mio giornale, se non avesse avuto contatti con i coraggiosi ribelli iracheni, non avremmo potuto raggiungere il sud dell’Iraq e il mondo non avrebbe mai saputo di quelle atrocità. Grazie a quel servizio, Shyam Bhatia vinse il premio come miglior corrispondente straniero dell’anno. Mostrare interesse per l’argomento in generale, non solo per la notizia in sé Le persone lo sentono, proprio come lo sentite voi, quando un giornalista si interessa a loro solo in funzione di una notizia specifica. I bravi giornalisti provano un sincero interesse per i problemi e le persone in essi coinvolte, e si vede. Questo torna tutto a loro vantaggio. Nel 1968, quando il dissidente sovietico Aleksandr Ginsberg fu imprigionato in seguito a un processo a porte chiuse, la moglie Ludmilla convocò una conferenza stampa. La sera prima della conferenza, tutti i corrispondenti occidentali che si trovavano a Mosca, circa un centinaio, furono contattati dall’ufficio stampa del governo e avvertiti che sarebbero stati presi «gravi provvedimenti» nei confronti di quelli che vi avessero partecipato. Il giorno successivo, solo quattro di loro ebbero il coraggio di recarsi nell’appartamento dei Ginsberg, tra cui Raymond Anderson del «New York Times». Qualche mese dopo, nel luglio del 1968, Raymond ricevette una busta da un amico, che a sua volta l’aveva avuta dallo storico dissidente Andrej Amelrik. Nel plico c’era il saggio contro il sistema sovietico che avrebbe poi reso famoso Andrej Sacharov. Dopo qualche altra avventurosa ricerca, Anderson appurò che il documento era autentico e lo spedì in segreto fuori dal paese perché approdasse sulle prime pagine dei giornali di tutto il mondo. Capire quali storie non sono ancora concluse In molti giornalisti, la parola «seguito» non evoca ricordi gloriosi, perché li fa pensare a tutte le volte in cui hanno dovuto riordi-

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nare una serie di informazioni sparse o rifare la facciata a una storia stantia perché sembrasse una novità. Per molti giornali, in sostanza, è proprio questo. Ma esistono anche notizie che quando vengono riprese portano più frutti della prima volta. Un buon giornalista lo capisce immediatamente se pensa a che cosa manca, o potrebbe mancare, allo sviluppo della vicenda. Facciamo un esempio. Un giorno una vecchia signora morì nella sua casa nel nord dell’Inghilterra senza che nessuno se ne accorgesse. Notando il contrasto tra i segni visibili dell’accaduto (come le bottiglie di latte rimaste davanti alla porta) e l’indifferenza dei vicini, il coroner osservò che se i vicini le avessero prestato maggiore attenzione, o si fossero presi il disturbo di andarla a trovare, forse la vecchietta sarebbe stata ancora viva. Il «Daily Mirror» mandò Derek Lambert a vedere se era possibile scrivere un pezzo sulla donna morta tra l’indifferenza dei suoi agiati vicini. Lambert andò di casa in casa riuscendo a raccogliere qualche brandello di informazione, ma per lo più incontrando sguardi vuoti e alzate di spalle, finché trovò un vicino disposto a parlare. Poi, quando Lambert stava per andare via, l’uomo aggiunse: «Certo che quel coroner ha una bella faccia tosta, no?». Lambert gli chiese che cosa intendesse dire (è sempre una buona domanda). «Beh – replicò l’intervistato – abita solo in fondo alla strada». Quindi era proprio uno di quei vicini che aveva tanto biasimato. A quel punto Lambert capì di poter scrivere un buon pezzo: la storia del coroner che senza rendersene conto si era auto-accusato. Guardare le cose da un’angolatura diversa I comici e i bravi giornalisti hanno una cosa in comune. Entrambe le categorie trovano dei buoni spunti ribaltando le cose, invertendo una situazione (o un’espressione) per poterla esaminare e cogliere un lato inaspettato. Ai giornalisti affermati molte buone idee vengono proprio guardando le cose da una prospettiva inso-

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lita. Quando, ad esempio, John Tierney del «New York Times» fu incaricato di scrivere un pezzo sulle donne che si iscrivono ai corsi di autodifesa (un’idea non proprio originale), decise di non incentrare l’articolo sulle donne bensì sull’«aggressore modello», il finto violentatore con la tuta imbottita che tutte prendevano a pugni e calci. Esistono però dei limiti all’inventiva di un reporter. Una volta, ad esempio, al «Daily Mail» c’era un giornalista di nome Maurice Fagence. Non era mai molto puntuale, ma un giorno accumulò un ritardo talmente spettacolare che per punirlo la redazione gli affidò un servizio che sapeva avrebbe comportato molta fatica per nulla: una fiera di piccioni a Birmingham. Per non dargliela vinta, Fagence arrivò lì con un gatto nascosto sotto il cappotto. Così poté cominciare il suo pezzo chiedendosi chi mai avesse sguinzagliato un gatto tra i piccioni. Fare dei collegamenti Un buon giornalista fa dei collegamenti quando prende un paio di notizie, o di fatti, che fino a quel momento nessuno ha ancora associato e trova un legame tra loro. È quello che Willi Gutman, il bibliotecario di un giornale fuggito dalla Germania di Hitler, chiamava «scoop di interpretazione». È anche uno dei motivi per cui sbagliano quelli che rimproverano ai giornali di «nutrirsi a vicenda». Molti buoni articoli nascono proprio perché un giornalista ha scovato una piccola notizia in un altro giornale, ha indagato e ha scoperto che dietro a quell’argomento o a quel problema c’è molto più di quanto pensasse il primo giornale. E molte notizie sono venute completamente a galla perché vari quotidiani, lavorando ognuno per proprio conto, hanno scoperto i diversi pezzi del rompicapo che messi insieme davano il quadro completo. Le inchieste sullo scandalo Watergate, che tra il 1973 e il 1974 portò alle dimissioni del presidente Nixon, sono un classico esempio di questo genere.

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Mai fidarsi delle sintesi dei rapporti ufficiali Nella maggior parte dei casi, è difficile trattenere uno sbadiglio quando si vede la copertina di un rapporto ufficiale. Ma in alcuni di essi, magari sepolta a pagina 94, a volte si trova una vera notizia. Può anche darsi che sia stata messa lì deliberatamente, nella fiduciosa speranza che la maggior parte dei giornalisti non si prenderà la briga di leggere fino a quel punto, o con troppa attenzione. Molti cronisti, quando si trovano di fronte uno di quei libroni, si limitano a leggere le pagine del sommario. Se avete tempo, leggete l’intero rapporto; e se non lo avete, andate a guardare nei posti dove è più probabile che si nasconda del materiale interessante: dichiarazioni e dimostrazioni da parte di chi è oggetto di critiche, e la sezione dedicata ai casi esemplificativi. Leggere un rapporto da cima a fondo può ripagare ampiamente della fatica. All’inizio degli anni Novanta, Eileen Welsome, una cronista locale dell’«Albuquerque Tribune», stava sfogliando un documento appena reso di pubblico dominio su alcuni esperimenti con le radiazioni che erano stati condotti sugli animali verso la fine della seconda guerra mondiale. In una nota poco visibile trovò il riferimento a 18 persone alle quali erano state iniettate dosi di plutonio per permettere agli scienziati di studiare gli effetti delle radiazioni sul corpo umano. Cominciò a fare delle ricerche e nel novembre del 1993 pubblicò un servizio in tre puntate. Un mese dopo il governo degli Stati Uniti convocò una conferenza stampa e ammise tutto. Il presidente Clinton ordinò un’inchiesta e le famiglie delle vittime cominciarono a rivolgersi alla magistratura. L’anno successivo, la Welsome vinse il premio Pulitzer. Non giudicare mai le persone a priori L’agente segreto di maggior successo che abbia mai conosciuto era un uomo grande, grosso e gioviale, che aveva tutta l’aria di un sempliciotto e come mestiere di copertura faceva il lottatore pro-

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fessionista. A parte il fatto che spesso andava all’estero, era l’ultima persona che avreste immaginato fosse una spia; per questo motivo non ebbi mai idea della sua vera professione fino a quando non morì. All’inizio pensai addirittura che avesse preso un colpo in testa di troppo. I giornalisti affermati sanno che giudicare le persone dal loro aspetto e dalla loro occupazione è un buon sistema per commettere errori e lasciarsi sfuggire notizie. Alcune delle fonti di informazione meno affidabili sembrano persone distinte, mentre a volte le migliori hanno l’aspetto di barboni. Questo non significa che dobbiate passare ore ad ascoltare tutti i pazzi, i paranoici e gli esaltati che regolarmente si presentano ai giornali per raccontare di essere seguiti, di essere stati trasportati nello spazio o di essere perseguitati dal governo. Significa però che dovete giudicarli da quello che dicono piuttosto che dal loro aspetto. Non dimentichiamo che una volta, all’inizio degli anni Trenta, un giornalista del «Daily Mail» tornò in redazione dopo essere stato nell’atrio a parlare con un signore in abiti dimessi. Disse che l’uomo era chiaramente un pazzo e borbottava qualcosa sulla trasmissione di immagini in movimento. Tre giorni dopo, diversi quotidiani rivali annunciarono l’invenzione della televisione da parte di un certo John Logie Baird, che naturalmente era il ‘pazzo in abiti dimessi’ nell’atrio. Tenere sempre un dossier di idee Ammetto che non è una trovata geniale, ma è una possibilità che molti trascurano. La qualità e l’ampiezza delle idee è una delle cose che fanno la differenza tra una pagina di cronaca scoppiettante e una così fiacca e debole che non la potreste neanche usare per accendere il fuoco. Quindi dovreste sempre tenere un dossier in cui raccogliere idee e ritagli di giornali e riviste che potrebbero esservi utili in futuro. Se non altro, servirà a incoraggiare un’altra abitudine tipica dei giornalisti affermati, quella di leggere molti

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quotidiani e riviste. Oltre a tenerli aggiornati su quello che sta facendo la concorrenza, li aiuta anche a mantenere alto il proprio livello di conoscenze generali, un altro dei motivi per cui sono diventati famosi. CAPOCRONISTI In alcuni giornali il controllo è così centralizzato, o il capocronista così in gamba, che la maggior parte dei buoni articoli nasce in redazione. Quindi, se volete essere al corrente delle notizie migliori, vi conviene mantenere buoni rapporti con il capocronista. Un bravo giornalista non ci mette molto a capire quello che vuole, e glielo dà, almeno fino a quando non è abbastanza anziano e stimato da potersi permettere di contestare le sue decisioni. Tuttavia, come i giovani reporter capiscono immediatamente, avere a che fare con questi personaggi non è molto facile. I capocronisti sono tipi esigenti. Anche se alcuni di noi hanno cercato di ricoprire questa carica pur rimanendo esseri umani abbastanza ragionevoli, è indiscutibile che la pressione alla quale sono sottoposti porta i capocronisti ad assomigliare alla caricatura petulante, collerica e ipercritica che spesso se ne fa. Per consolare i giornalisti convinti che il loro capo sia più psicopatico degli altri, permettetemi di raccontarvi di Charles Chapin, che per molti versi è stato il modello del capocronista inflessibile. All’inizio del ventesimo secolo lavorava al «New York World» e divenne famoso perché pretendeva attacchi incisivi e pezzi che rispondessero sempre alle domande chi, che cosa, perché, dove e come. Fu uno dei pionieri dell’uso del telefono, e creò una rete di «galoppini», corrispondenti locali che raccoglievano informazioni e le mandavano al giornale per essere trasformate in articoli dai «riscrittori». Niente lo mandava su di giri più di una tragedia e, quando una nave a vapore chiamata General Slocum prese fuoco sull’East River di New York e 1021 persone persero

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la vita, Chapin fu visto fischiettare e cantare in giro per la redazione leggendo gli articoli migliori, mentre alcuni dei suoi redattori avevano le lacrime agli occhi. Non vi sorprenderà, quindi, sapere che Chapin teneva per sé tutti i biglietti gratuiti che venivano mandati al giornale (quando non poteva usarli li strappava davanti ai suoi collaboratori), e nel corso della sua carriera si vantava di aver licenziato ben 108 giornalisti (compreso Joseph Pulitzer jr., il figlio del proprietario del suo giornale). Questo personaggio abilissimo ma mostruoso avrebbe potuto occupare un posto di maggior rilievo nella storia del giornalismo se nel 1918 non fosse diventato lui stesso oggetto di cronaca quando, in un momento di follia dovuto a problemi economici, sparò in testa alla moglie. Fu mandato a Sing-Sing, dove modificò a tal punto il giornale della prigione che dovettero revocargli l’incarico di direttore perché turbava i detenuti che collaboravano con lui. In seguito si dedicò al giardinaggio, con tale successo che la rivista «Homes and Gardens» pubblicava articoli sulle sue rose e tutti i visitatori chiedevano di vederle. Alla fine della sua vita, quello che un tempo era stato un capocronista petulante sarebbe diventato famoso come «l’uomo delle rose di Sing-Sing». FONTI DI INFORMAZIONE NON SCONTATE La maggior parte dei giornalisti ha vedute molto ristrette in materia di fonti d’informazione. Ma se date un’occhiata ai grandi quotidiani nazionali, che ogni giorno possono scegliere tra tutto quello che è disponibile, vedrete che le fonti dei loro articoli non sono affatto convenzionali come molti immaginano. In un tipico numero dell’«Independent», ad esempio, troverete dai 33 ai 38 articoli di notizie dall’interno, senza considerare le brevi e i reportage dal parlamento. In un numero del dicembre 1999 comparivano 36 articoli divisi in base alle seguenti fonti di informazione:

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Ministeri o uffici governativi Informali (contatti, osservazioni) Tribunali, inchieste Università Gruppi di pressione, sindacati ecc. Fonti politiche Stampa specializzata Società commerciali Riviste per la difesa dei consumatori Organizzazioni internazionali Polizia

10 5 5 3 3 3 2 2 1 1 1

In altri numeri del giornale appaiono più articoli basati su informazioni provenienti dalla polizia e dal mondo della politica e meno dai tribunali, ma in generale queste proporzioni non variano in modo rilevante. Questo significa che generalmente metà delle informazioni provengono da fonti non istituzionali. Se tra le notizie provenienti da fonti governative calcoliamo solo gli annunci ufficiali, escludendo le informazioni ottenute da contatti personali, le fonti non istituzionali forniscono materiale per circa il 60 per cento degli articoli. Questo dimostra ancora una volta quanto sia importante coltivare i contatti e, in particolare, essere più aperti nei confronti di fonti e argomenti non convenzionali. Ecco alcuni suggerimenti sui posti meno ovvi in cui trovare notizie interessanti. Università e istituti di ricerca Che si tratti di ricerche mediche all’avanguardia, di uno studio sulle riserve naturali della vostra regione, o di un’indagine sul perché gli uomini portano cravatte di un certo colore, gli accademici intraprendono ricerche che nessun romanziere oserebbe mai immaginare. Alcune di esse sono estremamente specialistiche, ma molte possono essere di interesse generale. Ad esempio, un istituto di ricerche spaziali alle porte di Mosca studia da anni quali tipi di personalità sono veramente compatibili tra loro, per evita-

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re che le persone che costringeranno a convivere nella stazione spaziale Mir comincino a litigare appena lasciata la Terra. Rivolgendosi al lettore comune e applicando le scoperte al modo in cui le persone riescono a convivere nelle case e negli uffici, piuttosto che su una nave spaziale, su questo tema sarebbe possibile scrivere un articolo di interesse generale. Stampa specializzata e underground Se avete la competenza per leggerli, i giornali specializzati possono rivelarsi un buon terreno in cui andare a caccia di notizie insolite. Anche la stampa underground del vostro paese merita di essere letta regolarmente. Gli articoli di queste pubblicazioni sono spesso sbilanciati, ma sono anche frutto di contatti con fonti non convenzionali. Alcune delle notizie più interessanti compaiono per la prima volta in questi giornali. Libri Nel 1998, Maciej Zaremba, un giornalista di origine polacca che scriveva per il maggiore quotidiano svedese, il «Dagens Nyheter», rivelò che tra il 1935 e il 1976 la Svezia aveva costretto alla sterilizzazione più di 60mila donne. Lavorando con un ricercatore di nome Maija Runcis, che aveva accesso agli archivi della Commissione medica di Stato, Zaremba scoprì che, contrariamente a quanto comunemente si credeva, in Svezia la sterilizzazione non era mai stata volontaria. Le ragazze che rimanevano indietro a scuola, o erano considerate promiscue, o avevano problemi con l’autorità, venivano definite «indesiderabili», portate via dalle loro case da funzionari dello Stato, rinchiuse in un istituto e lasciate libere solo quando accettavano di essere sterilizzate. La notizia fu pubblicata in tutto il mondo e il governo svedese aprì un’inchiesta. E Zaremba dove si era imbattuto per la prima volta nella notizia? In un oscuro volume scritto da due svedesi, ma pubblicato unicamente negli Stati Uniti.

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Riviste per iniziati Non si tratta di riviste scritte per un pubblico colto, ma per persone comuni con interessi particolari. Leggere queste pubblicazioni vi consente di accedere a mondi (come quello dei cacciatori di tesori o dei coltivatori di verdure) nei quali altrimenti non entrereste mai. E quasi in ogni numero potete essere sicuri di trovare una notizia che, trattata nel modo giusto, può interessare i lettori del vostro giornale. Una rivista sui computer può riportare la notizia di un nuovo virus che minaccia i sistemi di dati commerciali; una rivista sulle auto può contenere informazioni su un nuovo racket di ladri di automobili; una pubblicazione erotica può contenere una pubblicità che vi porterà a indagare sulla pornografia infantile; una rivista di giardinaggio può raccontarvi che le banconote usate vengono ridotte in poltiglia e utilizzate come fertilizzanti. Organizzazioni internazionali Esistono migliaia e migliaia di organizzazioni internazionali che producono a getto continuo rapporti, statistiche e dati, tengono conferenze e seminari e sono piene di esperti, ma nessun cronista dei quotidiani si rivolge a loro più di una volta l’anno. È un vero peccato. Organizzazioni come queste sono tra le fonti di notizie meno sfruttate, e non solo su problemi globali. Molto del loro lavoro implica lo studio di problemi specifici in paesi particolari. Andate in biblioteca, cercate qual è l’organizzazione che si occupa del vostro campo di interesse e contattatela o visitate il suo sito web. Le Nazioni Unite, ad esempio, hanno organismi che si occupano di donne, disastri, problemi dell’infanzia, sanità, disarmo, addestramento, sviluppo economico, insediamenti umani, ambiente, oceani, commercio, rifugiati, forze di pace, popolazione, aiuti alimentari, coltivazione di alimenti, energia atomica, aviazione civile, lavoro, spedizioni, telecomunicazioni, industria, diritti d’autore, meteorologia – quasi tutti gli argomenti che esistono al mondo.

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Blog Per i non iniziati (ma sono rimasti in pochi), i blog sono una sorta di diari online. Possono essere costituiti da poche parole che rimandano a un sito che il blogger considera interessante o da vaneggiamenti narcisistici di molti paragrafi. Le capacità tecniche e il tempo occorrenti per creare un blog (ma non necessariamente per renderlo interessante) ormai sono ridotti quasi a nulla, e questo spiega perché ne nascono circa 12.000 al giorno. Molti finiranno per scomparire e solo pochissimi di quelli che sopravvivono conterranno qualcosa di utile per chiunque non sia un parente, un amico o lo psicanalista del loro autore. Ma i blog possono anche essere preziosi. Quelli che ci aggiornano sugli sviluppi di un evento importante (come il blog di Salam Pax durante l’invasione di Baghdad del 2003, o quelli scritti da decine di persone durante lo tsunami del 2004 o subito dopo l’uragano Katrina del 2005) sono una ricca fonte di informazioni che presenta un punto di vista diverso da quello ufficiale. Ci sono poi alcuni «cittadini giornalisti» che svolgono le loro indagini dove i professionisti non possono, non vogliono e non hanno il tempo di andare. Inoltre, i blogger mostrano spesso una maggiore determinazione dei giornalisti nell’andare a verificare i dettagli delle fonti, come è accaduto nel 2005, quando il blogger bolognese Gianluca Neri ha scoperto alcune informazioni chiave nel rapporto ufficiale dell’esercito americano sull’uccisione dell’agente segreto italiano Nicola Calipari. Annunci personali I giornalisti che non leggono gli annunci personali su tutti i giornali che riescono a trovare si perdono una delle migliori fonti di notizie di interesse che esista. Dopotutto, è tramite quegli annunci che i rappresentanti del genere umano che non fanno i giornalisti comunicano con gli sconosciuti. Ad esempio, il 2 maggio 1962, nella rubrica degli annunci del «San Francisco Examiner» compariva il seguente appello di una certa signora Gladys Kidd:

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Non voglio che mio marito muoia nella camera a gas per un crimine che non ha commesso. Offro perciò i miei servizi come cuoca, cameriera o governante per dieci anni a qualsiasi eminente avvocato disposto a difenderlo e che riesca a farlo scagionare.

Uno dei più famosi avvocati della città, Vincent Hallinan, lesse l’annuncio e contattò la signora Kidd. Suo marito stava per essere processato per l’omicidio di un vecchio antiquario, perché le sue impronte digitali erano state trovate su una spada istoriata e macchiata di sangue che era nel negozio della vittima. Durante il processo, Hallinan dimostrò che l’antiquario non era stato ucciso con quella spada. Riuscì anche a provare che le impronte e il sangue di Kidd erano stati trovati sulla spada perché una volta ci aveva giocherellato mentre era in giro a fare spese con un amico. La giuria dichiarò Kidd innocente e Hallinan rifiutò l’offerta di servitù della signora Kidd. Si possono trovare innumerevoli esempi anche meno eclatanti di notizie scovate negli annunci personali; da quello della donna russa costretta dalla povertà a cercare di vendere il figlio a quello della cosca di contrabbandieri di fauna esotica che tentava di vendere animali rari, e così via. Anniversari Ecco una fonte inesauribile di notizie: gli anniversari possono essere semplici date di nascita o di morte, ricorrenze di grandi avvenimenti storici oppure di eventi insoliti come l’invenzione di un oggetto per la casa, o di qualche altra pietra miliare della vita quotidiana. L’articolo su un anniversario non deve necessariamente essere leggero. Mentre si fanno ricerche sul quinto anniversario di un evento importante per scrivere un pezzo di colore, può spesso saltar fuori un vecchio rapporto sepolto, un elemento trascurato o qualche altra cosa che può farvi scrivere un buon articolo. Altri ambiti produttivi sono: i settori specializzati della polizia e di altri servizi di emergenza (soprattutto quelli che si occupano di frodi, reati informatici, arte e antichità); oscuri organismi go-

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vernativi (come quelli che si occupano del pubblico accesso a proprietà private in cambio di una riduzione delle tasse di successione, della gestione dei beni delle persone affette da infermità mentale, e così via); società di investimento che promettono alti profitti; qualsiasi sistema infallibile per far soldi in poco tempo; società che concedono prestiti (soprattutto quelle che si rivolgono ai meno abbienti); documenti ufficiali appena pubblicati; gruppi di pressione o di autotutela che operano in settori insoliti. Potete trovarne molti di più se tenete gli occhi e le orecchie aperti. Cercate le stranezze, le cose che non vi convincono, quelle che richiederebbero una spiegazione. Il mio primo articolo importante riguardava i senzatetto della città inglese in cui vivevo. Lo scrissi perché li avevo notati la sera tardi negli androni e nei parchi e avevo cominciato a fare le domande che un reporter si pone sempre: Chi? Perché? E così via. La serie di articoli che scrissi spinse molte persone a rivolgersi a me per raccontarmi delle storie e il mio caposervizio ad affidarmi incarichi più importanti. LE NOTIZIE CHE I BRAVI GIORNALISTI EVITANO I giornalisti affermati, oltre a lavorare sodo, devono saper intuire quali notizie è improbabile che si rivelino fruttuose e tenersene bene alla larga. Sanno che le notizie interessanti, tranne in casi rarissimi, non le troveranno nei comunicati stampa, nelle conferenze stampa di routine, nella maggior parte della posta che arriva in redazione, né potranno ricavarle dalle persone che telefonano e dicono: «Ho una notizia per lei!». Non le troveranno neanche nei sondaggi fatti su piccoli campioni, in quelli che nascondono l’ovvio dietro il linguaggio della scienza, in quelli che mirano a identificare nuovi gruppi sociali; né potranno tirarle fuori solo da quello che la gente dice, né dagli eventi confezionati appositamente a beneficio dei giornalisti, come le foto, i lanci e le trovate pubblicitarie. E, soprattutto, sanno che in genere non saranno mai articoli di taglio polemico.

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Gli articoli di taglio polemico Sono la più grande truffa del giornalismo e si sono diffusi come un contagio. Pur essendo legittimi quando riportano serie critiche al comportamento dell’autorità, o un sincero e aspro dissenso tra persone che possono far prendere una piega o un’altra a una certa questione, queste notizie sono più spesso creazioni del cronista, nate dal suo desiderio di montare un dramma fasullo. Succede qualcosa, o viene detto qualcosa, e un cronista telefona subito a un noto e accertato chiacchierone il quale prontamente condanna, deplora o invoca un’inchiesta. Questo equivalente giornalistico dell’andare a pesca in un acquario di solito si conclude con un titolo che inizia con le parole: È scontro su..., Infuria la polemica su..., Grande scalpore per... Il risultato è una storia assolutamente prevedibile che vive solo nelle pagine dei quotidiani. Un’altra tecnica molto comune è quella di presentare una notizia sotto forma di polemica per «ravvivare» qualcosa che è successo o è stato annunciato in precedenza. Viene chiesto un commento a persone che prevedibilmente la pensano nel modo opposto e la loro disapprovazione viene riportata nell’attacco dicendo: «Ieri sera è scoppiata una furibonda polemica su...». A parte l’uso di termini esagerati come «scoppiata» e «furibonda polemica», questo attacco non presenta nessun punto di vista, anzi indebolisce l’articolo invece di rafforzarlo. Per tagliare la testa al toro, tuttavia, dovete chiedervi: «Ho mai sentito i lettori discutere una notizia del genere nei termini in cui l’ha presentata il giornale?». Esistono due tipi di giornalismo: quello che cerca di dire la verità e quello che tratta le notizie come se fossero merce. Max Hastings

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Ricerche

Quando arriva la chiamata nel cuore della notte, un pompiere non deve fare altro che infilarsi i pantaloni e andare a spegnere le fiamme. Un corrispondente deve dire a un milione di persone chi ha acceso il fiammifero e perché. Mort Rosenblum

Cominciamo dalle nozioni fondamentali – e non c’è niente di più fondamentale degli strumenti per condurre il lavoro di ricerca. Un tempo le uniche cose che servivano a un reporter erano un taccuino e una penna. Bastavano quelli. Oggi ha bisogno di un telefono cellulare, di un computer portatile, di una telecamera digitale (utile per filmare una persona o una scena che potrebbe voler descrivere nel suo articolo), e forse di un’agenda elettronica o di un Blackberry. Avrà anche bisogno di strumenti antiquati come: Taccuini: ne servono due, uno abbastanza piccolo da poter essere tirato fuori dalla tasca o dalla borsa quando ci si trova faccia a faccia con una persona, e un altro abbastanza grande per poter lavorare al telefono dalla propria scrivania. Quello grande serve per prendere meglio gli appunti e non essere costretti a girare continuamente le pagine. E dev’essere a spirale, non cucito o incollato. Le pagine si girano meglio, rimangono piatte e si possono strappare senza rompere tutto.

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Un registratore: il registratore è lo strumento migliore per le interviste faccia a faccia, e deve avere tutti i cavi e i collegamenti necessari per registrare le interviste telefoniche, il cui contenuto in seguito potrebbe essere contestato. (In tutti i casi, tranne alcune situazioni particolari, come quando si sta indagando sulla criminalità, dovreste sempre dire alla persona con la quale parlate che state registrando.) Ma anche nelle interviste registrate bisognerebbe usare comunque un taccuino per appuntare le vostre osservazioni e i punti salienti della conversazione, così potrete riascoltare la cassetta solo per verificare i dettagli e citare con precisione quello che l’intervistato ha detto. Un’agenda dei contatti: ogni reporter dovrebbe avere un’agenda con i numeri di telefono dei suoi contatti. Può essere un taccuino a spirale o un’agenda elettronica, ma fatevi sempre una copia del suo contenuto. Un giorno la perderete, ve lo garantisco. E dovreste disporre anche di un altro strumento molto utile: La stenografia: a meno che siate l’unico essere umano sul pianeta capace di scrivere alla velocità del parlato, troverete la stenografia veramente preziosa, se non indispensabile. I registratori si inceppano, le batterie si scaricano improvvisamente e ci sono molte situazioni, come le conferenze stampa, le interviste in strada, e così via, in cui è impossibile ottenere un risultato utilizzabile. Ci sono anche molte persone che vi diranno di più se non sono intimidite da un registratore. E ancora più numerose saranno quelle che si stancano di ripetere le cose perché il reporter possa scriverle. Questi sono gli strumenti, adesso vediamo come scoprire le cose. Non occorre aver passato molto tempo a rivedere e giudicare articoli di cronaca per avere chiara una cosa: un articolo non funziona non per lo stile sciatto, le citazioni sbagliate o la costruzione scadente, ma perché non sono state fatte ricerche adeguate. Nel giornalismo, non c’è linguaggio elaborato che possa nascondere questo fatto: o avete la materia prima su cui lavorare oppure no.

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Se l’avete, avete anche gli strumenti per scrivere un resoconto chiaro, senza lacune, con un taglio forte e originale, qualche esempio o aneddoto vivace e un certo senso della prospettiva. Il vostro articolo può essere stringato e concreto, senza discorsi inconcludenti perché non ha bisogno di essere rimpolpato. Se invece non avete la materia prima, il pezzo sarà fumoso e confuso, e ci saranno dei buchi al posto delle informazioni o delle spiegazioni che mancano. Sarà prolisso, trito e senza vita. Nella migliore delle ipotesi sarà quello che i capiservizio anglosassoni chiamano «a trot round the block» (letteralmente, un giro intorno all’isolato), vale a dire qualcosa che tocca semplicemente gli aspetti più ovvi e conosciuti della notizia. E troppi articoli non sono soltanto «carenti di informazioni», ma anche di qualsiasi tipo di profondità intellettuale. Questo non è dovuto solo al fatto che il giornalista o il caporedattore non sono abbastanza ambiziosi, ma anche alla mancanza di intelligenza. Per fare una buona ricerca, bisognerebbe chiedersi continuamente: dov’è qui la vera notizia? E cercare di scoprire il perché, oltre al che cosa, dove, chi e come. Che cosa dovete fare allora per procurarvi quel materiale? Prima di tutto dovete sapere, più o meno, quello che state cercando. In secondo luogo, dovete sapere dove trovarlo, o almeno dove o a chi andare a chiedere. Supponiamo che dobbiate fare una ricerca per un articolo importante del vostro giornale. QUELLO CHE DOVRESTE CERCARE Cominciate sempre dalle sei domande di base: chi, che cosa, dove, quando, come e perché, ma non fermatevi lì. Quello che soprattutto vi serve sono i dettagli e gli aneddoti che chiariscono i fatti fondamentali. Di solito sono queste informazioni in più a distinguere una versione qualsiasi dell’evento da una buona. Provate a prendere una qualsiasi grossa notizia di un certo giorno ed

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esaminate i diversi resoconti che ne danno i vari giornali: sarà la maggiore ricchezza di alcuni articoli rispetto agli altri a colpirvi. Dettagli Raccogliere dettagli è fondamentale per fare una buona ricerca. Se state raccontando un incidente dovete ricostruire la cronologia dettagliata di quello che è successo, in modo da costruirvi in mente una specie di «video». Non potrà mai essere completo fotogramma per fotogramma, ma è a questo che dovreste mirare. Forse non userete tutti quei dettagli, ma fino a quando non vi metterete a scrivere, non potrete sapere quali sono i più significativi. Non esiste quasi nessun dettaglio che sia troppo insignificante per essere annotato, perché anche il più minuscolo frammento può aggiungere alla storia un peso che va molto oltre il suo valore nominale. Nel fare la cronaca di un omicidio, ad esempio, potete riportare che è stato commesso in campagna e magari anche aggiungere la data del primo maggio. Ma se dite che è stato commesso a Sunnybank Farm il giorno della Festa del Lavoro, risulterà immediatamente più evocativo e incisivo. O meglio ancora, andate sul posto e descrivetelo – l’orto della villetta dove è stata trovata l’arma (abbandonata accanto a una pianta di fagioli di Spagna), le pareti rosa della cucina, i fiori nel vasetto di marmellata vicino alla porta sul retro, e così via. In molti casi, alcune parti dell’articolo, o addirittura tutto il pezzo, possono girare intorno a un unico piccolo dettaglio. E i dettagli più preziosi sono quelli più inattesi, che siano particolarmente appropriati o particolarmente incongrui. Per certi aspetti, e in molti casi, è il dettaglio a fare la storia. Per esempio, in un parco pubblico è stato trovato un cadavere, ma la polizia non ha idea di chi sia e non è ancora in grado di stabilire le cause della morte. Se conoscete soltanto il nome del parco, il sesso, l’età approssimativa e le caratteristiche più evidenti del cadavere, non scriverete più di un paragrafo. Ma se fate le doman-

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de giuste, potrà diventare una vera storia. Che cosa indossava la vittima? Quanto era alta? Aveva qualche voglia? Che cosa aveva in tasca? Aveva qualche tatuaggio? Portava l’orologio? C’era qualche iscrizione sulla cassa? Teneva qualche medicina in tasca? Aveva un portafogli? In che stato erano le sue scarpe? Se era una donna, era truccata? C’era qualcosa di particolare nel trucco? Le possibili domande sono infinite. E le risposte ad alcune di queste domande potrebbero non solo dar vita a un giallo interessante, ma anche aiutare le indagini. Nel giugno del 1983, Edna Buchanan, la cronista di nera del «Miami Herald», cominciò un articolo con questo paragrafo: «Aveva un fiore tatuato sulla spalla ed è andato incontro a una morte violenta. La polizia non sa altro dell’uomo sul cui omicidio sta indagando». Cinque settimane dopo avrebbe scritto: «Lo sconosciuto tatuato, gettato dal suo assassino in un canale di scolo a fianco di una remota strada sterrata e coperta di solchi, è stato identificato da alcuni parenti che lo hanno riconosciuto dalla descrizione pubblicata su un giornale del complicato disegno floreale che aveva sulla spalla destra». I dettagli assumono uno speciale valore quando state scrivendo un approfondimento, o un servizio speciale, dopo che la notizia è nota già da qualche giorno. Il grande Bill Connor (detto «la Cassandra» del «Daily Mirror») una volta basò l’attacco del suo pezzo sulla morte di Stalin, scritto diversi giorni dopo che era avvenuta, sul piccolo dettaglio che il vecchio mostro, dopo aver mandato prematuramente a morte molti dei suoi connazionali russi, era morto «comodamente nel suo letto» all’età di 73 anni. Aneddotica Lo stesso criterio vale per gli aneddoti e gli esempi. Non dovrebbero essere lunghi (altrimenti potrebbero far perdere il filo principale della storia), anzi, in un articolo di cronaca il tipo migliore di aneddoti è costituito da quelli che si possono sintetizzare in una frase o due. L’articolo su una decisione eccentrica presa dal con-

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siglio comunale di una piccola città risulterà molto più vivace se riuscirete a inserire qualche dettaglio sul suo passato. Magari solo un breve accenno a uno o due eventi della sua storia, la citazione di un paio di personaggi famosi nati in quella città, o addirittura una cosa semplice come l’iscrizione che avete letto su una tomba del cimitero locale. Ma potete essere certi che risulteranno molto più interessanti e istruttivi delle prevedibili dichiarazioni rilasciate da uno dei protagonisti che probabilmente avreste messo al loro posto. Sfondo Ecco un’altra cosa che dovreste aggiungere a qualsiasi pezzo, anche il più breve. Dovreste ricostruire l’ambientazione, il contesto e i punti salienti della storia di quell’argomento o di quel problema. Bastano anche un paragrafo o due su «quello che è successo finora», o una veloce sintesi dell’argomento o del problema. Potete anche usare un’analogia o un confronto che servano ad ampliare la visuale. Un articolo sui tentativi fatti nel vostro paese o nella vostra città per limitare l’uso dell’automobile nei centri urbani, ad esempio, può essere arricchito con un excursus sulle politiche che sono state adottate in altri posti o in altri paesi (e su quello che ha funzionato e non ha funzionato). Le notizie di cronaca non sono quasi mai capricci isolati del fato, di solito rientrano in un continuum. Prospettiva A volte il contesto può essere la parte fondamentale di una storia, perché inserisce fatti e sviluppi in una prospettiva corretta e spesso molto meno drammatica. Questo è particolarmente importante quando qualcuno comincia a lanciare allarmi raggelanti su questioni relative alla sicurezza o alla salute pubblica. Le notizie sui rischi ambientali, ad esempio, spesso risultano assurdamente esagerate se non vengono inserite nella giusta prospettiva. Vi sembra

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una buona idea raccontare che in un campione di acqua di mare sono state trovate 6mila molecole di materiale tossico? Magari avete pensato addirittura alla prima pagina finché non avete scoperto che si avrebbe esattamente la medesima percentuale rovesciandone mezzo litro in tutti gli oceani della Terra. E molti articoli sui rischi che comportano i pesticidi risulterebbero molto più intelligenti e accurati se introducessero anche un confronto con i pesticidi naturali che si trovano nel basilico, nelle noccioline e nei funghi. Alcuni giornalisti pensano che il nostro compito sia quello di drammatizzare tutto, ma basta riflettere un po’ per capire che è piuttosto sciocco seguire questa strada. Pensate a come reagiamo quando qualcuno intorno a noi racconta tutto in modo melodrammatico: finiamo per giudicarlo ingenuo, inattendibile e rompiscatole. E perché mai i lettori dovrebbero avere un’opinione diversa di noi se omettiamo il contesto e la prospettiva per gonfiare ogni storia?

DOVE ANDARE A CERCARE Fare ricerche significa sapere dove sono, o potrebbero essere, sepolti i cadaveri. Dovreste quindi essere insaziabili nel raccogliere potenziali fonti di informazione quanto lo siete nel raccogliere le informazioni stesse. Queste fonti rientrano in tre categorie: umane, informatiche e su carta. Fonti di informazione umane Queste sono le fonti più comuni, che vanno dai portavoce ufficiali, i funzionari e i politici che contattiamo regolarmente, alle persone con cui parliamo una sola volta e forse non vedremo mai più. Comprendono anche le persone che gli inesperti non si sognerebbero mai di contattare. Se esiste una regola d’oro per il suc-

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cesso di un’indagine è sicuramente: non avere mai paura di chiedere. La cosa peggiore che potrà capitarvi è sentirvi dire di no, mentre spesso rimarrete sorpresi dall’aiuto che vi daranno. Ecco qualche altro suggerimento. Raccogliete numeri di telefono in modo maniacale Lo strumento più basilare è ovviamente un’agenda dei contatti ben aggiornata e dettagliata, con indirizzi, numeri di telefono e di fax. Scoprirete se la vostra agenda funziona veramente quando, rimasti soli in ufficio a notte fonda, avrete bisogno di un’informazione vitale. Dovreste annotare spietatamente qualsiasi nome e numero di telefono vi abbiano dato o siate riusciti a procurarvi, e usare tutti i mezzi possibili per averne di più. Scroccateli a colleghi e rivali, e quando leggete un giornale o una rivista appuntatevi i nomi degli esperti che vi potrebbero essere utili e cercate di procurarvi il loro numero. Cercate di non cadere nell’errore di pensare, come ho fatto io tante volte, che il numero di quella certa persona non vi servirà più e quindi di non trasferirlo dal vostro taccuino all’agenda dei contatti. Potete stare sicuri che arriverà il momento in cui non averlo vi creerà un vero problema. Un numero incredibile di persone è pagato per aiutarvi Esistono molte più persone di quanto possiate immaginare che sono state messe in questo mondo per aiutare i giornalisti. Magari loro non lo sanno, ma è proprio così. Quanti sono i laghi del Lake District? Quanto è profondo un certo oceano? Quanto è alta quella montagna? C’è sempre qualcuno in un’ambasciata, in un’azienda del turismo o in un centro visitatori che può darvi subito la risposta. Se cercate notizie rapide, concrete, non controverse, rivolgetevi prima di tutto a quelli che sono pagati per informare il pubblico sull’oggetto in questione o pubblicizzarlo. In un paese come la Gran Bretagna esistono letteralmente decine di migliaia di persone di questo tipo. Fate in modo che si guadagnino lo stipendio.

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Da qualche parte c’è un esperto su qualsiasi argomento Esiste un numero sorprendente di persone e di uffici che possono rapidamente mettervi in contatto con esperti su alcuni degli aspetti più oscuri della realtà. Le organizzazioni professionali, le associazioni di settore e i musei specializzati spesso hanno un esperto interno, e se non ce l’hanno possono suggerirvi sicuramente un nome. Ad esempio, immaginate di aver fretta di consultare qualcuno sul tema dei salvataggi in mare. Potete chiamare il museo marittimo nazionale, un’associazione di sub, una compagnia di assicurazioni marittime, l’ufficio stampa della Marina, una rivista di storia della Marina, perfino la biblioteca comunale di un paese sulla costa – e questo prima ancora di andare su internet, o cercare i ritagli di articoli precedenti sull’argomento con i nomi degli esperti, e così via. Certe organizzazioni, come le biblioteche e i musei locali, hanno una lista di esperti anche sugli argomenti più arcani. Se potete scegliere, pensate bene prima di decidere chi chiamare Un errore che si commette spesso durante una ricerca è quello di chiedere alla persona sbagliata. Molte delle informazioni che vi servono saranno note a una serie di persone, ma è probabile che alcune vi aiutino più di altre. Se, ad esempio, volete sapere il margine di profitto che hanno i negozi sulle scarpe di importazione, non chiamate l’ufficio stampa di un grande magazzino: si innervosiranno solo a sentir parlare di «margine di profitto», soprattutto se è sul loro che state indagando. Rivolgetevi piuttosto a un grossista o a un fabbricante. Poi andate nei negozi a chiedere che ne pensano. Sfruttate gli altri mezzi di comunicazione Una volta, mentre ero a Mosca, sentii dire che negli Stati Uniti una professoressa russa era stata fermata dall’ufficio immigrazione di San Francisco in circostanze poco chiare e rischiava di essere espulsa. Sembrava una buona pista. Il problema era che non avevo il numero di telefono dei suoi legali né quello delle autorità americane; l’ambasciata degli Stati Uniti a Mosca era chiusa, le agenzie di stampa ancora non

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ne parlavano e dovevo scrivere qualcosa entro un’ora. Dopo un paio di tentativi a vuoto ottenni il numero dell’ufficio dell’Associated Press di San Francisco, li chiamai e mi diedero subito tutti i numeri che mi servivano, compreso quello del marito americano della professoressa, e da lui ebbi quello delle persone che stavano organizzando una campagna in sua difesa. In situazioni del genere vale sempre la pena di chiamare la stampa locale. In cambio, potete offrire loro informazioni o la pubblicazione gratuita del vostro pezzo. Siate sfacciati La frase più patetica che potete sentir dire da un cronista è: «Ho cercato dappertutto, ma non riesco a trovare niente». Ah, davvero? In 99 casi su 100 potete essere sicuri che non è così e che ci sono diversi altri posti dove si potrebbe cercare, perché c’è quasi sempre un posto dove trovare le informazioni che servono. Immaginate una situazione di questo tipo: siete nel vostro ufficio alle dieci di sera e venite a sapere che un vostro connazionale è stato arrestato per rapina a mano armata o per una sparatoria in Florida. Che cosa fate? L’ambasciata americana della vostra città è chiusa, il vostro consolato a Miami non risponde al telefono, l’ufficio dell’Fbi di New York non sa niente di questa storia e neanche l’ufficio dell’Associated Press della città. Quando una cosa del genere è successa a me, ho chiamato l’ufficio dell’American Express di Miami, ho dichiarato di essere titolare di una loro carta di credito (il che era vero, ma non doveva necessariamente esserlo: tanto non avrebbero mai controllato) e ho chiesto se potevano darmi il numero di telefono della polizia locale, del procuratore distrettuale e della prigione: poco dopo ho avuto tutte le informazioni. RICERCHE ONLINE Un giorno del 2006, chiesi a una praticante di fare una ricerca sugli orsi bruni per il box di un servizio che dovevamo pubblicare. Uno dei «fatti» che ci presentò era che un orso mangia 10.000 falene al

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giorno. Le chiesi se lo riteneva probabile, dato che le falene non volano a stormi, e quindi l’orso dovrebbe catturarle una per una. E anche se potesse farlo, ne varrebbe la pena, dato lo scarso valore nutritivo delle falene? Mi guardò come se fossi matto. «Ma l’ho letto sul web», disse. Ne seguì una discussione sul fatto che internet non è sempre infallibile, durante la quale mi disse che Wikipedia era affidabile perché era controllata da esperti. «Ah, sì?», dissi io. «Quali esperti? E chi li paga?» Quando le spiegai che Wikipedia è un’organizzazione senza scopo di lucro aperta a tutti per lei fu un vero trauma. Come anche la scoperta, che feci qualche tempo dopo, che un orso mangia quel numero di falene in un anno, e non in un giorno. Nell’interesse di praticanti e giornalisti come lei, ecco una serie di cose che tutti i reporter dovrebbero sapere su internet. Trattate le pagine web come qualsiasi altra fonte In altre parole, siate sospettosi. Gli svitati, gli esibizionisti e i pedanti non potevano certo lasciarsi sfuggire un’opportunità come quella di internet. Accorgersi della mancanza di credibilità dei siti di alcuni svitati non è difficile. Ed è altrettanto facile rendersi conto della scarsa obiettività delle proposte di attivisti e monomaniaci. Il problema sorge con i siti che appaiono plausibili ma non lo sono. Dovete imparare a usare il vostro radar per individuarli, ponendovi tutte le domande che vi ponete nei confronti di qualsiasi fonte di informazione (Chi c’è dietro? Perché pubblicano questa cosa? Che cosa hanno incluso? Che cosa hanno escluso?). Il mio campanello d’allarme scatta ogni volta che mi accorgo: che manca una data ben visibile per il materiale presentato; che bisogna scorrere troppe pagine; che tra i contatti del sito non c’è un indirizzo postale o un numero di telefono. Siate più specifici possibile nelle vostre ricerche A volte può servirvi di cercare combinazioni di parole, e mettendo le virgolette all’inizio e alla fine sarete sicuri che il motore di ricerca

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vi elencherà solo i documenti in cui le parole appaiono insieme e nello stesso ordine. Per esempio, se scrivete nella casella di Google milizie di Timor Est, otterrete 477.000 risultati. Ma se mettete le virgolette all’inizio e alla fine, ne otterrete solo 584. Se poi aggiungete «+ ‘1996’», i risultati si ridurranno a 53. Potete anche escludere alcune parole. Perciò se volete sapere qualcosa sui rapporti tra il presidente Bill Clinton e Tony Blair, potete scrivere: «‘Clinton’ + ‘Tony Blair’» e otterrete 4,47 milioni di risultati. Ma le informazioni più dettagliate risaliranno probabilmente a prima che Clinton lasciasse la Casa Bianca. Quindi, se scriverete «‘Clinton’ + ‘Tony Blair’ – ‘George W. Bush’», eliminerete subito quattro milioni di siti. Trattate le ricerche come se fossero un rompicapo Quando utilizzate un motore di ricerca, dovete confrontarvi con un database che ha miliardi di voci. I ricercatori intelligenti scelgono parole che producono una lista di siti ragionevole, escludendo tutti quelli che sfiorano fugacemente l’argomento. Perciò, per esempio, se volete notizie sulla vita di un politico defunto, farete meglio a scrivere ‘nome’ + ‘necrologio’ (o ‘biografia’) che non solo il nome. O meglio ancora, a pensare a qualche espressione che potrebbe essere stata usata nel materiale che cercate. Nel caso di un necrologio, potrebbe essere «nato a». Due buone guide online sono: searchenginewatch.com e researchbuzz.com. Usate la ricerca avanzata Qualunque sia il vostro motore di ricerca preferito, avrà sicuramente la funzione avanzata, che vi permetterà di raffinare la vostra ricerca in base alla data e a una serie di altri parametri. Usate la versione cache A volte, mentre controllate la lista di pagine prodotta dal motore di ricerca, vi accorgerete che un sito non contiene più il materia-

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le che stavate cercando. Questo succede perché nel frattempo la pagina in questione è stata aggiornata e quel materiale è stato archiviato o cancellato. Il problema si risolve cliccando sulla versione «cache». Vi porterà alla pagina alla quale il motore di ricerca si è collegato e che quindi conterrà le informazioni che cercate. Le pagine cache (per le quali su Google trovate un link sotto il titolo vicino all’url) presentano un altro vantaggio. I termini che avete digitato sono evidenziati, perciò in una lunga pagina fitta di caratteri l’ago che stavate cercando emerge subito dal pagliaio. Prendete in considerazione l’idea di iscrivervi a un archivio online Questi archivi sono raccolte piuttosto ampie di articoli, riviste accademiche e libri, e sono estremamente preziosi se state scrivendo un lungo articolo per una rivista oppure un libro. Mentre lavoravo ai miei libri mi sono iscritto a eLibrary e Questia. Quest’ultima è la più grande che esista al mondo e contiene un enorme numero di libri che si possono scaricare e sui quali si possono fare ricerche. Ci sono anche archivi di giornali come il «New York Times», che ha un database di tutti gli articoli pubblicati a partire dal 1851. Si può comprare un singolo pezzo o una serie di articoli. Tenete conto dei limiti dei motori di ricerca I motori non possono penetrare oltre la facciata delle pagine di ricerca dei database. E poiché nei database viene archiviato moltissimo materiale utile (come gli articoli di giornale e di rivista), un motore di ricerca può trovare solo le cose più recenti. Un’ottima guida per le parti più nascoste di internet è The Deep Web, gestito dall’Università di Albany, nello Stato di New York. Usate i tutorial online Invece di fermarvi alle nozioni di base, cercate di diventare utenti di internet relativamente esperti dedicando un po’ di tempo a

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consultare una delle guide online che insegnano come usare la rete. Per cominciare, una delle migliori è internettutorials.net. Se preferite i libri, vi consiglio The Net for Journalists di Martin Huckerby (pubblicata dall’Unesco), che comprende anche un cd. Newsgroup Sono dei gruppi di discussione pubblica, cioè normalmente aperti a tutti. Ne esistono quasi 17mila, che coprono qualsiasi argomento, dalla musica classica a tipi di pornografia di cui non avremmo mai sospettato l’esistenza. Molti sono frivoli, ma altri sono più seri di quanto possiate immaginare. Alcuni, come alt.disasters.aviation, sono invasi dai teorici dei complotti, ma parecchi contengono informazioni abbastanza sensate perché valga la pena di visitarli spesso. Molti di essi vengono usati regolarmente da professori universitari e altri personaggi le cui credenziali sono indiscutibili. In genere, è più probabile trovare informazioni utili nei newsgroup specializzati. Nel complesso, comunque, vale la pena di dedicare mezz’ora a scaricare la lista completa dei gruppi distribuiti dal vostro fornitore di accesso a internet, e darle un’occhiata per vedere se ce n’è qualcuno che rientra nei vostri interessi. I post dei newsgroup possono darvi un’idea generale di quali sono i temi di discussione del momento in un certo settore, lo spunto per un articolo (soprattutto i contributi di esperti qualificati) e, dato che i loro autori lasciano sempre un indirizzo e-mail, una potenziale fonte alla quale inviare domande o chiedere un colloquio. Potete trovare un archivio di post dei newsgroup su Google Groups. Blog Possono essere diari online (che di solito contengono i vaneggiamenti di svitati, pedanti e monomaniaci), aggiornamenti quoti-

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diani di siti interessanti (questi sono i più utili per i giornalisti) o articoli seri di giornalisti professionisti (o non professionisti). Ne esiste un numero infinito. Come ha scritto Guy Chapman sul sito web della Bbc, «La cosa meravigliosa dei blog è che chiunque può aprirne uno. L’unico problema è che chiunque può aprirne uno». I più numerosi (ma anche quelli che spariscono più facilmente) sono i blog personali del tipo «Caro diario». Di solito raccontano esperienze di lavoro (a volte provocando il licenziamento del loro autore), emozioni quotidiane, viaggi, nascita di figli, malattie e crisi. Certi sono interessanti, come SaveKaryn.com, che raccontava la battaglia di una donna con i debiti contratti usando la carta di credito – e che le ha permesso, tramite una serie di donazioni, di estinguerli. Altri contengono materiale narrativo o autobiografico di maggior valore. Alcuni di questi, cominciati in solitudine, sono poi sfociati in un contratto con un editore, come per esempio Baghdad brucia, il blog di una giovane irachena, Straight Up and Dirty, le memorie di una divorziata di New York, e Girl With a One-Track Mind, il racconto delle esperienze sessuali di una trentenne single di Londra. Poi ci sono quelli di propaganda politica o religiosa, la cui segnalazione collettiva, sebbene di solito non coordinata, di scritti che disprezzano può dare origine a una vera e propria lobby. Più direttamente utili per un giornalista sono i blog che indirizzano i lettori, con o senza commenti, a siti che ritengono interessanti. Un classico esempio di questo tipo è Metafilter, sul quale non passa settimana che io non trovi uno spunto per un articolo o per un servizio. Esistono anche i blog monotematici, che raccolgono tutte le notizie e gli sviluppi nell’ambito di un determinato settore. Alcuni, soprattutto quelli di argomento tecnico, ormai hanno abbastanza lettori da essere corteggiati (o sponsorizzati in segreto) dalle imprese, altri sono una forma diversa di giornalismo, e quelli più specializzati hanno denunciato i difetti di certi prodotti o scovato notizie che erano sfuggite alla stampa tra-

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dizionale. Sembra anche che i blogger esaminino le fonti con più cura dei giornalisti della carta stampata, e siano in grado di setacciare la rete con più abilità di 999 su 1000 di loro.

FONTI DI INFORMAZIONE SU CARTA Esistono due tipi fondamentali di fonti su carta: i libri e i giornali con i loro ritagli. Libri e annuari A volte un cronista può passare ore a cercare un’informazione che è possibile trovare in un testo di consultazione facilmente reperibile. Come per le fonti di informazione umane, l’importante è sapere che cosa esiste e dove trovarlo. Questo significa anche immaginare quali di queste fonti possono conoscere i bibliotecari, se non le conoscete voi. Sarete sorpresi di scoprire quante cose possono trovare per voi tali persone per il solo piacere di dimostrare che sono in grado di farlo. Gli scopi per cui un giornalista può usare i libri sono quattro: per controllare le date e come si scrivono i nomi, per reperire informazioni basilari, per trovare i nomi di possibili fonti di informazione umane (ad esempio, gli annuari), e per scovare quei fatti storici o brevi aneddoti che servono a ravvivare un racconto. L’unica precauzione da usare, per le prime tre categorie, è quella di assicurarvi che stiate consultando l’edizione più aggiornata. In pratica, considerato che i tempi sono stretti, non sempre è possibile fare un salto in biblioteca e l’uso delle fonti stampate di solito dipende da quello che avete a portata di mano a casa o in ufficio. Per questo motivo, oltre alla mia innata passione per tutte le cosiddette informazioni frivole e «inutili» (che spesso si rivelano molto utili), nel corso degli anni ho messo insieme una bella raccolta di libri sugli argomenti più disparati. Sugli scaffali che

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ho sopra la testa in questo momento ci sono libri su date, cronologie, testamenti, vita sessuale e oscure origini delle persone ricche e famose, storie di eccentrici, origini di modi di dire e slogan, personaggi famosi della letteratura, strani annunci personali, primati, invenzioni, enciclopedie del crimine, storia delle canzoni, e così via. Ognuno di questi libri mi ha fornito materiale prezioso per scrivere almeno un paragrafo di un articolo o di una rubrica, se non addirittura l’intero pezzo. Usate come fonti gli articoli di altri giornali Accade spesso che ci diano un articolo di un altro giornale e ci chiedano di produrre qualcosa che regga il confronto. Dovreste sempre cercare di scrivere un pezzo che sia allo stesso livello, non semplicemente di rimasticare quello del collega. Se non siete in grado di trovare una nuova fonte tutta vostra e il direttore insiste affinché scriviate qualcosa, citate quella dell’altro giornale dichiarando che l’avete presa da lì. O meglio ancora, trovate una fonte accettabile che commenti quello che ha detto la prima. La fonte che dovrebbe essere trattata con maggiore attenzione sono le citazioni dagli altri giornali. Solo perché un’informazione è stata stampata non significa necessariamente che sia corretta. Potrebbe essere stata modificata in seguito o essere oggetto di un contenzioso legale – questo vale anche per le notizie trovate su internet e nei database. E state attenti a non commettere l’errore di pensare che «se tutti lo dicono, allora dev’essere vero». Spesso è così, ma non fateci affidamento. Nell’autunno del 1989, quando l’allora Cecoslovacchia era sull’orlo di quella che in seguito sarebbe stata chiamata la «rivoluzione di velluto», una giovane donna raccontò ai giornalisti che la polizia aveva picchiato a morte uno studente di nome Martin Sˇmid. La notizia fu riportata dai giornali locali e la gente cominciò a recarsi in pellegrinaggio sul luogo dove era morto Sˇmid, che ben presto acquisì un’aura di sacralità. La Reuters pub-

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blicò la notizia e la France Presse arrivò a dire che erano stati uccisi tre giovani. L’Associated Press non riportò la notizia. I suoi capi si lamentarono con l’ufficio di Praga e gli chiesero di rimediare al più presto. Il loro agente sul posto era Ondrej Hejma, un chitarrista che combinava giornalismo e musica rock senza che nessuna delle due attività ne risentisse. Non fidandosi delle notizie pubblicate su Sˇmid, Hejma cominciò a indagare per conto proprio. Lui e sua moglie, che era una dottoressa, cominciarono a fare il giro degli ospedali e degli obitori per cercare di trovare qualcuno che avesse curato Sˇmid o avesse visto il suo cadavere, insomma qualche indizio concreto. Non trovò assolutamente nessuna conferma della notizia e diversi giorni dopo le agenzie rivali furono costrette a dichiarare che Sˇmid, chiunque e dovunque fosse, non era morto su quel marciapiede di Praga. COME OTTENERE INFORMAZIONI ALL’ESTERO I reporter che si trovano a operare in zone particolarmente difficili o pericolose hanno bisogno di assistenza non solo per scoprire le cose, ma anche per sopravvivere. Le persone che li aiutano in questo sono i veri eroi misconosciuti del giornalismo. In gergo si chiamano «fixer», fanno da interpreti e da autisti, hanno contatti, sanno chi corrompere, sanno quali strade possono fare e quali devono evitare, hanno cugini all’ufficio visti, vecchi compagni di scuola tra gli insorti, o cognati nei servizi di sicurezza. Senza di loro, sarebbero uccisi molti più reporter, e molte notizie importanti non arriverebbero mai al pubblico. Vanno dagli informatori dei servizi di sicurezza, la cui disponibilità nasconde (spesso non troppo bene) il desiderio di evitare che il reporter scopra informazioni «inopportune», ai ciarlatani che affollano le hall degli alberghi, come il Pearl Continental di Peshawar, in Pakistan, offrendo i loro servizi ai reporter occiden-

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tali appena arrivati, ai giovani giornalisti in gamba che finiscono per lavorare come «stringer», o corrispondenti locali, dopo che il giornalista famoso se n’è andato. Per gli standard del posto sono pagati bene (Alpha Koromah, che aiutava Alex Renton dell’«Evening Standard» di Londra in Sierra Leone, era pagato 75 volte lo stipendio di un soldato dell’esercito nazionale), ma il loro è un mestiere pericoloso. Quelli che aiutano i corrispondenti a scrivere articoli che mettono in cattiva luce il regime possono essere minacciati, imprigionati (come Khawar Mehdi Rizvi, che collaborava con la rivista «L’Express» in Pakistan) o uccisi. Nel 2004 ne sono morti nove in Iraq e altri sei nel resto del mondo. In posti estremamente pericolosi come Baghdad, a volte il fixer diventa lui stesso giornalista, gira per le strade a raccogliere informazioni e dichiarazioni e le riporta al corrispondente, che se ne sta al sicuro nella Zona Verde e poi scrive l’articolo. L’egocentrismo dei corrispondenti a volte li rende riluttanti a dare il giusto riconoscimento a quelli che li aiutano, ma alcuni lo fanno, come Robert Fisk dell’«Independent» e Ann Leslie del «Daily Mail». Per i giornalisti come lei, i fixer non sono soltanto persone da assumere, usare, pagare e dimenticare, ma vecchi colleghi. Rimane in contatto con loro e con le loro famiglie anche molto tempo dopo aver lasciato il paese e, a giudicare da quello che scrive, è evidente che la ripagano ampiamente della sua lealtà. Per esempio, ci fu il signor Massamba, che nello Zaire le procurò un’intera agenda di numeri di telefono permettendole di scoprire la corruzione di Mobutu, un presidente che si era accaparrato sei miliardi di sterline e che, tra l’estrema povertà della popolazione, si era fatto costruire una residenza grande il doppio di Buckingham Palace; il «signor Zhou» (non era il suo vero nome), la sua coraggiosa guida in Cina, grazie alla quale poté incontrare alcuni sopravvissuti del massacro di Tienanmen; Igor Kuzmin a Mosca, il quale, quando nel 1991 Ann Leslie arrivò direttamente dalle Alpi svizzere, dov’era in vacanza, per seguire il tentativo di colpo di Stato contro Gorbacˇëv, aveva sufficiente influenza pres-

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so i vecchi colleghi del Kgb da organizzare il suo ingresso in Russia nonostante non avesse un visto; e Wiebke Reed, la sua fixer a Berlino Est, nella cui scoppiettante piccola Wartburg rossa attraversò il Checkpoint Charlie la notte del 1989 in cui cadde il muro di Berlino. Non per nulla, ho dedicato il mio libro Tredici giornalisti quasi perfetti* ai fixer. Nessun servizio segreto, nessuna burocrazia, può fornire le informazioni garantite da un giornalismo competitivo; neanche i più abili agenti segreti della polizia di Stato sono all’altezza di un giornalista che lavora per la democrazia. Harold Evans

* Tredici giornalisti quasi perfetti, trad. it., Laterza, Roma-Bari 2007 [N.d.T.].

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Gestire le fonti senza farsi gestire da loro

Il fatto stesso che un uomo lavori come cronista per un giornale dimostra che c’è qualche magagna nel suo carattere. Lyndon B. Johnson

Vent’anni fa, in una città di medie dimensioni, una fonte ufficiale aveva forse a che fare con un paio di giornali, una radio e una televisione. Oggi c’è una tale proliferazione di mezzi di informazione che ogni fonte ufficiale locale deve trattare con almeno due quotidiani, diverse pubblicazioni gratuite, una rivista specializzata locale o due, un paio di stazioni radio, una stazione televisiva, tre canali della televisione via cavo e un numero sempre crescente di siti web nazionali e locali. Questo sviluppo ha notevolmente accelerato la tendenza delle organizzazioni ufficiali a demandare i rapporti con la stampa a professionisti specializzati. Ha significato anche che oggi ci sono molti più giornalisti a caccia di informazioni, mentre un tempo ne giravano molto pochi. Di questi tempi, è molto più probabile che vi troviate a essere uno dei tanti e siate costretti a trattare non con la persona competente, ma con un suo portavoce. C’è un motivo in più, quindi, per sapere come trattare con le fonti in modo professionale e come sfruttare al meglio, e di tanto in tanto sovverti-

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re, i canali che le autorità vorrebbero che seguiste. Anche se la maggior parte dei rapporti con le fonti ufficiali sono transazioni semplici e di routine che convengono a entrambe le parti, ci sono volte in cui dovrete competere in abilità con loro per essere sicuri che al pubblico arrivi la versione più completa e attendibile della storia e non il piatto pronto che vorrebbero servirvi. INDICAZIONI GENERALI PER TRATTARE CON QUALSIASI FONTE Prima di prendere in considerazione gli aspetti specifici dei rapporti con le fonti ufficiali, le tecniche di gestione delle notizie, le fonti controverse e alcuni altri pericoli, ecco qualche indicazione generale per trattare con qualsiasi fonte. Dite sempre chiaramente che siete un giornalista Fare diversamente significa strappare informazioni con l’inganno, cosa che non solo è disonesta ma anche pericolosa. Spesso le persone parlano molto liberamente fino a quando non si rendono conto di essere davanti a un giornalista; poi diventano molto più guardinghe e cominciano a selezionare le informazioni. Questo avviene perché a quel punto non stanno più parlando tanto per parlare, ma si sentono responsabili della qualità delle informazioni che danno. Se non dite loro che siete giornalisti, c’è il rischio che esagerino, come si fa spesso nelle conversazioni informali. Nel capitolo 9, dedicato al giornalismo investigativo, parleremo delle rarissime volte in cui è giustificato che nascondiate la vostra vera identità. Siate corretti con le fonti Ci crediate o no, il giornalismo assomiglia molto alla vita reale. Da ciò deriva la sconvolgente verità che, se volete che le fonti vi aiutino, la gentilezza, la sincerità e la correttezza funzionano molto

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meglio della prepotenza, dell’inganno o dell’intimidazione. Essere corretti è particolarmente importante. Se le fonti sono oggetto di critiche o di accuse, dovreste non solo riferire queste accuse, ma anche dar loro il tempo di replicare. Chiamarle dieci minuti prima della consegna del pezzo non è sufficiente. Approvazioni Sottoporre l’articolo a una fonte prima della pubblicazione significa istigarla a censurarlo. Il motivo che viene solitamente addotto per richieste del genere è quello di avere la possibilità di correggere errori materiali, ma se credete che questa sia la vera ragione, probabilmente siete pronti a credere a qualsiasi cosa. Se mostrate a qualcuno quella che necessariamente dovrete definire «la bozza» di un articolo, lo incoraggiate a pensare che stiate chiedendo la sua approvazione, e quindi che sia possibile fare delle modifiche. Il compito del giornalista è quello di produrre un pezzo già pronto per la pubblicazione, non qualcosa che può essere oggetto di contrattazioni. Ma un controllo non equivale a un’approvazione. Se avete scritto un articolo su un argomento tecnico che non vi è familiare, non ci vedo niente di sbagliato a mandarlo via e-mail, tutto o in parte, a un esperto. Non avete idea di quante volte mi sono salvato facendolo. Non state chiedendo la sua approvazione, ma solo controllando che nel vostro pezzo non ci siano errori. Ritrattazioni Molte volte una fonte ufficiale o una persona qualsiasi può dire qualcosa a un giornalista e poi pentirsene. Non ha molto senso che un giornalista impari a fare le domande giuste per ottenere informazioni dalla gente se poi deve darle la possibilità di ritrattare tutto. Tuttavia, se una fonte vuole correggere quello che vi ha detto, dovete permetterle di farlo, a meno che non abbiate degli ottimi motivi per pensare che ci sia sotto qualcosa – nel qual ca-

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so, vi converrà riportare sia la prima versione che la seconda. Le fonti che chiedono di poter ritrattare perché altrimenti perderanno il posto sono un’altra faccenda. Interrogatele a fondo, e poi lasciate la decisione a un superiore. Un giornalista non deve comportarsi come se fosse Dio: questo lasciatelo fare ai direttori. Compensi Anche questo è un problema che i cronisti possono scaricare ai signori del piano di sopra. Spetta ai superiori decidere se possono permettersi – dal punto di vista finanziario o morale – di pagare le informazioni. I pericoli di questa pratica sono ovvi. Prima di tutto, crea un mercato e incoraggia le persone coinvolte in una notizia a chiedere di essere pagate. In secondo luogo, gli informatori retribuiti non sono mai stati molto affidabili: sanno che più la storia è forte, più alto sarà il prezzo che potranno chiedere, quindi hanno un buon motivo per inventare o ricamare sui fatti. Qualche anno fa, il «Sun», il più popolare rotocalco inglese, dovette pagare un milione di sterline di danni morali a Elton John per aver creduto e pubblicato una notizia inventata che era stata venduta al giornale da una marchetta. E non è l’unico esempio. Né i casi di notizie fasulle che sono state pagate riguardano solo personaggi in vista. È comprensibile che un rotocalco che si rivolge al grande pubblico abbia la tentazione di pagare le notizie.

