Il discorso e la cenere. Il compito della filosofia dopo Auschwitz
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Quodlibet Studio Discipline filosofiche

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Bruno Moroncini Il discorso e la cenere Il compito della filosofia dopo Auschwitz

Prefazione di Carmelo Colangelo

Quodlibet

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Prima edizione: settembre 2006 © 2006 Quodlibet Via Santa Maria della Porta, 43 - 62100 Macerata www.quodlibet.it Stampa: Lotografica Com di Capodarco di Fermo (AP) ISBN 88-7462-116-7 Discipline filosofiche Collana fondata da Enzo Melandri Direttore: Stefano Besoli Questo libro è stato stampato con il parziale contributo del Dipartimento di Filosofia dell’Università degli Studi di Salerno – Fondo Miur ex 40% – e con un contributo della Provincia di Napoli.

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Indice

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I.

Prefazione di Carmelo Colangelo

23

I.

La specie umana. Robert Antelme o dell’invisibile

53

II.

75

III.

Lyotard II. L’emergenza della frase

91

IV.

L’elogio della cenere. Controfirmato, Jacques Derrida

125

V.

La prosopopea della legge. Platone, un détour attraverso la scena primaria

155

VI.

Teoria del discorso. Jacques Lacan o la sovversione del desiderio

217

VII.

253

VIII.

295

IX.

353

X.

Lyotard I. La decadenza del racconto

Kant I. Risposta alla domanda “Che cos’è l’Università” Kant II. La logica del passo o della filosofia chiliastica Kant III. La dea velata o la verità che parla La legge del dialogo. Maurice Blanchot e il disastro del pensiero

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Prefazione Il sapere nomade

È un riflesso condizionato culturale divenuto piuttosto frequente, soprattutto dopo la ricomparsa degli stermini di massa in Europa, nel corso degli anni novanta del secolo scorso: quando l’attualità pone di fronte a popolazioni alle prese con l’estremo, a gruppi umani che incontrano l’orribile, è il campo di annientamento, è Auschwitz (in quanto sineddoche) a costituire il nostro detto più immediato – eventualmente non pronunciato e semplicemente alluso. Strana, forse ingenua, forma di rassicurazione: il peggio, in realtà, ci sarebbe già accaduto; mai potrà darsi qualcosa di più atroce della distruzione attraverso il lavoro, dei Sonderkommandos, della produzione seriale di uomini ridotti ad agglomerati di funzioni fisiche dileguanti. Come non pensare, però, che proprio il ritorno dell’orribile sia già qualcosa di disastrosamente peggiore: la sventura resa definitivamente alla sua inutilità, la violenza divenuta destino, la voce delle vittime fattualmente consegnata all’oblio, e proprio nel mentre si ritiene di serbarne memoria? Il ricorrere dei campi di concentramento e di sterminio nei contesti di descrizione, meditazione o denuncia dell’insopportabile, può però dipendere anche da altro. Quando chiamiamo in causa Lager e Gulag, e li istituiamo a termine di confronto o diagramma fondamentale, può esserci, in questi atti, la fiducia nel fatto di trovarci in possesso dell’unità di misura di riferimento, di avere tra le mani il metro assoluto, qualcosa come un valore di base sempre ancora disponibile all’utilizzazione, almeno in immagine. Nel caveau della memoria storica sarebbe deposto l’avvenimento che, costituendo in ogni senso il punto estremo dell’umano, il limite della violenza subita e della violenza esercitata, permetterebbe l’apertura del registro delle ricostruzioni, delle comparazioni, se non delle classificazioni, delle perizie e dei calcoli. Nel luogo più riposto e protetto dell’istituto di credito della storia, l’evento Auschwitz farebbe da regolo per le nostre stime scorate.

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Ci si può chiedere, però, se davvero il campo possa costituire questa misura o questa grandezza assoluta: se il suo utilizzo, implicito o esplicito, come metro storico non sia in realtà possibile solo grazie a un malinteso o a una preliminare semplificazione. «Non è stata la mano a fare di una scimmia un uomo; non è stato l’embrione del cervello, non è stata l’anima: ci sono cani e orsi che agiscono in modo più intelligente e morale dell'uomo. E non è stato l’assoggettamento della forza del fuoco: tutto questo è avvenuto dopo che si era realizzata la condizione essenziale della sua metamorfosi. A una data epoca, in altre condizioni di vita, uguali per tutti, l’uomo si è rivelato più forte, fisicamente più resistente di ogni altro animale»1. C’è un aspetto decisamente perturbante nelle ricorrenti osservazioni, da parte dei sopravvissuti ai campi di annientamento, circa le capacità umane di resistenza all’estremo. Ed è un aspetto che di solito, magari dopo un attimo di esitazione, chi legge è portato a mettere in sordina, a favore dello stupore, o forse del segreto compiacimento, di sentirsi dire in grado di resistere, semplicemente in quanto uomo, al contatto prolungato con ambienti e circostanze ultraostili. Tuttavia, da Primo Levi a Robert Antelme, da Jean Améry a Lev Razgon, da David Rousset a Varlam Salamov e molti altri, quelle osservazioni, nell’atto stesso in cui sono formulate ad affermare forza e consistenza specifiche dell’umano, si trovano anche ad alludere a una verità sulla specie tutt’altro che rassicurante, e anzi persino disagevole a figurarsi e riconoscere. In termini elementari, la si potrebbe esprimere così: al di qua del momento in cui un essere umano, morendo, diventa nient’altro che una cosa tra le cose, non c’è limite assegnabile alla possibile distruzione dell’uomo, alla sua sottrazione a se stesso. L’uomo è indistruttibile, nel senso di indefinitamente distruttibile: suscettibile di trovarsi illimitatamente scisso da sé, passibile di darsi come luogo di apparizione di una radicale, pervasiva estraneità a se stesso. Naturale allora il nostro impulso a non soffermarci più di tanto sull’ombra che accompagna le dichiarazioni dei sopravvissuti circa la capacità umana di sopportare l’insostenibile: difficile accettare di essere, per essenza e in quanto animali culturali – e cioè in quanto esseri che hanno «saputo costringere il proprio spirito a servire con successo il corpo»2 –, un possibile luogo 1 2

V. Sˇ alamov, I racconti della Kolyma, Milano 20054, pp. 94-95. Ivi, p. 37.

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dello svolgersi dell’infinito in forma di disgregazione illimitata. Inoltre, di un punto zero dell’umano, di un luogo relativamente stabile – originario o definitivo – del ‘destituirsi’ e dell’‘istituirsi’ dell’uomo in quanto tale sembriamo avere un profondo bisogno, e non senza ragione, se è vero che solo un limite adeguatamente rinvenuto, provato, descritto, può totalizzare lo spazio che racchiude, istituendo identità operativamente adeguate e offrendo un luogo mentale da cui poter cominciare e, quando le cose vanno al peggio, ricominciare. Arduo allora restare davvero in ascolto di parole che sembrano alludere all’uomo come alla figura ossimorica di una limitazione illimitata, di un’indefinita capacità di patire, di un vuoto sempre ancora scavabile: con esse, il punto zero, l’origine, la linea oltre la quale dell’umano non sarebbe più nulla, sembrano fibrillare e sfuggire. E non semplicemente come se fossero da spostare sempre ancora altrove o più indietro, ma come se in definitiva non coincidessero mai con se stessi: come se per natura fossero perpetuamente desituati e strutturalmente imprendibili, non intenzionabili su alcun piano, e perciò anche refrattari al registro di possibili rappresentazioni, ripresentificazioni, memorazioni. È una delle ragioni – la più tenace, forse – per cui è dubbio che la considerazione del campo come quadro o metro storico di riferimento possa effettivamente ambire a una reale operatività, almeno a un primo, immediato livello. Se ad Auschwitz una verità concernente la specie è emersa, essa non appare provvista del carattere della pronta disponibilità che tutto sommato da qualche tempo tendiamo ad attribuirle nei nostri sforzi di rinvenire una leva che ci aiuti a opporci all’ingiusto e al terribile. Più che all’illustre ‘finitudine’ dei filosofi (nozione che, indicando o sollecitando la possibilità di una riappropriazione di sé, andrebbe letta con le lenti offerte dal concetto psicoanalitico di denegazione), quella verità alluderebbe a una sorta di non-circoscrivibilità, d’interminabilità della limitatezza dell’uomo, a una impossibilità di assegnare confini alla distruttibilità della vita umana, ovvero a una sua strutturale parassitazione da parte di un vuoto e di un’alterità non saturabili, sempre di nuovo da riconoscere e mai davvero assumibili. Qui la resistenza e la forza in eccesso, qui la mancanza e l’instabilità essenziali dell’umano. Una delle convinzioni più chiaramente leggibili nella filigrana del discorso svolto nelle pagine di questo volume potrebbe essere enunciata così: ogni ricerca genuinamente filosofica tende a spingere il pen-

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CARMELO COLANGELO

siero fino al suo limite, all’impensabile: a una esteriorità non addomesticabile, che però concerne intimamente il pensiero. Molti sono gli autori convocati da Bruno Moroncini per rispondere alla domanda, temeraria, sulla responsabilità della filosofia nell’epoca dell’iperlegittimazione dei saperi speciali e della sostanziale indifferenza dei generi di discorso. Blanchot, Derrida, Lacan sono però i pensatori più costantemente presenti all’orizzonte dell’argomentazione; e tutto lascia pensare che lo siano appunto perché ritenuti titolari di percorsi intellettuali che proprio del limite del pensiero hanno fatto la ‘cosa’ essenziale, nella misura in cui – precisazione indispensabile, da allegare immediatamente – lo hanno identificato né più e né meno che con il cuore dell’esperienza umana, storica o soggettiva, e cioè con il punto in cui essa s’interrompe, interrompe la sua continuità rispetto a se stessa. Il termine ‘disastro’, così come i concetti di ‘differanza’ e ‘disseminazione’, di ‘soggetto barrato’ e ‘desiderio dell’altro’, non sarebbero – al contrario di quanto interpretazioni affrettate abbiano sovente lasciato credere – i temibili cavalieri dell’apocalisse della ragione e della vigilanza consapevole, ma tracce o rinvii all’esperienza nel senso radicale del termine, intesa cioè come qualcosa che, irrompendo nel tessuto della vita e del tempo, li sospende e li interroga; come l’evento che, dandosi, si mostra impossibile da ricomprendere in una storia intesa come successione continua di prima e di poi, sempre sussumibili da una coscienza (personale o collettiva) certa di sé. Nella logica, se non nel dettato, degli autori più regolarmente convocati in questo libro, l’estremo del pensiero è insomma l’empiria radicale in quanto eventolimite che, accadendo, cancella le tracce (ma non gli effetti) del suo essere avvenuto, e che proprio per questo domanda di essere ricordato e attestato, con la spina nella carne della consapevolezza dell’impossibilità di farlo restando sul puro piano dell’episteme. D’indubbia pertinenza appare allora il fatto che la complessa risposta alla domanda su consistenza e compito attuali del filosofico si mantenga qui costantemente prossima alla tematizzazione della refrattarietà del campo di annientamento ai registri della descrizione oggettivante e della narrabilità memoriale. È come se il lettore fosse invitato ad assumere il fatto che, se è vero che l’ingiunzione che viene dalla violenza totalitaria, da Auschwitz, dalla Kolyma, è certamente ‘non dimenticate!’, è anche vero che tale richiesta porta in realtà con sé una singolare clausola riguardo al suo oggetto, una clausola che complica considerevolmente le cose: «Non dimenticate ciò che appunto vi farà

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perdere la memoria»3. Nella misura in cui la verità dell’esperienzalimite del campo – l’apparizione massiccia del bisogno estremo in quanto altro in noi e mancanza ad essere4 – si mostra irriducibile ai suoi semplici elementi descrivibili, ai suoi puri dati fattuali, essa non è trasmissibile attraverso le rappresentazioni e i racconti (o i meta-racconti) promossi da saperi disciplinari e da un soggetto del sapere che continuino a puntare tutto su una continuità di base tra le proprie procedure di costituzione e articolazione e le modalità di donazione dell’evento. Questo, però, non vuol dire che quella verità non possa configurarsi altrimenti che come un rompicapo desolante, magari oggetto di accorate dichiarazioni d’indicibilità e di conseguenti sacralizzazioni e monumentalizzazioni, in buona o cattiva coscienza. Piuttosto, nell’intensità fuori scala della sua effettività, nell’eccesso della sua forza posizionale, essa costituisce il limite stesso delle facoltà conoscitive, limite a cui il pensiero, la filo-sofia (cioè, com’è sin troppo canonico dire, non il possesso del sapere, ma solo il desiderio di esso, il movimento, la tensione verso ciò che non si ha) devono far fronte come a quel loro impossibile con cui tuttavia sono chiamate a restare in rapporto, se non intendono divenire un’impostura. Quali gli strumenti più affidabili su cui essi possono contare in questo sforzo? Moroncini ritiene che nell’ambito della stagione intellettuale secondo novecentesca non siano affatto mancati sentieri percorribili e fruttuosi per chi intenda tenersi all’altezza dell’esperienza. Una di queste vie è certamente indicata nel decostruzionismo, di cui qui viene ritenuto soprattutto quanto in esso ha mostrato di lavorare alla costruzione di un orizzonte pratico-morale all’altezza dell’enigmaticità del presente. La lettura della decostruzione come etica fondamentale, divenuta poi quasi un luogo comune (anche in virtù d’indicazioni e scelte tematiche sempre più esplicite da parte dello stesso Derrida, nel corso degli anni novanta e oltre), era tutt’altro che pacifica nel 1988, al momento della prima pubblicazione di Il discorso e la cenere. La messa in evidenza dell’indecidibilità dell’intero testo della tradizione, l’indicazione della scrittura come luogo del differimento infinito della significazione e della presenza erano anzi prevalentemente letti come il portato della messa in opera di una versione termi3 M. Blanchot, N’oubliez pas!, «La Quinzaine littéraire», n. 459, 16 marzo 1986, p. 12; tr. it. in Id., Nostra compagna clandestina, Napoli 2004, p. 177. 4 Cfr. infra, pp. 24-29 (I ed. 12-17).

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nale e di fatto nichilistica del progetto ermeneutico. Anche a causa delle modulazioni per così dire ‘alessandrine’ dello stile di Derrida, a lungo si è continuato a leggere la sua ricerca come una sorta di manipolazione aporetica, interminabile e infeconda della tradizione, compiuta allo scopo di farne parte nell’atto stesso con cui veniva sostenuta l’urgenza di restarvi esterni –, oppure come un corpo a corpo con essa inteso a mostrarvi un’insignificanza insopprimibile, sempre di nuovo in istanza, e a custodirla melanconicamente. Tanto più innovativa era la prospettiva qui adottata: nella decostruzione, l’operativa sottolineatura dell’impossibilità di farla finita con il testo, con la legge e soprattutto con i loro double binds, ha il compito di mettere capo a una vera e propria performance di spoliazione del soggetto del sapere. L’enfatizzazione dell’indecidibilità mira a trasmettere il fatto che c’è davvero ideazione etica solo se i giudizi che siamo chiamati a formulare e a rendere latori di effetti reali non si legittimano a partire dalle garanzie che un sapere preventivo e autorizzato potrebbe fornire, bensì da una radicale assunzione di responsabilità verso l’altro e l’estraneità inassumibile che lo pervade. Gesto sempre strutturalmente attuale e perciò mai affrancato dal quadro delle insufficienze e delle limitazioni entro cui si produce, il giudizio critico filosofico acquista senso solo in base alla consapevolezza della necessità di formularlo al di fuori di ogni cauzione: di dover scegliere e discriminare proprio perché e proprio laddove la scelta non è in nostro potere, non può trovarsi sostenuta da nessun computo possibile. In questo senso, si potrebbe dire che qui l’esperienza decostruttivista è letta e assunta come una sorta di creazione distruttiva: una paziente operazione di disassemblaggio dei materiali tramandati dalla cultura, al fine non solo di renderli disponibili per configurazioni inedite, ma anche di rinviare, far segno a ciò che, in quanto resto dell’evento e dell’esperienza – cenere –, può testimoniare per essi nel loro stesso eccedere il regime della figurabilità e della configurabilità. Così, ‘decostruttivo’, e perciò al servizio della spinta etica, è chiamato ad essere il discorso filosofico nella misura in cui – declinandosi di volta in volta come scavo dei contesti referenziali e della compagine logica delle frasi, come individuazione di nuovi effetti di continuità o distanza tra i segni, come opzione in favore delle polisemie, delle polivalenze, delle eco deformanti – si mostri in grado di slegare strutture e sintagmi veicolati dalla tradizione, affinché si trovi liberato uno spazio in cui l’eccesso dell’esperienza in quanto limite possa essere attestato

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senza snaturarlo riducendolo al già noto o al semplice non ancora compreso. È però soprattutto l’assunzione del punto di vista straniante offerto dalla prassi discorsiva psicoanalitica, così come si è data entro il perimetro del lacaniano ‘ritorno a Freud’, a essere qui decisiva per la questione delle ragioni del filosofico e del rapporto tra pensiero ed empiria. Con una precisazione: il Lacan qui tematizzato (e messo al lavoro: si vedano le avvincenti analisi dedicate a Platone e all’ultimo Kant), più che quello degli Scritti, è quello dell’insegnamento seminariale: il Lacan cioè che, nel radicalizzare il tema dell’oggetto del desiderio e della sua non afferrabilità da parte del sapere, ha ritenuto necessario rinunciare a considerare davvero attendibile il perseguimento di una sutura, sul piano della parola, della distanza tra il soggetto del desiderio e appunto il suo oggetto, e ha invece puntato, tra l’altro, sulla costruzione di una ‘teoria del discorso’ che si mostrasse capace di dar conto di quella separazione rispettandola in quanto tale: rendendola a se stessa e alle sue implicazioni ultime. Sia detto per inciso, un Lacan, questo dei Seminari, in Italia poco frequentato fino a tutti gli anni ottanta, e tuttora oggetto di una ricezione complessivamente piuttosto incerta: sicché la vera e propria introduzione al suo pensiero rinvenibile in questo libro ne avrebbe già di per sé valso la ripubblicazione. Se la domanda sulla responsabilità filosofica risulta così «messa alla prova della psicoanalisi»5, ciò però non accade né per tentare di dotare la filosofia di una qualche assiomatica supplementare, né allo scopo di invitarla per partito preso a un particolare tipo d’interdisciplinarietà, bensì, per così dire, per aiutarla a salvarsi da se stessa: dal rischio, al quale essa non ha mai cessato di trovarsi esposta, di rinunciare al suo vero oggetto. Il che accade quando la filosofia tende a cedere alle tentazioni enciclopediche o a farsi forte di gesti sistematizzanti, così smarrendo il senso del suo necessario tendere al limite e al fuori. È una eventualità che fa parte della sua stessa storia, nella misura in cui essa non ha potuto non legare il proprio destino all’insegna5 Cfr. F. Ciaramelli, F. C. Papparo, B. Moroncini, Diffrazioni. La filosofia alla prova della psicoanalisi, Milano 1994. La premessa al volume e il lungo studio sul seminario lacaniano Le Transfert (studio recentemente ristampato in pubblicazione separata: B. Moroncini, Sull’amore. Jacques Lacan e il Simposio di Platone, Napoli 2005) chiariscono distesamente ragioni e posta in gioco di tale messa alla prova, indicando non solo le necessarie ricadute dello ‘psicoanalitico’ sul ‘filosofico’, ma anche le indicazioni che, al di là delle usuali pretese all’egemonia, il filosofo può offrire all’analista.

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mento, alla edificazione di un’accademia, alla fondazione di un’istituzione universitaria: alla trasmissione di sé attraverso le dinamiche del rapporto di parola tra maestri e discepoli. Il fatto è che l’istituzionalizzazione comporta, insieme alla opportunità dell’accumulo e della valorizzazione delle conoscenze, la possibilità strutturale che venga pagato un prezzo rilevante a una sorta di addomesticamento o di tradimento della domanda su ciò che, eccedendo il discorso, pure lo rende effettivamente possibile. Maestro e allievo – l’uno troppo disponibile a supporsi infine soggettività piena, del tutto cosciente e padrona di sé, l’altro troppo pronto a crederlo, per potersi supporre anch’egli prima o poi tale – non corrono forse sempre il pericolo di rincorrersi attorno a una verità misurata, addomesticata, tenuta alla catena, ben diversa insomma da quella che ha da restare oggetto della tensione, del desiderio che agitano il movimento del pensiero? Ora, proprio nel mettere all’ordine del giorno l’istanza del desiderio nel suo rapporto con un oggetto imprendibile ma irrinunciabile, la psicoanalisi lacaniana, si è, com’è noto, ampiamente nutrita di hegelismo e di ontologia fondamentale. Ciò le ha permesso di restare avvertita non solo delle ascendenze e delle ricadute filosofiche del proprio discorso, ma anche appunto del pericolo dell’addomesticamento del limite: di una ‘ricolonizzazione’ logica, spiritualistica, trascendentalistica dell’esperienza. È la ragione per cui, problematicamente assunta, la prospettiva psicoanalitica può essere preziosissima per individuare le possibili defalliances, i punti di caduta del dire filosofico in quanto ricerca e in quanto trasmissione – trasmissione non di un trovato, bensì della relazione di distanza rispetto al cercato. A partire dalle fondamentali affermazioni del «linguaggio in quanto condizione dell’inconscio» e della «mancanza ad essere» in quanto effetto dell’instaurarsi della cultura, essa permette di scorgere le modalità discorsive attraverso cui si dà l’elisione del desiderio da parte del sapere e la contestazione del sapere da parte del desiderio. Con ciò, l’angolo visuale psicoanalitico può ricordare al filosofo la sua vocazione più propria, invitandolo a trovare i modi, fossero pure i più paradossali, instabili e quasi aporetici, per preservarsi dalle rassicurazioni offerte dall’acquisito: dalla fissazione entro chiusure non solo pretenziose, ma di fatto, nella denegazione dell’alterità a se stesso che connota l’animale culturale, violente nei confronti della fragilità e delle virtualità stesse dell’umano.