FONTI UFFICIALI Sono tutte le fonti autorizzate a darvi informazioni: dal proprietario del negozio all’angolo che vi racconta come vanno gli affari al portavoce dell’ufficio stampa del capo del governo che rilascia una dichiarazione sul motivo delle sue dimissioni. Coprono tutta la gamma della disponibilità, dell’ostinazione, della competenza e dell’idiozia umana. La maggior parte di loro, se si usa l’approccio

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giusto, si dimostra disponibile. Ma assicuratevi che la vostra fonte ufficiale sia veramente in grado di sapere quello che sostiene di sapere. Nel 2006, scrissi un articolo sul Museo iracheno e sui furti che aveva subìto immediatamente dopo l’invasione. Nel 2003, tutti i giornali del mondo avevano scritto che i saccheggiatori avevano rubato più di 170mila oggetti, alcuni dei quali erano pezzi di inestimabile valore. Io invece fui in grado di dire che erano stati rubati solo 13.864 oggetti, in tre furti separati, uno solo dei quali era un saccheggio. Gli altri due erano opera di professionisti aiutati dall’interno. Come era possibile che io avessi scoperto il numero giusto di oggetti scomparsi, mentre tutti gli altri giornalisti del mondo si erano sbagliati? Il fatto è che loro avevano scritto a caldo pochi giorni dopo che i furti si erano verificati, mentre io avevo scritto a freddo diversi anni dopo. Loro avevano ottenuto le informazioni da un «funzionario del museo», che in seguito si era rivelato un ex dipendente male informato, mentre io le avevo prese da un articolo pubblicato su una rivista accademica il cui autore era il colonnello dei marines che aveva indagato sui furti. Quando abbiamo a che fare con un ufficio pubbliche relazioni o un ufficio stampa, il fatto che sia autorizzato non significa sempre che sia ben informato. Alcuni hanno una buona conoscenza della loro organizzazione e sono in grado di rispondere a domande dettagliate. Altri sono semplici intermediari, che riferiscono le vostre domande al funzionario interessato e vi riportano le risposte, con un’inevitabile perdita di immediatezza e senza possibilità di fare ulteriori domande in conseguenza delle risposte. Per questo motivo, cercate di coltivare i rapporti con i funzionari che possono darvi informazioni direttamente, piuttosto che attraverso il filtro del loro addetto alle pubbliche relazioni. Negli ultimi anni, il modo in cui le grandi organizzazioni commerciali, politiche e governative trattano con i media è molto cambiato. E i giornalisti si lamentano di iniquità come la «gestione delle informazioni» e gli spin doctors. In realtà è successo semplicemente che queste organizzazioni hanno cominciato ad assu-

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mere addetti stampa in grado di tener testa ai giornalisti più di quanto non facessero quelli del passato. Il risultato è un approccio più sofisticato, anche se non sempre più sottile, ai rapporti con i mezzi di informazione, la cui principale caratteristica è l’anticipazione piuttosto che la semplice reattività. Bisognerebbe quindi tenere a mente quanto segue. «Spin doctors» Questo termine, che spesso viene erroneamente applicato a tutti gli addetti alle pubbliche relazioni, in origine si riferiva alle persone che lavoravano per una campagna elettorale e il cui compito era quello di chiacchierare con i giornalisti dopo un sondaggio o un dibattito del candidato e di dare un’interpretazione favorevole al loro partito. Nel corso del tempo è stato poi applicato a tutti i personaggi che si occupano di pubbliche relazioni o di immagine (soprattutto in politica). Un vero spin doctor è una persona che lavora nel mondo della politica, un addetto stampa o un consulente. Oltre a occuparsi del rilascio delle dichiarazioni di routine e dell’organizzazione delle conferenze stampa, ha il compito di interpretare gli eventi per la stampa, cercare di prevedere le cattive notizie (e distogliere l’attenzione da esse) e indirizzare le aspettative nella direzione più propizia alla propria causa. È in quest’ultimo caso che un giornalista può essere portato fuori strada dagli spin doctors. Temendo, ad esempio, che siano in arrivo brutte notizie, comunicano alla stampa che si prevede un esito pressoché disastroso, così quando arrivano i risultati reali possono sorridere e dichiarare che è stato un vero trionfo. La frequenza con cui fanno questo scherzo ai giornalisti non sembra impedire che funzioni regolarmente. I veri spin doctors, tuttavia, hanno un grosso vantaggio rispetto a personaggi di minor calibro: sono vicini, a volte molto vicini, ai loro capi e tutto quello che dichiarano ufficialmente va preso sul serio; passano anche buona parte della loro vita a rispondere

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in modo abbastanza diretto a domande di routine e i migliori di loro sono fonti preziose. Cercate solo di difendervi chiedendovi sempre: «Perché mi stanno dicendo questo?». È una domanda che dovreste farvi anche ogni volta che ricevete un comunicato stampa. E la risposta, se mai riuscirete ad averla, probabilmente vi sorprenderà. L’apparentemente innocuo comunicato in cui vi informano che è stata fatta una nuova nomina potrebbe nascondere licenziamenti e caos agli alti livelli. Fate le domande che servono per scoprire se è così. Qualcuno vi accuserà di essere maligno e sospettoso, ma in fondo questo fa parte del vostro lavoro. Considerate che la prima a usare con successo i comunicati stampa in questo modo fu la Ohio Bell Telephone Company all’inizio del ventesimo secolo. Aveva capito che se metteva in circolazione notizie predigerite, i giornalisti avrebbero smesso di andare alle udienze sulle tariffe telefoniche per avere le informazioni. Questo comportava un grande vantaggio: non avrebbero potuto fare domande imbarazzanti. Non vi lasciate ingannare. La «gestione delle informazioni» Tutte le organizzazioni, siano esse pubbliche o private, commerciali o politiche, di solito sono desiderose di rilasciare rapporti e dichiarazioni o comunque obbligate a farlo. Il fatto che scelgano il modo e il momento più opportuno per loro non è particolarmente scandaloso. Anzi, a volte, questa «gestione delle informazioni» è utile, perché permette ai giornalisti di scrivere il pezzo prima dell’uscita dei loro giornali, o evita che passi troppo tempo tra un evento importante e il rilascio di un comunicato. Gli imbrogli, comunque, non mancano. Per lo più assumono tre forme e sono quasi sempre collegati a informazioni che le organizzazioni temono possano assumere un risvolto negativo per loro. Innanzitutto fanno in modo di dare la notizia nel momento meno conveniente per i giornali – diciamo la sera tardi o verso la fine del venerdì pomeriggio. Così le possibilità che venga ignora-

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ta o sottovalutata sono più alte. Il secondo metodo è quello di lasciar trapelare una visione parziale della storia a un mezzo di informazione che simpatizza con loro, nella speranza che quando lo verranno a sapere gli altri o quando la notizia sarà passata attraverso i canali ufficiali, ormai sarà vecchia o avrà già una certa impostazione. Il terzo trucco è quello di addolcire la pillola con qualche buona notizia secondaria che viene spacciata per quella principale. Nel 1999, ad esempio, il governo britannico doveva rilasciare le cifre aggiornate sulle liste di attesa negli ospedali. Sapendo che non erano affatto confortanti e volendo evitare titoli scandalistici, comunicò le cifre lo stesso giorno dei risultati di fine anno delle scuole secondarie (nella speranza che questa notizia positiva offuscasse i dati sugli ospedali). Il governo affiancò anche alle cifre sugli ospedali la notizia di un finanziamento di 30 milioni di sterline per risolvere la situazione. E funzionò: nessun quotidiano diede molta enfasi alla notizia, e il mio giornale le dedicò solo tre paragrafi nella prima edizione. Quando ci rendemmo conto di quello che stava succedendo (il numero di persone in lista d’attesa era aumentato del 64 per cento negli ultimi due anni), dedicammo al problema un fondo di seconda pagina. L’unica difesa contro questa e altre forme di «gestione delle informazioni» è usare il vostro buon senso. Accesso sbarrato A volte le organizzazioni sono così scontente del modo in cui i giornalisti trattano le loro notizie da rifiutare loro l’accesso alle informazioni. Questo metodo rozzo, e piuttosto raro, viene usato soprattutto nel campo delle arti, quando una recensione sfavorevole irrita a tal punto un teatro o una galleria che questi decidono semplicemente di mettere al bando il critico in questione. L’industria cinematografica sembra particolarmente incline a questo tipo di censura. Secondo uno studio condotto dall’Università della

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California meridionale, capita spesso che ai giornalisti venga proibito di assistere alle anteprime o di accedere alle case di produzione a causa del tono dei loro articoli o perché hanno violato un embargo precedente. Judy Gerstel, ad esempio, dopo aver scritto per il «Detroit Free Press» un articolo sulla modesta accoglienza che il pubblico aveva riservato a Hook, fu immediatamente scomunicata dalla casa di produzione, e ben presto scoprì che altre due case cinematografiche (la Warner e la Universal) non volevano più vederla. A questo non c’è soluzione. Le informazioni sono loro e hanno il diritto legale, se non morale, di farne quello che vogliono. L’unica cosa da fare sarebbe raccontare ai lettori il tentativo di manipolazione e chiedere la solidarietà degli altri giornali, che potrebbero dire «se non viene lei, non veniamo neanche noi». Anche perché la prossima volta potrebbe toccare a loro.

COME TRATTARE CON LE FONTI NON AUTORIZZATE Alcune fonti non sono autorizzate a darvi le informazioni che vi forniscono. Può trattarsi di spie ben inserite in una certa organizzazione, o di persone che ufficialmente non hanno niente a che fare con quelle informazioni. Possono passarvi dei documenti, o limitarsi a suggerirvi di andare a scavare in un certo settore. Invariabilmente le loro informazioni saranno contestate, almeno all’inizio, e quasi sempre vi chiederanno di non citare il loro nome nel pezzo. È proprio da queste fonti che vengono alcune delle notizie più interessanti, e che nascono i maggiori problemi se per caso si sono sbagliate. Quando trattate con loro, dovreste tenere a mente i punti seguenti. Chiedetevi sempre quali sono le loro motivazioni Le persone raramente aiutano i giornali perché sono buone. Spesso vogliono danneggiare un avversario politico, commerciale o

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personale, propugnare una causa (o nuocere alla causa rivale), vendicarsi o semplicemente creare problemi. Anche se la vendetta di qualcun altro vi può tornare utile, è sempre meglio sapere fin dall’inizio con chi avete a che fare. Quindi chiedetevi sempre (e ogni tanto chiedetelo anche a loro) quali possano essere le vere motivazioni. Non è detto che i loro sgradevoli calcoli tolgano valore alla notizia, ma sono un buon motivo per procedere con cautela. Chiedete a voi stessi, e a loro, quale potrebbe essere l’altra versione della storia Le informazioni che vi vengono svelate da fonti controverse sono raramente così in bianco o nero come loro vorrebbero farvi credere. Per risparmiare tempo, chiedete direttamente a loro se c’è un’altra versione della storia, o se ci sono delle informazioni specifiche che dovreste avere. Le cose folli, orrende e assurde succedono; ma non tanto spesso quanto sostengono molte fonti. Con il titolo La città dovrebbe vergognarsi: una storia sconvolgente di New York al suo peggio, una volta il «New York Post» pubblicò in prima pagina un articolo su un uomo che aveva violentato una bambina di tre anni su uno spiazzo erboso lungo un’affollata strada di grande scorrimento di Manhattan mentre gli automobilisti di passaggio si fermavano a guardare. Vi sembra probabile? Quello che era effettivamente successo era che tre automobilisti avevano visto un uomo aggredire una bambina, erano saltati giù dalla macchina per dargli la caccia e altri automobilisti erano rimasti intrappolati nell’ingorgo che ne era conseguito. Un chiaro caso di notizia avuta da una sola fonte e non controllata. Possono sapere davvero quello che sostengono di sapere? Molte delle suddette fonti spesso sostengono di «essere bene informate» quando in realtà lo sono solo marginalmente. Un classico esempio è quello della copertura da parte della stampa occidentale di ciò che accadde in Unione Sovietica nei due anni im-

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mediatamente successivi alla rivoluzione del 1917. I corrispondenti occidentali non potevano entrare in Russia e quindi i giornali li spedivano a Riga dove, a 500 chilometri da Pietrogrado, le loro uniche fonti erano ex generali e ufficiali zaristi e politici deposti. Tutti sostenevano di «essere bene informati», ma in pratica nessuno di loro sapeva nulla. Per il «New York Times», secondo il famoso studio condotto da Walter Lippmann e Charles Merz, le conseguenze di questa situazione furono surreali: tra il 1917 e il 1919 il quotidiano raccontò 91 volte che il governo bolscevico era caduto o stava per cadere; quattro volte che Lenin e Trotskij si stavano preparando alla fuga; tre volte che Lenin e Trotskij erano fuggiti dalla Russia; tre volte che Lenin era stato arrestato; e una volta che Lenin era stato ucciso. Se è possibile, insistete per avere dei documenti Chiedete sempre alle fonti se esiste una documentazione a sostegno di quello che dicono. Se non vogliono darvela, chiedetene una fotocopia; se vi rifiutano anche quella, chiedete di poterla almeno leggere in loro presenza. Se rifiutano ancora, lasciate perdere quella notizia. E se vi mostrano dei documenti, siate sospettosi finché non avrete verificato che sono autentici. Nel capitolo 11 parleremo degli errori e delle truffe e vedremo quello che può succedere quando i documenti sono falsi. A volte perfino le foto sono sospette. Nel suo libro Anyone Here Been Raped and Speaks English? Ed Behr racconta una storia che dovrebbe metterci tutti in guardia sulle fotografie che erano state portate alla sua agenzia come prova delle atrocità commesse da una delle due parti coinvolte in una guerra civile africana. Le foto rappresentavano una donna violentata da alcuni soldati. Il tutto sembrava molto convincente, finché il capo dell’ufficio locale non ebbe il buon senso di chiedere i negativi, dove apparivano le scene strazianti dello stupro e poi, nell’ultimo fotogramma, c’era la «vittima» abbracciata ai suoi «aggressori» che sorrideva e posava per una foto di gruppo.

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Più appassionata è la fonte, meno dovreste fidarvi La passione non è necessariamente garanzia di inaffidabilità, ma di sicuro ne è un buon segno. Più una persona è coinvolta emotivamente e meno sarà attendibile come testimone. Interrogate queste fonti con molta cautela. Spesso tendono ad adattare i fatti alle loro teorie e sono accecate dai loro pregiudizi fino al punto di ignorare informazioni importanti. Diffidate soprattutto degli attivisti impegnati, dei dipendenti licenziati, delle ex mogli, degli ex mariti e degli amanti respinti. Chiedete sempre se c’è qualcun altro che può confermare quello che stanno dicendo. Spesso modificheranno immediatamente il loro racconto.

LE FONTI NON MENZIONABILI Un consiglio sensato: usate le dichiarazioni «ufficiose» con molta parsimonia, altrimenti alla fine vi troverete con un mare di fonti che non potete citare. E se state discutendo un’informazione che non può essere attribuita alla vostra fonte, concordate subito chiaramente i termini della questione. Così non dovrete discutere in seguito. Vi stanno fornendo del materiale per il quale dovrete trovare conferma altrove (cioè vogliono restare nell’ombra)? Oppure vi stanno fornendo una notizia non attribuibile a loro e quindi potete usare l’informazione, ma non il loro nome? Ogni volta che un intervistato vi dice qualcosa «ufficiosamente», assicuratevi che per lui significhi quello che significa per voi. E soprattutto, non lasciatevi intimidire quando una fonte importante vi dice qualcosa e poi aggiunge che la notizia è solo ufficiosa. Nel 1997, mentre era in Florida nella tenuta del golfista Greg Norman, il presidente Bill Clinton si strappò un tendine. Un assistente della Casa Bianca telefonò a Ron Fournier dell’Associated Press e disse che Clinton era in ospedale per un piccolo problema, ma aggiunse: «La notizia è ufficiosa». Fournier gli ri-

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spose che non poteva accettare che una notizia del genere fosse ufficiosa. E scrisse il suo pezzo. Fece benissimo. Non accettate mai supinamente la loro riluttanza a essere citati. Insistete perché facciano una dichiarazione ufficiale; spiegate loro che l’importanza della notizia dipende dal fatto che possa essere attribuita a fonti precise. Se insistono nel voler parlare «ufficiosamente», continuate l’intervista e alla fine cercate di trovare qualcosa per la quale avrebbero piacere di essere citati e tentate di strappare il consenso a scrivere il loro nome. Trattate. Non lasciate mai che alla fine di un’intervista qualcuno vi dica: «Ah, naturalmente, tutto quello che le ho detto è assolutamente ufficioso». La regola è che rimane ufficioso solo se lo avete concordato insieme. Ma una volta fatto l’accordo, non rimangiatevi la parola. Non nominateli nell’articolo e, se vogliono rimanere nell’ombra, non dite a nessuno chi sono, tranne che al vostro direttore. Mai. Uno dei principali problemi delle dichiarazioni «ufficiose» è il modo in cui vengono usate dai politici e dai loro consiglieri per i loro scopi, a volte occulti. Per spiegarmi meglio vorrei portare un esempio citato durante un seminario di giornalismo organizzato dall’Università di Harvard a Mosca: Vi è stata concessa una rara intervista personale con un alto consulente del governo. Lui dichiara che tutto quello che vi dirà è ufficioso. Durante l’intervista vi parla di un importante cambiamento di politica economica. Voi siete eccitati, vi precipitate in redazione e scrivete tutto attribuendolo a «una fonte molto vicina al governo».

Poi viene fuori che il governo non intende affatto introdurre questo cambiamento, che quando ha parlato con voi il consulente lo sapeva benissimo, ma vi ha raccontato quella storia per distogliere l’attenzione da qualche altro problema. Il motivo ancora più comune per cui i politici usano le dichiarazioni ufficiose è quello di buttare lì un’idea che si rimangeranno subito se verrà attaccata. In entrambi i casi, voi farete la figu-

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ra degli idioti. Quindi se avete il sospetto che vi stiano incastrando, cercate una seconda fonte. L’ECCESSIVO COINVOLGIMENTO CON LE FONTI Vorrei concludere con una storia che illustra i pericoli, per il cronista e per il giornale, di un eccessivo coinvolgimento con le fonti. Riguarda un certo Alfred Lingle, detto Jake, che negli anni Venti si occupava della cronaca giudiziaria per il «Chicago Tribune». Lingle era molto stimato dal suo giornale. Grazie ai suoi contatti aveva scritto diversi articoli ben documentati sulla criminalità organizzata della città ed era ormai diventato una leggenda sia per i lettori sia per i colleghi. Lingle aveva grande successo e, grazie a un presunto lascito di 50mila dollari da parte di suo padre, pur guadagnando 65 dollari alla settimana, vestiva bene e aveva diverse case. La sua copiosa produzione di articoli sulla criminalità, tuttavia, si interruppe improvvisamente il 9 giugno 1930. Mentre entrava nella stazione ferroviaria di Randolph Avenue, un uomo vestito da prete gli sparò in mezzo alla strada e in pieno giorno. L’omicidio aveva tutte le caratteristiche di un lavoro da professionisti. Il giornale di Lingle era indignato e scrisse: Il motivo di questo omicidio è evidente. È stato un atto di rappresaglia e di intimidazione. Lingle era un cronista giudiziario eccezionalmente ben informato [...]. Alla lista dei morti del massacro di San Valentino [in cui sette persone restarono uccise in uno scontro tra bande rivali] va aggiunto il nome di un uomo che stava cercando di smascherare gli assassini. Accettiamo la sfida. La guerra è aperta.

Il «Chicago Tribune» aggiunse a queste belle parole una ricompensa di 25mila dollari per chiunque fornisse informazioni sugli assassini, altri giornali lo imitarono e la città tributò a Lingle le esequie ufficiali, con tanto di banda militare e guardia d’onore.

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Decine di migliaia di cittadini di Chicago si allinearono ai bordi delle strade e chinarono la testa in segno di rispetto al passaggio del corteo. Ma non molto tempo dopo cominciarono a emergere alcuni dettagli sulla vita di Lingle che fino ad allora nessuno conosceva. Venne fuori che suo padre gli aveva lasciato solo qualche centinaio di dollari, non 50mila. Quando gli avevano sparato, aveva nel portafoglio più di mille dollari in contanti e indossava una cintura con la fibbia incrostata di diamanti: pare fosse un regalo di Al Capone, il più famigerato boss della malavita organizzata di Chicago. Inoltre, dal suo conto in banca risultò che negli ultimi 18 mesi aveva fatto depositi per più di 60mila dollari. Aveva anche un conto congiunto con il capo della polizia della città William F. Russell, che diede immediatamente le dimissioni per l’imbarazzo. Lui e Lingle erano stati amici fin da ragazzi e il giornalista aveva venduto la sua influenza su Russell ad altri poliziotti che volevano un trasferimento o una promozione, a politici, malviventi e grossi gangster come Capone. Era spesso ospite nel rifugio di Al Capone a Palm Island, in Florida, e aveva accesso giorno e notte all’uomo più temuto degli Stati Uniti in quel periodo. Ma Lingle amava giocare d’azzardo, e giocava accanitamente. Nonostante fosse riuscito diverse volte a truccare le corse dei cani, ben presto aveva cominciato a perdere mille dollari a settimana sulle piste e nei casinò illegali di Capone. Nell’estate del 1930, il suo debito di gioco con il boss della malavita organizzata era arrivato a 100mila dollari – che oggi equivarrebbero a più di un milione. Il suo tentativo di estorcere denaro ad alcuni membri della stessa organizzazione di Capone era stato per il boss l’ultima libertà che Lingle si sarebbe mai dovuta prendere. E quindi aveva assunto il killer vestito da prete1. 1 Jay R. Nash, Makers and Breakers of Chicago, Chicago Academy, Chicago 1985.

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Tre settimane dopo l’uccisione di Lingle, il suo giornale fu costretto ad ammettere: Alfred Lingle ha assunto una personalità diversa, che era totalmente ignota alla direzione del «Chicago Tribune» quando era vivo [...]. Non è stato e non poteva essere un grande giornalista. I giornalisti di Hollywood passano tutta la giornata al sole, e quando il sole tramonta passano la serata a mentire*. Frank Sinatra * La citazione originaria (All day long, Hollywood reporters lie in the sun, and when the sun goes down, they lie some more; traduzione letterale: «I giornalisti di Hollywood passano tutta la giornata distesi al sole e quando il sole tramonta continuano a mentire») gioca sul doppio senso, intraducibile in italiano, del verbo to lie, che significa «stare distesi» ma anche «mentire» [N.d.T.].

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Interviste

I giornalisti fanno domande stupide: guardano il sole e ti chiedono se sta brillando. Sonny Liston

Intervistare qualcuno per scrivere un articolo di giornale richiede un’abilità particolare. A volte l’intervista può sembrare una normale conversazione, ma non lo è; a volte ascoltarla o parteciparvi può sembrare divertente, ma non è questo il suo obiettivo. Fare domande per un giornale ha un solo scopo: raccogliere informazioni, soprattutto dettagli, e non – come pensano molti reporter – qualche frase da «poter citare». Le interviste, di persona o al telefono, non hanno un copione prefissato e dovreste sempre essere preparati a ricevere una risposta inattesa, a intuirne le implicazioni e a porre le domande che ne conseguono. Spesso sono faccende lunghe e noiose, soprattutto se siete costretti a insistere su una domanda per la quale volete assolutamente una risposta o su qualcosa che volete capire. Non sono opportunità per dire al personaggio che state intervistando quello che pensate di lui, fare sfoggio delle vostre conoscenze o coinvolgerlo in un acceso dibattito. Molte interviste si svolgono in modo semplice e diretto, ma in un paio di casi particolari possono sorgere dei problemi: quando

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dovete intervistare qualcuno che si sente a disagio ed è riluttante a parlare, oppure qualcuno che è decisamente evasivo o addirittura ostile. Parleremo di queste situazioni più avanti, ma prima di tutto, ecco alcuni consigli generali che è possibile applicare a tutte le fonti. STRATEGIE GENERALI Prima di cominciare a fare domande a qualcuno, dovete convincerlo ad accettare di parlare con voi, e poi fare tutto il possibile per metterlo a suo agio (e farcelo rimanere). Ecco qualche suggerimento. Non chiamatela «intervista» A molte persone, la parola «intervista» fa pensare a un colloquio formale per un posto di lavoro, e in inglese «interview» significa anche interrogatorio della polizia. Che evochi l’una o l’altra di queste immagini, la cosa le mette a disagio. Quindi, se volete che qualcuno parli con voi, soprattutto se non è abituato a trattare con i giornalisti, non usate mai quella parola. Dite che vorreste fare due chiacchiere, sentire la sua opinione, parlare delle sue esperienze, imparare qualcosa, ma non dite mai che volete intervistarlo. Molte persone si innervosiscono da morire. Fate in modo che vogliano aiutarvi Siete a una festa, incontrate una persona che vi piace e cominciate a parlare. Siete aperti, sorridenti, interessati a lei e a quello che ha da dire, state ben attenti ad ascoltare più che parlare. Non riesco a pensare a un’analogia migliore per come dovreste comportarvi durante un’intervista. In realtà, a meno che stiate cercando di mettere alle corde un furfante dopo una lunga inchiesta, l’ultima cosa che dovreste fare è assumere l’atteggiamento da «giorna-

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lista». Ricordatevi che il vostro compito è fare in modo che vogliano aiutarvi, il che significa quasi sempre essere sorridenti, aperti e interessati. Come superare i mastini I mastini sono quelle persone come i segretari, gli assistenti e gli addetti alle pubbliche relazioni che controllano l’accesso alle persone con le quali volete parlare. Degli addetti alle pubbliche relazioni abbiamo trattato nel capitolo precedente, ma a volte il segretario o l’assistente deciso a proteggere il suo capo dal mondo esterno può essere un vero ostacolo. Quello che non funziona è dire «Sono Melissa Bloggins dell’‘Inquirer’ e insisto per parlare con...». Meglio mostrarsi aperti e amichevoli e usare il nome di battesimo. Fatevelo dire la prima volta, e usatelo quando richiamate. Se vi presentate con il vostro, il mastino comincerà a vedervi come un essere umano, non come «quel rompiscatole del giornale». Incuriositelo. Se siete molto specifici sul tema della vostra ricerca, il mastino avrà la scusa per poter dire: «Oh, il signor Fantini non si occupa più di queste cose», oppure: «Non risponde a domande su questo». A quel punto che cosa fate? Cercate invece di essere piuttosto vaghi sullo scopo della vostra visita. Dite che state conducendo un’indagine sul suo settore, o che qualcun altro (di cui farete il nome) vi ha consigliato di parlare con lui. Decidete in anticipo quello che volete tirar fuori da un’intervista Dovreste sempre avere un’idea delle informazioni basilari che volete ottenere da una certa fonte prima di cominciare a fare domande. Pensate alla forma finale che l’articolo potrebbe prendere e quindi alle informazioni di cui avete bisogno. Durante l’intervista dovreste continuare a pensare al vostro articolo e a come le nuove informazioni che state ottenendo possono modificarlo. Ma soprattutto cercate di capire quali vuoti ci sono nella vostra storia e tentate in tutti i modi di riempirli. Questo può sembrare molto

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complicato, ma in realtà dopo un po’ di tempo vi verrà naturale. E non abbiate paura di scrivere qualche breve appunto sul vostro taccuino come promemoria. Questo vi risparmierà la fatica di dover contattare di nuovo la persona perché avete dimenticato di chiederle qualcosa durante l’intervista. A volte questo non è possibile e sarete costretti a scrivere l’articolo senza quell’informazione. Fate tutte le ricerche possibili prima dell’intervista Non dovete mai temere di mostrarvi ignoranti, ma questo non significa essere fieri di non sapere. Prima di intervistare qualcuno, cercate di scoprire il più possibile su quella persona, sull’argomento e su qualsiasi altro elemento rilevante. A parte tutto, questo vi eviterà di lasciarvi raggirare o abbagliare dalla sua scienza. Gli farà anche capire che sta parlando con qualcuno che prende sul serio sia lui sia la materia di cui si occupa. Così è più probabile che vi conceda un po’ del suo tempo, piuttosto che rispondere a un paio di domande veloci al telefono. Le domande semplici sono sempre le migliori Non esiste un solo caso nella storia del giornalismo in cui le cosiddette domande trabocchetto o furbe abbiano prodotto dei risultati. Porre domande del genere di solito è indice di inesperienza o lascia pensare che siete più preoccupati di fare colpo che non di scrivere un buon articolo. Normalmente, le domande fondamentali sono sempre le stesse: Chi? Che cosa? Dove? Quando? Come? Perché? Se riuscite a ottenere risposte soddisfacenti a queste domande avrete quasi completato la vostra ricerca di base. Se state parlando di un evento, ricostruite la cronologia dei fatti Quando intervistate qualcuno a proposito di un evento, il vostro compito è ricostruire passo per passo, o nel caso di disastri e incidenti minuto per minuto, se non proprio secondo per secondo,

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quello che è successo. Il modo migliore per farlo, soprattutto con persone che hanno assistito al disastro e sono rimaste scioccate, se non addirittura traumatizzate, è chiedere loro di raccontare con calma tutto quello che hanno visto. In situazioni del genere, le persone tendono a saltare di qua e di là, vi raccontano qualcosa che è successo dopo e poi qualcosa che hanno visto all’inizio, poi un grido che hanno sentito a metà della sequenza. Quello che dovete fare è riportarle all’ultimo momento in cui tutto era normale, e poi chiedere loro di raccontarvi nel modo più dettagliato possibile quello che hanno visto, i rumori e perfino gli odori, nell’ordine in cui li hanno sentiti. Alla fine della vostra indagine, dovreste essere in grado di avere in mente una specie di filmato di come sono andate le cose. Se non ci riuscite, come farete a raccontarlo ai vostri lettori? Controllate nomi e titoli È una cosa ovvia, noiosa, ma essenziale. Chiedete agli intervistati di darvi nome, titolo, età e indirizzo, se è necessario. Se si tratta di un nome difficile o straniero, pregateli di scriverlo direttamente sul vostro taccuino. Non temete di fare la figura degli idioti, perché vi sentirete ancora più idioti se una volta tornati in redazione non saprete come si scrive. E controllate nome e cognome. Una volta un reporter intervistò un certo Bryan Smith. Mentre se ne stava andando, gli chiese: «Il suo nome si scrive con la I o con la Y?». Il tizio rispose: «Con la Y». E naturalmente sul giornale apparve come «Brian Smyth». Raccogliete il maggior numero possibile di numeri di telefono Questo è fondamentale quanto scrivere i nomi giusti. Chiedete i numeri dell’ufficio, di casa, del cellulare, del cercapersone, tutti i numeri che sono disposti a darvi. Se il numero dell’ufficio è scritto sull’apparecchio, copiatelo discretamente da soli. Altrimenti, chiedete.

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Meglio raccogliere troppe informazioni che troppo poche Nella maggior parte dei casi, avrete una sola possibilità di intervistare una fonte importante: approfittatene e fate tutte le domande che potete; la risposta a quella domanda in più potrebbe diventare il fulcro del vostro articolo. E ricordate che spesso sono i dettagli a rendere una storia meno comune: chiedeteli sempre. Non abbiate timore di sembrare stupidi Tutti ci siamo trovati nella situazione in cui qualcuno ci parla e noi ce ne stiamo seduti lì facendo cenni di assenso anche se non abbiamo la più pallida idea di quello che sta dicendo. Se chiediamo delle spiegazioni, temiamo di fare la figura degli stupidi. E poi quando ci mettiamo a scrivere l’articolo ci rendiamo conto di non capire quello che abbiamo passato ore a fingere di sapere. Non abbiate mai, assolutamente mai, paura di apparire stupidi perché state facendo domande elementari. Prima di tutto, perfino durante le conferenze stampa, nessuno è mai così sgarbato da ridere della vostra ignoranza. E anche se lo facessero? Chi è più stupido, chi finge di sapere o chi non sa e lo ammette? Quasi tutti gli esperti sono disposti a spiegare ai giornalisti i concetti più specialistici e molti di loro si sentiranno lusingati se qualcuno si interessa alla loro materia. Se avete dei dubbi, spiegate quello che avete capito della situazione Se non capite una risposta, o se la situazione sulla quale state indagando è confusa, spiegate quello che avete capito alla persona che state intervistando. Non abbiate mai timore di dire: «Le dispiace se ricapitolo? Tutto è cominciato quando...» oppure «Mi lasci controllare se ho capito bene...» o addirittura «Se scrivessi così... sarebbe corretto?». Questa è una tecnica standard. Non significa che siete duri di comprendonio. E anche se così fosse? Meglio quel-

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lo che un resoconto ambiguo o sbagliato. Lo stesso vale per le motivazioni. Non lanciatevi in supposizioni. Se qualcuno ha fatto qualcosa e le sue motivazioni vi sembrano rilevanti, non formulate ipotesi, chiedetegliele. Non state facendo un gioco di società. Fate domande per ricavare informazioni, non opinioni o reazioni Se state parlando con una fonte per avere dei fatti, ogni domanda dovrebbe essere concepita a questo scopo. È molto facile cominciare ponendo domande su come hanno reagito a un certo evento. Ma le reazioni raramente sono sorprendenti e quindi non avrete raccolto nulla di utile per il vostro articolo. Scoprire, ad esempio, che un politico di destra disapprova alcune riforme progressiste non è certamente una notizia. L’unico caso in cui potete fare eccezione a questo principio, naturalmente, è se state scrivendo un articolo sulle opinioni. Cercate di evitare i cliché Chiedere a qualcuno che è stato appena coinvolto in una tragedia «Come si sente?» nel migliore dei casi significa invitarlo a dare una risposta altrettanto scontata, e nel peggiore a rifiutarsi di rispondere ad altre domande. Se ha appena perduto il suo unico figlio in un incidente aereo come pensate che si senta? Felicissimo? Eppure negli articoli di cronaca troviamo ogni giorno le emozioni più banali («Sono estremamente emozionato per questa vincita», «Siamo molto arrabbiati perché ci hanno licenziati senza darci alcun indennizzo») sciorinate come se fossero scoperte sconvolgenti. Cercate di raccogliere aneddoti Gli aneddoti interessanti possono aggiungere molta vita a un servizio. Raccoglieteli appena ne avete l’opportunità dalle persone che state intervistando. Ma ricordate che per indurre qualcuno a raccontarvi un aneddoto divertente, paradossale o significativo bisogna condurre la conversazione in modo rilassato, non starse-

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ne seduti impettiti e dire: «Adesso mi racconti la cosa più buffa che le sia mai capitata». Non lo faranno mai. Avranno un improvviso vuoto di memoria. Cercate invece di sondare quali sono gli aspetti della loro vita, del loro lavoro, della loro attività che si prestano a situazioni umoristiche. Ad esempio, se state intervistando il personale di volo per scrivere di un nuovo servizio offerto da una compagnia aerea e volete un paio di storielle sugli strani comportamenti dei passeggeri, non chiedete: «Mi racconti qualcuna delle cose stupide che fanno i passeggeri». Portate piuttosto la conversazione sull’ubriachezza, la paura di volare, i bagagli, le lamentele sui pasti, i bambini, le richieste strane, e così via. Non lasciate che vi raccontino balle Ovviamente dovreste chiedere che vi spieghino i termini specifici, anche se molte espressioni che suonano tecniche in realtà sono solo eufemismi. Ogni settore, compagnia o burocrazia utilizza il suo gergo interno per camuffare la realtà. Una linea aerea vi parlerà di «flusso ridotto di passeggeri» per dire che non ha molti clienti. Un fondo di investimento può emettere un comunicato in cui accenna a una «contrazione della liquidità» per dire che i suoi investitori ormai hanno capito dov’è la magagna e si stanno riprendendo i loro soldi. Le organizzazioni che trattano materiali pericolosi, come l’industria del nucleare e l’esercito, sono particolarmente abili nel raccontare questo tipo di balle. In America, dopo il famoso incidente di Three Mile Island del 1979, l’industria nucleare inventò un’incredibile serie di eufemismi per descrivere le cose che non andavano. I comunicati parlavano di «evoluzione anormale» in un impianto che aveva portato a un «disassemblaggio energetico» e poi a una «rapida ossidazione», forse seguita da un «insediamento del plutonio». Questo in realtà significava che nell’impianto c’era stato un incidente che aveva provocato un’esplosione e un incendio, seguito da una contaminazione da plutonio –

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ma l’uso di tutte queste espressioni esplicite era stato vietato. Fate cadere questo divieto, chiedete che cosa intendono dire. Ascoltate le risposte Quando si è impegnati a pensare alla prossima domanda, o ad annotare una risposta, capita facilmente di non capire quello che una persona sta dicendo. Spesso dieci minuti dopo l’intervista è troppo tardi per rendersi conto dell’importanza, o dell’assurdità, di quello che ci hanno detto, soprattutto se la persona ha fatto una dichiarazione straordinaria. Il romanziere francese Georges Simenon una volta disse a un cronista del quotidiano svizzero «Die Tat»: «Ho fatto l’amore con 10mila donne». Il giornale riportò doverosamente la dichiarazione senza commenti. Eppure, anche la persona più negata per la matematica è in grado di calcolare che, per raggiungere una cifra del genere, Simenon avrebbe dovuto fare una conquista ogni due giorni per circa 65 anni – un’impresa non da poco per un uomo di 73 anni che aveva trovato anche il tempo di scrivere un centinaio di libri. Il vero totale, come dichiarò quella donna tollerante che era sua moglie in un’intervista successiva, si avvicinava più alle 1200. Abbiate il coraggio di fare domande sfacciate Sempre che ci arriviate gradualmente, e non la buttiate lì all’inizio, è molto utile fare qualche domanda diretta, se non addirittura personale. Può darsi che provochi un’occhiataccia, o un silenzio imbarazzato, ma è altrettanto probabile che, se fatta in modo aperto e spontaneo, produca una risposta rivelatrice, o addirittura un’esplosione. Nellie Bly, che fu forse la più grande giornalista donna del diciannovesimo secolo, praticamente basò la sua carriera sulle domande dirette. Una volta, mentre indagava per una serie di articoli intitolata Le ragazze delle nostre officine, sulle operaie scandalosamente malpagate delle fabbriche di Filadelfia, una

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ragazza le raccontò che la sera andava nei bar e beveva con gli sconosciuti, cosa che all’epoca era ritenuta assolutamente sconveniente. La Bly le chiese: «Perché mette così a repentaglio la sua reputazione?». E la ragazza rispose con una frase che avrebbe mandato in estasi qualsiasi giornalista: «Mettere a repentaglio la mia reputazione? Non credo di averne una. Sgobbo tutto il giorno, una settimana dopo l’altra, per quattro soldi. La sera torno a casa stanca morta e ho voglia di qualcosa di diverso, buono o cattivo che sia, che rompa la monotonia della mia vita. Non ho nessun piacere, nessun libro da leggere. Non posso andare nei luoghi di divertimento perché non ho né vestiti né soldi e a nessuno interessa che ne sarà di me». Come citazione non avrebbe potuto desiderare di meglio. Impedite alla gente di divagare Quando andate di fretta, come spesso accade, non c’è niente che vi faccia innervosire come una persona che continua a parlare di un dettaglio irrilevante. E questo succede più spesso di quanto un giornalista inesperto possa pensare. Naturalmente, potete dirle che avete poco tempo e che avete bisogno di farle altre domande, ma così non ve la farete di certo amica. Provate, invece, a usare la tattica consigliata da John Brady nel suo brillante The Interviewers’ Handbook: interrompetela con una domanda banale – sul parcheggio, su qualcosa che vedete nella stanza, o sul tempo – e quando avrà risposto a quella, fatele la domanda che vi interessa. Alla fine ricontrollate le risposte Se è possibile, rivedete i vostri appunti con le persone ricontrollando le cifre e tutto quello di cui non siete ancora sicuri. A parte i motivi più evidenti, dovete farlo anche per due ragioni che lo sono un po’ meno. In primo luogo, per vedere se riuscite a scoprire qualche lacuna o «vuoto di informazione» che non avevate notato, e in secondo luogo per provare a strappare alla persona qualche ulte-

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riore informazione. Questo è anche il momento di chiedere se c’è qualcun altro in grado di confermare le sue asserzioni. Non fate mai promesse su come verranno trattate le informazioni Solo il direttore è in grado di decidere come verranno trattate e appariranno sul giornale le informazioni. Molti intervistati vi faranno questa domanda, ma non è necessario che rispondiate. Dite che siete solo un cronista e date loro il nome e il numero di telefono del vostro direttore. LE DOMANDE PIÙ UTILI PER UN GIORNALISTA Sappiamo tutti che quello che cerchiamo è il chi, dove, quando, come e perché di quanto è accaduto. Ma esistono modi migliori e peggiori per ottenere queste risposte. In cima alla lista dei modi sbagliati ci sono le lunghe domande. Se c’è una regola infallibile nelle interviste è proprio questa: più la domanda è lunga, più è probabile che la risposta sia breve. Altrettanto stupida è la domanda di routine tanto amata dai cronisti televisivi: «Come si sente?». Di solito viene posta a chi ha vinto alla lotteria o a chi ha subìto un grave lutto, e porta alla stupefacente scoperta che chi ha appena incassato 12 milioni di sterline si sente «magnificamente», mentre chi ha appena saputo che tutta la sua famiglia è stata annientata è «sconvolto». Ma va? Se il neomilionario fosse «sgomento» e il parente addolorato stesse stappando lo champagne, allora sì che sarebbe una notizia. Ma basta con le domande sbagliate. Proviamo a elencare qualcuna di quelle giuste: E poi che cosa è successo? Quando viene chiesto loro di ricostruire una sequenza di eventi, molte persone hanno difficoltà a raccontare le cose in ordine cronologico. Perciò riportatele all’inizio e continuate a chiedere: «E poi che cosa è successo?».

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Come fa a saperlo? A volte le fonti fanno affermazioni stupefacenti. Se chiedete loro come fanno a saperlo, otterrete la conferma che sanno di che cosa stanno parlando o, più probabilmente, una ritrattazione o l’ammissione che glielo ha detto qualcuno che non possono nominare. In un caso o nell’altro, avrete sempre fatto un passo avanti. C’è qualcuno che può confermarmelo? Se non c’è, dovete porvi una domanda: come mai questa è l’unica persona al mondo a sapere questa cosa? Lei come interpreta tutto questo? È il modo migliore per sollecitare opinioni, e intimidisce meno che chiedere «Lei che ne pensa?». Ovviamente è anche molto meglio di domande come: «Allora ritiene che ci sia stata una negligenza da parte della società?». Questo significa mettere le parole in bocca alle persone, cosa che alcuni giornalisti considerano astuta, ma il mondo in generale, e i tribunali in particolare, tendono a non essere d’accordo con loro. Che cosa si prova... Quando vogliono convincere qualcuno a descrivere un’esperienza, molti giornalisti gli chiedono: «È stato difficile fare X, Y o Z?». Domanda alla quale è facile rispondere con una parola sola. Meglio chiedere: «Che cosa si prova a fare X, Y o Z?». Così dovranno cercare di spiegarvelo con parole loro, che forse non saranno «incisive» come le vostre, ma probabilmente saranno più originali e sicuramente più naturali. Allora? Non è proprio una domanda, ma è un buon sistema per fare in modo che le persone aggiungano dettagli o continuino a parlare. Con alcuni intervistati, basta una domanda di sole nove parole per interrompere il flusso delle loro rivelazioni. COME INTERVISTARE LE PERSONE CHE SI SENTONO A DISAGIO Molti appaiono intimiditi davanti ai giornalisti, non perché li trovino spaventosi come persone (anche se alcuni di loro lo sono),

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ma perché non sono abituati ad avere a che fare con la stampa. O anche se lo sono, potrebbero essere riluttanti a parlare perché hanno paura di perdere il posto o temono altre ripercussioni. Essendo stato coinvolto più di una volta in eventi eccezionali, so bene quanto ci si agita quando si è intervistati. Ci si preoccupa di quello che si dirà e di quello che verrà riportato. Spesso la prima cosa che un giornalista deve fare con una persona palesemente a disagio è proprio convincerla a parlare. Per riuscirci, potete mostrarvi comprensivi, scherzare, parlare del diritto del pubblico a sapere, usare qualsiasi sistema che pensate possa funzionare. Spesso però, non avete la possibilità di prendere accordi in anticipo. Vi presentate da loro ‘a freddo’, senza una telefonata di preavviso. In questi casi, è un problema anche solo superare la porta. La cosa importante, come dimostra la citazione che segue, è varcare la soglia del loro salotto o del loro ufficio. Una volta che sarete lì, sarà molto più difficile che rifiutino di rispondere alle vostre domande. Una volta dentro, il trucco sta nel cercare di rimanerci il più a lungo possibile. Questa citazione è tratta dal libro Tutti gli uomini del presidente, scritto da Carl Bernstein e Bob Woodward del «Washington Post» per raccontare l’indagine che alla fine portò il presidente Richard Nixon a dare le dimissioni*. Del loro reportage, e della sua storia, parleremo in maggior dettaglio nel capitolo 9. A questo punto, Carl Bernstein è convinto che la donna che sta cercando di intervistare può essere un’importante fonte di informazioni sulle attività dei suoi datori di lavoro. Per questo motivo, e perché prevede che sarà riluttante a parlare, è andato a trovarla a casa senza prima telefonarle: Una donna aprì la porta e fece entrare Bernstein. «Lei non cerca me, cerca mia sorella», disse. La sorella entrò nella stanza. Lui si era aspetta* Tutti gli uomini del presidente. L’affare Watergate, trad. it., Garzanti, Milano 1974 [N.d.T.].

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to una donna sulla cinquantina, forse con i capelli grigi; era la sua idea dell’aspetto che doveva avere una contabile, perché quello era il suo mestiere. Ma lei era molto più giovane. «Oh, mio Dio», disse la contabile, «ma lei è del ‘Washington Post’. Deve andarsene subito, mi dispiace». Bernstein cominciò a pensare a come fare per prendere tempo. La sorella stava fumando e notò un pacchetto di sigarette sul tavolo del tinello; ne chiese una. «Ci penso io», disse quando la sorella si mosse per andare a prendere il pacchetto, «non si preoccupi». Così riuscì a fare una decina di passi all’interno della casa. Bluffò, dicendo alla contabile che capiva i suoi timori; c’erano molte persone come lei nel comitato che volevano dire la verità, ma qualcuno non voleva ascoltarle. Sapeva che certe persone erano tornate all’Fbi e dal pubblico ministero per fornire ulteriori informazioni [...]. Esitò. «Dove le prendete voi giornalisti tutte queste informazioni?» chiese lei. «Questa è una cosa che nel comitato nessuno si immagina». Bernstein chiese se poteva sedersi e finire la sigaretta. «Sì, ma poi dovrà andarsene, non ho niente da dire, sul serio». Stava bevendo del caffè, e la sorella chiese a Bernstein se ne voleva una tazza. La contabile trasalì, ma ormai era troppo tardi. Bernstein cominciò a sorseggiarlo. Lentamente.

La donna parlò, diede a Bernstein alcune informazioni molto utili, più tardi parlò di nuovo con entrambi i giornalisti e si rivelò un contatto prezioso. Questo probabilmente perché Bernstein non aveva tirato subito fuori il suo taccuino e non aveva cominciato a prendere appunti su tutto quello che diceva mostrandosi deliziato o sorpreso. Aspettò, forse anche dieci minuti, prima di sfilare dalla tasca il blocco di appunti e di cominciare con aria indifferente a scrivere qualcosa. Appena una persona ha accettato di parlare, la prima cosa da fare è cercare di metterla a proprio agio. Così otterrete molte più informazioni. Ecco qualche suggerimento. Pensate bene a dove e quando parlare con loro Al telefono o faccia a faccia? Che cosa sarà meglio per loro? Se decidete per il faccia a faccia, dove? Nel loro ufficio? Nel vostro

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ufficio? Al ristorante? A casa loro? In altre parole, in quale ambiente sarà meno probabile che si sentano minacciati e quindi collaboreranno di più? Adeguatevi a loro Quando intervistate qualcuno, il vostro scopo è farlo sentire rilassato e disponibile. Questo significa che non dovete né intimidirlo né infastidirlo. È probabile che dobbiate leggermente adeguare il vostro comportamento e il vostro aspetto alla situazione. Non è necessario che cambiate personalità a ogni intervista, ma dovreste tenere conto del vostro interlocutore. Se, ad esempio, state andando a intervistare dei senzatetto nelle strade della città, non indosserete certo il vostro vestito migliore. Questo li metterebbe a disagio. D’altro canto, se dovete intervistare il Primo ministro, non ci andrete in jeans e maglietta. Probabilmente si sentirebbe offeso e penserebbe che vi interessa di più asserire la vostra personalità che non ottenere una buona intervista – e probabilmente avrebbe ragione. Di fronte a persone con le quali normalmente non avreste rapporti, può darsi che dobbiate perfino recitare un po’, fingendo di interessarvi a loro o adeguandovi a loro. Se sono persone formali, siate più formali di quanto siete normalmente; se sono molto disinvolte, allora potete esserlo anche voi. Fatevi un’idea su di loro Come potete tirarli dalla vostra parte? Con l’adulazione? Con la cordialità? Con le barzellette? Con i discorsi seri? Di qualunque cosa si tratti, se sono fonti di informazione importanti, fatelo. Che cosa li interessa? Qualunque cosa sia, interessatevene anche voi. Fare questo è sempre più facile se li incontrate di persona, soprattutto a casa loro o in ufficio. Le persone si circondano di cose che sono importanti per loro – foto della famiglia, quadri dei loro luoghi preferiti, soprammobili e ricordi. Sfruttate questi oggetti, fate domande su di essi. Fate in modo che vogliano aiutar-

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vi. Cercate di trovare qualcosa in comune con loro, anche il semplice fatto di avere un cane o dei bambini. Se avete tempo, tentate lo stratagemma di chiedere la storia della loro vita Se il vostro soggetto è timido, o ha un atteggiamento ostile nei vostri confronti, ma sembra avere tempo, provate a fargli domande sulla sua vita. Queste sono le più comuni: dove è cresciuto, dove ha studiato, qual è stato il suo primo lavoro, successi, conquiste, esperienze all’estero, e così via. Le risposte potrebbero fornirvi qualche indicazione sulle domande da fare in seguito. Ma anche se così non fosse, quasi sicuramente avrete fatto sentire quella persona a proprio agio e sarà più dalla vostra parte. Quasi tutti prendono in simpatia chi si interessa a loro. Se li intervistate di persona, non tirate subito fuori il taccuino Non c’è niente che infastidisca un intervistato già a disagio quanto un giornalista che entra a passo di marcia nella stanza con il taccuino in mano e la penna già pronta per appuntare tutto quello che dirà. Tirateli fuori lentamente dalla tasca o dalla borsa quando ormai è rilassato. Potete anche dire qualcosa del tipo: «Mi scusi, ho una memoria terribile, le dispiace se prendo qualche appunto?». A volte vi renderete conto che appena tirate fuori il taccuino smetteranno subito di parlare. In questi casi, cercate di memorizzare le cose importanti che vi dicono, trovate una scusa e uscite dalla stanza (per andare alla toilette o a lavarvi le mani). Appena sarete lontani dai loro occhi, potrete scrivere una sintesi di quello che vi hanno detto. Siate sinceri sulle vostre intenzioni, ma non dite proprio tutto Dovreste sempre dichiarare che siete giornalisti e non mentire sui motivi per cui volete parlare con qualcuno. Ma non sempre è ne-

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cessario che spieghiate esattamente perché l’avete contattato. Se avete in mente un problema o una questione controversa, a volte è più saggio non dirlo esplicitamente appena si comincia a parlare. Vi basterà dichiarare: «Sto solo raccogliendo delle informazioni generali su questo argomento». Non sparate subito la domanda principale Fate prima delle domande generali. Possono anche essere domande delle quali conoscete già la risposta. Se non altro, le risposte della persona vi faranno capire quanto sa e quanto è sincera. Buttate lì la domanda scottante solo quando pensate che il vostro interlocutore sia pronto. Lasciar cadere il taccuino per lo stupore esclamando: «Mio Dio! Si rende conto di quello che sta dicendo?» non è il modo migliore di reagire. L’idea di avervi appena rivelato la notizia del secolo potrebbe spingerli a ritrattare immediatamente. Usate le loro stesse parole In qualsiasi conversazione – e più che mai in un’intervista – non c’è nulla che crei una barriera tra gli interlocutori più dell’uso di due linguaggi diversi per descrivere la stessa cosa. Può anche darsi che siate più istruiti della persona che vi trovate a intervistare, ma quello non è il momento giusto per dimostrarlo. Cercate invece di ripetere le sue parole, a meno che, naturalmente, non siano sbagliate. E se avete bisogno di chiedere spiegazioni sulle espressioni che usa (per capire se state parlando della stessa cosa), fatelo con delicatezza. Siete lì per imparare, non per insegnare qualcosa alla vostra fonte. Fate delle pause significative Se la persona che state intervistando non risponde completamente alla vostra domanda, provate a usare delle pause significative, accompagnate da uno sguardo carico di aspettativa. A volte rea-

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girà aggiungendo l’informazione in più che vi serve o vi darà una risposta più articolata. Questa tecnica è particolarmente utile quando state parlando con una persona importante, un politico o un funzionario che viene intervistato spesso e pensa di potersela cavare con una risposta standard. Un maestro di questa strategia era il grande giornalista televisivo americano Ed Murrow. In Edward R. Murrow: An American Original, Joseph E. Persico riporta una sua citazione in proposito: Se gli ponete una domanda diretta, probabilmente l’intervistato vi risponderà come ha già fatto decine di volte. A quel punto comincia il gioco d’attesa. Lui crede di avervi dato la risposta definitiva. Voi assumete un’espressione leggermente sconcertata e perplessa, e potrete quasi vedere quello che sta pensando: «Stupido balordo, se non hai capito, te lo ripeterò in una lingua che sei in grado di comprendere». E lo farà. A quel punto, quando scriverete, eliminerete la prima risposta e userete la seconda.

Naturalmente c’è un limite di tempo oltre il quale non potete restare in attesa. Se la pausa dura più di qualche secondo c’è il rischio che venga interpretata come un sintomo di idiozia o di qualche grave disturbo del vostro sistema nervoso. Se non funziona nient’altro, affidatevi al loro buon cuore Dite che se non riuscite a ottenere questa informazione, passerete dei guai con il vostro direttore. Chiedete il loro aiuto, spesso funziona. Tenete viva la conversazione Se vi dicono: «Non posso fare commenti», non cercate di prendere di petto le loro ansie. Nella maggior parte dei casi perderete, perché le loro motivazioni hanno a che vedere con la loro posizione personale o quella della loro organizzazione e ovviamente su questo ne sanno più di voi. Cercate piuttosto di mantenere viva la conversazione e tentate qualche altra strada. Prima di tutto,

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rassicurateli che parlare con voi non è grave, molte altre persone lo hanno fatto. Poi, senza pause, aggiungete: «Quello che mi lascia perplesso è... Posso chiederle se...». COME INTERVISTARE PERSONE EVASIVE O OSTILI Alcuni dei metodi per trattare con le persone che appaiono a disagio possono essere usati anche con soggetti evasivi o ostili. Ma nella maggior parte dei casi, con una potenziale fonte di informazioni che cerca di evitarvi dovrete adottare un approccio diverso. Perseverate A volte queste persone sembrano assolutamente inafferrabili. Non arrendetevi mai: continuate a chiamarle, andate nel loro ufficio. Fate in modo che capiscano che l’unico sistema per liberarsi di voi è accettare di parlarvi. Nel suo The Interviewers’ Handbook, John Brady racconta che quando il giornalista freelance americano Larry Miller voleva intervistare Diane Sawyer, che all’epoca conduceva il programma Cbs Morning News, le telefonò 28 volte fino a quando non riuscì a parlarle. Sapendo che la sua giornata di lavoro cominciava alle 3.15 di mattina, metteva la sveglia per poterla chiamare a quell’ora. Questa sì che è perseveranza. Se telefonate, non lasciatevi liquidare con la promessa di essere richiamati Molte persone non hanno alcuna intenzione di farlo, anche se loro stesse, le loro segretarie o i loro colleghi lo hanno promesso. Non accettate mai questa risposta: dite che preferite aspettare, che richiamerete voi o, in alcuni casi, accettate di essere richiamati ma stabilite quando. Se non lo fanno, telefonate di nuovo. O meglio ancora, richiamateli un’ora prima dell’ora stabilita: molti dicono che vi richiameranno alle quattro perché sanno che lasceranno l’ufficio alle tre e mezzo.

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Se qualcuno rifiuta di darvi una risposta concreta, suggeritegli delle alternative Se, ad esempio, volete sapere quanto ha speso il governo per un certo appalto e la persona che lo sa rifiuta di rispondervi, provate a suggerire delle cifre: «Sei milioni di dollari?», «O magari dodici?». Questo metodo di solito produce dei risultati, o comunque vi darà qualche buona indicazione. State attenti però, se usate questa tecnica, ad assicurarvi che la persona abbia capito quello che le state chiedendo. Giochetti verbali di questo tipo possono ingenerare confusione. Il caso più famoso di uso di questo metodo risale all’epoca dell’indagine del «Washington Post» sul caso Watergate di cui abbiamo parlato poco fa. I due giornalisti avevano una notizia importante, ma proveniente da un’unica fonte. Il loro direttore insisteva perché ne trovassero un’altra prima di pubblicarla. Quindi, la sera tardi, uno dei due giornalisti telefonò all’unica altra persona che avrebbe potuto confermare la notizia. Ma sapeva che non lo avrebbe mai fatto esplicitamente, quindi disse: «Adesso conterò fino a dieci. Se la notizia è falsa, riagganci, se è vera, resti in linea». E cominciò a contare. «Uno, due, tre, quattro, cinque...». Il suo tono divenne più eccitato. «Sei, sette, otto, nove... dieci». Riagganciò il telefono e disse tutto eccitato al collega e al direttore che avevano la conferma. La notizia fu pubblicata. Ma purtroppo non era vera. Data l’ora tarda, il contatto aveva frainteso le istruzioni del reporter e aveva pensato che se restava in linea l’altro avrebbe capito che la notizia era falsa.

Qualche volta provate a fingere di sapere più di quanto sapete in realtà Se siete fortemente convinti che una notizia sia vera, ma non riuscite ad averne conferma, telefonate a una fonte e dite che l’avete chiamata per avere un suo commento. Ad esempio, provate a chiedere a un funzionario perché è successo qualcosa, invece di

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chiedergli se è successo. A quel punto comincerà a spiegare piuttosto che a negare. Ma questa è una cosa che dovrebbero fare solo i giornalisti più esperti. Attenti ai dinieghi che non negano Un diniego che non nega si verifica quando qualcuno viene accusato e, invece di negare, fa un’affermazione che offende la persona che lo ha accusato, oppure il giornalista, o entrambi. Quando, ad esempio, le chiedete se è vero che nessuno ha controllato gli appalti del governo e sono stati spesi milioni di dollari di troppo, la persona risponderà: «Le sue fonti non sanno quello che dicono»; in realtà non sta negando l’accusa. Spesso è il classico trucco di chi ha qualcosa da nascondere, e il vostro compito è scoprire che cos’è. Un classico diniego che non nega fu quello del procuratore generale di Richard Nixon, John Mitchell, durante l’inchiesta Watergate. Il cronista del «Washington Post» Carl Bernstein gli telefonò per chiedergli se era vero che controllava il fondo segreto usato per pagare gli uomini che si erano introdotti nel palazzo Watergate. Mitchell rispose: «Non è vero niente di tutte quelle fesserie che scrivete sul giornale. Se Katie Graham [l’editore del ‘Post’] pubblicherà questa notizia la pagherà cara. Cristo santo! È la cosa più ripugnante che abbia mai sentito!». Tutte minacce vuote, naturalmente. E quando si scoprì che queste accuse, come tante altre, erano vere, Mitchell fu costretto a dimettersi come il suo presidente. Attenti ai dinieghi non richiesti È la situazione opposta a quella che abbiamo appena descritto. Una persona che ha qualcosa da nascondere a volte nel rispondere va oltre quello che la vostra domanda richiede. Quando sollecitate un commento, ad esempio, nega cose che non avete mai detto. State attenti a dettagli del genere, a volte succedono quando meno ve l’aspettate e sono il primo segno che la persona ha qualcosa da nascondere.

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Non usate domande «trabocchetto» Sono domande che servono a tendere una trappola, usando non un’informazione, ma uno stratagemma verbale. Il fatto che questo trucco non sia molto originale non impedisce a parecchie persone di usarlo. È una variante della vecchia domanda: «Ha smesso di picchiare sua moglie?», alla quale un ingenuo potrebbe rispondere «Sì», lasciando intendere che prima lo faceva ma adesso si è ravveduto, oppure «No», e questo significherebbe che lo fa ancora. Uno dei casi in cui questa tecnica è stata particolarmente sfruttata è stato quando sui giornali nazionali inglesi circolava la voce che il principe Edoardo, il quarto figlio della regina, fosse gay. Un cronista del «Daily Mirror» lo seguì a New York e, durante una cerimonia pubblica, urlò: «Lei è gay?». Il principe fu tanto ingenuo da rispondere «No», e il giorno dopo il «Mirror» uscì con un titolo di prima pagina a caratteri cubitali: Non sono gay, dice Edoardo. L’impressione che ebbero i lettori fu che lo fosse veramente, ma lo stesse negando. Questo è giornalismo «sporco». Chiedete di immaginare l’effetto di un «no comment» sul giornale Se un funzionario rifiuta di fare commenti, chiedetegli di immaginare che effetto farà sul giornale. Ma non fatela suonare come una minaccia. Cercate di dare l’impressione che volete salvare la sua immagine pubblica: «Capisce, la gente leggerà ‘X ha rifiutato di fare commenti’ e penserà che lei ha qualcosa da nascondere. Io so che non è così, quindi perché non risponde alla mia domanda su...». Infine, ricordate che un giorno una persona può rifiutarsi di parlare con voi, ma qualche giorno dopo può essere più malleabile. Se è una fonte di informazioni importante, riprovateci.

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LE DOMANDE VIA E-MAIL Di tanto in tanto, se una fonte è molto occupata, o vive in un paese il cui fuso orario è parecchio lontano dal vostro, vale la pena di offrirle l’alternativa di intervistarla via e-mail. Ovviamente la conversazione sarà meno naturale, ma se questo è l’unico modo per avere qualche risposta, è meglio di niente. Fate però in modo di porre domande chiare e concise, perché quando le leggerà non sarete lì presenti per dare spiegazioni. LE CONFERENZE STAMPA Le conferenze stampa ovviamente sono un caso particolare per quanto riguarda le domande. Non siete soli, non siete faccia a faccia con le persone e spesso avete poco tempo. Se le cose stanno così e dovete scrivere un pezzo immediatamente dopo la fine della conferenza, fate in modo che qualcuno, anche se non voi stessi, faccia le domande che vi servono. Questo a volte significa dover essere aggressivi, urlare la vostra domanda per essere sicuri che venga sentita, o alzarsi in piedi per parlare. Quando organizzano una conferenza stampa, molti pensano che potranno tenere banco davanti a un gruppo di persone che prendono docilmente appunti. Nessun cronista dovrebbe mai lasciar loro questa illusione. Può darsi che abbiano organizzato l’evento solo a fini pubblicitari, ma questo non significa che dovete stare al loro gioco. Siete voi a decidere qual è la notizia, non loro. Non importa quale sia il messaggio significativo dal loro punto di vista, c’è qualcosa di più interessante dietro? Se la persona che tiene la conferenza stampa non è troppo importante, e avete un po’ di tempo, risparmiate le vostre domande per il dopo-conferenza. In questo caso, non dovete permettere che lasci la stanza prima che l’abbiate incastrata. A volte questo può significare mettersi tra lei e la porta. Non vergognatevi di far-

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lo. Chiunque tenga regolarmente conferenze stampa ci è abituato. Non siete lì per farvi un amico, ma per scrivere un articolo. Un altro sistema è quello di vedere se c’è un vostro collega in sala che sembra saperne molto di più sull’argomento. Dopo la conferenza, attaccate discorso. La maggior parte dei giornalisti non resiste alla tentazione di fare sfoggio di quello che sa, o delle persone che conosce, e quindi vi passerà delle informazioni preziose. Non fidatevi di tutto quello che dicono, ma da queste conversazioni potreste tirar fuori qualche buona idea. Non dimenticate che le conferenze stampa servono soprattutto a incontrare persone e a prendere contatti piuttosto che ad ascoltare le dichiarazioni ufficiali. COME INTERVISTARE I PERSONAGGI IMPORTANTI Spesso, più importante è il personaggio e meno tempo avete. Non sprecatelo chiedendo cose che potrete facilmente verificare facendo qualche ricerca prima o dopo l’intervista. Le grandi star sono sempre accompagnate dai loro addetti stampa che cercano di porre un limite agli argomenti che potete toccare. Il vostro compito è quello di eludere il più possibile questi controlli e, se non ci riuscite, di dirlo ai lettori. Siete cronisti, non cortigiani. Non lasciatevi incantare dal fatto che una celebrità sta parlando con voi; ma non lasciate neanche che la vostra antipatia nei suoi confronti o il risentimento per la sua ricchezza, bellezza, intelligenza o successo vi spingano a demolirla una volta per tutte. Una volta stampata, tale operazione rivelerà molte più cose su di voi che sul personaggio. Soprattutto, fate qualche ricerca prima. Se avete poco tempo, leggete i ritagli di giornale o qualche biografia online; se ne avete di più, leggete la loro autobiografia. Tranne i grossi nomi, tutti si sentiranno lusingati da questo, e durante l’intervista non dovrete sprecare tempo a chiedere dove sono nati e altre cose del genere.

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Se non credete nell’importanza delle ricerche, considerate il caso del giornalista mandato a intervistare l’attrice Vivien Leigh nel 1940, quando era al culmine della sua fama grazie al ruolo della protagonista interpretato in Via col vento. All’epoca, quel film, che è stato forse il maggior successo cinematografico di tutti i tempi, era in programmazione in quasi tutti i cinema del mondo occidentale. «Mi dica», cominciò l’idiota, «che ruolo interpreta in Via col vento?». L’intervista fu subito interrotta. E qualsiasi tentativo di fare i furbi probabilmente si concluderà ben presto con la dimostrazione che l’intervistato è più furbo di voi, come prova questo scambio. Giornalista: «Che hanno di speciale le sue grandi canzoni rock?». Bob Dylan: «Durano tre minuti e mezzo». Cercate piuttosto di essere semplici. Descrivete le persone nel modo più preciso possibile e concentratevi su domande che possano permettervi di confrontare la loro vera personalità con la loro immagine pubblica. Come dice l’autorevole intervistatrice inglese Lynn Barber: «Non dovete fare altro che essere puntuali, educati e porre le vostre domande». Raccomanda anche, e molti sarebbero d’accordo con lei, che le domande siano più brevi possibile. Quelle che seguono sono spesso utili per ottenere risposte inaspettate, o per far emergere aspetti della sua vita dei quali il personaggio ha voglia di parlare. Si basano su una lista inserita da Jeremy Martin nel «Compuserve’s Journalism Forum». Qual è il suo primo ricordo? Qual è stato il miglior consiglio che suo padre/sua madre le abbia mai dato? Chi ha influito di più sulla sua vita? Qual è stato il suo primo lavoro? Qual è stata la sua prima macchina? Chi è stato il suo primo amore? Che cosa fa quando è nervoso/a? Ha qualche comportamento irrefrenabile?

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Ha un brutto carattere? Che cosa mangia/non mangia? Chi è il suo migliore amico? Qual è la sua peggiore abitudine? Che cosa la fa arrabbiare? Che cosa studia? Con che frequenza legge? Quante ore dorme a notte? Che cosa fa se si sveglia di notte e non riesce a riaddormentarsi? Qual è il suo ideale di una giornata libera? Quando ha in programma di ritirarsi? Chi inviterebbe a una festa? Le piace il Natale? Qual è il suo disco/libro/film/cantante/artista preferito? Chi ammira di più? Qual è la sua bevanda preferita? Qual è il suo luogo di vacanza preferito? Dove vivrebbe se potesse scegliere liberamente? Se queste non funzionano, potete sempre cercare di coglierli di sorpresa. Prima di incontrare un reporter della rivista «Stuff», la supermodella canadese Krista Griffith chiese al suo agente che domande doveva aspettarsi. «Probabilmente», rispose l’agente, «ti chiederà qual è il tuo colore preferito». Si trovò invece a rispondere a questa domanda: «Qualche tempo fa abbiamo pubblicato un articolo sugli stimolatori per capezzoli a vibrazione variabile, e mi chiedevo: lei li proverebbe mai?». I giornalisti più astuti sono quelli che appaiono amichevoli, sorridono e sembrano dalla vostra parte. Sono proprio loro che cercheranno di farvi a pezzi in ogni occasione. Ed Koch

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Dati e statistiche

I giornalisti borbottano, censurano, danno consigli, sostituiscono i sovrani, difendono i paesi. Quattro giornali ostili sono da temere più di mille baionette. Napoleone Bonaparte

Parecchi giornalisti sono convinti che la dimestichezza con i numeri sia una specie di virus che, una volta preso, può danneggiare le loro facoltà letterarie, appiattire la loro ricchezza lessicale e ridurre la loro sensibilità. Questa è una sciocchezza, e una sciocchezza pericolosa, perché di questi tempi molte notizie si basano sulle statistiche. I giornalisti sono bombardati da studi, sondaggi di opinione, addetti alle pubbliche relazioni, aziende, gruppi di pressione e politici che citano quelle che a prima vista sembrano cifre strabilianti. Per il giornalista moderno non avere dimestichezza con i numeri non è affatto segno di valore letterario, ma piuttosto una debolezza che può essergli fatale. Se non ne capite abbastanza per discutere i dati, come giornalisti siete veramente impotenti. Le fonti di informazione giocano sempre con i numeri. Se non avete almeno una competenza rudimentale per fiutare le cifre fasulle, sarete costretti a bere tutto quello che vi dicono e a riportarlo fedelmente. Con quali conseguenze? Porterete fuori strada i vostri lettori e li informerete male, oltre a fare, giustamente, la figura dei cretini.

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Per fortuna avete un modo per difendervi, potete cioè armarvi della competenza sufficiente per capire la statistica utilizzata nella vita di tutti i giorni. Se la sola idea vi spaventa, state tranquilli: la matematica di cui sto per parlarvi non va oltre le capacità di comprensione di un ragazzo di 12 anni. Se siete ancora spaventati, forse sarebbe ora che cominciaste a pensare di cambiare mestiere perché, vi piaccia o no, ogni giorno della vostra vita lavorativa avrete a che fare con statistiche di qualche tipo.

ESAMINARE I DATI Le statistiche, come tutte le altre fonti di informazione, devono essere studiate. Questo significa che dovrete interrogare le persone che le diffondono, esaminare i dati stessi e tutte le conclusioni che ne vengono tratte. Il punto di partenza è: La notizia vi sembra probabile? Molto spesso non lo sembra affatto. Nel 1999 mi imbattei nella notizia che il 50 per cento dei prestiti personali concessi dalle banche alle donne erano per interventi di chirurgia estetica. Nei quartieri alti di Los Angeles forse era plausibile, ma non a Londra. Quando andai a controllare, la verità era che metà dei prestiti personali concessi alle donne per motivi di salute venivano spesi per interventi chirurgici non necessari. Questo suonava molto più probabile, e molto meno interessante. Rinunciai a scrivere l’articolo. Poi ci sono i trabocchetti che per essere individuati richiedono un po’ più di prontezza. Una volta un giornale statunitense pubblicò la notizia che il 50 per cento degli abitanti della cittadina brasiliana di Itapum faceva uso di tranquillanti. Potrebbe anche essere vero, ma basta riflettere un attimo per capire che non è possibile. Nelle città ci sono anche i bambini e gli adolescenti. Nelle

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piccole città del Brasile, i ragazzi sotto i 18 anni costituiscono almeno metà della popolazione. Questo significa che l’altra metà, tutti gli adulti, compresi i novantenni, fa uso di tranquillanti? Improbabile. Poco dopo la sua pubblicazione, la notizia fu corretta. In realtà si trattava del 16 per cento della popolazione adulta. Molte cifre improbabili sono il frutto di forzature intenzionali da parte di gruppi di pressione o di governi, e della fobia per i numeri dei giornalisti che le prendono alla lettera. Qualche tempo fa ho bloccato la pubblicazione di un articolo dal quale i lettori avrebbero appreso che «lo stress e la depressione costano all’economia inglese cinque miliardi di sterline l’anno». Quando gli ho chiesto dove aveva preso quel dato, il cronista mi ha risposto che glielo aveva fornito un’organizzazione propagandistica la quale aveva calcolato che quando le persone si ammalano, i datori di lavoro assumono subito un sostituto temporaneo. Sì, come no. L’antidoto a queste e altre insensatezze numeriche è una semplice domanda: quanto è probabile questa notizia? Nella maggior parte dei casi non lo è. Qualche anno fa, un’inchiesta rivelò che in America 11,5 milioni di bambini rischiavano di soffrire la fame. Ma poi venne fuori che correvano questo rischio se i loro genitori avevano risposto «Sì» almeno a una di otto domande, che comprendevano quesiti generici come: «Le è mai capitato di non aver molto da mettere in tavola per i suoi figli perché aveva finito i soldi per comprare da mangiare?». Vi sembra un problema di fame o quello che succede in milioni di famiglie il giorno prima di prendere lo stipendio? Diffidate di qualsiasi articolo basato su un’inchiesta. Se la cifra in sé vi sembra credibile, ecco la prossima domanda che dovete porvi. Qual è la fonte di questi dati? È una università, una società privata, un’agenzia di ricerche di mercato o un gruppo di pressione? Sono persone qualificate a

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raccogliere e interpretare quei dati? O si tratta di una ricerca fatta da un’istituzione rispettabile ma usata da qualcun altro? In quest’ultimo caso, dovete risalire agli autori della ricerca originaria, chiedere loro che cosa ne pensano dell’uso che è stato fatto dei loro dati e sollecitare commenti sulle conclusioni che ne sono state tratte. Potreste tirarne fuori un articolo molto più interessante. Da dove vengono? Se non sanno dirvi da dove vengono le cifre, come spesso succede con le inchieste di seconda mano e le inchieste sulle inchieste, dovrebbe scattarvi un campanello d’allarme. Perché tirano fuori questi dati? Perché mi stanno dicendo questa cosa? Hanno qualche interesse personale o qualche idea che vogliono sostenere? Uno studio sugli effetti dei divieti di caccia sui livelli di occupazione nel settore agricolo risulta molto meno credibile se è stato finanziato dalla lobby dei cacciatori. Accade raramente che i gruppi di pressione pubblichino ricerche deliberatamente falsificate. È molto più probabile che si limitino a non pubblicare quelle che sono in conflitto con le loro tesi. O ancora più probabile che abbiano analizzato i dati in modo tale da confermare un’idea che avevano già in mente. Della miriade di modi in cui si può giocare con le statistiche parleremo più avanti in questo stesso capitolo. Perché li tirano fuori proprio adesso? La scelta del momento non è quasi mai casuale, neanche da parte dei ricercatori accademici. Quella che può sembrare la data in cui, per puro caso, quegli studiosi così lontani dalle cose del mondo hanno portato a termine il lavoro nella loro torre d’avorio e hanno reso pubblico il frutto della loro saggezza, probabil-

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mente si rivelerà strettamente collegata alla necessità di chiedere il rinnovo di un finanziamento statale, di trovare un nuovo sponsor o di inserire una pubblicazione nel curriculum del dipartimento giusto in tempo per la prossima valutazione da parte del governo. Per quanto riguarda invece i dati commerciali e quelli dei gruppi di pressione, potete stare certi che dietro alla scelta del momento c’è sempre un motivo preciso. Per un’impresa può essere il lancio di un nuovo prodotto, la notizia che sta per uscirne uno della concorrenza, l’imminenza di una riunione con gli azionisti, e così via. Il motivo della scelta non è sempre evidente. Dovrebbe comunque sempre far parte del contesto della notizia. I dati sono il risultato di un telefono senza fili? Le organizzazioni propagandistiche, o altre fonti parziali, spesso presentano certe cifre come se fossero dati accertati. Così, per esempio, si è scoperto che la notizia secondo la quale negli Stati Uniti ogni anno 200mila persone sono oggetto di persecuzione da parte di maniaci era una distorsione dei risultati di un’inchiesta dalla quale era emerso che 200mila persone manifestavano le caratteristiche dei persecutori. Con lo stesso sistema, circa 150mila ragazze affette da anoressia sono diventate 150mila donne «che stanno morendo di questa malattia», tre volte il numero degli americani uccisi in Vietnam. Le cifre sono fuori contesto? A prima vista alcuni dati sembrano eccezionali solo perché sono presentati fuori contesto. Nel 1997, l’Associated Press annunciò che il 29 per cento degli ex dipendenti del Rocketdyne Santa Susana Field Laboratory era morto di cancro. C’era da preoccuparsi? Non proprio. Tra le persone che muoiono dai 44 ai 65 anni, la causa del decesso è il cancro nel 35 per cento dei casi, quindi il 6 per cento in più che tra gli ex dipendenti del laboratorio.

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I termini del confronto sono corretti? Un altro errore ricorrente è quello di mettere a confronto statistiche non paragonabili tra loro per giungere a una conclusione che fa notizia. Nel 2002, per esempio, qualcuno scrisse che c’erano più afroamericani nelle prigioni che nelle università. È un’informazione che colpisce, ma è anche fuorviante. L’età dei detenuti può andare dai 16 ai 96 anni, mentre quella degli studenti universitari va dai 18 ai 23. Tra gli americani di colore che appartengono a questa fascia di età, gli iscritti all’università sono tre volte più numerosi dei detenuti. Quindi la notizia non esiste. Come sono definiti i termini usati? Capita spesso che le organizzazioni propagandistiche adottino una definizione molto più ampia di un termine comune per far salire il numero di persone che si trovano in una certa condizione. Perciò, i questionari sulla violenza in famiglia a volte includono voci come «gridare» o «andarsene durante una discussione», due cose indubbiamente sgradevoli ma che non rientrano nella nostra idea di «violenza domestica». Lo Statistical Assessment Service (lo splendido sito web sull’uso scorretto delle statistiche da parte dei media dal quale sono tratti gli esempi citati) afferma che, nel 1996, un rapporto dell’US National Center for Health Statistics «fu citato da molti giornali perché sosteneva che quasi 100 milioni di americani sono afflitti da ‘malattie croniche o invalidanti’». E qual era la categoria più numerosa? Erano i 32 milioni di americani che soffrono di sinusite o febbre da fieno, due disturbi che non molti di noi definirebbero «malattie croniche o invalidanti». D’accordo, è raddoppiato, ma a partire da quale base? Quando appare in un titolo, la notizia che il numero di persone uccise dalle vespe è raddoppiato può attirare la nostra attenzione, ma se andiamo a leggere l’articolo e vediamo che le vittime delle

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vespe sono passate da quattro a otto all’anno (su una popolazione di 60 milioni di persone) scopriamo subito il trucco. Ed è un trucco che i media usano continuamente. I dati sono reali, ma sono stati manipolati in modo tale da produrre l’effetto shock. Come scrive l’ex caporedattore politico della Bbc Andrew Marr nel suo libro My Trade: «Il giornalista della Bbc Roger Harrabin ha osservato che quando il rischio di cancro indotto da un farmaco passa dallo 0,01 allo 0,02 per cento, sebbene si stia ancora parlando di due pazienti su 10mila, un titolo a effetto come Il rischio di cancro è raddoppiato sarebbe corretto». Ma rimarrebbe comunque una presa in giro. Sono tutte cifre tonde? Questo generalmente indica che l’approccio scientifico non è del tutto rigoroso. È buona norma presumere che se leggiamo che «il 50 per cento degli intervistati la pensa in un certo modo» o «il 60 per cento fa una certa cosa», fino a prova contraria qualcuno sta barando. I grafici sono corretti? I grafici hanno una dimensione verticale e una orizzontale, che possono essere ritoccate per ottenere l’effetto desiderato. Così è possibile far apparire più grande un piccolo aumento, o viceversa. Anche i diagrammi a barre e le rappresentazioni grafiche possono essere ingannevoli. Il trucco più vecchio è quello di rappresentare il reddito sotto forma di sacchetti di monete. Se un reddito è il doppio di un altro, viene mostrato un sacchetto che è alto il doppio di quello di base. Ma questo è fuorviante perché così l’area del sacchetto è il quadruplo e il suo volume è otto volte quello dell’originale.

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USI E ABUSI DELLE STATISTICHE Fino a questo punto basta avere un po’ di buon senso e di sana diffidenza giornalistica. Almeno per capire che cosa sta succedendo. Ma per parlare in modo corretto di una notizia che implica delle statistiche, vi servirà un po’ di matematica elementare, altrimenti vi farete prendere in giro. Ad esempio: un’impresa coinvolta in una disputa salariale vi dice che il salario medio dei suoi dipendenti è di 28.000 sterline. Voi lo riportate, e fate la figura dei cretini. Quella che vi hanno dato è la media aritmetica, che si calcola sommando gli stipendi di tutto il personale, compresi quelli dei quattro direttori che guadagnano più di 200.000 sterline l’anno, e dividendo il risultato per il numero dei dipendenti. La cifra corretta che avrebbero dovuto darvi, cioè la mediana, era 14.500 sterline. Ma se voi non sapete che esiste la mediana, qualunque cosa essa sia, come diavolo fate a evitare di essere presi per i fondelli? Ecco una breve guida agli usi e agli abusi delle statistiche più comuni. Medie statistiche Esistono tre tipi di medie statistiche: aritmetica, mediana e moda. Media aritmetica È il tipo più comune. Si ottiene sommando tutti i valori e dividendo la somma per il loro numero. Il suo punto debole è che nasconde tanto quanto rivela: la media aritmetica non ci dice nulla sulla scala dei valori utilizzati per il calcolo. Non permette di capire, come nel caso dei salari di cui abbiamo parlato, che alcuni valori più alti (o più bassi) possono distorcere completamente il risultato e portarci fuori strada. Purtroppo questo ambiguo tipo di media è il più usato. Dico «purtroppo» perché, quando volete scrivere del «padre medio» o dello «studente medio», non intendete certo riferirvi a una «media» fittizia, ma a un padre o a uno studente che si trovino nel mezzo. Il che ci porta a parlare della mediana.

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Mediana In una serie di valori, la mediana è il valore che si trova al centro della scala dei dati. Quindi per una serie di salari che vanno da 9000 a 23.000 sterline, ma la maggior parte dei quali si colloca all’estremità inferiore della gamma, il salario al centro sarebbe 14.500 sterline – cifra che riflette in modo molto più preciso quello che guadagna la maggior parte dei dipendenti piuttosto che una media aritmetica distorta dall’inserimento nel calcolo dei pochi stipendi più alti dei dirigenti. La confusione tra i due tipi più comuni di media probabilmente deriva dal fatto che molti pensano alle serie di valori come ai numeri da 1 a 20. In questo caso la media aritmetica è dieci, e dieci è anche la mediana, perché la distribuzione dei valori è omogenea e il loro incremento è costante. I dati del mondo reale raramente sono così. Moda Detto in parole povere, la moda è il valore più comune della serie. DISTRIBUZIONE Una cosa che spesso è rilevante quanto la mediana è la gamma coperta dai valori e, nella maggior parte dei casi, per cominciare a dare un senso ai dati, è questa che dovete conoscere. Supponiamo che la temperatura media di due regioni sia 18 gradi; questo potrebbe darvi l’impressione che abbiano un clima simile. Ma sbagliereste. Anche se hanno la stessa temperatura media, in uno la gamma delle temperature potrebbe andare da 16 a 20, nell’altro da 2 a 34, e quindi i loro climi sarebbero molto diversi. Questa gamma di valori viene chiamata distribuzione. I dati sociali hanno per lo più una distribuzione normale, con la maggior parte dei valori vicini alla media, e qualcuno che si situa agli estremi. Ad esempio, i dati statistici sul numero di ore in cui dormono, in media, le persone tra i 21 e i 40 anni saranno distribuiti normalmente. Sono poche le persone che solitamente dormono cinque o meno ore per notte, e non molte hanno bisogno di dormir-

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ne più di nove. La maggior parte dei valori sarà concentrata nella fascia tra le 7,5 e le 8 ore, e la curva precipiterà verso il basso ai due estremi. Se si rappresenta una distribuzione del genere sul piano cartesiano, quella che ne risulta è una curva a forma di campana, da cui deriva il temine statistico «curva a campana» per indicare una distribuzione normale. Viceversa, il reddito medio delle persone tra i 21 e i 40 anni può variare notevolmente: c’è chi vive con il sussidio di disoccupazione e chi è milionario. In questo caso la distribuzione sarebbe molto meno omogenea. PERCENTUALI Quando i giornalisti devono manipolare delle cifre per un articolo, è incredibile vedere con quale frequenza sbagliano a calcolare le percentuali. Quindi, a beneficio di tutti quelli che hanno marinato la scuola nei giorni in cui c’era matematica, ecco come si calcola il tasso di decremento: sottraete il vecchio valore dal nuovo, dividete il risultato per il vecchio e moltiplicate quello che ottenete per cento. È una cosa così semplice eppure genera tanta confusione. Succede spesso, ad esempio, di trovare in un articolo un tasso di decremento matematicamente impossibile superiore al 100 per cento. Niente può diminuire di più del 100 per cento, altrimenti sparisce. Se ne dubitate, provate con il metodo riportato nel capoverso precedente e cercate di ottenere un risultato superiore a 100: se una cosa è ridotta a un quarto di quello che era, non è diminuita del 400 per cento, ma del 75. Ecco qualche altra potenziale insidia delle percentuali. Base di riferimento È il vecchio valore, quello con il quale il nuovo viene confrontato. State sempre attenti ai valori di riferimento. Solo le fonti di informazione più patologicamente oneste sceglieranno un valore

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di riferimento che, confrontato con il nuovo, non dia un risultato che conferma la loro tesi. Chiedetevi sempre: perché hanno scelto questa base di riferimento? Non confondete le basi di riferimento Se qualcosa è diminuito del 40 per cento e poi è di nuovo aumentato del 20, molti giornalisti scriverebbero che ha recuperato metà della perdita. Ma non è così. Se la base di riferimento è 100 e c’è stata una perdita del 40 per cento, la base è scesa a 60, e il 20 per cento di 60 è 12, quindi il nuovo totale sarà 72, e non 80 come risulterebbe se fosse stata recuperata metà della perdita. Attenti quando non c’è base di riferimento Ai politici e ai pubblicitari piace tanto buttare lì informazioni che fanno un grande effetto a chi non si pone domande. «Stiamo investendo il 25 per cento in più nell’istruzione». Il 25 per cento in più rispetto a che cosa? Rispetto all’anno scorso? Rispetto al governo precedente? Rispetto alla difesa? Senza una base di riferimento, questo tipo di paragoni è inutile – e viene usato più per nascondere che per rivelare. Attenti alle fonti che annunciano percentuali calcolate da loro senza rendere noti i dati dai quali sono partite. Non potete sommare le percentuali Cioè, potete, ma a scapito della precisione. Ad esempio, se il costo della manodopera di un’industria è aumentato del 4 per cento, quello dell’assicurazione è aumentato del 20 e il costo della materia prima del 2 per cento, l’aumento complessivo dei costi non è 4+20+2=26 per cento. Basta riflettere un momento per capire che il costo dell’assicurazione equivale solo a una minima frazione di quello della manodopera e delle materie prime. Bisogna sommare tutte le cifre dei costi per arrivare a un nuovo totale e poi calcolare la percentuale di aumento rispetto al vecchio totale.

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Attenti alla differenza tra percentuale e punto percentuale La percentuale è una parte di un tutto che equivale convenzionalmente a 100, mentre un punto percentuale è la centesima parte del totale. Per capire meglio la differenza, pensate a un mercato. Vari prodotti avranno la loro quota di quel mercato, espressa in percentuale rispetto al mercato complessivo, fino a un totale di 100. Quindi se la quota di mercato del prodotto A scende dal 5 al 4 per cento, è calata di un punto percentuale ma è diminuita del 20 per cento (o di un quinto).

PRO CAPITE Quando si mettono a confronto due comunità, due città o due paesi, le variazioni percentuali in sé spesso ingannano più che informare. Per confrontare elementi come i cambiamenti sociali è necessario conoscere la popolazione di entrambi i luoghi per poter calcolare le percentuali rispetto al numero degli abitanti. Per parafrasare un esempio usato da Darrell Huff nel suo splendido librettino How To Lie With Statistics, immaginiamo che stiate scrivendo un articolo sulle violenze sessuali in due città. Chiamiamole Aville e Beeton. In entrambe si verificano 50 stupri l’anno. Questo può farcele sembrare simili, finché non chiediamo se di recente ci sono stati dei cambiamenti. E veniamo a sapere che cinque anni fa si verificavano 42 stupri l’anno ad Aville e 29 a Beeton. Quindi ad Aville sarebbero aumentati del 19 per cento e a Beeton del 72 per cento. Sulla base di questi dati, un giornalista frettoloso comincia a pensare di scrivere un articolo sul boom degli stupri a Beeton, chiedendosi che cosa stia succedendo in quella città e quali provvedimenti si stiano prendendo. Ma nelle grandi città tende a esserci più criminalità che nelle piccole. Quindi bisogna sapere qual è la percentuale rispetto alla popolazione. Calcolatelo dividendo il numero di crimini per la popolazione e

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poi, per evitare di lavorare con cifre minuscole che hanno diversi zeri dopo la virgola, moltiplicate il risultato per 100.000 e avrete la percentuale su 100.000 abitanti. Adesso la cosa assume un aspetto diverso. Cinque anni fa Aville aveva una popolazione di 550.000 abitanti e un tasso di stupri del 7,64 su 100.000 abitanti. Beeton aveva una popolazione di 450.000 persone e un tasso di stupri del 6,44 su 100.000. Adesso Aville ha 600.000 abitanti con un tasso di stupri dell’8,33 su 100.000, mentre Beeton, che ha avuto una grossa espansione, ha una popolazione di 800.000 abitanti e un tasso di stupri del 6,25. Quindi, in realtà, il tasso di Beeton è diminuito quasi del tre per cento, mentre quello di Aville è aumentato del nove per cento. Saputo questo avrete gli elementi per scrivere un articolo più informativo, equilibrato e meno isterico. Per fare qualsiasi tipo di confronto, è necessario conoscere il tasso per unità, che si tratti di persone, famiglie o chilometri percorsi. Ad esempio, la sicurezza stradale può essere valutata solo rapportando gli incidenti o le morti al numero di chilometri per passeggero. Il maggior numero di persone morte a causa di incidenti aerei nel 1998 rispetto al 1952 può far pensare che oggi volare sia diventato più pericoloso. Ma basta rapportarlo ai chilometri percorsi e si può immediatamente correggere l’errore. Ricordate sempre di confrontare tra loro cose simili. Se il tasso di mortalità dell’esercito inglese è più basso di quello del sonnacchioso villaggio di Lower Piddlington, la cosa non sorprende nessuno: il primo è composto di uomini giovani e sani, nel secondo vivono soprattutto persone anziane e povere. INCHIESTE E SONDAGGI Tra tutte le forme che può assumere un articolo, le inchieste sono sempre la più sospetta. Qualsiasi addetto stampa da quattro soldi ha ormai capito da tempo che questo è il sistema più facile per attirare l’attenzione sulla propria causa, sul proprio prodotto,

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sulla propria politica o sulla propria organizzazione. Si fanno venire in mente un problema controverso o che potrebbe fare notizia, interrogano la gente sull’argomento e poi costruiscono un comunicato stampa ad hoc per annunciare che la razza di cani X è la più amata del paese, che la politica Y è la più popolare o che lo Z per cento della popolazione fa questo o quello. E ogni giorno i quotidiani abboccano e pubblicano queste sciocchezze che non hanno nulla di scientifico. Le peggiori di tutte sono le inchieste sulle tendenze della società, che annunciano la scoperta di qualche nuova sottospecie sociale sulla base di poche risposte affrettate a poche domande tutt’altro che scientifiche. La maggior parte delle inchieste che cercano di sedurre i giornalisti non vengono dalle università, ma dalle industrie e dai gruppi di pressione. Né le une né gli altri sono particolarmente famosi per aver mai prodotto ricerche imparziali. Perciò quando vi trovate di fronte ai risultati, la prima cosa che dovete chiedervi è: chi mi sta dando queste notizie e perché? E i trabocchetti delle inchieste non finiscono qui. Quali erano le dimensioni del campione? Innumerevoli volte, notizie alle quali era stato dato un grande risalto sono crollate miseramente appena qualcuno ha chiesto: quali erano le dimensioni del campione? Anche i giornali nazionali più esperti a volte hanno scritto articoli corposi sulla base di inchieste che poi si è scoperto essere state condotte su un campione di poche decine di persone. Questi campioni, a meno che costituiscano una porzione ragguardevole del totale che si deve misurare (20 su 40, ad esempio), hanno poche probabilità di essere rappresentativi. Le conclusioni che se ne traggono possono anche essere appariscenti (come è comprensibile considerato che probabilmente sono approssimative), ma questo non è un buon motivo per pubblicarle. La responsabilità di un giornalista va oltre la semplice ricerca di uno spunto per scrivere un articolo. Deve an-

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che valutare razionalmente il materiale. E questo a volte significa decidere che è meglio lasciar perdere. Quali dovrebbero essere le dimensioni del campione? Ovviamente, più il campione è ampio, più è probabile che sia rappresentativo. Ma se è stato scelto in modo intelligente, non è necessario che sia enorme. Inchieste basate su un campione di 1600 persone, se condotte nel modo giusto, possono darci una buona indicazione sui diversi orientamenti di 50 milioni di persone. Ma non fanno altro, ci danno solo un’indicazione. La validità di questa indicazione dipende dal margine di errore. Che cos’è il margine di errore? È la percentuale di errore probabile. Supponiamo che per un sondaggio il margine di errore sia del 2,5 per cento. Se scopre che il 45 per cento della popolazione è favorevole al partito di governo, questo significa che i favorevoli vanno dal 42,5 al 47,5 per cento. Il margine di errore si calcola in base al numero di persone da cui è costituito il campione (senza alcun riferimento alle dimensioni complessive della popolazione campionata). Sono le dimensioni del campione a determinare il margine di errore, indipendentemente da quale percentuale del totale rappresenta. Un campione di 1600 persone ha un margine di errore del 2,5 per cento, mentre uno di 400 ha un margine di errore del 5 per cento. Un campione di 100 persone, che non è tanto inconsueto nei sondaggi realizzati per farsi un po’ di pubblicità, ha un margine di errore del 10 per cento. Questo significa che, se alla fine risulta un 50 per cento di persone a favore di X, in effetti potrebbe trattarsi del 40 per cento, del 60 o di qualsiasi altra percentuale intermedia – non esattamente un lavoro di precisione.

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Come è stato selezionato il campione? C’è una bella differenza tra la credibilità di un sondaggio condotto su un campione scelto a caso e uno formato da volontari. Ai sondaggi liberi di solito partecipano persone che hanno un motivo per farlo: si tratta di attivisti che hanno un’opinione decisa sull’argomento (e quindi non sono affatto rappresentativi), o di persone che sono state incentivate a rispondere («Riempia questo semplice questionario e potrà partecipare all’estrazione di un premio»). Chi fa parte del campione? Un buon campione scelto a caso garantisce che chiunque abbia le stesse probabilità di farne parte. Questa non è una cosa facile da ottenere neanche per gli esperti di statistica. Dopotutto, dove bisognerebbe andare a cercare un campione «rappresentativo»? Per le strade? Così si perdono tutti quelli che sono al lavoro, stanno tornando a casa o sono in macchina. Di casa in casa? Così si perdono tutti quelli che sono al lavoro, a fare spese, in visita, nei circoli, a cena fuori. E bisogna cercarlo di giorno o di notte? È per questo che i sondaggi seri vengono condotti su un campione casuale stratificato, dividendo la popolazione in gruppi e campionandoli in base alle loro proporzioni rispetto al totale. Ma anche in questo caso, la precisione dipende da chi poi va a cercare, diciamo, la percentuale di donne tra i 25 e i 40 anni con un certo reddito. La verità è che qualsiasi metodo è condizionato da pregiudizi più o meno consapevoli. Chi non fa parte del campione? Sapere questo spesso è altrettanto importante quanto sapere chi lo compone. Darrell Huff cita il caso di una grossa inchiesta condotta molti anni fa sul salario medio delle persone che si erano laureate a Yale nel 1924. Dopo aver individuato le persone da contattare consultando gli annuari delle grandi industrie e altre

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fonti del genere, il risultato fu 25.111 dollari. In altre parole, erano tutti alti funzionari e dirigenti d’azienda. I laureati di Yale di quell’anno che non avevano fatto carriera sarebbero stati difficili da rintracciare e, anche se li avessero trovati, probabilmente si sarebbero rifiutati di rispondere. Se un sondaggio viene realizzato spedendo i questionari, chiedete sempre quante persone non hanno risposto. E perché. I risultati tengono conto dell’intero campione o solo di quelli che hanno risposto? Un comunicato stampa afferma che in un sondaggio su cosa pensano le aziende dei tassi di interesse, l’80 per cento delle imprese ha risposto che i tassi di interesse alti costituiscono un problema. Ah, sì? Provate a chiedere quanti moduli sono stati spediti. Risposta: 2000. E quante aziende hanno compilato il questionario? Risposta: 160, l’80 per cento delle quali pensa che i tassi di interesse costituiscano un problema. Se fossero stati onesti avrebbero detto che: «Da un sondaggio su cosa pensano le aziende dei tassi di credito, è emerso che l’80 per cento di quelle che hanno risposto lo consideravano un problema, ma il 92 per cento delle imprese non ha risposto al questionario». Gli intervistati dovevano parlare di sé? Se è così, state all’erta, soprattutto se l’inchiesta richiede che le persone parlino dei propri comportamenti piuttosto che delle proprie convinzioni. C’è qualche risposta che potrebbe essere stigmatizzata? In un’inchiesta sull’igiene personale o sull’onestà, ad esempio, è improbabile che qualcuno racconti a un estraneo le piccole cose sgradevoli o illegali che fa. L’esempio più eclatante è quello delle inchieste sulla sessualità. Sono destinate fin dall’inizio a raccogliere un numero sproporzionato di risposte da parte di esibizionisti e millantatori, mentre i più pudichi, riservati e meno avventurosi è improbabile che vi partecipino.

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Le domande sono corrette? Se un’inchiesta sembra seria, ma produce risultati sorprendenti, chiedete di vedere le domande. Quelle palesemente tendenziose («La preferenza per il rosso di solito è collegata a un basso livello di reddito. Qual è il suo colore preferito?») sono rare. Più comunemente accade che una serie di domande spinga gradualmente gli intervistati in una certa direzione senza che se ne accorgano. Per esempio, in un loro articolo per l’Utne (Understanding the Next Evolution) Reader Online, Laurie Ouellette e Harry Goldstein hanno scritto: Quando l’istituto di sondaggi Yankelovich ha posto agli intervistati la domanda: «Dovrebbe esserci una legge che elimina ogni possibilità che gruppi di pressione facciano grosse donazioni ai candidati alle elezioni?», l’80 per cento del campione ha risposto di sì e il 17 per cento ha detto di no. Ma quando la stessa organizzazione ha riformulato la domanda chiedendo: «Dovrebbe esserci una legge che vieta ai gruppi di pressione di contribuire alle campagne elettorali o questi gruppi dovrebbero poter sostenere il loro candidato?» il 40 per cento ha risposto sì e il 55 per cento no.

Le persone intervistate hanno le conoscenze necessarie per esprimere un’opinione? Potrebbe sembrare una domanda snob, e per qualsiasi sondaggio d’opinione generale sarebbe addirittura offensiva. Ma ci sono anche sondaggi che richiedono una certa conoscenza dell’argomento. Pensate, per esempio, all’esperimento scientifico realizzato nel 1996 da Nathan Zohner della scuola superiore di Eagle Rock, nell’Idaho. Dopo aver illustrato i pericoli scientificamente dimostrati del monossido d’idrogeno (può provocare vomito e sudorazione eccessiva; è uno dei principali componenti delle piogge acide; sotto forma di gas provoca gravi ustioni; se inalato può essere fatale; ne è stata riscontrata la presenza in alcuni tumori cancerosi), ha chiesto a 50 studenti presenti alla Fiera della scienza di Greater

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Idaho Falls se erano favorevoli alla messa al bando del monossido d’idrogeno. L’86 per cento ha risposto sì, il 12 per cento ha detto che non ne era sicuro e solo uno ha detto di no. Era l’unico a sapere che il monossido d’idrogeno è semplicemente... l’acqua. Quanto sono precise le risposte degli intervistati? Le persone, soprattutto se l’inchiesta riguarda gli atteggiamenti e i comportamenti, tendono a dare risposte che secondo loro le metteranno in una luce migliore. Ne è un esempio il famoso sondaggio condotto per «News of the World» in cui si chiedeva ai lettori quali articoli preferivano. La maggior parte degli intervistati rispose che preferiva gli articoli di fondo e quelli di argomento religioso; pochi confessarono che si appassionavano alle cronache dei crimini sessuali. Queste ultime furono eliminate e le vendite calarono vertiginosamente. SONDAGGI DI OPINIONE Quando conducono sondaggi di opinione, le agenzie rispettabili raramente commettono gli errori madornali che abbiamo citato. Vi basterà riportare i loro risultati (senza dimenticare di accennare al margine di errore) illustrando un po’ il contesto, e non rischierete di ingannare troppo i lettori. Dopotutto, sta a loro decidere se credono o meno ai sondaggi di opinione. L’unico rischio si corre con le interpretazioni. A questo proposito dovreste cercare di tenere a mente una serie di cose: La tendenza di diversi sondaggi è più importante dei risultati di uno solo Un unico sondaggio potrebbe essere manipolato e non bisognerebbe dargli troppo credito. Ma se i sondaggi vanno quasi tutti nella stessa direzione, è molto probabile che la tendenza indicata sia quella giusta.

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Attenti al campione Soprattutto quando si avvicinano le elezioni, i media spesso commissionano sondaggi in tempi brevi. In questi casi il campione è ridotto e i risultati sono meno affidabili. Se fate un confronto tra sondaggi, attenzione al margine di errore Un errore che si commette spesso parlando di sondaggi è quello di confrontarne due e vedere differenze significative dove non ci sono. Se da un primo sondaggio emerge che il 45 per cento degli intervistati è favorevole al governo e il 42 per cento all’opposizione, e un secondo li dà entrambi al 44 per cento, significa che il governo ha perduto consensi? Tutto dipende dal margine di errore. Se per il primo sondaggio era del 3 per cento, significa che le persone favorevoli al governo andavano dal 42 al 48 per cento, e quelle schierate con l’opposizione dal 39 al 45. Se anche il secondo sondaggio aveva un margine del 3 per cento, allora i consensi andavano dal 41 al 47 per cento sia per il governo sia per l’opposizione. Il secondo sondaggio rientra perfettamente nel margine di errore del primo e quindi, dal punto di vista statistico, non è successo niente. Per trarre delle conclusioni, avreste bisogno di vedere i risultati di altri sondaggi con un margine di errore diverso. CORRELAZIONI Una delle parole più pericolose nel giornalismo è «collegamento». Molti articoli fuorvianti nascono perché qualcuno dichiara, per i propri scopi, che esiste un collegamento tra due eventi, e i giornalisti non fanno abbastanza domande. Quello che ne consegue è una tremenda confusione tra correlazione statistica e rapporto causale. Una correlazione potrebbe essere, e spesso è, una coincidenza. Un vero collegamento esiste quando una cosa determina, o contribuisce a determinare, l’altra.

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L’associazione tra due fattori non dimostra l’esistenza di un rapporto tra loro. Potrebbe esserci, ad esempio, una stretta correlazione tra la capacità di acquisto dei preti cattolici e la vendita dei preservativi, ma non c’è un collegamento. In campo economico, ogni genere di collegamenti più plausibili di questo (ma altrettanto falsi) viene spacciato ai giornalisti come notizia, quando la spiegazione più probabile è semplicemente che, in un periodo di crescita, tutte le percentuali salgono e per molte di esse, anche se non sono collegate tra loro, l’aumento sarà esattamente lo stesso. Il caso quindi è la spiegazione migliore, e questo vale per moltissime correlazioni. Statistiche sulla salute Le statistiche in cui i «collegamenti» vengono fatti più liberamente sono quelle che riguardano la salute. Possono dirvi, ad esempio, che c’è una chiara correlazione tra un moderato consumo di vino e un minor rischio di cancro. Prima di scriverlo nel vostro articolo fermatevi un momento a pensare. Può anche darsi che le persone che bevono vino con moderazione facciano qualche altra cosa che abbassa il rischio di cancro, che siano più ricche, più in salute, facciano più controlli, fumino di meno, abbiano più modo di scaricare lo stress, e così via. Questo è il classico caso in cui una piccola ricerca intelligente ed equilibrata può inserire il collegamento in un contesto. Poi ci sono le statistiche che confrontano i tassi di incidenza delle malattie nei vari paesi. I risultati a volte sono sorprendenti. Nei paesi sviluppati, ad esempio, di solito il tasso di incidenza dei tumori è molto superiore a quello dei paesi meno ricchi. Significa forse che i paesi più poveri hanno un sistema segreto legato alla dieta o a qualche altro fattore per combattere il cancro? È possibile; ma, d’altro canto, la spiegazione potrebbe anche essere che, poiché il cancro colpisce di solito in età avanzata, le popolazioni dei paesi più ricchi vivono abbastanza da avere più tumori.

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Quando dovete riportare notizie relative alla salute o alla sicurezza, ricordate che le statistiche sulla mortalità sono sempre più affidabili dei dati sugli infortuni. Esiste l’obbligo legale di registrare le cause di morte, quindi è meno probabile che ci siano errori. Non si incorre neanche nel rischio dell’autodiagnosi che, in caso di infortunio, può essere distorta perché c’è un incentivo economico a esagerare, magari per ottenere un risarcimento dall’assicurazione. Ricerche a grappolo Un altro caso in cui un «collegamento» superficialmente convincente può indurre in errore gli sprovveduti è quello degli studi sull’incidenza di malattie nei dintorni di centrali elettriche, depositi di rifiuti tossici, aziende agricole che fanno uso di pesticidi, e così via. Questi studi vengono di solito condotti nell’ambito di una campagna politica o dagli avvocati delle vittime e spesso sono molto utili per elevare il livello di allerta sui rischi ambientali. Ma da essi spesso emergono dei falsi «collegamenti» perché i ricercatori, ansiosi di dimostrare la loro tesi, cominciano a selezionare i dati, scegliendo quello che fa loro comodo e allargando e restringendo l’ambito di indagine per ottenere i risultati che desiderano. Controllate sempre l’ambito di questi studi, perché spesso non ha senso. Altrettanto ingannevoli possono essere i contro-studi condotti dalle autorità per negare l’esistenza di un problema.

PROIEZIONI Le fonti spesso esagerano le proiezioni. Il metodo più comune è quello di prendere il tasso di crescita più alto e applicarlo ben oltre il momento in cui i primi aumenti (necessariamente alti in termini di percentuali) hanno cominciato a scendere. Quello che segue è un altro esempio di malafede.

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«Stiamo perdendo 7 milioni di sterline al mese» Le aziende fanno spesso questo tipo di dichiarazioni durante gli scioperi. Chiedete come sono arrivate a calcolare questa cifra. Nella maggior parte dei casi si ottiene prendendo il giorno più produttivo dell’anno, moltiplicandolo per 365 e poi aggiungendo le altre presunte perdite: l’aumento dei premi assicurativi, le perdite dovute all’abbandono della clientela, e così via. Voi provate a chiedere quale è stato il fatturato dell’anno precedente e perché sommando le presunte perdite mensili dell’azienda si ottiene un fatturato che è molto superiore a quello effettivamente realizzato l’anno prima. AUMENTI APPARENTI E AUMENTI REALI Anche qui può esserci l’inganno, perché un aumento denunciato non sempre è un aumento reale. Può darsi che sia frutto di una presa di coscienza, dell’introduzione di un obbligo o di un nuovo incentivo a denunciare. Tutti questi fattori sono importanti per chiarire il contesto e lo sono soprattutto quando un certo comportamento, soprattutto un comportamento criminale, diventa la moda del momento. Una delle prime cose che succedono in questi casi è che al fenomeno viene attribuito un nuovo nome orecchiabile. L’espressione road rage (letteralmente, furia sulla strada, già esaminata nel capitolo 3) è un esempio di queste formule. Improvvisamente, i casi si moltiplicano. Ma quando viene sottoposto alla prova delle statistiche, il «nuovo fenomeno dilagante» raramente si rivela così «nuovo» o così «dilagante» come vorrebbero far credere i giornali. La definizione dell’argomento dell’inchiesta è cambiata? Un enorme sviluppo delle scuole materne, ad esempio, può risultare dal fatto che anche quelli che prima venivano chiamati «ni-

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di» adesso sono diventati «asili infantili». Concludere da questo che ci sia stata un’esplosione delle scuole per i bambini sotto i cinque anni sarebbe un errore. La realtà è molto più interessante delle esagerazioni e dei miti Prima di tutto, perché è vera. In secondo luogo, perché spesso ci sorprende. In paesi dove l’inverno può essere molto rigido, una delle notizie rituali è quella dell’ondata di incidenti stradali causata da una nevicata improvvisa. Ma se parlate con le persone che raccolgono questi dati, scoprirete che si verificano molti più incidenti nelle giornate limpide e assolate – probabilmente il doppio di quelli che accadono quando nevica. Quando il tempo è bello, sulle strade circolano molte più persone, mentre nelle giornate brutte si sposta solo chi è costretto a farlo (comprese molte persone che guidano per lavoro). Quindi si verificano meno incidenti. Certo, scrivere «La nevicata ha salvato molte vite» non sarebbe sensazionale quanto «La tempesta di neve ha fatto 13 vittime», ma sarebbe sicuramente più esatto e originale. Le statistiche possono anche essere un antidoto contro le notizie allarmistiche che cominciano a girare senza essere quasi mai messe alla prova della realtà. Una delle più comuni è la voce che circola ogni anno nel periodo di Halloween del terribile pericolo che corrono i bambini, andando a bussare alle case per dire «dolcetto o scherzetto», di ricevere un dolce o un frutto avvelenato. In effetti, da una ricerca condotta in California è risultato che dal 1958 a oggi soltanto tre bambini sono morti in circostanze simili. Uno ha mangiato l’eroina di suo zio, un altro ha avuto un attacco di cuore e il terzo è stato deliberatamente avvelenato da suo padre. Ancora una volta, la realtà si è dimostrata meno spaventosa, e senza dubbio più interessante, delle voci che circolano. Infine, non dimenticate che: – fare un uso eccessivo delle statistiche può uccidere anche la più interessante delle notizie. Utilizzate solo quelle indispensabi-

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li e mettete le altre nelle schede, nella grafica, nei riquadri o nelle tavole; – ci sono molte buone pagine di calcolo statistico online. Una delle migliori è http://members.aol.com/johnp71/javastat.html; – prima di pubblicarli sarebbe una buona idea far controllare i vostri dati, soprattutto quelli più complessi, da un esperto di statistica dell’università più vicina. Le migliaia di storie che la gente comune racconta, e alle quali crede, svaniscono nel nulla appena qualcuno le riduce in cifre. Samuel Johnson

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Il giornalismo investigativo

L’immagine del giornalista come una sorta di Don Chisciotte con le dita macchiate di nicotina, che trangugia whisky mentre inchioda i simboli del potere con una denuncia strappata dalla macchina da scrivere proprio al limite della scadenza, permane nell’immaginario collettivo nonostante le numerose prove che non esiste. Paul Grey

I seguaci di una certa scuola di pensiero giornalistico arricciano il naso e sogghignano beffardi appena sentono parlare di «giornalismo investigativo». A loro avviso, poiché un giornalista deve sempre indagare, questa espressione sarebbe priva di senso. Non è esattamente così. Alcuni tipi di articoli richiedono un’indagine solo nel senso più elementare della parola. Sono l’equivalente giornalistico di un organismo unicellulare e assomigliano all’argomento di questo capitolo quanto un’ameba assomiglia a un essere umano. CHE COS’È IL GIORNALISMO INVESTIGATIVO? Il giornalismo investigativo è fondamentalmente diverso dagli altri generi e ha quattro caratteristiche che lo contraddistinguono.

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Comporta una ricerca originale Per fare del giornalismo investigativo o d’indagine non basta riassumere o mettere insieme le informazioni e i dati raccolti da altri, ma è necessaria una ricerca originale, spesso condotta a partire dai materiali più grezzi. Può richiedere un’ampia serie di interviste, o un confronto tra fatti e cifre, per arrivare a scoprire schemi e connessioni che fino a quel momento nessuno aveva intuito. L’argomento è di solito un illecito o una negligenza dei quali nessuno ha ancora pubblicato le prove A volte abbiamo il sospetto che sia stato commesso un illecito o una negligenza ma né noi né altri ne abbiamo le prove. Perciò è necessario andare a cercarle, e questo lavoro richiede molto più tempo e molta più fatica di un servizio normale. Spesso implica anche la collaborazione tra più giornalisti. Qualcuno sta cercando di non far trapelare le informazioni Questo è vero per molti tipi di cronaca, ma nel lavoro quotidiano spesso arriviamo a un punto in cui dobbiamo fermarci e scrivere quello che abbiamo o non abbiamo scoperto. Il giornalismo d’indagine comincia dove finisce il lavoro quotidiano. Non accetta più la segretezza e la reticenza delle autorità a dare informazioni, e va a cercarsele da solo. La posta in gioco è alta Il prestigio e la fama che conquisterete se tutto andrà bene possono essere notevoli, ma lo sarà anche il fango che vi tireranno addosso se qualcosa andrà storto. Pensate all’esperienza del «Cincinnati Enquirer». Nel maggio del 1998 pubblicò un articolo di prima pagina e un inserto di 18 pagine dedicati all’inchiesta, durata un anno, sulla Chiquita, la famosa ditta internazionale importatrice di banane. Il titolo era Vi sveliamo i segreti della Chi-

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quita, e il giornale affermò che la società controllava in segreto decine di ditte produttrici apparentemente indipendenti, che lei e le sue sussidiarie facevano uso di pesticidi che mettevano in pericolo la salute dei lavoratori e degli abitanti delle zone intorno alle piantagioni, che in Colombia i suoi dipendenti si erano lasciati corrompere e le sue navi avevano contrabbandato cocaina in Europa. Tutto questo, tuttavia, non era esattamente come appariva. Nel numero del 28 giugno il giornale pubblicò in prima pagina un articolo su sei colonne in cui si scusava con la compagnia e sconfessava completamente l’inchiesta. Licenziò il giornalista che aveva coordinato le indagini e acconsentì di pagare alla Chiquita un risarcimento di ben dieci milioni di dollari. La questione non riguardava tanto la veridicità (o meno) delle prove, quanto i metodi usati per raccoglierle. Qualcuno aveva intercettato dei messaggi elettronici in voce interni alla società e il problema era stabilire come avesse fatto. La compagnia sosteneva che il giornalista aveva posto delle domande e poi si era inserito nelle caselle di posta elettronica dei dirigenti per spiare le discussioni interne sui problemi che aveva sollevato. Scusandosi e accettando l’accordo di risarcimento, il giornale sembrò riconoscere la veridicità delle accuse. Pubblicò una dichiarazione in cui affermava che il giornalista aveva mentito sul modo in cui era venuto a conoscenza dei messaggi. Non si seppe mai, tuttavia, se ci fosse qualcosa di vero nel servizio pubblicato. A causa della perdita di credibilità, più quella dei dieci milioni, questa fu un’indagine molto costosa. Fortunatamente, per ogni esempio come questo ce ne sono molti altri più gratificanti, che vanno dalla denuncia di Nellie Bly delle terribili condizioni in cui vivevano i pazienti dei manicomi pubblicata dal «New York World» a quella di W.T. Stead sulla «Pall Mall Gazette» della prostituzione infantile; dallo smascheramento del violento razzismo del Ku Klux Klan da parte di Roland Thomas sul «New York World» alla scoperta di Seymour Hersh del massacro di My Lai

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nel 1968; dalla campagna del «Sunday Times» per le vittime del talidomide all’indagine sul caso Watergate di Carl Bernstein e Bob Woodward per il «Washington Post». A queste si possono aggiungere molte altre inchieste a livello locale, che denunciando una serie di negligenze hanno migliorato la vita di tante persone. Un esempio classico è quello dell’indagine condotta nel 1987 dall’«Alabama Journal» sul tasso di mortalità infantile dello Stato, che con 13 morti su mille era al primo posto tra gli Stati dell’Unione. Il giornale pubblicò una serie in venti puntate che convinse l’agenzia Medicaid locale a quadruplicare i finanziamenti dei programmi prenatali e a occuparsi di più della salute delle madri bisognose. Nel 1994, il tasso di mortalità infantile dell’Alabama era diminuito del 20 per cento. Alla fine del ventesimo secolo, già quasi mille bambini dovevano la loro vita a quella serie. È difficile immaginare un giornalismo più incisivo di questo. Infine, la posta in gioco può essere anche la vostra sicurezza personale. Nei paesi ad alto tasso di criminalità organizzata, il giornalismo investigativo può diventare una professione fatale. In Russia, il cronista del «Moskovskij Komsolets» Dimitrij Cholodov stava indagando sulla corruzione dell’esercito. In un giorno d’autunno del 1994, un informatore anonimo gli telefonò dicendo che era stata lasciata per lui una borsa di documenti alla stazione Kazan. Cholodov andò a prenderla e la portò in ufficio. Quando provò ad aprirla, la borsa esplose e lo uccise. E nell’estate del 1992, il giornalista Adolfo Isuiza Urquia stava indagando sul traffico di droga per il quotidiano peruviano «La Republica». In agosto aveva fatto il nome di un grosso trafficante che era sotto la protezione delle forze armate: «L’esercito non vuole combattere il terrorismo perché sfrutta il traffico di droga», aveva scritto. Qualche giorno dopo, il 27 agosto, il suo corpo fu trovato nel fiume Huallaga. Era stato torturato e ucciso a coltellate. Chiunque abbia intenzione di andare a scavare in questi campi dovrebbe soppesare attentamente i possibili rischi. Un giornalista morto non può più scrivere nulla.

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SETTORI PROMETTENTI IN CUI INDAGARE Nel giornalismo d’indagine tutto comincia quando si fiuta una notizia o si ha il sospetto che qualche settore possa essere particolarmente proficuo da questo punto di vista. In un caso del genere la cosa principale da fare è riflettere bene su quale potrebbe essere «l’esito più interessante» e considerare se per ottenere quel risultato valga la pena di impiegare la fatica e il tempo necessari. Se non è una notizia da prima pagina, lasciate perdere. Le unità investigative specializzate, in particolare, a volte si fissano su una storia il cui ambito è troppo ristretto per interessare la generalità dei lettori. Sottoponete l’indagine che volete fare alla prova del titolo: se il risultato che prevedete di ottenere non produce un titolo eclatante, probabilmente sarà una perdita di tempo. In teoria, si può condurre una buona indagine in quasi tutti i campi della vita pubblica. Due categorie generali, tuttavia, risultano particolarmente fruttuose: le imprese e le organizzazioni che lavorano in luoghi remoti o comunque lontano dagli occhi del pubblico; le persone e le istituzioni che balzano improvvisamente alla ribalta, come «venute fuori dal nulla» e intorno alle quali si è sviluppata rapidamente una leggenda. Sono persone e istituzioni che sembrano non avere niente dietro, ma c’è sempre qualcosa, ed è proprio lì dietro che spesso si nasconde una buona pista. Le società e gli istituti finanziari, specialmente quelli che promettono guadagni facili, sono un terreno molto fertile in cui andare a scavare. Affondate la vanga in uno dei loro stravaganti e tanto pubblicizzati programmi di investimento e potete scommetterci lo stipendio che lì sotto troverete qualcosa di poco pulito. I fondi piramidali rumeni dei primi anni Novanta sono un buon esempio di opportunità mancata. Un altro esempio classico, e non mancato, di questo tipo di inchiesta giornalistica fu la storia di Charles Ponzi o, come amava farsi chiamare, «il grande Ponzi».

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Molte persone gli credettero: più di 40mila americani gettarono i loro risparmi nel suo piano, attirati dalla promessa di incassare, entro 90 giorni, due dollari e mezzo per ogni dollaro investito. Nonostante gli avvertimenti degli esperti finanziari, secondo i quali i suoi conti non tornavano, ci fu un momento nel 1920 in cui Ponzi rastrellava 200mila dollari al giorno. Nel giro di 18 mesi, ne aveva raccolti più di 15 milioni. Lo schema giocava sulle variazioni dei tassi di cambio. La società doveva raccogliere gli investimenti e spedirli oltreoceano, dove i suoi agenti avrebbero acquistato buoni dell’Unione postale internazionale a prezzi ridotti e poi li avrebbero venduti in altri paesi stranieri a un prezzo più alto. Questo almeno diceva Ponzi, e milioni di persone si gettarono a capofitto nell’impresa di far fruttare i loro soldi più di quanto fosse possibile. La realtà, naturalmente, era che lui pagava i nuovi clienti con i soldi dei vecchi. In tutto il tempo della sua esistenza, la società investì in valuta estera solo 30 dollari dei 15 milioni raccolti. Ma le persone che affollavano i marciapiedi davanti al suo ufficio, e facevano la fila per poter investire tutto quello che avevano, non lo sapevano. Per usare le parole di uno di quegli illusi, sembrava che «avesse scoperto il denaro per la prima volta». Ma naturalmente non era così. Aveva solo capito che se offri a qualcuno la possibilità di guadagnare molto, e denunci per diffamazione chiunque ti osteggi, puoi rimandare per molto tempo il momento della resa dei conti. Ma non all’infinito, perché nel frattempo si stavano scoprendo altre cose. I giornalisti del «Boston Post» stavano scavando nel suo passato. Così saltò fuori che «il grande Ponzi» era meglio noto alle autorità canadesi come il detenuto 5247, il suo numero di matricola quando era stato in prigione per truffa. Aveva anche scontato una pena ad Atlanta per aver aiutato dei clandestini a entrare nel paese. Il «Post» pubblicò la notizia. La società di Ponzi collassò, come era prevedibile, e lui finì in prigione per quattro anni.

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COMPETENZE NECESSARIE Chiunque sia determinato ad andare fino in fondo e sia disposto ad affrontare le inevitabili frustrazioni che ne conseguono, può dedicarsi al giornalismo investigativo. Non richiede competenze superiori a quelle necessarie per il giornalismo in generale, ma ci sono alcune cose che possono rendere il vostro lavoro più facile ed efficace. La conoscenza delle leggi sul pubblico accesso alle informazioni Qual è la legislazione in materia nel vostro paese? Sapete quali documenti e atti pubblici avete il diritto di vedere? Questo è fondamentale. Alcune inchieste sono nate dal fatto che qualcuno aveva passato ai giornalisti dei documenti segreti, ma in molti altri casi loro stessi hanno scoperto che certi atti o registri esistono e possono essere consultati. La maggior parte delle burocrazie si guarda bene dal pubblicizzare l’esistenza di certi documenti ed erige ogni genere di ostacoli per evitare che qualcuno li consulti, rendendoli disponibili solo in certi periodi, o conservandoli in luoghi poco accessibili. Una giornalista che un tempo lavorava con me a Londra scoprì nelle note a pie’ di pagina di un rapporto ufficiale l’esistenza di un certo registro. Elencava tutte le proprietà private aperte al pubblico dai loro ricchi proprietari in cambio di una riduzione delle tasse. Né le autorità né i proprietari erano molto ansiosi di pubblicizzare l’esistenza di questo registro, le prime perché avevano accordato la riduzione e i secondi perché non volevano che la gente andasse in giro per i loro possedimenti. Quando venne a sapere della sua esistenza e stabilì che avevamo il diritto di esaminarlo, la mia collega affrontò il lungo iter richiesto e lo consultò. A quel punto fu in grado non solo di comunicare al pubblico a quali proprietà poteva accedere, ma anche di indagare sugli accordi tra proprietari e governo. Se prima

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non avesse scoperto l’esistenza del registro e non avesse insistito per vederlo, non avrebbe potuto fare nulla di tutto ciò. Questo succedeva in Gran Bretagna, un paese che ha una lunga tradizione di riservatezza per quanto riguarda i documenti ufficiali. E peraltro non è il solo. In altri paesi invece le nuove leggi sull’informazione permettono ai cittadini di accedere a una gran quantità di atti pubblici. Sono pochissime le persone che lo sanno e ancora meno quelle che li consulteranno. Ma questo è un motivo in più perché i giornalisti si assumano il compito di scoprire quello che esiste e quello che è accessibile. Negli Stati Uniti il Freedom of Information Act del 1966, ampliato nel 1971, ha messo a disposizione dei giornalisti ogni genere di documenti. Sfruttandoli per le sue indagini, la stampa ha sollevato una serie di scandali denunciando: – incidenti di cui nessuno aveva mai saputo nulla, avvenuti in alcune centrali nucleari; – l’uso di macchinari per le radiografie che emettevano da 25 a 30 volte la quantità di radiazioni necessaria da parte di alcuni centri per la prevenzione dei tumori (nel giro di qualche mese dalla scoperta, tutti i centri di questo genere negli Stati Uniti avevano ridotto la quantità di radiazioni); – il diffuso utilizzo di anestetici durante il parto anche se potevano danneggiare, e in effetti danneggiavano, il cervello dei neonati. C’è stato anche un giornale di Louisville, nel Kentucky, che è riuscito a ottenere di vedere i rapporti degli ispettori federali su alcune case di riposo per anziani, da cui risultava che i loro ospiti erano oggetto di maltrattamenti. In conseguenza di questo, la legislazione statale è stata modificata, molte case di riposo sono state chiuse e i proprietari di alcune di esse sono stati accusati di truffa. Potremmo citare molti altri casi. E tutti dimostrerebbero quanto sia importante che i giornalisti scoprano quali atti ufficiali esistono, li esaminino e li usino per le loro indagini.

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La conoscenza degli strumenti di consultazione più comuni In tutte le società, tranne quelle fondate sulla segretezza, un giornalista può accedere a molte più informazioni di quante possa immaginare. A parecchie di queste può arrivare grazie a strumenti di consultazione comuni, anche se non accessibili a tutti: liste di pubblicazioni ufficiali, rapporti governativi, liste di enti pubblici, elenchi di proprietari delle società private o registri degli enti che ricevono finanziamenti governativi. Se un giornalista ha intenzione di condurre un’indagine dovrebbe sapere quali informazioni contengono questi strumenti di consultazione. Trovare i contatti giusti Tutti i giornalisti ovviamente hanno bisogno di contatti, ma chi conduce un’inchiesta ne ha bisogno ancora di più. E gli serve un particolare tipo di contatti: non solo quelli che possono dargli informazioni o indicazioni su un argomento specifico, ma anche quelli che possono essergli utili in varie situazioni, come avvocati, funzionari della società telefonica o del pubblico registro automobilistico; insomma, tutte le persone che possono consigliarlo e permettergli di accedere agli atti ufficiali. La capacità di usare un computer Non significa solo saper fare ricerche online, ma anche saper usare i database. Gli esempi che confermano quanto questo sia importante in un’indagine sono ormai innumerevoli. Uno dei più istruttivi è quello dell’«Atlanta Journal-Constitution» della Georgia, che nel 1989 vinse il premio Pulitzer per una serie di articoli in cui analizzava la tendenza alla discriminazione razziale nella concessione dei prestiti da parte delle banche. Questa inchiesta, condotta da Bill Dedman, merita uno studio attento, non perché il suo tema sia di grande rilevanza internazionale, ma proprio per il motivo opposto. Pur essendo un’inda-

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gine a livello locale, costituisce un esempio particolarmente calzante. Non ha fatto cadere nessun governo, non ha smascherato nessun tipo di corruzione né salvato vite umane. A chiunque sia bianco e viva molto lontano dagli Stati Uniti può sembrare una piccola cosa rispetto ai problemi che affliggono il suo paese, ma l’inchiesta del «Journal-Constitution» merita di essere esaminata per i suoi metodi, la sua organizzazione e l’atteggiamento di chi l’ha condotta. È la storia di un giornalista deciso a scoprire i motivi di una certa situazione e a rivelarli al pubblico, invece di aspettare che lo faccia qualcun altro o di limitarsi a ripetere qualcosa che ha sentito dire. Tutto era partito dal commento casuale di un esperto di urbanistica, il quale gli aveva detto di avere problemi a edificare nei quartieri neri a sud di Atlanta perché le banche non erano disposte a prestare denaro a chi viveva in quelle zone (una decisione illegale, se viene presa con intenti discriminatori). L’uomo aveva aggiunto che i prestiti erano difficili da ottenere anche nei quartieri neri più ricchi. Era un tipo di commento che i giornalisti sentono tutti i giorni: generico, infondato e apparentemente impossibile da dimostrare. Ma aveva stimolato la curiosità di Dedman, il quale decise di vedere se riusciva a dimostrarlo. Prima di tutto andò a parlare con alcuni professori universitari che facevano ricerche in questo campo, e gli dissero che le banche, le casse di risparmio e le società di prestiti dovevano comunicare al governo i dati relativi a ogni mutuo ipotecario concesso: ammontare e ceto sociale del richiedente. Come Dedman avrebbe scritto più tardi: «Per dirla in parole semplici, al giornale non facemmo altro che incrociare i dati del computer federale con quelli del censimento, confrontando in particolare i quartieri neri con quelli bianchi». È una cosa più facile a dirsi che a farsi. I primi tre giorni furono interamente dedicati a inserire spazi tra i numeri che apparivano sul computer per poterli leggere. Nei cinque mesi successivi, Dedman controllò i prestiti concessi da tutte le banche e casse di risparmio di Atlanta in un pe-

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riodo di cinque anni, per un totale di 109mila prestiti. Un altro studio fu dedicato ai dati immobiliari. Ma ne valeva la pena. Dedman scoprì che le banche e le altre istituzioni concedevano cinque volte più prestiti agli abitanti dei quartieri bianchi che a quelli dei quartieri neri. Esaminando le politiche e i comportamenti pratici degli istituti di credito, scoprì anche che non cercavano clienti in quelle zone e in generale scoraggiavano i neri dal chiedere prestiti. Questi ultimi quindi non potevano fare altro che rivolgersi alle società di prestito non regolamentate e agli strozzini. Come dice Dedman: «Solo a quel punto cominciai a cercare degli aneddoti». Raccolse alcune esperienze personali, che diedero più vita alla sua serie, e dimostrarono come la politica delle banche influiva sulla vita della gente. Quando si rivolgeva alle banche, come era prevedibile, le trovava riluttanti a parlare. Una di esse rispose alla sua richiesta di informazioni scrivendo: «Alcuni dei materiali da lei richiesti non esistono. Altri esistono, ma sono riservati. I rimanenti esistono e non sono riservati, ma sono irrilevanti ai fini della sua ricerca». È l’inequivocabile dichiarazione di chi ha qualcosa da nascondere. Il responsabile di un’altra banca cercò astutamente di combinare un appello al patriottismo locale con un malcelato invito rivolto all’editore del giornale, Jay Smith, affinché sospendesse l’indagine. Scrisse infatti: «Jay Smith non potrà non comprendere che un articolo che alluda a una presunta discriminazione razziale da parte degli istituti di credito di Atlanta non potrà che inferire un ulteriore colpo immeritato alla nostra grande città». E mandò una copia della lettera a Smith. Alla fine, quando Dedman ebbe abbastanza materiale per una serie (che avrebbe chiamato Il colore dei soldi, echeggiando il titolo del famoso film con Paul Newman), entrò in gioco la direzione. Come Dedman avrebbe scritto più tardi: Penso di sapere quale fu il motivo dell’incisività del Colore dei soldi. La direzione eliminò tutte quelle che io ritenevo fossero le parti miglio-

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ri. Dove avevo scritto che le banche di Atlanta discriminavano alcune zone della città, il direttore Bill Kovach fece un’annotazione: «Limitati a riportare le cifre», diceva; «lascia che i fatti parlino da sé».

Domenica 1° maggio 1989 la serie partì con un articolo di diverse migliaia di parole intitolato Nella mischia per aggiudicarsi i mutui ipotecari i neri di Atlanta perdono sempre. Iniziava così: I bianchi ottengono dalle banche e dalle casse di risparmio di Atlanta cinque volte più mutui ipotecari dei neri che rientrano nella stessa fascia di reddito, e questo divario si allarga ogni anno di più, come dimostra lo studio condotto dall’«Atlanta Journal-Constitution» su 6,2 miliardi di dollari di prestiti. Secondo il nostro studio, che ha preso in esame sei anni di rapporti presentati dalle banche al governo federale, è la razza, non il valore della casa o il reddito della famiglia, a determinare regolarmente la concessione dei prestiti da parte dei maggiori istituti di credito dell’area metropolitana di Atlanta.

Il seguito dell’articolo conteneva: le giustificazioni e le smentite dei banchieri, i dettagli dell’inchiesta con ulteriori informazioni (tra cui quella che l’unica banca specializzata in prestiti ai neri denunciava la più bassa percentuale di mancato pagamento delle rate dei mutui), l’illustrazione della legge relativa ai prestiti bancari, e così via. In un’altra pagina del giornale appariva un articolo su una serie di persone di colore che avevano tutti i requisiti per ottenere un prestito ma avevano incontrato delle difficoltà per averlo. La serie proseguiva così: Lunedì 2 maggio. Descrizione dettagliata delle politiche bancarie, storia delle discriminazioni operate, ulteriori esempi tra cui quello di un reduce del Vietnam di colore al quale era stato rifiutato un mutuo che gli sarebbe costato 100 dollari al mese meno dell’affitto che pagava. L’articolo riportava in dettaglio anche la procedura di acquisto di una casa e che cosa succedeva se chi voleva comprarla era un nero.

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Martedì 3 maggio. Spiegazione dettagliata della legge sulle transazioni bancarie e sulle sue applicazioni in tutto il paese, storia dei tentativi fatti dalle associazioni dei neri per cambiare la politica delle banche di Atlanta. C’erano anche articoli di approfondimento che dimostravano come questa discriminazione venisse praticata a livello nazionale. Le conseguenze della serie di Dedman furono immediate. Nove giorni dopo la sua fine, le nove maggiori banche di Atlanta cominciarono a far affluire 77 milioni di dollari di prestiti a basso interesse verso i quartieri neri. Alcuni istituti andarono direttamente in quelle zone a cercare clienti, assunsero personale di colore, cominciarono a farsi pubblicità sui media che si rivolgevano a un pubblico di colore e portarono addirittura i loro dirigenti a fare un giro in autobus di quei quartieri. Undici mesi dopo la comparsa della serie, il dipartimento di giustizia degli Stati Uniti cominciò a indagare su 64 istituti di credito di Atlanta per stabilire se violavano le leggi contro la discriminazione.

COME CONDURRE LE INDAGINI I motivi che possono spingere un giornale ad avviare un’inchiesta sono vari: il suggerimento di un contatto; una scoperta casuale; una notizia apparentemente banale che andando ad approfondire si rivela molto più grossa di quanto sembrasse; un’osservazione dello stesso cronista; una ricerca di routine che gradualmente subisce un’escalation, o in cui ogni quesito fa emergere altri quesiti sempre più importanti. Così andò nel caso della più famosa di tutte le inchieste giornalistiche: quella sull’affare Watergate. La storia cominciò nel giugno del 1972 con un’irruzione notturna nel quartier generale del Partito democratico all’interno del Watergate Building di Washington. E finì poco più di due anni dopo con le dimissioni dell’uomo

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più potente della terra, il presidente Richard Nixon. Il ruolo svolto dal presidente e dal suo entourage nell’irruzione iniziale e molte altre cose (intercettazioni telefoniche, fondi neri e, soprattutto, l’occultamento di queste attività illegali) non sarebbero mai stati scoperti se non fosse stato per i giornalisti. I due principali responsabili dell’inchiesta furono Carl Bernstein e Bob Woodward del «Washington Post». Quando cominciarono a lavorarci sopra, in un’atmosfera di sfiducia reciproca, sembrava che si trattasse di un qualsiasi episodio criminale. Cinque uomini erano stati colti in flagrante mentre cercavano di entrare nel quartier generale dei Democratici per installare dei microfoni. Il giorno dopo Woodward andò in tribunale e notò che un famoso avvocato si stava molto interessando al caso. Che cosa ci faceva lì? In tribunale Woodward scoprì anche che diversi di quegli uomini avevano lavorato per la Cia. Inoltre, quando erano stati arrestati avevano con sé parecchio denaro in contanti e due di loro avevano dei taccuini, su uno dei quali era appuntato il numero di telefono di un dipendente della Casa Bianca. A partire da questo esile ma promettente spunto prese il via una serie di articoli che alla fine avrebbero dimostrato la complicità dell’amministrazione Nixon in diverse attività illegali. Bernstein e Woodward furono osannati e scrissero un bestseller dal quale fu tratto un film sulla loro inchiesta. Ma quello fu il risultato finale. Prima di arrivarci avevano subìto una serie di frustrazioni e di attacchi da parte dei sostenitori di Nixon e delle autorità, intimorite e insospettite dal loro lavoro; c’erano state le giornate sprecate, le settimane e i mesi passati a seguire false piste, gli errori (alcuni dei quali erano stati pubblicati), le innumerevoli ore trascorse a esaminare documenti per trovare un’unica informazione cruciale, i dubbi personali, le critiche e l’invidia dei colleghi, tutte le serate, le nottate e i fine settimana liberi passati a studiare il caso. Dalla loro esperienza si possono apprendere lezioni fondamentali. Il loro libro, Tutti gli uomini del presidente, è forse la migliore descrizione dettagliata di un’inchiesta che sia mai stata

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scritta in inglese. Racconta la storia di due giornalisti che si avvicinano lentamente, e non sempre in linea retta, alla verità grazie a una scrupolosa ricerca e a una sana mania per la precisione. Le seguenti linee guida per il giornalismo d’indagine si basano sul loro lavoro, sullo studio di altri casi e sulla mia limitata esperienza. Cercate e schedate tutti i possibili documenti La migliore strategia in qualsiasi indagine è mettere le mani su ogni possibile documento e non gettare mai via nulla. Non si sa mai quando un documento o un appunto – qualsiasi cosa abbiate raccolto – potrà tornarvi utile. Mesi dopo la sua scoperta, qualcosa potrebbe dare improvvisamente un significato a quel rapporto apparentemente innocuo che avete trovato. In pochi mesi, Bernstein e Woodward avevano già riempito quattro schedari. Prendete appunti a ogni intervista e schedateli Questo è particolarmente importante se più persone lavorano alla stessa inchiesta o se la ricerca dura a lungo. È sempre proficuo scambiare con qualcuno gli appunti delle interviste per vedere se ci è sfuggito qualcosa di significativo. Gli appunti dattiloscritti (e schedati) sono anche molto più facili e rapidi da consultare. Questo metodo consente inoltre ai vostri capi di partecipare con maggior cognizione di causa alle discussioni sul caso. Siate tenaci Leggendo la storia di qualsiasi indagine, la cosa che vi colpirà di più sarà la tenacia dei giornalisti. Durante l’inchiesta sul caso Watergate, Woodward e Bernstein passarono giorni a rivedere la documentazione, interi fine settimana seduti alla loro scrivania a fare telefonate, giornate ad aspettare davanti agli uffici di alcuni avvocati nella speranza di vedere qualcuno che forse avrebbe potuto dare loro un’informazione vitale. A un certo punto ottennero

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l’elenco del centinaio di persone che lavoravano nel Comitato per la rielezione del presidente, da dove partivano quasi tutti gli illeciti. Dato che naturalmente non potevano far visita a queste persone in ufficio, impiegarono molte settimane per andare a cercarle a casa dopo la loro giornata di lavoro al giornale. Intervistate di nuovo le «vecchie fonti» Finché un’inchiesta è in atto, non esistono «vecchie fonti». Le persone che lavorano nel settore sul quale state investigando spesso ricordano cose che non vi hanno detto, acquisiscono nuove informazioni, o sono in grado di dare un senso alle nuove informazioni che voi stessi avete raccolto. Ognuno di questi è un motivo sufficiente per chiamarle regolarmente. Woodward e Bernstein avevano ciascuno una propria lista di numeri di telefono dei contatti importanti. Alla fine arrivarono a raccogliere i nomi di centinaia di persone, che chiamarono due volte alla settimana, ogni settimana, per più di un anno. Come in seguito avrebbero scritto nel libro: «Il semplice fatto che una persona non venisse al telefono o non richiamasse spesso significava che era successo qualcosa di importante». Coltivate le fonti veramente informate Durante l’inchiesta sul caso Watergate, Woodward contattò un alto funzionario governativo per chiedergli se gli fosse giunta voce degli illeciti. L’uomo rispose di sì. Sapeva moltissime cose e chiaramente riteneva suo dovere collaborare perché il complotto venisse smascherato. Tuttavia, come tutti i burocrati, era sospettoso nei confronti della stampa e preoccupato che notizie delle quali solo lui e pochi altri erano a conoscenza venissero utilizzate senza una conferma da parte di altre fonti. Accettò quindi di aiutare Woodward, ma soltanto a certe condizioni: avrebbe semplicemente messo il giornalista sulla strada giusta, e tutto quello che diceva avrebbe dovuto essere corrobo-

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rato da un’altra fonte. Gli incontri tra lui e Woodward avvenivano a tarda sera in parcheggi sotterranei, e solo dietro sua richiesta. La sua collaborazione era così fondamentale che Woodward accettò tutte le condizioni. La fonte non rivelò a nessun altro la propria identità, e un dirigente del «Washington Post» la battezzò «Gola Profonda», ispirandosi al titolo di un film pornografico molto popolare all’epoca che era la storia di una donna specializzata in sesso orale. L’identità di Gola Profonda rimarrà sempre un mistero per tutti tranne che per Woodward. Quella di conoscere una fonte ben informata come Gola Profonda e di ottenerne la collaborazione è un’opportunità che non capita a tutti i giornalisti. Ma l’esperienza di Woodward ci insegna che se una persona del genere stabilisce certe regole, l’unica cosa da fare è rispettarle. Questo non significa accettare tutto quello che dice, Woodward discusse spesso con il suo informatore. Ma alla fine gli accordi presi devono essere rispettati. Il sostegno dei superiori Il capocronista e il direttore devono impegnare personale e altre risorse nel progetto. Il direttore deve essere preparato al fatto che il progetto richiederà molto tempo e alla fine potrebbe non uscirne nulla. Pubblicare un’inchiesta solo perché si è impiegato tanto tempo a svolgerla è un metodo sicuro per andare incontro a una catastrofe. Quando alla fine viene pubblicata, la storia dev’essere a prova di bomba. La direzione e i giornalisti dovranno anche decidere subito se l’inchiesta prenderà la forma di una serie di articoli pubblicati man mano che vengono scritti, o quella di un «grosso scoop» che apparirà sul giornale solo quando la ricerca è stata completata. In quest’ultimo caso, bisognerebbe stabilire una scadenza. È facile che un’indagine si trascini per mesi, e che i giornalisti continuino a dire che hanno bisogno «ancora di una settimana» per portare

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a termine le loro ricerche. Dovreste anche considerare che gli articoli pubblicati man mano a volte incoraggiano le persone a farsi avanti e a fornire ulteriori notizie, se non addirittura l’informazione fondamentale. Tuttavia, in qualsiasi forma venga pubblicata, l’inchiesta dovrebbe essere attentamente seguita da un superiore, il cui compito principale è quello di fare continuamente domande ai giornalisti. Deve svolgere il ruolo di avvocato del diavolo e controllare continuamente le prove con i cronisti, insomma vedere la storia dall’esterno. Lavorare in incognito Nella maggior parte dei casi esiste un sistema migliore per raccogliere informazioni del lavorare in incognito. Ma qualche volta, molto raramente, potrebbe essere l’unico modo per arrivare a scrivere un articolo. Quello di indagare in un ambiente «chiuso», come un’organizzazione o una società segreta, è il pretesto più comune, e ce ne possono essere anche altri. Ma sarà meglio che la storia ne valga la pena, perché richiede molto tempo e comporta parecchi rischi, il minore dei quali è l’imbarazzo di essere scoperti. Gli altri pericoli che si corrono sono molto più seri. In primo luogo, se lavorate in incognito state sempre ingannando qualcuno, quindi gli illeciti che intendete smascherare devono essere abbastanza gravi da giustificare la vostra disonestà. In secondo luogo, in situazioni del genere si corrono enormi rischi fisici ai quali non sfuggirete neanche dopo aver rivelato la vostra identità e scritto l’articolo. In terzo luogo, se state indagando in incognito su un’attività criminale potreste rimanerne coinvolti, il che renderebbe il vostro comportamento ancora più difficile, se non impossibile, da difendere. Se avete deciso di indagare su un traffico illegale fingendo di essere un compratore o un venditore, cioè facendo da agente provocatore, potete correre un ulteriore rischio. A parte la dubbia

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moralità di questa scelta, entrerete a far parte della storia, e quindi la modificherete. A mio avviso, ciò significa che siete già andati molto oltre quello che chiamiamo giornalismo. Il caso più eclatante di questo genere si verificò nel 1994, quando cominciò a circolare la notizia che sul mercato tedesco era possibile acquistare plutonio per la fabbricazione di armi nucleari. Un certo numero di giornalisti pensò di farsi un nome indagando su questo commercio. Alcuni finsero di essere venditori, altri compratori disposti a pagare qualsiasi cifra. E come se questo non bastasse, alcuni dei giornalisti che fingevano di essere compratori si imbatterono in altri che recitavano la parte di venditori. Nessuno scoprì mai la vera identità dell’altro e quindi gli articoli che pubblicarono non riguardavano il «traffico di morte», come loro sostenevano, ma raccontavano di due giornalisti che per eccesso di entusiasmo si erano presi in giro a vicenda, e avevano preso in giro se stessi. Tuttavia esistono esempi di indagini svolte in incognito che hanno prodotto articoli memorabili. Alla fine del diciannovesimo secolo, la giornalista del «New York World» Nellie Bly (il cui vero nome era Elizabeth Cochran) finse di essere pazza per poter entrare nel manicomio di Blackwell’s Island e scrivere uno scioccante articolo di denuncia. Le sue scoperte furono poi pubblicate nel libro Ten Days in a Madhouse. Il suo editore, Joseph Pulitzer, la premiò affidandole l’incarico di battere il record di 80 giorni per completare il giro del mondo stabilito dal personaggio di Phileas Fogg nel romanzo di Jules Verne Il giro del mondo in ottanta giorni. Riuscì a farlo in 72 giorni, 6 ore, 11 minuti e 14 secondi. Meno gratificante fu la ricompensa che ottenne il direttore della «Pall Mall Gazette», W.T. Stead. Per denunciare la prostituzione infantile nella Londra vittoriana, «comprò» dalla madre una ragazzina di tredici anni e, sotto il più rigido controllo, passò abbastanza tempo con lei per dimostrare che avrebbe potuto essere usata a qualsiasi scopo immorale. La sua campagna per ottenere la modifica della legge sulla prostituzione infantile era ap-

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poggiata da molte figure di rilievo, tra cui alcuni vescovi. Ma neanche loro riuscirono ad impedire che in seguito Stead venisse processato. Appigliandosi a un dettaglio tecnico, le autorità lo condannarono a tre mesi di prigione per l’acquisto della bambina che era stata al centro della sua denuncia. Questo tipo eccentrico dalla barba rossa (a volte catturava dei topi, li friggeva e li mangiava mettendoli su un toast) affondò con il Titanic nel 1912. Da allora, i giornalisti hanno lavorato in incognito soprattutto per denunciare il modo in cui venivano trattate, o maltrattate, varie «vittime» della società come i senzatetto, i malati di mente o i drogati. Per fare questo bisogna saper recitare e a volte adottare un travestimento. Il maestro di questo genere è un tedesco di nome Günter Wallraff. Il suo scopo è quello di entrare in ambienti preclusi ai giornalisti. Usa documenti falsi, inventa storie di vita, cambia vestiti, occhiali e lenti a contatto, capelli e denti. Perché, come dice lui, il suo compito è quello «di ingannare per non essere ingannato». Si fa chiamare «il giornalista indesiderato» e, almeno per quanto riguarda le sue vittime, non senza motivo. Ha recitato la parte di un informatore dei servizi di sicurezza e della polizia politica, ha messo alla prova la teologia e la moralità cattolica fingendo di essere un fabbricante di bombe al napalm, ha finto di essere un senzatetto in un ostello, un alcolizzato in un manicomio, e ha impersonato il consigliere di un ministro per dimostrare che lo Stato mette le forze armate a disposizione dell’industria tedesca per difendere le fabbriche. Sotto le spoglie di un «finanziere tedesco di estrema destra» ha scoperto un progetto di colpo di Stato in Portogallo, e sotto quelle di «giornalista di un rotocalco» ha smascherato i metodi usati dal giornale popolare «Bild». Prende scrupolosamente appunti, registra tutto e fotocopia ogni documento che intende citare. «Ho deciso di complottare per guardare oltre il muro delle mimetizzazioni, dei dinieghi e delle bugie. Il metodo che ho adottato era solo moderatamente illegale in confronto agli inganni e alle illegalità che ho scoperto», dice.