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Di una circostanza ci si potrà stupire: nelle modalità in cui sono qui assunti, decostruzionismo e psicoanalisi risultano tutto sommato in consonanza, e non solo perché, come avrebbe potuto dire MerleauPonty, entrambi si articolano chiamando in causa «dei rapporti che una coscienza non può sostenere: il nostro rapporto alle nostre origini e il nostro rapporto ai nostri modelli»6. L’accordo di fondo tra i due percorsi intellettuali viene rilevato (al di là delle divergenze, se non delle distanze difficilmente recuperabili: non è forse stato Derrida a proporre una risoluta messa in questione delle concettualizzazioni portanti della proposta lacaniana?)7 nella presenza sempre di nuovo attiva, in entrambi, di un vero e proprio principio d’irrequietezza, di un’istanza critica che, da un lato, ricorda ai saperi disciplinari che essi non sono in grado di tendere all’essenziale dell’esperienza, obbedienti come sono alla necessità della propria autoconservazione identitaria e perciò dell’esclusione risoluta di quanto confina con il loro fuori; dall’altro, fa del pensiero una prassi rischiosa, capace, nella sua radicalità, di produrre effetti maggiori ogni volta che si tratta di tener effettivamente testa all’imprevedibile e al non misurabile – all’evento che, mettendo in crisi la continuità e la presenza a se stessa della soggettività, la sollecita all’invenzione di nuovi, inauditi mezzi che appunto alla scossa di tale imprevisto sappiano rispondere. Perché è poi questo, in fin dei conti, ciò che Il discorso e la cenere sembra invitarci a considerare: lungi dall’aver a che fare con il ‘sommo 6

M. Merleau-Ponty, Préface a A. Hesnard, L’œuvre de Freud, Paris 1960, p. 9; tr. it. L’opera di Freud, Firenze 1971, p. 12. 7 Cfr. J. Derrida, Le facteur de la vérité (1975), in La carte postale, Paris, 1980; tr. it. Milano 1978. Ma si vedano anche, almeno, Id., Pour l’amour de Lacan, in Lacan avec les philosophes, Paris 1991, pp. 397 sgg. e Id., Etats d’âme de la psychanalyse, Paris 2000. Il problema è evidentemente molto complesso: si può dire che in realtà, più che ricusare la psicoanalisi, Derrida abbia formulato un energico invito a far sì che pratica e discorso psicoanalitici, fedeli alla loro opzione per una ragione senza alibi teologici o metafisici, non siano mai troppo certi dei loro principi e delle loro procedure, e soprattutto a fare in modo che essi si tengano più sollecitamente al passo con le modificazioni ambientali, «tele-tecniche» prodotte dall’uomo a partire dal secondo dopoguerra. Cfr. R. Major, Lacan avec Derrida. Analyse désistentielle, Paris 1991; dello stesso Moroncini, sul rapporto LacanDerrida si leggerà utilmente: La lettera disseminata e l’invenzione della verità, in AA.VV., Palinsesto. I modi del discorso letterario e filosofico, Genova 1990, pp. 117-146. Quanto al programma qui annunciato – aprire una strada in grado di connettere «la teoria dei quattro discorsi alla pratica della decostruzione» (cfr. infra, p. 215, I ed. 234) –, esso non ha ancora conosciuto una organica oggettivazione: Moroncini ne ha offerto però esempi assai preziosi, tra i quali segnalerei particolarmente La comunità e l’invenzione, Napoli 2001.

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bene’, con il perseguimento della felicità (e il possesso delle tecniche che affermano di offrirla) o con la pretesa d’individuare (sempre più aprioricamente di quanto si sostiene di fare) valori inconcussi, l’etica va intesa in realtà come una legge d’inventività che veglia nel cuore di tutti i rapporti che il pensiero può istituire e che gli uomini sono chiamati a realizzare. L’etica, cioè, se presa in senso fondamentale – ovvero a partire da una sua archeologia che ponga la questione del desiderio e del carattere ‘sovversivo’ che ad esso pertiene rispetto ai discorsi istituzionalizzati – è qualcosa che cade al di là sia della calcolabilità offerta dai saperi, sia dell’insieme di prescrizioni che le morali codificate, fondate sulla tradizione, elaborano per bloccare e in fin dei conti misconoscere l’irruzione dell’alterità dell’uomo a se stesso – così rendendola definitivamente non designabile in quanto ‘origine’ fuori memoria e perciò facendone qualcosa di rovinosamente irrelato alla fatticità stessa della realtà umana. Come ancora di recente ha ricordato Aldo Masullo – il maestro dedicatario di questo libro –, la morale può essere definita come il «campo di ordine sociale, storicamente costituito e relativamente stabilizzato, a cui conformisticamente aderendo e concorrendo l’individuo si assicura la protezione del potere nei limiti delle vigenti regole di costume e norme di diritto»; il termine etica può invece essere utilizzato a designare «l’iniziativa inaugurale, in cui la libertà si esprime, elaborando risposte a bisogni appena nascenti, a domande non ancora formulate»8. Un’iniziativa che dunque dovrà manifestarsi come un vero e proprio corpo a corpo con ciò che nelle morali non si autorizza da altro che dal mero potere sistematizzante della tradizione – di una tradizione allora mai davvero considerata suscettibile di essere arricchita, spinta al limite del suo dire, e, se necessario (e molti oggi sono i segni che lo sia), al di là di esso. Così, quando la filosofia intenda assumersi la responsabilità di lavorare al fianco dell’etica contro prescrizioni e divieti che mirano semplicemente a recintare ciò da cui in realtà l’uomo non potrebbe mai difendersi una volta per tutte se non a condizione di deporsi in quanto uomo, essa non potrà fare a meno di lavorare contro le significazioni esistenti, contro le essenze verbali che si affermano a scapito della verità dileguante della specie. Contestando le concettualizzazioni che non hanno saputo preferire la ‘cenere’ a se stesse, non ultimo tra i suoi compiti sarà 8

A. Masullo, Filosofia morale, Roma 2005, p. 48.

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PREFAZIONE. IL SAPERE NOMADE

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insomma quello di considerarsi, sì, un sapere, ma un sapere intensamente nomade, legato perciò alla necessità di mettersi ancora di nuovo in cammino per divenire sempre più suscettibile di tenersi in ascolto dell’inappropriabile: più vicina al limite, dunque, capace di insistere su di esso, sapendo di non potersene né insignorire, né farne un luogo di residenza, ma anche di dover far passare in discorso quanto, di volta in volta, di tale limite, da una distanza insieme più grande e più piccola di qualsiasi quantità assegnabile, imperativamente, discretamente lo richiede. Carmelo Colangelo

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Il discorso e la cenere Il compito della filosofia dopo Auschwitz

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a Aldo Masullo

La coscienza del discepolo, quand’esso incomincia, non dirò a discutere, ma a dialogare con il maestro, o meglio a esprimere il dialogo interminabile e silenzioso che lo costituiva come discepolo, questa coscienza è allora una coscienza infelice. Cominciando a dialogare nel mondo, vale a dire a rispondere, essa si sente già colta sempre in fallo come l’infante, che per definizione, e come il nome stesso indica, non sa parlare, e prima di tutto non deve rispondere. E quando, come in questo caso, il dialogo rischia di essere interpretato – a torto – come una contestazione, il discepolo sa di essere solo, a trovarsi già per questo contestato dalla voce del maestro, che, in lui, precede la sua. Si sente contestato indefinitamente, o ricusato, o accusato: come discepolo egli lo è dal maestro che parla in lui prima di lui per rimproverarlo di sollevare questa contestazione e per rifiutarla in anticipo, avendola svolta prima di lui; come maestro, dal di dentro, è dunque contestato dal discepolo che egli contemporaneamente è. Questa infelicità interminabile del discepolo deriva forse dal fatto che egli non sa, o si nasconde ancora che, come la vera vita, il maestro è sempre assente.

La coscienza infelice di Apollo è appunto quella ‘insuperabile infelicità dell’allievo’ che, secondo l’osservazione di Derrida, ‘sta forse in ciò: ch’egli non sa, o ancora si nasconde, il fatto che, come la vera vita, il maestro è sempre assente’. Perciò la ragione stessa è radicalmente infelice: se per poco divenisse felice, si perderebbe come ragione, come pluralità dialogica e storica. In questo senso, si può ancora una volta utilizzare la simbolica nietzschiana e dire che ‘del fondamento di tutte le esistenze, del substrato dionisiaco del mondo non può mostrarsi alla coscienza individuale umana se non esattamente quel tanto che la forza trasfigurante apollinea è capace di dominare’. Tra la felicità e la ragione, gli uomini, per mantenersi nell’umana apertura alle innumeri possibilità delle scelte, non possono scegliere che la ragione, l’asperrima lotta contro ogni ragione d’infelicità che non sia la pura infelicità della ragione. A. Masullo, Antimetafisica del fondamento

J. Derrida, L’écriture et la différence

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Capitolo primo La specie umana. Robert Antelme o dell’indivisibile

Dein aschenes Haar Sulamith wir schaufeln ein Grab in den lüften da liegt man nicht eng*. P. Celan, Todesfuge

Si può raccontare Auschwitz? C’è racconto possibile dell’esperienza dei campi di concentramento? Esistono narratori autorizzati, alcuni più di altri? Se provassimo a chiederci quale racconto abbia maggiore autorità testimoniale e sia, dunque, più attendibile, se quello del boia come Rudolf Höss1 o quello della vittima, ad esempio Robert Antelme2, sarebbe questa una domanda legittima? Un immediato moto d’indignazione morale non costituirebbe, tuttavia, una risposta: rilanciare la domanda chiedendosi come sarebbe possibile dar credito al persecutore, squalificato e delegittimato dal solo fatto d’essere ‘l’altra parte’, mostrerebbe soltanto la fretta con cui la coscienza cerca di suturare una ferita altrimenti sanguinante; significherebbe, in altri termini, reidentificare in una tradizione conosciuta e rassicurante una differenza irriducibile – Auschwitz stesso – che proprio quella tradizione chiamata a soccorso si mostra impotente a trasporre in racconto. L’impossibilità di *

I tuoi capelli di cenere Sulamith scaviamo una tomba nell’/aria là non si giace stretti. R. Höss, Kommandant zu Auschwitz, tr. it. di G. Panzieri Saija, Torino 1960. 2 R. Antelme, L’espèce humaine, Paris 1957, tr. it. di G. Vittorini, Torino 1969. Come per il testo di Marguerite Duras citato successivamente così per quello di Antelme scelgo di lasciare l’originale francese nel testo e di riportare le traduzioni italiane esistenti in nota; lo faccio perchè il lettore possa percepire dal confronto quanto alle volte le traduzioni italiane edulcorino la violenza e l’asprezza degli originali impegnati a torcere la lingua affinchè essa dica l’impossibile del campo di concentramento nazista. Su questi temi sono ritornato in seguito a proposito della poesia di Paul Celan e della teoria benjaminiana della lingua: cfr., La lingua muta. Benjamin, Celan e il problema della lingua, in Id., La lingua muta e altri saggi benjaminani, Napoli 2000, pp. 11-34 e Mondo e senso. Heidegger e Celan, Napoli 1998. 1

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IL DISCORSO E LA CENERE

raccontare Auschwitz coincide con la fine del racconto in generale, e, di conseguenza, con quella della possibilità del tramandamento stesso. Esiste, tuttavia, una letteratura concentrazionaria. Per quanto inimmaginabile, l’esperienza dei campi ha trovato i propri narratori: dunque, si può raccontare, si deve, per non far dimenticare, per lasciare testimonianza dell’orrore, perché l’irripetibile sia marcato in quanto tale e consegnato una volta per tutte all’irripetibilità. Ma non è proprio l’esistenza bruta di tale letteratura – colta, cioè, al di là d’ogni giudizio letterario, estetico o morale – ad aver fatto divenire effettuale quella verità che già si faceva strada nell’istituzione letteraria in senso stretto (e insieme in quella filosofica) per cui al raccontare si lega intrinsecamente l’impossibilità del racconto? Al voler dire la vertigine dell’afasia, alla necessità della parola il silenzio della spaziatura? «Il y a deux ans, durant le premiers jours qui ont suivi notre retour, nous avons été, tous je pense, en proie à un véritable délire. Nous voulions parler, être entendus enfin. On nous dit que notre apparence physique était assez éloquente à elle seule»3. Così Robert Antelme rievoca nella scrittura l’impatto con quelli di «laggiù», con quelli che hanno atteso che quelli di «qui» – il campo – tornassero. E che una volta tornati, in preda al delirio del voler dire, sono stati subito zittiti: non basta forse il segno muto del loro corpo disfatto? Quelli di «laggiù» non vogliono ascoltare: perché questo raddoppio della parola, questo inutile ornamento a ciò che, silenzioso, si dà a vedere, s’impone allo sguardo come un segnale inequivocabile di sofferenza? Persiste tuttavia nel reduce il desiderio della parola, la follia del racconto. Il corpo, infatti, non dice nulla da solo, non ha abbastanza autorità per fungere da testimone; senza il supplemento della parola, l’esperienza, di cui il corpo è la traccia, non esisterebbe neppure. Il testimone è, per definizione, colui che ha visto con i propri occhi, ha udito con le proprie orecchie, toccato con le proprie mani; colui che, in una parola, ha vissuto, ed avendo vissuto, esperito in prima persona, può raccontare, trasporre in parole l’evento, destinato, altrimenti, a restare muto ed incomunicabile. Testimoniare è una traduzione dal muto al sonoro, dalla scrittura alla voce. Di fronte all’atteggiamento restio dell’ascoltatore, allora, scrive Antelme, «nous revenions juste, nous ramenions avec nous notre mémo3 Ivi, p. 9. «Due anni fa, subito dopo il nostro ritorno siamo stati tutti, credo, in preda ad un vero delirio. Volevamo parlare ed essere finalmente ascoltati. Ci dissero che il nostro aspetto fisico era di per sè abbastanza eloquente» (tr. it. p. 6).

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I. LA SPECIE UMANA. ROBERT ANTELME O DELL’INVISIBILE

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rie, notre expérience toute vivante et nous éprouvions un désir frénétique de la dire tel qu’elle. Et dés les premiers jours cependant, il nous paraissait impossible de combler la distance que nous découvrions entre le langage dont nous disposions et cette expérience que, pour la plupart, nous étions encore en train de poursuivre dans notre corps. Comment nous résigner à ne pas tenter d’expliquer comment nous en étions venus là? Nous y étions encore. Et cependant c’était impossible. A peine commencions-nous à raconter, que nous suffoquions. A nous-même, ce que nous avions à dire commençait alors à nous paraître inimaginable»4. Il reduce insegue la propria esperienza ancora viva: come l’ascoltatore distoglie la sua attenzione dalla parola dell’altro per fissare il suo sguardo sul corpo da cui attende una risposta, così anche il reduce tenta di leggere la propria carne martoriata per tradurre in discorso la sua scrittura muta. Illusione che colpisce entrambi: giacché se è vero che il corpo è come una stele, un monumento funebre volto al tramandamento, se la carne ha registrato l’insieme degli avvenimenti e si presenta ora come un geroglifico, una scrittura da decifrare, tuttavia il corpo non si offre ad una traduzione integrale. Per quanto il reduce cerchi d’intenzionarne il senso o di scoprirne il codice, il corpo conserva un’opacità irriducibile, resta una lingua sconosciuta. Ora tale resistenza del corpo rilancia il delirio della parola: quanto più il corpo resta muto, tanto più il desiderio del dire si fa bruciante. Certo ora la distanza fra il linguaggio disponibile e l’esperienza che si vorrebbe raccontare si mostra ancora più abissale. Tuttavia la vera difficoltà non è ancora questa: è piuttosto la scoperta – che toglie la parola – che, proprio mentre il reduce insegue dentro di sé, nella prossimità del corpo proprio, l’esperienza vissuta, questa si vanifica. È infatti la certezza stessa dell’aver vissuto a venir meno: la certezza d’essere stato presente all’evento in carne ed ossa, coscienza nonostante tutto vigile, prossima a sé pur nell’estraneazione assoluta. La scoperta terribile è che quell’esperienza che egli era certo d’aver vissuto in prima persona non può più dirla sua: egli non può più anteporre al racconto quell’io 4

Ivi. «Ma si tornava allora, riportavamo nella carne la memoria della nostra viva esperienza, sentendo un bisogno frenetico di dirla così com’era. Si capì subito però che ci sarebbe stato impossibile colmare la distanza che si andava scoprendo, tra il linguaggio di cui disponevamo e l’esperienza che quasi tutti stavamo ancora inseguendo dentro di noi. Ma come rassegnarci al tentativo di spiegare in che modo si era arrivati a quel punto, immersi come ancora vi si era? Eppure era impossibile. Appena si incominciava a parlarne, subito si soffocava. A noi stessi allora quello che si aveva da dire, cominciò a sembrare inimmaginabile» (tr. it., ivi).

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IL DISCORSO E LA CENERE

che lo legittimerebbe come un testimone attendibile, indipendentemente dalla difficoltà di comunicare un evento che sorpassa l’immaginazione dell’ascoltatore come d’altronde la propria. Non è dunque semplicemente l’esperienza a mostrare una difficoltà intrinseca ad essere trasmessa; è l’inesistenza stessa del testimone ad impedire la comunicazione. Ed è per questo che allora il voler dire ristagna, ricade su se stesso e si accontenta di una parola che non dice nulla: inimmaginabile. Lo si è compreso subito: all’arrivo nel campo dei soldati americani, liberatori e liberati hanno tentato immediatamente di entrare in comunicazione. Ma i soldati hanno pensato: «Il n’y a pas grand’chose à leur dire (...) On les a libérés. On est leurs muscles et leurs fusils. Mais on n’a rien à dire. C’est effroyable, oui, vraiment, ces Allemands sont plus que barbares! Frightful, yes, frightful! Oui, vraiment, effroyable»5. Di fronte a tale meraviglia che tentava di esorcizzare l’impensabile, quelli di «qui» hanno allora tentato di prendere la parola; da principio il soldato è stato ad ascoltarli, ma poi visto che quei «types ne s’arrêtent plus: il racontent, il racontent»6, si è stancato e ben presto ha cessato di starli a sentire. Non per cinismo, ma proprio perché non c’era nulla da ascoltare. Allora il detenuto ha taciuto, ha guardato il soldato scuotendo la testa e ha sorriso. Non per disprezzo, ma per la consapevolezza di un’ignoranza che nessun insegnamento avrebbe potuto mai colmare: nel tentativo di parlare, durante quel delirio del voler dire, la sua esperienza gli si era rivelata «comme détachée de lui, en bloc»7. Egli non la possedeva, non la poteva far sua: si sentiva «en proie désormais à une sorte de connaissance infinie, intrasmissible»8. Per questo anche lui s’è accontentato d’una parola: inimmagi5 Ivi, p. 301. «Non c’è molto che si possa dir loro (…) Li abbiamo liberati. Siamo i loro muscoli e i loro fucili. Ma non abbiamo niente da dirci. È spaventoso, sì, veramente questi tedeschi sono proprio dei barbari! Frightful, yes, frightful! Spaventoso veramente»! (tr. it. p. 337) 6 Ivi. «(….) poi visto che il prigioniero non la smette più, il soldato non ascolta più» (tr. it., ivi). 7 Ivi. «(…) per la prima volta in blocco e come staccata da lui» (tr. it. ivi). 8 Ivi. «(…) in preda ormai ad una specie di conoscenza infinita, intrasmissibile» (tr. it., ivi). Non è forse vero che di fronte ad Auschwitz il sapere mostra la sua oscenità, il rovescio di quel desiderio su cui, d’altronde, si regge? Scrive Blanchot: «Il sapere, che accetta fino in fondo l’orribile per saperlo, rivela l’orrore del sapere, i bassifondi della conoscenza, la complicità discreta che lo mantiene in rapporto con ciò che vi è di più insopportabile nel potere. Io penso a quel giovane detenuto di Auschwitz (aveva subito il peggio, condotto la sua famiglia al crematorio, s’era impiccato; salvato come dire: salvato? – all’ultimo istante, lo si dispensò dal contatto con i cadaveri, ma quando le SS fucilavano, doveva mantenere

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I. LA SPECIE UMANA. ROBERT ANTELME O DELL’INVISIBILE

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nabile; il soldato se n’è andato via tranquillo: s’erano detti tutto quanto era possibile dirsi. Ma si potrebbe pensare: almeno fra di loro, fra quelli di «qui», si comprendono. Essi dovrebbero essere in grado di trasmettersi l’un l’altro un’esperienza che infine hanno patito insieme, dare nome a quell’evento di cui sono stati compartecipi. Sebbene di infimo grado, essi, comunque, costituiscono una comunità; hanno ricordi comuni, hanno condiviso sofferenze e brutalità che dovrebbero legarli ben più di quanto non faccia l’esistenza normale di quelli di «laggiù». Nemmeno questo è vero: mancando infatti il testimone, cioè il soggetto titolare dell’esperienza, è impossibile comunicare non solo con chi non l’ha vissuta, ma anche con colui che insieme a me la vive ancora. La fame, ad esempio, sebbene sia l’incubo – la fame che «n’est autre chose qu’une ossession»9 – di tutti e nello stesso momento, non è comune e, quindi, non li accomuna. La verità è che ciò che sembrerebbe generale, attributo di tutti, in realtà singolarizza e separa. È solo la mia fame, quella che mi spinge finanche a rubare una scorza di patata al mio vicino senza provare vergogna se non dopo – quando si è ritornati ad essere umani. Ma sarà poi la mia fame? Dirlo significherebbe poterla raccontare come un vissuto; poter dire cioè: io ho fame, la fame è un predicato che conviene a quel soggetto che io sono. Così potrei dire: questi sono i miei pidocchi, quelli che combatto ogni giorno, che si moltiplila testa delle vittime affinché fosse più facile conficcare una pallottola nella nuca). A chi gli domandava come aveva potuto sopportare tutto questo, rispondeva che ‘osservava il comportamento degli uomini davanti alla morte’. Non lo crederei. Come ha scritto Lewental le cui note sono state trovate sotterrate vicino ad un forno crematorio: “La verità fu sempre più atroce, più tragica di quanto se ne potrà dire”. Salvato all’ultimo istante, il giovane di cui parlo era ogni volta obbligato a vivere e a rivivere l’ultimo istante, ogni volta derubato della sua morte, che scambiava con la morte di tutti. La sua risposta (‘osservavo il comportamento degli uomini’) non era una risposta, egli non poteva rispondere. Resta, che, costretto da una questione impossibile, egli non poteva trovare alibi che nella ricerca del sapere, nella pretesa dignità del sapere: quest’ultima convenienza che noi crediamo ci sarebbe accordata dalla conoscenza. E come, in effetti, accettare e non conoscere? Noi leggiamo i libri su Auschwitz. Il voto di tutti, laggiù, l’ultimo voto: sappiate ciò che è accaduto, non dimenticate, e allo stesso tempo voi non lo saprete mai» (M. Blanchot, L’écriture du désastre, Paris 1980, pp. 130-131). Non solo, dunque, l’esperienza è irracontablie nel momento stesso in cui s’impone la necessità di dirla, ma soprattutto questo: il sapere (e non solo ad Auschwitz) è il supplemento dell’impossibilità della morte. Il sapere non è altro che questo desiderio di sapere la morte che, come verità del soggetto, si sottrae. Il sapere è il segno dei sopravviventi. 9 Ivi, p. 88. «(…) non è altro che ossessione» (tr. it., p. 98).

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IL DISCORSO E LA CENERE

cano, pendendomi a grappoli dai peli del pube, passeggiandomi sul corpo, annidandosi fra i capelli? Potrei dire: sono i miei pidocchi, è la mia fame, mi appartengono? Ma il detenuto può dire soltanto: c’è della fame, accade. C’è la fame, ci sono pidocchi, accadono botte. Solo queste frasi. Ora è proprio in questo culmine dell’impersonale, in questa perdita irreversibile del vissuto, e con esso della possibilità di dire io e di raccontare, che, per Antelme, l’esperienza del campo si compie: in questo spazio neutro e grigio, non più animato dalla presenza della soggettività, si mostra, senza tuttavia alcuna possibilità di rappresentazione, l’indivisibilità della specie umana. Ma è chiaro: l’appartenenza alla specie non è ciò che ci ricondurrebbe a noi stessi; se essa si mostra, si mostra come l’alterità assoluta: come l’altro in noi, come l’altro in me. La sua indivisibilità vuol dire appunto che non si può spartire, suddividere in parti uguali. La specie non è retta dal principio d’una economia distributiva quale quello del ‘a ciascuno il suo’: non è un eredità che in parti uguali spetti a tutti gli eredi. La specie non si divide, semmai se ne condivide l’indivisibilità. Appartenere alla specie significa vedersi spossessati: io non sono una parte della specie, ma la specie mi afferra e afferrandomi fa di me un altro. È forse questa la verità che, intrasmissibile, vuole tuttavia dirsi nell’impossibile racconto? In quel delirio del voler dire? Ma tale verità non viene a disturbare quella nostra fretta di archiviare Auschwitz come l’inimmaginabile e che d’altronde ci fa oscillare fra la volontà del pensiero vigile di ricordare e il desiderio profondo della dimenticanza? Non è sempre stato più facile dirci che in fondo le SS non appartenevano più alla specie umana, ribaltando semplicemente il loro desiderio di estromettere dalla specie gli ebrei e in generale tutti gli altri? In principio sembra che il detenuto sia l’io e la SS l’altro: quest’ultima vuole soltanto uccidere, dissolvere ciò che per lei non è nemmeno umano, ma bestiale, nient’altro che spazzatura. Ma già a questo primo livello una considerazione s’impone: come, infatti, potrebbe realizzare il suo desiderio di distruzione se veramente le riuscisse di eliminare anche l’ultimo deportato? Il godimento derivante dalla distruzione non ha forse bisogno di una vittima, della presenza dell’altro, foss’anche in vista della sua morte? E per ripetersi – come qualunque godimento – non ha bisogno di altre vittime ancora? La presenza del detenuto è necessaria allora alla SS per esercitare il suo desiderio di dominio e di distruzione. Cosicché il detenuto e la SS sembrano legati da una relazione tale per cui il boia ha bisogno della vittima e non esisterebbe

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I. LA SPECIE UMANA. ROBERT ANTELME O DELL’INVISIBILE

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senza di lei. Relazione che, come tutte le relazioni formali, implica la reciproca: e se essa ci appare aberrante ciò è dovuto al fatto che noi recalcitriamo di fronte alle conseguenze necessarie delle nostre stesse premesse: una volta istituita una relazione formale le posizioni, sincronicamente o diacronicamente, sono comunque intercambiabili. Non è forse vero che il servo, presto o tardi che sia, diventerà signore? Tuttavia tale dialettica ‘padrone-servo’ è troppo povera per render conto del campo. Essa infatti presuppone che fra le due autocoscienze s’instauri una relazione d’utilità. Ma è la premessa ad essere falsa: detenuto ed SS possono ancora essere pensati come delle autocoscienze? Se l’una sembra esserlo – la SS, il signore –, l’altra non è più una coscienza di sé per aver cessato d’essere una coscienza vivente. Ciò che la SS ha di fronte – ma anche accanto e forse dentro di sé – non è un’altra coscienza, bensì un’alterità radicale, tale perché divenuta altra finanche a se stessa. Se il servo si è reso tale per conservare almeno la certezza della vita, il detenuto è colui che ha perso, più che la possibilità del riconoscimento, quella della certezza stessa. Scrive Blanchot: «Se vogliamo, la relazione del boia con la vittima, di cui tanto si è parlato, non è unicamente una relazione dialettica, e il suo dominio non è limitato principalmente dal bisogno che il boia ha della vittima, sia pure per torturarla. È piuttosto il rapporto senza potere che fa sorgere ogni volta, di fronte e pure all’infinito, la presenza dell’altro come presenza di un altro»10. Ciò che si offre alla SS non è dunque un’alterità generica, quantificabile e manipolabile quanto si voglia, non un ‘fondo’ di materia umana su cui esercitare la tecnica – industriale certo, organizzata – della distruzione, bensì un nudo ed infinito altro che si sottrae alla sua presa. Così è fra il torturatore e il detentore di un segreto: certo l’abilità del torturatore si misura sulla sua capacità di non far morire il torturato – morto, la tortura avrebbe fallito il suo scopo; ma il fatto rilevante è che il torturatore non è in grado di abolire la distanza infinita che si apre non fra lui e il torturato, quanto fra quest’ultimo e il suo segreto stesso. Se tace sotto la tortura è perché ciò che l’altro vuoi sapere da lui, gli è improvvisamente apparso come qualcosa che egli non possiede, che non è suo e perciò non può dire: è divenuto un’alterità tale da renderlo altro a se stesso ed è per questo che tacerà fino a morire. 10

M. Blanchot, L’entretien infini, Paris 1969, pp. 194-195, tr. it. di R. Ferrara, Torino 1977, p. 178.

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IL DISCORSO E LA CENERE

La verità del campo, il suo accadimento, è allora la (non-)presentazione dell’altro d’ogni altro, di un’alterità, cioè, diversa da quella che si costituisce nella relazione con l’io. Se tale alterità è la specie umana, si comprenderà adesso perché quest’ultima non possa ridursi alla rimemorazione e al ritrovamento, alla riappropriazione del più autentico se stesso, bensì sia un movimento verso il fuori assoluto. Quale figura assume il fuori, l’altro, nell’esperienza di Antelme? In questa esperienza, scrive Blanchot, che è quella «dell’uomo ridotto all’irriducibile, troviamo il bisogno radicale che mi riferisce non più a me stesso, alla soddisfazione di me stesso, ma all’esistenza umana pura e semplice vissuta come mancanza al livello del bisogno»11. Se la riduzione dell’uomo ai bisogni elementari – mangiare, bere e procreare, come avrebbe detto Marx – può apparire da un lato come un’espulsione da una vita veramente umana, dall’altro, tuttavia, è proprio in essi che resiste, come in un ultimo ed irriducibile baluardo, l’umanità dell’uomo. Ma ad una condizione: che il bisogno perda qualunque riferimento alla sfera dell’io, alla regione della soddisfazione e dell’appagamento dell’ego; che sia colto come ciò che conduce l’io al di là di se stesso e lo sorpassa, infine, nella direzione di un ‘egoismo senza ego’12. Detto altrimenti, il bisogno mostra in filigrana, più che la sempre riconquistata identità con me stesso, il desiderio che mi costituisce in quanto uomo: il desiderio dell’altro. L’esperienza del bisogno – ma si 11

Ivi, p. 196, tr. it., p. 179. Ivi. Un «egoismo senza ego» comporta una disappropriazione del nome proprio. Si legga Blanchot: «Io penso all’appello dei nomi nei campi. Nominare porta il gioco mortale della parola. L’arbitrario del nome, l’anonimato che lo precede o l’accompagna, l’impersonalità della nominazione rifulgono alla maniera d’un terribile, in questa situazione in cui il linguaggio gioca il suo ruolo omicida. Il nome proprio – una cifra – è disappropriato dalla potenza stessa che lo designa e dalla potenza del linguaggio interminabile. Che significa il nome proprio qui? Non il diritto ad essere là in persona; al contrario l’obbligo spaventoso dal quale è tratto in pubblico, nel freddo, lo sfinimento del fuori e senza nulla che possa assicurare un rifugio, ciò che vorrebbe preservarsi a titolo di sventura privata. L’interdetto di non avere nulla di proprio e di non conservare nessun contegno è pronunciato attraverso la proclamazione del nome o di ciò che vi supplisce. L’appello nei campi fa apparire, certo in un modo che non lascia posto ad alcun decente mascheramento, il senso di ogni formalità civile (come di ogni verifica dell’identità, che dà luogo nei nostri raffinati costumi civilizzati, ad ogni violenza e ad ogni poliziesca privazione di libertà). Il linguaggio non comunica, mette a nudo e secondo la nudità – la messa al di fuori – che gli è propria e che si può solamente temperare, vale a dire pervertire per il ri-giro (détour) che è il gioco di questo «fuori» (dehors) sempre obliquo, gioco anche ed immediatamente del linguaggio senza diritto né direzione, indiretto come per gioco» (M. Blanchot, Le pas au-delà, Paris 1973, pp. 56-57). 12

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potrà ancora definirla esperienza, e se sì, in che modo, secondo quale senso inaudito della parola esperienza? – altera il rapporto di me a me stesso, fa di me lo sconosciuto, prima che ad altri, a quell’io che io sono; impedisce il riconoscimento che nella sua prima istanza si fonda sul primato della vita, sull’identità del vivente. Il bisogno, che fa di me una vita denudata – vivente messo a nudo nella sua abiezione – si stacca da me, non mi appartiene più, nel momento stesso in cui io avverto di appartenervi senza residui. Il bisogno è altro da me, ed essendo l’avvertimento della mancanza, mi fa mancare a me stesso. Mancanza ad essere radicale, il bisogno, divenuto esso stesso altro, è desiderio; in esso, nella sua impersonalità, che lo rende incarnazione della specie nel campo, risiede, come scrive Blanchot, «l’avvenire e il senso di tutti i valori, o meglio di tutti i rapporti umani»13. Ecco perché non io ho fame, né io sono la fame e la ricerca della sua soddisfazione, ma c’è della fame; fame che ha fame di me, bisogno radi13 M. Blanchot, L’entretien infini, cit., p. 196, tr. it., p. 180. Chiarisce Blanchot in un altro contesto: «Bisogna ancora meditare (ma è possibile?) su questo: nel campo, se il bisogno, come ha detto vivendolo Robert Antelme, regge tutto, mantenendo un rapporto infinito alla vita, fosse anche nella maniera più abietta (ma non si tratta più qui né di alto né di basso), consacrandola attraverso un egoismo senza ego, c’è anche questo limite in cui il bisogno non aiuta più a vivere, ma è aggressione contro tutta la persona, supplizio che denuda, ossessione di tutto l’essere là dove tutto l’essere si è disfatto. Gli occhi spenti, appannati, brillano improvvisamente di un bagliore selvaggio per un pezzo di pane, ‘anche se sussiste la coscienza che si morirà fra qualche istante’ e che non è più questione di nutrirsi. Questo bagliore, questo brillare non illuminano nulla di vivente. Tuttavia, attraverso questo sguardo che è un ultimo sguardo, il pane c’è donato come pane: dono che, la ragione abolita, i valori sterminati, nella desolazione nichilista, ogni ordine obiettivo rinnegato, mantiene la possibilità fragile della vita attraverso la santificazione del ‘mangiare’ (niente di sacro, intendiamo bene), qualche cosa che è donata interamente da colui che ne muore (‘Grande è il mangiare’, dice Lévinas, secondo una parola ebraica). Ma nello stesso tempo la fascinazione dello sguardo morente dove si coagula la scintilla di vita non lascia intatta l’esigenza del bisogno, fosse anche primitivo, non permettendo più di situare il mangiare (il pane) nella categoria del mangiabile. In questo momento estremo in cui morire si scambia contro la vita del pane, non più per soddisfare un bisogno, ancor meno per renderlo desiderabile, il bisogno – bisognoso – muore anche come semplice bisogno ed esalta, glorifica, facendone qualcosa di umano (ritirato, sottratto ad ogni soddisfazione), il bisogno del pane divenuto un vuoto assoluto in cui ormai noi non possiamo che perderci tutti. Ma il pericolo (qui) delle parole nella loro insignificanza teorica, è forse di pretendere di evocare l’annientamento in cui sempre tutto va a fondo, senza intendere il ‘tacete’ indirizzato a coloro che non hanno conosciuto che da lontano e parzialmente l’interruzione della storia. Tuttavia, vegliare sull’assenza smisurata, è necessario, senza posa, perché ciò che è ricominciato a partire da questa fine (Israele, noi tutti), è marcato da questa fine con la quale noi non finiamo di risvegliarci» (M. Blanchot, L’écriture du désastre, cit., pp. 133-134).

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cale che mi divora. Quando infine mi nutro, quando ingurgito la sbobba – unico cibo legittimo del campo –, o il pezzo di pane barattato con un rudimentale cucchiaio – e guai a mangiarlo con ingordigia, in un colpo solo –, o ancora la scorza di patata rubata al compagno, non nutro il mio corpo, non dono al mio ego una voluttà che resterebbe inspiegabile a quelli di «laggiù», ma nutro la fame e con essa la specie; accolgo, mangiando, l’altro: «L’altro, ospite non mio ma dell’ignoto e dell’estraneo»14. Ridotto ad una bocca affamata, la SS ha buon gioco a ridere di me, a disprezzarmi: non le dimostro forse quel che lei credeva da sempre, che non sono un uomo, ma una bestia? E tuttavia è questo mio non esser più nient’altro che fame, che attesta, contro e al di là d’ogni testimonianza possibile, che c’è ancora della specie umana. Si comprende allora perché Antelme dal fondo dell’abiezione possa dichiarare la sconfitta della SS. L’impotenza di quest’ultima non risiede nel bisogno – ora sappiamo che bisogno è una parola doppia, attraversata dall’alterità – della vittima perché sia riconosciuta come boia, bensì nel fatto, a prima vista impossibile, che la SS e il detenuto appartengono alla stessa specie umana. Ciò che la SS vede infine nel deportato non è l’altro, ma l’alterità radicale ed infinita cui anch’essa deve rispondere. Il culmine dell’esperienza del campo – l’irraccontabile cui si deve dare parola – è che la distanza dell’asservimento è doppiata ed oltrepassata da una distanza più grande: quella della specie. La SS fallisce, infatti, dinnanzi alla specie: vorrebbe convincersi che coloro che ha di fronte non siano degli uomini, ma bestie, merda, spazzatura. Ebbene, per quanto sprofondi nell’abiezione, l’uomo resta uomo: il limite della specie è invalicabile. La specie è ciò che la SS non può dividere, una differenza ultima e radicale che sfugge al suo potere di separazione fra eletti e degenerati, ariani ed ebrei, uomini e bestie. È questa infine la verità che Auschwitz dona al pensiero – e che d’ora in poi sarà anche l’unica cosa degna d’essere pensata – : «‘Les SS ne sont que des hommes comme nous’; si, entre les SS et nous – c’està-dire dans le moment le plus fort de distance entre les êtres, dans le moment où la limite de l’asservissement des uns et la limite de la puissance des autres semblent devoir se figer dans un rapport surnaturel – nous ne puvons apercevoir aucune différence substantielle en face de la nature et en face de la mort, nous sommes obligés de dire qu’il n’y a 14

M. Blanchot, L’entretien infini, cit., p. 196, tr. it., p. 180.

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qu’une espèce humaine»15. Certo un uomo lo si può ammazzare, «mais il ne peut pas le changer en autre chose »16. La SS appartiene alla specie, è una sua possibilità, la possibilità estrema: quella, cioè, in cui la specie continua ad affermarsi, senza mediazioni, fin dentro la negazione. La SS è la possibilità di uccidere; ma appunto uccidere il proprio simile non significa cadere al di qua della specie umana, così come il detenuto non ne veniva espulso per il solo fatto d’essere ridotto al bisogno. Uccidere, al contrario, vuol dire essere presi, ora e sempre, nella legge della specie, trovarsi sottomessi alla legge dell’altro. Il divieto ‘non uccidere’ indica che il dare la morte, l’asservimento, come l’abiezione della vittima, costituiscono, in quanto oggetti della legge, la specie umana da parte a parte. L’esperienza del campo non è, dunque, inimmaginabile, se con questo aggettivo, che esorcizzava la verità del campo, si vuole intendere il grado di distruzione che un uomo può giungere ad infliggere ad un altro uomo. Sempre, infatti, possiamo immaginare l’abiezione, la degradazione e la morte, come dall’altra parte la brutalità e l’odio: non è forse la morte, la lotta a morte fra gli uomini il fondamento del registro immaginario? L’inimmaginabile dunque attiene ad un altro registro: quello della verità; e la verità di Auschwitz è ciò che, al di là delle differenze, ma come differenza irriducibile, al di là di ogni relazione fra l’io e l’altro, ma come alterità radicale, noi abbiamo chiamato, sulla scia di Robert Antelme, la specie umana. Differenza della specie, specie come differenza: la specie umana, ossia, la verità che concerne l’uomo. L’esperienza del campo si muove, va incontro a tale verità, ma anche ne è chiamata. C’è una ‘vocazione’ della verità che avviene attraverso una violenza il cui corrispettivo è, tuttavia, una passività pura, priva del più minimo moto della volontà. E come potrebbe, d’altronde, il detenuto volere alcunché, lui che è ridotto a nulla, spogliato di tutti i tratti che lo identificherebbero come un io dotato di volontà – abiti, scarpe, capelli, desideri, sogni17, persi15 R. Antelme, L’espèce humaine, cit., pp. 229-230. «’Le SS sono degli uomini come noi’; se tra le SS e noi – nel momento cioè della più forte distanza tra esseri, nel momento in cui il limite dell’asservimento degli uni e il limite della potenza degli altri sembra doversi immobilizzare in unn rapporto sovrannaturale – noi non possiamo vedere nessuna differenza sostanziale nè di fronte alla natura nè di fronte alla morte; siamo costretti a dire che non vi è che una sola specie umana» (tr. it., p. 257). 16 Ivi, p. 230. «(…) ma non cambiarlo in qualche cosa d’altro» (tr. it., ivi). 17 Si legga la splendida pagina sui sogno tipico del campo – il sogno di tutti – in Primo Levi, Se questo è un uomo (Torino 1958): «Qui c’è mia sorella, e qualche mio

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no i nomi? Ma questo nulla di volontà, questa recettività assoluta, accoglie la violenza della verità, quell’ignoto che è la specie. Si comprende allora perché il reduce sia preso dal delirio del dire: come tacere quel che riguarda tutti, anche quelli di «laggiù», sebbene solo «qui», nel campo, si sia imposto in tutta la sua autorità: c’è della specie umana? Come sottrarsi al dovere di dire la verità dell’uomo, l’indivisibile che ci accomuna al di là delle differenze – uomini e donne, padroni e servi, borghesi e proletari – dalle quali siamo identificati e con le quali ci riconosciamo e chiediamo d’essere riconosciuti? Certo la specie indivisibile non azzera le distanze, non abolisce la dissimetria dei nostri rapporti, ma è pur vero che solo a partire da essa i ruoli ed i loro conflitti prendono senso. Per queste differenze si può lottare e morire (ed è giusto), ma esse rimandano ad uno spazio comune, sono comandate da una legge più alta, dalla legge della specie. Ma si comprende anche l’impossibilità del racconto. Raccontare, infatti, vorrebbe dire ricorrere all’immaginario: istituirsi come un io; aver qualcosa da dire in proprio, perché vissuta da me, e che, quindi, mi appartiene; qualcosa di cui io possa dichiararmi proprietario legittimo e, quindi, testimone attendibile. Ma «qui» neppure la fame è mia. amico non precisato, e molta altra gente. Tutti mi stanno ascoltando, e io sto raccontando proprio questo: il fischio su tre note, il letto duro, il mio vicino che io vorrei spostare, ma ho paura di svegliarlo perché è più forte di me. Racconto anche diffusamente della nostra fame, e del controllo dei pidocchi, e del Kapo che mi ha percosso sul naso e poi mi ha mandato a lavarmi perché sanguinavo. È un godimento intenso, fisico, inesprimibile, essere nella mia casa, fra persone amiche, e avere tante cose da raccontare: ma non posso non accorgermi che i miei ascoltatori non mi seguono. Anzi, essi sono del tutto indifferenti: parlano confusamente d’altro fra di loro, come se io non ci fossi. Mia sorella mi guarda, si alza e se ne va senza far parola. Allora nasce in me una pena desolata, come certi dolori appena ricordati della prima infanzia: è un dolore allo stato puro, non temperato dal senso della realtà e dalla intrusione di circostanze estranee, simile a quelli per cui i bambini piangono; ed è meglio per me risalire ancora una volta in superficie, ma questa volta apro deliberatamente gli occhi, per avere di fronte a me stesso una garanzia di essere effettivamente sveglio. Il sogno mi sta davanti, ancora caldo, ed io, benché sveglio, sono tuttora pieno della sua angoscia: e allora mi ricordo che questo non è un sogno qualunque, ma che da quando sono qui l’ho già sognato, non una ma molte volte, con poche variazioni di ambiente e di particolari. Ora sono in piena lucidità, e mi rammento anche di averlo già raccontato ad Alberto, e che lui mi ha confidato, con mia meraviglia, che questo è anche il suo sogno, e il sogno di molti altri, forse di tutti. Perché questo avviene? Perché il dolore di tutti i giorni si traduce nei nostri sogni così costantemente nella scena sempre ripetuta della narrazione fatta e non ascoltata»?(pp. 74-75). Primo Levi è tornato di recente sull’esperienza del campo in I sommersi e i salvati, Torino 1986. Poi ha posto fine alla sua ‘morte’, giacché, come tutti i ‘salvati’, era un sopravvissuto e, come tale, già da sempre morto.

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Oltre a ciò, raccontare implicherebbe far ricorso alle storie già note, alle identificazioni già date, far leva su di un intero archivio di racconti dal quale scegliere la forma più acconcia, la trama più adatta. Ma se Auschwitz è la fine d’ogni tramandamento, allora qualunque racconto è impossibile. Narrare rimanda a due forme d’autorità che si sorreggono l’un l’altra: quella dell’io e quella della tradizione. Ora, come abbiamo visto, nel campo l’io s’incrina fino alla più completa dissoluzione mentre la tradizione è come strangolata nella morsa dell’afasia. Più che darsi una pausa, la tradizione s’interrompe e si disperde e finanche le rovine cessano d’attestarla: l’antico non le nobilita più. Ma il ricorso al registro immaginario significherebbe anche animare il racconto con la potenza dei sentimenti, con il dispiegamento delle passioni; e tuttavia ad Auschwitz non c’è posto né per l’odio, né tantomeno per la pietà. L’odio confermerebbe la SS nella posizione illusoria del boia, la pietà la assolverebbe non tanto dall’orrore di cui è responsabile, quanto dalla soggezione all’indivisibilità della specie. E infatti della SS si ride, si ride della sua ignoranza infinita, così come si sorrideva di fronte a quella del soldato liberatore. Se il detenuto è come reso sacro dall’avvento in lui e attraverso lui della verità, la SS è stupida, immersa nella bêtise come tutti i signori. Ella resta impigliata in ciò che crede essere un sapere (o la verità stessa), il nazismo, che le cadrà addosso come le bombe: «Ils ne savant pas – scrive Antelme –, ces cons-là, ils sont la connerie, la connerie à rendre fou, ils ne savent pas ce qui va leur tomber sur le crâne. Ils ne se rendent pas compte qu’ils sont foutus, moins que rien, écrasés, de la poussière»18. E così Antelme vorrebbe ridere, ridere fino alla follia: «Je avais envie de taper sur l’épaule du copain, de rigoler fort, de crier. Tous ces hommes silencieux en rayé auraient pu rigoler»19. Alla pazzia dei pugni e delle botte contrapporre la follia del riso. Ridere, infatti, è la prova che non c’è nulla d’insegnabile ad Auschwitz, nulla di tramandabile e che possa, appunto per questo, costituire una tradizione o più semplicemente continuarla. La verità del campo, dunque, non è un sapere: non richiede un sistema di rego18

R. Antelme, L’espèce humaine, cit., p. 151. «Non sanno quei coglioni, quei coglioni, coglioni da matto, non immaginano quello che sta per piombargli in testa. Non si rendono conto che sono fottuti, che sono meno di niente, schiacciati, della polvere»? (tr. it., p. 170). 19 Ivi. «Avevo voglia di dare delle pacche sulle spalle del compagno, di ridere, di gridare. Tutti quegli uomini zebrati e muti avrebbero potuto riderne» (tr. it., ivi).