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La maggior parte del suo lavoro non è stata pubblicata sui quotidiani, ma su riviste, opuscoli e libri. Le indagini di Wallraff richiedono molto tempo, più tempo forse di quanto molti giornali accorderebbero a un cronista che lavora per loro. Ma i risultati sono strabilianti e i suoi metodi degni di maggiore attenzione di quella che riscuotono. Un giornale può mandare più anime in Paradiso, e salvarne più dall’Inferno, di tutte le chiese e cappelle di New York. James G. Bennett

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Come trattare gli eventi tragici

Avete notato che la vita, la vita davvero autentica, quella fatta di omicidi e catastrofi e favolose eredità, si trova quasi esclusivamente nei giornali? Jean Anouilh

C’è una regola non scritta nel giornalismo secondo la quale un articolo è tanto più facile da scrivere quanto più forte è il suo contenuto. In fondo non c’è nessun bisogno di rosicchiare la matita per ore domandandosi come impostare un pezzo sull’incendio di una discoteca con 68 morti. Ma anche se l’esposizione di una notizia importante di solito segue semplicemente il naturale ordine logico, il lavoro di ricerca per far emergere chiaramente i fatti è spesso difficile. Le notizie importanti sono, per loro stessa natura, caotiche. Anche agli inquirenti è spesso poco chiaro, per diverse ore o addirittura giorni, che cosa sia avvenuto esattamente. Un incidente può verificarsi in un luogo inaccessibile, in un paese dove le comunicazioni sono scarse o dove le autorità sono male organizzate e inclini alla riservatezza. Può verificarsi di notte o assumere la forma della calamità naturale, come l’uragano Mitch, che colpì l’America centrale fra ottobre e novembre 1998 causando danni la cui gravità fu colta appieno solo dopo diversi giorni. Il numero

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delle vittime, che per i nostri diabolici fini professionali spesso misura l’importanza del servizio, a volte richiede un po’ di tempo per essere calcolato e le prime valutazioni possono anche essere piuttosto fuorvianti. Poi ci sono i testimoni, inevitabilmente traumatizzati e confusi, che quindi a volte forniscono ricostruzioni molto imprecise. Le stesse autorità possono fuorviare: di regola perché la loro priorità assoluta è salvare vite umane e non collaborare con i giornalisti, oppure perché hanno interesse a evidenziare un certo aspetto dell’evento o a nasconderne un altro. Sia nel disastro dello stadio di Hillsborough del 15 aprile 1989 (dove 94 tifosi di calcio morirono nella calca) sia nel massacro di Dunblane (dove il 13 marzo 1996 un uomo armato uccise da solo 16 alunni col loro insegnante in una scuola elementare scozzese) le forze dell’ordine coinvolte fecero dichiarazioni che miravano a nascondere la loro parte di responsabilità. Oggi la possibilità di denunce, le responsabilità legali e le pressioni delle compagnie assicurative costituiscono una minaccia che può rendere i poliziotti anche più cauti, poco collaborativi e, talvolta, menzogneri. Quanto alle organizzazioni coinvolte o rappresentative dei soggetti coinvolti, in occasione di eventi drammatici è meglio non sottovalutare la loro tendenza a informare la stampa secondo nascosti schemi interni. Un esempio classico di ciò furono i disordini dell’aprile 1990 nel carcere di Strangeways, a Manchester, probabilmente il fatto di rilievo dei nostri tempi che la stampa ha trattato nel modo più scorretto. Tutto ebbe inizio il primo aprile, quando i reclusi, inferociti per il sovraffollamento che li costringeva a rimanere chiusi in cella per 23 ore al giorno, sottrassero le chiavi agli agenti, liberarono non meno di 1000 detenuti, dettero fuoco alla cappella e alla palestra e assunsero il controllo del carcere. Fu indubbiamente un fatto di rilievo, enfatizzato anche visivamente dalle immagini dei detenuti che esibivano striscioni alle finestre, sedevano sul tetto con i volti coperti da maschere improvvisate e lanciavano giù tegole. E dato che i rivoltosi si erano barricati negli edi-

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fici principali, occupandoli per diversi giorni, non c’era modo di sapere che cosa stesse accadendo all’interno. C’erano fondati sospetti che nella follia del momento fossero stati aggrediti i condannati per delitti a sfondo sessuale, che già normalmente sono emarginati. Tale incertezza su quanto stesse realmente accadendo creava un vuoto a cui i rotocalchi non erano preparati. Il 2 aprile il «Daily Mirror» titolava: Undici morti nella rivolta del carcere, quello stesso giorno l’«Evening Standard» diceva che i morti erano 20 e due giorni dopo il «Sun» dichiarava in un’esclusiva di prima pagina: I morti potrebbero essere più di 30. Per non essere da meno, il «Daily Mirror» replicava: I detenuti in rivolta impiccano un agente. Si dava notizia di impiccagioni dopo finti processi, di castrazioni, di detenuti scaraventati giù dai ballatoi o impalati con materiali improbabili, di gole tagliate, di iniezioni forzate di «cocktail di droghe» trafugate dalla farmacia del carcere, di pestaggi con sbarre di ferro e di corpi smembrati. Non c’era un briciolo di verità in nessuna di queste rivelazioni. Solo due uomini erano morti e l’«agente impiccato» del «Daily Mirror» risultò poi essere un detenuto per stupro senza il minimo legame con la rivolta, perché in quei giorni stava tranquillamente scontando la sua pena nel carcere di Armley a Leeds, a più di 100 chilometri di distanza. La confusione era dovuta alla concomitanza di vari fattori che avevano finito per produrre un inebriante cocktail di mezze verità, false ipotesi e bugie, che i giornali popolari e qualcuno dei quotidiani maggiori all’epoca aveva mandato giù. Anzitutto c’era una situazione caotica creata dall’impossibilità di sapere che cosa stesse realmente accadendo (una delle principali fonti delle notizie di «esecuzioni» era un avvocato che aveva dichiarato al tribunale di Oldham che il suo cliente aveva visto penzolare dai balconi tre cadaveri, rivelatisi poi altrettanti manichini usati nelle lezioni di pronto soccorso). In secondo luogo, molte delle voci più raccapriccianti provenivano da uomini in di-

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visa, soprattutto agenti di custodia, che avevano le loro buone ragioni per dipingere la rivolta come un «trionfo del Male», per usare le loro parole. I portavoce ufficiali parlavano costantemente di «morti», aggiungendo spesso in via ufficiosa dettagli ispirati ai racconti del terrore. Anche il responsabile governativo del settore fece la sua parte, provvedendo a un certo momento ad inviare al carcere 20 sacchi di plastica per trasportare cadaveri. Ma la stampa contribuì ad aggravare ancor di più la situazione di imbarazzo che si sarebbe poi creata. I giornali non misero mai in questione quello che veniva loro riferito e a volte non riportarono le dichiarazioni ricevute come semplici affermazioni, ma come fatti. Intendevano credere al peggio e, in questo caso, trovarono la volontaria complicità delle autorità, alle quali si diceva quello che volevano sentire e loro lo prendevano per buono. I rotocalchi quindi ignorarono tutto quello che non rientrava nel loro schema. Per fare un esempio, il mattino seguente allo scoppio della rivolta un consulente del North Manchester General Hospital dichiarò in una conferenza stampa di non aver provveduto al ricovero di nessun detenuto con gravi ferite. Soltanto i quotidiani più importanti riportarono la dichiarazione e, quel che è peggio, la maggior parte dei giornalisti non si pose il problema che le informazioni ricevute fossero plausibili o meno, ma si limitò a far loro da megafono, dimenticando che il giornalista non deve semplicemente reperire una fonte per il servizio, ma anche saper valutare quanto la fonte dichiara. L’altro immancabile nemico del trattamento preciso ed equilibrato delle sciagure è il giudizio affrettato, molto più comune delle particolari circostanze che condizionarono i servizi sulla rivolta di Strangeways, e i giornalisti che trattano incidenti dovuti a errori umani o meccanici sono particolarmente inclini a ricorrervi. La richiesta della società moderna di una spiegazione immediata, della pronta individuazione dei cattivi, spinge i giornalisti a puntare il dito accusatore talvolta molto prima che siano noti tutti i fatti principali. Nel maggio del 1991, ad esempio, un Boeing 767

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della compagnia aerea Lauda precipitò nella giungla tailandese e tutte le 223 persone a bordo persero la vita. Fra loro c’era Don McIntosh, un funzionario pubblico inglese di 43 anni, comandato al programma antidroga delle Nazioni Unite. Questo solo fatto bastò al «Daily Star» per saltare alle conclusioni. Sacrificato era il titolo in prima pagina di un articolo che denunciava come «gli spietati baroni della droga» (un luogo comune ormai stantio, tratto direttamente dal linguaggio cinematografico) avessero ucciso 223 persone per eliminare un solo uomo. Si trattava ovviamente di un’illazione pura e semplice, basata esclusivamente sul fatto che McIntosh si trovava per caso su quel volo. Non era passata una settimana quando fu ritrovata la scatola nera e le sue registrazioni rivelarono che il disastro era stato causato dall’improvvisa inversione di spinta di un motore. Un caso esemplare: l’uragano Katrina del 2005 Nella maggior parte dei casi, come per lo tsunami del 2004 o il terremoto in Pakistan del 2005, i giornali riferiscono i fatti in modo abbastanza corretto. Ma il modo in cui trattiamo le catastrofi, e le fonti di informazione su quanto è accaduto, stanno cambiando. Un classico esempio di questo è l’uragano Katrina del 2005. All’inizio tutti dissero che aveva fatto 10mila vittime (mentre in realtà erano dieci volte di meno) e i giornali erano pieni di articoli sugli stupri, gli accoltellamenti e gli omicidi commessi nel centro congressi di New Orleans, mentre oggi sappiamo che erano stati enormemente esagerati. Tali errori erano in parte dovuti all’urgenza di dover riempire per ventiquattr’ore al giorno e per sette giorni alla settimana tanti canali tv e siti internet. Questo costringe i giornalisti a rilanciare il numero delle vittime dato dai propri colleghi e a raccontare storie sempre più orribili finché tutto viene mostruosamente esagerato – un po’ come quando da bambini si gioca a mettere una mano sull’altra muovendole freneticamente sempre più in alto. In

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un mondo competitivo come quello dell’informazione, c’è sempre il timore di rendersi conto in ritardo di quel che sta succedendo e di non avere le cifre aggiornate sul numero delle vittime. Stando così le cose, quale direttore di giornale pubblicherebbe solo le cifre ufficiali (che spesso risalgono a qualche giorno prima) e non le stime degli esperti presenti sul posto? La cosa più responsabile sarebbe riportarle entrambe, chiarendone la fonte («Si teme che le vittime siano» è l’espressione convenzionale che si usa per le stime non ufficiali). Peccato che poi sia venuto fuori che gli esperti avevano sbagliato. Erano stati loro a parlare di 10mila vittime, e i media (alcuni dei quali volevano avere un’arma con cui colpire il presidente Bush) avevano riportato quella cifra. Dopotutto, non avevano altro modo per sapere quante persone erano morte perché i canali ufficiali erano interrotti. Quel vuoto era stato riempito dalle 10mila vittime. Lo stesso discorso vale per le violenze al centro congressi e per i cecchini che sparavano agli elicotteri. In mancanza di dichiarazioni ufficiali, il vuoto era stato riempito dalle testimonianze delle persone rifugiate nel centro e dai blogger. L’alternativa sarebbe stata aspettare una dichiarazione ufficiale (che non sempre è sincera) e ignorare le voci che circolavano. Ma in quest’epoca in cui tutti sono giornalisti non è più possibile farlo. Quando dovevo scrivere i miei ultimi reportage sugli attentati in Egitto, a Bali e a Delhi, nelle prime ore le agenzie non riportavano quasi nessuna testimonianza oculare. Ma blog come quello della Bbc erano pieni di e-mail con le testimonianze di persone presenti sul luogo degli attentati, e io le ho usate. Non avevo tempo di controllare se fossero autentiche o inventate, mi sono solo chiesto se ciò che descrivevano era plausibile, e nei miei articoli – come avrebbe dovuto fare anche chi ha scritto su Katrina – ho sempre detto dove avevo preso le informazioni. Forse noi giornalisti non inventiamo più le cose come i nostri colleghi facevano un tempo, ma quando diamo le prime notizie su una catastrofe ci affidiamo alle fonti «non ufficiali» più di quanto facessimo in passato e più di quanto siamo disposti ad ammettere.

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COME EVITARE CHE UN SERVIZIO SU UN DISASTRO DIVENTI DISASTROSO

Spesso le prime notizie di un evento che poi si rivela disastroso arrivano attraverso dispacci di agenzia e hanno l’aria di essere banali incidenti, ma col tempo assumono connotati di maggiore gravità. Qualche volta può avvenire il contrario: quella che sulle prime sembra una calamità di vaste proporzioni viene ridotta dai successivi comunicati a un fatto meno drammatico. Oltre a insegnarci che è bene non compiere valutazioni affrettate, l’esperienza ci può dare una sensibilità istintiva capace di distinguere un fatto che assumerà proporzioni enormi da uno che resterà nei limiti dell’ordinario. È buona regola trattare ogni fatto che non sia immediatamente ridimensionato come potenzialmente importante fino a dimostrazione del contrario. Nessuno si è mai rovinato la reputazione per aver fatto qualche telefonata in più che poi si è rivelata inutile, ma parecchi giornalisti sono diventati lo zimbello delle redazioni per aver sottovalutato un servizio importante. Il primo accenno a una possibile sciagura probabilmente arriva nella forma di un testo telegrafico di una riga, come ad esempio: «Incidente all’aeroporto di Heathrow per un Boeing della EuroAir alle 14.26». Sappiamo che le agenzie di stampa inglesi non perdono tempo con notizie irrilevanti, ma fin qui l’incidente potrebbe essere qualsiasi cosa, da un disastro vero e proprio a un piccolo incendio che non ha causato danni alle persone. Perciò si aspetta. Poi, forse dieci minuti dopo, l’agenzia batte: «Sembra che un aereo EuroAir da Francoforte si sia schiantato al suolo. Non si hanno ancora notizie delle vittime». A questo punto vengono mandati sul luogo dell’incidente un cronista e un fotografo e, se il direttore del giornale sa il fatto suo, anche uno dei migliori redattori, con l’incarico di curare il servizio. Sarà quest’ultimo a seguire le notizie telegrafiche sull’incidente e a selezionare il materiale migliore fra quello inviato dai cronisti che sono sul posto, per poi scrivere un articolo di prima pagina.

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Intanto arrivano altre notizie che confermano l’ipotesi di una catastrofe vera e propria: l’aereo ha preso fuoco durante l’atterraggio, sono morte più di 100 persone e ci sono ancora molte domande in sospeso. Nel giro di poche ore qualcuna trova una risposta: il Boeing 737 della EuroAir ha avuto problemi tecnici mentre stava per raggiungere l’aeroporto di Heathrow. La situazione è peggiorata rapidamente. È scoppiato un incendio in uno dei motori che poi si è staccato in volo, un altro motore ha preso fuoco, l’impianto elettrico dell’aereo è saltato e il pilota ha dovuto atterrare manualmente con due soli motori. Il motore che si era staccato è caduto su una scuola, fortunatamente deserta. Le notizie si accumulano, però non nell’ordine logico qui esposto, ma in forma sparsa, con smentite e rettifiche accompagnate da dettagli sempre più bizzarri. Il numero iniziale delle vittime è di tre o quattro morti confermati. Poi chiama un cronista e dice di aver parlato con una donna che ha visto «molti corpi». Poi si viene a sapere che a bordo dell’aereo c’erano il ministro del Commercio tedesco Dieter Boch, morto nell’incendio dopo l’impatto, e il cantante Elton John, che ha partecipato ai soccorsi. Si tiene una conferenza stampa in cui la compagnia aerea dichiara che l’incendio è scoppiato in cabina dopo l’atterraggio e in una decina di minuti si è esteso a tutto l’aereo. Risulta che solo 60 dei 210 passeggeri sono sopravvissuti e molti di questi sono feriti. Se siamo fortunati, molto fortunati, riusciremo a sapere tutto ciò in tempo per la prima edizione; comunque, di norma, un incidente del genere viene trattato in diverse edizioni e la prima deve andare in stampa quando non si conoscono ancora tutti i dettagli. Naturalmente, nell’attesa, per l’intera giornata ci domanderemo qual è la reale gravità dell’incidente, quante pagine dedicargli, come comportarsi rispetto a tutto il resto delle notizie del giorno. Comunque sia, in un mondo ideale questo è lo schema del servizio a cui un giornale serio dovrebbe mirare, con le indicazioni necessarie a comporlo.

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• Resoconto in ordine cronologico degli eventi Dovete tracciare voi stessi (o qualcuno dei vostri collaboratori) un resoconto minuto per minuto oppure ora per ora di quanto è accaduto, dalla fase iniziale dell’incidente fino a quella conclusiva. Questo significa che non dovete mai stancarvi di chiedere: «E poi che cosa è successo?». Cercate di organizzare mentalmente i fatti come in un filmato, fotogramma per fotogramma. È bene che vi teniate in contatto con tutti i servizi di emergenza, gli ospedali, le autorità competenti. L’esposizione dei fatti sarà redatta dal giornalista a cui è affidato il servizio e costituirà il nucleo centrale dell’articolo, la cui struttura può anche assumere la forma di un riquadro in cui sono scandite le varie fasi dell’evento, ognuna descritta in modo succinto e con l’esatto riferimento temporale. • Racconti di testimoni oculari Raccolti da voi sul posto, attraverso le notizie d’agenzia, i freelance e i giornalisti che hanno intervistato telefonicamente dalla redazione testimoni apparsi in televisione o alla radio. I cronisti inviati sul luogo di una sciagura o in un ospedale dovrebbero accertarsi di ricevere incarichi precisi su quale aspetto del servizio trattare – colore, dichiarazioni, esposizione, cause ecc. In caso contrario si finisce solo per avere persone diverse che mandano sostanzialmente lo stesso pezzo. E non risentitevi se il vostro compito è raccogliere informazioni e inviarle in ordine sparso in redazione. Nella maggior parte dei servizi su sciagure affidati a più cronisti si commette spesso l’errore di smettere troppo presto di inviare informazioni obiettive per dedicarsi alla stesura di un’elaborata versione personale dei fatti. • Cause Sia la causa immediata di un guasto meccanico, sia l’eventuale o le eventuali cause indirette sono una parte essenziale del servizio, ma ci vuole tempo per acquisire solide informazioni sull’argomento. L’importante è evitare di addossare frettolosamente le colpe. Pensate, invece, a tracciare un quadro completo dell’accaduto, trattando anche le versioni ufficiali come semplici ipotesi,

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finché non siano state dimostrate. La storia è piena di funzionari che pensano a voce alta, talvolta in modo delirante, quando parlano delle cause di una sciagura. I giornali che riportano le loro idee come verità assodate sono destinati a fare una brutta figura. Bisogna essere molto cauti con le pure ipotesi riguardo ad atti di terrorismo o a suicidi, e dichiararne chiaramente la fonte, spiegando bene che non ci sono elementi a loro sostegno. • Documentazione sulla sicurezza dei Boeing 737 Quanti incidenti di questi aerei si sono registrati? Quali ne sono state le cause? • Profilo della EuroAir Esame dettagliato della storia della linea aerea coinvolta nell’incidente, possibili effetti della sciagura sulla stessa, sul valore delle sue azioni ecc. Se la sua sede è facilmente raggiungibile, un cronista può andare a parlare della compagnia e delle sue politiche aziendali con il personale. Si potrebbe scoprire, per esempio, che ultimamente stavano cercando di economizzare tagliando le spese sulla regolare manutenzione dei velivoli. • Profilo del pilota Secondo le informazioni di cui disponiamo ha compiuto un atto eroico facendo atterrare l’aereo manualmente e senza due motori. La gente vorrà conoscere la sua storia professionale e la sua esperienza. • Necrologio di Dieter Boch Forse non vale la pena farne un articolo a sé stante, ma quando una persona importante muore in una sciagura, si dovrebbe sempre incaricare un cronista di raccogliere i dati per tracciare la sua biografia. • Le vittime Finché i morti non vengono identificati, sono un semplice elemento statistico. Ma quando avrete i loro nomi, vorrete sapere chi erano, che cosa facevano ecc. Si scopre quasi sempre che qualcuno ha preso un certo aereo solo all’ultimo momento o altre storie del genere.

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• I soccorsi Che cosa è successo sulla pista dopo l’impatto dell’aereo? Come hanno risposto i servizi di emergenza? Ci sono stati eroi o eroine nelle operazioni di soccorso? Come si sono svolte? • Elton John Il suo ruolo nei soccorsi, i motivi del suo viaggio ecc. • Cronologia di disastri aerei recenti Un elenco dei disastri aerei in Gran Bretagna negli ultimi dieci anni, oppure di quelli più gravi a livello mondiale nel corso degli ultimi due anni. Le agenzie di stampa forniscono questi elenchi regolarmente. • Descrizione della scena Il «colore» della scena sulla pista di atterraggio e all’interno dell’aeroporto è materiale prezioso per il pezzo principale. Osservate i dettagli ed evitate l’impressionistico e il prevedibile. • La scatola nera Che cos’è il registratore di bordo detto «scatola nera»? Come funziona, che cosa registra e com’è fatto? La scatola nera è una di quelle cose di cui tutti parlano, pur sapendo soltanto che è un elemento importante nelle indagini sugli incidenti aerei. Diciamo subito che, per esempio, non è nera. Una chiosa sulla scatola nera può essere a sé stante o fare parte del pezzo sulle indagini che segue. • L’opinione degli esperti Per molti disastri, specialmente i più rari, ci troviamo improvvisamente ad avere bisogno degli esperti per chiarire questioni tecniche. I disastri aerei non sono infrequenti, tuttavia può essere utile rivolgersi a un esperto della sicurezza dei voli intervistandolo direttamente o chiedendogli di scrivere un articolo. Si potrebbe trattare, ad esempio, di un agente specializzato nelle indagini sugli incidenti aerei, attualmente in pensione, che potrebbe fornire degli spunti interessanti. Se trovate un esperto del genere, cercate di portarlo in redazione, quantomeno per sottrarlo alla concorrenza.

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• L’articolo principale Tutte le informazioni più importanti fra quelle considerate nei punti precedenti (e altri dati come le conseguenze dell’incidente sugli orari dei voli e i numeri di telefono utili ai parenti angosciati) dovrebbero venire inserite nell’articolo principale, cioè quello che va in prima pagina, col resoconto lungo e dettagliato della sciagura. Di norma è meglio cominciare con una frase semplice, distaccata e diretta come «Tutto è cominciato quando...» in stile narrativo, che può essere completata con qualche riga di presentazione. Non fate mai i furbi, specialmente con gli eventi che sono ancora in corso mentre scrivete. Riportate solo quello che è certo e non affidate nessuna affermazione alla sorte, sperando che venga confermata dai nuovi elementi che emergeranno. Molti di questi punti, anche se non tutti, potrebbero costituire un articolo a sé. Qualcuno forse penserà che il servizio fin qui delineato vada oltre i limiti ragionevoli nelle dimensioni e nelle finalità. Ma con una notizia di questa portata si ha l’opportunità di approfondire una questione di grande interesse per il pubblico. La televisione sarà la prima a dare alla gente notizie dirette e immagini, ma non potrà mai offrire un’analisi approfondita dei fatti come i giornali. Un servizio televisivo di mezz’ora contiene più o meno lo stesso numero di parole presenti nell’articolo di prima pagina di un quotidiano medio. E poi, anche se questa non è la prima cosa a cui si pensa, i giornali sono giudicati dalla loro redazione e dalle altre per come trattano le notizie importanti. Il rimpianto più comune nella vita di molti direttori è quello di aver riservato a un servizio importante un trattamento inadeguato. IL BILANCIO DELLE VITTIME Ci sono due elementi nei servizi sulle sciagure che spesso creano problemi: comunicare il numero delle vittime e contattare i loro

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parenti. Nelle primissime ore il calcolo delle vittime è una costante fonte di confusione. Nelle calamità naturali, come le inondazioni, le incertezze possono durare diversi giorni e, alla fine, la stima ufficiale si può rivelare grossolanamente imprecisa. In occasione del terremoto di Tokyo del 1923, ad esempio, il numero di vittime riportato dai giornali andava da 10mila a mezzo milione, per poi salire a un milione in soli tre giorni. Il totale ammontava effettivamente a circa 150mila e quando i giornali lo pubblicarono, si erano già spinti ad affermare che era in corso un’eruzione sul monte Fuji (non era vero), che un’isola nella baia di Sagami era stata sommersa dal maremoto (falso anche questo) e che il Primo ministro giapponese era stato ucciso da una folla inferocita (neanche questo era vero). Le prime stime del numero delle vittime sono spesso troppo ottimistiche o troppo pessimistiche. Purtroppo ci vuole del tempo per sapere quale dei due aggettivi è quello giusto. Comunque sia, con un po’ di fortuna, le autorità finiscono per accordarsi su un valore abbastanza credibile e realistico. In caso contrario, vi consiglio di prendere la cifra più bassa da una fonte di solito attendibile e dire «Almeno X persone sono morte a causa...», oppure la cifra più alta che si possa ritenere fondata e dire «Si teme che possano essere morte fino a X persone a causa...». Qualunque sia la soluzione a cui i giornali preferiscono ricorrere, l’uso della cifra più alta non deve mai essere un espediente per rendere il servizio più sensazionale. E poi controllate sempre esattamente come è stata calcolata. Si riferisce al numero dei corpi trovati o è una stima del bilancio definitivo? E il numero dei feriti comprende solo le persone ricoverate in ospedale? O tutti i feriti in generale, anche quelli meno gravi? Perfino le autorità più prudenti commettono gravi errori nel calcolo delle vittime. Il disastro ferroviario di Paddington a Londra del 5 ottobre 1999 ne è un classico esempio. Due treni si scontrarono nell’ora di maggiore traffico della mattina e fu subito chiaro che la situazione era molto grave. Nel giro di qualche ora

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la dinamica dell’incidente era stata ricostruita e si calcolava che il numero di vittime fosse vicino a 70. Poi cominciarono a circolare le sinistre voci della «palla di fuoco» che avrebbe investito quella che divenne tristemente nota come la vettura H, un vagone di prima classe situato nella parte anteriore del convoglio. Gli inquirenti fecero osservare che l’eventuale vampata avrebbe incenerito istantaneamente tutti i passeggeri della vettura. All’indomani della sciagura alcuni giornali davano una cifra di 70 o più vittime, che poi salì, secondo le dichiarazioni dei vigili del fuoco e della polizia, fino a «forse 170». Ma quando furono accuratamente ispezionati i rottami, si scoprì che nella vettura H non c’era traccia di resti umani carbonizzati e neanche di corpi senza vita. Né la polizia né i giornalisti si erano presi la briga di parlare con i sopravvissuti della vettura H per sapere quanti passeggeri ci fossero al momento del disastro. Poi si appurò che non c’erano tutti quelli che la vettura poteva contenere, ma soltanto una dozzina, che si erano salvati tutti. Nel giro di pochi giorni i morti accertati scesero a 35. ANNUNCIARE UNA MORTE Intervistare i parenti delle vittime è un compito che tutti i cronisti aborriscono. Se la pensate diversamente, forse non siete molto normali. La difficoltà, perlomeno dal punto di vista del cronista, è proporzionata al tempo trascorso da quando la famiglia ha saputo del fatto. Naturalmente è molto peggio dover telefonare o fare visita ai familiari in lutto poche ore dopo l’evento, piuttosto che quando è già passato qualche giorno dalla perdita del marito, della moglie, di un figlio o di una figlia. Negli Stati Uniti e nei paesi dove la polizia ha un controllo minore che in Europa sulla comunicazione ufficiale dei nomi delle vittime, può avvenire che vi troviate a intervistare una famiglia ancora ignara della perdita di uno dei suoi cari. Non è il caso di stupirsi se un cronista a cui è

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affidato questo sgradito compito fa finta di telefonare e poi dichiara che non ha risposto nessuno. Lo abbiamo fatto tutti. L’annuncio di una morte è uno di quegli aspetti del mestiere di giornalista che non può rientrare in schemi rigidi. Da una parte c’è chi sostiene che il pubblico ha il diritto di essere informato su tutti i particolari di un fatto, compreso qualche accenno dettagliato alla vita della vittima. Qualsiasi limite deve considerarsi come una manifestazione di eccessiva cautela. Insomma, se è indispensabile disturbare i familiari in lutto, dobbiamo farlo. Il più evidente caso di cinismo che io conosca è quello di Jim Richardson, capocronista del «Los Angeles Examiner». Secondo l’autobiografia del giornalista sportivo Jim Murray, una volta Richardson ordinò al cronista Wayne Sutton di chiamare la madre della vittima di un omicidio. «Non dirle che cosa è successo», gli intimò, «dille che sua figlia ha appena vinto un concorso di bellezza a Camp Roberts e fatti dare tutte le informazioni utili sulla ragazza». Sutton seguì le direttive ricevute e la madre raccontò con gioia la storia della vita di sua figlia. A quel punto Sutton coprì il microfono con la mano e chiese: «Adesso che faccio?». Richardson, con uno sguardo cattivo, gli mormorò: «Ora diglielo».

Un comportamento simile appartiene al museo degli orrori del giornalismo (maggiori dettagli sul caso li trovate infra, nel capitolo 12). All’estremo opposto si sostiene che ogni contatto con i familiari delle vittime è un’ingiustificata intromissione nella vita altrui e come tale va evitato. Secondo questo punto di vista, i cronisti devono limitarsi ad acquisire le informazioni fornite da fonti pubbliche e da quei privati che, pur conoscendo le vittime, non hanno lo stesso coinvolgimento emotivo dei familiari (ad esempio colleghi di lavoro e vicini di casa). A mio avviso il giornalista intelligente e professionale avvicina la famiglia con discrezione e le offre l’opportunità di parlare. Dopotutto perché dovremmo impedire ai familiari di poter leggere,

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forse solo una volta, il vivido racconto della vita di chi hanno perduto, invece di un semplice nome in un elenco di vittime? E poi un approccio sensibile sarà spesso bene accetto. Molti familiari vogliono sentire che la persona cara perduta ha avuto una vita degna di essere raccontata e, per loro, parlare con i media è anche un modo per comunicare con il mondo esterno, dividendo con altri il loro dolore. Nella loro situazione anche parlare con un cronista è un mezzo per alleviare la sofferenza. Il cronista del «Daily Mirror» Derek Lambert ha scritto nelle sue memorie: Ogni volta che ho fatto visita a un genitore straziato dal dolore o a una vedova inconsolabile, sono stato accolto in casa molto bene. Hanno tirato fuori gli album di fotografie – un ragazzo con i calzoni corti, un soldato dal ghigno fiero che esibisce con orgoglio la sua divisa – e subito sono sgorgati i ricordi. Non ero ancora uscito dal cancello del giardino quando ho sentito che ero io ad aver voglia di piangere.

La regola d’oro è l’immedesimazione, un atteggiamento che è al centro degli ottimi consigli espressi dal Victims and Media Center presso la Scuola di giornalismo dell’Università del Michigan. Il Centro dà i seguenti suggerimenti ai cronisti che devono intervistare la famiglia di una vittima: – Date alle famiglie delle vittime l’impressione che siano loro a controllare la situazione. Chiedete loro di avvertirvi quando intendono dire qualcosa che non vogliono sia pubblicato. Date loro il vostro numero di telefono, sottolineando che possono chiamarvi per parlare dell’articolo. – Introducete subito l’argomento del diritto alla privacy e alla riservatezza. Spiegate di che cosa avete bisogno, con chi intendete parlare e per quanto tempo. – Preparatevi a dover comunicare cattive notizie: se non proprio l’annuncio della morte, quantomeno certi aspetti che i familiari ancora non conoscono. – Al primo incontro non vi presentate con il taccuino in mano,

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ma chiedete il permesso di prendere appunti. Chiedete anche se potete usare il registratore. – Mostratevi partecipi della loro sofferenza con una frase come «Mi dispiace che si sia trovato in una brutta situazione», oppure «Sono felice che si sia salvato», o anche «Non è certo colpa sua», «Sono addolorato per la sua perdita». Nell’ultimo caso vi scongiuro di non pronunciare mai una frase come «So bene come si sente in questo momento». È molto improbabile che sia vero. Ad alcuni professori dell’Università del Michigan è stato raccontato di un giovane cronista che, intervistando un uomo la cui figlia era stata stuprata e uccisa, ha detto «So bene come si sente in questo momento: mi ricordo quando è morto il mio cane». Non è certo di grande conforto per un uomo che ha appena perduto la sua unica figlia. Infine, se il vostro primo contatto è telefonico, ecco un suggerimento per affrontare un’eventuale reazione rabbiosa o incontrollata. È di Edna Buchanan, ex giornalista di cronaca nera del «Miami Herald», vincitrice di un premio Pulitzer. Nei suoi diciotto anni di lavoro al giornale, ha trattato più di 5mila casi di morte violenta e diverse volte le famiglie delle vittime le hanno riattaccato il telefono. La sua strategia era quella di aspettare 60 secondi e poi ritelefonare. Spesso la persona chiamata aveva cambiato atteggiamento oppure chi rispondeva era un altro componente della famiglia, più disponibile. «Parla Edna Buchanan dalla redazione del ‘Miami Herald’, diceva, dev’essere caduta la linea». E aggiunge ancora: È molto importante dare loro modo di riflettere, perché potrebbero essersi subito pentiti di aver riagganciato oppure qualcuno presente potrebbe aver detto «Avresti dovuto parlare con quella giornalista». Se riattaccano di nuovo, non provo un’altra volta. Comunque in oltre la metà dei casi riattaccano anche al secondo tentativo.

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I GIORNALISTI SONO DEI DURI, VERO? Infine, come pensate che se la caverebbero la maggior parte dei cronisti se fossero coinvolti in un grave incidente? Tutti li ritengono duri come la pietra. Cinici, freddi, calcolatori e forse anche un po’ crudeli; quel tipo di persone che possono guardare un cadavere negli occhi sorridendo. In pratica come Ben Hecht, coautore del copione di Prima pagina e cronista del «Chicago Daily News». Alla fine degli anni Dieci e negli anni Venti Hecht si occupò delle più sordide storie di malavita che la ruggente città dei gangster potesse offrire. Le sue specialità erano l’obitorio, le irruzioni della polizia, le aule di tribunale e le celle dei condannati a morte; conversava quotidianamente con assassini ed emarginati, psicopatici e pervertiti. Aveva visto tutto ciò che la feccia di Chicago poteva fare, riuscendo sempre a non perdere il controllo della testa e dello stomaco, fino al giorno in cui assistette al processo di un uomo che aveva massacrato tutta la sua famiglia. Era un caso come tanti altri agli occhi di Hecht, che, seduto nell’affollato settore stampa, osservava l’assassino, un uomo gigantesco, impassibile di fronte al giudice che stava emettendo la sentenza. Quando con tono pacato il giudice lo condannò a morte per impiccagione, il gigante uscì dal suo apparente torpore, gridò «Vuoi farmi impiccare, eh?!», tirò fuori dalla giacca un lungo coltello da macellaio e lo affondò nel cuore del giudice, che cadde riverso privo di vita. Un silenzio attonito piombò sull’aula. Tutti, compreso il duro Hecht, erano agghiacciati, o meglio, tutti fuorché il giovane cronista di un giornale concorrente, l’«Inter-Ocean». Hecht lo vedeva scrivere freneticamente, l’unico fra 30 cronisti ad avere i nervi tanto saldi da non farsi distrarre dal suo lavoro. Buttò giù ancora qualcosa, poi chiamò «Fattorino!» e un giovane si affrettò a ritirare lo scoop di varie paginette per dettarlo al telefono. Tempo dopo Hecht ricordava: «Nessuno di noi in aula aveva quel briciolo di lucidità necessario per scrivere almeno una parola, eravamo paralizzati dall’accaduto. Eppure quel ragazzo con i

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nervi di acciaio dell’‘Inter-Ocean’ non si era mai interrotto un attimo. Dovevo scoprire che cosa aveva scritto». E infatti Hecht rincorse il fattorino, lo bloccò e s’impadronì delle pagine, sulle quali erano scritte da una mano tremante e ripetute più volte le parole: «Il giudice è stato pugnalato, il giudice è stato pugnalato, il giudice è stato pugnalato...». Quando sentite un giornalista definire «inquietante» qualcosa, non dovete prenderlo sul serio. Kenneth Robinson

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Errori, rettifiche e bufale

Sarebbe bene che un direttore dividesse il suo giornale in quattro sezioni, così intitolate: «Verità» la prima, «Probabilità» la seconda, «Possibilità» la terza e «Bugie» la quarta. Thomas Jefferson

C’era una volta qualche giornale che non commetteva errori. Sembra l’inizio di una favola e lo è. I giornali hanno sempre commesso errori, ma non lo ammettevano, perlomeno non fin quando vi fossero costretti dagli avvocati. Per decenni la stampa scelse di mentire con disinvoltura piuttosto che perseguire la verità a tutti i costi. Questa presunzione di infallibilità era un assurdo. Le cronache imprecise hanno fornito (e ancora forniscono) milioni di particolari sbagliati, tanti resoconti non veritieri e non pochi servizi clamorosamente fasulli. Il 15 aprile 1912, ad esempio, il «Baltimore Evening Sun» ne pubblicò uno intitolato Tutti salvi i passeggeri del Titanic. Il 3 novembre 1948, il «Chicago Daily Tribune» annunciò Dewey sconfigge Truman e, nel maggio del 1983, il «Times» dedicò tutta la prima pagina a un servizio intitolato Presto resi pubblici i diari segreti di Hitler. Come tutti vennero a sapere poco dopo la pubblicazione di questi articoli, nel disastro del Titanic morirono 1500 persone, Harry Truman sconfisse Dewey e i famigerati «diari» non erano stati scritti da Hitler, ma da un imbroglione tedesco di nome Konrad Kujau.

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Ai nostri giorni i maggiori giornali ammettono di avere sbagliato e rettificano gli errori prima possibile. Del resto gli articoli sono scritti da esseri umani non infallibili, in tempi molto ristretti e senza accesso a tutte le fonti. Con tali premesse qualche errore è inevitabile. Possiamo distinguere sei categorie di errori: – Errori nei dettagli: nomi, età, indirizzi ecc. – Errori nel contenuto: parti non vere in un resoconto per altri versi corretto. – Bufale e invenzioni: tutto il servizio è inventato di sana pianta. – Errori nel contesto: informazioni di sfondo talmente imprecise o lacunose da falsificare l’intero servizio. – Errori di omissione: la mancanza di una parte, che altera il senso del servizio. – Errori di interpretazione: due più due fa cinque. I giornali di qualità come il «Chicago Tribune» hanno anche un sistema per rilevare gli errori, registrarli e tentare di rintracciarne l’origine, intervenendo sulla fase in cui si sono verificati. I giornali di questo livello hanno imparato molto su come nascono gli errori e su chi li commette. Ad esempio sanno che i maggiori responsabili sono i cronisti: ricerche svolte dal «Guardian» e dal texano «Fort Worth Star-Telegram» hanno rivelato che metà degli errori pubblicati sono opera di questi ultimi, mentre ai redattori va attribuito un errore su cinque. Questa analisi è molto importante per i giornali e ancor più per i singoli giornalisti, se si considera che niente distrugge la reputazione di un cronista più in fretta (o più radicalmente) della fama di essere uno che si sbaglia facilmente. I cronisti che credono seriamente di non rientrare in questa categoria dovrebbero comprendere bene due cose: prima di tutto che la precisione degli articoli che scrivono deve essere garantita da loro stessi e non rimessa per competenza al capocronista o al redattore; in secondo luogo che devono esercitarsi a capire da che cosa derivano gli errori, per imparare a superare ogni potenziale agguato quasi per istinto. A questo fine non basatevi solo sui vostri

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errori, ma anche su quelli degli altri. Se vedete una rettifica in un giornale, provate a immaginare come possa essere nato l’errore. ERRORI Ci sono undici cause principali degli errori negli articoli e sono descritte qui di seguito. Erronee informazioni acquisite dalle fonti Si dice comunemente che con dati semplici come i nomi, le date e le età non ci sia modo per ovviare alle informazioni sbagliate. Non sono d’accordo. Si può sempre effettuare un riscontro, interrogarsi se la fonte è davvero in condizioni di fornire dati sicuri, controllare se l’informazione contenga espressioni che fungono da spia di un’incertezza («Credo che...», «...probabilmente...», «Mi hanno detto che...») e chiedersi se il dato sembra plausibile. Spesso basterà una breve riflessione per concludere che non lo è. Un comportamento sbagliato che può essere causa di errore è quello di presentare un’informazione ricevuta da una fonte specifica (spesso in una situazione di elevata incertezza) senza sottolineare che è una semplice opinione e senza fare espressa menzione della fonte stessa. Il grave errore a proposito del Titanic si verificò perché i giornali dettero per sicure le affermazioni della compagnia White Star Line, proprietaria della nave, senza chiarire che era quella particolare fonte ad affermare che tutti i passeggeri erano salvi. Appunti carenti Degli appunti confusi – scritti sia stenograficamente in modo incerto sia per esteso con una grafia indecifrabile – spesso si traducono in articoli confusi. Dedicate un po’ di tempo a migliorare la vostra scrittura, normale o stenografica. E non provate a indovinare che cosa intendevano dire le fonti, tornate a chiederglielo.

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Vedrete che quasi nessuno si seccherà, come invece pensavate. Comunque prendete l’abitudine di chiedere che i nomi siano verificati a voce lettera per lettera o messi per iscritto. Mancata verifica dell’attendibilità delle fonti Di frequente una fonte dichiara qualcosa che contraddice un’altra fonte precedente. Verificate le affermazioni anche due o tre volte, se necessario. Lo stesso vale per l’acquisizione di dati dai documenti. Perdere qualche minuto a riscontrare l’esattezza di cifre e nomi che avete copiato vi farà evitare sofferenze indicibili. Riluttanza a verificare i fatti «sensazionali» e il loro svolgimento Nella cultura del giornalismo c’è una corrente di furbi che sconsiglia ai cronisti di andare troppo a fondo nei dettagli più scabrosi di una notizia, per timore che qualcuno li smentisca o cerchi di minimizzarli. Questa pericolosa follia va contro l’esperienza, consolidata da generazioni di giornalisti, secondo la quale ben poche notizie sono chiare e immediate, nettamente bianche o nere o così scabrose come sembrano a prima vista. Se non siete nati con una vena di sano scetticismo, fate in modo di acquisirla. Mancata rilettura dell’articolo appena scritto Tutti facciamo errori di battitura quando lavoriamo in fretta, anche perché in testa abbiamo anche altri «fatti» che non sono contenuti nei nostri appunti. Quindi è bene procedere a una rilettura di controllo per correggere eventuali errori materiali, oltre che per ritoccare l’esposizione e considerare l’opportunità di qualche taglio. Avventatezza nel trattare certi dubbi come infondati Ogni cronista esperto sa che avere tra le mani un servizio «sensazionale», di quelli con grossi titoli, comporta anche una certa ansia. Ci sono fatti che non sembrano veri, che contrastano con la vostra esperienza ecc. Non commettete l’errore di partire alla ca-

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rica per paura che l’eccessiva cautela vi derubi delle glorie della prima pagina, e invece date ascolto ai vostri dubbi: in molti casi si riveleranno fondati. Non pochi dei miei errori sono stati commessi dall’esibizionismo del mio ego, che ha voluto ignorare i saggi dubbi del piccolo giornalista di buon senso che ho dentro. Omissione di fatti che non concordano con un’ipotesi precostituita (o troppo affrettata) Farsi un’idea preconcetta di una certa situazione prima di conoscere tutti i fatti (anche se non si arriva mai a conoscerli davvero tutti) è una delle grandi trappole che un giornalista deve cercare di evitare costantemente, una minaccia sempre presente nei servizi su importanti eventi tragici, per i quali è urgente fornire sia un resoconto in apparenza onnisciente sia una spiegazione adeguata dei fatti. Un caso classico è stato quello della rivolta nella prigione di Strangeways, esposto nel capitolo precedente. Eccessiva fretta di pubblicare Questo è l’errore che fu commesso con i presunti diari di Hitler. L’ansia di tutelare un’esclusiva (aggravata dall’opinione di News International, l’agenzia di stampa di Rupert Murdoch, secondo cui l’obiettivo del giornalismo, in fondo, è l’intrattenimento, non riportare la verità dei fatti) portò a pubblicare la notizia prima che fossero eseguite tutte le verifiche che un caso del genere avrebbe richiesto. Il timore di perdere lo scoop spinse Murdoch ad approvare la pubblicazione a dispetto dei dubbi espressi da alcuni dei giornalisti di maggiore esperienza del «Sunday Times». Il trabocchetto della pubblicazione affrettata di un articolo che rivela molto di più di quanto non sia effettivamente provato è all’origine di gravi errori in servizi importanti o meno. La morale è ovvia: pubblicate solo quello di cui siete certi. (Faccio notare che non ho incluso nell’elenco le voci «stanchezza» e «inesperienza», in quanto ritengo che vadano annoverate non tra le cause degli errori, ma tra i fatti che li giustificano.)

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Mancata verifica dei dettagli tecnici con gli esperti Un giovane cronista senza troppa esperienza intervista un famoso esperto su una complicata questione medica o scientifica. Secondo voi, prima di pubblicarlo manda il suo pezzo all’esperto per verificare che sia corretto? In Inghilterra non lo fa. In questo paese, prendere una precauzione così elementare è considerato un segno di debolezza; nel primo giornale per cui ho lavorato, se si mostrava l’articolo alla fonte si rischiava addirittura di essere licenziati. Questa politica non mi è mai piaciuta. E così, negli ultimi anni ho preso l’abitudine di mandare il pezzo finito via e-mail alla fonte che mi aveva fornito più informazioni. (Se avevo fretta, le telefonavo e gliene leggevo una parte.) Qual è stato il risultato di questa mia iniziativa? Persone così piacevolmente sorprese che sono diventate contatti utili per sempre, molti errori eliminati e la pubblicazione di una versione più corretta. La maggior parte dei grandi giornalisti specializzati usa la stessa tecnica. Eccessiva fiducia nel materiale d’archivio I giornalisti attingono al materiale d’archivio più di quanto vogliano ammettere, e un errore commesso da un cronista può riprodursi per anni come un virus recidivo. Facciamo un esempio: nel 2003, il quotidiano «Virginian-Pilot» ha pubblicato una correzione del suo articolo originario sul primo volo dei fratelli Wright. Il pezzo del 1903 conteneva ben 33 errori, parecchi dei quali, immagino, erano stati ripetuti negli anni dai cronisti che consultavano i ritagli del «Virginian-Pilot». I giornalisti commettono errori perfino quando parlano dei loro colleghi. Per il mio libro Tredici giornalisti quasi perfetti, prima di intervistare una famosa giornalista ho fatto qualche ricerca su di lei, e ho preso una serie di appunti da un suo profilo pubblicato poco tempo prima da un giornale. Sono andato in una biblioteca dove sapevo di poter trovare i suoi articoli del passato, e anche lì ho trovato una copia di quel profilo. Acclusa c’era una lettera scritta da lei in cui faceva notare 12 errori. Me

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li sono appuntati e, dopo averla incontrata, le ho mandato una copia del mio pezzo. Ha trovato altri quattro errori, che ho puntualmente corretto. Perché mai questo dovrebbe essere un segno di debolezza? Non stiamo chiedendo alle nostre fonti di «approvare» l’articolo, come spesso pretendono, e vergognosamente ottengono, di fare le star del cinema. Stiamo semplicemente includendole nel processo di raccolta delle informazioni. E naturalmente saremo noi, non loro, ad avere l’ultima parola. Errori di redazione Non tutti gli errori dipendono dai cronisti. Anche i redattori, i responsabili delle pagine e i capocronisti possono introdurre errori. Per esempio, un paio di anni fa, il corrispondente da Berlino del mio giornale domenicale londinese scrisse un articolo sui lavori in corso allo stadio che aveva ospitato le Olimpiadi del 1936 in cui, tra le altre cose, diceva che su quella pista Jesse Owens aveva vinto quattro medaglie d’oro. Lo mandai in redazione, dove fu impaginato e furono corrette le bozze. Fino a quel momento era andato tutto bene. Poi un redattore del turno di notte alla ricerca di qualcosa da fare, decise di «migliorare» il pezzo, nel quale alla fine si leggeva: «...dove la velocista Jesse Owens vinse quattro medaglie d’oro...». Alcuni degli errori più spettacolari nati in redazione riguardano le fotografie. Nel 2003, fu necessario ritirare tutte le copie del «Newbury Weekly News», un settimanale locale del sud dell’Inghilterra, perché all’articolo su un prete accusato di pornografia infantile era stata affiancata la foto di un altro religioso assolutamente innocente. Quando si ha a che fare con nomi poco familiari il rischio di errori è sempre dietro l’angolo, come dimostrano le scuse che una volta dovette presentare il periodico «Pasack Valley Community Life» negli Stati Uniti: «Nel numero della settimana scorsa, abbiamo pubblicato la fotografia di una serie di piatti esotici offerti durante una festa alla Westwood Library [...]. Al centro della foto c’era Mai Thai Finn e per errore abbiamo in-

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serito il suo nome tra le voci del menù [...]». La gaffe peggiore che abbia commesso l’«Independent on Sunday» da questo punto di vista fu quando prese una presunta fotografia di Gandhi e la pubblicò con il suo nome. Peccato, però, che la foto non fosse quella del grande politico indiano, ma dell’attore Ben Kingsley che lo aveva interpretato in un film. Ma per uno di quei casi da «cuore in gola» e «per fortuna che non l’ho fatto io», dobbiamo citare lo scozzese «Southern Reporter». Questo particolare disastro nacque dalla malsana abitudine dell’impaginatore di mettere una frase scherzosa al posto delle didascalie, dando per scontato che un collega l’avrebbe sostituita con qualcosa di più adatto prima che la pagina andasse in stampa. In quella particolare occasione, le cose non andarono così. Il giornale pubblicava la fotografia di un gruppo di partecipanti a una cerimonia tradizionale scozzese, e sotto c’era scritto: «Chi sono questi fessi bigotti? Che diavolo stanno facendo? Se vuole rimanere sana di mente questa gente dovrebbe uscire un po’ di più all’aria aperta». Il redattore fu licenziato. Poi ci sono le idiozie dei titolisti. Alcune nascono dal fatto che non si rendono conto delle implicazioni delle parole che usano (Evaso con una gamba sola ancora in fuga – «The Australian»; L’uomo caduto nel Tamigi beveva – «Reading Chronicle»; Scomparso il campione di diete dell’anno – «Daily Mail»); altre tradiscono un talento quasi sovrumano per affermare l’ovvio (Festa interrotta dall’omicidio di una donna – «Mooresville Tribune», North Carolina; e Alcuni adolescenti sono ribelli – «Washington Post»). Ma, in generale, gli errori di redazione sono molto meno comuni di quelli dei giornalisti, che i lettori non arrivano quasi mai a vedere perché li notano prima i revisori. A volte è impossibile individuarli, come nel caso di una brutta frase del «New York Times» che conteneva ben cinque errori. Il mio esempio preferito è la rettifica pubblicata da un giornale di Newcastle, nel nord dell’Inghilterra, a proposito di un articolo su una donna morta di una malattia rara. Eccone una parte:

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Vorremmo precisare che la donna non era andata dal suo medico per mostrargli una macchia sulla gamba e che lui non le aveva prescritto un antidolorifico. Non era tornata dal medico per una seconda visita, né era stata portata in ospedale il 26 ottobre. Non era andata al pronto soccorso per un intervento d’urgenza e la sua morte non è dovuta a un collasso degli organi vitali. Inoltre, suo padre non ha 45 anni ma 52, sua madre ne ha 46 e non 50 e sua sorella 26 e non 27.

Per finire, ecco un articolo illuminante dedicato ai cronisti convinti che le prediche sull’importanza della precisione sono esagerate. Apparso nel «C-Ville Weekly», un rotocalco che circolava a Charlottesville, in Virginia, parlava della scoperta, compiuta da una cliente, di un finto specchio montato nello spogliatoio delle donne di una palestra. Il giornale pubblicava anche fotografie e schemi grafici dettagliati. L’articolo proseguiva (attraverso la citazione dei pareri di uno psicologo) con un disinvolto esame delle possibili motivazioni di chi aveva installato quella specie di buco della serratura. Fortunatamente la notizia si rivelò vera in ogni dettaglio, perché cinque giorni dopo la pubblicazione il proprietario della palestra fu trovato morto in un parco cittadino: si era suicidato. Se l’articolo si fosse rivelato più o meno impreciso, il fatto avrebbe avuto impensabili ripercussioni sul cronista. Questo esempio deve servire a ricordarvi che farete bene a scrivere sempre cose esatte, nell’impossibilità di sapere quali effetti possano sortire i vostri articoli. COME REAGIRE AGLI ERRORI? «Con rapidità e schiettezza» è la risposta al titolo di questo paragrafo, e vale ancora di più se, come spesso avviene, siete i primi a rilevare l’errore. Agite in fretta: potreste essere ancora in tempo per correggere l’errore prima che l’articolo venga pubblicato oppure, nei giornali più grandi, tra un’edizione e l’altra. E anche se è troppo tardi, una pronta ammissione (risalendo, se l’errore è

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particolarmente grave, alla fonte coinvolta) mitigherà le conseguenze legali per il giornale e personali per voi. L’esperienza mi ha insegnato che, se l’errore non è troppo grossolano, i giornalisti che dichiarano pubblicamente le proprie responsabilità escono dall’incidente con la reputazione molto meno danneggiata di quelli che rimangono nell’ombra, in attesa di vedere se saranno smascherati. Sono questi ultimi che poi vengono cacciati via. Se il reclamo proviene dall’esterno, la prima cosa da fare è controllare che sia realmente un errore. Spesso le fonti provano a confondere le acque, in special modo quelle che hanno avuto problemi con le organizzazioni di cui fanno parte per aver parlato chiaramente con voi. Molte accuse, soprattutto quelle di aver alterato il senso di un’affermazione, finiscono per rivelarsi come tentativi da parte di una fonte di non farsi scoprire. Una volta accertato l’errore, è auspicabile una pronta rettifica, che deve avere sempre la stessa collocazione. Alcuni giornali, come il «Mobile Register» in Alabama, pubblicano tutte le rettifiche in prima pagina. Il «Plain Dealer» di Cleveland mette la rettifica nel punto più vicino possibile a quello in cui è stato pubblicato l’errore inizialmente e la richiama in un indice in seconda pagina. L’«Augusta Chronicle» fa lo stesso e, quindi, se l’errore è in prima pagina la rettifica viene pubblicata lì. Tali scelte non costituiscono un’ammissione di debolezza, ma una semplice questione di onestà e di corretta informazione del lettore. (L’altro elemento che rende efficace una rettifica è la sua prontezza, tuttavia in qualche caso i giornali non si sono lasciati scoraggiare dal tempo intercorso. Nel 1920 il «New York Times» ridicolizzò pubblicamente il professor Robert Goddard, il padre delle esplorazioni spaziali, per aver affermato che i razzi potevano funzionare anche nel vuoto. Circa 49 anni dopo, quando l’Apollo 11 portò i primi uomini sulla Luna, lo stesso giornale pubblicava queste parole: «Ormai è ufficialmente dimostrato che un razzo può funzionare anche nel vuoto. Il ‘Times’ si scusa del suo errore». Il primato comunque spetta all’«Observer» di Londra

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che, avendo pubblicato, 199 anni prima, la notizia della morte di Mozart riferendola al 5 dicembre 1791, all’inizio del 1991 corresse la data in 3 dicembre.) L’onestà non è il solo motivo della rettifica degli errori. Anche il desiderio di evitare un provvedimento giudiziario costituisce una valida spinta alla pronta rettifica. Qualche anno fa su un giornale irlandese è apparso questo annuncio: «Nel ‘Sunday Press’ del 18 marzo 1990 una fotografia del parlamentare Proinsias De Rossa è stata pubblicata con la didascalia ‘Probabile mostro’, invece di quella corretta ‘Probabile ministro’». Analogamente un giornale locale inglese ha corretto il titolo di una cronaca giudiziaria da Padre colpisce con una testata suo figlio in Padre colpisce con una testata l’aggressore di suo figlio. E sentite questa dell’«Austin American-Statesman»: «I membri del gruppo musicale Raging Saint basano le loro canzoni sui princìpi morali dei cristiani rinati. Non sono ‘fanatici estremisti’ come abbiamo pubblicato nella rubrica Nightlife venerdì scorso». Leggendo queste rettifiche, si percepisce in lontananza il timore di una citazione in tribunale. Senza dubbio i direttori che hanno disposto la loro pubblicazione sapevano bene che una veloce rettifica può evitare un processo per diffamazione o perlomeno fornire un buon elemento di difesa in una causa ormai avviata. Nel 1987 Gilbert Cranberg, ex editorial page editor del «Des Moines Register», esaminando 164 denunce per diffamazione, ha scoperto che quasi tutti i ricorrenti non chiedevano un risarcimento in denaro ma una rettifica, e che avevano adito le vie legali solo davanti all’inerzia del giornale nell’apportare la correzione. Comunque le rettifiche, a meno che non siano imposte in via legale, devono semplicemente ricordare l’errore e correggerlo. Non c’è bisogno che vi fustighiate, promettiate di non farlo più, o vi diffondiate a spiegare che quella sera il redattore titolare non era in servizio e il suo sostituto non si sentiva bene. Alcuni, come l’«American Lawyer», pubblicano i nomi del cronista e del redattore autori dell’errore. Altri al contrario, come il «San Jose

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Mercury News», hanno eliminato la menzione dei responsabili sostituendola con frasi generiche come, ad esempio, «a causa di un errore nella composizione» ecc. Non dimentichiamo che c’è un limite di buon senso alle rettifiche. Per esempio, il giorno seguente alla pubblicazione della recensione di un nuovo film di cartoni animati, il «Boston Globe» riportò la seguente rettifica: «Nella recensione di ieri, alcune battute di Gatto Silvestro sono state erroneamente attribuite a Daffy Duck». Concludendo, gli errori materiali sono facili da correggere, quelli di altro tipo un po’ meno. Molte proteste ai giornali lamentano la mancanza o l’inadeguatezza del contesto, o di un elemento particolare che altera il senso complessivo dell’articolo o il suo significato apparente. Generalmente nei giornali gli errori di questo tipo trovano spazio nella posta dei lettori o, più di rado, nelle rubriche di commento. A tale scopo il «New York Times» pubblica una Nota redazionale che «serve ad approfondire gli articoli o a rettificare quegli elementi che, a giudizio della redazione, ne alterino l’esattezza, l’equilibrio e la prospettiva». Ogni anno ne pubblica circa 25, che sono, in effetti, un utile strumento degno di essere imitato in misura maggiore. FAMOSE BUFALE SUI GIORNALI Nel 1976 sul «Village Voice» di New York apparve il seguente annuncio: Casa d’appuntamenti per cani offre una stuzzicante selezione di cagne in calore. Esemplari di razza (Fifì, la barboncina francese) e bastardine (Lilla, la vagabonda). Servizio di istruttore e veterinario. Disponibili su richiesta servizio di monta e fotografico. Tipi strani astenersi. Solo per cani. Per appuntamento. Chiamate 2547878.

Quello stesso giorno fu rilasciato dal bordello per cani un comunicato stampa e, mentre si moltiplicavano gli articoli sull’ar-

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gomento, il sedicente bordello ricevette una marea di telefonate da parte di proprietari di cani (e anche di qualche tipo strano). L’emittente Abc iniziò le riprese per un documentario, arrivarono varie richieste di visite e la faccenda cominciò a crescere a dismisura. L’equivalente americano della Protezione animali invocò la chiusura del bordello e altrettanto fecero l’Ufficio diritti degli animali, la buoncostume, la segreteria del sindaco e varie istituzioni religiose e morali. La controversia fu seguita dai giornali con un certo compiacimento. Il Procuratore generale degli Stati Uniti emise un mandato di comparizione ai danni del titolare del bordello per gestione illegale di un postribolo per cani. A quel punto l’uomo dietro tutta la faccenda, un certo Joey Scaggs, si fece avanti e rivelò che era soltanto uno scherzo. Tentativi del genere di farsi beffe della stampa non sono affatto rari come credono i giornalisti. Un vasto assortimento di prostitute, anarchici, cercatori d’oro e burloni ha prodotto una lunga casistica di storie fasulle che sono riuscite ad approdare sulle pagine dei giornali. I documenti contraffatti ci sono riusciti molto spesso: i diari di Hitler hanno ingannato il «Times», il «Sunday Times», la rivista «Stern» e altri; le memorie di Howard Hughes (in realtà scritte da Clifford Irving) furono un raggiro che costò 250mila dollari alla rivista «Life»; le lettere di Parnell, nelle quali il leader irlandese dichiarava di approvare gli omicidi politici, furono una vera umiliazione per il «Times» quando si dimostrò che le aveva scritte un certo Pigott in cambio di una somma di denaro. La lettera di Grigorij E. Zinov’ev, che dipingeva il Partito laburista come un paravento di Mosca, fu un ghiotto boccone per il «Daily Mail», che la pubblicò il giorno delle elezioni del 1924; ma era un falso. Questi sono esempi molto conosciuti, ma ci sono altre invenzioni che meritano un’eco maggiore presso il pubblico. Lo scarafaggio anti-radiazioni Una volta il dottor Joseph Gregor, un entomologo di fama mondiale, si rivolse all’agenzia United Press International e le fece cre-

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dere di aver prodotto una specie di scarafaggi a prova di radiazioni nucleari: gli ormoni estratti dall’insetto guarivano l’artrite, l’acne, l’anemia e proteggevano gli esseri umani dalle radiazioni. La notizia che ne risultò, Scoperto ormone di scarafaggio con effetti miracolosi, fu diffusa dall’Upi in tutto il mondo. Naturalmente il dottor Gregor altri non era che Joey Scaggs, l’inventore del bordello per cani. Il quartetto d’archi in topless Nel 1967 buona parte della stampa statunitense fu gabbata dalle voci dell’imminente tour di un gruppo musicale di ragazze francesi a seno nudo. L’ispiratore di questa sciocchezza fu un certo Alan Abel, il quale emise dei comunicati stampa per spiegare che le musiciste dovevano suonare senza l’ingombro degli abiti per poter produrre «melodie pure e libere». Aveva anche ingaggiato quattro modelle perché posassero per la pubblicità in abito bianco. Quando i giornali pubblicarono la notizia, arrivarono diverse proposte di ingaggio per spettacoli musicali e la casa discografica di Frank Sinatra offrì addirittura un contratto al gruppo. Le prime predicazioni di Gesù Nel maggio del 1991 il «Financial Times» pubblicò un lungo articolo sulla scoperta di quello che sembrava il primo testo esistente delle predicazioni di Gesù. Solo dopo la pubblicazione il giornale si rese conto che il nome dello scopritore del prezioso reperto, Batson D. Sealing, era quello di un noto falsario di testi antichi. L’Associazione contro l’indecenza degli animali nudi Fra le numerose bufale perpetrate da Alan Abel, questa fu una di quelle più elaborate che i giornali pubblicarono. L’Associazione contro l’indecenza degli animali nudi fu inventata da lui nel 1959:

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assunse un attore disoccupato di nome Buck Henry perché impersonasse l’immaginario fondatore dell’associazione, G. Clifford Prout Junior, poi apparve in un popolare programma della Nbc per chiedere vibratamente che tutti gli animali di altezza superiore ai dieci centimetri fossero vestiti secondo i dettami della decenza. Intanto Abel finanziava picchetti che manifestavano davanti alla Casa Bianca e organizzava perfino una linea telefonica con un centralino che raccoglieva le telefonate. Molti giornali pubblicarono ampi servizi in cui spiegavano che l’Associazione era stata costituita con il denaro lasciato a Prout da suo padre. Questo richiamò l’attenzione delle autorità erariali e l’ufficio delle imposte competente scrisse a Prout contestandogli il mancato pagamento delle tasse dovute. Non ricevendo risposta, fecero visita agli uffici dell’Associazione, ma trovando solo un ripostiglio per le scope, si resero conto che era una burla. Buck Henry poi prese la via del successo, prima con un ruolo in una soap opera e in seguito lavorando come attore o sceneggiatore in popolari serie televisive e in film di qualità come Get Smart, Comma 22, Il laureato, Da morire. La Squadra antigrasso Nel 1983, John Corr del «Philadelphia Inquirer» ricevette un comunicato stampa su un gruppo di teppisti chiamati la Squadra antigrasso, che venivano assunti dagli obesi per impedire loro fisicamente di mangiare troppo. Corr chiamò l’uomo che veniva indicato come il suo manager, Joe Bones, e pubblicò la notizia, poi ripresa da molti altri giornali. L’apice della bufala fu la comparsa di Joe Bones e della sua squadra al programma dell’Abc Good Morning America. Ma poi si scoprì che Bones in realtà si chiamava Joey Scaggs e non era la prima volta che faceva scherzi del genere. Alcuni cronisti, tuttavia, si informano meglio prima di scrivere un articolo. Una delle invenzioni di Alan Abel fu la «Ku Klux Klan Symphony Orchestra», un gruppo del KKK che si era mes-

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so a suonare il violino nel tentativo di migliorare l’immagine dell’organizzazione. Ma la cronista dell’«Arizona Republic» Julia Lobaco fiutò subito lo scherzo. L’estinzione delle bionde Nel 2002, la Bbc, le affiliate della Nbc, i rotocalchi nazionali inglesi e molti altri giornali del mondo diffusero la notizia che il gene responsabile dei capelli biondi si sarebbe estinto entro il 2022. Questa previsione veniva attribuita all’Organizzazione mondiale della sanità, o a un gruppo di «esperti tedeschi». L’Oms smentì di avere a che fare con questa storia (e ne fece notare l’idiozia dal punto di vista scientifico), e naturalmente gli «esperti tedeschi» erano anonimi e irrintracciabili. Probabilmente si trattò di uno scherzo o dell’errore irresponsabile di una piccola agenzia di stampa. Queste bufale riuscirono semplicemente perché non furono verificate le notizie e vennero presi per buoni i comunicati stampa o le informazioni di nuove fonti «affidabili». Per impedire la pubblicazione di certi falsi basterebbe non lasciare che l’ansia di aggiudicarsi il servizio ci convincesse a ignorare le semplici precauzioni di fare qualche domanda in giro e bussare a qualche porta. Le bufale funzionano soprattutto con i cronisti che non escono mai dalla redazione. Le somme di denaro pagate per i servizi da alcuni popolari rotocalchi sono così elevate (il «Sun» spende milioni di sterline l’anno per compensi alle fonti e ai freelance) che hanno permesso a qualcuno di guadagnarsi da vivere facendo delle truffe ai giornali una professione. Uno dei più bravi probabilmente è stato uno stuntman cinematografico di nome Rocky Ryan, alias Major Travis, Peter Bernstein, David Oppenheimer, Rocco Salvatore o un altro dei nomi falsi che usava regolarmente. Questo signore ha venduto a «People» (un quotidiano domenicale rivolto al grande pubblico) una storia di sesso e orge a base di droga tra i partecipanti a una spedizione sull’Himalaya; ad

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altri media la notizia che Gorbacˇëv si era dimesso, due anni prima che lo facesse davvero (con la conseguenza che le borse straniere persero milioni di dollari), e un’altra notizia sul nazista Martin Bormann, che, vivo e vegeto, si era ritirato in un kibbutz in Israele. Ovviamente nessuna di quelle notizie era vera. È anche riuscito a intascare 18mila dollari raccogliendo la presunta trascrizione di una conversazione telefonica fra il principe Carlo d’Inghilterra e la principessa Diana, che poi convinse i giornali a comprare. Aveva fatto dire telefonicamente a «People» da una sua amica attrice che un amico nei servizi segreti aveva qualcosa da raccontare sui reali. La donna aveva dato un numero corrispondente ad un quartiere bene di Londra e quando il giornale telefonò rispose un altro amico di Ryan, che disse di lavorare nei servizi segreti e di aver intercettato una telefonata del principe Carlo, aggiungendo che era disposto a vendere la trascrizione di quella conversazione telefonica per 7500 sterline. Il «People» la comprò e poi anche altri giornali, semplicemente perché i truffatori, da sempre esperti nell’arte di carpire la fiducia, vendevano una storia che i giornalisti volevano credere vera. Il giornalismo dà una momentanea stabilità agli equilibri precari e dà al disordine un ordine implicito. Così facendo è già a due passi dalla realtà. Thomas Griffiths

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L’etica professionale

Un uomo di talento a cui non interessa il denaro è difficile da sottomettere. Alistair Cooke

Per chi non è del mestiere, giornalismo ed etica sono due termini che non vanno assolutamente d’accordo. La sola collocazione delle due parole nella stessa frase rischia di provocare in chi ci ascolta una risata irrefrenabile. Per chi lavora in un rotocalco diretto al grande pubblico è fuori luogo farsi degli scrupoli morali. I direttori, in concorrenza fra loro per accaparrarsi il maggior numero di lettori, esigono che le loro redazioni sorvolino sugli aspetti etici e la concorrenza interna alla redazione induce qualche giornalista a rispettare la direttiva. Predicare l’etica a questo tipo di giornalisti è inutile quanto predicare la castità ai marinai che sbarcano dopo sei mesi trascorsi in alto mare. Per chi lavora in un giornale più qualificato, dove sussiste un accordo praticamente unanime sul rispetto della deontologia professionale, l’etica è costituita da un codice di norme a cui ogni giornalista deve conformarsi, o la cui violazione, quantomeno, deve provocare sensi di colpa. Ai giornalisti di questo tipo non viene chiesto mai, o comunque molto di rado, di non rispettare quel codice.