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le per essere prodotta – semmai ci coglie, impreparati come sempre –, non rimanda a delle strategie. Non si fa racconto: giacché, ancora, raccontare, fondandosi sempre sull’immaginario, significherebbe poter popolare l’orizzonte della narrazione, epica, drammatica o tragica poco importa, di personaggi, dotarli di maschere, e costruire per loro la peripezia, distenderli nel tempo del racconto che sempre si snoda fra il disconoscimento e l’agnizione, attribuire loro passioni, condurli ad una fine che sia la fine: soggiacere infine alle regole del buon racconto, del logos corretto. Ma Auschwitz è il nome proprio di un’altra scena: quella in cui, senza mostrarsi, la verità accade, fuori d’ogni intenzione come d’ogni legge, se non la propria: la legge instaurata dal suo accadere stesso. E tale avvenire della verità, che sorpassa le immagini e qualunque storia possibile, è l’esperienza del campo. Ma non abbiamo, in tal modo, legato con un tratto inconsueto l’esperienza e la verità? Non abbiamo chiamato col nome d’esperienza un evento da cui la coscienza è per principio assente? E, d’altra parte, non abbiamo determinato la verità come un avvenimento che non sopporta la forma dell’io, che non può essere pensato, cioè, come un enunciato, sorretto al pari di tutti gli altri enunciati, dal soggetto dell’enunciazione? Ora, è tratto precipuo della modernità aver fatto subire al concetto d’esperienza uno slittamento che l’ha condotto a confondersi con la sfera, dapprima psicologica, poi trascendentalmente depurata, del vissuto, facendogli perdere in tal modo quel suo significato originario di incontro con l’evento imprevedibile: processo questo che la lingua tedesca esprime con la differenza fra i termini Erlebnis ed Erfahrung. L’esperienza, dunque, non è più ciò che accade, bensì il vissuto: più propriamente ciò che mentre si dà è come raddoppiato dalla presenza a sé di una coscienza vivente. L’espressione ‘esperienza vissuta’, che incongruamente e tuttavia necessariamente, traduce il termine Erlebnis, non indica solo il carattere interiore attribuito d’ora in poi all’esperire, la messa fuori gioco dell’esteriorità in generale, ma anche e soprattutto la condizione formale dell’esperienza così intesa, vale a dire che l’esperire, inevitabilmente legato alla contingenza e alla fatticità del «qui e ora», per poter acquisire l’autorità della testimonianza diretta, deve, senza mediazioni, tradursi in memoria durevole, virtuale possibilità di trasmissione (da qui quel ‘vissuta’ altrimenti incomprensibile)20. 20 Sulla storia del termine Erlebnis si veda H.G. Gadamer, Wahrheit und Methode, tr. it. di G. Vattimo, Milano 1983, pp. 86-98.

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È chiaro che quel ‘senza mediazioni’, che ha unito l’esperire presente-vivente, la prossimità oculare/auricolare, in carne ed ossa, del testimone all’evento, e la durata della memoria, va preso con cautela. Nell’esperienza vissuta, infatti, il tempo non viene abolito, altrimenti la pensabilità di una ripresentificazione dell’esperienza sarebbe impossibile, e con essa qualunque instaurarsi di una tradizione. Il tempo deve sì procedere verso un annullamento, ma non essere, d’altronde, uguale a zero. Il tempo, di conseguenza, dovrà essere pensato come puro «ora» (nun) o come l’attimo (Augenblick). Non, dunque, il tempo come distensione o spaziatura dell’esperienza, bensì come ‘battito di ciglia’: metafora in cui si deposita proprio il carattere peculiare della testimonianza – l’ocularità, l’aver visto con i propri occhi. Sguardo che, infine, non verrà preso se non metaforicamente, designando una visione mentale-coscienziale che, nella sua prossimità all’evento, lo sorpassa di quel tanto che le permette d’intenzionarne il senso. Se Auschwitz è il nome proprio dell’accadere della verità, sarà chiaro, ormai, perché quest’ultima non potrà essere un vissuto coscienziale e perché non si darà nessuna coscienza che possa intenzionarla secondo un movimento di Sinngebung. Auschwitz non è riducibile ad una relazione noesi-noema. Tuttavia, se è vero che non si dà coscienza di Auschwitz e che Auschwitz non è pensabile come trama di Erlebnisse, non potremo sfuggire alla domanda di come sia possibile che, nonostante tutto, si dia un racconto di Auschwitz, per quanto esso mostri di sottrarsi alla forma canonica e tradizionale della narrazione. Soprattutto non dovremo evitare lo scoglio rappresentato dal fatto che, si tratti di Robert Antelme o di un altro, comunque c’è un soggetto che parla o scrive di Auschwitz. Come pensare allora un soggetto non coscienziale? E di più, come istituire un luogo da cui si può parlare e scrivere, rispettando tuttavia la condizione da cui siamo partiti: che esso non abbia la forma dell’io? La difficoltà proviene dal fatto che per un effetto strutturale della forma-racconto, raddoppiato nel nostro caso dall’uso della prima persona e dall’autorità derivante dal dato incontrovertibile che l’autore è stato veramente un detenuto del campo, sia quasi impossibile per il lettore sfuggire alla tentazione d’identificare in un sinolo psicologico colui che narra e colui di cui si narra – per non contare quella terza figura che va sotto il nome di ‘nome d’autore’. Ora, paradossalmente, supereremo l’ostacolo proprio se, facendo tesoro dell’impossibilità di pensare un testimone di Auschwitz, eviteremo di classificare la ‘letteratura concentrazionaria’ secondo i generi

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dell’autobiografia o del libro di memorie, e la assumeremo, al contrario, esattamente secondo il genere che le compete, cioè quello dei prodotti di finzione: come tale essa cadrà allora sotto le leggi generali di una narratologia21. Ed è proprio in nome di tali leggi che quella presunta unità psicologica, quel sinolo rappresentato dall’autore, con tutta ‘l’autorità’ che ne discende, si dissemina in una serie di istanze ciascuna governata da regole che la distinguono nettamente dalle altre; nell’ordine: un autore, una voce narrante, un attore della storia narrata. D’altronde, ricorrere ancora all’unità psicologica della persona, in riferimento al nome proprio Robert Antelme, significherebbe dimenticare che quella presunta individualità psico-fisica si era comunque già disseminata nel momento stesso in cui aveva scelto di affidarsi al medium della scrittura; in questo gesto dovuto, come si ricorderà, al delirio del voler dire e all’impossibilità del raccontare, erano stati messi fuori gioco il muto linguaggio del corpo e il faccia a faccia della parola orale. In tal senso Robert Antelme aveva già rinunciato ad esigere il riconoscimento della sua identità di vivente, della propria individualità psicologica – posto che esse esistessero da prima e posto che fossero uscite indenni dal campo –, a favore di una quasi-esistenza: quella prodotta dalla scrittura, per la quale il proprio statuto soggettivo si riduce alla consistenza di una firma e la vita si fa vita postuma. Vita fantasmatica alla quale l’autore cede ormai ogni diritto (tranne, appunto, quello d’autore). Così per noi Robert Antelme non può essere altro che un nome col quale denotiamo un corpo testuale per distinguerlo all’interno dell’immenso archivio delle tracce scritte. Già, dunque, una lettura ‘ingenua’ di L’espèce humaine ci dovrebbe distogliere da quella sicurezza con la quale tendiamo ad identificare con il narratore l’attore della storia narrata e questi con il nome d’autore, per non contare quello che sempre, implicitamente o no, firma un testo (e d’altronde l’autore non è mai apostrofato nel testo col suo nome proprio. Ma hanno poi senso i nomi nel campo?). Così non si danno identità determinate nella forma-racconto: tranne, forse, quella del nome d’autore che ne riceve una, giuridica ed astratta, dal diritto civile che garantisce, d’altronde solo in tempi recenti, il regime della proprietà letteraria. Se la lettura di L’espèce humaine ha mostrato come tratto precipuo dell’esperienza del campo, la dissoluzione di qualunque istanza d’iden21 Le leggi narratologiche cui si fa riferimento sono quelle elaborate da Gerard Genette, soprattutto in Discorso del racconto. Saggio di metodo, in Figures III, tr. it. di L. Zecchi, Torino 1976.

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tità, di qualunque autorità della coscienza intenzionale e/o psicologica; se la storia narrata ha messo in scena esattamente la sparizione dell’io a favore di un alterità radicale; se, dunque, in nessun caso il testo potrebbe narrare di qualcosa che dichiara scomparso; allora a maggior ragione le leggi narratologiche dovranno mostrarci la via di una possibile risposta alla domanda che abbiamo posto: chi parla (scrive) e da quale luogo? Chi è il soggetto, che in quanto tale è parola (scrittura), che si fa carico del delirio del dire e dell’impossibilità del racconto, che accoglie, cioè, nella parola (scrittura), la verità che accade nell’esperienza del campo? È che, in primo luogo, le istanze della narrazione non sono da considerarsi come degli elementi extra-testuali, bensì come delle funzioni del testo: esse, in altri termini, sono instaurate dalla pratica della scrittura, né sussisterebbero al di fuori di essa. Cosicché, sia che si tratti di una narrazione in terza persona, sia di una in cui il narratore dica ‘io’, l’effetto d’identificazione, per il lettore, fra l’autore e colui che narra e, nel secondo caso, fra quest’ultimo e l’attore della storia narrata, proverrebbe in realtà da una istanza specifica del testo, che la narratologia designa con il nome di voce narrante. In altri termini, l’identificazione delle funzioni narratologiche in una unità bio-psicologica (proiezione immaginaria prodotta a sua volta dall’economia della scrittura) si spiega col fatto che il lettore si trova di fronte ad una autorità che lo guida nella lettura del testo, e ciò in ogni caso, sia in quello più legato alle forme canoniche del racconto, sia in quello che rispetto ad esse voglia essere intenzionalmente trasgressivo. Il lettore, cioè, sa che c’è chi ne sa più di lui, un soggetto-suppostosapere dotato di un’autorità (e per questo identificato con l’autore) che non cesserebbe d’esistere nemmeno se egli chiudesse il libro e decidesse di non leggere oltre. Tale autorità ha già deciso tutto intorno alla storia, decide alle volte (e lo dice) pagina per pagina, scegliendo fra le possibili variazioni del racconto quella che più preferisce; il suo è un potere di vita e di morte sui personaggi che scompaiono e risuscitano per un suo semplice cenno; ed infine essa ha il potere di porre la parola fine. E se il desiderio del lettore fosse: «continua a narrare»? D’altronde una simile autorità non viene scalfita neppure nel caso in cui il narratore faccia finta di non conoscere tutta la storia e chiami il lettore ad una complicità come se entrambi dovessero stupirsi di quanto può ancora accadere e rispetto a cui essi godrebbero della beatitudine della dotta ignoranza. Non procederemo oltre nell’analisi delle istanze narratologiche: ci bastava isolare questa funzione della voce perché essa risponde in prima approssimazione alla questione che avevamo sollevato: chi parla (scrive),

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e da quale luogo? Ora sappiamo che nel testo scritto, narrazione impossibile di Auschwitz, il soggetto è la voce, non il nome d’autore Robert Antelme, né quell’individuo bio-psicologico che in un giorno dell’ultima guerra fu preso e deportato nel campo. Solo una voce. E se non potremo non meravigliarci del fatto che un’istanza del testo scritto sia chiamata la voce, non cercheremo come spiegazione di un simile paradosso soltanto il fatto che la narratologia qui si fa eco di un tempo in cui il primato spettava alla narrazione orale, ma ci riallacceremo a ciò che proprio L’espèce humaine ci ha mostrato: lo scritto occupa lo spazio inaugurato dallo scarto fra il delirio del dire e l’impossibilità del racconto; giacché, una volta escluso il mutismo del corpo e una volta riconosciuta l’inutilità della comunicazione orale, dove potrà realizzarsi il desiderio della parola – il desiderio di dire la verità di Auschwitz come verità della specie umana – se non nel supplemento della scrittura? Di fronte all’impossibilità della comunicazione immediata, il desiderio della parola ha una sola chance per non estinguersi, per realizzare la sua istanza di sopravvivenza: iscriversi, affidarsi alla ripetizione della scrittura. E allora se il medium della parola è la voce, la voce diverrà voce scritta. La voce scritta, si potrebbe dire, è un ‘fra’: sta fra la scrittura e l’a-voce. Cosicché la scrittura che fa da supplemento di una voce impossibile, da un lato ne conserva l’istanza e si definisce scrittura della voce, ma dall’altro attesta che la voce, divenendo voce della scrittura, si distingue nettamente da quella che denoterebbe la presenza a sé di una coscienza vivente. Allora quell’autorità della voce narrante si rivela apparente: giacché è come se la voce s’iscrivesse sotto la dettatura di una voce anteriore, della voce impossibile del delirio del voler dire divenuta a sua volta traccia cancellata o cenere in via di dispersione: voce che da sempre appartiene all’immemoriale, voce muta che si dice nel mutismo della scrittura. La voce scritta, dunque, rappresenta piuttosto il culmine di un non potere, una passività più passiva d’ogni passività: paziente accoglie l’accadimento della verità e risponde quindi alla violenza del vero con un’etica della passività. Essa sopporta la verità corrispondendo ad una ‘vocazione’ impossibile: dire l’impossibile a dirsi. Non era questa l’esperienza che la voce, cui noi diamo il nome di Robert Antelme, era chiamata a trasmettere: dare voce ad una voce di cenere? Ed è evidente che qui ‘cenere’ è ben più di una metafora: alla lettera è il resto di Auschwitz o, se volete, la lettera di Auschwitz. Lettera metaforica e non metaforica insieme: in qualunque modo voi vogliate leggere questa espressione, essa resterà indecidibile. Giacché come lettera e alla lettera, la cenere è l’invio di Auschwitz, il messaggio

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che da lì ci giunge per essere interpretato; e tuttavia la lettera è bruciata e il messaggio, quindi, indecifrabile. Come metafora, d’altronde, se la metafora voi vorrete prenderla, secondo il suo senso letterale, come quella possibilità di trasposizione del dato empirico e contingente nell’orizzonte del senso – la cenere materiale nella cenere come senso ed essenza di Auschwitz –, la cenere non farà altro che rimandarvi alla sua letteralità, al suo essere, cioè, il luogo in cui continua a bruciare la possibilità stessa del senso. Non si dà ermeneutica della cenere, nessun passaggio dalla lettera allo spirito come nessuna rianimazione della metafora morta attraverso una letteralità rivivificata. Come lettera la cenere è morta, come metafora è l’iscrizione di questa morte stessa. Solo adesso, dopo che la voce narrante si è rivelata come l’iscrizione di una voce perduta ed immemoriale, di una voce di cenere, si potrà porre la questione del luogo dal quale una voce parla (scrive): sarà chiaro, infatti, che tale luogo non potrà in nessun caso coincidere con l’assoluta trasparenza di una coscienza a se stessa, con una presenza a sé priva di residui, ma dovrà presentarsi come un’esteriorità radicale, come lo spazio stesso della morte. Una voce parla (scrive) da «qui». E certo sempre una voce parla (scrive) da un «qui», instaurando contemporaneamente un «là» verso cui si volge. Allo stesso modo una voce parla (scrive) sempre in un «ora», aprendosi allo stesso tempo al movimento delle ritenzioni e delle protensioni che vengono a costituire la sua temporalità. Già una celebre analisi, che stava lì ad inaugurare il cammino della coscienza, aveva fatto vedere come il «qui e ora» della certezza sensibile fossero in realtà governati dalla potenza del pensiero; bastava, infatti, un’analisi linguistica ante litteram per mostrare come il «qui ed ora» che costituiscono il «questo» della sensazione si rivelassero degli operatori universali; certo di una universalità semplice ed astratta, ma che aveva pur sempre già tolto la mera contingenza del dato empirico. Il semplice esperimento – così lo definisce Hegel – consiste in questo: «Noi appuntiamo per iscritto questa verità (che l’ora è la notte); una verità non perde niente per essere scritta, e altrettanto poco per essere conservata. Se ora, a mezzogiorno, noi ritorniamo a quella verità scritta, dovremo dire che essa sa ormai di stantio»22. In altre parole, se ora può denotare un qualunque «ora» empirico – la mezzanotte come il mezzogiorno – essa è un universale; e lo è in base al fatto che se con22

G.W. Hegel, Phänomenologie des Geistes, tr. it. di E. De Negri, Firenze 1963, vol. 1, p. 83.

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serva da un lato tutti gli ora empirici, dall’altro li toglie, li sottrae alla loro contingenza: nega l’immediatezza e conserva il senso. Lo conserva infine proprio perché lo estrae dalle singole determinatezze negandole in quanto tali. Come dice Hegel, se l’ora si conserva, si conserva come un negativo in generale. Si comprenderà la portata e la necessità di questa analisi, se, seguendo Hegel, la si vedrà come il discorso preliminare che ha di mira la possibilità di enucleare la forma dell’io già al livello della certezza sensibile. Nel dire «vedo qui quest’albero, lo vedo ora», che cosa non dilegua, ma anzi si fonda, se non l’io stesso? Infatti ciò che conserva il qui e l’ora che dileguano è l’io. Non c’è dubbio: come l’ora è insieme tutti e nessun ora determinato, così il «qui» che è tale per me, per un altro diviene il suo «là». Ma ciò che non dilegua «è l’Io come universale, il cui vedere non è un vedere né dell’albero né di questa casa, ma è un vedere semplice che, mediato dalla negazione di questa casa ecc., è altrettanto semplice e indifferente verso ciò che vi è in gioco: verso la casa, l’albero ecc. Io non è che universale, come lo sono ora, qui o questo in generale»23. Ma se l’ora ed il qui non fossero stati preventivamente mostrati come degli universali, operatori linguistici in cui si dice la negatività in generale, sarebbe stato possibile decifrare nella foresta della certezza sensibile l’io-coniglio, la semplice identità ‘io = io’? Come in un rebus appunto quando con un semplice esperimento di mutamento del campo percettivo finalmente vediamo – in un vedere che non è poi più tanto semplice – nell’intrico delle linee ciò che immediatamente, al primo sguardo, non era visibile. È che proprio in quell’esperimento semplice Hegel trascura l’essenziale: è poi vero che la verità non perda nulla ad essere scritta, ad essere conservata nella scrittura? O non sarà che scritta, archiviata, la verità si dia come perduta, si sottragga alla possibilità della mediazione, al movimento della negatività in generale come negatività che si trattiene nell’identità semplice dell”io = io’? Giacché scrivere un «ora», come scrivere un «qui», non è una pratica indolore che ci permetterebbe solamente di confrontare, esorcizzando in tal modo il rischio di un’improvvisa smemoratezza, due descrizioni con le quali abbiamo protocollato l’osservazione sensibile in momenti diversi del tempo, al fine di ricavarne una verità universale, benché ancora vuota. Un «ora» scritto è, al contrario, la ripetizione 23

Ivi, p. 86.

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di quell’ora determinato che solo attraverso la scrittura può sperare di non vedersi vanificato dall’indefinita successione del tempo, come un «qui» scritto dalla reciprocità inerente ad uno spazio formalizzato. Certo l’esistenza che il «qui» ed «ora» empirici ricevono dalla scrittura è una quasi-esistenza: quella fantasmatica e spettrale che spetta al ‘revenant’. Poiché solo come dei sopravvissuti essi possono eludere quella morte che inerisce al loro destino di pure contingenze24. Come trasmettere, dunque, il «qui» del campo, l’«ora» determinato della sofferenza, senza che essi si vedano mediati, e di conseguenza negati, nella universalità semplice dell’io = io? Senza che questo «qui» e questo «ora» divengano la leva per il cammino luminoso, benché conflittuale, della coscienza verso il sapere di sé? Certo iscrivendosi. Ma allora il «qui» da cui la voce parla (scrive) sarà solo un’eco o un facsimile mortale del «qui» del campo, un (non) luogo in cui la morte insiste come negatività infinita e per ciò stesso non mediabile; un (non) luogo che si situa in una dimensione extra-temporale dove alla successione è subentrata la ripetizione: l’insistere nel tempo di qualcosa che, passato ed immemoriale, tuttavia non passa: Hegel avrebbe detto, forse, «un passato senza tempo»25. Si potrà dire allora che il «qui» della voce ripete quello, infinitamente passato, in cui la verità della specie come alterità radicale che spossessa è accaduta, impedendo, per sempre, che il «qui» del suo avvenire potesse far da fondamento all’io. Il «qui» scritto è come il raddoppio spettrale del «qui» del campo, per cui la sua voce sarà il resto della voce impossibile che a quella verità voleva dar parola. Proviamo ora a ripetere questo movimento tornando al testo di L’espèce humaine: si sarà notato che la scrittura di Antelme è attraversata dall’opposizione fra il «qui» del campo e il «là-bas» dei rimasti liberi; opposizione che, d’altronde, risulta ben più determinante di quella, che s’impone a prima vista, fra il detenuto e la SS, la vittima e il suo boia. La differenza fra «ici» e «là-bas», nel corso dell’esperienza del campo, non fa che approfondirsi fino al punto di divenire una distanza invalicabile. Se al principio è ancora possibile pensare che la voce che parla (scrive) da «qui» si rivolga a quelli di «laggiù» come ai suoi 24

Sul tema della data e della sua ripetibilità si veda lo straordinario testo di Jacques Derrida, Schibboleth (Paris 1986), dedicato alla poesia di Paul Celan. 25 L’espressione hegeliana si riferisce, come è noto, al tema dell’«essenza»: cfr. G.W.F. Hegel, Wissenschaft der Logik, tr. it. di A. Moni, Bari 1968, p. 433. Su questo punto si veda A. Masullo, Hegel e il fondamento comunitario: l’accesso dialetticamente dischiuso, in Antimetafisica del fondamento, Napoli 1971, pp. 75-76.

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IL DISCORSO E LA CENERE

interlocutori, al suo alter-ego, istituendosi, dunque, come il testimone, il narratore che racconta a coloro che non sanno, ben presto questa impressione dovrà lasciare il posto, come abbiamo visto, alla consapevolezza che la voce parla (scrive) come se rispondesse ad una esigenza che non proviene da «laggiù», bensì da un desiderio che è emerso durante la permanenza stessa nel campo. La distanza è prima di tutto fisica: «qui», infatti, la fame deforma il volto, muta l’espressione a tal punto che se ora quelli di «laggiù» li vedessero non potrebbero riconoscerli – nessuno «ne sait là-bas, chez lui, quelle étrangeté pouvait receler cette figure». E a loro volta quelli di «qui», quando vanno col pensiero a quelli di «laggiù», non possono dirsi altro che questo: «ils ne peuvent savoir»; e pensano «aux innocentes de là-bas avec leurs visages inchangés qui demeurent dans un monde d’abondance et de solidité, avec des peines achevées qui semblent elles-mêmes d’un luxe inouï»26. Una pena compiuta, un dolore determinato «qui» possono apparire un lusso inaudito. E non certo perché «qui» non si dia dolore, ma perché «qui» il dolore partecipa di quella trasformazione che colpisce nel campo anche la più elementare delle esperienze: come la fame, anche il dolore è infinito, sconosciuto, mai provato prima. Il dolore è altro e, in quanto tale, estranea il soggetto da se stesso. Il campo, ancora, abolisce le differenze che hanno corso «laggiù»: quella, ad esempio, fra i belli ed i brutti. Il progressivo allontanamento da «laggiù» produce una deformazione di tutti che, alla fine, li omologa, abolendo le ultime differenze individuali. Tuttavia il detenuto può tentare di opporre un’ultima resistenza al processo che si sta compiendo in lui illudendosi che la sua presenza nel campo sia solo un accidente, dolorosissimo certo, capitato alla sua vita ‘normale’: se non è più possibile «ici» realizzare «rien de cette singularité, on pourrait quelquefois se croire hors vie, dans des espèces de vacances horribles»27. Il detenuto non sa che in questo momento è ancora vicino a quelli di «laggiù»; egli adotta, infatti, una strategia che loro useranno ben presto: quella di credere che Auschwitz non sia stato altro che una ‘vacan26 R. Antelme, L’espèce humaine, cit., p. 92. «Non possono sapere, – e pensano agli innocenti di laggiù con i loro visi immutati che vivono in un mondo di abbondanza e di solidità, con delle pene compiute, che ci sembrano anche quelle di un incredibile lusso» (tr. it., p. 103). 27 Ivi. «E poichè qui non è possibile realizzarla minimamente questa individualità, ci si potrebbe qualche volta credere fuori dalla vita, in una specie di vacanza orribile» (tr. it., ivi).

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za’, certo orribile, della storia, una pausa nel tranquillo scorrere della tradizione, chiusa la quale tutto sarebbe continuato come prima. Ma è solo un momento: subito, infatti, l’esperienza si compie: «Mais c’est une vie, notre vraie vie, nous n’en avons aucune autre à vivre (...) Ceux qui meurent, leur dernière vision est bien d’ici. Déjà, quand nous pensons, maintenant, c’est à cette vie que nous empruntons tous nous matériaux, non à l’ancienne, la ‘vraie’»28. «Qui» ha cancellato, infine, la memoria di «laggiù», la ‘vera’ vita non si darà più nemmeno come ‘vita in sogno’. Se si muore è di questa vita qui che si muore: la vita che ogni morente passa in rassegna un attimo prima di morire si data dal suo ingresso nel campo. Che cosa ha cessato di essere, durante il corso dell’esperienza, il «laggiù»? Antelme lo ha scritto senza possibilità di equivoci: di essere il luogo della verità, della ‘vera’ vita; «laggiù», piuttosto, è diventato l’emblema del non-sapere. È che proprio mentre si diveniva tutti uguali – rapati, smagriti e zebrati: tutti brutti – questa eguaglianza de-singolarizzante, ha posto tutti, SS compresa, di fronte a ciò che li accomunava secondo una verità che «laggiù» sarebbe restata invisibile (tranne che in rari momenti privilegiati e nell’esperienza di pochi), ma che solo «qui» poteva emergere in tutta la sua autorità: l’alterità radicale della specie. Allora «qui» non è più rivolto verso «laggiù», ma è ripetizione di un «là» dove la verità accadeva. E rispetto al soggetto dell’esperienza «qui» diviene il (non) luogo di un decentramento assoluto, il (non) luogo in cui avviene l’iscrizione del fuori. Si potrebbe dire allora che l’iscrizione è per la voce la modalità con la quale essa si dà tempo, si concede tempo in attesa di poter dire quella parola che all’origine era risultata impronunciabile. II tempo, infatti, come già abbiamo visto, cessa d’essere l’ora o l’attimo inestesi, in ciò solidali con l’identità semplice dell’io = io, per divenire piuttosto la distensione e la spaziatura dell’esperienza. Quando la voce si fa voce scritta ed entra nel tempo proprio della scrittura, essa mette a freno il desiderio del dire: il tempo della scrittura è, infatti, quello della ripetizione e della lentezza o, se si vuole, il tempo dell’attesa, ma di un’attesa sempre differita. Cercheremo, ora, di articolare quest’ultima affermazione tentando una lettura, che non potrebbe essere che parallela a quella di L’espèce 28

Ivi, pp. 92-93. «Eppure è una vita, la nostra vera vita, non ne abbiamo nessun’altra da vivere (…) È ben questa l’ultima visione di quelli che muoiono qui; e già. È da questa vita che noi prendiamo tutto il materiale per pensare, non dall’altra, dalla ‘vera’» (tr. it., pp. 103-104).

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IL DISCORSO E LA CENERE

humaine, di un testo letterario di Marguerite Duras dal titolo La douleur29. La scelta potrebbe sembrare dettata da un semplice dato biografico, che d’altronde il nome d’autore non si è preoccupato di nascondere. La storia di cui il testo narra non è altro che questa: «qui», nella Parigi da poco liberata, Marguerite Duras attende il ritorno dal campo, da «laggiù», di Robert Anteime, suo marito. E tuttavia quanto di autobiografico è presente nel racconto, è solo la preistoria del testo: come in una tragedia antica l’araldo racconta gli avvenimenti passati della stirpe di cui il presente dell’azione sarà la ripetizione stravolta, così noi apprendiamo subito che l’amore e la sua sanzione giuridica – il matrimonio – fra Robert Antelme – che il testo designerà con la sigla Robert L. – e Marguerite Duras si sono consumati ben prima dell’inizio della deportazione e che quanto ora è accaduto non li farà per questo rivivere30. La questione che un testo siffatto, o la sua voce narrante, sollevano potrebbe enunciarsi in questo modo: che cos’è un’attesa di qualcuno col quale non esiste più nessun legame psicologico, qualcuno cui non si può più dire «io ti amo» o «sei mio marito»; al quale, cioè, non ci lega più nessun ‘discorso’, né d’amore, né quello sigillato da un pubblico patto? Che cos’è, insomma, un’attesa pura? Ed insieme con essa, un dolore, che per non essere provato per un alter-ego, si presenta anch’esso come un dolore assoluto, sciolto da qualunque condizione empirica? Ma si sarà visto subito che la ragione che ci spinge verso un testo come La douleur è anche un’altra; e riguarda la questione del luogo, del «qui», da cui una voce parla (scrive). Infatti la situazione che avevamo descritta a proposito di L’espèce humaine viene dal testo di Marguerite Duras come invertita, pur restando ad essa simmetrica: il «qui» del La douleur non è altro che il «laggiù» di L’espèce humaine e viceversa. Tale corrispondenza quasi speculare dovrà condurci, infine, esattamente al di là di ogni ipotesi ‘speculativa’, ad interrogarci sul soggetto come su ciò che sopporta nella parola impossibile, e perciò nella pratica della scrittura, l’accadere della verità. Dovrà, in altri termini, permetterci di tematizzare ancora più da presso lo statuto del «qui» da dove ogni soggetto parla (scrive). 29 M. Duras, La douleur, Paris 1985, tr. it. di L. Guarino e G. Mariotti, Milano 1985. L’accostamento fra i due testi è dovuto non a mere ragioni biografiche – R. Antelme era il marito di M. Duras –, bensì al loro asimmetrico corrispondersi nel tentativo di mettere in discorso l’esperienza impossibile della verità. Per questa ragione L’espèce humaine e La douleur costituiscono, ci sembra, un dittico fondamentale della riflessione morale contemporanea. 30 Su questi aspetti biografici connessi con la partecipazione alla resistenza si veda ora N. Fornasier, Marguerite Duras. Un’arte della povertà, Pisa 2001, pp. 99-152.

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Dunque, la voce attende; attende che qualcuno torni dal campo. Il suo è un oscillare continuo fra la disperazione e quell’improvvisa speranza che in un attimo si spegne. Un momento Marguerite è come attraversata da una certezza irrefutabile: è vivo. Ma immediatamente tale immagine è scacciata da un’altra: è morto, da giorni, da ore, forse da un secondo solo. Morto in quell’attimo in cui lei ha detto: è vivo. Ora lo immagina addirittura ritornato, salvo; e senza soluzione di continuità vede il suo cadavere: giace in una fossa comune o sul ciglio di una strada tedesca. Ma accade che quanto più Marguerite attende, tanto più l’attesa si stacca da lei: come l’esperienza si staccava da Robert così l’attesa si separa da Marguerite ed ella può vederla tutt’intera, ‘en bloc’. L’attesa giace accanto a Marguerite: «qui» Marguerite, «là» l’attesa. Ma infine «on n’existe plus a côté de cette attente»31. E accaduto che durante l’attesa, l’attesa ha risucchiato il soggetto: questi si è dissolto nell’attesa o è divenuto nient’altro che attesa. Non più, dunque, «io ti attendo», bensì «c’è dell’attesa». La voce dice (scrive) solo questa frase. Ma se non c’è più un soggetto che attende, vi sarà allora un soggetto da attendere? «Je n’attends plus tellement j’ai peur. C’est fini, c’est fini? Où es-tu? Comment savoir? Je ne sais pas où il se trove. Je ne sais plus non plus où je suis. Je ne sais pas où nous nous trouvons. Quel est le nom de cette endroit-qui? Qu’est-ce que cet endroit? Qu’est-ce que c’est toute cette historie? De quoi s’agit-il? Qui c’est ça Robert L.? Plus de douleur. Je suis sur le point de comprendre qu’il n’y a plus rien de commun entre cet homme et moi. Autant en attendre un autre. Je n’existe plus. Alors du moment que je n’existe plus, pourquoi attendre Robert L.? Autant en attendre un autre si ça fait plaisir d’attendre? Plus rien de commun entre cet homme et elle. Qui est Robert L.? A-til jamais existé? Qu’est-ce qui fait ce Robert L., quoi? Qu’est-ce qui fait qu’il soit attendu, lui et pas un autre? Qu’est-ce qu’elle attend en vérité? Quelle autre attente attend-elle»?32 31

Ivi, p. 43. «Questa attesa, viverla significa non esistere più» (tr. it., p. 35). Ivi, p. 46. «Non aspetto più, tanto è la paura. È finita, è finita? Dove sei? Come saperlo? Ignoro dove sia. Neanch’io so dove sono. Che luogo sia questo. Che nome abbia. Che razza di storia sia. Di che si tratta? E chi è, questo Robert L.? Finito il dolore. Eccomi sul punto di capire che non c’è nulla di comune fra quell’uomo e me. Tanto varrebbe aspettarne un altro. Non esisto più. Se non esisto più, perchè aspettare Robert L.? Posso aspettare un altro, se mi fa piacere aspettare. Tra lei e quell’uomo, niente di comune. Chi sarebbe poi, questo Robert L.? È mai esistito? Cosa fa, Robert L.? Perchè lui sarebbe atteso, lui e non un altro? E lei: cosa attende veramente? Di quale altra attesa è in attesa»? (tr. it., p. 37). 32

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IL DISCORSO E LA CENERE

Non è questa la domanda inquietante? Non «perché attendere» dal momento che chi attende ha cessato di esistere e colui che era atteso è divenuto sconosciuto, bensì «quale attesa si attende quando non si attende nessuno»? E quale dolore per questa attesa, se anche il dolore non ha più oggetto? Eppure la risposta è là, la voce l’ha scritta: c’è un piacere d’attendere, un godimento dell’attesa più forte di quello che si potrebbe ricevere da un ritorno, in carne ed ossa, di colui che si attendeva. C’è come un desiderio dell’attesa il cui oggetto è l’attesa stessa. Attendere, infatti, non produce nulla di reale; nell’attesa nulla era accaduto: Robert L. non era tornato, né la sua morte era stata ratificata una volta per tutte da una testimonianza attendibile. La voce, tuttavia, può dire: «En apparence rien n’était arrivé»33. Appunto, solo in apparenza; giacché durante l’attesa quel che è arrivato è stata l’attesa stessa. L’attesa è arrivata come un’alterità radicale: se Marguerite attende, in verità è l’altro che attende e si attende attraverso di lei. Se ora il desiderio dell’attesa è l’attesa stessa, cosa accadrà quando colui che non si attendeva, sarà, al contrario, ritornato dal campo? Ma di fronte a questa ipotesi, che solo illusoriamente porrebbe fine all’attesa, la voce si era già premunita: non solo non lo avrebbe riconosciuto, ma non sarebbe stata là ad attenderlo; prima essa sarebbe morta nell’attesa. « S’il revenait nous irions, à la mer, c’est ce qui lui ferait le plus de plaisir. Je crois que de toutes façons je vais mourir. S’il revient je mourrait aussi. S’il sonnait: ‘Qui est là. – Moi, Robert L.’, tout ce que je pourrais faire c’est ouvrir et puis mourir. S’il revient nous irions à la mer. Ce sera l’été, le plein été. Entre le moment où j’ouvre la porte et celui où nous nous retrouvons devant la mer, je suis morte. Dans une espèce de survie, je vois que la mer est verte, qu’il a une plage un peu orangée, la sable. A l’interieur de la tête la brise salée qui empêche la pensée »34. Durante l’attesa Marguerite non ha solamente consumato la morte di Robert, ma è morta lei stessa. Se s’immagina con Robert tornato, 33

Ivi, p. 47. «Niente di nuovo sembrava essere accaduto» (tr. it., p. 38). Ivi, p. 37. «Se tornasse, andremmo al mare, la cosa che gli piacerebbe di più. In ogni caso io morirò, ne sono convinta. Pure se torna, morirò. Suonasse ora: ‘Chi è. – Io, Robert L.’, tutto quello che potrei fare è: aprire la porta e morire. Se torna andremo al mare, sarà estate, piena estate. Fra me che apro la porta e il momento in cui ci ritroviamo davanti al mare, la mia morte. Non più viva, ma ancora viva, vedo il mare verde, una spiaggia di tenue color arancione, la sabbia. Dentro la testa, la brezza mi impedisce di pensare» (tr. it., p. 31). 34

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sulla spiaggia, in piena estate, lo può fare solo in una specie di sopravvivenza; se la brezza salata le impedisce di pensare è perché ella è morta come io, è soltanto il «là» dell’attesa: morta a se stessa in quell’intervallo smisurato e tuttavia senza tempo che si è disteso fra il momento in cui lui ha bussato alla porta e quello in cui sono al mare. E quando l’immagine del ritorno si sarà realizzata essi potranno incontrarsi sul solo terreno della sopravvivenza. Robert è tornato in carne ed ossa, ma la sua convalescenza assomiglierà sempre di più ad un’agonia. Per un tempo lunghissimo il testimone oculare, in carne ed ossa, non sarà altro che fame ed evacuazione, un essere umano ridotto allo stato elementare del bisogno, solo una macchina che espelle senza soluzione di continuità tutto quanto vi si immette. Marguerite lo curerà; ma mentre lo accudisce non cesserà d’attendere. Lui fame, lei attesa. Infine sono sulla spiaggia, in piena estate, e l’attesa si compie. Marguerite lo guarda e mentre lo guarda, la voce scrive: «Je l’ai regardé. Il a vu que je le regardais. Il clignait des yeux derriere ses lunettes et il me souriait. Il remuait la tête par petits coups, comme on fait pour se moquer. Je savais qu’il savait, qu’il savait qu’à chaque heure de chaque jour, je le pensais: ‘Il n’est pas mort au camp de concentration’»35. Non è morto: vuol dire forse che è vivo? Neppure. Giacché come si potrebbe definire ancora una vita quel sovrappiù d’esistenza che, come un dono inatteso, accade a colui che, per il solo fatto di essere un detenuto del campo, aveva la morte come destino? Robert era già da sempre morto, come abbiamo visto, alla vita di «là-bas», e dunque, da sopravvissuto, non solo non gli sarà mai più concesso di vivere come prima, ma non potrà nemmeno più sperare di morire di una morte normale. Se di qualcosa sarà testimone lo sarà solo di questo: non è morto nel campo – come gli altri. In tal modo il «qui» di La douleur ci permette d’articolare quello di L’espèce humaine: il «qui(là)» è lo spazio della sopravvivenza in cui il soggetto arresta la sua destinazione mortale al fine di poter dire (scrivere) la verità della (non) esperienza. Tutto ciò è racchiuso in quella frase che da sola vale più di un racconto: «Io lo sapevo che lui sapeva, che sapeva che a ciascun’ora di ciascun giorno lo pensavo: ‘lui non è morto nel campo di concentramento’». 35

Ivi, p. 81. «L’ho guardato. Ha visto che lo guardavo. Strizzava gli occhi dietro le lenti e mi sorrideva, scuoteva appena la testa, come scherzasse. Sapevo che sapeva. Sapeva che ad ogni ora del giorno io pensavo: ‘Non è morto nel campo di concentramento’» (tr. it., p. 60).

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IL DISCORSO E LA CENERE

A sua volta la voce di La douleur per rivelarci la natura del «qui» di L’espèce humaine si è dovuta offrire ad un’esperienza analoga: rendersi paziente di fronte all’avvento del suo desiderio. Nell’attesa Marguerite ha vissuto la morte di Robert, di quell’individuo empirico cui, d’altronde, più nulla la legava se non il fatto bruto della sua deportazione. Assumendo su di sé la morte dell’altro, ella è morta a sua volta a se stessa, cosicché anche la voce di La douleur è ciò che resta di un soggetto, la sua sopravvivenza. Ora, se una ragione lega L’espèce humaine e La douleur, essa non riguarda il tratto biografico-psicologico che sembra accomunarli – e che appartiene semmai alla loro preistoria –, né la loro natura di testi classificabili nella rubrica letteraria, bensì il fatto che dal loro accostamento scaturisce una domanda che appella la riflessione filosofica: come avrebbe detto Benjamin, le opere sono rispetto alla filosofia «le forme in cui appare l’ideale del suo problema»36. E qual è l’ideale del problema filosofico? La questione della verità ed insieme quella del suo desiderio. Ed infatti L’espèce humaine ha individuato lo statuto della verità della specie umana nel territorio dell’extra-racconto, nello spazio della non rappresentazione37; dal suo canto, La douleur ci ha condotti 36 W. Benjamin, Goethes Wahlverwandtschaften, in Gesammelte Schrzften, Band I, 1, Frankfurt am Main 1980, p. 172, tr. it. di R. Solmi in W. Benjamin, Il concetto di critica nel romanticismo tedesco. Scritti 1919.1922, vol. I delle Opere a cura di Giorgio Agamben, Torino 1982, p. 225. 37 Su questo grande tema del racconto, che ci occuperà ancora nel corso di queste considerazioni, ci sembra decisiva – e tanto più quanto si distacca dalle tesi che noi tentiamo di articolare – la ricca e complessa ricerca di Paul Ricoeur consegnata nei tre volumi di Temps et récit (I, Temps et récit; II, La configuration dans le récit de fiction; III, Le temps raconté, Paris 1983, 1984, 1985). A partire dalla tesi, sostenuta nel primo volume, secondo la quale solo la forma racconto (la mise en intrigue) è in grado, senza rimuoverla, di dare forma ed espressione alla «discordanza temporale» (da qui la lettura parallela ed incrociata del libro XI della Confessioni di Agostino e della Poetica di Aristotele), la ricerca di Ricoeur si allarga fino a porre la questione di un rapporto fra la ricostruzione storica del passato e il racconto di finzione, in vista di un riorientamento generale dei problemi connessi allo statuto dell’interpretazione. Impossibile ripercorrere qui la fitta sequenza di analisi, la ricca trama di argomentazioni, il raggio delle aperture teoriche di cui il testo è disseminato. Ricorderemo soltanto la ripresa del tema della ‘traccia’ connesso con quello dello statuto del passato (III, pp. 175-186) e l’ancoraggio della conoscenza storica al ‘debito’ che si ha nei confronti dei ‘predecessori’. Ma non possiamo passare sotto silenzio l’unico punto di tutta l’opera in cui Ricoeur chiama in causa l’olocausto: in un contesto in cui si pone la questione della possibilità dell’intersecazione fra la storia e la finzione letteraria, Ricoeur individua una delle modalità della «fictionalisation de l’histoire» nel fatto che esistono degli avvenimenti ai quali una comunità storica attri-

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I. LA SPECIE UMANA. ROBERT ANTELME O DELL’INVISIBILE

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verso una pensabilità del desiderio come attesa sempre ripetuta: attesa che attende nient’altro che se stessa. Di più: la messa in relazione di questi due testi ci ha fatto intravedere una relazione fra la verità, l’attesa del desiderio e il dolore. Dovremo, in altri termini, predisporci a pensare qualcosa come un dolore del pensiero. Un dolore assoluto, una strutturale ed inevitabile ‘infelicità della ragione’. Un dolore, cioè, sciolto da qualunque motivazione empirica e che riguarda soltanto il desiderio della verità. Come se quest’ultimo non potesse darsi se non alla condizione di dover subire l’esperienza del dolore, come se solo il dolore fosse la via d’accesso alla buisce un carattere di marca poiché in essi vede un’origine, ossia il luogo a partire dal quale si fonda o si rinforza la coscienza della sua identità: dice Ricouer, la sua «identità narrativa». Questi avvenimenti «generano dei sentimenti d’una intensità etica considerevole, sia nel registro della commemorazione fervente, sia in quello dell’esecrazione, dell’indignazione, della deplorazione, della compassione, cioè dell’appello al perdono» (III, p. 272). Tale è, ad esempio, lo statuto della rivoluzione francese. È evidente il carattere ‘mitico’ di tali avvenimenti che convive, tuttavia, con le strategie, le più avvertite, della conoscenza storica. Ora, è vero, dice Ricoeur, che «ciò che rende sospetta la commemorazione cerimoniosa, è la sua affinità con la storia dei vincitori (III, pp. 272-273), ma è anche vero, che accanto al «tremendum fascinosum», che fa di un qualsiasi evento storico qualcosa di sacro e per ciò stesso venerabile, esiste un «tremendum horrendum». Quale beneficio apporta quest’ultimo alla conoscenza storica? Se «l’orrore è il negativo dell’ammirazione, come l’esecrazione lo è della venerazione», allora l’orrore è la marca di quegli avvenimenti che è necessario «non dimenticare mai». L’orrore costituisce «l’ultima motivazione etica della storia delle vittime». Le vittime non sono i vinti, che già sono candidati ad una futura dominazione; piuttosto la «vittimizzazione è questo rovescio della storia che nessuna astuzia della Ragione perviene a legittimare e che manifesta piuttosto lo scandalo di ogni teodicea della storia». Auschwitz è uno di tali eventi: le sue vittime «sono, per eccellenza, i delegati presso la nostra memoria di tutte le vittime della storia» (III, p. 273). Sul piano della conoscenza storica, l’orrore, di cui Auchwitz è l’esempio principe, ha una funzione individuante: la conoscenza storica ha a che fare con eventi unici, eventi che si stagliano sullo sfondo del tempo cosmico e che operano la trasformazione dell’istante qualunque, mero «ora» della serie temporale, nel presente vivo del tempo storico. A partire da qui l’evento unico può fare da fondamento o origine, dettare le condizioni della narrabilità degli eventi successivi, aprire lo spazio della scienza storica. Esiste una scienza storica – è la domanda di Ricoeur – senza la mitizzazione dell’evento? Sia essa ottenuta attraverso la venerazione o attraverso l’orrore? È questa una delle chiavi del discorso che tenta di pensare il rapporto fra conoscenza storica e racconto. Ma se l’evento non sopporta la forma racconto? Se Auschwitz è l’irracontabile e non apre, di conseguenza, nessun tramandamento, se non inaugura nessuna storia e, dunque, nessuna conoscenza storica? Ricoeur non contempla tale possibilità. Essa è, al contrario, quella da cui prende l’abbrivio il nostro discorso: e se dopo Auschwitz non ci fosse più storia? Se ad Auschwitz si fosse inabissata la possibilità stessa di fare storia, di conoscere e di raccontare?