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L’etica, più di ogni altro aspetto della professione, si basa su una situazione personale che produce esperienze tali da rendere difficilmente riconoscibili come ispirate allo stesso principio scelte etiche apparentemente diverse. Ciò avviene perché nella sua attuazione pratica il principio etico non è condizionato da una morale astratta, bensì dal sistema di ricompensa o punizione applicato nei diversi giornali. In un rotocalco inglese diretto al grande pubblico (o nell’agenzia che lo serve) i giornalisti possono venire valutati, pagati e promossi sulla base della quantità di servizi sensazionali e di largo richiamo che producono, senza tener conto dei loro metodi o del grado di esagerazione che si sono concessi. Nella realtà il caposervizio, o qualcuno più in alto, indica ai cronisti la linea da seguire, prescindendo dalle riserve che questi possano avere. Con simili premesse non c’è spazio per i cultori dell’etica. All’estremo opposto, in un giornale americano che gode di una situazione monopolistica e ha in comune con le sue fonti e i suoi lettori l’area cittadina in cui viene diffuso, i cronisti sono valutati e ricompensati secondo parametri differenti, nei quali l’etica ha un peso rilevante. Tutto sommato, l’elemento principale per decidere quali princìpi seguire è la concorrenza. In situazioni monopolistiche i giornali sanno di non avere avversari che possano surclassarli e i lettori non hanno alternative salvo quella radicale di non comprare più il quotidiano. Grazie alla mancanza di concorrenza i giornalisti si possono permettere il lusso di applicare le regole dell’etica professionale a un livello particolarmente elevato. Nel mercato di chi si rivolge al grande pubblico, fortemente concorrenziale e dominato da una cultura competitiva, l’unico vero deterrente contro certi metodi per procacciarsi un servizio e pubblicarlo è il giustificato timore di far infuriare i lettori, che forse potrebbero decidere di non comprare più quel giornale. Solo in questa eventualità alla redazione e alle piccole agenzie di stampa che la informano verrà imposto il perentorio divieto, talvolta temporaneo, di rubare fotografie alle famiglie delle vittime, irrompere negli ospe-

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dali in cui sono ricoverate persone celebri, pubblicare foto di regali rampolli nel loro privato, condannare una comunità come violenta senza prove sufficienti e altre cose del genere. In particolare per i rotocalchi, le periodiche crociate in nome dell’etica a cui assistiamo sono quasi sempre avviate dalla proprietà del giornale, quando il rischio che i lettori comprino un giornale diverso si fa troppo elevato. Oppure quando il governo sta per emanare nuove norme sulla stampa. Ma anche il comportamento degli stessi giornalisti può costituire un deterrente: nessuno di noi è tenuto a lasciarsi manipolare dal giornale per cui lavora e c’è sempre un’alternativa. Come i lettori possono smettere di comprare il giornale, così i giornalisti possono cambiare padrone. Possono decidere che certe cose non sono disposti a farle e, quindi, lasceranno il giornale per cui lavorano, in silenzio, dopo aver trovato un altro posto, o rumorosamente, in uno scatto di giusta indignazione. Se fossimo molti di più a fare questa scelta, motivandola chiaramente, il giornalismo ne trarrebbe beneficio. L’elemento della scelta morale, cioè la distinzione fra il modo in cui i giornali condizionati dalle spinte commerciali presumono che ci comporteremo e la maniera in cui noi decidiamo di comportarci a livello individuale, spiega perché l’etica ha una finalità quotidiana, anzi due. La prima è quella di assumere il ruolo di una bussola morale, che ci dice quanto ci stiamo allontanando dalla rotta prevista. A mio avviso, il nord magnetico in materia di stampa si trova nelle clausole di un ideale contratto non scritto fra i giornali e i loro lettori: – Ogni articolo di un giornale è il risultato di decisioni libere da pressioni politiche, commerciali o di altra natura. – Niente viene pubblicato per uno scambio di favori o per denaro. – Tutti gli articoli sono scritti e riveduti con uno spirito di libera ricerca della verità e pubblicati soltanto per i loro meriti, reali o presunti.

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La seconda finalità dell’etica è quella di porsi come guida pratica alla produzione di un giornalismo sicuro e credibile. Sinceramente, la trasparenza e il superamento dei conflitti d’interesse sono le migliori premesse di questo mestiere perché garantiscono il maggiore grado di sicurezza. In parole molto povere vi tengono lontani dai tribunali e la sera vi consentono di dormire sonni tranquilli. Pur sapendo di correre il rischio di sconvolgere i cronisti più laidi, devo dire che il rispetto dell’etica è il modo più serio per fare questo lavoro, l’unico che ci permetta di avere verso i lettori (e le fonti) un comportamento basato sulla sensibilità umana e non su un cinico calcolo commerciale. In questa ottica l’etica non appare come un optional, ma come parte integrante di ogni aspetto del giornalismo. Qui ci occupiamo, perciò, dell’etica in concreto – nel rapporto con le fonti, nel porre le domande, nello scrivere – vedendola, quindi, come un veicolo in movimento e non parcheggiato fuori dalla dinamica del traffico. Tuttavia ci sono anche dei princìpi generali che ho raccolto in questo capitolo. CONSIGLI GENERALI Esiste un principio etico che ho sempre trovato molto utile. Potrà sembrarvi troppo ingenuo, come se questo paragrafo fosse stato inserito nel libro dalla Società per la cortesia reciproca, ma intendo rivelarvelo lo stesso perché finora, almeno per me, si è dimostrato prezioso. Il principio è quello di trattare gli altri, soprattutto le fonti e le persone di cui parlate negli articoli, come vorreste essere trattati voi stessi. Detto così, sembra banale al limite dell’imbarazzante, ma come guida al comportamento etico è più utile di cento conferenze sull’argomento. Anzi, direi che il proposito di trattare le persone con il maggior rispetto possibile può trasformare qualsiasi «dilemma» etico in una decisione chiara e semplice. L’alternativa – usarle fino a quando vi fa comodo e poi tradirle – non è né una cosa piacevole né un modo per conti-

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nuare a lungo a fare questo mestiere, almeno come dipendenti di un giornale per cui vale la pena di lavorare. Se ne dubitate, vi racconterò un episodio accaduto diverse decine di anni fa e che riguarda un capocronista americano. Anche se non si trattò di una vera e propria violazione della legge, fu l’esempio di giornalismo più immorale del quale sia mai venuto a conoscenza. Tutto cominciò quando il capocronista ricevette la notizia che una giovane donna era stata trovata assassinata. Il suo Stato d’origine era lontano, si avevano pochissime notizie su di lei, e sapeva che se il cronista avesse telefonato per comunicare la sua morte ai genitori, questi non avrebbero raccontato molto. Perciò chiese a un redattore di chiamarli, di dire che la ragazza aveva vinto un concorso di bellezza e di ottenere il maggior numero di informazioni possibile. Rimase accanto all’uomo mentre intervistava i genitori, ancora ignari della morte della figlia. E quando pensò di avere abbastanza materiale per un articolo, sibilò: «Okay, ora diglielo» e restò lì a guardare il cronista dare loro la notizia che la figlia era stata trovata morta. Ho sempre pensato che fosse una leggenda metropolitana, fino a quando non ho trovato una copia di un libro ormai fuori commercio, intitolato Reporters: Memoirs of a Young Newspaperman, in cui l’autore Will Fowler rivela che l’episodio è veramente accaduto. Il capocronista era Jim Richardson del «Los Angeles Examiner», l’anno il 1947, il redattore Wayne Sutton, la ragazza morta si chiamava Elizabeth Short (il cui omicidio, ormai passato alla storia come il caso della Dalia Nera, è forse il più famoso di quella città) e la povera madre era la signora Phoebe May Short di Medford, nel Massachusetts. A tanta distanza di tempo, questa storia può sembrare divertente, per quanto orribile, ma non credo che la signora Short sia mai stata di questo parere. (Neanche Will Fowler, tra parentesi, era proprio un santo. Una volta, stava lavorando a un articolo su un certo Walter Overell, un ricco costruttore che era stato ucciso dalla figlia e dal fidanzato con una bomba fatta in casa. Non esisteva alcuna fotografia recente di Overell, e tutto quel-

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lo che restava di lui erano la testa e il busto. Che fare? Fowler e il fotografo George O’Day andarono all’agenzia di pompe funebri, fecero appoggiare a una parete la parte superiore del corpo di Overell, lo fotografarono, e poi chiesero a un illustratore dell’«Examiner » di disegnargli addosso una giacca, una camicia e una cravatta a righe. Nessuna fotografia di giornale ha mai meritato più di quella la definizione di «mezzo busto».) Se non volete seguire l’esempio di Jim Richardson, ecco qualche consiglio generale sull’etica: I giornalisti dovrebbero essere solo al servizio dei giornali e dei lettori Se siete portati per la propaganda, andate a lavorare nelle pubbliche relazioni o in politica. I giornalisti non devono essere sostenitori di nessuno e di niente: né di un partito politico o di una fonte particolare, né di un interesse, commerciale o no, e neanche di una causa specifica, per quanto nobile. Il giornalismo equilibrato è già difficile anche senza certi conflitti di interesse. Il giornale «Washington Post» vieta ai suoi giornalisti di partecipare ad attività politiche, comprese le manifestazioni di piazza. Infatti ai suoi cronisti avvistati in una manifestazione a favore del diritto di aborto non è stato affidato nessun servizio che toccasse quell’argomento. Permettere che il fervore ideale verso una causa rischi di influenzare il giornalismo è ovviamente pericoloso. Uno dei casi più notori in tal senso è quello di Walter Duranty, corrispondente del «New York Times» a Mosca negli anni Venti e Trenta. Duranty nutriva un interesse tanto entusiastico per l’ideologia della nuova Unione Sovietica che spesso i suoi articoli erano vera e propria propaganda. Per fare un esempio, nel momento culminante della carestia in Ucraina, ampiamente manovrata da Stalin per mettere in ginocchio la resistenza locale contro il regime sovietico, nei suoi articoli Duranty parlava di «mercati di campagna colmi di uova, frutta, pollame, ortaggi, latte e burro» a prezzi più bassi che a Mo-

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sca, aggiungendo: «Chiunque può vedere che questa non è carestia, ma abbondanza». E, fidandosi ciecamente, una commissione Pulitzer pensò bene di dargli anche un premio. In realtà ci furono milioni di morti e Duranty questo lo sapeva bene, tanto è vero che in privato disse ad alcuni colleghi che, secondo lui, il numero delle vittime si aggirava sui 10 milioni. Malcolm Muggeridge, all’epoca cronista del «Manchester Guardian» a Mosca, lo definì «il giornalista più bugiardo che io abbia mai incontrato». Ogni articolo dovrebbe mirare a un’onesta ricerca della verità Ogni articolo dovrebbe essere un lucido tentativo di scoprire che cosa è realmente accaduto, accompagnato dalla disponibilità a pubblicare quella verità, per quanto scomoda possa essere nei confronti delle opinioni sostenute da noi o dal giornale. Pertanto i giornalisti non devono accettare lavori che cerchino di avvalorare un argomento a dispetto dell’evidenza o scrivere articoli che mirino a patrocinare una teoria preconcetta. Tutto ciò vi sembrerà talmente ovvio che non ci dovrebbe essere bisogno di parlarne. Eppure ogni giorno potete leggere articoli che gonfiano e forzano i fatti per adattarli a una certa tesi. Uno degli esempi peggiori degli ultimi anni è stato fornito dal «Sun», il quotidiano più venduto in Gran Bretagna. Per ragioni note solo a lui, il direttore dell’epoca si era convinto che l’Aids fosse una malattia limitata ai tossicodipendenti e agli omosessuali. In diverse occasioni le statistiche governative furono da lui volutamente manipolate al fine di sostenere questo punto di vista. Il servizio più scandaloso in tal senso era intitolato Confermato: il sesso normale non può darvi l’Aids e sosteneva, insieme ad altre assurdità, che le probabilità di prendere l’Aids attraverso rapporti eterosessuali erano «statisticamente irrisorie – qualsiasi opinione contraria è solo propaganda omosessuale». Alla fine, l’alto numero di proteste contro quel servizio costrinse il giornale a una nota di scuse, che fu, comunque, pubblicata senza evidenza (in fondo alla pagina 28).

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In questo caso, che non è affatto isolato, l’impostazione del giornalista ingannava i lettori e forse li metteva in pericolo. Il giornalismo non deve dare spazio ai preconcetti. I giornali dovrebbero combattere le persone di vedute ristrette non facendole lavorare. Respingere qualsiasi strumento di pressione Non mi riferisco soltanto al denaro o agli omaggi, ma anche alle promesse di vantaggi o promozioni. In particolare bisogna evitare due cose: la prima è la pubblicità occulta, cioè quella pratica in cui i giornalisti o i loro giornali vengono pagati per fare opera di pubbliche relazioni con redazionali su ditte o persone che poi occupano qualche colonna del giornale come normali articoli in mezzo agli altri. In questi ultimi anni tale pratica si è molto diffusa in paesi come la Russia, dove la tentazione di fare della pubblicità occulta per compensare una paga molto magra è comprensibile. Ma questo non è giornalismo, è propaganda commerciale, attività di pubbliche relazioni, una trovata pubblicitaria, chiamatela come volete, travestita da giornalismo. È un inganno e anche dannoso. Anzitutto viola il contratto fondamentale con i lettori, ai quali viene proposto come normale un articolo commissionato a pagamento. In secondo luogo distrugge il rapporto di fiducia che dovrebbe esistere fra giornali e lettori. In terzo luogo può portare i direttori a sospettare che un articolo su una data società sia frutto della corruzione dei redattori, quando in realtà non è così. Quarto, può fornire un pretesto ai direttori e alla proprietà per pagare inadeguatamente i giornalisti, presumendo un reddito proveniente dalla pubblicità occulta, come avviene per gli albergatori che, con la scusa delle mance, tengono bassi i salari dei camerieri. Quinto, conferma il sospetto che i giornalisti che lo praticano siano disposti a vendere la penna e il cervello dietro adeguato compenso. Che cos’altro saranno disposti a fare per denaro? Scrivere articoli apologetici su bande criminali? Escludere dai giornali le storie di malfattori e malefatte? Così siamo pe-

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ricolosamente vicini all’idea di raccogliere informazioni con il preciso scopo di vendere la loro distruzione o eliminazione; in altre parole all’idea del ricatto. Onde evitare l’equivoco di vedere questa pratica come un modo originale per fare soldi, vorrei ricordare che un editore americano di nome Robert Harrison la sfruttò già negli anni Cinquanta con una rivista chiamata «Confidential», specializzata negli scandali di Hollywood. Harrison e i suoi investigatori, pagando a peso d’oro confidenze e indiscrezioni, venivano a conoscenza di dettagli decisamente intimi della vita privata delle celebrità. Ogni servizio era basato su solide ricerche e gli uomini di Harrison usavano metodi molto disinvolti: assoldavano prostitute per intrappolare le vittime prescelte, registravano o filmavano incontri e confessioni. Le vendite di «Confidential» ebbero un’impennata e arrivarono a toccare i 4 milioni di copie. Ma presto la tentazione di rivendere i negativi, i nastri e altre prove alle ricche celebrità si rivelò irresistibile. Scoppiò un classico caso giudiziario da cronaca nera. Una redattrice si suicidò, il direttore uccise sua moglie con un colpo di pistola in un taxi a New York e si suicidò subito dopo, Harrison vendette la rivista, che poi, insieme a lui, sarebbe caduta in un meritato oblio. La pubblicità occulta (che dovrebbe essere correttamente indicata come «pubblicità» e presentata con una veste tipografica adeguata) è molto rara nei paesi più sviluppati. Molto più diffuso tra i giornalisti è il costume di accettare i cosiddetti freebies, cioè viaggi gratuiti da compagnie turistiche, pasti gratuiti da ristoranti o biglietti omaggio per spettacoli teatrali, tutti offerti allo scopo di ottenere un articolo o una recensione dai giornalisti. Il pericolo in questi casi è che il giornalista possa sentirsi obbligato a esprimere un commento positivo. Ciò non è inevitabile e i pericoli possono essere ridotti al minimo, rimanendo fedeli ai lettori, se viene chiarito da qualche parte nel pezzo o in una nota in calce che il biglietto/viaggio/pasto o altro è stato offerto in omaggio al giornale.

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Non inventate le cose Nelle precedenti edizioni di questo libro, non ho mai detto in modo specifico che inventare citazioni, fonti, notizie o fatti è immorale. Non è stato per dimenticanza, ma perché ero convinto che fosse scontato che queste cose non si fanno. Fino a quando, cioè, durante una conferenza, uno studente non mi ha chiesto se potevo dare qualche indicazione su questa «delicata questione». Certo che posso. Non è difficile. Non fatelo mai, in nessun caso. Prima o poi vi scopriranno. I contenuti degli articoli non devono essere condizionati dalla pubblicità Non è raro, specialmente nei giornali più piccoli, meno redditizi o locali, che gli inserzionisti cerchino di sfruttare il loro peso economico per esigere trattamenti di favore dal giornale. È opportuno resistere comunque a pressioni di tal genere. Di solito tutto comincia dall’ufficio pubblicità del giornale, che sollecita il direttore a pubblicare a favore di un cliente importante un «servizio adeguato». Qualche anno fa il «Riverside Press-Enterprise», un giornale californiano, pubblicò in totale 11 pezzi e 22 fotografie relativi a un nuovo grande magazzino di nome «Nordstrom’s», a partire da sei giorni prima della sua inaugurazione e fino ai giorni immediatamente successivi. Il tutto occupava 400 righe su varie colonne, che apparvero in quei giorni insieme a 20 pagine intere di pubblicità per il grande magazzino. Una coincidenza? Improbabile. Più di rado gruppi di inserzionisti si coalizzano per tentare di forzare le scelte di un giornale. Quando presi la direzione di un giornale di provincia inglese, fra le mie prime iniziative decisi di interrompere la pubblicazione automatica delle notizie sui processi per furti ai negozi, che trovavo tanto comuni da risultare noiose. Nel giro di una settimana tutti i grandi magazzini della città si rivolsero all’editore per dirgli che, se non fosse stata ripristinata la pubblicazione dei casi di furto ai negozi, avrebbero re-

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vocato i loro spazi pubblicitari, che fornivano un’entrata molto consistente. Secondo loro la pubblicazione era un deterrente contro i potenziali ladri. Per fortuna l’editore mi sostenne. La minaccia degli inserzionisti non ebbe seguito. Cedendo alle pressioni, individuali o collettive, degli inserzionisti, si corre il rischio di dover rinunciare all’autonomia delle proprie scelte editoriali. Oltretutto quanto si concede a un singolo inserzionista diventa presto oggetto delle pretese di molti altri. Basta cedere una volta per ritrovarsi schiavi di indebite pressioni. Non sfruttate il vostro ruolo per minacciare o per ottenere privilegi Il giornalista ha un potere di cui non deve mai abusare, tanto nella preparazione di un servizio, quanto nella vita quotidiana. Porsi in contrasto con negozi, vicini ecc. minacciando rivelazioni non gradite o ricorsi a conoscenze altolocate è una forma di prepotenza che finisce per ritorcersi contro chi la attua. Come potrete in futuro scrivere un articolo su una persona o un’organizzazione che avete minacciato in quel modo? Come potrete scrivere liberamente su quelle stesse conoscenze a cui avete minacciato di ricorrere, che ormai vi tengono in pugno perché sono in credito verso di voi? Vi sconsiglio anche di usare la carta intestata del vostro giornale per scrivere una lettera in cui sollecitate un privilegio oppure un risarcimento per una presunta negligenza o un trattamento insoddisfacente. Il destinatario sarà portato a credere che il vostro giornale sia una sorta di sistema di estorsione privato che assicura protezione ai suoi redattori. Non insabbiate un servizio in cambio di benefici Talvolta può avvenire che qualcuno vi chieda di «insabbiare» un servizio o una sua parte, promettendo in cambio un favore o perfino una somma di denaro. Ovviamente accettare una proposta del genere è sbagliato quanto lo è accettare la proposta inversa di

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pubblicare un servizio in cambio di benefici. Quando avete a che fare con gli amici, il rifiuto può anche essere espresso in termini più morbidi, ma deve essere comunque netto e immediato. Lo stesso vale per i colleghi, come questi due esempi ci fanno capire. Il primo viene dall’Oregon, negli Stati Uniti, dove alcuni anni fa una televisione locale rivelò che il capo del personale da molto tempo al servizio del rappresentante repubblicano di quello Stato al Senato federale era da 25 anni direttore di una banca fallita e poi salvata da un intervento pubblico, con un costo di 100 milioni di dollari a carico dei contribuenti. L’emittente lasciava anche intendere che il coinvolgimento dell’uomo nella bancarotta potesse aver influenzato la posizione del senatore riguardo alla liberalizzazione delle banche e al costoso salvataggio di quella particolare banca. La notizia fu raccolta dall’Associated Press e divenne l’argomento del giorno in tutto l’Oregon, ma il principale giornale di quello Stato, l’«Oregonian», decise di ignorarla. E ignorò anche le rivelazioni della settimana seguente, secondo cui il capo del personale aveva compiuto numerosi viaggi ufficiali a spese dei contribuenti e fra questi c’erano 52 viaggi a New York, dove costui pubblicava una guida annuale della città che gli fruttava oltre un milione di dollari. Forse la riluttanza del giornale a occuparsi di queste notizie dipendeva dal fatto che il famigerato capo del personale curava una rubrica settimanale sulle sue pagine. Alla fine l’«Oregonian» si decise a pubblicare parzialmente la vicenda solo dopo che il «Washington Post» ebbe dato alle rivelazioni diffusione nazionale. Mettiamo a confronto il primo esempio con il caso di un giornale di Sudbury, in Pennsylvania, il «Daily Item». Un giorno, fra le notizie quotidiane fornite dalla polizia sulla propria attività, c’era il resoconto integrale dei capi d’accusa contro uno dei cittadini che aveva guidato a velocità pericolosa in stato di ubriachezza. L’articolo riportava il nome, l’età, l’indirizzo e la professione dell’uomo: era il direttore di quello stesso giornale. Vi sembra più affidabile il «Daily Item» o l’«Oregonian»?

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Le notizie non si inventano e non si ritoccano Inventare le notizie è ovviamente sbagliato e pericoloso. E lo sono ugualmente la manipolazione, per quanto lieve, dei fatti, l’abbellimento della verità o la temporanea amnesia riguardo a certi dettagli che disturbano l’impostazione mirata di un servizio: questi interventi faranno del vostro pezzo una truffa. Lo stesso vale per i fotografi che usano l’inquadratura in modo disonesto, per ottenere un’immagine che presenti la realtà dall’angolazione che vogliono imporle. Nell’Europa occidentale sembra che alcuni fotoreporter tengano nell’automobile di servizio certi oggetti da inserire nelle immagini fotografate. Secondo uno schema classico, in passato il fotografo doveva avere a portata di mano una scarpina da bambino o un orsacchiotto di peluche che, in occasione di disastri aerei o ferroviari, potesse collocare fra i rottami per rendere l’immagine più «intensa». Foto di questo genere oggi sono ritenute convenzionali e, comunque, c’è sempre il rischio che, una volta reso pubblico l’elenco dei passeggeri coinvolti in un disastro, risulti che non c’era nessun bambino sul treno o sull’aereo. Le vere contraffazioni dolose, o almeno quelle che vengono scoperte, sono piuttosto rare. Forse un noto caso fra i più recenti è stato quello di un servizio di Janet Cooke sul «Washington Post», premiato con il Pulitzer: intitolato Il mondo di Jimmy, raccontava la storia di un piccolo eroinomane di soli otto anni. In realtà Jimmy non esisteva e la storia era stata inventata di sana pianta. Quando la verità venne a galla il «Washington Post», con il senno di poi, osservò che c’erano stati diversi fatti premonitori. Per esempio, all’epoca qualche redattore aveva nutrito dei dubbi sulla storia, ma aveva ritenuto opportuno tacere oppure aveva trovato il servizio «troppo buono per verificarlo». Questo atteggiamento, letale per il giornalismo, venne incoraggiato dagli avvertimenti della stessa Cooke, la quale dichiarava che eventuali verifiche avrebbero messo in pericolo la sua vita (e quella di Jimmy). Del resto nessuno si

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era preso la briga di verificare le credenziali della Cooke, che vantava una laurea a Vassar, un master a Toledo, studi alla Sorbona, un diploma di pianoforte e la conoscenza di quattro lingue. Nessun direttore sospettò che fosse un po’ troppo per una persona di soli 25 anni. Uno di questi, ironia della sorte, era l’eroe di Watergate, Bob Woodward. Le notizie non devono essere fonte di vantaggi personali La tentazione di sfruttare le notizie raccolte per ottenere vantaggi economici prima della pubblicazione di un articolo può essere un problema soprattutto per i cronisti finanziari. Qualche anno fa R. Foster Whinans, cronista del «Wall Street Journal» e co-autore di un articolo contenente informazioni fornite da operatori del mercato azionario, decise di vendere queste informazioni a un amico operatore di borsa. Gli furono versati 31mila dollari affinché passasse il contenuto dell’articolo a diversi operatori di borsa, mettendoli così in condizione di comprare e vendere titoli prima che le informazioni divenissero di pubblico dominio e, di conseguenza, influenzando i prezzi del mercato azionario. Gli operatori guadagnarono circa 690mila dollari grazie alle informazioni trapelate. In seguito Whinans e gli operatori furono arrestati e condannati dal tribunale per violazione delle norme relative all’uso indebito di informazioni riservate. Whinans fu condannato a 18 mesi di carcere, 5 anni di libertà vigilata, 400 ore di servizio sociale e una multa di 500 dollari. Molti giornali occidentali oggi chiedono ai loro cronisti finanziari di dichiarare i propri investimenti e operazioni in borsa.

ZONE GRIGIE Gli esempi precedenti sono netti ed evidenti, ma nel giornalismo ci sono molti casi più complessi, ai quali è difficile applicare re-

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gole valide in assoluto. Prendiamo ad esempio le firme fasulle. Decisamente sbagliata, se utilizzata normalmente per dare l’impressione di una redazione molto più grande di quanto non sia, questa pratica è assai meno dannosa quando i caporedattori delle pagine sportive la usano, ad esempio, per occultare l’identità di redattori del giornale che, come secondo lavoro non ufficiale, la domenica si occupano della cronaca sportiva. Visto che l’articolo risulta scritto da qualcuno che in realtà non esiste, devo obiettare che tutte le firme fasulle sono un vero e proprio falso, particolarmente rischioso quando il servizio venga contestato o finisca in un’aula di tribunale. Chi potremmo chiamare a deporre? Un attore che impersona un cronista immaginario? La privacy Ci sono molti tentativi di risolvere in modo dogmatico il problema del rispetto della privacy, ma nessuno è applicabile a situazioni che non siano di un’evidenza elementare. Siamo tutti d’accordo che se un presidente degli Stati Uniti fa lo stupido con una stagista nel suo ufficio, è legittimo farne un servizio. Se qualcuno chiede il nostro voto (e il nostro denaro per le tasse che servono a pagargli lo stipendio) abbiamo il sacrosanto diritto di sapere qualcosa di lui, della sua vita, del suo senso del dovere. Viceversa, ben pochi solleciterebbero un articolo su una stagista che fa la stupida con un altro stagista. La vita sessuale dei privati cittadini, anche quando è di particolare interesse, secondo il punto di vista comune non è un argomento per la stampa, a meno che non violi il codice penale. Tra questi due estremi, però, ci sono tanti casi molto meno evidenti che formano quell’area intermedia per la quale è necessario discutere il problema del rispetto della privacy. Secondo un criterio diffuso e sensato, è lecito invadere la privacy di un personaggio pubblico se lo si fa per un fine di pubblico interesse e non per solleticare la curiosità dei lettori. Se un candidato a una carica pubblica esalta a gran voce la moralità e le

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virtù della vita familiare, e noi siamo in grado di provare che ha una sfilza di amanti, è giusto dedicargli un articolo di denuncia: i suoi princìpi farisaici evidentemente cozzano con il ruolo a cui aspira. Tuttavia questa prassi presenta due problemi. Primo, se un giornale ritiene che un servizio sia sufficientemente gradito e audace, troverà un pretesto qualsiasi per chiamare in causa il pubblico interesse. Secondo, la questione tende a venire affrontata in modo fazioso dai giornali, che difendono il diritto alla privacy dei personaggi che ammirano e violano quello delle persone che vogliono distruggere. Una soluzione può essere fornita, almeno in parte, da una qualità umana di norma estranea al giornalismo: la sensibilità. I giornalisti devono avere dei validi motivi per violare la privacy di una persona e, inoltre, si devono rendere conto delle possibili conseguenze di quanto scrivono. Qualche anno fa in Gran Bretagna un poliziotto iniziò una relazione extraconiugale e sua moglie, quando venne a saperlo, lo convinse a lasciare l’amante. Questa, ferita nell’orgoglio, raccontò la vicenda a un quotidiano nazionale, che la pubblicò con il titolo La vita amorosa di un agente investigativo. A causa di ciò il figlio della coppia fu preso in giro a scuola, il marito fu costretto a lasciare il lavoro e l’intera famiglia dovette cambiare casa. Qualcuno potrebbe parlare di una giusta punizione per il peccato originale del poliziotto, ma io non sono d’accordo e non voglio giustificare in alcun modo la pubblicazione di quell’articolo. Quando si può pagare per avere un’informazione o un’intervista I casi in cui di solito si paga un’informazione sono due. Il primo è quando si chiede un’esclusiva a una persona che ha vissuto un’esperienza eccezionale. A patto che l’esperienza non sia di tipo criminale, non c’è nulla di particolarmente immorale in questa prassi. E se la persona riceve la cifra che gli è stata promessa (cosa che

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non sempre succede), è uno scambio abbastanza equo. Questo tipo di pagamenti esiste da molto tempo. Già nel 1912, il «New York Times» diede 1000 dollari al telegrafista del Titanic per avere un’intervista esclusiva. Il secondo caso è quello in cui paghiamo un’informazione, piuttosto che il tempo che la persona ci dedica o il racconto della sua storia personale. Questo è un po’ più rischioso, perché nel corso degli anni si è creato un mercato nel quale chi vende sa che più l’informazione è succosa più il prezzo sale. Non c’è da sorprendersi se questo produce esagerazioni e vere e proprie bugie, come testimoniano gli archivi legali di molti giornali (non tutti rotocalchi). A mio parere, pagare le informazioni non è una buona idea, non tanto perché è equivoco dal punto di vista etico (anche se lo è), quanto perché è pericoloso dal punto di vista giornalistico. Violazioni della legge Un argomento che si discute meno di frequente è quello del coinvolgimento dei giornalisti negli atti illeciti su cui stanno indagando. Certe cose non si fanno. Violare la legge per scrivere un articolo è sbagliato e anche rischioso, perché toglie a quanto il giornalista ha scritto quella legittimità morale che, altrimenti, avrebbe potuto avere. A volte i cronisti che si occupano di traffico di droga, delitti o prostituzione acquisiscono informazioni che dovrebbero essere immediatamente passate alla polizia. Fatelo, altrimenti danneggerete la vostra integrità e metterete in pericolo la vita di cittadini innocenti. Spetta alla polizia, e non a voi, valutare i fatti. (La questione dell’incolumità dei cittadini si pone anche nelle situazioni in cui i giornalisti vengono accusati di fare da semplici spettatori a una sciagura o a un’azione di guerra, senza adoperarsi in alcun modo per aiutare le persone in pericolo. A mio avviso, se la situazione vi permette di intervenire, dovete seguire i vostri istinti umanitari e aiutare chi è in difficoltà.) Un esempio classico è

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quello di Alan Dower del «Melbourne Herald» durante la guerra di Corea. Aveva saputo che alcune donne stavano per essere fucilate perché un informatore le aveva denunciate alle autorità come comuniste. Entrò armato in una stazione di polizia e, nel cortile, trovò le donne allineate con i loro bambini in braccio davanti a un pozzo. Due mitragliatrici erano puntate su di loro. Dower chiese di vedere il responsabile della stazione e gli disse che se le donne fossero state fucilate gli avrebbe sparato in fronte. L’ordine fu subito revocato. Vengono i brividi a pensare che possa esistere un codice etico che condanna un giornalista per un’«interferenza» di questo tipo. Non accettate mai un biglietto omaggio dal direttore di un teatro, un abbonamento offerto dalla Camera di commercio o un favore da un politico. Henry L. Mencken

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Il giornalista come scrittore

La dote più rilevante che uno scrittore deve avere è un rivelatore di fesserie, indistruttibile e incorporato. Ernest Hemingway

Il giornalismo non è letteratura ma, in fondo, neanche gran parte della letteratura lo è. Scrivere sui giornali non è come scrivere un romanzo o un racconto, ma la differenza è meno grande di quanto penserebbero alcuni. Tutti i tipi di buona prosa hanno alcuni elementi in comune: sono chiari e facili da leggere, usano un linguaggio vivace, stimolano e intrattengono. Questo vale tanto per un articolo di giornale quanto per un romanzo e indipendentemente dalla lingua in cui si scrive. Cominciamo con le brutte notizie. Imparare a scrivere bene è un’impresa ardua e solitaria. Tutti conosciamo persone che dicono di voler scrivere, ma spesso vogliono semplicemente andarsene in giro a dire di essere degli scrittori. Una cosa che non vogliono fare è poggiare il sedere su una sedia e non muoverlo da lì finché non avranno riempito di parole un foglio di carta o una schermata di computer. E invece è proprio questo che dovete fare, molte, moltissime volte. Indipendentemente dal vostro reale talento, il percorso di formazione prevede che scriviate centinaia di pezzi e facciate degli errori. Tralascerete cose essenziali e ne

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scriverete di inutili, arriverete alla metà del pezzo per poi rendervi conto che non funziona e che dovete ricominciare, userete uno stile goffo o pomposo o rigido, cercherete di sviluppare un tema fumoso o banale, affiderete alla carta o alla schermata interi periodi talmente sciocchi che se doveste pronunciarli, l’imbarazzo vi toglierebbe la voce a metà frase. Ora passiamo alle buone notizie. Dopo un po’ di tempo, aggirandovi per un buon giornale con l’orecchio attento, leggendo, studiando il meglio e il peggio e facendo di voi stessi il vostro critico più puntiglioso, comincerete a intravedere la mèta. Vi potrà ancora capitare qualche volta di metterci del tempo per far funzionare un pezzo, ma in generale, scrivendo molto, acquisterete una scioltezza sempre maggiore. La capacità di scrivere è come un muscolo, con l’esercizio quotidiano si rafforza. Perderete meno tempo con le false partenze e i percorsi sbagliati, meno tempo a correggere i ritmi con cui scrivete un pezzo in base alla lunghezza prevista, e sprecherete meno energie nella ricerca di un’espressione elaborata quando è preferibile una più semplice. E troverete quella cosa indispensabile senza la quale nessuno può definirsi scrittore: il vostro linguaggio. Non dovrete più fare i conti con uno stile troppo elaborato, troppo formale o troppo discorsivo, perché avrete trovato il linguaggio che esprime il vostro stile naturale, è coerente, ha ritmi ed espressioni riconoscibili come vostri e – ecco la prova del fuoco – se leggerete il pezzo a voce alta, in generale riconoscerete il vostro modo di parlare, tirato appena un po’ più a lucido; sarà il vostro stile personale, non posticcio, non affettato, né preso a prestito da altri. Ovviamente rispecchierà in qualche modo i vostri scrittori preferiti, il vostro ambiente culturale, la vostra cultura e così via, ma sarà rigorosamente vostro, nelle parole, nelle espressioni idiomatiche, negli schemi sintattici e nel ritmo del periodare. Sarà per voi come una firma. Ma più leggibile.

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UNO SCHEMA DI LAVORO Se vi preparate a scrivere un articolo, la cosa più importante è quello che vi passa per la testa dal momento in cui completate le ricerche al momento in cui buttate giù la prima parola. Concentratevi sul materiale per dargli un senso e decidere che cosa farne. Per comporre un testo non basta mettere insieme delle parole, ma bisogna anche organizzare i propri pensieri, quindi, a dispetto di tutte le espressioni colorite e le argute osservazioni che saprete inventare, se non avete le idee chiare riguardo a quello che volete dire, il lettore se ne accorgerà. Un pezzo su una calamità naturale o un breve articolo su una notizia semplice e circoscritta sono abbastanza facili, ma il giornalismo è fatto anche di articoli molto complessi e meno stimolanti di quanto vorreste, di lunghi servizi che trattano aspetti diversi, di pezzi commissionati in serie su argomenti che non siete certi possano interessare ai lettori. In questi casi dovrete riflettere a lungo per decidere che senso dare al pezzo, senza lasciarvi ingannare dall’apparenza. Immaginate ad esempio un articolo su di un uomo che raccoglie e tiene in casa rane esotiche: a prima vista sembra che debba trattare di anfibi, un argomento che in genere non suscita grande interesse nei lettori, ma in realtà presenta anche un caso di eccentricità maniacale, in cui un hobby arriva a invadere la vita di un uomo, compresa la sua casa – un tema assai più attraente delle rane. Il consiglio più prezioso che abbia mai sentito sulla scrittura è quello di John Shirley, che lavora per il «Sunday Times» di Londra, l’«Observer» e il «Guardian»: bisogna avere il controllo totale del materiale. Questo significa che prima di sperare di poter scrivere un articolo chiaro, dovrete aver assorbito bene quel materiale, averlo interpretato e averne ordinato i punti principali nella vostra testa; solo allora sarete in grado di scrivere un resoconto coerente. Pensate, per esempio, a qualcosa di importante che vi è successo quest’anno. Se voleste raccontarlo a qualcuno, po-

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treste farlo perché lo avete sperimentato personalmente, lo avete assimilato, e avete provato a raccontarlo in sequenza, almeno nella vostra testa. Potreste farlo perché avete il controllo totale del materiale, e dovreste averlo anche quando presentate una nuova notizia, soprattutto se è complessa. Mentre si progetta un pezzo, è anche importante ricordare che gli articoli e i servizi sono storie. Quindi, se avete fatto le ricerche giuste e avete pianificato bene, il pezzo dovrebbe avere la stessa coerenza e lo stesso sviluppo di un buon racconto. Vi sembrerà strano, ma appena usciti dal noviziato vale la pena di tenerne conto. L’altra cosa che dovete decidere è l’impostazione del pezzo. Ha per oggetto una notizia drammatica? O un episodio leggero di indagine psicologica? Seguirà il naturale ordine cronologico o quello imposto dalla trattazione specifica di ciascun elemento? Tutti questi aspetti dell’impostazione di un articolo (e ce ne sono molti altri) influenzano la stesura e la sua struttura portante, che, quindi, dovete conoscere bene prima di cominciare. Nel caso di notizie semplici, potete limitarvi a delineare velocemente uno schema mentale di quello che volete dire e dell’ordine che intendete seguire nell’esposizione. Ma per gli articoli più lunghi e complessi, dovete basarvi su uno schema scritto. Non vi spaventate mai all’idea di scrivere un piano di lavoro. Non è tipico del novellino impreparato, ma di chi persegue la chiarezza, e poi non si deve necessariamente trattare di un piano dettagliato: di solito può bastare l’annotazione delle parti principali del pezzo nell’ordine stabilito, tutt’al più completata dall’indicazione dei criteri di collegamento. Alla composizione è dedicato tutto il capitolo 15 di questo libro e all’attacco, fondamentale, il 14. Essi spiegano come catturare immediatamente l’attenzione del lettore e come mantenerla costante sino alla fine del pezzo, due aspetti essenziali per scrivere bene. Oltre a questi, secondo me, ce ne sono altri sei: chiarezza, linguaggio nuovo, onestà, precisione, appropriatezza e produttività, che costituiscono altrettanti paragrafi del presente capitolo.

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CHIAREZZA Un articolo deve sempre essere contraddistinto da chiarezza di pensiero, di organizzazione e di linguaggio. Altrimenti va riesaminato e riscritto. Non è solo una mia convinzione personale; il romanziere francese Stendhal scriveva: «C’è soltanto una regola: essere chiari. Se non sono chiaro, allora tutto il mio mondo va in frantumi». Lo scrittore inglese H.G. Wells in termini meno drammatici diceva: «Quando scrivo, come quando cammino, seguo sempre la strada più diretta, perché è l’unica che conduce alla mèta». Questa regola deve essere seguita rigorosamente dai giornali, che vengono spesso letti in ambienti rumorosi, dove persone che non hanno tempo da perdere e possono informarsi con mezzi più semplici, anche se di qualità inferiore, tendono a distrarsi. Concentriamoci ora su alcuni punti particolari. Dovete avere le idee chiare prima di buttar giù anche una sola parola Per spiegare una cosa agli altri, dovete averla capita perfettamente, altrimenti non scrivete nulla. Se avete le idee confuse, vi suggerisco di raccontare la storia a un collega o a un amico: il nòcciolo della questione (e il suo senso globale) verrà fuori dalle vostre parole quasi senza che ve ne rendiate conto. Fornite accuratamente ogni sviluppo di una storia, ogni evento di una sequenza, ogni elemento di un’argomentazione Saltando da A a C, costringete i lettori a spremersi le meningi per capire che in mezzo c’è stato B. Questo è seccante, crea confusione e talvolta porta fuori strada, soprattutto quando nella realtà il punto B era fuori dalla sequenza. E non procedete a salti nella logica del discorso: i vostri processi mentali sono chiari solo a voi, un lettore non può seguirli a meno che non glieli spieghiate.

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Non presumete che i lettori abbiano conoscenze specifiche o pregresse Se avete passato parecchio tempo ad approfondire un campo specialistico o tecnico, potete facilmente dimenticare che, per lo più, i lettori sanno soltanto quello che voi sapevate prima di cominciare: non fatelo. Nel caso di servizi che vanno avanti per giorni, settimane o mesi, non aspettatevi che i lettori abbiano fotografato con la mente quanto è accaduto prima o che abbiano preso diligentemente appunti leggendo le puntate precedenti: non l’hanno fatto. Al contrario, tenete presente il principio che, finché qualcosa non è divenuto saldamente di dominio pubblico, i lettori avranno bisogno di riepiloghi e richiami. Spiegate tutte le espressioni tecniche e gergali Normalmente si tende a scoraggiare l’uso di espressioni tecniche, siano esse scientifiche, burocratiche, gergali o di altro genere. A mio avviso è un errore. L’espressione gergale può essere utile, perché conduce il lettore in un mondo da scoprire, gli insegna la lingua usata dagli addetti ai lavori e, in particolare per il gergo burocratico, fa conoscere le espressioni, spesso comiche, inventate dai pubblici funzionari e, di conseguenza, la mentalità che esse rivelano. Per questi motivi e in nome di chi ama l’ironia, il gergo non dovrebbe mai essere escluso dai servizi giornalistici, ma è giusto disapprovare chi omette di spiegare in linguaggio corrente l’espressione gergale. Comunque, anche se corredate da spiegazioni, le espressioni di questo tipo non devono essere usate troppo spesso. I giornalisti, specialmente i cronisti specializzati, cedono facilmente alla tentazione di usare espressioni tecniche, per dare prova di essere preparati e di saper parlare come gli addetti ai lavori. Io dico che una cosa del genere può andare bene a un ricevimento, se pensate che sia un modo per fare una bella figura, ma non sul vostro giornale. Cercare di presentarsi come un esperto o scrivere solo per gli

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specialisti sono atteggiamenti elitari e oscurantistici e, come tali, non graditi nel mondo dell’informazione. Poi c’è il gergo politico e finanziario, che forse ai nostri giorni è il più dannoso. È molto diffuso, spesso difficile da interpretare e, oltretutto, tende a essere riproposto meccanicamente dai giornalisti. I portavoce di grosse società dicono che il loro «business» (azienda) «sta attraversando problemi contingenti di liquidità» (è a corto di soldi) a causa di «difficoltà di posizionamento del mercato» (la gente non compra più quello che loro vendono) e di conseguenza è prevista «una razionalizzazione della forza di lavoro» (licenziamenti a raffica). I funzionari governativi parlano di «istituti di riabilitazione» per dire carceri e di «squilibri tra la domanda e l’offerta di unità abitative» per dire che è difficile trovare casa. Sono tutti eufemismi, cioè giri di parole consapevolmente ipocriti, molto diffusi soprattutto nei luoghi che pullulano di esperti in pubbliche relazioni. L’eufemismo è in sintonia con la tendenza naturale di politici e uomini d’affari, se non proprio a mentire, quanto meno a cercare di nascondere la verità, se costretti a farlo. Esprimetevi con frasi assolutamente chiare Non scrivete mai frasi che obblighino il lettore a tornare indietro per rileggerle: è meglio che torniate indietro voi per riscriverle. Ovviamente la chiarezza di cui sto parlando non riguarda quei casi in cui volutamente si induce il lettore ad aspettarsi una cosa per poi sorprenderlo con un’altra. L’elemento della sorpresa può servire a vivacizzare un articolo. Evitate le espressioni complicate e un linguaggio enigmatico Se scrivete mirando a un evidente sfoggio di bravura, otterrete quasi sempre una smaccata bruttura. Il fine del vostro lavoro non è bearvi di quello che create, ma comunicarlo agli altri. Perciò se avete scritto una frase puramente d’effetto di cui siete molto fieri, can-

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cellatela subito; se dovete chiarire a voce il significato di un passo a qualcuno, cambiatelo; se siete tentati di usare certe parole per fare sfoggio di cultura, non cedete. E se volete un buon modello di come dovrebbe essere scritto un pezzo intelligente, chiaro, dettagliato e documentato, studiatevi i comunicati dell’Associated Press e della Reuters. Se il vostro giornale non è abbonato a queste agenzie, potete trovarne molti esempi recenti su Google News. Una parola finale sulla chiarezza: semplicità Si ritiene che la virtù della semplicità di linguaggio sia un requisito fondamentale soprattutto dei giornalisti che scrivono per i quotidiani che si rivolgono al grande pubblico. L’opinione è plausibile, ma fino a un certo punto; la semplicità non deve sconfinare nella pochezza. Alcuni giornali, soprattutto in Gran Bretagna e in Australia, sottovalutano fin troppo il livello culturale dei loro lettori e di conseguenza usano un tipo di linguaggio e di vocabolario che risulta povero e standardizzato. A difesa della loro scelta sostengono di conoscere bene i loro lettori, ma si può contestare questa loro affermazione. Se li conoscessero davvero, saprebbero che le capacità espressive e logiche del loro pubblico sono molto al di sopra di quelle che gli vengono attribuite. Per superare ogni dubbio sull’argomento, basta confrontare il linguaggio e il vocabolario usati da certi giornali con quelli che la televisione propina allo stesso pubblico quotidianamente. Quando la semplicità si riduce all’endogamia linguistica, è segno che è arrivato il momento di rinnovare qualcosa.

LINGUAGGIO NUOVO La finalità primaria degli articoli giornalistici è fornire ai lettori qualcosa che non hanno già avuto: notizie, analisi, osservazioni, riflessioni, sempre nuove. Ciò detto, è un vero peccato che tante

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novità vengano presentate con un linguaggio abusato e stanco, a causa del quale il lettore troverà vecchie e già sentite anche le notizie dell’ultima ora. Esaminiamo la questione punto per punto. Trattate ogni articolo come nuovo e unico Non cadete nel tranello delle formule d’uso quando, di fronte a una notizia che vi richiama una situazione già trattata, avete la tentazione di presentarla secondo schemi consueti e frasi fatte. Ovviamente i temi non possono essere sempre nuovi, ma questo non significa che un articolo che presenta analogie con altri si debba conformare ai precedenti e a modelli precostituiti. Il professor John Carey, nell’introduzione al Faber Book of Reportage, scrive: «Mucchi enormi di espressioni standardizzate e di abusate citazioni giornalistiche sono lì in agguato, pronti a balzare dalle dita del cronista alla pagina dattiloscritta». Poi aggiunge che i cronisti devono sempre scrivere ogni articolo come se fosse la prima volta. In questa logica, diffidate di quei pezzi che sembra si scrivano da soli. Se ve ne capita uno, fermatevi a pensare come vorreste scriverlo voi, invece. Evitate qualunque cliché Ecco finalmente qualcosa che è tanto facile a dirsi quanto a farsi. Con questo termine si intendono metaforicamente parole ed espressioni familiari, tanto familiari che non farete fatica a riconoscerle. Se una cosa ha la sospetta apparenza del cliché probabilmente lo è e, quindi, andrebbe evitata. Alcuni cosiddetti cliché fanno parte dell’uso generale, altri sembrano confinati nel linguaggio della stampa e verranno esaminati più avanti in questo stesso capitolo. Ma in ogni caso si tratta sempre di espressioni talmente vecchie e abusate che non hanno più il minimo impatto sul lettore. Quelle che hanno la forma della similitudine sono particolarmente pericolose, perché l’uso automatico può portare ad applicarle alla situazione sbagliata. Per esempio, descrivere la scena di

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un disastro dicendo che è «come un campo di battaglia» è non solo banale, ma anche sbagliato, come sa bene chiunque abbia avuto modo di vedere entrambi gli scenari. Ma in qualunque forma si presenti, similitudine, metafora, slogan, termine specifico, il cliché, con la sua tendenza a insinuarsi nell’articolo senza che ve ne accorgiate, dovrebbe essere eliminato e sostituito con qualcosa di nuovo. Ricordatevi che le parole scontate diventano facilmente idee scontate. Evitate gli automatismi Ci sono aggettivi che alcuni cronisti istintivamente ricollegano a certi sostantivi. Un affare deve essere sempre «colossale», una cronaca «sconvolgente», un omicidio «efferato», un interesse «notevole» e un’esigenza «profonda». Gli aggettivi sono diventati dei parassiti che vivono alle spalle dei sostantivi a cui si attaccano e tolgono alle espressioni che sono frutto del loro sodalizio tutto il vigore che originariamente potevano avere. Poi ci sono espressioni che in determinate circostanze vengono usate quasi automaticamente. Questo avviene nei giornali di tutti i paesi. Nei giornali in lingua inglese, ad esempio, nei disastri ci sono sempre degli investigatori «che frugano tristemente tra i rottami» (come se invece dovessero ridere) e i disordini di piazza in altri paesi coinvolgono sempre «poliziotti armati di sfollagente» e «dimostranti che scatenano una sassaiola». Un contrattempo durante una manifestazione «non fiacca lo spirito dei partecipanti», le dispute vengono risolte dopo aver «faticosamente raggiunto» un accordo, i fucili sono sempre «di alta precisione» e i tipi solitari che commettono omicidi, non ci crederete, erano sempre stati «molto riservati». Esempi del genere sono infiniti, o, come direbbe un giornalista che scrive senza pensare, «troppi per essere elencati tutti». Queste espressioni non sono solamente degli automatismi, ma dei veri e propri cliché che, come tali, non possono essere appropriati in tutti i casi.

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Attenti ai giochi di parole Condannare i giochi di parole senza appello sarebbe troppo severo, perché di tanto in tanto (diciamo ogni tre anni) in qualche parte del mondo c’è un giornalista che ne inventa uno buono. Intanto, però, ne vengono pubblicati milioni che non offrono niente di nuovo. Normalmente si presentano in due forme: nella prima, l’autore si concentra su tutte le parole associabili all’argomento che sta trattando e ne riempie il pezzo (esempio «La fortuna serve un tiro vincente al tennista»); nella seconda, l’intero articolo, di solito disimpegnato e in un giornale popolare, non sembra contenere altro che giochi di parole. Come gli intenditori sanno bene, quei giochi sono la prova che il giornalista è privo di immaginazione e che il pezzo non merita lo spazio riservatogli. Anche se non ci sono regole assolute per il giornalismo, ce n’è una molto valida: non sprecate parole per le ovvietà. Se andate a Las Vegas, non nominate le slot machines; se siete a Londra, non menzionate la pioggia o il Big Ben; a Parigi, lasciate a qualcun altro i commenti sull’abbigliamento delle signore. Lo stesso vale per i giochi di parole. Nessuno vi punirà se scriverete un articolo leggero sui gatti senza fare riferimento alla curiosità, alle sette vite o alle nove code. E non date ascolto ai giornalisti che, essendo creativi solo in questo genere, mitizzano la loro abilità. Non è affatto difficile inventare un gioco di parole, quindi lasciate ad altri la gloria dell’eroe che si metterà in luce nei prossimi tre anni con un gioco di parole nuovo e originale: ritiratevi dalla gara senza ricorrere mai a certe furbizie. Ma se proprio dovete giocare con le parole, cercate di essere originali come Edwin Lahey del «Chicago Daily News» nel suo articolo su Richard Loeb, un giovane universitario che aveva ucciso un ragazzo con un collega. Loeb, che era un grande amante della letteratura, era stato a sua volta ucciso in prigione da un altro detenuto al quale aveva fatto delle avances. L’articolo cominciava così: «Richard Loeb, studente di Lingua e let-

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teratura salito agli onori della cronaca, ha chiuso la sua vicenda giudiziaria con un vizietto di forma». Impegnatevi a creare similitudini, metafore ed espressioni nuove Quando sentite che state ricorrendo quasi in modo automatico a una similitudine, una metafora o un’espressione elaborata, fermatevi e riflettete. Riflettete bene sul senso reale di ciò che volete comunicare e cercate l’espressione che vi sembra più adatta allo scopo, senza ricorrere al solito materiale di repertorio. I giornalisti esperti conoscono mille modi per ravvivare espressioni comuni ribaltandole o parafrasandole con ironia; tuttavia non rinunciano a ingegnarsi per creare un’espressione nuova che riesca a rappresentare una cosa o a veicolare il suo significato profondo nel modo più adeguato. Spesso, per difendere il loro diritto a usare un linguaggio originale, discutono e litigano con i direttori, come è inevitabile se si lavora in un giornale che impone ai giornalisti la camicia di forza dello stile letterario. Per esempio al «New York Times», in passato, i revisori erano famigerati per i loro rigidi interventi sullo stile dei giornalisti. Ricordiamo le esperienze di Molly Ivens alla fine degli anni Settanta. Una volta scrisse «un uomo con la tipica pancia gonfia del bevitore di birra» e il revisore corresse in «un uomo con lo stomaco prominente»: preciso, ma pedante. Un’altra volta scrisse di un tale che protestava con il tono di «un trombone sfiatato» e l’espressione fu cambiata in «uno strumento fuori uso». I revisori che maltrattano il linguaggio vivace in questo modo dovrebbero lavorare in un museo. Guardatevi dalle espressioni alla moda Anche il linguaggio ha le sue mode, come la lunghezza delle gonne e le acconciature, ma ogni parola o espressione di moda finisce molto presto per infastidire il lettore. Perciò, nel vostro interesse, cercate di essere gli iniziatori e non i seguaci di una ten-

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denza. Usate il vostro linguaggio, le parole e le espressioni che vi appartengono, e lasciate che altri seguano le mode temporanee. Come dice il manuale del «Daily Telegraph» di Londra: «Se siete tentati di usare una parola solo perché tutti gli scrittori di successo la usano, potete cambiare parola, letture o mestiere». Oppure, come Bernard Kilgore una volta scrisse alla sua redazione: «Se leggerò un’altra volta la parola ‘entrante’ nel ‘Wall Street Journal’, faccio presente che qualcuno sarà ‘uscente’». Non vi fissate sulla grammatica Non vi sto consigliando di comportarvi come semianalfabeti, ma essere troppo ossessionati dalle minuzie grammaticali a volte toglie efficacia alla scrittura. Per esempio, quando lavorava per il «Seattle Times», E.B. White scrisse un articolo su un uomo al quale era stato chiesto di identificare il cadavere della moglie. White riportò che, quando le scoprirono il viso, l’uomo esclamò: «My God! It’s her!». Un redattore decise di correggerlo in «My God! It is she!». Grammaticalmente corretto, ma non certo realistico. Poco dopo White decise di lasciare il giornale.

ONESTÀ Ci sono aspetti del giornalismo che spesso compromettono la verità. La mancanza di tempo per mettere insieme un resoconto esauriente, l’impossibilità di accedere a tutte le fonti e a tutte le notizie e l’esigenza di fissare una dimensione, in genere piuttosto ridotta, della trattazione sono tutti fattori che possono limitare, nostro malgrado, la completezza e la precisione di un articolo. Niente da obiettare se siamo consapevoli di tali limiti e non pretendiamo di avere scritto tutto sull’argomento, fino all’ultima parola. Meglio ancora se facciamo il possibile per superare ogni limite e difficoltà.

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Di frequente, però, di fronte alla cronaca di un evento, i giornalisti fanno cose che finiscono per aumentare la distanza tra quanto scrivono e la verità. Sapendo che i direttori apprezzano molto i servizi sensazionali, cercano di raggiungere ad ogni costo questo obiettivo e, così facendo, tralasciano rilevanti aspetti marginali e usano un linguaggio esagerato e iperbolico, che gonfia i fatti oltre il loro peso reale. Del resto, specialmente nei giornali popolari, se un giornalista non segue quei criteri è probabile che lo faccia il direttore. Evitare certi modi di procedere, a volte inconsapevoli, a volte deliberati, non è facile, ma ecco qualche suggerimento. Scrivete solo quello che vi risulta sicuramente vero Sembrerebbe inutile accennare a questa ovvia regola, eppure in realtà non lo è. Parecchi cronisti rispondono a chi esprime qualche dubbio anche su una parte di un loro articolo: «Ah, non può non essere vero». Simili certezze, piuttosto avventate, vanno bene per una chiacchierata fra amici, ma non per un articolo di giornale. In ogni articolo impegnatevi per trattare l’argomento in modo equilibrato e veritiero sia nei dettagli sia complessivamente È un’impresa piuttosto ardua. Non basta che vi accertiate di aver esaminato i fatti da almeno due diversi punti di vista (di norma ce ne sono anche di più) e di aver citato correttamente i rispettivi portavoce; è anche indispensabile che la vostra impostazione rifletta bene il senso del quadro complessivo. Può darsi, per esempio, che dedichiate molto tempo all’intervista di una persona che perde la sua naturale imperturbabilità di fronte a una domanda. Nel riportare fedelmente le parole che ha usato è giusto che evidenziate la sua manifestazione di suscettibilità, ma non senza chiarire che si è trattato di un episodio isolato in una lunga conversazione per il resto molto pacata; qualunque altra soluzione sarebbe tendenziosa e scorretta.

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Non gonfiate i fatti Spesso i giornalisti usano parole che fanno apparire un fatto più importante di quanto in realtà non sia. Ciò deriva per lo più dalla diffusa convinzione che l’abilità di ricorrere a espedienti del genere sia compresa tra i requisiti del bravo giornalista, e anche questo è un cliché. Comunque il risultato della tecnica in questione, consapevole o involontaria, è un pezzo sopra le righe. Termini come «sensazionale», «trauma», «drammatico» e «inquietante» vengono usati con riferimento a cose ben poco sensazionali, traumatizzanti, drammatiche e inquietanti. Come un giorno ha detto un critico: «Quando sentite un giornalista definire ‘inquietante’ qualcosa, non dovete prenderlo sul serio». Quando nel 2004 cominciarono a circolare le voci sulla Sars, il «Daily Express» di Londra pubblicò un articolo con questo titolo: L’influenza assassina scatena il panico nel paese. Seguivano due pagine di informazioni spasmodiche, tra le quali si dimenticava però di dire ai lettori che, in un paese di 58 milioni di abitanti, fino a quel momento c’erano stati solo sei casi di quell’influenza «assassina», nessuno dei quali era stato fatale. Avevano ragione a proposito del panico, ma l’unico posto in cui si era scatenato era stata la redazione del giornale, perché il segno più evidente del fatto che un mezzo d’informazione è nei guai è la ridicola esagerazione delle notizie nel disperato tentativo di fare colpo sui lettori. È l’equivalente giornalistico del reggiseno imbottito, dei tacchi a spillo, e di quintali di trucco per cercare di compensare quello che la natura si è ingiustamente rifiutata di dispensare. Come quel piccolo inganno, è destinato a essere scoperto in brevissimo tempo perfino con la luce più fioca. Ma anche se è improbabile che facendo due più due e dichiarando a lettere cubitali che il risultato è sette si riesca a ingannare a lungo i lettori, l’abitudine di portare una notizia all’estremo, e anche oltre, fa parte integrante della cultura di certi giornali. Ed è molto pericolosa.

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Le tecniche per ingannare i lettori sono varie e molteplici: omettere alcuni fatti o una prospettiva che renderebbe la notizia più sfumata e meno in bianco e nero, giocare con le statistiche («I suicidi in carcere stanno salendo alle stelle... in un anno sono aumentati del 30 per cento...», rivelando che sono passati da sei a otto solo nel nono paragrafo dell’articolo), usare un linguaggio iperbolico (sparpagliando in un articolo come semi in un orto aggettivi come «drammatico» e «sensazionale», definendo «cruciali» eventi perfettamente normali, parlando di «ondata di criminalità» ogni volta che vengono rapinate due case nella stessa notte, definendo anche il minimo incidente una «catastrofe», e ogni minimo disaccordo una «rissa»). Ci sono altri due aspetti negativi di questa abitudine ormai diffusa. Primo, tutti questi termini presumono giudizi di valore che sono fuori posto in un articolo di cronaca. Gonfiare i fatti è il peggior tipo di commento, in quanto subdolo, dato che non si presenta per quello che è, ma con una falsa identità. Secondo, lasciate che i fatti parlino da soli. Se si tratta davvero di notizie sensazionali, traumatizzanti, inquietanti e così via, presentatele con chiarezza e lasciate che siano i lettori a valutarle. Il giornalismo non si basa soltanto sulla fiducia dei lettori nel giornale che comprano, ma anche sulla fiducia di quel giornale nei suoi lettori. L’ultima critica a questo linguaggio, diciamo, mozzafiato, esagerato, è che non ha niente in comune con quello realmente usato dalla gente. Eppure, in quasi tutti gli angoli della Terra molti giornali hanno sviluppato una forma di «giornalese». La Gran Bretagna, per esempio, è il paese in cui due persone che discutono di qualcosa «si confrontano», e «in uno scenario unico» (cioè qualsiasi cosa che non sia del tutto banale) «le stelle del video» (ossia qualsiasi attrice che abbia avuto almeno un ruolo di secondo piano) hanno «figli del miracolo» (vale a dire nati in circostanze sia pure lievemente al di fuori della norma), che vengono «affidati» o «affidati alle cure» di ospedali dove chirurghi «eroici» li operano. L’uso del «giornalese» è un atto disonesto, o quan-

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to meno assai distante dalla realtà, che per di più, essendo molto diffuso, finisce per non avere nessun impatto sui lettori. È una rappresentazione fossilizzata, legata a un preciso rituale. Non ha vita. Sostituitelo con un linguaggio vivo e genuino. Il linguaggio senza sfumature, o bianco o nero, comune nei titoli, non va usato negli articoli Un giornalista può arricchire una notizia o un argomento di una vitalità che, in certe condizioni, risulta reale, in altre, fasulla. Quest’ultimo caso si verifica quando si usano parole che non hanno sfumature di significato, dipingono tutto bianco o tutto nero, e lo si può spiegare esaminando le sue origini nei quotidiani europei per il grande pubblico. Negli ultimi cinquant’anni, più o meno, sui giornali di questo tipo i titoli hanno assunto dimensioni sempre più grandi. Quindi si preferiscono le parole brevi, che soprattutto nella lingua inglese, rispetto a quelle lunghe, comunicano minori sfumature di significato e tendono quindi a dare un’immagine senza tonalità intermedie. Così nell’ipotesi che io e voi manifestassimo opinioni diverse su un argomento e ne discutessimo, si potrebbe dire che siamo in disagreement (in disaccordo). Ammesso che il nostro scambio di idee sia abbastanza interessante per un giornale, come verrebbe presentato nel titolo? Certo, disagreement è troppo lunga e così anche debate (dibattito) perché nello spazio disponibile per caratteri alti quattro centimetri e mezzo si può collocare solo una parola di tre o quattro lettere. Di conseguenza la nostra discussione diventerà row o feud, cioè una lite o una contesa, insomma una cosa sensibilmente diversa. Può anche avvenire che si utilizzino espressioni come bust up (lite violenta), oppure lash, rap, blast (inveire, scontrarsi violentemente), dando un’immagine ancor meno veritiera della situazione. I problemi tipografici e l’impaginazione hanno falsato completamente il senso del nostro incontro. In molti giornali britannici oggi annoyance (fastidio) viene so-

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stituito da fury (furore), arrangement (accordo informale) da deal (più formale, con sfumature prevalentemente economiche e a volte delle premesse sospette), bad luck (sfortuna) da curse (maledizione), criticise (criticare) da slam (stroncare); non partecipare a un evento diviene snub (snobbare), una disputa interna civil war (guerra civile), una eventualità threat (minaccia), una proposta plan (progetto), sostituire oust (rimuovere), un ingorgo di traffico road chaos (caos stradale) e così via. Tutti questi esempi (e ce ne sarebbero molti di più) sono parole o espressioni più brevi con significati più duri e brutali rispetto alla realtà che vorrebbero descrivere. È come se un articolo venisse tradotto in un’altra lingua da un uomo rabbioso con un lessico limitato. Apparentemente il problema trattato riguarda solo i titoli, ma c’è una complicazione: quello che è il linguaggio dei titoli di oggi tende a diventare il linguaggio delle cronache di domani. I direttori e i caporedattori controllano lo stile del giornale anche attraverso l’esame dei titoli, che devono approvare. I cronisti leggono le parole usate nei titoli dei loro servizi e per essere in sintonia con lo stile del giornale (e del direttore), nonché per dimostrarsi brillanti e aggiornati, cominciano a utilizzarle. Poi i cronisti di provincia scoprono questo linguaggio nei giornali nazionali e cercano di imitarlo, spesso male. Alla fine anche qualche giornale di qualità in crisi, per ringiovanire e vivacizzare la sua immagine, tenderà ad adottare i titoli di grandi dimensioni e al loro seguito alcuni dei difetti, forse i peggiori, che abbiamo esaminato. Così, in misura variabile, viene inquinato l’intero mondo della stampa. Se il linguaggio dei vostri giornali non è stato ancora invaso dalle parole brevi e spietate, cercate di tenerle alla larga. PRECISIONE Il giornalismo dovrebbe essere nemico delle imprecisioni. Un articolo dovrebbe essere scritto per rispondere alle domande che i

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lettori si pongono, non per creare dubbi. E le domande a cui un cronista dovrebbe cercare di rispondere con la massima precisione sono: – Che cosa? – Che cosa è accaduto? – Chi? – A chi è accaduto il fatto? Chi lo ha causato? Età, aspetto, occupazione, titoli e dati rilevanti sull’ambiente. – Dove? – Dove è avvenuto il fatto? – Quando? – Quando è avvenuto? A che ora, in che giorno, in che mese? – Come? – In che modo è avvenuto? Spiegazioni. – Perché? – Quali sono le cause e i motivi del fatto? Ecco poi qualche altro punto da considerare. Evitate i riferimenti astratti a favore delle definizioni esplicite Non si devono scrivere cose vaghe. Gli articoli che parlano di «organizzazioni ufficiali» senza farne i nomi non servono a niente. Usate parole specifiche, fate i nomi, stilate degli elenchi che spieghino chiaramente tutti i vari aspetti della faccenda di cui vi occupate. Decidete in modo avveduto la collocazione di questi elementi nell’articolo, ma ricordatevi che ci devono essere. E non limitatevi a definire «alto» un edificio: quanto è alto esattamente? Esprimetevi in metri, per favore, e suggerite anche un’idea schematica delle dimensioni. Attenti a «fino a...» e «più di...» Un importante caporedattore statunitense ha giustamente evidenziato la fastidiosa abitudine dei cronisti di usare espressioni numeriche troppo generiche, fornendo questo esempio: «In media un assistente sociale può seguire fino a 100 o più casi al mese». Analizzandolo, poi, rileva che quel «fino a» (cioè da 0 a 100), complicato da quell’«o più» (cioè da 100 all’infinito), viene anche messo in forse da quel «può». Frasi di questo genere finiscono per

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non dire niente. Volendo perdere un po’ di tempo, possiamo parafrasare così: «Non è inconsueto che un assistente sociale segua 100 casi al mese», ma, a quanto ci risulta, 100 casi al mese è una media solo probabile, che quindi in realtà può non rappresentare un valore normale. L’unica soluzione è che il cronista vada a procurarsi dati specifici. Non usate aggettivi vaghi Ci sono alcune espressioni di uso comune che suggeriscono idee solo vaghe. «Gusti costosi», per esempio, vi dice che i gusti di qualcuno si dirigono verso articoli non a buon mercato, niente di più preciso. Che cosa significa esattamente «costoso» in questo contesto? In realtà il lettore vuole sapere a che genere di articoli ci si riferisce, con tanto di marche e prezzi. Lo stesso vale per «un’automobile veloce»: si tratta di una Porsche, di una pantera della polizia di seconda mano o di una Ferrari? E ancora, il «lusso» che cos’è? Risposta: «è una cosa diversa a seconda delle persone». Bisogna dare ai lettori concetti che tutti interpretano allo stesso modo. Questo vale anche per le descrizioni fisiche: che cosa significa «È alta e attraente»? Se scriviamo che è bionda e alta un metro e 80, tutti hanno un’immagine più precisa. «È una donna intelligente» non significa nulla, a meno che non vogliamo dire che non è mentalmente ritardata. Ma se aggiungiamo che è laureata in Scienze politiche, forniamo un elemento chiarificatore. Usate quantità specifiche piuttosto che vaghe I giornalisti usano spesso parole come «molto», «considerevole», «grande», «numerosi». Se qualcuno gliele contesta dicono che stanno cercando di dare l’idea di una dimensione, ma in realtà stanno facendo due cose completamente diverse. In primo luogo stanno infastidendo il lettore con la loro imprecisione. Dopotutto, a quanto corrisponde «numerosi»? Che cosa significa «grande»? In secondo luogo, usando termini così vaghi, dimostrano

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che non hanno fatto nessuna ricerca. I capocronisti capiscono subito che i reporter i cui articoli sono pieni di parole come «numerosi» e «grandi» non sanno fare le domande giuste quando raccolgono le informazioni, oppure stanno cercando di gonfiare la notizia. In un caso o nell’altro, il loro pezzo sarà scialbo e incompleto, a riprova del fatto che sono inetti, disonesti o entrambe le cose. Date sempre i dettagli ai vostri lettori. Non dichiarate, dimostrate Molti cronisti cadono nella trappola di affermare, piuttosto che dimostrare. Perciò scriveranno che un certo evento è «tragico» o «inquietante» pensando di aver aggiunto qualcosa alla notizia. In realtà non è così. Cercate di spiegare perché quell’evento è tragico o inquietante; se non ci riuscite, probabilmente non lo è. Evitate gli eufemismi L’eufemismo è un modo per non confrontarsi con la realtà. Si parla, ad esempio, di qualcuno che «si spegne» per dire che muore; il rapporto sessuale viene definito con la perifrasi «essere in intimità con». L’Inghilterra vittoriana era una fonte inesauribile di assurdi eufemismi: «abbigliamento intimo» per le mutande, «virilità» per il membro maschile, «in costume adamitico» anziché nudo, «la stanza più piccola della casa» invece di gabinetto, «in stato interessante» significava incinta. Ancora oggi si inventano parole o frasi per riferirsi alle cose che mettono a disagio, come la morte, il sesso o le emozioni più intime. I giornalisti dovrebbero usare gli eufemismi esclusivamente in modo ironico. Questo non significa che si possano esprimere in termini crudi su ogni particolare di una storia di sesso o di morte. Quasi tutti i giornali si rivolgono a un pubblico di lettori che comprende individui con livelli di sensibilità molto differenziati. Non vi rivolgete soltanto ai più delicati e composti o solo ai più assetati di sangue.