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IL DISCORSO E LA CENERE

consapevolezza che la verità è l’alterità radicale, l’esteriorità ed il fuori assoluti; ciò che, in altre parole, si situa fra la necessità del dire e l’impossibilità del racconto. Solo una voce sospesa fra la scrittura e l’a-voce è in grado di ripetere nello spazio della sopravvivenza tale statuto del vero, di donare, appunto, ad esso la voce che gli manca. Ed è per questo che le voci s’iscrivono ed iscrivendosi scrivono la loro attesa ed il loro dolore. Scrivono per attendere; scrivono in attesa di una parola avvenire.

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Capitolo secondo Lyotard I. La decadenza del racconto

Un récit? Non, pas de récit, plus jamais. M. Blanchot, La folie du jour

Nel La condition post-moderne Jean-François Lyotard ha sollevato una questione che mostrerà subito la propria relazione con il discorso che andiamo costruendo. S’intende per post-modernità una situazione storica in cui si registra la crisi di legittimazione dei cosidetti meta-racconti. Ma per giungere al punto che più ci interessa, è necessario in primo luogo ricostruire per brevi tratti il ragionamento di Lyotard. Il dato di partenza è offerto dalla crescente importanza che nella società contemporanea vengono ad assumere i saperi scientifici – importanza che trova la propria causa nel processo d’informatizzazione del sapere. Le conseguenze di tale processo riguardano, come è ovvio, lo statuto stesso dei saperi, e cioè le condizioni della loro produzione e della loro trasmissione: ciò che in altri termini si indica sotto il binomio ricercainsegnamento. L’informatizzazione produce come suo primo effetto l’esteriorizzazione del sapere rispetto al soggetto del sapere stesso. Lo schema tradizionale in base al quale ogni acquisizione di sapere avveniva attraverso l’osmosi di soggetto ed oggetto, forma e contenuto, e che trovava la propria espressione teorica nel concetto della Bildung, si mostra sempre più impraticabile. Se l’informatizzazione consiste nella trasformazione dei saperi in quantità d’informazione il più possibile prive di ridondanza e di rumore, con il risultato di ridurre al minimo il tempo di trasmissione, e se attraverso l’archivizzazione computerizzata delle informazioni così ottenute, permette quasi automaticamente la loro combinazione secondo regole che diventano sempre più articolate, allora il soggetto scientifico (ma anche il soggetto insegnante) tenderà ad occupare un posto via via più marginale nel processo di formazione del sapere. Là dove quest’ultimo tende a presentarsi come un reticolo (secondo, ad esempio, i modelli del labirinto o dell’albero a

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IL DISCORSO E LA CENERE

ramificazioni infinite), il soggetto apparirà come un terminale la cui possibilità d’intervento (e, dunque, di auto-formazione) nel processo complessivo è minima. Con termini che solo apparentemente potranno sembrare obsoleti o semplicemente incongrui, si potrebbe chiamare la situazione descritta come la ‘sostanza senza soggetto’. A questo punto emerge da parte di Lyotard la prima obiezione: la decentralizzazione del soggetto rispetto ai processi di produzione e trasmissione dei saperi non annulla, bensì, al contrario, intensifica al massimo grado la questione della legittimazione. Nessun sapere, infatti, si legittima in quanto tale per il suo solo esserci di fatto. Ed è evidente: un sapere si distingue, e pretende distinguersi, dalla mera opinione, pena l’impossibilità di definirsi come sapere; esso deve, di conseguenza, fondarsi a partire da una necessità di diritto. Ad un primo livello, quindi, gli enunciati si definiranno veri in nome della loro conformità alle regole e alle procedure in base alle quali essi vengono prodotti. Ma, ad un secondo livello, un processo (termine che qui va assunto nel significato che gli deriva dalla sfera giuridica) di legittimazione dovrà riguardare la ‘verità’ delle condizioni formali che legittimano gli enunciati. In questo caso il problema si sposta, dal momento che si tratta di legittimare l’autorità in nome della quale un ‘legislatore’ può decidere che siano considerate vere quelle regole e quelle procedure che delimitano un sapere determinato e che rendono, in base al criterio della conformità, veri gli enunciati. C’è da chiedersi se nel primo e nel secondo caso il significato del termine verità resti il medesimo. La risposta non può essere che negativa: infatti, mentre per gli enunciati si tratta di constatare se il modo con cui sono stati prodotti corrisponde alle regole di produzione di quel sapere, per queste ultime si tratta, invece, di stabilire la fonte della loro legittimità, cioè l’autorità a partire dalla quale esse vengono prescritte come ‘giuste’ allo scopo di costituire quel sapere determinato e, di conseguenza, la validità dei singoli enunciati. Un processo di legittimazione è, dunque, sempre doppio: esso riguarda, infatti, sia il registro della verità, sia, quello della giustizia. Come nota Lyotard: «A partire da Platone la questione della legittimazione della scienza è indissolubilmente legata a quella della legittimazione del legislatore. In questa prospettiva, il diritto di decidere ciò che è vero non è indipendente dal diritto di decidere ciò che è giusto, anche se gli enunciati sottoposti alle due autorità sono di natura differente»1. 1 J. F. Lyotard, La condition post-moderne, Pais 1979, p. 20, tr. it. di C. Formenti, Milano 1985, p. 19. Si vedano le rispostre di Lyotard alle polemiche suscitate dal suo libro in J. F. Lyotard, Il postmoderno spiegato ai bambini, tr. it. di A. Serra, Milano 1987.

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II. LYOTARD I. LA DECADENZA DEL RACCONTO

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Archiviamo in memoria quest’ultima osservazione e proseguiamo nella ricostruzione dell’argomentazione di Lyotard, prendendo in considerazione la seconda obiezione alla tesi di un primato senza residui dei saperi informatizzati. Accanto ai saperi scientifici in senso stretto esistono, e non necessariamente in posizione subordinata, saperi che si definiscono narrativi e le cui caratteristiche sono rappresentate dall”equilibrio interno’ e dalla ‘convivialità’. Con queste due espressioni si vuole intendere che tali saperi conservano, a differenza di quelli scientifici e informatizzati, un rapporto fra il soggetto del sapere e il sapere stesso, e implicano uno scambio fra i soggetti impegnati nella ricerca e/o nell’insegnamento di quel determinato sapere. Da qui, come nota Lyotard, non solo è derivata la possibilità di porli in opposizione ai saperi scientifici, ma anche quella di attribuire loro una valenza rivoluzionaria nei confronti della società post-moderna automatizzata ed impersonale. I saperi cosidetti narrativi sono quelli che, con un termine anche questo solo apparentemente obsoleto, si potrebbero definire i saperi delle ‘scienze dello spirito’, vale a dire quei saperi (termine che qui va preso nel senso generale del saperci-fare, del saper cosa e come, dell’orientarsi nel ciò che c’è da fare), che non sono mai integralmente traducibili in un sistema di enunciati denotativi (o descrittivi), ma implicano enunciati prescrittivi, volitivi, valutativi etc. Enunciati, quindi, che indicano come all’interno dell’oggetto stesso del sapere di cui si vuol fare scienza siano presenti tracce evidenti e significative di variazioni soggettive che, in quanto tali, risultano difficilmente informatizzabili (e il tentativo di informatizzare anche i saperi narrativi non falsifica la questione, la rende semmai più complessa). La persistenza dei saperi narrativi, che costituiscono la merce di scambio di ciò che oggi si definisce ‘conversazione’ (termine che rimanda a quello di ‘convivialità’: dove si conversa meglio che a tavola?), non solo dimostra la non riducibilità della società contemporanea al primato dei soli saperi scientifici, bensì costringe questi ultimi ad interrogarsi sul proprio statuto, ad individuare nella loro stessa costituzione la presenza di elementi narrativi. La legittimazione di un sapere scientifico è interamente traducibile in una serie di formalizzazioni sempre più rigorose o deve ricorrere ad analisi di altro tipo quali la situazione dell’archivio degli enunciati possibili all’epoca della sua formazione, la gerarchia presente nell’archivio fra enunciati prescrivibili ed enunciati non prescrivibili in una data situazione storica, la serie di falsificazioni necessarie per giungere ad affermare come vero un certo insieme di enunciati e prima anco-

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IL DISCORSO E LA CENERE

ra le regole con le quali produrli? Insomma, non è preliminare ad ogni logica della scoperta scientifica individuare qual è ‘l’ordine del discorso’ o ricostruire la ‘genealogia’ (che è esattamente il contrario di un’origine rigorosamente logica) di ciò che di volta in volta si dà per vero2? Sembra allora che l’epistemologia della scienza, anche quando si tenga lontana da una prospettiva interamente ‘anarchica’3, che falsifica lo stesso criterio della falsificazione, non possa rinunciare a cedere parte del suo rigore a favore di un racconto che oscilla, come tutti i racconti, fra l’esattezza della documentazione storica e l’affabulazione mito-poietica, come se – ma è solo un paradosso – divenisse improvvisamente vero, o perlomeno verosimile, quel modo biografico-favolistico con cui si narra la scoperta newtoniana del principio di gravità: che una mela finì sulla testa di uno che sonnecchiava al riparo di un albero. D’altronde, fa notare Lyotard, non è forse vero che la scoperta scientifica viene da sempre trasmessa come la peripezia di un eroe che, alla fine, sconfitti i cattivi, convinti gli increduli e superate le difficoltà che la vita sempre frappone alla scoperta della verità, trionfa, se non davanti agli occhi dei contemporanei, certamente di fronte a quelli della posterità? La commistione di sapere scientifico e di sapere narrativo era presente, d’altra parte, proprio nella risoluzione della questione cruciale per ogni sapere e cioè quella della sua legittimazione. Come abbiamo visto, il livello della legittimazione del ‘legislatore’ avviene attraverso enunciati prescrittivi che sono propri dei saperi narrativi. Ed infatti ogni legittimazione si presenta in primo luogo come il racconto di un mito di fondazione. Con ciò è sollevata una prima domanda: perché solo i saperi narrativi hanno il potere di legittimare i saperi scientifici? E se sono investiti di tale autorità, non devono, insieme, essere pensati come auto-legittimantisi? Da dove, dunque, proviene ai saperi narrativi l’au2 Ci riferiamo alle ricerche di Michel Foucault: in particolare: L’archéologie du savoir, Paris 1969, tr. it. di G. Bogliolo, Milano 1971; L’ordre du discours, Paris 1970, tr. it. di A. Fontana, Torino 1962; Due risposte sull’epistemologia, tr. it. di M. de Stefanis, Padova 1971. 3 Per una critica radicale del falsificazionismo popperiano il rimando è a P. Feyerabend, Against method, tr. it. di L. Sosio, Milano 1979. Per quel che riguarda posizioni che, pur mantenendosi critiche nei confronti della teoria popperiana, non abbracciano le tesi anti-metodiche di Feyerabend, si vedano T. Kuhn, La struttura delle rivoluzioni scientifiche, tr. it. Torino 1978 e i saggi di I. Lakatos, La falsificazione e la metodologia dei programmi di ricerca scientifici e La storia della scienza e le sue ricostruzioni razionali, comparsi in I. Lakatos, A. Musgrave (a cura di), Criticism and the Growth of knowledge, tr. it. di G. Giorello. Milano 1976.

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II. LYOTARD I. LA DECADENZA DEL RACCONTO

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torità necessaria all’autolegittimazione, dal momento che essi sembrano non esserne debitori ad altri saperi o ad istanze ancora più alte? Ma prima di addentrarci nei meandri di una possibile risposta, una parola sul metodo. La procedura seguita da Lyotard consiste nel porre l’accento sui fatti linguistici; in conformità alla ‘svolta’ linguistica che caratterizza larga parte del pensiero moderno e contemporaneo, e richiamandosi in particolare alle teorie dei giochi linguistici dell’ultimo Wittgenstein e degli atti linguistici della scuola pragmatica, per Lyotard l’oggetto della riflessione è a sua volta un insieme di enunciati (o di frasi, come dirà nel Le différend). Va osservato subito che il linguaggio in cui si dicono gli enunciati-base, non funge da meta-linguaggio, col compito di condurre a trasparenza il linguaggio-oggetto, bensì è anch’esso un gioco linguistico o un insieme di atti linguistici. Cosicché, se non ha alcuna pretesa di verità rispetto al linguaggio-oggetto, non sfugge tuttavia al problema della legittimazione; in questo caso, infatti, è Lyotard che viene ad assumere il ruolo del ‘legislatore’, prescrivendo la giustezza della procedura adottata ed è, dunque, il suo gesto fondativo ad aver bisogno a sua volta di una fondazione. (Ma vedremo nel prossimo capitolo come il problema della legittimazione sarà la questione fondamentale per il Lyotard de Le différend). Per il momento seguiamo ancora l’itinerario di Lyotard e riprendiamo l’esempio da lui stesso adottato ad illustrazione del metodo; esempio, vedremo subito, per nulla casuale e, in un certo senso, ‘esemplare’. Si dia l’enunciato: «L’università è malata»: immediatamente il destinatore (cioè colui che lo enuncia), il destinatario (colui al quale è rivolto) e il referente (ciò di cui tratta l’enunciato) ricevono delle posizioni specifiche: il destinatore è colui che sa (si potrebbe definirlo: il soggettosupposto-sapere), il destinatario è chiamato a dare assenso o dissenso e il referente è l’oggetto di una conversazione (ma anche di una disputa) che deve essere identificato ed espresso nell’enunciato. Il destinatario, infatti, può sì approvare l’enunciato del destinatore, ma può anche falsificarlo, se è in grado di produrre altri enunciati, ottenuti attraverso la stessa procedura usata per quello emesso dal destinatore, i quali affermino che l’università non ha mai funzionato meglio di ora. L’enunciato, «L’università è malata», è un enunciato denotativo (o descrittivo); esso, cioè, si limita (ma è poi vero?) ad affermare qualcosa di qualcos’altro, secondo regole d’inferenza, ma alla condizione fondamentale che l’affermazione sia per principio falsificabile. Resta, tuttavia, un punto sul quale ritorneremo e, cioè, il fatto che anche l’enunciato denotativo comporta la costituzione di posizioni sog-

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IL DISCORSO E LA CENERE

gettive all’interno di una relazione linguistica. Si immagini che l’enunciato, che è valso come esempio, sia pronunciato in un dibattito pubblico sulle condizioni e sul futuro dell’università; allora, colui che lo enuncia (incaricato, per esempio, di tenere la relazione introduttiva) assumerà necessariamente la posizione, come abbiamo osservato, di soggetto-supposto-sapere ciò che ne è e ciò che ne sarà dell’università. Egli, dunque, si troverà anche in posizione di ‘legislatore’, dal momento che non solo dichiara vero l’enunciato, ma implicitamente la procedura adottata per produrlo – cosa che appare subito evidente non appena un destinatario dichiari non pertinenti le procedure utilizzate facendo appello ad altre regole, non per sostenere che l’università non è malata, ma per affermare che non è quello il modo giusto per pervenire a quella conclusione. Il destinatario, di conseguenza, si trova dapprima in posizione ricevente del sapere dell’altro, ma (se lo immaginiamo composto da persone a vario titolo competenti sull’oggetto trattato), passerà anch’egli nella posizione di soggetto-supposto-sapere (di più o di meno dell’altro). Dal che si vede che una ‘conversazione’ che pretenda svolgersi solamente su enunciati denotativi, implica necessariamente il passaggio ad enunciati prescrittivi. S’immagini, invece, che l’enunciato, «L’università è malata», sia pronunciato durante un corso di lezioni universitarie, il cui oggetto sia l’università stessa (storie dell’istituzione universitaria, analisi delle teorie dell’università, lettura critica delle prolusioni svolte ad apertura degli anni accademici da personalità quali Hegel, Heidegger, etc.). In questo caso il destinatore è non solo in posizione di soggetto-supposto-sapere, ma anche e soprattutto in posizione insegnante. Egli è detentore non solo di un’autorità rispetto ad un sapere determinato (il sapere sull’università), ma la sua autorità è raddoppiata dal fatto di occupare un ruolo all’interno dell’istituzione che è insieme l’oggetto del suo sapere. In nessun caso il destinatario può passare dalla posizione di discente, cui lo destina la sua collocazione all’interno dell’istituzione, a quella di soggetto-supposto-sapere e meno che mai a quella di soggetto insegnante. Se non quando, passato attraverso una serie di prove, il destinatario non sia autorizzato ad occupare a sua volta il posto di soggetto insegnante ed entri così a far parte dell’istituzione stessa. Anche in questo caso, più che nel precedente, si assiste al fatto che un enunciato denotativo, ancor più tale per essere parte di un sapere trasmesso in un’istituzione il cui compito è la produzione e la trasmissione del sapere e pronunciato da un soggetto la cui autorità è legittimata dall’istituzione stessa, sia preso nella rete pragmatica del linguaggio e prescriva la posizione dei soggetti in essa implicati.

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II. LYOTARD I. LA DECADENZA DEL RACCONTO

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Ma veniamo al secondo esempio di Lyotard: si dia un enunciato del tipo: «L’università è aperta». Lo si immagini pronunciato da chi ha l’autorità per dichiarare aperta l’università – preside o rettore. Tale enunciato si definisce performativo, vale a dire che la sua enunciazione coincide col suo effetto sul referente. In questo caso il destinatario non è chiamato a pronunciarsi sulla verità o meno dell’enunciato, ma semplicemente ad accettarlo o no. Se, ad esempio, gli studenti, per una qualsiasi ottima ragione, decidono di far seguire all’enunciato, «L’università è aperta», l’occupazione della sede universitaria, tale gesto costituisce certamente una risposta rivolta al destinatore, ma non può essere interpretato come una falsificazione del suo enunciato: occupata in linea di fatto, l’università resta aperta in linea di diritto. Tanto è vero che, fallita la soluzione negoziale, il detentore dell’autorità può richiedere l’intervento di istanze extra-territoriali rispetto all’università (la polizia ad esempio) affinché la sua decisione sia rispettata. In questo caso l’enunciato performativo sarà anche prescrittivo dal momento che implicherà l’altro enunciato, «È giusto che l’università sia aperta»4. 4

Sul performativo si vedano gli scritti di J. Austin, Performatif-constatif tr. it. di M. Sbisà, in M. Sbisà (a cura di), Gli atti linguistici, Milano 1978 e How to do Things with Words, tr. it. a cura di C. Villata, Genova 1987. Il confronto fra le tesi di Austin e quelle di Lyotard presenta, ci sembra, alcune differenze di rilievo. Mentre Lyotard distingue i performativi dai prescrittivi, Austin sembra identificarli. Se il performativo, per Austin, è quel tipo di enunciato che serve a compiere un’azione, la cui enunciazione cioè è l’equivalente dell’azione, la quale non si potrebbe compiere altrimenti, non v’è dubbio che esso abbia effetti immediati sul referente, come si evince da uno degli esempi di Austin: «Battezzo questa nave “Libertà”» . Ma in generale il performativo, per Austin, sembra riguardare essenzialmente l’enunciatore (il destinatore), cioè il parlante preso nell’atto di parola. Il performativo ha infatti un potere di prescrizione sull’enunciatore: in un altro esempio di Austin: ‘Chiedo scusa’, l’enunciatore non solo compie l’azione, ma s’impegna anche a compierla effettivamente; il che è evidente nel caso di una promessa. Ciò resta vero anche nell’esempio precedente in cui l’enunciatore deve perlomeno avere il diritto di battezzare le navi: il performativo in tal caso pone l’enunciatore in un ruolo ‘adamitico’ di datore dei nomi. Da qui la questione che ci sembra cruciale per Austin della ‘felicità’ o ‘infelicità’ del performativo. L’introduzione del performativo nella teoria linguistica richiede, infatti, una critica, cioè l’analisi delle condizioni di realizzazione del performativo – intenzione effettiva del chiedere scusa, diritto a battezzare le navi –, mancando le quali esso è ‘infelice’. Resta aperta la questione se il performativo sia infelice solo per ragioni di circostanza o non piuttosto di struttura: se esso è prescrittivo per l’enunciatore, risulta difficile sfuggire alla sensazione che sia sempre ‘infelice’. Per una critica del performativo austiniano si veda J. Derrida, Signature événement contexte, in Marges de la philosophie, Paris 1972, pp. 382-390, tr. it. di M. Iofrida, Torino 1997, pp. 395-424. Ma si veda anche la replica a Derrida di John Searle, Reiterating the Differences: a Replay to Derrida, apparsa originariamente in «Glyph», n. 1, 1977, tr. it. di N. Scaramuzza, «Aut-Aut», n. 217-218, gennaio-aprile 1987.

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IL DISCORSO E LA CENERE

Il terzo tipo di enunciato che completa la classificazione lyotardiana, è appunto quello prescrittivo. Si dia l’enunciato, «Date i mezzi all’università». Tale enunciato non è denotativo (non richiede, infatti, falsificazione) né performativo (enunciarlo non comporta per nulla che l’università avrà i mezzi richiesti). L’enunciato prescrittivo può presentarsi sotto diverse forme: ordine, raccomandazione, istruzione, preghiera, supplica. Ma va rilevato subito che gli enunciati prescrittivi, quantunque si attendano dal destinatario l’azione che avrà effetti sul referente (che siano dati i mezzi all’università) non escludono, anzi richiedono enunciati denotativi come prova della razionalità della prescrizione. D’altra parte ad enunciati prescrittivi si può rispondere, disattendendoli, con enunciati denotativi al fine di dimostrare l’impossibilità di dar seguito alla richiesta: un sapere sullo stato della finanza pubblica, pronunciato da chi ha l’autorità per farlo – ministro o esperto del sapere economico – può essere invocato per prescrivere di non dare mezzi all’università. È necessario notare ancora che un prescrittivo è anche un performativo perlomeno in due sensi: impegna il destinatore a darsi da fare per ottenere i mezzi che servono all’università e impegna il destinatario, alle volte in modo ‘infelice’, a fare altrettanto. Ne deriva in ogni frase l’intreccio indissolubile di enunciati denotativi e prescrittivi, come d’altronde aveva dimostrato la questione della legittimazione; ma anche il fatto che tutti gli enunciati, siano essi denotativi o prescrittivi, sono in ultima istanza dei performativi, non tanto nel senso che abbiano effetti istantanei sul referente, quanto in quello, decisivo, che essi hanno comunque effetti su colui che li pronuncia e su colui che li riceve. La nostra attenzione è rivolta soprattutto sull’effetto che il performativo ha sul destinatore. Riprendiamo gli esempi di Lyotard ad esclusione di quello esplicitamente performativo: colui che enuncia, «L’università è malata» è ‘performato’ in soggetto-supposto-sapere e/o soggetto insegnante; colui che pronuncia l’enunciato, «Date i mezzi all’università», è performato in un soggetto dotato dell’autorità per prescrivere la necessità di quel che enuncia ed è, quindi, un soggetto ‘legiferante’. Tutto questo ci porta a trarre la seguente conclusione: chiunque pronunci enunciati denotativi, che dal loro canto presuppongono dei prescrittivi, e chiunque pronunci enunciati prescrittivi che o decidono del valore di verità dei denotativi o rimandano ad altri denotativi precedentemente prescritti, pronuncia enunciati performativi: vale a dire che pone se stesso (nell’illusione dell’io=io), o più giustamente si trova ad esser posto (con l’infelicità che ne consegue) in posizione di ‘legislatore’.