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Quando si trattano casi di morte violenta, causata da un delitto o anche da una guerra o un incidente, riflettete attentamente su come presentare bene i fatti senza sconvolgere i lettori. L’esigenza della precisione, che non deve essere compiacimento, vi impone di descrivere tutti i dettagli di qualche rilievo, ma senza essere insensibili. La descrizione dei particolari deve avere una giustificazione. In certe situazioni come i disastri aerei, i lettori sono preparati all’idea che i corpi delle vittime sono stati smembrati e mutilati dalla violenza dell’urto o dell’esplosione, quindi non c’è bisogno che entriate nei dettagli più del necessario. In altre situazioni, come la guerra o gli atti terroristici, il lettore ha bisogno delle vostre parole per poter percepire appieno l’orrore dei fatti. Se mirate a un’esposizione efficace, usate un linguaggio misurato e distaccato. Robert Fisk, all’epoca giornalista del «Times» di Londra, in questo pezzo descrive le scene che si trovò di fronte quando si recò sul posto per un servizio su un massacro di palestinesi, avvenuto nel campo rifugiati di Shatila nel settembre 1982: Quello che abbiamo trovato nei campi alle dieci della mattina seguente non era assolutamente descrivibile, se non con un linguaggio da romanzo o con la fredda prosa di un referto medico. Ma dobbiamo limitarci ai dettagli, perché, dato che tutto questo accade in Libano, i fatti cambieranno nelle prossime settimane in conseguenza del palleggiamento delle responsabilità fra milizie, eserciti e governi per gli orrori compiuti ai danni di civili palestinesi. Lungo un sentiero, alla nostra destra, non più di 50 metri dall’entrata, c’era un ammasso di cadaveri. Più di una decina di cadaveri di giovani con le braccia e le gambe aggrovigliate nell’agonia della morte. Erano stati tutti uccisi con un colpo a bruciapelo e il proiettile, attraverso la guancia destra o sinistra, aveva dilaniato la carne fino all’orecchio ed era entrato nel cervello. Alcuni, lungo il lato sinistro della gola, avevano una cicatrice di colore rosso acceso. Uno era stato evirato. I loro occhi erano aperti e le mosche cominciavano solo allora a radunarsi. Il più giovane avrà avuto appena dodici o tredici anni. Sull’altro lato della strada principale in un passaggio fra le macerie abbiamo trovato i corpi di cinque donne e di numerosi bambini. Le donne erano di mezza età e i loro

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corpi giacevano abbandonati su un mucchio di macerie. Una era distesa sulla schiena con il vestito strappato e dietro di lei spuntava la testa di una bambina. La bambina aveva i capelli scuri e ricci e i suoi occhi ci fissavano, sul suo viso c’era una smorfia. Era morta.

Il racconto di Fisk prosegue per altri undici paragrafi. Né questi né i tredici precedenti contengono una sola parola di commento o di partecipazione emotiva. Non certo perché lui non provi emozioni, ma perché sa che, se il cronista le fa percepire in quello che scrive, l’articolo perde il suo impatto – e il suo realismo. Sesso Per molti anni i giornali di tutto il mondo hanno usato un linguaggio castigato per descrivere qualunque cosa avesse a che fare sia pure alla lontana con il sesso. I lettori dovevano lambiccarsi il cervello per capire di che cosa si stesse parlando. Espressioni come «ebbero un attimo di abbandono» e «proposta sconveniente», oltre a essere imprecise, davano spesso al lettore l’impressione che si riferissero a fatti più gravi di quelli che in realtà celavano. Una delle espressioni più abusate sui giornali inglesi era interfered with, letteralmente «molestata», con riferimento alla molestia sessuale, come in questo titolo: Ragazza uccisa con 65 pugnalate, ma non molestata. Eppure sostituire questo linguaggio così timoroso con uno più chiaro non significa necessariamente cadere nella pornografia verbale. I dettagli vengono forniti per chiarire, non per eccitare. Si può anche scoprire che l’uso di un linguaggio accettabile per la stragrande maggioranza dei lettori a volte produce descrizioni singolari e suggestive. Un esempio ce lo fornisce Ben Hecht, cronista americano degli anni Venti, il quale scrisse un servizio per il «Daily News» di Chicago su un prete che faceva regolarmente l’amore con una ragazza nello scantinato della sua chiesa, finché un giorno accidentalmente girò con un piede la chiavetta del gas e morì durante il rapporto sessuale. Nelle ultime righe Hecht scris-

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se: «Preso dall’amore, non aveva percepito altri odori oltre quello del Paradiso e aveva reso l’anima a Dio mentre era ancora incollato alla sua parrocchiana». APPROPRIATEZZA Con questo termine mi riferisco all’adeguamento dello stile, del tono e del ritmo dell’articolo all’argomento trattato. Non tutti i temi hanno bisogno di un trattamento particolare, ma alcuni richiedono una maggiore sensibilità, come in genere appare ovvio. Le questioni di vita o di morte, per esempio, dovrebbero essere sempre trattate con serietà (a meno che non siano destinate a una rubrica specializzata in cattivo gusto). Ecco qualche indicazione per le situazioni più comuni. Gli articoli su eventi dinamici e di azione richiedono un ritmo sostenuto In questi casi si richiedono costruzione e linguaggio asciutti, verbi in forma attiva e diretta, frasi essenziali e molta parsimonia nell’uso degli aggettivi. Ci sono pochi esempi più efficaci di questo pezzo di Sergej Kurnakov che descrive la frenesia di San Pietroburgo nell’agosto 1914, subito dopo la dichiarazione di guerra alla Russia da parte della Germania. Presenta i fatti con lo stesso ritmo teso con cui sono avvenuti: Quando arrivai alla piazza di Sant’Isacco, la trovai brulicante di folla. Saranno state le nove di sera, perché c’era ancora abbastanza luce – l’interminabile, affascinante crepuscolo delle notti del Nord. La mostruosità in pietra grigia dell’ambasciata tedesca si contrapponeva al granito rosso della cattedrale di Sant’Isacco. La folla si accalcava nel piazzale in attesa che accadesse qualcosa. Stavo osservando un giovane ufficiale di marina che veniva maltrattato da un gruppo di patrioti oltranzisti, quando il martellare di asce sul metallo richiamò il mio sguar-

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do verso l’alto, sul tetto dell’ambasciata, dove si stagliavano colossali figure di robusti guerrieri germanici che frenavano la corsa di enormi cavalli. Un’asta sosteneva un’aquila di bronzo con le ali spiegate. Parecchi uomini erano intenti a martellare i piedi dei teutoni e dopo i primi colpi la folla cominciò a rumoreggiare: quelle figure eroiche erano vuote! «Sono vuoti! È un buon segno! Un’altra montatura dei tedeschi! Distruggete tutto! No, i cavalli lasciateli dove sono!» Le asce martellavano con ritmo crescente. Finalmente uno dei guerrieri vacillò, oscillò in avanti e si abbatté sul lastricato, trenta metri più in basso. Si levarono alte grida che fecero volare via per lo spavento uno stormo di cornacchie appollaiate sulla cupola dorata di Sant’Isacco. Poi toccò all’aquila di bronzo; l’uccello precipitò giù e i suoi resti ammaccati furono immediatamente annegati nel vicino fiume Mojka. Ma ovviamente la distruzione dei simboli non fu sufficiente. Un gruppo, organizzato sul momento, sfondò una porta laterale dell’ambasciata. Vedevo torce e fiaccole muoversi all’interno e salire rapidamente ai piani superiori. Una grossa finestra si aprì e sputò sulla folla di sotto un grande ritratto del Kaiser. Quando si frantumò sul selciato, i suoi pezzi bastarono ad alimentare un bel falò. Poi venne giù un pianoforte a coda di palissandro, che esplose come una bomba; il lamento delle corde spezzate vibrò per l’aria un attimo, ma fu presto soffocato; c’era troppa gente che urlava per allontanare il pensiero di un futuro che la terrorizzava.

Non c’è una parola di troppo in questa descrizione. Ogni dettaglio è centrato con un numero minimo di aggettivi. Come ogni scritto di alta qualità, sfida ogni revisione. Con i fatti crudi e raccapriccianti non enfatizzate Di fronte a un materiale sensazionale la tentazione di usare toni enfatici è sempre forte. Lasciate che i fatti si presentino da soli e non cercate di aggiungere un tocco drammatico con definizioni d’effetto. Per esempio non scrivete che l’evento è «sensazionale», «inquietante», «raccapricciante». Presentate il vostro articolo senza commenti del genere e lasciate che sia il lettore a giudicare.

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Con le emozioni forti attenuate i toni invece di inasprirli Questo non vuol dire tralasciare alcunché, ma evitare un linguaggio che mira all’effetto: una storia strappalacrime, ad esempio, si presenta meglio in tono minore. Attenzione all’umorismo Nel cinema, nel teatro, nei libri, l’umorismo non deve avere nessun tabù, è giusto prendersi gioco della morte, del cancro, della fame. Ma scherzare su certi argomenti in astratto non è come cercare di ridere delle disgrazie di qualcuno sul giornale del giorno seguente. Trattare con una punta di umorismo un incidente, una sofferenza, un turbamento non è mai opportuno, è un atto insensibile e in realtà inutile. Se i fatti contengono qualche elemento davvero comico (anche se di gusto discutibile) i lettori lo rileveranno da soli ed eventualmente ne rideranno; a voi spetta il compito di fornire loro un resoconto chiaro e diretto. Quasi tutti i giornalisti sono d’accordo nel ritenere che fare dell’umorismo in un articolo è un’impresa difficile; peccato, però, che questa considerazione non li trattenga dal provarci. In realtà i giornali contengono tanto umorismo, negli intenti, se non nei fatti, che l’incapacità dei manuali di giornalismo di dare un indirizzo su questo tema è al limite della negligenza colpevole; basterebbe che dicessero «pensateci due volte». E sarebbero ancora più preziosi se indicassero quella verità di base dell’umorismo che sto per rivelarvi, perché così riuscirebbero a bloccare sul nascere molti faticosi e zoppicanti tentativi, impedendo che arrivino alla pubblicazione. Questa verità è: l’abilità di fare del sano umorismo in un articolo è una dote divina che a molti di noi non è stata elargita. Scrivere con umorismo è come cantare a tono. Se ne siete capaci, non c’è bisogno che ve lo insegnino; se non ne siete capaci, è inutile che cerchiate di farvelo insegnare e una battuta stonata, come una canzone, è un’esperienza atroce e un fatto imbarazzan-

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te; o almeno dovrebbe esserlo. Comunque, se possedete questa dote, sfruttarla è piuttosto facile. L’orecchio riconosce a istinto il ritmo giusto per la frase umoristica e le parole adatte, che in genere sono umoristiche in sé. Non c’è bisogno di ricordarvi che le battute sono più divertenti se le porgete in un modo serio e distaccato e non con il tono del comico di avanspettacolo espresso in forma scritta. Il vostro occhio riesce a scoprire i risvolti umoristici nascosti dove gli altri vedono solo ciò che è in superficie e il vostro cervello ha acquisito tutti quei piccoli riferimenti culturali, sociali e storici su cui si basa una battuta. Se avete in mente un’idea umoristica per un pezzo a cui si attagli, curatene tutti gli aspetti. Deve essere scritta con uno stile serrato, sorprendere il lettore (ecco perché i giochi di parole non sono mai divertenti), e riservare alla battuta finale proprio le ultime parole, rigorosamente le ultime, non le penultime. Infine, se state dando a un articolo una struttura o un’impostazione umoristica, domandatevi se è in grado di sostenere il pezzo fino alla fine. La regola più sana ci insegna che l’umorismo deve venire fuori naturalmente dai fatti e dalle assurdità dell’evento e non essere imposto dall’esterno. Come esempio di ciò ho scelto una frase introduttiva scritta da Tony Horwitz, cronista del «Wall Street Journal», che subito dopo la fine della Guerra del Golfo si occupò di un servizio sul Kuwait, la cui invasione aveva scatenato il conflitto. Il Kuwait è uno Stato semi-feudale, ricco di petrolio e retto da una famiglia reale multimiliardaria. Ecco che cosa scrisse Horwitz: «L’emiro del Kuwait, Jaber al-Sabah, è ritornato a casa ieri, quindici giorni dopo la liberazione della sua terra e dieci giorni dopo i mobili del suo palazzo». La morale di queste osservazioni è che se avete qualche dubbio su una battuta o una frase che presumete umoristica, è meglio che non la scriviate. Se non avete nessun dubbio, provate a immaginare di leggerla da un palcoscenico a un pubblico di cinquecento lettori: se siete ancora sicuri che fa ridere, allora scrivetela pure. Ma ricordatevi che l’aggiunta di un punto esclamativo alla

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fine di una frase non basta a renderla umoristica! È solo un espediente dilettantesco!

PRODUTTIVITÀ Nell’Ottocento e per gran parte del Novecento, in Gran Bretagna e negli Stati Uniti i giornalisti venivano pagati in base al numero di righe scritte. Questo sistema di pagamento creò una generazione di giornalisti capaci di scrivere un numero impressionante di parole per non dire niente e di scrivere all’infinito per dire ben poco. A loro volta, questi crearono uno stile verboso, caratterizzato dal rifiuto consapevole di usare una sola parola quando era possibile sostituirla con quattro o cinque. Ben presto quello stile ridondante ed eccessivo (pensate che un pallone da calcio era definito «sfuggente sfera di cuoio») contribuì in modo duraturo, anche se inconsapevole, ad arricchire il tradizionale umorismo inglese. Quel modo di scrivere così grossolanamente improduttivo era, per un certo aspetto, magistrale. Per fortuna, lo stile giornalistico (e quasi ovunque i criteri di remunerazione) sono cambiati un po’. Da tempo è stato riconosciuto che il pagamento in base al numero di parole è come un premio di «improduttività» per scrivere male. Tuttavia, dato che la specie dei giornalisti verbosi non è ancora estinta, vale la pena di dedicare un po’ di spazio allo stile produttivo. Ogni frase e ogni periodo devono avere una funzione Devono fornire nuove informazioni o avere una funzione di collegamento nella struttura dell’articolo. Altrimenti vanno tagliati. Evitate le costruzioni tortuose In ogni lingua si usano frasi introduttive per preparare il lettore a quanto viene espresso di seguito. Esempi piuttosto comuni

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possono essere: «È noto che», «Non c’è alcun dubbio che», «Possiamo inoltre osservare che». Evitate le frasi di questo tipo e tutte le costruzioni elaborate che rallentano l’esposizione. Il giornalismo, soprattutto negli articoli di cronaca, deve avere un ritmo veloce. E non può averlo se, ad esempio, quest’ultima osservazione viene espressa così: «Un requisito essenziale per quasi tutti i pezzi giornalistici – servizi speciali, rubriche sportive, articoli di colore, ma in particolare gli articoli di cronaca – è, in sostanza, la capacità di procedere con quella caratteristica nota come ritmo veloce». Scrivete senza guardare i vostri appunti Scriverete più velocemente e in modo più produttivo se eviterete di guardare i vostri appunti ogni cinque secondi. Premesso che se i fatti non sono chiari nella vostra mente non dovreste nemmeno cominciare a scrivere, quando lo sono, sicuramente riuscirete a presentare le cose essenziali senza l’aiuto degli appunti. Controllerete in seguito i dettagli, l’ortografia dei nomi e le cifre precise. È anche probabile che dobbiate aggiungere un paio di punti, ma è sempre più produttivo scrivere la stesura generale a mente che non trascriverla da un pacco di annotazioni. Scovate le ovvietà e le sciocchezze per cancellarle senza pietà Anche i giornalisti più esperti a volte scoprono di avere scritto qualche pietosa ovvietà. Si tratta spesso di collegamenti fra parti diverse, che, elaborati molto faticosamente nel disperato tentativo di unire un periodo all’altro, si rivelano poi come delle vere e proprie sciocchezze. Solo la scorsa settimana ho ritagliato da un articolo questa frase: «Naturalmente la vita di un ballerino classico non è fatta solo di applausi». E chi ha mai pensato il contrario? Un collegamento del genere di solito è assolutamente inutile. Per la maggioranza dei lettori è sufficiente che il passaggio ad un argomento diverso sia introdotto da un punto e a capo.

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Preferite le forme attive a quelle passive C’è sempre qualcuno o qualcosa che agisce attivamente, perciò è bene rispettare questo principio. Quindi: «L’aeroporto di Heathrow aprirà una nuova pista nel 2005» è da preferire a «Una nuova pista sarà aperta dall’aeroporto di Heathrow nel 2005». Ci sono molti casi simili in cui spesso si ricorre a una forma passiva o impersonale: «Si è richiesto da parte dello stesso Putin» (meglio: «Lo stesso Putin ha richiesto»); «3mila persone sono state uccise dal terremoto» (meglio: «Il terremoto ha fatto 3mila vittime») e «Da parte di X si è incoraggiata l’azione...» (sostituire con: «X ha incoraggiato l’azione...»). La forma attiva è più immediata e, come dice il suo stesso nome, più attiva. Esponete le fasi di un evento tramite elenchi puntati e liste A volte i giornali abusano di questo criterio, che, però, è molto utile quando dovete esporre una lunga sequenza di punti. Invece di disperdervi in verbosi periodi per descrivere gli effetti, ad esempio, dei tagli alla spesa statale sui trasporti, presentateli in forma di elenchi, come si fa con la lista della spesa. Ma se vi accorgete di aver omesso qualche particolare, non riprendete tutti i punti per esteso con lo scopo di aggiungerlo, inseritelo invece nell’elencazione. Evitate aggettivi e avverbi superflui Espressioni come «serio pericolo», «semplici voci non confermate», «esageratamente spaventato», se ci riflettete un attimo, non hanno assolutamente senso. Che cos’è un pericolo non serio? E se una semplice voce fosse confermata non sarebbe più una voce, ma un fatto comunicato da una fonte precisa. Queste espressioni d’uso possono benissimo essere alleggerite dell’aggettivo o dell’avverbio e lo stesso vale per altre espressioni sciocche come «piuttosto unico»: se è il solo del suo genere, è unico e basta; se non è il solo, allora non ha nessun grado di unicità.

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Evitate le tautologie Non usate due volte parole che significano la stessa cosa. Per esempio: «Alcune delle osservazioni includevano...» oppure «è una condizione essenziale». In entrambi i casi (e in molti altri che si potrebbero citare) solo una delle parole in corsivo è necessaria. Non riportate citazioni dirette di affermazioni già espresse in forma indiretta È un’abitudine tanto diffusa quanto sconsigliabile. Un esempio: «Il ministro lo ha negato e un portavoce ha detto ‘Respingiamo questa affermazione’». Scegliete la forma della prima parte (indiretta) o quella della seconda (diretta), preferibilmente la prima. Cercate le parole che possono sostituire un’intera frase «Il punto a cui mi riferisco», per esempio, può spesso essere sostituito da una sola breve parola: «Questo». Per concludere, vi suggerisco un esercizio utile: prendete qualche vostro articolo pubblicato di recente e con la penna rossa riducete il numero delle parole usate senza eliminare nessun elemento essenziale. Noterete con sorpresa di aver scritto tante parole di cui si poteva fare a meno. Per questo motivo è prezioso per un giornalista aver fatto l’esperienza di redattore. E poi non c’è niente di meglio per insegnarvi uno stile produttivo che l’indicazione di scrivere un articolo complesso in non più di 1500 battute. LA FASE DELLA REVISIONE Un giornalista deve essere il più feroce critico di se stesso. È essenziale che rileggiate quello che avete scritto per individuare eventuali difetti e che lo ritocchiate se non ne siete soddisfatti. Quando finirà sotto gli occhi di qualcun altro, di norma sarà trop-

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po tardi sia per correggerlo sia per salvarvi la reputazione. Alcuni giornalisti preferiscono scrivere una prima stesura dell’intero servizio prima di sottoporlo a una revisione, anche radicale. Altri, che probabilmente sanno con precisione quello che vogliono, rivedono le singole parti man mano che le completano. Ma in fondo il metodo non conta, l’importante è che la revisione sia approfondita e non si limiti alla correzione dell’ortografia o della sintassi di base. George Orwell, autore di La fattoria degli animali e 1984, due opere note per la loro chiarezza, riteneva che ci fossero quattro domande da porsi per ciascuna frase. È un metodo che sembra molto laborioso e lo sarebbe davvero, se non divenisse presto automatico e quasi inconsapevole. Le quattro domande sono: – Che cosa voglio dire esattamente? – Quali parole lo esprimono? – C’è un’immagine o un’espressione idiomatica che lo chiarirebbero? – L’immagine è abbastanza originale per essere efficace? Poi, dopo un’attenta riflessione, ne aggiunse altre due: – C’è un modo per semplificare? – Ho scritto niente che sia indiscutibilmente brutto? Chi scrive per professione imparerà presto a porsi queste domande davanti al suo pezzo senza sottoporsi a uno sforzo consapevole maggiore di quello che compie per spostare lo sguardo da sinistra a destra nella lettura. A ogni buon conto, io aggiungerei un paio di domande da porsi nella prima stesura: – C’è qualcosa di incompleto, è tutto spiegato compiutamente? – La lettura è scorrevole? Se la lettura è scorrevole, va bene così com’è scritto; non cedete alla tentazione di inserire qualche espressione colorita supplementare; non fate come il cuoco che butta nell’impasto un’altra

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inutile manciata di canditi. Se invece la lettura non è agevole, forse ci sarà bisogno di qualcosa di più che qualche rappezzo per risolvere il problema. La punteggiatura, ad esempio, non è il mezzo più rapido per ridare vitalità alle frasi morenti. Meglio riscriverle, ricostruirle, finché non ne sarete soddisfatti. E poi ci sono i tagli. C’è qualche parola, espressione, frase che rallenta l’esposizione? A me capita raramente di trovare un articolo a cui non gioverebbero dei tagli qua e là. È un po’ come stringere i dadi e i bulloni di un mobile. Se non lo si fa, l’oggetto rimane incerto e traballante. Fate molta attenzione a tutto quello che vi sembrava perfetto quando lo avete scritto. Come disse una volta Samuel Johnson: «Rileggete i vostri componimenti e quando trovate un passo che vi sembra particolarmente bello, cancellatelo». Quelle frasi spesso non funzionano bene come avevate pensato. LE GIOIE DEL GIORNALISMO I giornalisti alle prime armi a volte possono venire quasi sopraffatti dai problemi che si trovano a dover risolvere per scrivere cose chiare e interessanti che la gente leggerà con piacere. In realtà neanche i giornalisti più esperti sono del tutto immuni da questa sgradevole sensazione, tanto che a sentirli lamentare le sofferenze della composizione verrebbe da pensare che una persona sana di mente si rassegnerebbe a scrivere solo con una pistola puntata alla tempia. Ad esempio una volta il grande cronista sportivo americano Walter Smith, detto Red, ha detto: «Non ci vuole niente a buttar giù un pezzo. Basta sedersi davanti a una macchina da scrivere e svenarsi». E un altro americano, Gore Vidal, probabilmente gli ha dato una risposta definitiva scrivendo: «A chi parla di blocco dello scrittore e altri guai del genere dico: ‘Vaffanculo! Smettila di scrivere, per l’amor del cielo! Siamo già tanti a fare questo mestiere’».

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In effetti qualche volta si deve sudare parecchio; per esempio, di fronte a un pezzo che ti sembra un ignobile guazzabuglio e ti costringe a faticare per ore nel tentativo di dargli una forma, o quando ti prende il panico, perché la scadenza è vicina e tu sei solo a metà e quella metà è anche tirata via. Ma il piacere di catturare un’idea e darle forma con le parole, con le tue parole, è immenso. Come l’emozione che provi partendo da una congerie di informazioni disordinate per poi scoprire uno schema logico che ti suggerisce nuove idee, mentre stai scrivendo. Dovrete scrivere parecchie pagine solo per accantonarle o bruciarle, prima di prendere confidenza con questo strumento di comunicazione. È meglio che vi mettiate subito al lavoro, perché credo che alla fine la quantità dovrà compensare la qualità. Ray Bradbury

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L’attacco

Afferrate il lettore per la gola con le prime righe, mozzategli il fiato con le seguenti e impeditegli ogni movimento fino alla frase chiave. Paul O’Neil

L’attacco è la parte più importante di un articolo: può indurre i lettori ad andare avanti fino alla fine del pezzo o convincerli a passare in gran fretta a un altro articolo. E, in questo secondo caso, lo faranno senza troppe esitazioni. I giornali vengono in genere divorati da persone che hanno poco tempo per leggerli, in luoghi e condizioni che non favoriscono la distensione e l’indugio: treni, automobili ferme a un semaforo, uffici, camminando per strada e così via. C’è un’elevata probabilità che se le righe di esordio non catturano la loro attenzione, non arriveranno mai a leggere le righe seguenti. Questo non dipende sempre dalla qualità del paragrafo d’apertura. Ci sono altri fattori che lo condizionano: un buon titolo induce spesso il lettore a dirigere lo sguardo sulle prime righe e un forte interesse nei confronti dell’argomento trattato può convincerlo a proseguire, per vedere se l’articolo riuscirà a catturare la sua attenzione. I lettori sono anche influenzati dallo spessore del giornale (se è di 96 pagine, evidentemente offre molte più alternative a quel certo articolo di un altro giornale che ne ha solo 12). Come giornalisti, non avete nessun potere di intervenire su

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tali fattori, dei quali, peraltro, non avete una compiuta conoscenza preventiva (e non ditemi che sapete bene quante pagine ha il vostro giornale, perché i vostri lettori potrebbero comprarne anche altri e voi ignorate quali e quanti). Perciò se volete convincere il lettore a proseguire nella lettura dell’articolo, dovete curare molto le righe di apertura. COME COMINCIARE NEL MODO PIÙ EFFICACE Per qualsiasi tipo di inizio e qualunque sia l’argomento dell’articolo, è bene ricordare i punti che seguono. L’attacco dev’essere diretto, essenziale e non ambiguo Di fronte alla frase d’apertura il lettore si dovrebbe porre solo una domanda: «Mi va di leggere questo articolo?». E se voi gli avete creato altri dubbi, esprimendovi in modo ambiguo e complicato, la risposta più probabile è: «No». È anche importante che eliminiate gli elementi superflui, come dettagli non necessari, definizioni complete, attribuzioni a fonti specifiche, perché potete benissimo inserirli nel capoverso seguente o anche più in là. L’attacco dev’essere autosufficiente Salvo che in qualche servizio speciale, il significato dell’apertura non deve dipendere dalle frasi che seguono, ma solo dal senso del suo contenuto. E non deve presentare fatti, persone, eventi, organizzazioni o luoghi non definiti, a meno che non sia inevitabile. Non cominciate mai un articolo con una subordinata Alludo a proposizioni come: «Nonostante il crescente numero di omicidi...», oppure «Sebbene i casi di omicidio siano ogni giorno più frequenti...». Le premesse di questo tipo rallentano l’esposizione, allontanano il punto principale e fanno sorgere domande nella mente del lettore. Certe frasi subordinate e in particolare le

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concessive producono gli stessi effetti in qualsiasi collocazione e quindi dovrebbero essere usate con parsimonia anche nel corso dell’articolo. Non cominciate mai un articolo con un numero in cifre Scrivete il numero in lettere o, specialmente se è molto grande, trovate un modo diverso per cominciare l’articolo. Non usate con leggerezza la parola «circa» e simili, come in questa frase: «Circa 47 persone sono morte ieri a causa...». In casi come questo il tono approssimativo mina la credibilità della notizia. Non cominciate mai con lunghe denominazioni ufficiali Se non avete motivi particolari o un intento ironico, le lunghe denominazioni ufficiali sono un pessimo modo per iniziare un articolo. Di fronte a un’apertura come «Il ministero dell’Agricoltura e l’Ente di controllo dell’inquinamento nell’industria ittica comunicano che...» i lettori smetteranno di leggere l’articolo prima di arrivare a capire che tutto il pesce pescato in un certo fiume è contaminato e non deve essere mangiato. Scegliete una definizione abbreviata come «Gli esperti di inquinamento del governo» o, meglio ancora, spiegate alla gente che cosa è accaduto e menzionate le fonti della comunicazione successivamente. Non cominciate con una citazione diretta, se non in casi eccezionali Aprire un articolo con la citazione delle parole di qualcuno confonde il lettore, che non sa chi sta parlando finché non glielo dite. In qualche caso particolare la citazione diretta è un buon inizio, a patto che venga subito chiarito chi ha pronunciato quelle parole. Evitate di cominciare con una formula impersonale Una delle brutte frasi iniziali di questo tipo, che si leggono normalmente, suona così: «Ieri sera è emerso che». Anzitutto viene

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subito da chiedersi chi o che cosa sia emerso, poi «emergere» è un modo molto goffo per dire che una certa cosa è stata comunicata, rivelata, dichiarata o pubblicata. L’unico caso in cui sarebbe giustificato iniziare con la frase suddetta è un articolo sull’improvvisa comparsa del mostro di Loch Ness, risalito in superficie dalle profondità del lago. Non fatevi condizionare dalla lunghezza dell’attacco Alcuni giornali fissano regole precise in merito alla lunghezza massima dell’attacco. Se anche quello per cui lavorate è fra questi, non potete fare altro che adeguarvi. In caso contrario non vi preoccupate troppo se risulta più lungo del previsto: non ho mai letto una lettera di reclamo in cui un lettore si sia lamentato dell’eccessiva lunghezza dell’attacco; qualunque sia la sua lunghezza, l’importante è che catturi l’attenzione di chi lo sta leggendo. Di solito gli autori dei manuali di giornalismo distinguono gli attacchi a seconda del tipo di servizio che introducono (articolo di cronaca, pezzo di colore ecc.). Questo criterio è inutile, sciocco e sbagliato. Dà l’impressione che giornalismo significhi apprendere delle tecniche, che ai giornalisti venga fornito un sacchetto pieno di trucchi e strumenti, pronti per l’uso a seconda delle circostanze: «Ah, ecco un pezzo di indagine psicologica, allora ci vuole un’apertura lenta e graduale...» – ecco dove nasce quel male conosciuto come «scrivere per frasi fatte». È molto meglio indicare criteri generali per l’attacco e lasciare che sia il giornalista a decidere come applicarli. Per me, se esiste un modello ideale di attacco per un pezzo di cronaca, è quello stabilito da due giornalisti americani che lavorarono a quarant’anni di distanza l’uno dall’altro e che compaiono entrambi nel mio libro sui giornalisti quasi perfetti. Il primo è Meyer «Mike» Berger del «New York Times». Il suo articolo su un evento drammatico accaduto nel 1944 cominciava così:

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Questo pomeriggio a Hartford centotrentanove morti e centosettantaquattro persone gravemente ustionate sono stati estratti dai resti carbonizzati del tendone centrale del circo Ringling Brothers and Barnum & Bailey devastato da un incendio che è dilagato da un capo all’altro della struttura lunga ben 150 metri.

Per il pubblico di massa dei rotocalchi odierni, questo attacco sarebbe troppo lungo, ma da qualsiasi altro punto di vista è assolutamente esemplare. Risponde a tutte le domande principali (tranne, come è normale aspettarsi da un articolo scritto solo qualche ora dopo l’incidente, al perché), e aggiunge la sorprendente informazione che l’incendio è dilagato da un capo all’altro di una struttura così grande. Ma Berger sapeva anche scrivere attacchi originali su storie più comuni (come quella di un cieco che muore cadendo nella metropolitana di New York): Il sesto senso che aveva preservato Oscar England dagli infortuni nei trentaquattro anni al buio della sua vita ieri lo ha tradito. Un passo di troppo nella stazione della metropolitana di Union Square ed è finito incastrato tra un espresso diretto a nord e la piattaforma di cemento.

Questo articolo è del 1936. Più di quarant’anni dopo, Edna Buchanan del «Miami Herald» scriveva attacchi molto diversi tra loro per gli articoli che avrebbero fatto di lei la migliore cronista di nera del mondo. Potevano essere spiritosi: «L’hanno chiamata Operazione Biancaneve perché la droga era cocaina e tra i sospettati c’erano sette agenti della polizia di Miami» (1982). «Angel Aguada vide uno sconosciuto dall’altra parte della stanza affollata. I loro occhi si incontrarono. Ma l’incanto si ruppe quando suo marito le sparò tre colpi». O assomigliare all’inizio di un racconto: «Aveva un Rolex d’oro tempestato di diamanti al polso, e una pallottola in testa». Oppure sottolineare l’importanza di una notizia con un’immagine retorica che colpisca il lettore: «Venerdì è stata sequestrata una partita di un potente allucinogeno più che sufficiente ad alterare la mente di un milione di persone».

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Altre volte raccoglieva tutti i fatti che avevano a che vedere con il sesso e li intrecciava nel suo attacco: «Il doppio cartellone prevedeva Affari pubblici e Desideri americani. È stato l’ultimo spettacolo per l’uomo misterioso trovato morto nel corridoio del cinema a luci rosse Pussy Cat poco prima che Fifi Royale cominciasse la sua danza esotica». C’erano poi gli attacchi a effetto, in cui la notizia più sorprendente veniva data con una battuta alla fine del paragrafo: «Ha contribuito a organizzare un importante traffico di cocaina parlando con scioltezza inglese e spagnolo. Si è accorto che fuori c’erano alcuni agenti in borghese e ha dato l’allarme, facendo divampare una sparatoria tra i sospetti e la polizia. Ha sei anni». E quelli così intriganti che non si poteva fare a meno di continuare a leggere, come in questo articolo su una donna i cui mariti avevano la brutta abitudine di morire prematuramente: «Brutte cose capitano ai mariti della vedova Elkin». L’ATTACCO NEGLI ARTICOLI DI CRONACA Anzitutto chiariamo che quanto detto finora si riferisce ai casi in cui le notizie pubblicate sono fresche. Per i servizi che riportano fatti o commenti relativi a eventi avvenuti qualche giorno prima è necessario un approccio diverso, soprattutto se nel frattempo è intervenuta l’informazione radiofonica o televisiva. L’attacco di un articolo mira, in qualsiasi caso, a catturare il lettore e a stimolare il suo interesse fino a convincerlo a proseguire nella lettura del pezzo. Per quanto riguarda i pezzi di cronaca, quindi, tale premessa comporta che ogni aspetto rilevante dell’argomento trattato deve essere anticipato in quelle prime righe di apertura. Se nella vostra redazione per i titoli vige uno stile criptico che prevede l’anticipazione di pochi aspetti dei servizi che presentano, avete una ragione di più per arrivare al punto quanto prima e con un articolo su notizie precise e secche in genere questo

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non è difficile. Se sono morte 345 persone in un disastro aereo, l’apertura del servizio non dovrebbe costituire un problema: «Almeno 345 persone hanno perduto la vita la scorsa notte quando un Boeing 747 della Global Airlines si è schiantato su un condominio alla periferia della capitale». Ma ci sono molte notizie che non sono così chiare e dirette e allora ci troviamo di fronte ad angolazioni e aspetti diversi tanto numerosi che non si possono esaminare tutti senza appesantire troppo l’attacco. Dobbiamo decidere quali siano i più rilevanti in termini di informazione. Sembra semplice, ma non lo è. E infatti fin troppi giornalisti esperti hanno passato delle ore a scrivere, cancellare e riscrivere l’attacco. Il problema della migliore impostazione dell’apertura di un articolo è forse l’aspetto del giornalismo che provoca più discussioni di ogni altro nelle redazioni di tutto il mondo. In tali discussioni poi non emergono mai opinioni semplicemente giuste o sbagliate, ma in aperto conflitto. Così, di fronte a due o tre punti di vista inconciliabili sull’impostazione dell’attacco, c’è qualcosa che possa aiutarci a trovare la via giusta? Fortunatamente, sì. Si tratta di un suggerimento che anni fa mi è stato dato da Peter Corrigan, forse il più utile che abbia mai ricevuto. Si chiama «Parabola dell’amico sulla collina» e dice quanto segue: Immagina di avere in testa tutte le informazioni necessarie per il tuo articolo, mentre stai passeggiando per la campagna. All’improvviso, sulla cima di una collina vedi un amico che è sicuramente interessato a sapere di che cosa ti stai occupando. Cominci a salire di corsa sulla collina verso di lui, sempre più in alto, finché, ormai a pochi passi, ti rimane fiato sufficiente per una sola frase prima di crollare. Che cosa gli dirai ansimando? Ecco la tua frase di apertura.

Ci sono anche delle variazioni sul tema, come ad esempio quella che vi suggerisce di immaginare di dover inviare un telegramma con una sintesi del servizio, al costo di 15 euro a parola, a vostro carico. Dovete fissare un limite molto severo al nu-

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mero delle parole che userete: al massimo sei o, meglio ancora, quattro. In questo modo sarete costretti a individuare le parole chiave attorno a cui poi costruirete l’articolo. Geoffrey Murray, un corrispondente Reuters di lunga esperienza, racconta un aneddoto che illustra molto bene il nostro caso, riferendosi a quanto riportato nel 1947 da un suo collega in India in occasione di una cerimonia a cui partecipava il Mahatma Gandhi. L’aneddoto contrasta con la versione ufficiale presente negli archivi dell’agenzia di stampa, ma questo fatto non toglie nulla al suo valore terapeutico per il giornalista alle prese con il problema della frase di apertura. Il corrispondente Reuters era a un incontro di preghiera presenziato dal leader indiano quando un aggressore balzò verso il leader e gli sparò. Gandhi rimase gravemente ferito, ma non morì. Il cronista corse al più vicino ufficio postale per inviare un cablogramma a Londra, ma si accorse di avere denaro sufficiente solo per quattro parole. Poteva scrivere «Qui sparato Mahatma Gandhi»? Visto che il suo ufficio conosceva l’appellativo di Gandhi e sapeva dove si trovavano sia il leader sia il corrispondente, «Mahatma» e «qui» erano superflui. Il testo che poi inviò fu «Sparato Gandhi rischio morte». Con questa frase telegrafica comunicava la notizia di un attentato, il nome della vittima, il metodo e le probabili conseguenze esattamente con sole quattro parole; inoltre sollecitava indirettamente l’ufficio a predisporre il necrologio, un elemento fondamentale per l’agenzia e per i suoi clienti. Tuttavia fate attenzione: la sintesi può generare delle ambiguità. Nel settembre del 1901 l’ufficio londinese Reuters ricevette un messaggio che diceva «McKinley ucciso Buffalo». Un giovane vicedirettore lo lesse e lo cestinò, commentando: «Questi americani credono che a noi interessino le battute di caccia dei loro presidenti». Poi il messaggio fu recuperato dal direttore responsabile, il quale aveva capito che non si riferiva a un «bufalo», ma alla città di Buffalo, nello Stato di New York. Così l’agenzia

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diffuse per prima in tutto il mondo la notizia dell’assassinio del presidente McKinley.

ALTRI TIPI DI ATTACCO Se dovete trattare per primi notizie di interesse generale, quasi sempre il migliore inizio sarà l’apertura degli articoli di cronaca. Tuttavia ci sono molti altri modi per iniziare un pezzo e alcuni possono essere utilizzati nella giusta situazione in ogni articolo che fornisca essenzialmente notizie. L’apertura di un servizio speciale è generalmente più libera e infatti l’unico criterio da seguire è quello che suggerisce un approccio originale e creativo. Lo stesso si può dire per i pezzi di analisi, di colore, di commento e per i profili di personaggi. Ogni giornalista dovrebbe studiare costantemente i vari modi di impostare un attacco, prendendo come testi potenziali tutti i quotidiani o i periodici in circolazione. Attraverso questo studio, vi accorgerete molto presto che le tipologie fondamentali non sono quattro o cinque, come credevate, ma decine. Esaminiamone qualche esempio tra i più comuni per gli articoli di cronaca e i servizi speciali. Alcuni casi introducono un argomento che sarà approfondito più avanti nel presente capitolo: l’apertura che si estende oltre le prime righe fino a comprendere vari paragrafi. Esposizione narrativa È un tipo di apertura che presenta i fatti in ordine cronologico. Utilizzato di solito negli speciali, a volte viene scelto per introdurre gli articoli di cronaca in cui lo svolgimento dei fatti è più interessante o importante dell’evento in sé. L’uso, e il conseguente abuso, dell’approccio cronologico da parte del «Sunday Times» di Londra ha dato origine a uno stile oggi molto deriso. Un esempio:

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Alle 12.47 due uomini, che indossavano lo stesso completo blu e portavano la stessa Samsonite per documenti, sono usciti dall’ingresso di servizio dell’ambasciata di Ruritania. Hanno fermato un taxi di passaggio, hanno chiesto all’autista di condurli alla stazione Victoria e hanno preso posto sul sedile di pelle nera. Per tutti i 25 minuti che sono serviti all’autista per farsi strada nel traffico molto intenso della tarda mattinata, nessuno dei due si è mai separato dalla sua borsa, benché questa avesse un’aria assolutamente innocua. Alla stazione Victoria il più alto dei due ha tirato fuori una banconota da 5 sterline nuova di zecca e ha pagato il tassista, Harry Wingfield, quarantasettenne e padre di tre figli. L’uomo non poteva neanche immaginare dove erano diretti i suoi clienti...

Può andare avanti così ancora per diverse righe. Questo approccio di stile narrativo ha i suoi lati positivi, ma attenzione: se si tiene sulla corda il lettore in questo modo, è consigliabile che il punto d’arrivo sia adeguatamente sensazionale. Quindi nell’esempio riportato, se i due uomini stanno trafugando documenti segreti oppure intendono far saltare in aria un’ambasciata nemica, tutto bene. Se, invece, hanno avuto un permesso di mezza giornata e stanno semplicemente tornando a casa per riordinare la collezione di francobolli, allora l’attacco non va. Introduzione aneddotica È un tipo di apertura basato su un aneddoto autonomo, che illustra un aspetto dell’argomento, soprattutto negli speciali di cronaca, per presentare i personaggi principali e chiarire i loro rapporti o per fornire uno schizzo inedito di una serie di fatti già noti. È fondamentale che l’aneddoto sia efficace e significativo. Una cosa da evitare è l’abitudine di usare questo tipo di attacco per gli articoli di cronaca. Il pezzo di prima pagina che comincia con sette o otto paragrafi di note di colore su una persona o su un posto può irritare il lettore, dandogli l’impressione che sta avanzando faticosamente attraverso una riga dopo l’altra di descrizioni e aneddoti irrilevanti senza che nessuno gli spieghi perché mai gli sta raccontan-

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do tutto questo. Se proprio dovete scrivere storie a effetto ritardato, ascoltate un consiglio: mettete subito a parte il lettore del misterioso motivo per cui è costretto a leggere tutte quelle premesse. E se non c’è nessun mistero, se il motivo è semplicemente che volete ritardare il momento in cui arrivate al nocciolo della questione, forse dovreste rivedere l’impostazione dell’articolo. Effetto ritardato L’apertura a effetto ritardato si prolunga per numerosi paragrafi senza rivelare il punto focale dell’argomento trattato, quello che in una barzelletta corrisponde alla battuta finale. Utilizzata spesso nella cronaca rosa e negli articoli leggeri, descrive i normali fatti di vita quotidiana e introduce il punto centrale dell’argomento con una frase generalmente aperta da un «E adesso...», oppure «A questo punto...». Quando viene utilizzato in modo trito e imitativo, questo tipo di attacco può produrre banalità come «non potevano sapere» nell’esempio che segue: Il volo era magnifico. Il tempo era bello, il vino buono e il pasto squisito. Ma i passeggeri non potevano sapere che di lì a due minuti, appena allacciate le cinture per l’atterraggio, l’aereo avrebbe preso fuoco e sarebbe precipitato al suolo pochi istanti dopo, provocando la morte di tutte le persone a bordo tranne due.

Forse la sua forma peggiore è quella che afferma una serie di cose ben note su un certo soggetto e lo lascia avvolto in un falso mistero evitando di farne il nome. Come in questo caso: È stato la più grande popstar degli anni Cinquanta, è stato innumerevoli volte in cima alle classifiche dei dischi più venduti nel mondo e adesso la casa in cui viveva è diventata un santuario per i suoi fan. È morto da qualche decina di anni ma c’è chi continua a dire di averlo visto in una stazione di servizio o in un centro commerciale.

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Il fatto che dal titolo e dalla fotografia si capisca chiaramente che sta parlando di Elvis Presley non impedisce al cronista di usare questo stupido tipo di apertura. Di solito le suddette ovvietà sono seguite da un paragrafo che comincia con le parole «Ma adesso...» e ci rivela le nuove informazioni che una persona più intelligente ci avrebbe dato fin dall’inizio. Una variante di questo tipo di attacco è «Per anni è successo questo e quello, e queste sono state le conseguenze. Bla, bla, bla. Ma adesso...». Costruzioni simili sono ormai diventate un cliché. Se le usate, rivelate di più sulla vostra capacità (o incapacità) di scrivere che sull’argomento in questione. Frase sintetica Questo tipo di apertura è l’inverso del precedente, perché concentra in una sola frase l’intero argomento dell’articolo. Quando funziona bene, è un inizio efficace, potente e suggestivo, ma, se non funziona, è disastroso. Richiede esperienza, talento e solide capacità di valutazione. È particolarmente adatto a un articolo importante su un argomento non del tutto inaspettato, di cui è prevedibile che si occuperanno tutti i mezzi d’informazione. Un ottimo esempio è l’annuncio della morte di Hitler nel maggio del 1945. Immaginate di essere voi a dover scrivere l’articolo: che cosa potete scrivere su questa notizia (già comunicata alla radio), che non suoni troppo ovvio e banale? È un’impresa difficile. Il «News Chronicle» inglese aprì il suo servizio con una frase netta: «È morto l’uomo più odiato del mondo». Lo stesso spirito anima la frase scritta da Jack London, l’autore di Zanna Bianca, per il «Collier’s Weekly» nell’aprile del 1906. Incaricato di scrivere sul terremoto e il conseguente incendio di San Francisco, che distrussero quasi tutti gli edifici della città, creando 225mila senzatetto, London aprì il suo servizio con una frase brevissima: «San Francisco non c’è più».

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Riassunto introduttivo Un riassunto in apertura ha lo scopo di ispezionare il territorio nel quale il lettore sarà condotto e la sua funzione è quella di individuare gli elementi principali in una complessa concatenazione di eventi. Per esempio, un articolo su una complicata truffa nel mondo delle scommesse sui cavalli potrebbe iniziare così: «Un gestore di scommesse ha tentato ieri di frodare 400mila sterline agli allibratori britannici». Ma un’alternativa migliore può essere: «Joe Martin amava il gioco d’azzardo ed era talmente determinato a vincere con le scommesse sui cavalli che si è inventato un ippodromo, ha organizzato una ‘corsa’, ha convinto i suoi amici a puntare sui risultati fittizi della stessa ed è quasi riuscito a farla franca». Questo tipo di apertura si usa anche quando in un articolo l’aspetto di maggiore interesse non è costituito dall’evento centrale, ma dai suoi diversi sviluppi. Anche se è molto utile, il riassunto introduttivo rischia, quando non è del tutto esauriente, di rinviare la focalizzazione dell’aspetto più rilevante al secondo capoverso. Forse il modo migliore per evitare questa eventualità è impostare il riassunto come se fosse il trailer di un film, che, attraverso una veloce serie di brevi scene, suggerisce gli sviluppi della storia. Visto così, si attaglia bene agli articoli su una vasta gamma di argomenti o persone oppure ai profili di personaggi. Ecco un esempio di quest’ultimo tipo: «Farouk non è solo il re dell’Egitto. È anche un pirata della strada, un gangster, un donnaiolo, un ingordo, un borseggiatore e, adesso, un obeso playboy in esilio. In fondo è il re che non è mai diventato adulto». Frase singolare In questo tipo di apertura il giornalista indirizza ai lettori un’affermazione strana o sorprendente con la speranza di incuriosirli e indurli a leggere l’intero articolo. Un cronista di guerra una volta cominciò un articolo con la frase «Stamattina per radermi ho usa-

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to del vino rosso d’annata...», per poi spiegare che l’unità con cui si spostava aveva appena strappato ai tedeschi uno dei loro più importanti vigneti. A sorpresa Si ottiene presentando due parti di un evento, in genere la causa e l’effetto, collegate in modo da far sobbalzare il lettore. Spesso è essenziale per il conseguimento dello scopo fornire informazioni incomplete. Prendiamo come esempio queste righe di un giornalista americano in apertura di un articolo che avrebbe potuto essere il normale resoconto di un incidente: «Billy Ray Smith si è acceso una sigaretta con i piedi immersi in una pozza di benzina. Ha qualche probabilità di sopravvivere». Stile scenografico È un tipo di attacco in cui il giornalista dipinge con le parole una scena inconsueta o comunque fondamentale per la comprensione dell’argomento. Comune soprattutto nei servizi speciali leggeri o nei pezzi di colore, deve essere scritto molto bene e seguito quanto prima dalla spiegazione del suo significato. Nella sua migliore espressione utilizza come dati di riferimento le notazioni di ambiente («L’orologio batteva le tredici»). Ecco un esempio: Immaginate la scena. È inverno e in un appartamento non riscaldato è seduto un vecchio con indosso solo una vestaglia leggera. L’uomo è curvo su di un tavolo, intento a esaminare qualcosa al microscopio. Vicino al suo gomito c’è una piccola candela accesa. Repentinamente si ritrae, sorride, tira fuori da una tasca una banconota da 5 dollari, la mette sulla fiamma della candela e la usa per accendere un piccolo sigaro.

Siete costretti a continuare la lettura per scoprire che cosa l’uomo sta esaminando, perché non ha bisogno del riscaldamento o di abiti più pesanti e come mai usa una banconota per accendere il sigaro. Le risposte sono fornite nel prosieguo dell’articolo: il

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vecchio è un falsario, ridotto in gravi ristrettezze economiche. Il trucco è scrivere qualcosa che renda il lettore ansioso di saperne di più, come in queste righe di Anthony Burgess che aprono il suo romanzo Earthly Powers: Era il pomeriggio del mio ottantunesimo compleanno e io ero a letto con il mio ganimede, quando Alì annunciò che era venuto a trovarmi l’arcivescovo.

A domanda È un’apertura pericolosa, perché i lettori tendono a rispondere subito per poi passare a un altro articolo. Quindi è meglio non porre domande dirette e facili, e neanche quesiti con una risposta a sorpresa, perché l’elemento della sorpresa indica automaticamente che sarebbe opportuno introdurre nelle righe iniziali le informazioni date in seguito. L’attacco a domanda è spesso usato, a torto, in articoli leggeri di costume (ad esempio: «Quante volte vi siete lavati le mani oggi?»), ma la sua migliore collocazione è nei servizi in cui il quesito, che ha una o più soluzioni complesse, non è alla portata di qualsiasi lettore e a condizione che la risposta non sia fornita completamente prima delle righe conclusive del pezzo. Comunque anche in questi casi un’apertura del genere va usata con parsimonia. Negli articoli di cronaca, che devono dare risposte e non domande, il suo uso sarebbe un’assurdità. Battuta umoristica È fra le più comuni, ma, come ho spiegato nel capitolo precedente, le battute umoristiche sono utilizzate più spesso di quanto riescano effettivamente a raggiungere il risultato a cui mirano. A parte ciò, un articolo che si apre con una battuta ben riuscita è molto efficace, perché fa sentire al lettore la presenza di un giornalista divertente e lo induce a proseguire nella lettura dell’articolo, che presumibilmente gli offrirà altre piacevoli battute.

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L’apertura di cui parliamo può essere di una sola riga, come, ad esempio, in questa frase di P.J. O’Rourke, del periodico americano «Rolling Stone»: «Attualmente gli inviati in Nicaragua alla ricerca di fatti sono forse più numerosi dei fatti da scoprire». Oppure più righe costruite in funzione della battuta finale, come in quest’altro esempio, sempre di O’Rourke: Io e la mia amica Dorothy abbiamo passato un weekend a Heritage, il punto d’incontro cristiano e parco dei divertimenti, creato dagli evangelisti televisivi Jim e Tammy Bakker. Io e Dorothy siamo andati lì per deridere e ne siamo tornati convertiti. Purtroppo ci siamo convertiti al satanismo.

Stile filosofico È un attacco con un’acuta affermazione di carattere esistenziale che dovrebbe risultare profonda, ma molto raramente lo è. Tenete presente che il pensiero sulla condizione umana concepito mentre l’orologio vi segnalava che presto dovevate chiudere il pezzo, probabilmente non vi sembrerà altrettanto significativo il giorno dopo. Come spesso fanno gli studenti nei loro temi, si può collocare un’affermazione complessa all’inizio con il preciso scopo di demolirla nel resto del pezzo. Il problema è che questo tipo di apertura non si presenta come un avvio creativo che scaturisce naturalmente dal materiale, ma come un chiaro espediente di mestiere. Cenni storici Si introduce un articolo con riferimenti storici relativi all’argomento di cui si tratta, come, per esempio: «Nel 1948 il governo della Ruritania decise di rendere attivi da quel momento in poi i controlli di frontiera lungo i suoi confini, ponendo così fine dopo tanto tempo al tradizionale libero ingresso degli stranieri». Nelle aperture di questo tipo il riferimento deve esercitare un forte ri-

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chiamo sul lettore oppure deve essere sostenuto (di solito nel capoverso seguente, introdotto da un «ma») da uno sviluppo imprevisto, altrimenti può apparire privo di mordente. Quasi sempre viene opportunamente rielaborato, anticipando l’informazione che verrà dettagliata nel capoverso seguente. Falsa partenza Infine c’è un’apertura che appare come una «falsa partenza» e come tale è un vero e proprio errore, peraltro molto diffuso. È tipica del giornalista che cerca di invogliare i lettori a leggere un articolo senza ottenere alcun risultato utile. Normalmente collocata all’inizio di servizi speciali o pezzi di cronaca leggeri, si presenta in due forme principali. La prima è quella della battuta non riuscita, come in questo esempio relativo a una nuova macchina sportiva: «Largo, ragazze, arriva una cosa tutta curve che vi sostituirà nei sogni del vostro uomo». La seconda è l’inizio di un racconto con la previsione di un fatto dato per certo, come in questo articolo sulla disastrosa vacanza di una coppia: «Olive e Ian Meredith erano ansiosi di godersi due settimane di svago sulle assolate spiagge della Tailandia». Il fatto che all’arrivo hanno trovato il loro albergo costruito solo per metà e la spiaggia coperta di liquami viene rivelato solo nelle righe seguenti, mentre doveva essere nelle prime. In fondo quasi tutti aspettano con ansia di andare in vacanza. L’attacco va scritto sempre prima? Negli esempi di cui sopra il pezzo sarebbe molto più apprezzabile senza quelle seccanti e inutili righe iniziali. Quando le righe di apertura sono solo un esercizio preparatorio, allora si possono paragonare ai normali esercizi di riscaldamento di un ballerino, essenziali per uno spettacolo di cui, però, non fanno parte. Quelle righe sono un’attività privata che non dovrebbe mai raggiungere il pubblico dei lettori e servono anche a dimostrare che spesso abbiamo bisogno di fissare sulla carta o sullo schermo qualcosa che

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ci dia l’avvio. Non c’è niente di male in questo; qualsiasi metodo strettamente personale che consenta la composizione di un testo è praticabile, basta che non arrivi sotto gli occhi di altri. Alcuni redattori di servizi speciali, se ne hanno il tempo, preferiscono scrivere il pezzo a mano, per poi ritoccarlo mentre lo trascrivono a macchina. Sostengono di poter scegliere meglio le parole o di trovare la giusta sintesi più facilmente scrivendo a mano che non utilizzando un computer e sono convinti che le tastiere elettroniche, veloci e sensibili, incoraggino la verbosità, sbilancino la costruzione della frase e portino a scrivere di getto, saltando le fasi della composizione e dell’immediata revisione di ogni frase, che loro seguirebbero se scrivessero a mano. Ogni scrittore ha il proprio modo di scrivere (Nabokov, per esempio, spesso scriveva in piedi e Victor Hugo nudo). Ma un modo decisamente pericoloso è quello di cominciare l’articolo senza una vera e propria apertura e poi aggiungere per ultime le righe iniziali. Purtroppo questo metodo non tiene conto del fatto che l’impostazione dell’attacco dà un’idea generale del pezzo e ne indica la struttura e il tono più adeguati. Se aggiungete le righe introduttive dopo la prima stesura, rischiate di trovarvi a constatare che la struttura e il tono dell’articolo non sono più in armonia con l’apertura e quindi siete costretti a riscriverlo. L’unico caso in cui questo metodo può funzionare è quello di un articolo dalla struttura molto chiara, magari di tipo cronologico, che vi consente di esporre i fatti in ordine dal primo all’ultimo e di aggiungere poi un’apertura di tipo riassuntivo, esplicativo o di altro genere. L’esempio più evidente è dato dai servizi su sciagure, scritti prima che siano note tutte le conseguenze, le cause e il bilancio delle vittime. Con questo tipo di servizio, solitamente definito «in corso», perché viene iniziato quando il susseguirsi di eventi che deve trattare non si è ancora concluso, è consigliabile partire dal primo fatto in ordine cronologico per poi aggiungere, al momento della consegna, l’apertura e, se necessario, qualche riga conclusiva.

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Due parole sull’apertura dei servizi speciali Molti cronisti inesperti cominciano i loro servizi con periodi vaghi e oscuri – se non addirittura con un piccolo sermone sull’argomento che ha tutta l’originalità e la profondità delle frasi scritte sui biglietti d’auguri. I bravi giornalisti preferiscono lasciare che siano i fatti a parlare, e hanno un buon motivo per farlo, a parte la loro abilità di scrittori. Considerate questi tre attacchi di Gay Talese, uno dei migliori scrittori di riviste e giornali del ventesimo secolo, che all’epoca lavorava per il «New York Times». Il primo è l’attacco di un servizio di 2662 parole sui manichini delle vetrine di Manhattan: Alle quattro di mattina, la Quinta Strada è deserta, non c’è nessuno tranne pochi malati d’insonnia che vagano senza meta, qualche autista di taxi che gira in attesa di clienti e un gruppo di donne dall’aria sofisticata che passano tutta la notte (e il giorno) nelle vetrine dei negozi, sfoggiando sorrisi freddi e perfetti, stampati su labbra di gesso, occhi di vetro e guance che luccicano fino a quando la vernice non si consuma.

Il secondo descrive la strana occupazione di un uomo: Ogni volta che sente le battute di un comico in un locale notturno, in televisione o in un teatro di Broadway, Bernie Fein assume l’aria divertita, scoppia in risate fragorose, si batte la mano sulla coscia e si piega in due. Fein è un professionista della risata. Se lo pagate, ride di qualsiasi cosa.

E il terzo è l’inizio di un servizio più breve (452 parole) su un’insolita organizzazione: Kinderhook, N.Y., 2 febbraio – Il grosso contadino ha battuto due o tre volte le ruvide nocche su un tavolo di legno e subito 80 uomini hanno smesso di chiacchierare e si sono diretti rumorosamente verso il loro posto. Il 141° raduno annuale della Società per la caccia ai ladri di cavalli stava per cominciare.

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In tutti e tre i casi, Talese introduce subito l’argomento. Perché? Perché il materiale che ha raccolto è affascinante di per sé. Questo è il motivo per cui lo presenta direttamente, mentre giornalisti meno bravi di lui ci girano intorno, fanno i misteriosi e usano attacchi a effetto ritardato. Secondo me, che se ne rendano conto o meno, stanno semplicemente cercando di nascondere il fatto che non hanno molto da raccontare. Ma a un occhio allenato non riescono a nascondere nulla. Rivelano chiaramente l’inconsistenza del materiale che hanno raccolto. Questa è una delle grandi verità del giornalismo: se non hai molto da raccontare, avrai sempre difficoltà a scrivere. I cattivi scrittori fanno riferimento a un contesto interno che il lettore non può conoscere. Albert Camus

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Composizione e descrizione

Quanto viene scritto solo per compiacere il suo autore è del tutto inutile. Blaise Pascal

La corretta composizione di un articolo è un fatto di chiarezza, organizzazione e produttività. Dovrebbe essere facile tenere presenti questi requisiti e in generale lo è, specialmente negli articoli di cronaca importanti, lunghi fino a un massimo di una dozzina di capoversi. Una volta fornite le informazioni di maggiore interesse nell’attacco, organizzare il contenuto rimanente non è l’impegno più gravoso. La ben nota immagine che fa da modello all’operazione complessiva è quella della «piramide rovesciata», un’espressione apparentemente tecnica che rappresenta la collocazione dei vari elementi del materiale originale in ordine decrescente di interesse e importanza. Seguendo questo criterio arriverete alla fine dell’articolo quasi senza accorgervene. E sui lettori dovrebbe avere lo stesso effetto. Qualche problema di organizzazione si presenta nei servizi più lunghi o più complessi o con entrambe queste caratteristiche. Questo vale soprattutto per i pezzi di cronaca che non si basano su una sequenza cronologica di eventi. Anche i servizi speciali e analoghi sono più difficili da organizzare perché spesso coinvol-

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gono numerosi temi ed elementi differenti, cosicché alcune parti sembrano suscettibili di tante collocazioni diverse, mentre altre sembrano fuori posto ovunque le mettiate. Il punto focale delle difficoltà di organizzazione si può esprimere con queste domande: «Come si combinano aspetti diversi in modo chiaro e logico per riuscire a presentare alla fine un quadro significativo? Dove si collocano i vari elementi e come si collegano?». In una situazione estrema è come dover risolvere un puzzle i cui pezzi hanno un numero quasi infinito di forme e dimensioni, senza avere però l’immagine d’insieme completa. Fortunatamente voi avete il controllo di tutti gli elementi, siete al comando: infatti la corretta organizzazione di un pezzo deriva soprattutto da come esercitate i vari aspetti di questo controllo sul materiale di base. Tali aspetti comprendono la verifica delle informazioni in vostro possesso, la definizione della loro sostanza, la prefigurazione del quadro complessivo e dell’effetto finale a cui mirate, la scelta dei pezzi che vi servono, la loro forma, la loro dimensione e il modo per farli combaciare. Il segreto di una corretta impostazione è immaginare che l’articolo sia formato da blocchi, corrispondenti alle parti del materiale informativo che compongono le unità con cui costruirete il servizio. Mentre esaminate le informazioni per la prima volta e le verificate, individuate gli elementi essenziali per distinguerli da quelli superflui; poi cominciate a sistemarli nei vari blocchi o aspetti dell’articolo, per poi collocare quelli di minore importanza nei diversi blocchi, che comincerete anche a mettere in un certo ordine di successione. A questo punto è arrivato il momento di considerare i collegamenti fra i vari blocchi. Salvo che nei casi più elementari, una parte di questa preparazione sarà schematizzata sulla carta, sia pure attraverso semplici appunti sintetici scritti a mano. Col tempo questa procedura tenderà a diventare per lo più automatica e lo schema appena descritto finirà per assomigliare più a un’operazione di limatura che non di composizione vera e propria. C’è però almeno un elemento fondamentale da ricorda-

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re qui: il valore dell’esperienza. Grazie a questa la preparazione di un articolo diventa un’operazione intuitiva. SUGGERIMENTI PER LA COMPOSIZIONE Trattate ciascun aspetto dell’articolo separatamente Non saltate da un punto all’altro per poi tornare al primo. Così rischiate di confondervi e di confondere il lettore. Trattate ogni singolo aspetto in modo esauriente e chiaro. Collegate i diversi blocchi nel modo più naturale possibile Anche se un servizio preparato male può essere portato avanti con una sfilza di «ma», «mentre» e «comunque», cercate di passare logicamente da un blocco all’altro senza abusare di questi connettivi, che servono a introdurre qualcosa in conflitto o in alternativa con quanto è stato detto prima e, quindi, se usati con leggerezza, possono minare la coerenza dell’esposizione. Cercate di resistere alla tentazione di utilizzarli ogni tre o quattro frasi, riducendo al minimo il loro uso. A tale scopo dovete raccogliere, nei limiti del possibile, tutti gli elementi che vanno in una certa direzione e farli poi seguire dalle argomentazioni orientate diversamente. Quando ritenete necessario inserire una frase o un pensiero di collegamento, fate in modo che questi siano chiari e immediati. Negli articoli più lunghi considerate l’attacco come un blocco a sé stante Spesso può essere utile estendere la parte introduttiva del pezzo fino a tre o anche quattro capoversi, per comprendervi non soltanto l’attacco, ma anche i punti salienti o il riassunto del contenuto. Negli articoli di cronaca, in cui l’aspetto principale è intro-

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dotto nel primo capoverso, esso viene ampliato nel secondo e nel terzo, accompagnato da una citazione, da un riassunto oppure da un «assaggio», cioè un paio di frasi che anticipano i punti salienti dell’articolo per dare al lettore un’idea di quello che lo aspetta. Questa anticipazione è utile soprattutto per quei punti che saranno trattati molto più avanti nell’articolo. Attenti ai vicoli ciechi Quando preparate lo schema del pezzo, state attenti a quei blocchi che non hanno un collegamento naturale con altri. Di solito sono le parti che trattano aspetti o effetti collaterali dell’argomento portante. Se non collocate questi «vicoli ciechi» alla fine dell’articolo, rischiate di trovarvi nella situazione reale della strada senza uscita, in cui dovete ritornare sui vostri passi per proseguire il cammino. Attenti al secondo paragrafo Chiariamo subito tre cose: tranne in pochissimi casi, il secondo paragrafo di un articolo di cronaca non serve a: cambiare argomento, inserire un po’ di contesto, fare una citazione che ripete quello che si è già detto in apertura in forma indiretta. Il paragrafo immediatamente successivo all’attacco dovrebbe servire, come dicono nel loro splendido libro The Journalist’s Craft Dennis Jackson e John Sweeney, a portare avanti la storia aggiungendo nuove informazioni a quelle già date nel primo, magari «anticipando qualche dettaglio succoso e stuzzicante sugli sviluppi futuri». Se c’è una sequenza cronologica di eventi, seguitela Un’impostazione basata sull’ordine cronologico è semplice e facile da portare avanti; è quasi sempre la scelta migliore. Dopo le righe di apertura non abbiate esitazioni a scrivere «Tutto è cominciato quando...» per poi proseguire secondo l’ordine degli eventi fino alla fine.

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Presentate le smentite subito dopo le dichiarazioni a cui si riferiscono Se dovete riportare due versioni contrastanti dei fatti, fate in modo, nei limiti del possibile, che la smentita segua immediatamente la dichiarazione o l’accusa che si respinge. Se le distanziate di parecchie righe non farete altro che confondere il lettore e, per di più, l’eccessiva distanza può comportare la perdita di tempo di dover riproporre la dichiarazione a cui si fa riferimento. Non abbiate paura di dire le cose come stanno Alcuni articoli sono tanto complessi e intricati che il lettore rischia di perdersi, anche se l’esposizione è corretta. In questi casi non temiate di esporre i fatti nello stile di un testo scolastico, per guidare i lettori nel percorso che stanno per intraprendere, come in questo esempio: «L’argomento presenta quattro aspetti: 1...» e così via. Riducete le lunghe ricostruzioni nei pezzi più pesanti Qualche articolo richiede precise ricostruzioni o chiari riferimenti a servizi precedenti per avere senso o per ottenere il massimo dell’efficacia. Nella maggioranza dei casi, tali elementi vanno inseriti nella trattazione principale e forniti di sfuggita in modo succinto. In qualche raro caso di particolare complessità potete ricorrere all’espediente di inserire le premesse o i riferimenti in una breve ricapitolazione, introdotta da «Finora abbiamo visto che...». Diffidate delle esposizioni a schema consequenziale Mi riferisco a quel tipo di esposizione, caratteristico degli articoli leggeri di interesse umano, che oggi purtroppo è molto diffuso. Per parafrasare la parodia che Keith Waterhouse fa di questa tecnica nel suo libro Waterhouse on Newspaper Style, si potrebbe esemplificarlo così:

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Uno scolaro di Bolton non dimenticherà mai il giorno in cui si è trovato con la testa incastrata nella ringhiera della sua scuola. (Breve presentazione scherzosa dell’accaduto, senza rivelare la conclusione) Anzitutto... è accaduto questo. (Dare nomi, ora e luogo) Poi... è accaduto. (Continuare il resoconto in ordine cronologico) E... è accaduto qualcos’altro. (Continuare) Poiché... (Continuare) Ma... (Spazio per una timida obiezione) E adesso... la disavventura ha avuto un lieto fine. (Altrimenti il tono del pezzo sarebbe diverso) Così... (Conclusione del fatto e commenti delle parti in causa)

Usate le citazioni dirette per accelerare il ritmo di un lungo resoconto indiretto Se una lunga serie di citazioni dirette risulta noiosa, e anche ingombrante in termini di spazio, un lungo resoconto in forma indiretta può risultare monotono. Vivacizzate l’esposizione inserendo nel discorso indiretto un paio di citazioni dirette di una voce umana, sia pure brevi. L’esposizione in forma indiretta nell’attacco deve appoggiarsi a citazioni dirette nel testo seguente Questo criterio dovrebbe essere seguito sempre, ma in particolar modo quando le dichiarazioni riportate in forma indiretta sono controverse. Negli articoli di una serie ricordatevi di ricapitolare Quando impostate il seguito di un articolo precedente, fornite una ricapitolazione dell’argomento già trattato che renda comprensibile la nuova parte. Potete farlo con una frase incidentale o con un più lungo paragrafo riepilogativo. Comunque è fondamentale che nel seguito, riproponendo una dichiarazione che è stata smentita nelle parti precedenti, venga riproposta anche la smentita.

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Non dimenticate il paragrafo di contesto Per qualche motivo, quando scrivono il seguito di un articolo o un pezzo che fa parte di una lunga serie, molti giornalisti tralasciano di ricordare ai lettori quello che è successo prima. In questi casi, è bene scrivere una o due frasi che inseriscano le nuove informazioni in un contesto. Di solito si comincia con «C’è stato uno sviluppo...» oppure «Solo tre giorni fa...» o qualcosa di simile. ESAME ANALITICO DELLA STRUTTURA DI UN ARTICOLO Molti di noi hanno trascorso interminabili ore della loro giovinezza seduti in un’aula scolastica e poi universitaria a studiare e analizzare poesie, racconti e romanzi. Ma se suggeriamo a un giornalista, giovane o anziano, di riservare lo stesso trattamento analitico agli articoli altrui per migliorare la qualità dei suoi, lui vi guarderà come se aveste proposto la sterilizzazione di tutti i maschi al di sopra dei 25 anni. Eppure il tempo dedicato a tale analisi è estremamente proficuo. Esaminando, più o meno velocemente, non solo un buon articolo, ma anche un pezzo mediocre, potrete imparare comunque qualcosa. Basterà che annotiate schematicamente la funzione e il contenuto delle singole parti, come nell’esempio che segue: Resoconti di discorsi. Apertura con i principali aspetti dell’argomento, sostenuti o meno da virgolettati. Tutti gli altri punti primari, con o senza virgolettati. Elaborazione dell’apertura con citazioni dirette. Approfondimento del contenuto del discorso e dei virgolettati. Sintesi di altri punti di rilievo. (Nota: le reazioni del pubblico, l’atteggiamento e l’aspetto dell’oratore, la descrizione dell’ambiente ecc. presentati, se non di particolare rilievo, con brevi commenti occasionali.)

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LA CONCLUSIONE Lo scrittore americano Ernest Hemingway una volta dichiarò di aver riscritto il finale di Addio alle armi trentanove volte prima di trovare quello che lo soddisfacesse. Ben pochi articoli verrebbero pubblicati se i giornalisti facessero come lui (per quanto non poche aperture ne trarrebbero grande giovamento), ma l’aneddoto serve a ricordarci che anche la conclusione di un articolo ha la sua importanza. Pur non avendo lo stesso peso dell’attacco merita, comunque, un po’ di attenzione. È bene che soprattutto gli articoli più lunghi si chiudano con qualche riga conclusiva. Non è necessario che abbiano il grandioso finale di un pezzo di musica sinfonica dell’Ottocento ed è auspicabile che non si chiudano con quelle terribili conclusioni fasulle che servono al giornalista per esprimere un verdetto o qualche parola di commiato dal lettore, ma non devono chiudersi bruscamente, come se l’autore si fosse stancato, né spegnersi in una lenta dissolvenza. Gli aneddoti, meglio se non accompagnati da riflessioni semifilosofiche dell’autore, sono un ottimo elemento di chiusura. Lo stesso vale per le brevi descrizioni di una scena finale, una citazione efficace, l’ironia di un fatto o di un valore statistico, il recupero di un aspetto collaterale che l’articolo non ha evidenziato o anche un riferimento che faccia eco all’apertura o a un’altra parte di rilievo del pezzo; insomma qualsiasi cosa che dia un senso di completezza e impedisca ai lettori di sospettare che, arrivato a quel punto, il giornalista si sia improvvisamente ricordato di avere un impegno indilazionabile. Una delle più belle frasi di chiusura negli annali della stampa fu scritta da J.A. MacGahan, americano di nascita, ma corrispondente del «Daily News» di Londra, come conclusione di uno dei suoi servizi, che rivelavano le atrocità commesse dai turchi ai danni dei bulgari nel 1876. Dopo un resoconto misurato del massacro di Batak (l’ho riportato nel capitolo 1) MacGahan chiude con

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uno sguardo allo spettacolo delle migliaia di corpi senza vita, seguito da questo commento: «I raccolti marciscono nei campi, e i mietitori marciscono in questo cimitero».

IL RIFERIMENTO ALLE FONTI Se c’è una cosa che i giornalisti americani possono insegnare al mondo è la precisione nel riportare le fonti a cui si richiama un articolo. In realtà verso l’attribuzione di notizie e affermazioni a una fonte specifica molti cronisti hanno un atteggiamento particolare, condizionato dalla strana sensazione che superando il minimo indispensabile nella menzione delle fonti, metterebbero in gioco la loro virilità giornalistica. Ovviamente è una sciocchezza. La corretta menzione delle fonti serve semplicemente a fornire ai lettori gli elementi necessari per valutare l’articolo o qualche informazione specifica al suo interno. Il lettore non dovrebbe mai chiedersi «Come fa il giornale a saperlo?». La completezza del riferimento alle fonti dipende dalla natura dell’articolo e dal tipo di pubblicazione che lo accoglie. I servizi controversi e le pubblicazioni specialistiche in genere richiedono un riferimento più dettagliato e più in evidenza. Nei paragrafi seguenti vedremo quando, dove e come riportare le fonti. Quando il riferimento non è necessario Ovviamente non è necessario per i fatti già conosciuti dai lettori, per le informazioni di dominio pubblico e per tutto ciò che sia verificabile attraverso un vasto campionario di altre fonti. Nessuno dovrebbe sentirsi tenuto a scrivere «Budapest è la capitale dell’Ungheria, ha dichiarato oggi un funzionario del ministero degli Esteri». Ugualmente, la notizia di un incendio di vaste proporzioni non richiede la menzione della fonte, a meno che qualche autorità non metta in dubbio la sua esistenza. Di regola, comun-

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que, in quasi tutti gli articoli di cronaca è prevista la pubblicazione delle fonti. E questo significa che per ogni dichiarazione dovrebbe risultare chiaramente la sua provenienza. Menzionate sempre le fonti nei casi che possono subire contestazioni Nel precedente esempio dell’incendio dovete riportare le fonti per quanto riguarda il numero delle vittime, i danni e le cause, cioè per quegli elementi che potrebbero essere contestati da un’altra fonte. È necessario riportare le fonti di tutto ciò che sia controverso o possa diventarlo, di fatti dibattuti in tribunale o presumibilmente non verificabili dal grande pubblico (per esempio, se vi risulta che l’incendio è stato causato da una bomba e ritenete che le autorità possano smentire che ci sia stata una deflagrazione). Non fate mai riferimenti impersonali Non scrivete «Si è detto», «È stato comunicato» o «Si è ritenuto evidente», perché queste formule impersonali implicano inevitabilmente la domanda «Da chi?». Visto che in qualche angolo della Terra c’è sicuramente una persona o un’organizzazione che l’ha detto, comunicato o ritenuto evidente, diteci chi è stato. Indipendentemente da altre considerazioni, le formule impersonali ricordano il linguaggio con cui la burocrazia manifesta il suo senso di onnipotenza, che, come tutti sappiamo, non trova riscontro nei fatti. Chiarite in che modo avete avuto un’informazione In genere è importante chiarire in che modo si è avuta un’informazione. Non c’è bisogno di dare spiegazioni dettagliate, basta usare brevi frasi come «citando le parole di un comunicato per la stampa» o «ha dichiarato ai cronisti in risposta alle loro domande».

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Riportate le fonti nella forma più specifica possibile È importante che le fonti abbiano un nome, una qualifica e qualsiasi altro elemento che rafforzi la loro credibilità e aiuti i lettori a valutare la qualità dell’informazione. «Il portavoce dell’Esercito Ronald Elwill» è molto meglio di «Un portavoce dell’Esercito». Fornite tutti i dati che ritenete utili. Se avete incontrato la vostra fonte a una riunione o sulla scena di un incidente, sottolineate questi particolari. Le fonti sono più convincenti quando sono sul luogo dell’evento, invece che in un ufficio a chilometri di distanza o addirittura in un continente diverso. Fonti senza nome Quando non potete dare un nome a una fonte (i dettagli di questa situazione sono trattati nel capitolo 6), è bene che, nei limiti del possibile, forniate informazioni utili a individuarla e a qualificarla. Non limitatevi a scrivere «Alcune fonti», «Certi analisti», «Gli esperti» o, meno che mai, «Le fonti di questo giornale»: fornite maggiori dettagli e usate il plurale solo quando ne avete motivo; se si tratta di una singola fonte, ditelo. Infine, se gli elementi di un’informazione provengono da svariate fonti anonime, non attribuiteli uno per uno alla fonte specifica. Scrivete: «Le interviste ai maggiori banchieri hanno rivelato reazioni diverse alla notizia. Qualcuno ha detto...». Definite per categorie le fonti senza nome Se presentate secondo una definizione generale per categorie le fonti che non hanno nome, aiutate i lettori a valutarle meglio. L’agenzia Reuters usa le seguenti categorie: – Autorevoli: le fonti autorevoli hanno un peso determinante nelle informazioni per cui vengono citate. Un ministro della Difesa è una fonte autorevole nelle questioni di difesa, ma non in materia di finanza.

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– Ufficiali: le fonti ufficiali hanno accesso alle informazioni nel settore a cui sono assegnate, ma la loro competenza come fonti è limitata a quel settore. – Designate: le fonti designate sono, ad esempio, le fonti diplomatiche, i servizi segreti o le fonti nell’industria mineraria. Come le fonti ufficiali, devono avere accesso a informazioni affidabili su un determinato argomento. Uno dei maggiori problemi delle fonti non menzionate è che, senza la guida delle vostre indicazioni, il lettore non riuscirà mai a capire se state citando il capo dello Stato o l’uomo che gli pulisce le scarpe. Collocazione delle fonti Le fonti vanno riportate prima possibile in un articolo, anzi devono essere anche nell’attacco se l’argomento è suscettibile di contestazioni. La menzione delle fonti in apertura non è necessariamente poco elegante e, comunque, è meno brutta di quelle spoglie righe introduttive che rinviano la menzione al capoverso seguente, dove si legge «Il parere appena citato è di...». Quanto detto vale in particolare se il pezzo tratta di parole più che di fatti. Comunque è opportuno riportare in apertura solo un’indicazione minimale delle fonti per non creare confusione. I titoli e le qualificazioni ufficiali, per esempio, possono essere forniti più oltre. Nel resto del pezzo le fonti possono essere riportate con discrezione alla fine della frase. Se la maggior parte dell’articolo si richiama alla stessa fonte non è il caso di ripeterne la menzione oltre il minimo necessario. Comunque per ogni dichiarazione contenuta nel pezzo, salvo l’eccezione di cui sopra, deve essere riportata la fonte, fermo restando che non è necessario farlo per ogni singola frase, dato che la fonte della dichiarazione complessiva può risultare chiaramente dal testo.

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Cominciate con la fonte Ci sono due situazioni in cui un articolo di cronaca risulta più chiaro ai lettori se inizia con l’indicazione della fonte. Si tratta in entrambi i casi di quel tipo di articoli noti in inglese come say stories, cioè su qualcuno che dichiara qualcosa. Nel primo caso la dichiarazione/accusa/affermazione è stata pronunciata da una figura tanto nota e importante che la sua identità deve essere rivelata prima delle sue parole. Nel secondo caso è stata fatta un’accusa o un’affermazione, spesso di carattere personale, che risulta molto controversa. Non avrebbe senso iniziare un articolo così: «Il presidente della Ruritania Bogdorov ha ucciso molti anziani del suo paese con la sua recente politica sanitaria, dichiara il leader dell’opposizione Jurij Snikerov». È molto meglio scrivere: «Il leader dell’opposizione in Ruritania Jurij Snikerov ha accusato il presidente Bogdorov di aver ucciso...». Il primo esempio appare come la testimonianza di un fatto, di cui poi si menziona la fonte; il secondo dice chiaramente che si tratta di un’accusa e, considerando chi l’ha pronunciata, di un’accusa con una matrice politica.

L’ASPETTO DESCRITTIVO L’aspetto descrittivo, o «colore», come a volte viene chiamato, dovrebbe essere parte integrante di quasi tutti gli articoli. È tanto normale immergersi completamente nel resoconto dei semplici fatti che ci si dimentica di descrivere le persone o i luoghi che ne sono al centro. Anche quando la parte descrittiva è costituita da poche frasi che servono a dare al lettore l’immagine approssimativa di una persona o di un edificio, vale comunque la pena di dedicarle qualche riga; attraverso osservazioni fugaci o interi brani, aggiunge sempre informazioni ulteriori e aiuta il lettore a immaginare che cosa è accaduto, a chi e dove.

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Voi siete la vista, l’udito e l’olfatto del lettore; quasi ogni giorno incontrate persone e vedete cose che non saranno mai oggetto dell’esperienza diretta dei vostri lettori e quindi, senza le vostre descrizioni, questi non conosceranno mai le loro caratteristiche. Se, ad esempio, intervistate un noto personaggio politico, i lettori vorranno sapere com’è il suo ufficio: grandioso o sorprendentemente modesto? Com’è arredato? Contiene oggetti personali di particolare interesse? Il personaggio è nervoso o calmo? Che atteggiamento ha verso i suoi dipendenti e collaboratori? Non potete affidare il compito della descrizione a una foto sul giornale; dovete dipingere con le parole quanto percepite, sia pure concisamente, perché le vostre parole possono comunicare elementi che le fotografie non colgono. La descrizione rende vivo l’articolo, conduce i lettori nei luoghi dove voi siete stati e ne rivela l’atmosfera; può dare sapore alla cronaca più fredda e asciutta e differenziare un resoconto soddisfacente da un altro che non lo è. Quando serve ad aiutare i lettori a capire e non è uno sfoggio da parte del giornalista del suo vocabolario aggiornato secondo le mode, la parte descrittiva di un articolo non è di ostacolo alla chiarezza, anzi la favorisce. In un servizio speciale, o in qualsiasi altro tipo di testo, descrivere non significa aggiungere un aggettivo qua e là, ma fornire dettagli ed evocare immagini nella mente dei lettori. È più facile a dirsi che a farsi, ma una buona idea di che cosa significa in pratica ce la possiamo fare leggendo gli articoli di due dei migliori autori che abbiano mai prestato le loro parole alla carta stampata: A.J. Liebling del «New Yorker» e Hugh McIlvanney dell’«Observer» e del «Sunday Times». Ecco qualche esempio, a partire dal modo in cui Liebling descrive gli uomini che frequentavano il poco rispettabile negozio di sigari I&Y di Izzy Yereshevsky sulla Broadway. La maggior parte degli ospiti serali di Izzy – i loro acquisti sono così rari che sarebbe fuorviante chiamarli clienti – indossa cappelli di feltro

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bianco e soprabiti a doppio petto stretti in vita. La testa dei più bassi emerge dalle enormi spalle di quei cappotti come se qualcuno ce li avesse calati dentro con una corda e stessero cercando di uscirne fuori.

Qui, invece, per descrivere il suo soggetto, Liebling riporta le sue stesse parole. L’esempio è tratto da una breve biografia di Clifford C. Fischer, un produttore teatrale famoso per le sue sfuriate durante le prove, e comincia con la dichiarazione che «Una prova con Clifford C. Fischer [...] è il miglior spettacolo che si possa immaginare», per poi continuare così: «Vattene via con tutta la barca e tornatene a Parigi!» grida Fischer a una ragazza di una bellezza estasiante che ha dimenticato di dimenare i fianchi. «La prossima barca, fuori!» Poi con un ampio gesto della mano rivolto ai tre o quattro acrobati o macchinisti presenti: «E portate via quelle oche! Immediatamente!». La sua voce si abbassa e, mentre crolla sulla sedia, gorgoglia: «Svelti, prima che vi ammazzi». Odette Puig, la francese bionda e tranquilla che gli fa da segretaria, gli porta un bicchier d’acqua. Poi un elettricista sbaglia un passaggio, e Fischer salta su di nuovo. «Rudy, te ne sei dimenticato un’altra volta? Qui voglio il VIO-LA! Non il ROSA! Il VIO-LA! Oh, mio Dio!»

McIlvanney scriveva pezzi più brevi di Liebling, di solito tra le 1200 e le 2500 parole, ed era più arguto, quindi le sue descrizioni risultano molto più incisive. A proposito di un incontro tra due campioni di pugilato mal assortiti come Mike Tyson e Leon Spinks scrive: un evento la cui violenza non sarebbe potuta durare di meno ed essere più sbilanciata se si fosse trattato di un’esecuzione sulla sedia elettrica.

Su un giocatore di biliardo famoso per la sua magrezza: Un uomo abituato a vestirsi per la cena, non aveva mai avuto tanto bisogno di una cena.

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Sulla conferenza stampa tenuta da Diego Maradona dopo essere stato espulso per uso di droga dalla finale dei mondiali del 1994: Mentre una massa di mani con i microfoni in pugno gli si chiudeva intorno come una pianta carnivora, lo sguardo teso, quasi da animale braccato, sul suo volto indio la diceva più lunga sulla natura e le origini della sua brutta situazione delle prevedibili parole di smentita e protesta che uscivano dalla sua bocca.

Non c’è un solo aggettivo né un avverbio in questi stralci, a riprova del fatto che in una descrizione non sono necessari. E infine, giusto per ribadire il concetto, ecco un altro dei grandi, James Cameron, che descrive le conseguenze della guerra dei Sei giorni in Medio Oriente. Ieri ho fatto il primo giro di tutta la penisola, forse uno dei più grandi campi di battaglia di ogni tempo, il luogo dove è morto l’esercito egiziano. In una vita non troppo estranea a situazioni simili non avevo mai visto niente del genere... Cinque divisioni di fanteria e due corazzate sono state spazzate via in un sol colpo; un esercito di quasi novantamila uomini è stato annientato, con decine di migliaia di soldati uccisi o catturati, o ignorati, lasciati a vagare nel disperato tentativo di arrivare da qualche parte. Parecchi milioni di sterline di armamentario militare estremamente costoso e sofisticato sono ora ridotti a bottino di guerra o a rottami anneriti. Il deserto è disseminato di carri armati e veicoli come la stanza dei giochi di un bambino irrequieto.

Ma esaminiamo qualche altro punto sulla descrizione. Quello che risulta familiare a voi, può non esserlo per i lettori Fin troppo spesso i giornalisti danno per scontato che le persone, i luoghi e gli eventi di cui stanno scrivendo siano noti ai lettori, che, invece, possono trovare estranei e ignoti anche gli ambienti più familiari al cronista. Per esempio, quanti lettori frequentano

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normalmente un edificio parlamentare? Ammettendo che lo abbiano visto di sfuggita alla televisione, sanno se al suo interno fa troppo caldo o invece freddo? Se i posti a sedere sono comodi? Che genere di quadri sono appesi alle pareti? Che atmosfera c’è? Le informazioni di questo tipo servono a condurre sul luogo i lettori. Evitate i lunghi brani descrittivi A meno che lo scopo primario di un articolo non sia descrittivo, è bene propinare gli aspetti di colore a piccole dosi e non attraverso lunghi brani ininterrotti. Si può dire molto ai lettori ritornando sugli argomenti nel momento e nel punto che considerate più opportuni. Il fatto che la persona che state citando ha i capelli rossi e colleziona francobolli deve essere comunicato al lettore, ma non nelle righe di apertura o subito dopo averla citata per aver richiesto le dimissioni del governo. Seguite il criterio dell’opportunità, introducendo le descrizioni nel punto in cui servono e non dove suonano incongrue. Comunque, è giusto presentare i dettagli descrittivi di una persona o di un luogo in una parte specifica dell’articolo e non qua e là in forma sparsa. È fastidioso leggere un pezzo in cui ad ogni singola menzione di qualcuno corrisponde una briciola supplementare della sua descrizione. Quanto sia fastidioso è dimostrato in questo brano di Kingsley Amis, un esempio di quella che negli Stati Uniti chiamano struttura gorged snake (letteralmente, a «serpente abbuffato»): Il mese scorso il ventiseienne britannico Chris Mankiewitz è stato messo a capo dello squadrone di calcio inglese contro la Ruritania. Il giovane, nato a Varsavia e padre di due bambini, ha detto, nella sua casa di Deptford da oltre 500mila euro, recentemente ristrutturata: «Io e la mia bella moglie Samantha, 24 anni, siamo al settimo cielo per questa novità». Il successo è arrivato al momento giusto per il basettone ex-campione scolastico di corsa a ostacoli divo dei centrocampisti infortunati del Clapton Occident. Molto fotografato, lo specialista dei tre punti con-

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secutivi e avido guidatore di automobili sportive, figura locale familiare nella sua Halberstadt D-VII rosso sangue [...].

Presentate ai lettori persone vive Anche la più piccola informazione su una persona è utile ai lettori. In fondo un nome rivela ben poco di qualcuno, anzi tutt’al più ci indica il suo sesso. L’età è un elemento più significativo, come l’aspetto, il comportamento e così via. Cercate di attenervi ai fatti, prescindendo dai giudizi, ma non trascurate i sentimenti che traspaiono dalle dichiarazioni della fonte. Fornite dettagli precisi In questo caso parliamo di precisione con riferimento alle parti descrittive. Evitate aggettivi ed elementi vaghi e opinabili. Descrivendo un ufficio come «imponente», si fornisce un’informazione utile, ma poco efficace. Sarebbe molto meglio dire che è così grande che ci si potrebbero parcheggiare due macchine, che c’è una sontuosa moquette rossa, una scrivania nera nuova con accessori in ottone e che dalle finestre c’è una bella veduta della capitale. Tutto ciò dà un’idea più chiara. Applicate lo stesso principio alle persone, evitando parole come «attraente», «bello/bella», «carina», «affascinante». Descrivete, invece, il colore dei capelli, l’abbigliamento, la statura. Il fine della precisione può richiedere l’uso di aggettivi per qualificare i sostantivi in un modo che arricchisca le informazioni, ma se usate gli aggettivi solo per enfatizzare, rischiate di appesantire il testo e di ridurne l’impatto. Un’impostazione descrittiva deve mirare a comunicare una realtà viva, non a riempire un articolo di aggettivi sparsi qua e là a caso. Prudenza con le similitudini Scrivere che qualcosa «è come...» è efficace solo se introduce una similitudine appropriata e originale. Le esagerazioni, a meno che

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non facciano parte di un pezzo umoristico, vengono subito riconosciute come tali e, se sono vecchie e trite, non hanno il minimo impatto. Un esempio quasi perfetto di una similitudine originale è alla fine di questo breve stralcio dal servizio di Floyd Gibbons, che fu il primo a occuparsi sul «Chicago Tribune» della grande carestia nell’Unione Sovietica del 1921: Un ragazzo di dodici anni con una faccia da sessantenne portava in braccio un bimbo di sei mesi, avvolto in un lurido mucchio di pelli. Deposto il bambino sotto un carro merci, sgattaiolò vicino a lui e tirò fuori dalle tasche alcune teste di pesce essiccato, le masticò voracemente e poi, premendo le labbra del piccolo contro le sue, trasferì la poltiglia bianca di scaglie e spine di pesce nella bocca del bimbo, come la mamma di un uccellino quando nutre il suo piccolo.

Imparate a notare i dettagli Le piccole cose sono spesso le più significative; singoli momenti e dettagli minuti di una scena possono essere usati per comunicare il senso globale di un articolo o di un avvenimento. Imparate a notare i dettagli, a focalizzare la vostra attenzione su certi piccoli aspetti che vi serviranno a tracciare con le parole un’immagine per i lettori. Un approccio del genere produce risultati particolarmente efficaci quando lo utilizzate per scrivere un pezzo di colore o atmosfera sul luogo che fa da scenario a un evento. Ma in ogni tipo di articolo un dettaglio significativo può comunque essere di grande effetto. Non c’è bisogno che lo mettiate troppo in evidenza e che gli diate un profondo valore simbolico: spesso una frase semplice e immediata è il modo migliore per presentarlo. Il noto scrittore Curzio Malaparte fu corrispondente di guerra dal fronte russo nel 1941-42 per il «Corriere della Sera». Ebbe così modo di descrivere anche Leningrado che, affamata e sofferente, fu salvata da varie iniziative, tra cui i «Soccorsi Ladoga», quei convogli che trasportavano cibo attraverso il lago, con le barche

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d’estate e sul ghiaccio d’inverno. Mentre raccoglieva materiale per l’articolo, Malaparte fece una passeggiata sul lago ghiacciato: Impressi nel ghiaccio, stampati nel trasparente cristallo, apparivano sotto la suola delle mie scarpe una fila di volti umani, bellissimi. Una fila di maschere di vetro. (Come un’icona bizantina.) Che mi guardavano, mi fissavano. Le labbra erano fini, consunte, i capelli lunghi, i nasi affilati, gli occhi grandi, chiarissimi [...]. Senza dubbio, eran quelle le immagini di soldati sovietici caduti nel tentativo di varcare il fiume. I miseri corpi, rimasti tutto l’inverno imprigionati nel ghiaccio, erano stati travolti dalle prime correnti primaverili del fiume sciolto dai suoi lacci di gelo. Ma i loro visi eran rimasti impressi nella lastra di ghiaccio, stampati nel puro, gelido cristallo verdazzurro*.

L’immagine di quei visi resta impressa nella mente del lettore con la stessa saldezza con cui i lineamenti di quei soldati erano stampati nel ghiaccio. (Per inciso, il vero nome di Malaparte era Kurt Suckert e suo padre era tedesco; tuttavia egli combatté con i francesi e gli italiani nella prima guerra mondiale, fu decorato da entrambi i paesi e, nel 1933, fu arrestato per attività giornalistica antifascista e confinato per tre anni sull’isola di Lipari al largo delle coste siciliane.) In generale, se volete utilizzare i dettagli, controllate che siano esatti. Un cronista che doveva redigere un articolo su un terremoto in America Centrale, volendo presentare in modo chiaro e immediato i suoi effetti sulla popolazione, scrisse di avere perfino visto famiglie affamate mangiare ratti. In realtà stavano mangiando dei porcellini d’India, che da quelle parti sono un piatto prelibato. Fu così che quel cronista si guadagnò per sempre il soprannome di «Rat Man» (l’uomo dei ratti).

* C. Malaparte, Il Volga nasce in Europa, Bompiani, Milano 1943, pp. 305306 [N.d.T.].

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Riferitevi a una realtà familiare al lettore Cercate sempre di fornire le informazioni nel modo più chiaro per la comprensione dei lettori. Questo significa anche utilizzare per le immagini e i paragoni una realtà a loro familiare. Se un edificio ha un’estensione di mille metri quadri, riportate questa misura, aggiungendo che è un’area equivalente a cinque campi da tennis o qualcosa del genere. Se una persona ha viaggiato per 13mila chilometri, dite che questa è la distanza tra Londra e Tokyo oppure dieci volte il percorso da Londra ad Aberdeen. Usate termini di confronto a cui il lettore possa riferirsi. Supponiamo, per esempio, che abbiate il compito di far capire ai lettori quanto è piccolo lo Stato europeo del Liechtenstein in modo che li colpisca. Come fate? Usate i chilometri che si percorrono per andare da un capo all’altro (otto)? Il numero degli abitanti (33.717 nel 2006)? Il suo prodotto interno lordo (825 milioni di dollari)? Gay Talese del «New York Times» doveva farlo in un breve articolo del 1961 su quel paese. E scrisse: «Il Liechtenstein, un principato alpino con 15mila abitanti e 5000 mucche, è così piccolo che il suo elenco telefonico ha solo tre pagine». Il cestino della carta straccia è sempre il migliore amico dello scrittore. Isaac B. Singer

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Citazioni

Fare del giornalismo significa essenzialmente dire «Lord Jones è morto» a persone che ne ignoravano l’esistenza. Gilbert K. Chesterton

E adesso vi rivelerò un segreto poco noto del mestiere di giornalista: non finirete in prigione per aver scritto un articolo senza virgolettati. So che questo è esattamente il contrario di quanto si predica a molti giovani giornalisti, però è la verità. Quasi tutti gli articoli si avvalgono utilmente di virgolettati, ma non è contro la legge farne a meno. Insisto su questo punto perché le citazioni tra virgolette sono diventate una specie di mito per molti direttori, i quali si sono convinti che un articolo debba necessariamente riportare una serie di virgolette a intervalli regolari, come se fossero delle boe che indicano l’ingresso in un porto. Nelle cronache sportive della stampa popolare questa convinzione è stata portata all’estremo, cosicché si leggono sempre più articoli formati in sostanza da una lista di virgolettati collegati da bizzarre intromissioni occasionali del cronista, che, forse rassegnato all’idea che la televisione lo ha defraudato del compito di riportare i fatti, si limita a riferire esclusivamente le reazioni da questi suscitate. Per il suo lavoro l’inter-

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vista sull’evento è ormai più importante dell’evento in sé. Come ha detto Hugh McIlvanney del «Sunday Times», a mio parere lo scrittore migliore che abbia mai prestato la sua penna alla carta stampata, «ormai l’attenzione è talmente concentrata sulle dichiarazioni piuttosto che su quanto succede in campo che la norma è diventata riportare più parole che fatti. Tra i cronisti sportivi, ce ne sono alcuni che potrebbero continuare a fare il loro lavoro anche se diventassero ciechi». L’eccesso di citazioni dirette indica chiaramente che il giornalista o sta cercando di rimpolpare la notizia per portarla a una lunghezza che va ben oltre il suo valore, oppure non si fida abbastanza della propria scrittura o della propria capacità di commentare. Diventa così come un nuotatore alle prime armi che, per paura di non essere all’altezza della situazione, rimane dove l’acqua è poco profonda – in questo caso, la poca profondità è quella della citazione media. Mentre studiavo i migliori esempi di giornalismo degli ultimi 150 anni per il mio libro Tredici giornalisti quasi perfetti, sono rimasto colpito dal fatto che i grandi cronisti hanno sempre usato con parsimonia le citazioni. Di solito perché erano in grado di esprimere idee e riportare informazioni meglio, o in modo più succinto, di qualsiasi intervistato. Potrà sembrarvi arrogante, ma è assolutamente vero. I grandi giornalisti tengono in serbo le citazioni per i casi in cui le persone dicono qualcosa in modo originale e autentico, o per quando vogliono rendere una particolare caratteristica dell’intervistato, cogliere un tono autoritario, sfacciato, pomposo, sarcastico, e cosi via. Vorrei citare tre esempi, due dei quali sono tratti dagli articoli di A.J. Liebling, il leggendario reporter del «New Yorker» il quale, oltre che per la sua capacità di scrivere in modo chiaro e sintetico, era noto per essere un grande ascoltatore. Il primo l’ho trovato in un articolo su un uomo di nome Rubin Fisher, che aveva letto 146.444 contatori del gas di New York senza commettere un solo errore ed era stato invitato dalla società per cui lavorava a tenere un seminario ad altri letturisti. Liebling ci fa capire che Fisher è insopportabilmente noioso senza

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affermarlo, ma usando sapientemente le citazioni. Dopo aver dimostrato la sua ossessione monomaniacale per la lettura dei contatori («un letturista vede tante cose, ma non sono affari suoi»), Liebling scrive: «Non è certo un playboy. ‘Quando torno a casa’, dice, ‘mi piace starmene seduto tranquillo in poltrona’». Una volta Liebling intervistò anche l’ultimo saltatore di elefanti in tournée con il circo Ringling Bros, i cui datori di lavoro avevano eliminato il numero dal 1908 a causa dell’alto numero di ossa del collo che finivano per rompersi. Le citazioni che Liebling usa in questo articolo sono un esempio quasi perfetto della sua capacità di cogliere l’autenticità di un personaggio: Charlie Bell sedeva su un tronco vicino a una delle entrate della pista del circo e guardava gli elefanti. «Nessuno salta più su di loro da ormai ventiquattro anni», disse con tono compassionevole. «Non capisco come fanno a manovrarli. Niente tiene buono un elefante come qualcuno che gli salta sopra. Li fa sentire come se non fossero così grossi».

Infine, c’è il tipo di citazione che riesce a esprimere un concetto in un modo che forse al cronista non sarebbe mai venuto in mente. Mentre intervistava una sopravvissuta del Titanic, il giornalista del «Boston Post» (e futuro romanziere) John P. Marquand le chiese: «Quindi lei è venuta in America sul Titanic?». «Be’», rispose lei, «fino a un certo punto». Quello che i bravi giornalisti non fanno è tappezzare i loro articoli di virgolettati nell’errata convinzione che questo non solo sia il modo più giusto per riempire lo spazio, ma anche il mezzo migliore per informare i lettori. Come ha detto A.J. Wiggins, direttore-editore dell’«Ellsworth (Maine) American»: «Un giornale non può certo vantarsi di aver riportato i fatti in modo imparziale solo perché ha citato a lungo due idioti disinformati che hanno pareri opposti sull’argomento». Ma l’uso delle citazioni dirette implica anche altri problemi. Qualche giornalista, e molti docenti di giornalismo, vivono come

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un lacerante dilemma etico la necessità di ritoccare la forma delle citazioni. Altri si preoccupano molto delle modalità di attribuzione alla fonte o dei criteri per un corretto sfruttamento parziale delle frasi pronunciate. Evidentemente è opportuno dare qualche indicazione sull’argomento. QUANDO SI USANO LE CITAZIONI DIRETTE? Generalmente dovreste usare il discorso indiretto per informare sui fatti e i virgolettati per dare all’articolo una maggiore personalizzazione, immediatezza, autenticità, nonché una voce e un ritmo differenti. Essi possono anche servire a riportare fedelmente uno scambio di battute fra intervistato e intervistatore, soprattutto nei casi in cui vogliate mostrare le premesse di un’improvvisa confessione o di una dichiarazione dai toni drammatici, oppure evidenziare un atteggiamento evasivo. Di norma, comunque, le citazioni devono servire a far esprimere commenti, impressioni personali, opinioni, sensazioni; quindi è auspicabile che non siano mai usate per infarcire un pezzo né tantomeno in sostituzione del resoconto in forma indiretta. Non dimenticate mai che il linguaggio del giornalista può essere ben più efficace delle parole pronunciate dalla maggior parte delle persone. Per esempio, invece che «Un portavoce dell’Onu ha detto: ‘Neghiamo nel modo più assoluto che questa affermazione sia veritiera o che lo sia mai stata’», scrivete: «Un portavoce dell’Onu ha smentito l’affermazione». FEDELTÀ E ACCURATEZZA All’inizio e alla fine di un gruppo di parole ci sono due segni chiamati virgolette. Questi indicano che quanto è scritto nello spazio che racchiudono è la fedele trascrizione di qualcosa che è stato

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detto. Non è una versione riveduta né un resoconto o un riassunto, né tantomeno la rielaborazione di ciò che qualcuno intendeva dire, o avrebbe detto se avesse avuto un livello di istruzione tale da permettergli di esprimersi in un modo così corretto. È la trascrizione parola per parola, sillaba per sillaba, di una frase realmente pronunciata. Altrimenti a che cosa servirebbero quelle virgolette all’inizio e alla fine? Se non avete un appunto preciso o una registrazione, oppure se la persona che vorreste citare si esprime in un modo che, trascritto, non ha senso, allora dovete ricorrere al discorso indiretto. Sempreché, ovviamente, il linguaggio incongruo non rientri nel senso generale dell’articolo. E in questo caso voi trascriverete accuratamente ogni frase interrotta, ogni scorrettezza grammaticale o sintattica e ogni parola usata in modo sbagliato. Questo è il modo migliore per difendersi dall’accusa di aver manipolato la citazione. Ma con certe persone non si può mai averla vinta. Pedro Guerrero, dei St Louis Cardinals, una volta si è lamentato del fatto che «A volte scrivono quello che ho detto e non quello che intendevo dire». Interiezioni e fonosimboli Il rispetto dovuto all’autorevolezza di quanto mettete fra virgolette di norma non vi impone di trascrivere anche espressioni come «Ehm», «Ah», o il rumore gutturale di chi si schiarisce la voce. Normalmente i cronisti provvedono a eliminare questi suoni, mentre prendono appunti o nel momento della stesura del pezzo, ma negli articoli di colore, nei profili, nei pezzi di cronaca, talvolta è necessario riportare le citazioni integralmente, senza omettere proprio nulla. Un esempio di ciò può essere il caso in cui l’esitazione o l’incertezza di una persona siano elementi importanti. Comunque è l’esperienza a insegnarci qual è la differenza tra l’importanza di un elemento e la scorrettezza gratuita nei confronti della persona citata.

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Dichiarazioni sgrammaticate Qualche giornale, come ad esempio il «Philadelphia Inquirer», consente la correzione di piccoli errori di grammatica nelle citazioni, sia per rendere più chiaro il senso della frase sia per risparmiare alla persona citata una brutta figura. Io non seguirei questo criterio, perché ritengo che il giornalista debba mirare a un’esposizione chiara e precisa, prescindendo dalla necessità di coprire le manchevolezze della fonte. Quindi suggerisco di usare il discorso indiretto, quando risulti funzionale alla chiarezza dell’informazione, ma di ricorrere ai virgolettati, nella loro forma più genuina, se si vuole dare voce alle persone coinvolte nei fatti. In fondo gli errori di grammatica non sono che un aspetto naturale del modo di esprimersi di chi sta parlando. E se la fedele trascrizione di un linguaggio sgrammaticato ridicolizza la persona che lo usa, pazienza. Molti giornalisti che si occupano di politica regolarmente ripuliscono il linguaggio dei politici, convinti che rientri fra i loro compiti anche quello di trasformare i vaniloqui inarticolati degli intervistati in frasi precise e complete. Sbagliano. Anzitutto, l’operazione di ripulitura falsa il messaggio originale; in secondo luogo, se il politico in oggetto non sa parlare correttamente la sua lingua, è compito del giornalista fare in modo che il lettore se ne renda conto, per poi decidere se votarlo. Un ulteriore problema che sorge quando si consente ai cronisti di aggiustare la grammatica di chi parla è costituito dalla loro tendenza a seguire criteri difformi: inconsapevolmente aggiustano le frasi delle persone colte e dei personaggi ufficiali, mentre non intervengono sulle citazioni che danno voce alla gente comune. Prendete coscienza di questa pulsione classista e respingetela. Non aggiustate le citazioni di nessuno. Parole sconnesse e sibilline Ben più gravi delle frasi sgrammaticate sono quelle sconnesse, che minano l’obiettivo primario della chiarezza. Dato che è vostro

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compito capire i fatti che state seguendo, se la persona con cui parlate non è in grado di darvi risposte chiare e comprensibili cercate qualcun altro che possa farlo. Se il linguaggio del vostro interlocutore è involuto e confuso, ma il suo significato è comprensibile, ricorrete al discorso indiretto. Qualche volta, se un’autorità si esprime con frasi sconnesse o sibilline e voi ritenete opportuno evidenziare tali caratteristiche nell’articolo, è giusto che citiate le frasi così come sono. Un esempio può esserci fornito da una dichiarazione di Ron Ziegler, addetto stampa del presidente americano Richard Nixon, in occasione di una conferenza stampa alla Casa Bianca nel 1974. Gli era stato chiesto se certi nastri su cui era registrata una conversazione del presidente su questioni illegali fossero ancora integri. La domanda presumeva una risposta netta, sì o no, ma Ziegler usò un centinaio di parole per rispondere: Sono dell’avviso che la maggior parte delle conversazioni che hanno avuto luogo in quelle parti della Casa Bianca dotate di un sistema di registrazione siano esistenti pressoché nella loro interezza, ma il procuratore speciale, il tribunale e, credo, il popolo americano hanno sufficiente familiarità con il sistema di registrazione per capire dove sussistevano degli apparecchi per la registrazione e per comprendere la situazione derivante dall’acquisizione del materiale registrato, tuttavia, sebbene l’acquisizione del materiale non sia stata ancora compiuta in attesa di una decisione in merito del tribunale, ritengo di sapere quale sia la risposta alla vostra domanda.

Se l’eloquio privo di senso è una caratteristica abituale, può a buon diritto divenire oggetto di uno specifico articolo. Dopotutto l’uso ripetuto di un linguaggio privo di significato può indicare chiaramente una disfunzione del processo logico, la volontà di nascondere qualcosa, un comportamento illecito o tutte e tre le cose.

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Il linguaggio dialettale e gergale È una questione molto delicata. Ogni gruppo sociale, che rappresenti una sottocultura, una comunità di appassionati di una certa attività, un’entità etnica o semplicemente delle persone che fanno lo stesso lavoro, ha un proprio linguaggio specifico o un dialetto, che alcuni usano soltanto fra loro e altri anche all’esterno del gruppo. In molti casi la citazione fedele di certe espressioni gergali o dialettali non crea nessun problema di comprensione. Se un giocatore di calcio dice «C’hanno fregato de brutto» nel telegiornale della notte, il pubblico non avrà difficoltà a capire il senso dell’espressione. È sbagliato e inutile cercare di renderne il giorno dopo un’edizione riveduta e corretta come «Ci hanno brutalmente sconfitti». I problemi sorgono quando l’espressione dialettale non è di facile comprensione. In questo caso dobbiamo chiarirla con una traduzione o riportarla così com’è per amore di autenticità, mettendo in difficoltà i lettori? Un simile scontro fra chiarezza e autenticità è particolarmente duro quando si ha a che fare con gruppi etnici. Qualche tempo fa gli eschimesi hanno contestato la pratica di un giornale dell’Alaska che traduceva le loro dichiarazioni in inglese corrente, privandole del colore del loro linguaggio, spoglio ed essenziale. Viceversa in Florida il «St. Petersburg Times» fu violentemente attaccato per aver riportato alla lettera il linguaggio tipico di un atleta di colore. Anche se all’interessato la cosa non dispiacque, i lettori di colore accusarono il giornale di aver voluto mettere in ridicolo l’atleta. Personalmente consiglio molta cautela; quando un linguaggio particolare non è chiaro a tutti i lettori, in un articolo di cronaca è meglio riportarlo in forma indiretta, mentre nelle pagine specialistiche o di approfondimento, soprattutto negli articoli di maggiore lunghezza, le citazioni autentiche possono essere inserite più liberamente. Non mi sembra un atteggiamento di sufficienza. Comunque, per riportare una citazione dialettale o gerga-

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le in forma autentica, ci vuole un buon orecchio per la lingua (anche quando si annotano le parole). Chi non sa percepire le sfumature che fanno la differenza si dovrebbe astenere. PRODUTTIVITÀ Accorciate le citazioni soltanto con tagli visibili Il solo modo corretto e sicuro per accorciare le citazioni è quello di tagliare parole e frasi, sostituendole con i classici puntini che evidenziano l’omissione. Per esempio, «Reputo oltraggiosa la richiesta che ci viene fatta [...]. Non intendiamo cedere. Resisteremo con tutte le nostre forze». Senza quei puntini, il lettore avrebbe l’impressione che la dichiarazione sia stata riportata in forma completa. Se, nonostante i tagli, non riuscite a ottenere la lunghezza voluta, ricorrete al discorso indiretto. Frammenti di citazioni Può avvenire che non si riportino intere citazioni, ma solo dei frammenti costituiti da una singola frase o perfino da una sola parola. Nel suo Troublesome Words Bill Bryson offre questi due esempi: «Ha detto che i profitti nel secondo semestre saranno ‘buoni’» e «la solitudine era una ‘caratteristica’ della vita di Hickley». Quello che lascia perplessi in questi esempi è che le parole evidenziate sono assolutamente comuni e prevedibili. Si ha l’impressione che il cronista sia stato in grado di annotare soltanto una parola di ogni frase, oppure che l’autore del pezzo voglia manifestare scetticismo nei confronti della parola citata. Nel primo esempio sembra che la previsione dei buoni profitti non abbia un adeguato fondamento; nel secondo si percepisce una vena di ironia, se non di sfiducia, nei confronti della fonte.

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La morale è che le citazioni di singole frasi o parole vanno limitate ai casi in cui queste siano particolarmente enfatiche, come in «Ha detto che i profitti nel secondo semestre saranno ‘strabilianti’», oppure «Ha detto che i profitti nel secondo semestre ‘raggiungeranno livelli impensabili’».

ATTRIBUZIONE DELLE PAROLE CITATE

Dire, affermare o commentare? A proposito del verbo con cui si attribuiscono le parole citate al nome della persona che le ha pronunciate, molti cronisti trovano normale sostituire «dire» con un sinonimo come «affermare», «asserire», «commentare». Il criterio è plausibile quando le parole citate sono realmente un’affermazione, un’asserzione o un commento, ma scrivere «‘Allora il mio cane si è lanciato sul ladro’, commenta il signor Rossi» è un’assurdità, perché il signor Rossi si è limitato a esternare un fatto a lui noto, senza fare nessun commento. Scrivere «asserisce» in questo caso sarebbe anche peggio, perché darebbe l’impressione che le parole pronunciate possano essere contestate e perfino rivelarsi false. Se non avete validi motivi per un ragionevole dubbio, l’uso di «asserire» al posto del semplice «dire» è fuorviante. Ancora più avventato sarebbe l’uso di verbi come «ammettere» o «confessare», che presuppongono una responsabilità da parte della persona citata. Le ammissioni in genere si riferiscono a fatti che l’autore avrebbe preferito tenere nascosti, ma ha dovuto rivelare in seguito a un interrogatorio o ad altre forme di pressione. Altrettanto discutibile è l’uso di verbi che, apparentemente sinonimi di «dire», in realtà presentano delle connotazioni specifiche. Uno dei meno adatti è «dichiarare», come si può vedere da «‘Ho 24 anni’, ha dichiarato la donna». Probabilmente la donna

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si è limitata a dire «Ho 24 anni», perché se lo avesse dichiarato, avrebbe usato un tono di voce molto sicuro e avrebbe scandito le parole come si fa davanti a un pubblico ufficiale. Tutto ciò sarebbe stato giustificato dal fatto che la donna si volesse vantare della sua età oppure che intendesse mettere la questione in chiaro, contro ogni contestazione, una volta per tutte e pubblicamente. Quindi il presunto sinonimo ha un significato ben diverso da quello del verbo che dovrebbe sostituire. Dice o ha detto? Queste due forme del verbo «dire» non sono, come qualcuno crede, interscambiabili, ma hanno funzioni differenti. «Ha detto» si riferisce a un fatto specifico (passato): «‘Ci ha molto disorientati il fatto che quest’anno il Natale sia stato festeggiato due volte’, ha detto la signora Rossi». Invece «dice» si riferisce a una situazione ordinaria: «‘Il Natale viene solo una volta l’anno’, dice la signora Bianchi». Inversione dell’ordine normale Alcuni cronisti ritengono di poter vivacizzare la monotonia di uno stile uniforme invertendo l’ordine normale delle parole o delle frasi. Questo si verifica soprattutto con l’introduzione di una citazione diretta: «‘Sono l’uomo più felice di Londra’, ha detto il signor Smith». Come sottolinea Keith Waterhouse nel suo Waterhouse On Newspaper Style, tale vezzo si è tanto diffuso nella rivista «Time» che la rivista «New Yorker» ha commentato: «A furia di rivoltare le frasi, fanno girare la testa».

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CITAZIONI INVENTATE Monosillabi trasformati in frasi Alcuni cronisti hanno la discutibile abitudine di rielaborare dei semplici «sì» o «no» in risposta alle loro domande (a volte solo accennati con un movimento del capo), trasformandoli in frasi complete, che presentano come citazioni dirette della fonte. Per fare un esempio, alla domanda «Ha mai passato alla stampa documenti governativi riservati?» l’intervistato risponde semplicemente «No» e il cronista scrive nel suo articolo «Alla domanda ha risposto ‘Non ho mai passato documenti governativi riservati alla stampa’» o, anche peggio, «Mi chiede se ho mai passato documenti governativi riservati alla stampa? No». Tale scambio di battute dovrebbe essere riportato usando il discorso indiretto, chiarendo sia il tono della domanda sia la forma della risposta. In molti giornali, rielaborare brandelli di conversazione è considerato normale. Per esempio, nel suo libro Dog Eat Dog: Confessions of a Tabloid Journalist, Wensley Clarkson, che un tempo lavorava per il «Mirror» di Londra, racconta il seguente scambio tra lui e Paul McCartney, all’epoca in cui circolava la voce di una possibile separazione dell’ex Beatle dalla prima moglie. Clarkson aspettava da ore davanti alla sua casa nell’East Sussex, quando finalmente apparve una Mercedes rossa a bordo della quale c’erano Paul e la moglie. McCartney abbassò il finestrino, e questa fu la loro conversazione: McCartney: Che cosa posso fare per lei? Clarkson: Sono Wensley Clarkson del «Sunday Mirror». Vedendovi insieme mi sembra di capire che le voci di una vostra separazione non sono vere. McCartney: Sono tutte sciocchezze. Clarkson: Immagino che vorrebbe che questi pettegolezzi smettessero di circolare.

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McCartney: Sì. Certo. Clarkson: La definirebbe una campagna diffamatoria? McCartney: Sì. Clarkson: Queste voci hanno cominciato a girare un anno fa, ovviamente non erano vere neanche allora. McCartney: Certo che no. Adesso perché non se ne va a casa? Clarkson: D’accordo.

Due giorni dopo, a pagina tre del «Sunday Mirror», apparve un articolo intitolato Paul è furioso per le bugie sulla sua separazione, che cominciava così: La superstar Paul McCartney ha smentito le voci secondo le quali il suo matrimonio sarebbe in difficoltà. «Voglio che il mondo sappia che io e Linda siamo più felici che mai», ha dichiarato. «Vorrei che la gente smettesse di spettegolare e di dire fesserie». Tutto questo alla vigilia dell’udienza presso un tribunale tedesco per verificare la validità di quanto sostiene una ragazza di 20 anni che dice di essere figlia illegittima di Paul, 40 anni, e chiede milioni di sterline per il suo mantenimento. McCartney non ha voluto fare commenti sul processo ma, con Linda al suo fianco, ha smentito decisamente le voci di una crisi del loro matrimonio che dura ormai da 14 anni. «Siamo ancora una volta vittime di una campagna di diffamazione», ha detto. «Queste voci hanno cominciato a circolare un anno fa e, come può vedere, non erano più vere allora di quanto non lo siano adesso». Paul ha concesso quest’intervista esclusiva al «Sunday Mirror» nella sua casa di campagna nei pressi di Rye, nell’East Sussex.

Senza dubbio Clarkson mise le parole in bocca a McCartney. D’altra parte, quello che scrisse, sebbene non fosse la fedele riproduzione del loro scambio, rifletteva quello che Paul pensava veramente. Ma un approccio simile ha i suoi rischi; ed è un sentiero sdruccioloso che, prima o poi, può portare alla pura invenzione. Se cominciate a mettere le parole in bocca alla gente, potreste perdere ogni interesse per quello che dice veramente.

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Non inventate le citazioni per proteggere la fonte Un vezzo tipico dei giornalisti alle prime armi è quello di voler coprire l’identità della fonte dell’articolo scrivendo impropriamente che questa si è rifiutata di rilasciare dichiarazioni al giornale o, peggio ancora, che ha rilasciato un secco «No comment». Primo: non è vero. Secondo: se poi l’identità della fonte viene scoperta, apparirà chiaro che l’articolo, almeno in parte, non è veritiero. Le parole sentite casualmente per strada Chi inventa le citazioni è uno sconsiderato perfettamente paragonabile a chi maneggia una presa elettrica con le mani bagnate. Eppure alcuni cronisti ritengono che gli aspetti più discutibili di tale pratica diventino accettabili quando si tratta di vivacizzare un articolo, inventando le parole di comuni cittadini, che si fingono sentite per la strada. A parte l’ovvia disonestà di certe trovate, ci sono almeno due rilievi da fare. Primo, nessun cronista potrà mai inventare parole tanto originali e significative quanto quelle realmente pronunciate dalla gente comune. Secondo, il cronista che segue questa pratica e riempie i suoi pezzi di parole «che gli è capitato di sentire in treno» di solito è una persona che conosce per esperienza il modo di esprimersi della gente come un sordo dalla nascita. Bisognerebbe far osservare a questi cronisti «creativi» che forse farebbero meglio a dedicarsi alla narrativa. Anzi, l’ideale sarebbe che non scrivessero per niente. Tutti i maggiori giornali sono sempre queruli e polemici. Non difendono mai niente e nessuno, se possono permetterselo. Quando sono costretti a schierarsi, se la cavano accusando qualcos’altro o qualcun altro. Henry L. Mencken

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Diversi modi di raccontare

Il giornalista è una persona che si dà più da fare di ogni altro pigro al mondo. Anonimo

Nel Medioevo i cristiani credevano che i dannati dovessero subire in eterno la tortura del continuo avvicendarsi di sensazioni estreme, dal caldo infuocato al freddo gelido. La questione era molto dibattuta fra i teologi, che si chiedevano, perplessi, se i malvagi dannati non godessero di un momento sublime quando il freddo si trasformava in caldo, se per le loro anime quel disgelo non fosse un fuggevole attimo di estasi e se, in tal caso, non venisse meno il valore punitivo della loro condanna. Discussioni altrettanto bizantine si scatenano ogniqualvolta si cerchi di definire la differenza tra un articolo di cronaca e un servizio speciale. Secondo molti giornalisti la cronaca sarebbe sempre arida, netta, impersonale, mentre i servizi speciali costituirebbero un genere piuttosto libero nella forma. Ai loro occhi il cronista si occupa con impegno di raccogliere fatti, mentre l’autore del servizio speciale passa il tempo a creare belle frasi che gli risparmiano la fatica di lunghe ricerche. Se prendiamo come esempi estremi il resoconto di un incendio che ha provocato 68 vittime e una rubrica di consigli per il giar-

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dinaggio, è improbabile che i due generi si confondano: il primo va in cronaca, il secondo è chiaramente uno speciale. Ma per la maggior parte degli articoli, che si colloca tra i due estremi, in quale momento il pezzo di cronaca diventa servizio speciale? Se supera una certa lunghezza? Se espone un limitato numero di fatti? Se presenta come aspetti di maggiore interesse per i lettori la vita quotidiana e i rapporti umani? O magari quando, se è un articolo di cronaca a struttura piramidale, non fornisce più informazioni sui fatti? La verità è che il tentativo di distinguere nettamente la cronaca dallo speciale non ha grandi possibilità di riuscita e, per di più, è pericoloso, perché esprime quella mentalità ristretta che impone alla cronaca i soliti argomenti e condanna la sua esposizione alla camicia di forza di una struttura convenzionale. Implicitamente rafforza l’insidiosa convinzione che i servizi speciali non richiedano i normali criteri di precisione né ricerche approfondite e che siano, quindi, prodotti di serie B, riconoscibili al primo sguardo perché poveri di lettere maiuscole, che caratterizzano i dati informativi rispetto alle parole di contorno. Naturalmente per la cronaca varrebbe l’inverso. In realtà molti pezzi di cronaca trarrebbero beneficio da una maggiore disinvoltura e da un approccio più flessibile nell’esposizione. Nello stesso tempo a molti speciali gioverebbero ricerche più accurate e uno stile meno compiaciuto. In conclusione non c’è un vero discrimine tra cronaca e servizio speciale: la cosa migliore è vederli entrambi come giornalismo. APPROCCI DIFFERENTI Dopo esservi liberati di certe visioni rigide, siete in grado di valutare correttamente l’immensa varietà di modi di scrivere il testo principale, un pezzo supplementare o il seguito di un articolo (destinato alla pagina di cronaca o a quella dei servizi speciali). Al-

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cuni di questi approcci sono piuttosto comuni, altri no. A volte sono costituiti da un riquadro in varie forme, altre volte da un pezzo separato che accompagna il testo principale, altre ancora da una tipologia specifica per i commenti, i profili o le analisi. Tutti, se usati con giudizio, possono rendere più varie e vivaci le pagine di un giornale. Colore Il pezzo di colore descrive uno scenario o un evento che fanno luce su alcuni dei temi o delle persone oggetto dell’articolo principale. Spesso utilizzato per veicolare in modo discreto le opinioni del giornalista, il pezzo di colore è particolarmente valido quando ha come fine una precisa descrizione, in cui sviluppa un dettaglio per portarlo a rappresentare la situazione complessiva. L’effetto di tale procedimento, tuttavia, viene vanificato se è perseguito ricorrendo a pesanti analogie. In genere è consigliabile presentare il dettaglio confidando nella capacità del lettore di percepire il suo valore simbolico. La mosca sul muro Il giornalista può impostare un pezzo assumendo l’atteggiamento dell’osservatore puro e semplice che non fa domande, ma si limita a rilevare, registrare e annotare il comportamento, le parole e le interazioni di uno o più soggetti, in una determinata situazione. La stesura finale del resoconto in genere contiene anche numerose citazioni dirette e la trascrizione di qualche scambio di battute. Questo tipo di articolo ha di solito come oggetto un luogo o un’istituzione poco noti ai lettori. Dietro le quinte A differenza che nel pezzo precedente, in questo caso il giornalista non si limita a osservare, ma spiega la dinamica di una realtà,

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descrivendola. Un’impostazione di questo genere è particolarmente valida per argomenti che il lettore dà per scontati, ma in fondo conosce appena. Per esempio, come si progetta un orario ferroviario generale? Come funziona un’agenzia di valutazione della solvibilità? Travestimento In questo caso il giornalista esamina e riporta le reazioni della gente di fronte a un soggetto di cui ha assunto l’apparenza attraverso un travestimento. Una simile scelta può essere fatta, anzitutto, per divertimento, ad esempio travestendosi da prete per vedere come si comporta la gente davanti a un abito talare (un giornalista londinese recentemente non si è limitato ad andare in giro vestito da prete, ma si è anche presentato così in locali di intrattenimento e nightclub). In secondo luogo il travestimento può avere una finalità molto seria, come nel caso in cui il giornalista finga di essere un senzatetto per vedere se qualcuno prende a cuore la sua condizione. Diversi anni fa un cronista andò in giro per l’America fingendosi malato di Aids per registrare le reazioni della gente quando accennava alla sua malattia nel corso di una conversazione. Profilo È un tipo di articolo che di solito studia il personaggio al centro di una notizia, ma può anche essere il ritratto di un luogo, di un’organizzazione, di una religione ecc. Si può basare su un solo incontro con l’oggetto della trattazione oppure raccogliere diversi punti di vista e fornire un’immagine a tutto tondo. Intervista Può essere un resoconto che fornisce il contesto, lo sfondo e i commenti oppure la ricostruzione dello scambio di battute attra-

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verso citazioni dirette. In questo caso le domande, mai troppo lunghe, devono essere formulate con particolare precisione e chiarezza; mentre per quanto riguarda le risposte, ogni omissione deve essere segnalata con i puntini. È necessario che l’intervistato dica cose chiare e interessanti, perché le eventuali carenze di contenuto non possono essere compensate dal commento brillante dell’intervistatore. Schede schematiche I fatti collegati all’argomento dell’articolo o le premesse dell’evento al centro della trattazione possono essere elencati in una scheda schematica, in ordine d’importanza o cronologico, invece di essere raccolti in un pezzo specifico. Cronologie Prima di fare il punto della situazione si può presentare quanto è avvenuto in precedenza attraverso brevi frasi, di solito introdotte da una data in grassetto. Queste ricapitolazioni cronologiche vanno in genere scritte con un linguaggio efficace e quasi telegrafico. Approccio storico È particolarmente appropriato quando l’argomento, oggetto da tempo di previsioni e ipotesi, viene d’improvviso posto in evidenza dagli eventi. Un approccio di questo tipo è valido anche per argomenti noti le cui premesse storiche sono poco conosciute. La sua massima efficacia non si ottiene con un semplice riassunto degli sviluppi più recenti, ma con una vera trattazione storica. Testi completi Quando un articolo è basato su un importante discorso, dichiarazione o documento, è bene valutare l’opportunità di proporne il testo completo.

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Testimonianze dirette Dovendo trattare di esperienze personali, il giornalista può rielaborare le dichiarazioni rese durante un’intervista o utilizzare la testimonianza diretta del soggetto interessato. Quest’ultima soluzione consente di apprezzare i toni genuini e diretti di una persona che si sta esprimendo e, quindi, è da preferire alle frasi levigate del giornalista. Sfondo Serve a inquadrare sullo sfondo del passato recente gli argomenti e gli aspetti al centro dell’articolo, che così appaiono come momenti di un processo in continua evoluzione e non come manifestazioni di pura casualità. L’esperienza tratta da questo tipo di pezzo può guidarvi nella scelta del materiale che dovreste inserire, sia pure in forma concisa, in ogni articolo che scrivete. Analisi Esamina le cause che hanno determinato o impedito un evento. È consigliabile che anche i cronisti più esperti evitino di affidarsi esclusivamente alle loro capacità di analisi e consultino degli esperti. La voce popolare Si possono utilizzare brevi citazioni dirette delle reazioni di comuni cittadini, fermati in strada o sentiti per telefono, all’evento centrale di un articolo. Spesso tale approccio è inefficace perché le domande prevedono risposte scontate (ad esempio, del tipo «Lei ritiene che l’omicidio sia da condannare?»), o sono troppo facili e quindi ottengono solo risposte meccaniche, o ancora, perché le risposte ottenute sono decisamente banali. Dovete porre domande che coinvolgano l’esperienza personale dell’interlocutore o che sollecitino le sue reazioni più genuine. E non tornate in redazione prima di aver raccolto un vasto campionario di risposte.

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L’opinione degli esperti Vale quanto detto nel paragrafo precedente, tenendo conto che in questo caso non si intervista il comune cittadino, ma un esperto. Comunque è bene seguire gli stessi criteri di cui sopra. Sondaggi di opinione Se volete pubblicare un sondaggio sulle opinioni della gente comune dovete rivolgervi ad un istituto di ricerca accreditato. Se vi arrischiate a eseguirlo autonomamente con la vostra redazione, otterrete risultati non scientifici e quindi poco significativi. Recensioni e simili Oltre alle recensioni di film o spettacoli teatrali si possono scrivere articoli di valutazione critica di una nuova automobile o anche di un nuovo programma sanitario, un museo, un edificio storico di recente apertura, un parco o un servizio pubblico di qualsiasi genere. A questo scopo può essere molto utile accompagnare un destinatario del nuovo servizio pubblico (come, ad esempio, un avente diritto che richiede un nuovo servizio assistenziale) e scrivere il pezzo basandosi sulle sue esperienze. Approfondimenti Esiste un tipo di giornalismo in cui la linea di separazione tra l’articolo di cronaca e il servizio speciale è particolarmente confusa, ed è l’approfondimento, vale a dire il pezzo dalle 5000 parole in su. Articoli simili si trovano più frequentemente sulle riviste, ma alcuni quotidiani americani a volte pubblicano reportage molto lunghi, di solito nell’ambito di una serie in varie puntate. I giornali che seguono il loro esempio dovrebbero essere più numerosi, perché questi servizi esercitano un notevole impatto. Un anno dopo l’esplosione della bomba atomica a Hiroshima, per esempio, la rivista «New Yorker» pubblicò un servizio di 31mila pa-

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role sull’esperienza di sei abitanti della città, a firma di John Hersey. La rivista andò subito esaurita, ben presto le sue copie cominciarono a essere rivendute a 20 dollari l’una, arrivarono richieste da tutto il mondo (Albert Einstein ne chiese mille copie), il Book of the Month Club ristampò l’articolo e lo mandò a tutti i suoi iscritti. Il servizio di Hersey fu letto alla radio, tre mesi dopo apparve in forma di libro, e da allora è stato ristampato continuamente. Oggi, a meno che si abbia la fortuna di lavorare per il «New Yorker», l’unica possibilità di pubblicare un approfondimento simile è a puntate su un quotidiano o su internet, come è successo a Mark Bowden del «Philadelphia Inquirer». Il tema del suo servizio era la battaglia di Mogadiscio, in Somalia, in cui le forze speciali americane rimaste intrappolate al suo interno dovettero combattere per uscire dalla città. In quell’occasione morirono più di 500 somali e 18 soldati americani. Dopo aver intervistato a lungo sia i militari statunitensi sia i somali, Bowden riuscì a ricostruire la battaglia in ogni minimo particolare, e il risultato fu pubblicato in 29 puntate sull’«Inquirer». Forse ne avrete sentito parlare; la serie si intitolava Black Hawk Down. In seguito sarebbe diventata un libro, che negli Stati Uniti rimase a lungo in cima alla classifica dei bestseller, un documentario per la televisione, un audiolibro, un sito web e, soprattutto, un film di Hollywood. Questo tipo di servizi è molto costoso, e i direttori disposti a finanziarlo sono sempre meno. Ma oggi che c’è la possibilità di scriverli nel proprio tempo libero e metterli online praticamente a costo zero, e viste le gratificazioni pubbliche e private che possono dare, mi meraviglio che gli emuli di Hersey e Bowden non siano più numerosi. Ogni volta che apro un giornale trovo qualcosa che non avrei dovuto assolutamente perdere e da cui traggo sempre cultura e svago. Samuel Johnson

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Commenti, espliciti e impliciti

Gli articoli scritti da cronisti che nascondono i loro pregiudizi e la loro sensibilità dietro parole con un sottile significato negativo come «rifiutare», «a dispetto», «confessare» e «gravoso» non sono mai equanimi. Ben Bradlee

Il giornalismo, per sua natura, è un procedimento soggettivo; non può fare a meno di proporre e rispecchiare visioni diverse della realtà come una mucca non può fare a meno di produrre latte. Di conseguenza i commenti, intenzionali o involontari, espliciti o impliciti, sono parte integrante di un articolo. Contestare questa affermazione equivale a negare che l’inchiostro lascia un segno sulla carta. Per quanto riguarda il commento intenzionale (editoriali, articoli di fondo) nessuno negherebbe mai la sua legittimità. Dopotutto un giornale che non esprimesse la sua opinione avrebbe una personalità incompleta. I problemi sorgono per il commento nascosto tra le righe del resoconto vero e proprio, di cui imita il tono e le affettazioni, o per il commento che, coperto dall’esposizione di una notizia in un articolo di cronaca, si insinua nella mente del lettore e, a volte, dello stesso autore prima che questi se ne rendano conto. Il commento, quindi, rappresenta un problema solo quando

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non si presenta apertamente come tale. Non è possibile eliminare radicalmente questo aspetto problematico, ma possiamo cercare di ridurne il peso individuandolo, studiandolo, considerandolo e riconoscendolo per quello che è. Nel presente capitolo parleremo di questo e anche dei tipi di commento più diretti. I COMMENTI NEGLI ARTICOLI DI CRONACA Ci sono tre tipi di commento negli articoli di cronaca: espliciti, impliciti e involontari. C’è un commento esplicito quando il cronista esprime in modo diretto ed evidente un giudizio o un’opinione. Questo tipo di commento è bandito dalle pagine di cronaca di molti giornali in tutti i paesi del mondo. A dire il vero in Gran Bretagna e negli Stati Uniti viene considerato talmente fuori luogo che i manuali di giornalismo ne fanno solo una fugace menzione e ogni giornalista è certo che nessun lettore possa contestare il fatto che nelle pagine di cronaca le informazioni vanno fornite nel modo più immediato possibile, lasciando i commenti agli editoriali e alle pagine dedicate alle opinioni. Nella maggioranza dei casi (delle eccezioni tratteremo più oltre) tutto ciò è esatto. I lettori si orientano bene nella lettura di un articolo di cronaca se si trovano davanti un testo che rivela l’intento, sebbene non sempre del tutto realizzato, di presentare i puri fatti. Come già osservato nel capitolo 3, sul valore di notizia, i commenti sono alla portata di ogni giornalista, le informazioni nuove solo di pochi. I primi sono all’ordine del giorno e le seconde scarseggiano. Ecco perché le notizie sono in assoluto più interessanti dei commenti e perché si rischia di ridurre l’efficacia di un pezzo, quando i due elementi si mescolano; l’informazione essenziale viene inquinata e perde il suo impatto. Tuttavia ci sono delle eccezioni. Al cronista di lunga esperienza, che scrive un pezzo di sfondo su un argomento che segue da tempo, dovrebbe essere consentito di orientare con le sue valutazioni il testo e di conseguenza i lettori. La stessa libertà dovrebbe

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essere riconosciuta agli specialisti o ai corrispondenti dall’estero che risiedono da molto tempo nel luogo di destinazione. È ovvio che i loro commenti non devono sovrapporsi polemicamente alla realtà dei fatti, bensì presentarsi come annotazioni, piccole osservazioni quasi casuali, che danno corpo al contesto dell’articolo o di qualche suo aspetto: note di scetticismo, previsioni degli sviluppi più probabili, rilievi sulle politiche più efficaci da seguire ecc., proposti con un approccio diverso da quello riservato ai pezzi di sola cronaca. Un’opinione che scaturisce naturalmente dai fatti, o dall’esame che ne fa il cronista, è più incisiva della semplice esposizione di un punto di vista (o di un pregiudizio, come lo chiamiamo quando non siamo d’accordo con lui). Uno dei migliori esempi di questo lo troviamo in un servizio dalla linea del fronte scritto dal giornalista americano Richard Harding Davis per il «Times» durante la guerra tra Grecia e Turchia. Non c’è stata nessuna selezione dei più inabili, tutto sembrava dipendere dall’irrazionalità della sorte. Un certo numero di granate e proiettili è passato in uno spazio e uomini di differente stazza hanno bloccato quello spazio in differenti punti. Se un uomo si trovava sulla traiettoria di un proiettile, era ucciso e spedito al creatore, lasciando una moglie e dei figli, forse, a piangerlo. «Papà è morto», diranno questi figli, «facendo il suo dovere». In realtà il papà è morto perché si è alzato nel momento sbagliato, o perché si è girato a chiedere un fiammifero all’uomo alla sua destra, anziché piegarsi alla sua sinistra, e ha proiettato la sua mole di novanta chili là dove un proiettile, sparato da un uomo che non lo conosceva e non aveva puntato contro di lui, si è trovato a pretendere il suo diritto di precedenza. Uno dei due doveva cedere e, poiché il proiettile non ha voluto saperne, il soldato ha avuto il cuore sfracellato.

Questi due paragrafi ci rivelano molto di più sulla vera natura della guerra di diecimila articoli di fondo. E, affinché qualcuno non pensi che gli articoli di cronaca di più di dieci anni fa non possono assolutamente insegnargli nulla, furono scritti addirittura nel 1897.