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II. LYOTARD I. LA DECADENZA DEL RACCONTO

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In altri termini, bisogna prima trovarsi ad essere (o illudersi d’essere) dei ‘legislatori’ per poter poi prescrivere la giustezza delle regole che presiedono alla produzione dei denotativi. Si comprende allora come entrambi gli enunciati, «L’università è malata» e «Date i mezzi all’università», pur non essendo in quanto tali dei performativi, performano, tuttavia, il destinatore situandolo nella posizione di un soggetto dotato di un potere di fondazione, e lo autorizzano, quindi, a prescrivere e a produrre sapere. Era questo il punto cruciale della questione della legittimazione: la domanda, «Chi legittima il legislatore?» o, in altre parole, «Chi testimonia per il testimone legittimo?». Ma rispetto a tale problema vorremmo far notare subito che l’analisi del ‘metodo’ linguistico di Lyotard conduce ad una rilevante conclusione: la strutturale ambiguità del performativo. Se infatti il performativo è usato per denotare la caratteristica principale della condizione post-moderna che vede appunto la società retta dal principio di prestazione, dal primato accordato cioè alla ‘performance’, contro ogni ipotesi di progetto razionale per il quale la teoria è ancora una guida per la prassi, cui si contrappone l’equivalenza tra dire e fare, è anche vero che la posizione di legislatore in cui il performativo performa, in ultima analisi, il destinatore, è strutturalmente insostenibile. Poiché si può sempre riproporre la domanda, «Chi legittima il legislatore?», l’auto-referenzialità del performativo e, di conseguenza, della società fondata sul principio della ‘performance’, mostra la propria impossibilità, il proprio limite interno. E quanto Austin aveva intravisto sotto il titolo dell’ ‘infelicità del performativo’. Se ora si volesse tentare di descrivere la struttura dei saperi narrativi, di quei saperi cioè che, secondo Lyotard, legittimano i saperi scientifici, e rispetto ai quali, proprio per questa ragione, si era posta la domanda se essi non dovessero essere considerati come auto-legittimantisi, si dovrebbe necessariamente concludere che tale struttura presenta una stratificazione complessa dei vari tipi di enunciati che il metodo ha classificato e distinto. All’interno dei saperi narrativi, infatti, convivono, in un regime di quasi assenza di conflittualità, enunciati denotativi, prescrittivi e performativi, oltre ad una serie di altri tipi di enunciati quali quelli interrogativi, valutativi, estetici etc. La quasi-convivialità dei saperi narrativi è giustificata dal modello cui Lyotard si richiama: quello delle società cosidette primitive, in cui la stabilità e la riproduzione del legame sociale sono affidate alla trasmissione orale del sapere (miti fondatori, regole morali, norme di comportamento). Da tale scelta derivano alcune conseguenze: il carattere iterativo della narrazione, simile in que-

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IL DISCORSO E LA CENERE

sto ai racconti infantili, e l’assenza di storia e di tempo che caratterizza tali tipi di racconti. Lyotard ricorda quei casi limite in cui la narrazione diventa un’interminabile melopea che rende incomprensibile il contenuto del racconto a causa della disarticolazione cui vengono sottoposti lessico e sintassi, casi limite che dimostrano come il tempo «cessi di essere il supporto delle registrazioni mnemoniche e si trasformi in un battito immemoriale che, in assenza di differenze registrabili fra i periodi, impedisce di contarli e li consegna all’oblio»5. Oblio che, dal suo canto, ribadisce la contemporaneità fra il passato mitico della comunità e il presente del narratore. Ma l’aspetto dei saperi narrativi tradizionali che più interessa Lyotard, è quello della trasmissione dei racconti, della trasmissione cioè della facoltà stessa del narrare come parte strutturale del racconto stesso. Ed è evidente: tale problema rimanda direttamente alla questione della legittimazione del ‘legislatore’. Si tratta, dunque, di individuare quali regole pragmatico-discorsive autorizzino il narratore sia a raccontare egli stesso sia a trasmettere ad altri l’autorità per poter essere a loro volta dei narratori. Uno schema possibile è il seguente: il narratore inizia il racconto dicendo: «Ecco la storia di..., così come l’ho sempre sentita. Ora ve la racconto, ascoltatela», e lo conclude con una formula simile ed immutabile: «Qui finisce la storia di... Chi ve l’ha raccontata si chiama... »6, e segue il nome proprio del narratore. Le conseguenze importanti da trarre da queste formule di apertura e di congedo del racconto sono essenzialmente due: la prima riguarda il fatto che l’autorità del narratore discende dall’aver egli stesso, in persona, ascoltato la storia, d’essere stato per così dire testimone auricolare. Egli può allora essere il destinatore solo perché ha occupato precedentemente la posizione di destinatario. L’inevitabile procedimento all’infinito che immediatamente sembra strutturare la trasmissione dei racconti si tronca se si tiene conto che l’eroe del racconto viene immaginato o come il primo narratore o come il primo destinatario. In altri termini, ciò vuol dire che quando si pone la questione della trasmissione dei racconti, si pone contestualmente quella del proto-narratore o narratore originario. La domanda sulla legittimazione acquista sempre la forma di un discorso sull’origine, che riguarda insieme l’origine dell’autorità e l’autorità dell’origine; chi o che cosa autorizza il primo ‘legislatore’ ad essere tale, in modo che tutti i narratori successivi si autorizzino in suo nome? Cosicché è facile vedere come il destinatario attua5 6

J. F. Lyotard, La condition post-moderne, cit., p. 41 (tr. it., p. 43). Ivi, p. 39 (tr. it., p. 56).

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II. LYOTARD I. LA DECADENZA DEL RACCONTO

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le del racconto trapassi in narratore solo perché viene ad occupare la posizione di destinatario in una catena di ascolto e racconto (o racconto ed ascolto), sospesa a, ma contemporaneamente fondata da, un racconto d’origine. I saperi narrativi tradizionali sono, dunque, dei performativi puri: come fa notare Lyotard, il narratore non solo è sempre anche un destinatario, ma nel narrare occupa anche la posizione dell’eroe fondatore di cui la storia narra la vicenda: destinatore, destinatario e referente fanno tutt’uno, e l’enunciato narrativo ha gli stessi effetti su tutte le istanze del discorso. La seconda conseguenza discende dalla necessità per il narratore di ‘firmare’ col suo nome la storia. È certo che l’attribuzione dei nomi è il prodotto di un altro racconto, quello, canonico anch’esso, che legittima la distribuzione dei patronimici. Da questo punto di vista dichiarare il proprio nome alla fine del racconto rafforza l’autorità del narratore: egli non solo ha occupato la posizione di destinatario del racconto, ma fa parte (il suo nome ne è la prova) di quella componente della comunità investita, nella divisione sociale del lavoro, della ‘cura’ dei racconti e, dunque, della trasmissione del sapere comunitario che i racconti tramandano. Questo secondo aspetto dei saperi narrativi tradizionali merita un approfondimento. Balza agli occhi, infatti, che la funzione del nome proprio, posto come sigla alla fine del racconto, non corrisponde in nulla a quella del nome d’autore. Col proprio nome il narratore non intende tutelare la proprietà privata del racconto, non si assicura preventivamente nei confronti della copia e del plagio ed in generale di qualunque abuso possa essere perpetrato contro l’originalità e l’autonomia della creazione soggettiva. Ciò sarebbe impossibile per due ragioni: sia perché l’autorità della storia raccontata riposa esattamente sull’assenza di originalità, cioè sul suo essere identica alla versione ascoltata in posizione di destinatario; sia perché, come si è visto, il nome, in quanto patronimico, non designa il narratore attuale, ma il clan o la famiglia d’appartenenza autorizzata dalla comunità alla trasmissione dei racconti. Si potrebbe supporre, a questo punto, che il patronimico faccia le veci, in assenza del riconoscimento del soggetto individuale e dei suoi inalienabili diritti, della funzione giuridica del nome d’autore. Ma come giustificare, allora, la persistenza della ‘firma’ alla fine delle prefazioni o delle post-fazioni, anche quando (e soprattutto quando) sia ridotta ad un semplice monogramma? Se l’individualità è già tutelata dal nome d’autore in prima di copertina, dal copyright, e dal richiamo alla legge, non è la ‘firma’ un’inutile ripetizione, un artificio retorico? È, tuttavia, proprio tale necessità della ripetizione del nome che deve dar da pen-

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IL DISCORSO E LA CENERE

sare. Si prenda, ad esempio, un contratto: il proprio nome compare nel testo come quello di uno dei contraenti. È facile vedere come il nome proprio sulla copertina di un libro abbia esattamente la stessa funzione: esso, infatti, è il nome che denota una delle parti in causa di un contratto giuridico, di cui l’altra parte è, in questo caso, l’editore, il cui nome appare di solito al fondo della prima di copertina. Il richiamo alla legge che regola il diritto d’autore e che si situa nelle prime pagine interne, sancisce che il contratto è stato redatto secondo le regole. Cosicché tutto ciò che fa parte di un testo, senza essere il testo stesso, non è altro che il contratto intercorso fra l’autore e l’editore; si potrebbe dire che il contratto è il libro stesso: prima d’essere testimonianza dell’attività libera della soggettività, un libro, nella sua materialità, è la ‘scrittura’ di un contratto giuridico. È altresì vero, però, che un contratto acquista validità soltanto quando sia controfirmato dalle parti contraenti. Con la controfirma il contraente s’impegna non solo a rispettare il contratto, ma anche ad assumersi la responsabilità delle conseguenze derivanti dal contratto stesso, sia di quelle positive sia di quelle implicate nel caso di rottura. Il soggetto si trova ad essere, così, da una parte, ‘persona’ avente diritto a valere come titolare di un contratto, riconosciuto cioè nella sfera del diritto (stringere un contratto è implicitamente riconoscimento di diritti); dall’altra ‘soggetto’ a tutti gli effetti che possono derivare dal contratto stesso. Egli è in un caso fonte di diritto – ‘legislatore’ (esercitare un diritto è assumersene la paternità) – e nell’altro ne è un risultato. Ora, nel caso della scrittura la controfirma da parte dell’autore indica, appunto, che egli si dichiara responsabile per ciò che ha scritto, ma non in quanto nome d’autore, tutelato dal diritto come tale, bensì come ‘soggetto’ alla legge propria della scrittura, cioè agli effetti che la scrittura può comportare rispetto al suo statuto soggettivo e alla sua identità: come si è visto con Antelme (ma vale ovviamente per chiunque) la legge della scrittura può condurre fino alla vanificazione dell’identità soggettiva e alla perdita dell’io. Ci avviciniamo così ad un aspetto del performativo finora rimasto in ombra anche nel discorso di Lyotard (e che noi abbiamo in parte anticipato a proposito del principio della ‘performance’). Se è vero che qualunque enunciato performa chi lo pronuncia in posizione di legislatore, il problema della firma o della controfirma mostra come il destinatore occupi anche e sempre la posizione di ‘suddito’. Nella stesura di un patto in generale – nella ‘scrittura’ come si dice in giurisprudenza – un soggetto entra come legislatore ed esce come suddito, preso nel debito infi-

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II. LYOTARD I. LA DECADENZA DEL RACCONTO

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nito che ogni patto comporta. Nel momento in cui si sottoscrive un patto si è impegnati a rispettarlo, qualunque conseguenza possa derivarne e qualunque ‘infelicità’ il contesto produca sul performativo, sottraendolo, ma solo in apparenza, alla sua purezza. Firmare il testo non è allora una mera mimesi del nome d’autore, ma rappresenta l’assenso che il soggetto dà alla trasformazione imprevedibile che la scrittura opererà su di lui; firmare (anche quando la firma manchi materialmente – ma appartiene alla struttura del testo in generale l’essere firmato) equivale a dire sì non a quello che «si voleva dire (scrivere)», si aveva intenzione di dire (scrivere) in quanto nome d’autore, bensì a ciò che nella scrittura, in nome della sua legge, accade di verità e rispetto a cui il soggetto, impegnato nel patto della scrittura, non può non dirsi responsabile. Torneremo in seguito sul problema della firma e sul suo rapporto col nome proprio; è tempo, invece, di riprendere il ragionamento di Lyotard. L’analisi dei saperi narrativi tradizionali fa da battistrada alla definizione dei concetti di narrazione legittimante prima e di meta-racconto dopo. Nel momento in cui, secondo Lyotard, i saperi scientifici si liberano dalle ipoteche metafisico-religiose, e si riconoscono come degli autonomi giochi linguistici, le cui condizioni di possibilità vengono legittimate non da una ‘prova originaria’, né da un’autorità trascendente, bensì da un altro gioco linguistico, l’elemento narrativo acquista pieno titolo nella questione della legittimazione; come dice Lyotard: «La narrazione non è più un lapsus della legittimazione»7. È evidente che la narrazione legittimante debba presentare caratteristiche affini a quelle dei saperi narrativi tradizionali, cioè debba svolgere le stesse funzioni fondamentali nonostante le mutate condizioni socio-culturali di partenza. Così se da un lato la narrazione deve avere per oggetto le gesta di un eroe eponimo, quest’ultimo dovrà assumere le fattezze del moderno concetto di nazione, dovrà, cioè, per esempio, rendere conto della connotazione storica del concetto di popolo. Non a caso gli esempi che illustrano il ritorno del narrativo nella modernità sono, per Lyotard, il movimento romantico, la scuola storica francese, la filosofia idealistica tedesca. Da questo punto di vista l’assenza di tempo e di storia che caratterizzava i saperi tradizionali dovrà lasciare il posto ad una accentuazione sempre più marcata dell’elemento storico (visibile ad esempio nel passaggio dall’illuminismo al romanticismo). Come il sapere scientifico si accumula e si sviluppa, così l’eroe – il popolo, la nazione, ma anche, infine, il proletariato – non attesta semplicemente, 7

Ivi, p. 52 (tr. it., p. 56).

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IL DISCORSO E LA CENERE

come accadeva nelle società tradizionali, la riproduzione senza mutamenti dell’ordine comunitario, ma realizza la propria destinazione solo nel corso di un tempo marcato dall’irreversibilità, solo a partire dalla propria determinatezza storica, solo assumendo positivamente le peripezie della trasformazione. Ma dove il distacco dai saperi narrativi tradizionali diviene più acuto è nei riguardi del problema della trasmissione del sapere. Una narrazione legittimante della modernità non può più dare per scontata la trasmissione sia dei saperi scientifici di cui è la legittimazione, sia di se stessa come discorso che legittima il ‘legislatore’. E ciò per varie ragioni: in primo luogo perché essa deve assicurare l’autonomia e la specificità dei saperi scientifici (condizione d’altronde della sua stessa legittimazione); in secondo luogo perché la narrazione ha a che fare con quell’istanza nuova rappresentata dallo stato nazionale moderno, che ha sottratto alle vecchie cerchie della società civile pre-moderna un gran numero di funzioni inerenti alla riproduzione della società, prima fra tutte l’educazione; ed infine perché la narrazione ed i saperi di cui essa è la legittimazione hanno cessato di fare tutt’uno con la società per costituire solo una parte del sistema complessivo: è, infatti, in termini sistemici, cioè in termini di scambio, di obbligazioni reciproche, di conflitti ed integrazioni, che ogni narrazione legittimante deve descrivere se stessa e l’insieme di cui fa parte e che vuole legittimare. In altri termini, essa non solo deve pervenire ad un grado molto elevato di complessità che tenga conto dei suoi rapporti, non semplici e non lineari, con i saperi, con lo stato-nazione e con il sistema educativo, ma trovare anche, e allo stesso tempo, la propria unificazione nel nome dell’eroe che costituisce insieme la fonte e l’oggetto della legittimazione. Le opzioni di fronte al problema della trasmissione decidono delle differenze fondamentali fra le narrazioni legittimanti; una narrazione che abbia per soggetto l’umanità intesa come eroe della libertà privilegerà e prescriverà la superiorità dell’insegnamento primario: in base all’equazione sapere=libertà, essa postulerà la massima estensione del sapere (si pensi alla lotta all’analfabetismo condotta da tutti gli stati nazionali più o meno in concomitanza con la loro formazione). Un altro tipo di narrazione, invece, non necessariamente in contraddizione con la precedente, prescriverà in base all’equazione popolo = stato = libertà, dove come si vede il rapporto fra il popolo e la libertà è fortemente mediato dallo stato, l’insegnamento universitario; in questo tipo di narrazione il problema della trasmissione è piegato ai fini propri dello stato, cioè ai fini della formazione del personale amministrativo necessario al suo funzionamento (ad esempio gli educatori), vale a dire alla formazio-

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II. LYOTARD I. LA DECADENZA DEL RACCONTO

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ne delle competenze. È certo, come fa notare Lyotard, che quest’ultima forma di narrazione legittimante rischi, se non la contraddizione, perlomeno il dissidio fra l’autonomia dello stato da un lato e il fatto, dall’altro, che ciò che legittima in ultima istanza lo stato è il popolo come eroe di una narrazione della libertà. Anche i fini imperiali, di pura potenza, di uno stato nazione sono legittimati dalla destinazione della libertà (e questo è come si sa il Leit-motiv della storia politico-culturale ottocentesca). Ci sembra di poter dire che è di fronte al sorgere di una simile difficoltà, inerente in fondo a tutte le narrazioni legittimanti della modernità, che emerge la necessità del meta-racconto. Un meta-racconto, infatti, non è una qualsiasi narrazione legittimante, bensì quel discorso che, in quanto legittimazione del ‘legislatore’, è chiamato a legittimare la narrazione stessa. Lo slittamento operato dal meta-racconto comporta che l’eroe della narrazione cessi di essere il popolo, la nazione o lo stato e divenga lo stesso soggetto del sapere in generale. Come lo definisce Lyotard: un metasoggetto. In tal modo il legislatore viene a coincidere con la produzione e la trasmissione del sapere stesso: sono, dunque, il sapere ed il suo soggetto le fonti ultime di tutte le narrazioni legittimanti. In base al rapporto, che noi abbiamo già fatto intravedere fra la narrazione legittimante, lo stato e i saperi, l’istituzione universitaria diviene, nella modernità, il luogo privilegiato per la produzione e la trasmissione dei meta-racconti e ciò non solo perché l’università, come spazio in cui ormai si concentra l’intellighenzia di una nazione, è di fatto l’istanza deputata a tale compito, ma soprattutto perché l’università, in quanto istituzione, è un meta-racconto in atto. L’università, infatti, è insieme sia la sede della produzione dei saperi scientifici e del loro insegnamento, sia il luogo in cui ciascuna disciplina produce le proprie narrazioni legittimanti, sia il territorio in cui può avvenire la loro unificazione; in questo senso l’università è deputata anche alla produzione della narrazione che legittima tale unificazione e del meta-racconto che legittima, infine, la narrazione dell’unità del sapere. È evidente che il meta-racconto dovrà legittimare anche l’università stessa come unica possibilità di convogliare le specializzazioni in un discorso unitario, nei confronti, ad esempio, delle Accademie e/o delle associazioni private. Senza contare che il meta-racconto universitario dovrà legittimarsi di fronte allo stato e di fronte al popolo, affermare cioè la propria autonomia, fermo restando che esso è la fonte di legittimazione di entrambi. Tenteremo nel prosieguo di queste nostre considerazioni un’analisi di alcuni fra testi moderni che fungono da ‘programma’ rispetto allo statuto

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IL DISCORSO E LA CENERE

e alla destinazione dell’università. Preliminare, invece, ci sembra riflettere sul fatto che l’esempio principe portato da Lyotard di un meta-racconto sia la filosofia hegeliana. Il sistema di Hegel sembra corrispondere a tutti i requisiti richiesti da un meta-racconto: «È là, nel dispositivo di sviluppo di una Vita che è nello stesso tempo Soggetto, che si staglia il ritorno del sapere narrativo. Esiste una ‘storia’ universale dello spirito, lo spirito è ‘vita’, e questa ‘vita’ è rappresentazione e formulazione della sua stessa natura, essa si serve della conoscenza organizzata in tutte le sue forme nelle scienze empiriche. L’enciclopedia dell’idealismo tedesco è la narrazione della ‘storia’ di questo ‘soggetto-vita’. Ma ciò che ne nasce è un meta-racconto, perché il racconto non deve essere narrato da un popolo immerso nella positività particolare dei suoi saperi tradizionali, e neppure dalla comunità dei sapienti limitati dai professionalismi che corrispondono alle loro discipline. Il narratore non può essere che un meta-soggetto impegnato nella formulazione tanto della legittimità dei discorsi scientifici empirici che di quella delle istituzioni immediate delle culture popolari. Affermandone il fondamento comune il metasoggetto realizza il loro fine implicito. La sua dimora è l’università speculativa»8. Questa ricostruzione del pensiero di Hegel è significativa per una ragione: col richiamo allo ‘speculativo’ fa il suo ingresso nella questione della legittimazione e nel discorso universitario, quel sapere particolare e di difficile definizione che è la filosofia. Per Lyotard non sembrano sussistere dubbi: la filosofia è la pratica discorsiva (o il gioco linguistico) deputata alla produzione dei metaracconti. «Speculazione è qui il nome che fonda il discorso sulla legittimazione del discorso scientifico. Le scuole superiori sono funzionali, l’università è speculativa, cioè è filosofica. La filosofia deve riunificare le conoscenze disperse in scienze particolari nei laboratori e nei corsi di insegnamento pre-universitari; ciò che può fare solo mediante un gioco linguistico che le ricolleghi come momenti del divenire dello spirito, quindi mediante una narrazione, o piuttosto una meta-narrazione razionale. L’Enciclopedia di Hegel sarà un tentativo di soddisfare questo progetto di totalizzazione, già presente in Fichte e in Schelling come idea di sistema»9. Nell’esigenza enciclopedica o sistematica è presente certamente l’istanza della filosofia come discorso fondativo ed unificante rispetto alla dispersione delle specializzazioni e delle competenze. Ma come avevamo già fatto vedere la complessità dei rapporti fra narrazione legittimante, popolo e stato, la struttura non lineare della loro articolazione, così ora 8 9

Ivi, pp. 57-58 (tr. it., p. 63). Ivi.