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I commenti di questo tipo vanno utilizzati con parsimonia, ma più spesso di quanto non avvenga. Il giornalismo tradizionale basato solo sui fatti costituisce un punto fermo nell’attività della stampa, ma sarebbe opportuno ricorrere più di frequente ad altre forme di maggiore respiro, specialmente per i lunghi articoli che prendono in rassegna numerosi elementi. Con il proliferare di notiziari nei canali televisivi e nei siti internet, i commenti assumono un ruolo sempre più importante nel contenuto della carta stampata. È una pura manifestazione di ipocrisia da parte dei giornali rifiutare l’idea del commento in forma esplicita, dato che il punto di vista dell’autore in altre forme è ormai parte integrante degli stessi articoli di cronaca. Tuttavia il commento esplicito è legittimo solo a condizione che venga presentato chiaramente per quello che è e non mascherato o nascosto tra le righe dei fatti. D’altra parte il commento implicito e il commento involontario sono subdoli. Il primo è intenzionale e consapevole, mentre il secondo non lo è, ma entrambi producono lo stesso effetto attraverso le stesse vie: il linguaggio, il materiale e le fonti che utilizzano, o escludono. Nelle pagine di cronaca il veicolo più comune dei commenti impliciti o involontari è la parola connotata, cioè un vocabolo con un sottile senso specifico, positivo o negativo. In ogni lingua ci sono numerosi esempi di queste parole. Eccone due, validi in quasi tutte le lingue. Attribuzione di frasi I verbi «dire» e «riferire» hanno un significato essenzialmente neutro. Ci comunicano che le parole citate sono state pronunciate (o riportate) da qualcuno. I cronisti spesso, cercando delle alternative, si trovano a usare dei sinonimi che, purtroppo, non sono altrettanto neutri. I verbi «confessare» e «ammettere» non si limitano a comunicarci che quelle parole sono state pronunciate, ma ci suggeriscono l’idea che chi le ha pronunciate sia stato sollecitato o costretto a rivelare una cosa finora sconosciuta e forse

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vergognosa oppure che la rivelazione sia stata preceduta da un intenso conflitto interiore. In entrambi i casi non si è trattato solo di pronunciare delle parole. Anche «riconoscere» implica l’ammissione (o la confessione) di una colpa, mentre «affermare», «sostenere», «asserire» possono implicare l’idea che quanto è stato detto non sia vero. Viceversa «sottolineare», «ribadire», «rilevare» tendono a sostenere l’affidabilità di chi ha parlato. Del resto, se qualcuno spiega una sua azione o decisione, non è il caso di scrivere che «ha cercato di giustificare» le sue azioni o che le ha «difese», a meno che la persona non abbia subìto critiche per la decisione presa o sia stata sollecitata a fornire spiegazioni. Oltre che dalle scelte di sinonimi, un commento involontario può anche emergere da certe espressioni introduttive come «Si teme che», «Si spera che», in cui, oltretutto, l’impersonale impedisce l’identificazione del soggetto che teme o spera. Non c’è nessun problema se i timori o le speranze possono essere compresi e condivisi da tutti come in questa frase: «Si teme sempre di più per la sorte dei tre bambini che ieri non sono tornati a casa dopo una festa scolastica». Ma se la frase è: «Si spera che il prezzo dell’oro diminuirà...», è normale chiedersi chi mai possa nutrire questa speranza. I produttori d’oro e chiunque tragga beneficio da un elevato valore del prezioso metallo possono solo temere e non certo augurarsi un simile evento. Riferimenti politici Descrivere concisamente le opinioni e lo schieramento politico di una persona scatena problemi di ogni genere. Termini come «riformista», «integralista», «irriducibile», «reazionario», «moderato», «estremista» vengono costantemente usati per etichettare un personaggio come se indicassero l’appartenenza a un partito. Ma non è così. Sono termini relativi, perché dipendono dal punto di vista di chi li attribuisce. E hanno tutti un significato negativo. Definen-

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do «estremista» chi non è d’accordo con voi o con l’indirizzo dominante, richiamate quell’idea di eccesso che costituisce una chiara connotazione della parola. E non dimenticate la massima secondo cui lo stesso soggetto che qualcuno vede come un «combattente per la libertà» è visto da qualcun altro come un «terrorista». Molte altre parole con una forte connotazione esprimono un pregiudizio, volontario o inconsapevole, da parte di chi le usa. L’azione delle autorità contro un particolare gruppo di persone è, a seconda del punto di vista, una «crociata» o una «caccia alle streghe». Le persone con cui siete d’accordo possono «commettere errori» o «sbagliare», mentre le altre «prendono cantonate» o «fanno un passo falso». I dimostranti che non vi piacciono sono una «marmaglia», mentre gli altri sono una «folla». Per qualcuno un «obiettore» è semplicemente un «ribelle» e così via. La morale è che dovete scegliere con cura le parole, tenendo sempre presenti tutte le loro connotazioni, perché anche un’espressione apparentemente innocua può essere fonte di grossi malintesi. Per esempio, negli Stati Uniti e altrove il diritto di abortire è da anni oggetto di forti controversie; chiamando il feto, in qualsiasi momento della gestazione, «nascituro» vi schierate automaticamente dalla parte degli antiabortisti, e definendo «sostenitori dell’aborto» tutti quelli che si pongono su posizioni non intransigenti confermate in modo definitivo quello schieramento. Se volete usare delle espressioni neutre chiamate l’aborto «interruzione della gravidanza» e gli abortisti «fautori della libertà di scelta». L’«IO» DEL GIORNALISTA L’uso del pronome personale, soprattutto per la prima persona, è una questione controversa in ogni lingua. Alcuni giornalisti fanno i salti mortali per evitare un «io», ricorrendo a perifrasi come: «chi scrive», «il vostro corrispondente», «il portavoce di questo giornale». Altri, invece, approfittano di ogni pretesto per usarlo,

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trasformando i loro articoli in espliciti manifesti di vanità. Anche in questo caso si consiglia la via di mezzo o, più precisamente, una posizione intermedia orientata verso la modestia, che non è, comunque, facile tenere salda. Quando il presidente John F. Kennedy stava preparando il suo discorso inaugurale, uno dei più memorabili del Novecento, disse ai suoi consiglieri che bisognava eliminare il pronome «io». Nonostante le molteplici stesure compiute da alcuni tra i migliori cervelli d’America, «io» riuscì a insinuarsi tra le righe quattro volte. I cronisti impegnati in servizi di primo piano sono particolarmente sensibili alla tentazione di usare il pronome «io», forse perché ritengono che l’importanza del servizio li nobiliti. Poi ci sono i giornalisti convinti che le loro reazioni personali ai fatti presentati, le loro emozioni, le loro vicende siano così affascinanti da dover essere esternate continuamente. Come dice un personaggio della commedia Notte e giorno del drammaturgo inglese Tom Stoppard: «Il corrispondente dall’estero è una persona che vola di qua e di là da un albergo all’altro, portandosi dietro la convinzione che l’aspetto più importante del servizio sia il fatto che è arrivato lui per scriverlo». Ovviamente, trattandosi di un cronista, vede cose, incontra persone, ha esperienze, che sono per definizione interessanti e infatti fanno parte delle notizie che lo hanno richiamato sul posto. Però il lettore vuole sapere che cosa ha visto, che cosa ha scoperto e non come lui lo ha visto o scoperto né, tantomeno, che cosa ha mangiato, bevuto o provato nel momento in cui lo ha visto. Tale criterio di selezione è sicuramente fondamentale per tutti i giornalisti, fatta eccezione per quei nomi di spicco che devono la loro notorietà proprio a uno stile che privilegia il punto di vista personale. Chi non rientra in questa élite, deve dare spazio ai riferimenti personali solo nei casi in cui siano collegati a esperienze molto coinvolgenti (per i lettori, non per i suoi cari). Tali casi, in una carriera normale, sono limitati e sporadici. Per averne un esempio, esaminiamo un pezzo che George Orwell scrisse mentre seguiva da cor-

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rispondente la guerra civile spagnola. L’elemento personale è qui giustificato dal fatto che Orwell aveva vissuto un’esperienza non comune, che molte persone non conoscono: era stato ferito da un colpo di fucile. Notate il tono molto controllato di tutto il brano: Ero al fronte da dieci giorni quando è avvenuto il fatto. L’esperienza di essere colpiti da un proiettile è in sé molto interessante e credo che valga la pena di descriverla dettagliatamente. [...] In termini approssimativi, era come se mi trovassi al centro di un’esplosione. Dopo qualcosa che mi è sembrato il rumore di uno scoppio, accompagnato da un lampo di luce accecante tutto intorno, ho sentito una forte scossa – non era dolore, ma solo una scossa come quella che si prende da una presa elettrica; e insieme, un senso di profonda debolezza, la sensazione di essere colpito e privato delle forze. I sacchi di sabbia davanti a me sembravano allontanarsi all’infinito. Credo che si provi la stessa cosa quando si è colpiti dal fulmine. Ho capito immediatamente di essere stato colpito, ma l’impressione dello scoppio accompagnato dal lampo mi ha fatto credere di essere stato raggiunto da un colpo partito accidentalmente da un fucile lì vicino. Tutto ciò è avvenuto in meno di un secondo. Subito dopo le mie ginocchia si sono piegate e sono caduto, battendo la testa al suolo fragorosamente, ma, per fortuna, senza dolore. Pur sentendomi confuso, stordito, ero consapevole di essere ferito in modo grave, ma non provavo un vero e proprio dolore fisico.

IL LINGUAGGIO «POLITICAMENTE CORRETTO» Da una decina di anni assistiamo a un cambiamento radicale, anche se tardivo, nell’atteggiamento della stampa verso importanti gruppi o minoranze sociali, quali le donne, i neri, i disabili, gli omosessuali. Tutti per anni sono stati trattati con condiscendenza e di fatto discriminati (e spesso lo sono ancora). Uno dei primi obiettivi di chi sta cercando di correggere questi atteggiamenti è il linguaggio usato nei confronti dei suddetti gruppi. Anche se i patrocinatori più radicali del «politicamente corretto» hanno riempito le pagine di eccessi estremamente divertenti, ben pochi

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di noi vogliono ritornare ai tempi in cui, per esempio, la donna si chiamava «signora» e non mancava mai qualche riga che la definiva come «graziosa», «vivace», «attraente», e ci diceva di che colore era l’abito che indossava. Oggi il «politicamente corretto» è un argomento privilegiato per le scuole di giornalismo in ogni angolo del pianeta. Un recente testo dedicava maggiore spazio al linguaggio da usare parlando di disabili che al trattamento delle notizie. Tale enfasi è sciocca, perché la questione può essere risolta applicando tre princìpi generali, che, peraltro, si richiamano agli stessi criteri di sensibilità che ogni persona di media cultura seguirebbe nella vita quotidiana: – Non menzionate la razza o la disabilità di una persona, a meno che non costituiscano un elemento di rilievo nell’articolo. – Non applicate a un certo gruppo sociale regole differenti rispetto a quelle che seguireste per un altro. Ad esempio, non descrivete l’abbigliamento e l’acconciatura di una donna in politica, a meno che non siano rilevanti per il pezzo o non facciano di per sé notizia. Provate a domandarvi se nella stessa situazione descrivereste l’aspetto di un uomo politico. – Siate precisi e non usate eufemismi. In alcuni paesi c’è la moda di definire un cieco come «una persona con problemi di vista». Questa perifrasi non corrisponde alla realtà, perché può riferirsi a qualcuno che, pur non essendo cieco, ha una riduzione della vista e quindi sarebbe definibile come «parzialmente vedente». La cosa migliore da fare è rinunciare alle espressioni vaghe a favore di un linguaggio preciso; invece di usare la parola «disabile», termine sgradito a molti, definite con esattezza il tipo di disabilità del soggetto, sempre che sia un aspetto rilevante della trattazione. ANALISI Ogni articolo di cronaca o servizio speciale che si rispetti dovrebbe contenere una parte dedicata all’analisi, che può essere in-

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serita nel tessuto narrativo o sviluppata in un paragrafo separato. Ma se, come spesso avviene, l’argomento è particolarmente complesso o di grande rilievo attuale, allora è necessario presentarlo con un pezzo interamente dedicato all’analisi, in cui si scompongono gli eventi, i temi e gli sviluppi per spiegare quanto sta accadendo, nonché le prospettive future, e anche per cercare di chiarire il senso di quegli eventi e del loro contesto. Il pezzo di analisi non deve essere una semplice serie di osservazioni, né tantomeno un vecchio articolo di cronaca riscaldato e servito con un po’ di opinioni. È essenziale che, ponendo l’accento sull’interpretazione e la spiegazione, arricchisca l’argomento con nuove prove e ulteriori approfondimenti, forniti dall’autore o, meglio ancora, da autorità o esperti accuratamente menzionati. Un approccio analitico può essere applicato anche ad articoli di altro genere. Per fare un esempio, i profili di importanti personaggi pubblici sono spesso il risultato di un riciclaggio piuttosto superficiale di materiale conservato, mentre potrebbero essere impostati con il preciso scopo di inserire la vita del personaggio in un contesto, attraverso accurate ricerche nel suo ambiente umano e professionale. Si potrebbe anche raccogliere, tra quelli che lo hanno incontrato, qualche opinione sul personaggio per inserirla nel pezzo e, così, offrire un’immagine più completa. Gli articoli interpretativi sono importanti per i lettori e lo sono anche di più in un’epoca come quella attuale, in cui normalmente le prime notizie si ricevono dalla televisione e dalla radio. Oltre a presentare un resoconto approfondito, che la radio e la televisione non possono fornire, i giornali dovrebbero anche spiegare il significato degli eventi e degli sviluppi. Questo non vuol dire che gli opinionisti si debbano chiudere in una stanza a meditare per fornire un’analisi personale dei fatti e così facendo, come ha detto il giornalista americano A.J. Liebling, «scrivono quello che secondo loro è il significato di una cosa che non hanno visto». Vuol dire, invece, che devono riportare il senso delle interpretazioni e delle analisi più recenti per consentire una nuova lettura dei fatti.

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NECROLOGI Per la maggior parte dei giornalisti, i necrologi sono una palude sconosciuta, il tipo di cose che si scrivono quando si diventa troppo vecchi per la cronaca o per i servizi speciali. Eppure, sulle principali testate americane e sui quotidiani nazionali inglesi di qualità, è proprio lì che si trovano le migliori prove di scrittura giornalistica. Due esempi. Il primo è tratto dal «Daily Telegraph»: «Il terzo lord Moynihan, morto a Manila all’età di 55 anni, con il suo carattere e la sua carriera ha fornito numerosi strali ai contestatori del principio ereditario. Le sue occupazioni principali sono state quelle di suonatore di bongo, truffatore, gestore di bordelli, contrabbandiere di droga e informatore della polizia». Il secondo è di Douglas Martin del «New York Times»: «Selma Koch, la proprietaria di un negozio di Manhattan diventata famosa in tutto il paese per la sua abilità nell’aiutare le donne a trovare la giusta misura di reggiseno, sempre con un’occhiata sapiente e mai con il centimetro, è morta martedì scorso al Mount Sinai Medical Center. Aveva 95 anni e portava la 34B». Un perfetto esempio di attacco a effetto. Ma quasi tutti i giornali, soprattutto quelli di provincia, continuano a non scrivere o a non pubblicare veri e propri necrologi. A volte riportano la morte di un loro concittadino, ma un articolo di cronaca, pieno come spesso è dei vuoti tributi di colleghi e familiari, non è un necrologio. È un biglietto d’auguri di pronta guarigione arrivato troppo tardi. Quello che vogliamo noi lettori è il racconto della vita di qualcuno, anche se non è una celebrità. Alcuni dei necrologi migliori sono quelli di sconosciuti che sono stati comunque persone affascinanti. Negli ultimi anni, ho scritto di Enric Fontlladosa, il pasticciere spagnolo che quando aveva lanciato i famosi lecca lecca Chupa Chups si era fatto disegnare il logo da Salvador Dalí; Dorothy E. Tate, una donna che in 23 anni aveva preso in affidamento ben 680 bambini difficili o comunque indesiderati; Rosa Maria Cardini, che con la sua tenacia aveva reso famoso il condimento per insalata inventato da suo padre

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Caesar; Gerald Watts, il direttore di un circolo del golf inglese che era talmente ossessionato dall’eleganza da lucidarsi anche le suole delle scarpe: e Alberta Martin, l’ultima vedova della guerra civile americana, che nel 1927, a 19 anni, sposò l’ottantunenne William Martin, un reduce del Quarto Reggimento Fanteria dell’Alabama, e quando questi morì ne sposò il nipote. Nel racconto di una vita, c’è molto spazio per i commenti, che possono andare dal ponderato giudizio su una carriera a una notazione discreta espressa in quello che potremmo definire il «linguaggio dei necrologi». Perfino oggi che i giornali inglesi sono più espliciti sui difetti dei defunti, di solito si preferisce ancora l’understatement. Quindi «una persona che non sopportava gli sciocchi» va letto come uno psicotico dal carattere orribile; un «perfezionista» di solito significa che il caro estinto era un maniaco ossessivo, mentre «non era certo un amante dei libri» è un’espressione in codice per dire che era poco meno che un idiota. Per quanto riguarda poi la sessualità dei defunti, si può trarre un innocente piacere dal decifrare gli eufemismi. Se una donna viene descritta come «molto socievole e apprezzata dagli uomini», è probabile che fosse una ninfomane. E la dipartita di un omosessuale discreto di solito è accompagnata da una frase come «anche se era un bell’uomo, lo si vedeva raramente in compagnia di donne». Nei giornali americani, soprattutto quelli delle piccole città (dove i necrologi sono spesso scritti dai parenti e trattati come annunci pubblicitari, anche nei prezzi), gli eufemismi si estendono alla morte stessa. E vengono usate espressioni come: «ha raggiunto gli angeli», «ha ricevuto il suo ultimo ordine di marcia» e, per due sportivi, «giocherà a golf nel regno dei cieli» e «è andato a pesca con Gesù». EDITORIALI E ARTICOLI DI FONDO È molto difficile scrivere un serio pezzo di commento che sia interessante, veloce e autorevole. In quasi tutti la serietà assume l’a-

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spetto della solennità, l’autorevolezza quello della pomposità e la trattazione dell’argomento è prevedibile come la data del giorno dopo. I pezzi di questo tipo hanno la stessa fragranza del pane di una settimana fa. Secondo una consuetudine molto diffusa, ogni numero di un quotidiano deve contenere un pezzo di commento, che presenta il punto di vista del giornale sui temi di maggiore attualità. Nei paesi in cui le libertà fondamentali sono minacciate, gli editoriali e gli articoli di fondo possono costituire una chiara voce in difesa dei diritti umani; segnalano pubblicamente a un regime l’esistenza di qualcuno che lo tiene d’occhio ed è pronto a opporsi; sostengono e incoraggiano tutti quelli che combattono per la libertà e la giustizia. Altrove, in situazioni più tranquille, il valore degli articoli di fondo è più controverso. Io ho partecipato a molte riunioni di redazione in cui le diverse menti, tutte insieme, frugavano speranzose tra le notizie più recenti per trovare un argomento, uno qualsiasi, su cui il giornale potesse far sentire la sua voce. L’orologio scandiva inesorabile il trascorrere del tempo, quando, finalmente, si giungeva a un accordo sulla scelta di un determinato argomento (come sempre, uno di quelli proposti all’inizio della riunione). Risolto il problema fino al giorno dopo, tutti emettevano coralmente un sospiro di sollievo. Tutti, fuorché il povero diavolo incaricato di scrivere il pezzo. Per molti di noi è un’ardua impresa scrivere un buon articolo di opinione se non abbiamo qualcosa da dire sull’argomento. Metterlo insieme senza convinzione spesso significa produrre un pezzo vuoto e artificioso, fatto di chiacchiere inconcludenti o, peggio ancora, di una serie di osservazioni volte a dimostrare che ogni giudizio sulla questione è prematuro, rivelando così un errore della redazione nella scelta dell’argomento o del giornalista incaricato di commentarlo. Alcune fra le maggiori testate dispongono di specialisti che scrivono esclusivamente articoli di fondo. Questo fatto ha suggerito al «Daily News» di Chicago uno scherzo ideato da uno dei suoi

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migliori giornalisti. C’era la consuetudine di far visitare a gruppi di lettori la redazione di quel giornale, noto per il rigore morale dei suoi pezzi d’opinione. Nell’attesa di un gruppo, il cronista Eugene Field, divenuto in seguito poeta, concordò un piano con il redattore che avrebbe guidato i visitatori; appena le compassate signore della città arrivarono alla porta contrassegnata come «Redazione dei fondi» e la guida la aprì, apparve una figura seduta alla scrivania, intenta a comporre uno dei rigorosi fondi del giornale. Quella figura era Field, non sbarbato, arruffato e vestito come un detenuto, con tanto di palla di ferro e catena. «È un detenuto per omicidio in libera uscita», spiegò la guida. «Il nostro direttore, il signor Stone, è sempre preoccupato di contenere le spese del giornale e così, grazie alle sue conoscenze, ha ottenuto di avere qui quest’uomo due volte alla settimana. Scrive articoli di fondo gratuitamente, capite? Non ci costa un centesimo». Comunque, un redattore più tradizionale, incaricato di redigere un fondo su qualcosa di cui non è affatto convinto, ha due alternative: consultare degli esperti all’interno e all’esterno del giornale per disporre di validi pareri, oppure ritirarsi in un angolo buio a meditare per trovare una pronta soluzione. Quest’ultimo suggerimento è meno cinico di quanto sembri. A volte qualche minuto di meditazione, stimolato dal pensiero che il tempo passa e il pezzo va consegnato, può produrre punti di vista originali. L’originalità, comunque, ha i suoi limiti. Joseph Medill, il proprietario ultra-conservatore del «Chicago Tribune», nel 1884 scrisse un editoriale sul problema cittadino dell’elevato numero di senzatetto disoccupati. Nelle sue righe non troverete la vibrata richiesta di un lavoro per quei poveri disgraziati, bensì un serio commento con toni astiosi, del quale ecco un esempio: La mossa più facile, soprattutto per chi non fa parte di un’associazione che difende i diritti degli animali, è mettere un po’ di stricnina o di arsenico nella minestra o in altre cose elargite al vagabondo. Provoca la morte in un tempo relativamente breve, ha il valore di un avvertimento

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per gli altri vagabondi affinché si tengano lontani dalla zona [...] e garantisce che non saremo più costantemente depredati dei nostri polli e di altri beni mobili.

Anche la passionalità ha i suoi limiti e questi sono stati raggiunti e ampiamente superati nel luglio del 1995 dal «Messenger», un giornale in lingua inglese pubblicato in Camerun. Un articolo in prima pagina aveva come titolo Uccidete quell’uomo. Eccone un estratto: «Un uomo del genere non può continuare a vivere, bisogna cancellare la sua esistenza. Un simile trattamento, per quanto brutale, è senza dubbio giustificato nei confronti di Oben Peter Ashu, governatore della provincia sud-occidentale». Gli articoli di fondo, come tutti gli articoli di opinione, non possono contenere soltanto una serie di affermazioni del redattore collegate in qualche modo l’una all’altra, ma devono presentare, oltre a un nuovo punto di vista, anche sufficienti elementi di sfondo e di analisi che chiariscano, a chi non lo abbia letto, il contenuto dell’articolo (o articoli) a cui si riferiscono. Questi elementi dovrebbero essere esposti in una serrata sequela di argomentazioni pronte a scattare in evidenza come una molla compressa al massimo. E se volete che abbiano un certo impatto, concentrate la vostra creatività su qualche frase memorabile. L’elenco di articoli di fondo che sono riusciti a sopravvivere oltre l’edizione successiva del giornale non è lungo, anzi è molto breve. Ma quei pochi che hanno conquistato in qualche modo l’immortalità non devono tale conquista alla brillante esposizione dell’argomento, ma a una frase memorabile, che in effetti è l’unica cosa per cui sono ricordati. Qualche esempio: C.P. Scott del «Manchester Guardian», 1921: «Il commento è libero, i fatti sono sacri»; dal «Rude Pravo», Praga 1968: «Il comunismo dal volto umano»; dal «Daily Telegraph», Londra 1956: «Il pugno di ferro del governo»; dal «Printers’ Ink», Stati Uniti 1927: «Un’immagine vale mille parole». Comunque presenza non vuole dire presunzione. Come i politi-

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ci sono solo politici, i giornalisti sono solo giornalisti e non attori sul palcoscenico del mondo. Non c’è niente di più assurdo della voce gracchiante di un giornale, soprattutto se di provincia, che «chiede alle Nazioni Unite di agire subito». Prendiamo ad esempio lo «Skibereen Eagle», un foglio di quattro pagine pubblicato una volta alla settimana nella città irlandese di Cork in epoca tardo-vittoriana; poiché lo zar di Russia aveva fatto una cosa sgradita al proprietario del giornale irlandese, un certo Frederick Peel Eldon Potter, un veemente fondo di prima pagina informò così i 4mila lettori: «Lo ‘Skibereen Eagle’ ha gli occhi puntati sulla Russia». Piccoli annunci pubblicitari hanno contribuito a cambiare il mondo molto di più dei miliardi di parole profusi in minacciosi editoriali. Per esempio, la battaglia di Gettysburg, una delle più sanguinose della guerra civile americana, ha avuto la sua causa immediata nella pubblicità di un negozio di calzature, che propagandava sulle pagine del «Gettysburg Compiler» un nuovo stock di stivali in vendita. L’annuncio fu visto dal generale James Pettigrew, dell’esercito sudista, che in quel momento stava marciando attraverso la Pennsylvania alla testa delle sue malandate truppe. I suoi soldati, allo stremo delle forze, avevano consumato gli stivali e in molti erano costretti a marciare scalzi. Pettigrew ordinò ai suoi uomini di cambiare direzione e dirigersi verso Gettysburg. Durante la deviazione furono avvistati dalle forze nordiste e così ebbe inizio la sanguinosa battaglia omonima, che infuriò per tre giorni. Alla fine dei combattimenti, 5662 uomini giacevano a terra morti e 27.203 erano feriti. A pensarci bene, è molto difficile trovare l’esempio di un solo caso in cui il commento pubblicato da un giornale abbia cambiato la storia. Il più citato è il famoso «J’accuse» di Émile Zola con riferimento all’affare Dreyfus. Pubblicato sull’«Aurore» il 13 gennaio 1898, era in realtà una lettera aperta indirizzata al governo e non un fondo (comunque le sue conseguenze dirette furono modeste). L’altro esempio è il caso di un commento scritto per errore. Nell’aprile del 1888 morì Ludwig Nobel, fratello maggiore di Alfred

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Nobel, l’umorale idealista inventore della dinamite. Un importante giornale francese fraintese il comunicato e pubblicò il necrologio di Alfred, rivolgendogli l’appellativo di «mercante di morte». La lettura di quel necrologio e il pensiero ossessivo di passare alla storia come un «mercante di morte» convinsero Nobel a cambiare il suo testamento per lasciare il suo patrimonio alla fondazione del premio Nobel per la pace, la letteratura e le scienze. L’OPINIONISTA Il giornalista che si è conquistato il titolo di opinionista non ha nessun bisogno di consigli oppure ha un ego sproporzionato che comunque non gli permette di accettarli. Anzi, tra tutte le bizzarre e inquietanti creature che popolano i quotidiani e le riviste non ne esiste nessuna più assurda dell’opinionista. I cronisti sono spesso ossessivi, i redattori pignoli al punto che vorreste prenderli a testate, e i direttori, per quanto colti, tendono ad avere molto in comune, psicologicamente parlando, con i capi delle giunte militari. Ma gli opinionisti sono decisamente i più strani di tutti. Per amor di giustizia (come dicono invariabilmente i commentatori nel loro ultimo paragrafo, dopo essere stati ingiusti per tutti i precedenti), dobbiamo dire che gli opinionisti non appartengono tutti alla stessa specie: ne esiste una vasta famiglia, più una serie di sottospecie e di specie mutanti. Alcuni sono leggermente fastidiosi, come quelli eccessivamente concentrati su se stessi, convinti che ogni minimo dettaglio della loro vita sia altrettanto affascinante per noi quanto evidentemente lo è per loro. A questa categoria di solito appartengono donne sulla trentina che continuano a sproloquiare sulla propria incapacità a fare qualsiasi cosa riportando indietro di trent’anni la causa del femminismo; oppure uomini che hanno qualche anno di più e sono ansiosi di dimostrare quanti progressi hanno fatto sulla strada della Nuova Virilità. Nessuno dei due tipi è troppo convincente.

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Di gran lunga più interessanti sono i commentatori satirici, le cui intenzioni non sono sempre immediatamente evidenti. Per alcuni anni, l’America si è meravigliata delle opinioni sfacciatamente di destra di Ed Anger, che dal «Weekly World News» lanciava fulmini contro i comunisti, i progressisti e i vegetariani, e scriveva frasi come: «Dio ha dato le ginocchia alle donne per pregare e per pulire i pavimenti». Che delizia è stato scoprire più tardi che in realtà Anger era l’alter ego di Rafe Klinger, un minuscolo liberal ebreo leggermente calvo e con due lauree. Klinger ha smesso da tempo di scrivere i suoi pezzi, ma Ed ha continuato le sue sfuriate grazie alla penna maligna di altri giornalisti. Ma le star del mondo dei commentatori sono quelle che si occupano di attualità, con le loro soluzioni sempre pronte ai dilemmi del pianeta. O, come scrisse Westbrook Pegler più di cinquant’anni fa: «Di tutte le ombre irreali che sono emerse dalle nebbie dell’umana confusione dopo la Grande Guerra, quella che si impone per la sua pretenziosa inconsistenza è l’opinionista o commentatore, il quale, profondo e sensibile, ha sempre pronte tutte le risposte e riesce a risolvere in modo definitivo questioni di rilievo a giorni alterni o addirittura tutti i giorni». Si presentano a noi ogni giorno, sventolando opinioni come bandiere a una manifestazione: il pontificatore politico, che «dopo» un evento ha sempre capito tutto; il mercante del «perché-oh-perché», che deplora ogni incidente definendolo sintomatico di come il paese sta andando a rotoli; la celebrità che sforna regolarmente una serie di luoghi comuni; il portavoce del gruppo di minoranza, sempre pronto a ricordarci quanto siamo pieni di pregiudizi; e l’opinionista del tipo «uccidere è sbagliato», che condanna coraggiosamente terroristi, pedofili e trafficanti di esseri umani. Di solito questi commentatori compensano la loro mancanza di umiltà (e di originalità) con una vanità a 24 carati. Che si comportino come Arthur Krock negli anni Quaranta, che ogni sera tornava a casa e chiedeva alla sua famiglia di raccogliersi in silenzio per ascoltare l’editoriale che aveva scritto per il «New York Times», o

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insistano perché nessuna delle parole o dei fatti riportati nel loro pezzo, per quanto sbagliati, siano modificati, gli opinionisti sono le prime donne della stampa. Niente lo dimostra più della cura che dedicano alle fotografie che spesso accompagnano le loro parole. Alcune di esse sono così vecchie che un’editorialista che lavorava da casa, quando un bel giorno arrivò in redazione riuscì a passare totalmente inosservata. Nessuno la riconobbe e, quando si presentò, vista la poca somiglianza con l’antica foto che accompagnava i suoi editoriali, la presero per un’imbrogliona. Ma se sulla pagina i loro volti non invecchiano, la stessa cosa non si può dire delle loro parole. Possiedo decine di raccolte di editoriali delle grandi firme del giornalismo, ma basta che sia passato anche pochissimo tempo e la maggior parte di quegli articoli diventa totalmente irrilevante o incredibilmente oscura. Un buon articolo di cronaca, per quanto vecchio sia, racconta sempre una storia; gli editoriali del passato sono assolutamente effimeri. Suppongo che per i nostri giornali sarebbe molto meglio se un maggior numero di giornalisti seguisse l’esempio dell’americano Bob Considine, che nel 1973 scrisse l’editoriale più breve della storia. Consisteva in una sola frase: «Oggi non ho niente da dire». RECENSIONI Riguardo alle recensioni esistono tre scuole di pensiero, due delle quali dovrebbero essere chiuse. Anzitutto ci sono quei giornalisti di alta professionalità che si dimostrano ottimi cronisti quando si occupano di notizie, mentre quando devono commentare un libro, un lavoro teatrale, un film o un concerto, sono presi dall’improvviso desiderio di provare il loro valore di «scrittori». Poi ci sono quei dilettanti, spesso rivali (o peggio ancora amici) delle persone le cui prestazioni sono oggetto della recensione, che per interesse personale si pongono apertamente al servizio delle mode culturali, disorientando e ingannando i lettori. In en-

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trambi i casi di solito abbiamo un pezzo in cui l’autore si guarda bene dal descrivere il contenuto dell’opera, perché è ansioso di esprimere opinioni, fantasiose interpretazioni, ardite ipotesi sugli intenti dell’artista e, soprattutto, di pronunciare il verdetto finale, che, nelle sue aspettative, avrà grande risonanza. I lettori di recensioni dovrebbero diffidare di queste scuole di pensiero. E anche i giornalisti. Come osservò Vladimir Nabokov a proposito dei recensori di libri: «La critica può essere molto istruttiva in quanto fornisce ai lettori, e tra questi anche all’autore del libro, informazioni sull’intelligenza del critico, sulla sua onestà o su tutte e due». La scuola di pensiero che merita un futuro è quella il cui fine primario è fornire informazioni sull’opera recensita, descrivendola in modo preciso ed esauriente e analizzandone lo stile, il contenuto e la filosofia. Tenete presente che si può scrivere una recensione senza esprimere opinioni sentenziose e, se siete tentati di ignorare questa regola, ricordatevi dell’anonimo recensore letterario del «Corriere di Odessa», che nel 1887 scrisse di un romanzo: «Puro sentimentalismo. Mostratemi una sola pagina che contenga un’idea»; l’oggetto della recensione era intitolato Anna Karenina. Ovunque vada, mi chiedono se le università soffochino gli scrittori. Secondo me non ne soffocano abbastanza. Flannery O’Connor

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Come si diventa grandi giornalisti

Cercare di essere un reporter di prima categoria in un giornale mediocre è come cercare di suonare la Passione di San Matteo di Bach con l’ukulele. Lo strumento è troppo rozzo per l’opera, per il pubblico e per l’esecutore. Ben Bagdikian

I reporter, come tutti quelli che fanno un mestiere che richiede qualcosa di più della semplice presenza, hanno due scelte. Possono tirare avanti, accontentandosi della mediocrità, e cercare altrove le vere soddisfazioni della loro vita. Oppure, se sono degli spostati come la maggior parte di noi, possono cercare di diventare ottimi, se non addirittura grandi, giornalisti. Se la seconda alternativa vi sembra più divertente (e vi assicuro che lo è), questo capitolo è dedicato a voi. Vi spiega quello che serve, dopo essere diventati ottimi giornalisti, per passare al livello successivo. Dare consigli su come raggiungere un livello così alto può sembrare un atto di presunzione da parte mia. Dopotutto, non sono un grande giornalista. Ma mi sono fatto un’idea piuttosto precisa di quello che ci vuole per diventarlo. In primo luogo, perché all’«Observer», all’«Independent» e all’«Independent on Sunday» ho avuto la fortuna di lavorare con alcuni di loro; in secondo luogo, perché ho passato due anni a condurre ricerche sui grandi giornalisti per il mio libro Tredici giornalisti quasi perfetti;

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infine, perché per molti anni ho letto tutta la produzione giornalistica di qualità sulla quale sono riuscito a mettere le mani. Quello che segue è il frutto della mia ossessione: le qualità che a mio parere servono per diventare grandi reporter. LA DEDIZIONE Dopo aver intervistato un musicista, un atleta, un attore o un ballerino, molti giornalisti scrivono nel loro pezzo che quel famoso personaggio ha studiato a fondo la sua disciplina, sperimenta sempre nuove tecniche e si esercita cinque ore al giorno. E in conclusione diranno quasi sempre, o lasceranno intuire, che c’è un collegamento diretto tra la dedizione dell’intervistato e il suo successo. Come lezione di vita, in fondo non è così sorprendente. Eppure a una buona percentuale di questi reporter non viene mai in mente che un po’ di quella dedizione potrebbe giovare anche nel loro mestiere. Mi capita spesso di tenere seminari su vari aspetti del giornalismo, e vedo lo sguardo di orrore negli occhi di quelli che ho di fronte quando dico che dovrebbero dedicare almeno un’ora alla settimana a cercare possibili spunti per un articolo su internet; a leggere libri di giornalisti o sul giornalismo e, di tanto in tanto, a sperimentare nuove tecniche, magari usando un programma di scrittura online. È come se gli avessi consigliato di farsi amputare un arto senza anestesia. Se siete contenti di essere giornalisti mediocri che lavorano per giornali mediocri, per me va benissimo. Ma se non lo siete, e avete capito che se fate bene il vostro mestiere la vita è molto più divertente, allora è bene che sappiate che per diventare giornalisti eccezionali è necessario un impegno continuo. La vostra preparazione non finisce nel momento in cui ottenete un diploma insignificante e cominciate a lavorare. È proprio lì che comincia la vera formazione, e dev’essere costante. I giornalisti di classe affinano incessantemente le loro capacità. Si tengono aggiornati sulle nuove tecnologie e leggono, studiano, sperimentano tutto quello che serve per fare meglio il loro lavoro. Se si occupano di cronaca in genera-

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le, dedicheranno un po’ di tempo a migliorare le loro capacità di ricerca su internet, a imparare l’uso dei database e di tutti gli altri strumenti informatici che possono assistere un giornalista nel suo lavoro, a cercare spunti per articoli sul web e a tenersi aggiornati sulle possibili fonti online, a chiedersi perché l’articolo che hanno scritto la settimana prima non era poi così interessante come speravano; in breve, fanno l’equivalente di quello che ha fatto Tiger Woods per diventare il miglior golfista del mondo. Se sono specializzati, dedicheranno il loro tempo ad aggiornarsi sulle nuove pubblicazioni, a scoprire nuove fonti online, a coltivare contatti e a seguire le conferenze e i convegni sulla loro materia. Tutto quello che so dei grandi reporter mi fa pensare che considerano queste cose parte essenziale della loro vita lavorativa. E, come per Tiger Woods, ciò che rende più facili tutte queste attività è che non le vedono come un lavoro. Il motivo è semplice: se siete veri giornalisti, non lo sono. L’USO DELL’INTELLIGENZA Non ho mai conosciuto un grande giornalista che non fosse anche molto intelligente, riflessivo e attento. È essenziale per essere veramente bravi in questo mestiere. Per farlo in modo decente, non dico neanche eccezionale, non basta la tecnica, ci vuole l’intelligenza. E i migliori reporter applicano inflessibilmente la loro intelligenza non solo alla raccolta di materiale, ma anche all’analisi di quello che hanno raccolto. Ci ragionano sopra chiedendosi: Che cosa ho trovato? Che significato ha? Quali sono le cause di ciò che è avvenuto? Si rendono conto dei limiti di quello che hanno scoperto facendo ricerche per un articolo, sanno benissimo che non hanno scoperto tutto e che la situazione, il problema o il personaggio di cui stanno scrivendo sono sicuramente più complessi di quanto si creda. Hanno l’onestà e l’umiltà intellettuale di riconoscerlo. Ma, soprattutto, vedono sottigliezze dove gli altri reporter vedono solo stereotipi da incasellare. Tutti i gran-

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di giornalisti con i quali ho lavorato brillano per la loro intelligenza. Hanno anche alcune abilità tecniche, ma è la capacità mentale che le accompagna a renderli eccezionali. IL CORAGGIO INTELLETTUALE Spesso i giornalisti migliori sfidano l’ortodossia corrente, una convinzione diffusa o un’opinione generale. È proprio quello che fece William Russell del «Times» quando scandalizzò l’establishment londinese denunciando la spietatezza e l’inefficienza dei soldati britannici in Crimea (e continuò a farlo, da solo, nonostante le smentite ufficiali); quello che fece J.A. MacGahan quando dimostrò che le voci sulle atrocità commesse dai turchi nei Balcani erano vere; quello che fece Ida Tarbell quando all’inizio del ventesimo secolo rivelò il funzionamento dei trust; quello che fecero Bob Woodward e Carl Bernstein quando sollevarono lo scandalo Watergate; e quello che fece Randy Shilts quando rivelò che l’Aids si stava diffondendo nella comunità gay americana. Un giornalismo di questo livello richiede molte qualità, ma forse la più importante, e il motivo per cui esempi del genere sono rari, è il coraggio intellettuale. Quando le autorità costituite demoliscono il vostro lavoro (e questo si è verificato in tutti i casi che ho menzionato), e quando il resto della stampa si rifiuta di seguirvi, ci vuole una notevole fermezza di carattere per tenere duro e continuare per la vostra strada. Molti di noi si lascerebbero dissuadere, scenderebbero a compromessi o si perderebbero d’animo. I grandi giornalisti non lo fanno, e non solo perché hanno coraggio intellettuale, ma anche perché in genere sono più meticolosi della maggior parte dei loro colleghi. LA METICOLOSITÀ Mi capita ancora di incontrare giornalisti che, quando gli si fa notare un errore nel loro articolo (o, più probabilmente, l’omissio-

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ne di informazioni contestuali importanti), alzano le spalle come se sbagli del genere fossero calamità naturali completamente indipendenti dal loro controllo. Sembra che dicano (e a volte dicono veramente) che gli incidenti succedono. È un tratto caratteristico di chi rimarrà sempre un cattivo reporter e un pericolo non solo per se stesso, ma anche per il suo giornale. I grandi giornalisti non sono così. Il loro amore per la precisione va molto oltre quello di qualsiasi altro giornalista degno di tale nome. Soffrono di una nevrosi per la cura dei dettagli con la quale spesso è difficile convivere, per loro stessi e per chi li circonda. Controllano due, tre, molte volte i punti più controversi, telefonano ai loro direttori a tutte le ore del giorno e della notte per fare piccoli cambiamenti ed essere ancora più precisi, e difendono in modo psicotico tutte le sfumature dei loro pezzi. I motivi di questo comportamento (oltre all’ovvio desiderio che la storia risulti più veritiera e corretta possibile) sono due. Prima di tutto, hanno sempre i riflettori puntati addosso e i lettori si aspettano che non cerchino solo di descrivere qualcosa o qualcuno, ma che glielo spieghino. E se devono fare questo, e magari hanno fretta di consegnare, devono essere sicuri dei fatti su cui si basa il loro articolo. In secondo luogo, il pensiero di sbagliare qualcosa, perfino l’iniziale del nome di qualcuno, li disturba quanto un comune mortale non può neanche immaginare e li getta nella disperazione per giorni. Ma è proprio questo, e il timore di mettere la loro firma perfino sotto un errore irrilevante (e per loro non esistono errori irrilevanti), che li spinge a essere più precisi dei loro colleghi meno bravi. Se vi sembra che questo significhi aver perso la misura delle cose, probabilmente non diventerete mai grandi giornalisti. LA PASSIONE PER I LIBRI Non ho mai conosciuto un grande reporter che non fosse anche un avido lettore, soprattutto di saggistica. L’amore per la lettura

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è al tempo stesso la causa e l’effetto del loro talento nello scrivere. L’irrefrenabile curiosità che li rende grandi giornalisti li porta anche a cercare la conoscenza e a interessarsi alle esperienze degli altri, cose che si trovano in forma più lucida, ampia e meditata nei libri, piuttosto che su internet. E questo volume di letture fa di loro dei giornalisti migliori per due motivi importanti. In primo luogo, come è ovvio, chi legge molta buona scrittura tende ad assorbire (consciamente e inconsciamente) parole, espressioni e costruzioni nuove. Se non altro, riconosceremo quella che in uno scrittore si chiama «voce», contrapposta allo stile esitante e disuguale di chi non ha facilità a comunicare sulla carta o sullo schermo. Ma soprattutto, e questo è il retaggio più importante di tanta lettura, le conoscenze e gli orizzonti mentali dei giornalisti che leggono molti libri si allargano continuamente. Se, per esempio, non conoscete bene la storia, o almeno quella parte di essa legata ai fatti che state raccontando, come potete sperare di riferirli in modo intelligente e di inserirli nel giusto contesto? Alla base di questo c’è una cosa che io considero quasi una legge del giornalismo: il reporter che legge molto è sempre bravo, mentre quello che legge poco è sempre superficiale. In 35 anni di lavoro in questo campo, non ho mai incontrato un’eccezione a questa regola, né conosciuto nessuno che sostenga di averla incontrata. UNA BUONA CONOSCENZA DELLA STORIA DEL GIORNALISMO Con questo non intendo dire che dovete sapere quando fu fondato l’«Huddersfield Examiner», quando fu chiuso il «Minneapolis Bugle», o quanto ha influito sui proventi pubblicitari la distribuzione gratuita nelle campagne all’inizio del ventesimo secolo. Intendo dire che dovete conoscere i migliori reporter del passato e il loro lavoro. Per un giornalista esperto ignorare queste cose è come per un musicista cercare di comporre una sinfonia sen-

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za aver mai sentito un’opera di Mozart, Beethoven, Cˇajkovskij, Brahms o Mahler. Potrà sembrarvi lapalissiano, ma mi capita di incontrare tanti giornalisti per i quali i migliori reporter del passato potrebbero anche essere scalpellini del quattordicesimo secolo. Se siete uno di loro, dovreste chiedervi: quanto sarebbe stato bravo Norman Mailer se non avesse saputo nulla dei grandi romanzieri del passato? Che tipo di cinema avrebbe fatto Stephen Spielberg se non avesse mai visto un film girato prima del 1970? Se parlate con i più eminenti personaggi di qualsiasi campo, dal golf alla filosofia morale, scoprirete che hanno una conoscenza molto profonda dei grandi che hanno praticato il loro stesso mestiere in passato. E i migliori reporter non sono diversi: hanno letto Russell sulla Crimea, Liebling, Harding Davis, Marguerite Higgins, James Cameron, Gay Talese, Robert Fisk, Red Smith, David Halberstam, Hugh McIlvanney e Ann Leslie, o una miriade di altri grandi giornalisti. E hanno imparato molto da loro: non solo i diversi modi di scrivere, ma la visione del mestiere, le tecniche d’intervista, la quantità di dettagli che un grande giornalista raccoglie e utilizza, il modo di citare (o non citare) quello che dicono le persone, la gamma di conoscenze che serve anche per scrivere l’articolo apparentemente più semplice, e molto altro. Non fare questo, ignorare quello che hanno prodotto i migliori rappresentanti del vostro mestiere, significa dire che i giornalisti più bravi degli ultimi due secoli non hanno nulla da insegnarvi, che sapete tutto d’istinto. E se ci pensate bene, non è molto probabile. UNA NATURA MANIACALE Se non lo avete ancora indovinato, la verità è che per diventare giornalisti veramente eccezionali ci vuole una determinazione che non è sempre compatibile con l’essere persone equilibrate, e meno che mai mariti, mogli o compagni accettabili. Ci sono alcune eccezioni. Ann Leslie del «Daily Mail» è una di queste, e Geof-

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frey Lean, l’esperto di questioni ambientali dell’«Independent on Sunday», è un’altra. Ma le qualità necessarie per essere un giornalista di prima classe e una persona accomodante, riflessiva e piena di tatto non sempre coincidono. Un perfetto esempio di questa incompatibilità è una storia raccontata dal famoso cronista di guerra, redattore e commentatore Max Hastings. Dopo una lunga missione, un famoso corrispondente torna a casa da sua moglie che non vede da settimane. Naturalmente, quella sera stessa cominciano a fare l’amore. Squilla il telefono. È una stazione radio straniera che gli chiede se è disposto a lasciarsi intervistare per telefono. Lui accetta, e per i 15 minuti successivi risponde a una serie di domande sui complessi problemi del Medio Oriente, rimanendo disteso sulla moglie nella posizione in cui si trovava quando era squillato il telefono. «Fu in quel momento», avrebbe confessato più tardi la moglie, «che capii che la magia del nostro matrimonio era finita». Ma in fondo, in un certo senso, non credo che la sua natura gli desse molte possibilità di scelta. L’impulso che l’aveva spinto a trattare sua moglie con tanta noncuranza era anche la molla del suo giornalismo: una curiosità irrefrenabile, un bisogno costante di raccontare quello che aveva scoperto (e quello che pensava di quello che aveva scoperto) e un ego colossale. Era stato più forte di lui, anche se probabilmente sua moglie l’aveva vista diversamente. Come ha detto qualcuno, essere chiamati reporter non è tanto la descrizione di un lavoro quanto una diagnosi. Ma per alcuni di noi è la migliore diagnosi del mondo. Fa parte della missione sociale di tutti i grandi giornali offrire una casa e un rifugio al maggior numero possibile di eccentrici stipendiati. Lord Thomson, ex proprietario del «Times » e del «Sunday Times» di Londra

Letture consigliate

Ci sono pochissimi libri sul giornalismo che sia utile leggere. Le storie ufficiali delle testate hanno in genere intenti propagandistici e non letterari; i saggi autobiografici dei direttori hanno spesso l’aria di essere scritti per chiudere dei conti ancora aperti, fare dei nomi o giustificare delle spese; i saggi critici sulla stampa sono invariabilmente ottuse denunce degli scontati orrori dei giornali popolari; e i manuali sono in genere opera di giornalisti che, inadeguati a compiti professionali di primo piano, hanno facilmente trovato il tempo per scrivere un libro. Comunque ci sono delle illustri eccezioni, presentate qui di seguito. RACCOLTE DI ARTICOLI La collana «Bedside Guardian» è una preziosa raccolta di ottimi pezzi, come, del resto, le antologie dei migliori articoli dell’anno scritti dai giornalisti dell’«Observer», che purtroppo non vengono più pubblicate. La triste constatazione che pochi pezzi di buon giornalismo finiscano nei libri spiega perché il Faber Book of Reportage, la raccolta di servizi dell’editrice Faber, curata da John Gross, sia tanto apprezzato. Una delle migliori selezioni di brani di articoli, non di interi pezzi, si può trovare in The First Casualty (Andre Deutsch, London 1975), una rassegna di servizi di guerra

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di Phillip Knightley. Quest’ultimo libro contiene anche acute osservazioni sul giornalismo. Destinati per natura alla collezione sono i pezzi dei giornalisti più polemici e ironici, i migliori esempi di entrambi gli approcci si trovano in Distant Voices di John Pilger (Vintage, London 1992) e in tutta la produzione di P.J. O’Rourke. Se volete vedere qualche esempio di servizi speciali o articoli di periodici particolarmente intelligenti e divertenti, leggete Before the Oil Ran Out di Ian Jack (Vintage, London 1977) e Too True di Blake Morrison (Granta Books, London 1998), o qualsiasi raccolta di articoli di Hugh McIlvanney o A.J. Liebling. Per quanto riguarda i pezzi più brevi, vale la pena di cercare due raccolte di articoli di Meyer Berger: The Eight Million e Meyer Berger’s New York. Il mio libro Tredici giornalisti quasi perfetti (Laterza, Roma-Bari 2007) contiene molti estratti dall’opera degli autori di cui traccio il profilo. SAGGI AUTOBIOGRAFICI DEI CRONISTI I corrispondenti dall’estero hanno successo grazie a questo genere, dato che i riferimenti a Ho Chi Minh, la città nota in passato come Saigon, o alla capitale del Tagikistan, Dusˇanbe, sollecitano l’interesse dei lettori molto più delle cronache del tribunale di Manchester. Tra i migliori esempi posso citare Anyone Here Been Raped and Speaks English? di Edward Behr (New English Library, London 1978) e Point of Departure di James Cameron (Barker-McGraw Hill, London-New York 1967). La vita e le tecniche di un cronista di rotocalco ai massimi livelli sono descritte con utili particolari in Exposed! di Gerry Brown (Virgin, London 1995) e in Dog Eat Dog. Confessions of a Tabloid Journalist di Wensley Clarkson (Fourth Estate, London 1990). Dear Bill di William F. Deedes è l’autobiografia di un cronista che, divenuto parlamentare, ministro e direttore di giornale, ha sempre mantenuto l’animo del cronista, tanto da

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tornare poi alla sua attività originaria. Il libro illustra in modo vivido come la curiosità innata per ogni e qualsiasi cosa sia la migliore qualità del cronista (Pan Books, London 1998). Chi vuole sapere com’era la gloriosa stampa britannica del passato potrà percepire lo scricchiolio delle scarpe di cuoio e il fruscio dei vecchi conti da pagare dimenticati in tasca su ogni pagina di Scoops and Swindles di Alfred Draper (Buchan and Enright, London 1988) e in tutti gli scritti di Derek Lambert. Se v’interessa il ritratto di un giornalista ossessivamente determinato ad avere successo nel suo lavoro provate a leggere The Corpse Had a Familiar Face di Edna Buchanan (Random House, New York 1987), che raccoglie le esperienze della cronista di «nera» del «Miami Herald». SAGGI CRITICI SULLA STAMPA Quasi tutti questi saggi sulla stampa popolare sono scritti da accademici o da direttori e redattori di giornali importanti, che, in entrambi i casi, sembrano mirare solo alla sdegnosa disapprovazione di quello che leggono. Non sperate di trovare qualcuno che fornisca una complessa diagnosi del cumulo di bugie e distorsioni della realtà propinato quotidianamente senza fare riferimento al solito argomento del mercantilismo dilagante aggravato dal crollo dei valori morali. Sia pure in parte, fa eccezione Shock, Horror! di S.J. Taylor (Corgi, London 1991). Gli americani se la cavano meglio in questo genere: Media Circus di Howard Kurtz (Times Books, New York 1993) offre un’acuta analisi dei valori e disvalori del giornalismo statunitense contemporaneo e Who Stole the News? di Mort Rosenblum (Wiley, New York 1993) raccoglie le puntuali riflessioni sulla cronaca di un ex inviato dell’Associated Press. Una diagnosi più generale, con molti dettagli storici, potete trovarla in My Trade di Andrew Marr (Macmillan, London 2004).

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MANUALI DI GIORNALISMO All The President’s Men (Simon & Schuster, New York 1974; trad. it., Tutti gli uomini del presidente. L’affare Watergate, Garzanti, Milano 1974), il resoconto di Bob Woodward e Carl Bernstein sui loro servizi riguardanti il caso Watergate, è la migliore descrizione dei comportamenti e di alcune delle tecniche che sono indispensabili a un cronista di prima classe. Quanto ai manuali veri e propri, bisogna dire che in genere sono scritti da persone che non hanno affatto orecchio per il ritmo e l’originalità della frase; è meglio che invece esaminiate qualche pezzo esemplare di buon giornalismo per assimilarne le qualità attraverso un’attenta lettura. Se proprio ci tenete ad avere un manuale, scegliete Waterhouse on Newspaper Style di Keith Waterhouse (Penguin, London 1993). Per la redazione dei testi e delle immagini, i libri migliori sono sempre Handling Newspaper Text (Heinemann, London 1974) e Pictures on a Page (Wadsworth, Belmont 1978), entrambi di Harold Evans. Secrets of the Press (Allen Lane, LondonNew York 1999), a cura di Stephen Glover, è una raccolta di saggi scritti da giornalisti contemporanei di testate nazionali e vale la pena di leggere solo due pezzi d’impostazione pratica: quello di Ann Leslie sul lavoro del corrispondente dall’estero e la guida all’intervista di Lynn Barber. Gli americani scrivono meglio anche i manuali, e vale sicuramente la pena di leggere il Reporting Handbook dell’Associated Press (McGraw Hill, New York 2002), come anche The Journalist’s Craft: a Guide to Writing Better Stories, di Dennis Jackson e John Sweeney (Allworth Press, New York 2002), e The Interviewers’ Handbook, di John Brady (Kalmbach Publishing, Waukesha 2004). La migliore guida al mondo online è The Net For Journalists di Martin Huckerby (Unesco, 2005).

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STATISTICHE E NUMERI Su questo argomento ci sono molti volumi tanto dotti quanto aridi, ma l’agevole How To Lie With Statistics (prima ed. Norton, New York 1954, poi continuamente ristampato anche nei tascabili Penguin) di Darrell Huff presenta la sua informazione con molta leggerezza: è un classico e ogni giornalista dovrebbe leggerlo più di una volta. Per finire, un’opera che non rientra in nessuna categoria, ma che mi sembra il più acuto libro sulla stampa che io abbia mai letto, è A Mathematician Reads The Newspaper di John Allen Paulos (Basic Books, New York 1995, poi nei tascabili Penguin). Avendo abbinato all’amore per la matematica un innato interesse per la stampa, Paulos va a caccia di errori logici e statistici nei giornali e ne trova numerosi esempi. Questo libro vi spiegherà il nesso tra la teoria del caos e il valore di notizia, modificando per sempre il vostro modo di leggere un articolo.

Indice analitico

Abc, 213, 215. Abel, Alan, 214-215. Addio alle armi (Ernest Hemingway), 297. «Alabama Journal», 164. Albion, nave, 8. «Albuquerque Tribune», 63. Amelrik, Andrej, 60. American Express, 83. «American Lawyer», 211. Amis, Kingsley, 306. Anderson, Raymond, 60. Anger, Ed, 350. Anna Karenina (Lev N. Tolstoj), 352. Anouilh, Jean, 182. Ap, vedi Associated Press. Apollo 11, 210. «Arizona Republic», 216. Associated Press (Ap), 10, 14-15, 57, 83, 91, 105, 140, 229, 243, 364. Associazione contro l’indecenza degli animali nudi, 214-215. «Atlanta Journal-Constitution», 169, 172. «Augusta Chronicle», 210. «Austin American-Statesman», 211. «The Australian», 208.

Bagdikian, Ben, 353. Baird, John Logie, 64. «Baltimore Evening Sun», 201. Barber, Lynn, 134. Batak, massacro di, 22, 297. Bbc, 58, 88, 142, 187, 216. Behr, Ed, 104, 362. Bennett, James Gordon, 181. Bennett, James Gordon Junior, 28. Berger, Meyer, 16-17, 56, 273-274. Bernstein, Carl, 5, 122-123, 130, 164, 174-176, 356, 364; vedi anche Watergate, caso; Woodward, Robert. Bhatia, Shyam, 60. «Bild», 180. Black Hawk Down, 332. Bly, Nellie, 4, 118-119, 163, 179. Boch, Dieter, 189, 191. Bogart, John B., 40. Bormann, Martin, 216. «Boston Globe», 212. «Boston Post», 166, 313. Bowden, Mark, 332. Bradbury, Ray, 268. Bradlee, Ben, 52, 333. Brady, John, 119, 128. Brown, Gerry, 362.

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Bryson, Bill, 319. Buchanan, Edna, 78, 198, 274, 363. Burchett, Wilfred, 5. Burgess, Anthony, 284. Bush, George H., 11, 187. Cameron, James, 305, 359, 362. Camus, Albert, 289. Capone, Al, 108. Cardini, Rosa Maria, 343. Carey, John, 244. Carlo d’Inghilterra, 10, 216. Chapin, Charles, 65-66. Chesterton, Gilbert K., 311. «Chicago Daily News», 199, 246, 258, 345. «Chicago Daily Tribune», 201. «Chicago Tribune», 10, 28, 107, 202, 308, 346. Cholodov, Dimitrij, 164. Chupa Chups, 343. «Cincinnati Enquirer», 162. Clarkson, Wensley, 15-16, 322-323. «Cleveland Plain Dealer», 210. Clinton, Bill, 63, 85, 105. Cody, Ed, 13-14. Collard, Geoff, IX. «Collier’s Weekly», 281. Comma 22, 215. Comune di Parigi, 4, 21. «Confidential», 226. Connor, Bill, detto «Cassandra», 78. Cooke, Alistair, 58, 218. Cooke, Janet, 230-231. Corea, guerra di, 235. Corr, John, 215. «Corriere della Sera», 308. «Corriere di Odessa», 352. Corrigan, Peter, IX, 276. Cranberg, Gilbert, 211. Crawford, Emily, 4. Crimea, guerra di, 4, 356. «C-Ville Weekly», 209.

Daffy Duck, 212. «Dagens Nyheter», 68. «Daily Express», 4, 250. «Daily Graphic», 43. «Daily Item» (Pennsylvania), 229. «Daily Mail», 4, 8, 11, 58, 62, 64, 92, 208, 213, 359. «Daily Mirror», 54, 61, 78, 131, 184, 197. «Daily News», 4, 21-22, 258, 297. «Daily Star», 186. «Daily Telegraph», 248, 343, 347. Dalai Lama, 14. Dalí, Salvador, 343. Dalia Nera, caso della, 222. Da morire, 215. Davis, Richard Harding, 335, 359. Dedman, Bill, 169-171, 173. Deedes, William F., 362. De Mauro, Giovanni, X. «Des Moines Register», 211. «Detroit Free Press», 102. diari di Hitler, 201, 205, 213. «Die Tat», 118. Disraeli, Benjamin, 21. Dobereiner, Peter, IX. Dower, Alan, 235. Draper, Alfred, 363. Dreyfus, affare, 348. Dunblane, massacro di, 183. Dunleavy, Steve, 15. Dunnigan, Alice, 5. Duranty, Walter, 223-224. Dylan, Bob, 134. Earthly Powers (Anthony Burgess), 284. Edoardo, principe d’Inghilterra, 131. Edwards, John, 58-59. Einstein, Albert, 332. eLibrary, 86. «Ellsworth (Maine) American», 313. Erenburg, Il’ja, 5.

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Esper, George, 10. Evans, Harold, 93, 364. «Evening Standard», 92, 184. Fagence, Maurice, 62. La fattoria degli animali (George Orwell), 42n, 267. Field, Eugene, 346. «Financial Times», 214. Fischer, Clifford C., 304. Fisk, Robert, 5, 92, 257-258, 359. Fontlladosa, Enric, 343. «Fort Worth Star-Telegram», 202. Fournier, Ron, 105. Fowler, Will, 222-223. France Presse, 91. Frayn, Michael, 47. Free, Cathy, 9. Freedom of Information Act, 168. Gandhi, Mohandas, 277. Gatto Silvestro, 212. Gerstel, Judy, 102. Gettysburg, battaglia di, 348. «Gettysburg Compiler», 348. Gibbons, Floyd, 10-12, 308. Ginsberg, Aleksandr, 60. Girl With a One-Track Mind, blog, 88. Glover, Stephen, 364. Gobright, Lawrence, 57. Goddard, Robert, 210. «Gola Profonda», 177. Goldenburg, Sonia, 5. Goldstein, Harry, 153. Golfo, guerra del, 262. Google, 85-87, 243. Gorbacˇëv, Michail, 92, 217. Grande Terrore dei Ciclisti, 43. Greene, Francis, 23. Grey, Paul, 161. Griffith, Krista, 135. Griffiths, Thomas, 217.

«Guardian», 202, 238; vedi anche «Manchester Guardian». guerra civile spagnola, 340. guerra greco-turca, 335. guerra ispano-americana, 27. guerra russo-turca, 23. Guerrero, Pedro, 315. Gustavsen, Lars, 56. Gutman, Willi, 62. Hallinan, Vincent, 71. Harrabin, Roger, 142. Harrison, Robert, 226. Hastings, Max, 73, 360. Hearst, William Randolph, 26-27. Hecht, Ben, 199-200, 258. Hejma, Ondrej, 91. Hemingway, Ernest, 236, 297. Henry, Buck, 215. Hersey, John, 5, 332. Hersh, Seymour, 5, 163. Higgins, Marguerite, 11, 359. Hillsborough, disastro dello stadio di, 183. Hirohito, imperatore, 11. Hiroshima, 5, 331. Hitler, Adolf, 62, 201, 281. Horwitz, Tony, 262. Howitt, Keith, X. Huckerby, Martin, 87, 364. Huff, Darrell, 147, 151, 365. Hughes, Howard, 213. Hugo, Victor, 287. Hussein, Saddam, 59. «The Independent», IX, 5, 66, 92, 353. «Independent on Sunday», 208, 353, 360. «International Herald Tribune», 28. Irving, Clifford, 213. Ivens, Molly, 247.

369

Jack, Ian, 362. Jackson, Dennis, 293, 364. Jefferson, Thomas, 201. Jewell, Duncombe, 8. John, Elton, 97, 189. Johnson, Lyndon B., 94. Johnson, Samuel, 160, 268, 332. Katrina, uragano, 70, 186-187. Kennedy, John F., 339. Kennedy, Robert, 58. Kidd, Gladys, 70-71. Kilgore, Bernard, 248. Klinger, Rafe, 350. Knickerbocker, H.R., 24. Knightley, Phillip, 362. Koch, Ed, 135. Koch, Selma, 343. Koromah, Alpha, 92. Kosovo, guerra del, 5. «Krasnaja Zvezda», 5. Krock, Arthur, 350. Kujau, Konrad, 201. Ku Klux Klan, 4, 163. Ku Klux Klan Symphony Orchestra, 215. Kurnakov, Sergej, 259. Kurtz, Howard, 363. laburista, partito, 213. Lahey, Edwin, 246. Lambert, Derek, 54-55, 61, 197, 363. Il laureato, 215. Lean, Geoffrey, 361. Leigh, Vivien, 134. Leng, William, 4. Lenin (Vladimir Il’icˇ Ul’janov), 104. Leslie, Ann, 11, 92, 359, 364. Liebling, A.J., 303-304, 312-313, 342, 359, 362. «Life», 213. Lincoln, Abraham, 57-58. Lingle, Alfred, detto Jake, 107-109.

Lippmann, Walter, 104. Liston, Sonny, 110. Livingstone, David, 28. Lobaco, Julia, 216. Lockerbie, disastro aereo di, 14. Loeb, Richard, 246. London, Jack, 281. «Los Angeles Examiner», 196, 222. Lumley, Ruth, 56. MacGahan, Januarius Aloysius, 2024, 297, 356. Malaparte, Curzio, 308, 309 e n. Manchester, 4, 54, 183, 362. «Manchester Guardian», 5, 39, 224, 347. Maradona, Diego, 305. Marks, Lawrence, IX. Marquand, John P., 313. Marr, Andrew, 142, 363. Marshall, Emilie, 4. Martin, Alberta, 344. Martin, Douglas, 343. Martin, Jeremy, 134. Martin, William, 344. McCartney, Paul, 322-323. «McClure’s Magazine», 4. McCormick, Robert, 28. McIlvanney, Hugh, IX, 303-304, 312, 359, 362. McIntosh, Don, 186. McKinley, William, 277-278. Medill, Joseph, 346. «Melbourne Herald», 235. Mencken, Henry L., 235, 324. Merritt, John, IX, 18, 20. Merz, Charles, 104. «The Messenger» (Camerun), 347. Metafilter, 88. «Miami Herald», 78, 198, 274, 363. Miller, Larry, 128. Mitch, uragano, 182. Mitchell, John, 130.

370

«Mobile Register», 210. «Mooresville Tribune», 208. Morrison, Blake, 362. «Moscow Times», 49. «Moskovskij Komsolets», 164. Moynihan, lord, 343. Mozart, Wolfgang Amadeus, 211, 359. Muggeridge, Malcolm, 224. Murray, Geoffrey, 277. Murray, Jim, 196. Murrow, Ed, 127. Museo iracheno, 98. My Lai, massacro di, 5, 163. Nabokov, Vladimir, 287, 352. Napoleone Bonaparte, 136. Nash, Jay R., 108n. Nazioni Unite (Onu), 69, 186, 348. Nbc, 215-216. Neri, Gianluca, 70. «Newbury Weekly News», 207. «News Chronicle», 281. «News of the World», 35, 134. «New York Daily Post», 30. «New York Herald», 24. «New York Journal», 27. «New York Post», 15, 103. «New York Sun», 40. «New York Times», 16, 56, 60, 62, 86, 104, 208, 210, 212, 223, 247, 273, 288, 310, 343, 350. «New York World», 4, 65, 163, 179. «New Yorker», 40, 303, 312, 321, 331-332. Nixon, Richard, 62, 122, 130, 174, 317. Nobel, Alfred, 348-349. Nobel, Ludwig, 348. Norman, Greg, 105. Northcliffe, lord, 53. Notte e giorno (Tom Stoppard), 339.

«The Observer», IX, 5, 18, 59, 210, 238, 303, 353, 361. O’Day, George, 223. Ohio Bell Telephone Company, 100. O’Neil, Paul, 270. «Oregonian», 229. Organizzazione mondiale della sanità, 216. O’Rourke, P.J., 285, 362. Orwell, George, 42n, 267, 339-340. Ouellette, Laurie, 153. Overell, Walter, 222-223. Paddington, disastro ferroviario di, 194. «Pall Mall Gazette», 4, 163, 179. Parnell, lettere di, 213. Parsons, Louella, 26. «Pasack Valley Community Life», 207. Pascal, Blaise, 290. Paulos, John Allen, 365. Pax, Salam, 70. Pears, sir Edwin, 21. Pegler, Westbrook, 350. «People», 9, 216-217. Pershing, John J., 12. Persico, Joseph E., 127. Pettigrew, James, 348. «Philadelphia Inquirer», 215, 316, 332. «Philadelphia Ledger», 10. Pilger, John, 362. «Plain Dealer», 210. Ponzi, Charles, 166-167. Potter, Frederick Peel Eldon, 348. «Printers’ Ink», 347. Pulitzer, Joseph, 66, 179. Pulitzer, premio, 17, 63, 169, 198, 230. Quarto potere, 26. Questia, 86.

371

Raging Saint, 211. «Reading Chronicle», 208. Reed, John, 4. Remington, Frederic, 27. Renton, Alex, 92. «La Republica» (Perù), 164. researchbuzz.com, 85. Reuters, 90, 243, 277, 300. Richardson, Jim, 196, 222-223. Ritter, Simon, IX. «Riverside Press-Enterprise» (California), 227. Rivoluzione russa, 4, 104. Robinson, Kenneth, 200. Rocketdyne Santa Susana Field Laboratory, 140. «Rolling Stone», 285. Rosenblum, Mort, 13, 74, 363. Routledge, Paul, IX. «Rude Pravo», 347. Runcis, Maija, 68. Russell, William F., 108. Russell, William Howard, 4, 356, 359. «Russkaja Vedomosti», 24. Ryan, Rocky, 216-217. Sacharov, Andrej, 60. «San Francisco Chronicle», 5. «San Francisco Examiner», 70. «San Jose Mercury-News», 211-212. Sansom, Cathryn, IX. San Valentino, massacro di, 107. SaveKaryn.com, 88. Sawyer, Diane, 128. Scaggs, Joey, 213-215. Scott, C.P., 39-40, 347. Scuola di giornalismo dell’Università del Michigan, 197. Sealing, Batson D., 214. searchenginewatch.com, 85. «Seattle Times», 248. Seldes, George, 4.

Shatila, massacro di, 257. Shaw, George Bernard, 39. «Sheffield Telegraph», 4. Shepherd, William G., 55. Shilts, Randy, 5, 356. Shirer, William, 28. Shirley, John, IX, 238. Short, Elizabeth, 222. Shuler, Evelyn, 10. Simenon, Georges, 118. Sinatra, Frank, 109, 214. Singer, Isaac B., 310. «Skibereen Eagle», 348. Sˇmid, Martin, 90-91. Smith, Jay, 171. Smith, Walter, detto Red, 268, 359. «Southern Reporter», 208. Spencer, Lady Diana, 217. Spinks, Leon, 304. Stalin (Josif Vissarionovicˇ Dzˇugasˇvili), 78, 223. Standard Oil Company, 4. Stanley, Henry Morton, 28. Statistical Assessment Service, 141. Stead, W.T., 4, 163, 179-180. Stendhal (Henri Beyle), 240. «Stern», 213. Stoppard, Tom, 339. «St. Petersburg Times» (Florida), 318. Strangeways, rivolta nella prigione di, 183, 185, 205. «Stuff», 135. Suckert, Kurt, vedi Malaparte, Curzio. Suez, crisi di, 5. «The Sun», 97, 184, 216, 224. «Sunday Mirror», 15, 322-323. «Sunday Press» (Dublino), 211. «Sunday Times», 5, 164, 205, 213, 238, 278, 303, 312. Sutton, Wayne, 196, 222. Sweeney, John, 293, 364.

372

Swope, Herbert Bayard, 38. Tailandia, disastro aereo, 186. Talese, Gay, 288-289, 310, 359. Talidomide, scandalo del, 5. Tarbell, Ida, 4, 356. Tate, Dorothy E., 343. Taylor, S.J., 363. Thomas, Roland, 4, 163. Thomson, lord, 360. Three Mile Island, incidente nucleare di, 117. Tierney, John, 62. «Time», 321. «The Times», 4, 38, 43, 201, 213, 257, 335, 356. The Tin Men (Michael Frayn), 47. Titanic, 180, 201, 203, 234, 313. Tokyo, terremoto di, 194. Tomalin, Nicholas, 3. Triangle Shirtwaist Company, incendio alla, 55. Trotskij, Lev, 104. Truman, Harry, 201. tsunami, 70. Tutti gli uomini del presidente, 122 e n, 174, 364. Tyas, John, 4. Tyson, Mike, 304. Ucraina, 223. Unabomber, 9. United Press International (Upi), 14-15, 55, 213-214. Unruh, Howard B., 16. Upi, vedi United Press International. Urquia, Adolfo Isuiza, 164.

Vargas, Ariel, 27. Verne, Jules, 179. Vidal, Gore, 268. «Village Voice», 212. «Virginian-Pilot», 206. Wallraff, Günther, 180-181. «Wall Street Journal», 231, 248, 262. Warner Brothers, 102. «Washington Post», 5, 13, 122-123, 129-130, 164, 174, 177, 208, 223, 229-230. Watergate, caso, 5, 62, 129-130, 164, 173, 175-176, 231, 356, 364; vedi anche Bernstein, Carl; Woodward, Robert. Waterhouse, Keith, 294, 321, 364. Watts, Gerald, 344. «Weekly World News», 350. Wells, Herbert G., 240. Welsome, Eileen, 63. Whinans, R. Foster, 231. White, E.B., 248. Wiggins, A.J., 313. Wikipedia, 84. Williams, Michael, IX. Woodward, Robert, 5, 122, 164, 174-177, 231, 356, 364; vedi anche Bernstein, Carl; Watergate, caso. Zaremba, Maciej, 68. Ziegler, Ron, 317. Zinov’ev, lettera di, 213. Zohner, Nathan, 153. Zola, Émile, 348.