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II. LYOTARD I. LA DECADENZA DEL RACCONTO

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vorremmo mostrare che la relazione fra la filosofia ed i saperi è meno pacifica di quanto sembri nel programma enciclopedico. Se, da un lato, la tradizione della filosofia privilegia la pretesa del discorso universalizzante (da cui deriva anche la connessione moderna fra la filosofia e l’università) resta pur vero che da sempre la filosofia si trova in posizione conflittuale rispetto ai saperi. È vero che la critica del sapere può rappresentare un momento propedeutico all’affermazione della superiorità della filosofia, ma da un altro punto di vista il dissidio rappresenta una de-legittimazione nei confronti della pretesa universalizzante dei saperi stessi; ciò che appare come una richiesta illegittima da parte della filosofia è ribaltabile sull’altro attore del confronto. Si vuol dire, in altri termini, che lo sguardo che va portato sullo statuto del discorso filosofico è perlomeno doppio: la filosofia è certo produttrice di meta-racconti fondativi e legittimanti (ed anche auto-legittimantisi), ma è insieme ed inseparabilmente de-legittimazione dei racconti stessi e forse della possibilità del racconto in quanto tale. Facendo subire al concetto di meta-racconto uno slittamento di senso, non del tutto illegittimo, si può dire che se la filosofia è il luogo dei meta-racconti, intesi come discorsi esaustivi ed auto-legittimantisi rispetto ad un racconto-oggetto, essa implica anche un movimento verso l’al di là del racconto, un procedere nella direzione dell’a-topia dell’irraccontabile. Tale difficoltà di definire univocamente la filosofia sia riguardo a se stessa sia a ciò con cui, direttamente o indirettamente, entra in relazione, è evidente anche per Lyotard. La crisi che investe i meta-racconti e le narrazioni legittimanti e che costituisce uno dei lati di ciò che si chiama ‘condizione post-moderna’, è opera da un lato dello sviluppo tecnico-scientifico e del criterio di performatività che sembra essere divenuto la regola su cui si basa l’insieme dei rapporti fra scienza e società, ma dall’altro si presenta come il risultato di un processo di erosione che ha colpito dall’interno i meta-racconti. In altri termini, lo stesso discorso filosofico si è incaricato di cogliere i limiti che minavano strutturalmente le ipotesi più esaustive di meta-racconto razionale, fosse quello ‘emancipativo’ (il racconto dell’Aufklärung) o quello del soggetto del sapere. Senza voler rifare qui la storia della filosofia post-hegeliana, gli esiti diversificati, ma su questo punto solidali, del nichilismo nietzscheano o del programma di distruzione/oltrepassamento della metafisica di Heidegger, dimostrano come la tradizione della filosofia ‘umanistico-razionale’ abbia cessato di essere legittimante. Ma non è necessario riferirsi alla posizione estrema del nichilismo per cogliere quanto il discorso filosofico abbia messo in crisi le narra-

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IL DISCORSO E LA CENERE

zioni legittimanti ed i meta-racconti razionali: uno sguardo alle pagine diltheyane dell’Einleitung in die Geisteswissenschaften, in cui, sia detto di passaggio, si attribuivano alle scienze dello spirito tre classi di enunciati, descrittivo-percettivi, teoretici e prescrittivo-normativi10, è sufficiente per vedere all’opera la lucida critica del meta-racconto ‘Filosofia della storia’ e di quello della ‘sociologia positiva’. La stessa descrizione della crisi è, come si sa, presente nelle pagine d’apertura di due testi per altri versi distanti: la Krisis husserliana e Der Historismus und seine Probleme di Troeltsch11. La crisi non riguarda, infatti, per questi autori, le 10 Cfr. W. Dilthey, Einleitung in die Geisteswissenschaften, tr. it. di G. A. De Toni, Firenze 1974, pp. 4345. 11 «Quando oggi si sente parlare frequentemente di una crisi della scienza storica, – scrive Troeltsch – più che di una crisi della indagine storica degli studiosi e degli specialisti, si tratta di una crisi del pensiero storico in generale (E. Troetsch, Der Historismus und seine Probleme, ed. it. a cura di G. Cantillo e F. Tessitore, Napoli 1985, p. 51). E dopo un accenno alla gioventù che diviene «astorica» proprio a causa dell’ «insensata produzione di libri e la superfetazione di scritti degli ultimi decenni», per cui «dispera dinanzi all’enorme poltiglia di cui dovrebbe continuare a nutrirsi» (p. 53), conclude tale diagnosi della crisi, il cui tono nietzscheano è innegabile, con l’osservazione secondo la quale «se non si può parlare di una crisi effettiva sul terreno dell’indagine storiografica.., la crisi è invece tanto più grave nei generali fondamenti ed elementi filosofici del pensiero storico, nella concezione dei valori storici, sulla cui base dobbiamo pensare e costruire la connessione della storia» (p. 54). È sintomatico che la denuncia della crisi prenda le mosse dallo scollamento in atto fra ricerca ed insegnamento prodotto proprio dallo sviluppo dell’indagine storiografica. Come a dire che tale sviluppo, che comporta la crescente spersonalizzazione della ricerca, emargina il momento della trasmissione-insegnamento. Se di una crisi si deve parlare, questa riguarda l’impossibilità di unificare in un meta-racconto i dati sempre più specifici della ricerca storica: la difficoltà di trasmettere valori equivale alla crisi della trasmissione tout-court. Ciò spiega il richiamo alla gioventù, immanente ad ogni discorso sulla trasmissione che si proponga di ricostruire il binomio ricerca-insegnamento. Quanto ad Husserl la domanda di partenza riguarda non a caso la possibilità di «parlare in generale e seriamente di una crisi delle scienze, quindi anche delle scienze positive, della matematica pura, delle scienze naturali esatte, che noi non cesseremo mai di ammirare quali esempi di una scientificità rigorosa e destinata a continui successi» (E. Husserl, Die Krisis der europäischen Wissenschaften und die transzendentale Phanomenologie, tr. it. di E. Filippini, Milano, 1961, p. 33). Ancora una volta la crisi riguarda il senso o il valore della scientificità della scienza nei confronti della vita: «Nella più recente generazione» e «specialmente dopo la guerra», l’atteggiamento generale del pubblico di fronte alla scienza «si è trasformato addirittura in uno stato d’animo ostile. Nella miseria della nostra vita – si sente dire – questa scienza non ha niente da dirci». La scienza «esclude di principio proprio quei problemi che sono i più scottanti per l’uomo, il quale, nei nostri tempi tormentati, si sente in balia del destino; i problemi del senso o del non senso dell’esistenza umana nel suo complesso» (p. 35). Il nucleo della crisi consiste, per Husserl, nel fatto che l’oscurità, che sembra avvolgere le scienze e renderle enigmatiche, non è altro che la scomparsa progressiva della soggettività; lo sviluppo obiettivistico-fisicalistico delle scienze comporta l’evanescenza del soggetto: il divenire enigmatico delle scienze è il divenir-enigma della soggettività.

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II. LYOTARD I. LA DECADENZA DEL RACCONTO

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scienze particolari – fisico-matematiche per Husserl, storiche per Troeltsch –, che anzi mostrano uno spettacolare sviluppo o un tranquillo esercizio delle proprie procedure, bensì i fondamenti razionali e assiologici che danno senso alle conoscenze specifiche e alle competenze particolari. In altri termini, la crisi qui denunciata riguarda esattamente la possibilità da parte dei meta-racconti di legittimare i saperi scientifici ed in ultima istanza di auto-legittimarsi. Non si tratta in questa sede di analizzare le risposte che sono state date alla situazione di crisi così perentoriamente descritta: esse possono essere state desolanti o rassicuranti, disperate o consolatorie a seconda dei casi. Si voleva mostrare, senza entrare in una disputa sulla datazione, la quale comporta sempre alla fine, esplicito od implicito, un racconto d’origine e di fondazione, che la condizione post-moderna era stata compresa dal pensiero filosofico ben prima della svolta, certamente decisiva, rappresentata dall’informatizzazione del sapere, dalla centralità dello sviluppo tecnologico e dall’intreccio sempre più stretto fra capitale, politica di potenza e programmi di ricerca, insieme alle mutazioni del sistema educativo in generale e dell’università in particolare. D’altro canto, il procedere delle scienze e della riflessione sul loro operari, ha da solo reso obsoleta la questione della legittimazione e, di conseguenza, la necessità dei meta-racconti. Infatti una delle condizioni di possibilità del meta-racconto razionale era rappresentata dalla relativa stabilità dei saperi scientifici, cioè dalla compattezza con cui ciascun sapere auto-interpretava se stesso e delimitava i propri confini rispetto agli altri. Si trattava allora per il meta-racconto di sistemare i saperi in un ordine di complessità crescente che mimasse la linearità di un processo di emancipazione o, attraverso il criterio di una mediazione universale, di cogliere i punti di passaggio fra i singoli sistemi di conoscenza. In entrambi i casi il metaracconto soddisfaceva l’esigenza, preliminare alla possibilità della legittimazione, della critica alla pretesa di auto-legittimazione delle scienze particolari. Da questo punto di vista si potrebbe dire che il meta-racconto dell’Aufklärung, al di là delle prese di posizione liquidatorie o più semplicemente aggiornanti, resti il racconto-base della modernità. La situazione post-moderna implica, al contrario, l’acquisizione da parte dei saperi scientifici della necessità, per la loro stessa sopravvivenza e per il loro sviluppo, dell’abbandono dei principi di stabilità e delimitazione, intesi come gli unici criteri possibili della loro esistenza. La possibilità che una regione del sapere si scinda e produca ambiti di

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IL DISCORSO E LA CENERE

conoscenza del tutto indipendenti dalla scienza-madre e le fluttuazioni crescenti fra settori di ricerca costituiscono l’auto-consapevolezza odierna della comunità scientifica. La scelta fra programmi di ricerca non è più sorretta dalla prescrizione di un meta-racconto razionale, bensì da una scoperta, a volte marginale e secondaria, che inaugura una disciplina non prevista dal programma originario. Per non contare decisioni che vengono prese all’esterno della comunità scientifica e che orientano la ricerca verso direzioni che non provengono da uno sviluppo autonomo del discorso scientifico. Queste trasformazioni interne ai saperi scientifici non possono, d’altra parte, lasciare intatta la struttura dell’istituzione educativa. Le riforme della scuola primaria e secondaria, fondate sull’introduzione dell’informatizzazione dell’insegnamento, sull’aggiornamento tecnologico e sull’abolizione o marginalizzazione dei saperi umanistici, fra cui la stessa filosofia, ne sono la prova. Per quanto riguarda l’università, invece, la mutazione del sapere incide attraverso lo sfaldamento del vecchio ordine delle facoltà, la ristrutturazione dipartimentale (strumento, perlomeno in teoria, talmente flessibile da poter seguire e talvolta anticipare l’invenzione scientifica) e la stagnazione delle facoltà umanistiche. Il panorama, certamente incompleto e manchevole, della condizione post-moderna, pone, tuttavia, questioni non indifferenti e che riguardano più da vicino il nostro discorso, in particolare la funzione e la destinazione, nella situazione attuale, della filosofia. Se la questione chiave che noi abbiamo sollevato è quella della possibilità del racconto della verità, è indubbio che il ragionamento di Lyotard entra di diritto nelle nostre considerazioni. Se, da un lato, la filosofia si presenta come produttrice di meta-racconti, dall’altro, come abbiamo visto, essa è costante messa in crisi della riduzione della verità sia ad oggetto di una narrazione, sia anche a puro gioco linguistico tra altri giochi linguistici. Un semplice attestarsi sulla soluzione ‘prospettivista’, intesa come parola definitiva della riflessione, non è tanto incongruo rispetto alla tradizione filosofica, bensì nei riguardi di un accadere della verità, che è performativo nei confronti del soggetto (scientifico-filosofico o identificato con una qualunque voce narrante) e che costringe, cioè, a dire la verità, nel momento stesso in cui sottrae la parola. Le descrizioni che attualmente si danno della condizione post-moderna oscillano, come si sa, fra una registrazione dello stato di fatto dello sviluppo dei saperi scientifici e un’accettazione di un orizzonte popolato da narrazioni che nessun meta-racconto unifica, gerarchizza e legittima. In tal modo, come si assiste più o meno impotenti all’espansione del-

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II. LYOTARD I. LA DECADENZA DEL RACCONTO

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l’informatizzazione, così si dichiarano equivalenti le narrazioni, le prospettive, i punti di vista, in fin dei conti tutti legittimi nella loro radicale infondatezza. È vero altresì che proprio l’assenza di fondamento, la scomparsa simultanea del ‘mondo vero’ e del ‘mondo apparente’ – scomparsa di cui resta il mondo, appunto, dell’affabulazione –, ripropone la questione cruciale della scelta, e non tanto e non solo, come scelta fra le narrazioni e i punti di vista dispersi e contraddittori, quanto come scelta radicale ed assoluta per l’insieme del mondo infondato e privo di legittimazione. Giacché la verità di questo mondo non ha cessato per un attimo di sussistere come verità della specie, come verità del dolore (e dolore della verità), sebbene essa non si lasci più incapsulare in una narrazione esaustiva, in un meta-racconto razionale. È necessario chiedersi se proprio la de-legittimazione dei meta-racconti non inauguri il tempo dell’etica, vale a dire della responsabilità assoluta dell’Altro, responsabilità non più declinabile nelle forme della contemplazione teoretica, del metaracconto auto-legittimantesi e dell’agire morale razionalmente fondato. La trasformazione che la condizione post-moderna non ha fatto altro che rendere evidente – e che sola interessa la pratica filosofica – è quella che riguarda lo statuto della verità: non più effetto della correttezza logico-grammaticale della proposizione, e nemmeno prospettiva inerente ad un gioco linguistico, bensì evento, accadere ed occorrenza: differenza, ‘gramma’ di nessuna grammatica, traccia già da sempre cancellata e che, tuttavia, inerisce al soggetto, ‘gettandolo’ nella condizione non rifiutabile di dover dar parola al non dicibile, di dover narrare l’irraccontabile, di dover trasmettere l’ininsegnabile. Non è forse per questo che la filosofia occupa un posto eccentrico tra i saperi – sapere essa stessa e non sapere – e nell’istituzione universitaria – istanza di legittimazione e, come vedremo, origine del ‘conflitto tra le facoltà’? E non è proprio la filosofia ad essere quella pratica definibile soltanto come fluttuazione fra la necessità del voler dire e l’impossibilità del racconto? Forse, infine, la filosofia coincide con ciò che da sempre è la messa in opera di tale ambivalenza, con ciò che si chiama con una sola parola – scrittura. La filosofia è la ‘scrittura’ della verità.

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Capitolo terzo Lyotard II. L’emergenza della frase

Niemand zeugt für den Zeugen*. P. Celan, Aschenglorie

Si dia, ora, una frase del tipo, «C’è la cenere». Non porremo per ora la questione di chi sia il destinatore, chi il destinatario, chi o che cosa il referente di tale frase. Ci basti dire che la frase accade, arrive, e che sempre ogniqualvolta una frase accade, qualcuno è obbligato a farsene carico, a cercare di pensarla secondo un gioco linguistico. Come direbbe Lyotard, a concatenarsi ad essa, concatenandola con altre frasi. S’immagini, dunque, che la frase sia concatenata in un gioco linguistico di tipo denotativo, che essa cioè miri a mostrare un dato di fatto, offrendosi così, come sappiamo, al criterio della falsificazione. La frase mostra e dimostra l’esistenza dei forni crematori, ed insieme dichiara veramente accaduto il progamma della ‘soluzione finale’. Si noti: la frase non attesta l’esistenza in quanto tale dei campi, che ne è, anzi, il presupposto, ma che dietro l’intenzione manifesta del campo, come luogo di correzione e di lavoro forzato – semplice prolungamento del sistema penale-carcerario – si celi la pratica dell’eliminazione in massa del diverso. Nel momento in cui la frase viene così concatenata in un regime denotativo, essa entra in prima istanza a far parte di un sapere particolare: per dimostrarsi vera in ciò che mostra, accede alle regole di una disciplina, si dichiara prodotta secondo le procedure di una competenza. La competenza disciplinare che si arroga il diritto sulla frase ed a cui la frase di buon grado si appella, è quella degli storici: la frase è vera in base all’esistenza delle testimonianze, alla cautela procedurale usata nel vagliarle, all’autorità dei documenti, dei monumenti e delle *

Nessuno / testimonia per il / testimone.

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IL DISCORSO E LA CENERE

tracce lasciate dall’evento, raddoppiata dalla verifica filologica ed ermeneutica cui l’insieme dei reperti è stato preventivamente sottoposto. La frase, come qualunque altra frase – avremmo potuto dire, infatti, «C’è la specie» o «C’è il dolore» – richiama, dunque, il doppio registro della legittimazione: si dimostra vera in nome delle regole del sapere corrispondente, ma dipende insieme dalla giustezza delle regole stesse. Come abbiamo visto, la sua eventuale falsificazione non implica quella delle regole; nel rispetto delle procedure storiografiche la frase è falsificabile in linea di diritto. Per quanto ciò sia sembrato aberrante, la frase è stata realmente falsificata: uno storico, Robert Faurisson, ha dimostrato falsa la frase e con essa ciò che voleva mostrare per vero, l’esistenza del sistema ‘camere a gas-forni crematori’ ed il programma della soluzione finale. Dapprima ha liquidato le testimonianze con l’argomentazione più semplice: nessuno poteva dimostrare di averli realmente visti e provati1. La radice di ogni sapere storiografico, la testimonianza oculare e/o auricolare, è messa in dubbio. Nessuno, dunque, può testimoniare di aver vissuto in prima persona il genocidio (ma noi già sappiamo che nessuno ha vissuto l’esperienza del campo). Ciò è d’altronde finanche troppo ovvio: se la verità della testimonianza consistesse nell’aver provato in prima persona la camera a gas e il forno crematorio, il testimone si troverebbe nell’impossibilità di testimoniare per una ragione la cui evidenza sorpassa i limiti di qualunque sapere: sarebbe morto (testimonierebbero per lui le ceneri? È esattamente questo il problema). Si tratta allora di falsificare le testimonianze dei rimasti in vita: ma è proprio l’esser vivi che testimonia contro di loro. Una tautologia è chiamata a soccorso: se sono vivi, non sono morti. E se il programma della ‘soluzione finale’ implicava la distruzione, il loro essere vivi testimonia a favore della tesi della falsità del programma stesso. Il sapere storiografico sottrae peso proprio a ciò su cui si fonda: la presenza a sé di una coscienza vivente e la validità della testimonianza che da tale presentevivente discende. Il criterio stesso dell’Erlebnis è falsificato alla radice. Essere dei testimoni vivi è in questo caso ragione di non-legittimazione: l’essere vivi de-legittima a testimoniare della morte degli altri. 1 Per tutta la questione ‘Faurisson’, i dibattiti e le polemiche che ha suscitato, si veda P. Vidal-Naquet, Les Juif, la mémoire et le present, Paris 1981, tr. it., Roma 1985, pp. 197sg. Ma si vedano anche gli interventi polemici di Jurgen Habermas nei confronti degli storici tedeschi cosidetti ‘revisionisti’ (Nolte, Hillgruber, Hildebrand, etc.). Cfr. ora l’intera discussione in Germania. un passato che non passa, a cura di G.E. Rusconi, Torino 1987.

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III. LYOTARD II. L’EMERGENZA DELLA FRASE

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A cosa servivano allora, secondo Faurisson, le camere a gas ed i forni crematori? Sulla scia della tesi che il campo è soltanto il prolungamento del sistema carcerario, il forno ha una funzione igienica: poiché accade pure che qualche detenuto muoia durante la permanenza nel campo, la cremazione dei cadaveri risponde ad una elementare misura di ordine medico. E le testimonianze dell’altra parte? Faurisson non si scompone: esse sono inattendibili. Estorte con la tortura o dovute all’inversione dei ruoli: il boia, divenuto vittima, s’identifica con il nuovo vincitore e la confessione piena è l’anticamera delle attenuanti. Faurisson si avventura nel balletto delle cifre: i morti ebrei non sono stati, durante l’ultima guerra, più di duecentomila e sfida a provare il contrario. Qualcun’altro con lui solidale, ma più realista, sfiora il milione. Sempre, tuttavia, cifre ipotetiche: quale documento inoppugnabile può dimostrare che ne sia morto uno solo, non per morte naturale, per disgrazia o a causa dei bombardamenti, ma per deliberata volontà di eliminazione? Infine, il genocidio è un’invenzione alleata, soprattutto sionista: risponde ad interessi politici, forse economici, ma uno storico degno di questo nome e legato dal patto storiografico alla quasi-oggettività del suo sapere, non può che dichiararlo una frottola2: la frase, «C’è la cenere», è falsa secondo le procedure standard della storiografia. La replica di Vidal-Naquet è durissima (e in questo senso – ma c’era bisogno di dirlo? – giusta), tuttavia inconcludente là dove si resti sul piano del sapere storico. Non basta, infatti, invertire le argomentazioni di Faurisson, ripristinare l’autenticità delle testimonianze e la validità dei documenti, rilanciare sull’avversario l’accusa di malafede. Non si potrà comunque convincere Faurisson, né nessun’altro, che la frase, «C’è la cenere», è vera secondo il regime denotativo. Ciò è tanto vero che, come si sarà già notato, le frasi di Vidal-Naquet cessano impercettibilmente di essere denotative e passano nel regime prescrittivo: la falsità delle affermazioni di Faurisson non dipende soltanto da un cattivo uso delle procedure storiografiche, ma soprattutto da una originaria cattiva coscienza: prima che come storico, Faurisson è de-legittimato come legislatore3. Faurisson, a sua volta, nel momento in cui aveva 2

Cfr. ivi, in particolare p. 212. La metodologia storiografica di Faurisson è de-legittimata perché intenzionalmente rivolta a dimostrare il falso: «Il peggio è che è vero, replica Vidal-Naquet a Faurisson che aveva scritto, a propria giustificazione, di aver passato giorni e giorni negli archivi a consultare documenti e, quindi, di aver rispettato le regole del lavoro dello storico – che Faurisson ha veramente speso un numero incalcolabile di giornate di lavoro negli archi3

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IL DISCORSO E LA CENERE

accusato gli storici dei campi e dei forni, aveva insinuato il sospetto di malafede in nome di interessi che nulla avevano a che vedere con la neutralità dello storico. Si può dire che sempre un regime di frasi denotativo è accompagnato da una ermeneutica del sospetto rivolta verso se stessi (e ciò fa l’attendibilità di uno storico), ma insieme verso gli altri: qualunque critica storica procederà secondo i due registri della legittimazione, quello del vero e quello del giusto. Ora, al di là di queste considerazioni, che cosa rende per uno storico come Vidal-Naquet, inafferrabile l’argomentazione di Faurisson? Il fatto che essa ha la forma, non di un’argomentazione logica, ma di un ‘sofisma’: quando Gorgia, prendendo troppo sul serio la tesi parmenidea, vuole dimostrare l’inesistenza dell’ente, procede secondo questa sequenza: affermo che nulla esiste; ma se poi esistesse dico che non sarebbe conoscibile; e se infine concedo la sua conoscibilità resterebbe incomunicabile4. Questo tipo di argomentazione somiglia, come nota Lyotard5, a quella storiellina ebraica che verte sui paiuolo prestato intatto e restituito sfondato: «Non mi hai mai prestato un paiuolo», «Me lo hai prestato, ma era già rotto», «Te l’ho restituito intatto»6. Qualunque argomento si presenti, l’altro lo rilancia invertito; è vero che si smentisce continuamente, ma è come se il soggetto non si sentisse vincolato dalle affermazioni precedenti: ogni frase è isolata, benché essa sembri formalmente concatenata alla precedente. È certamente per questo che un ‘sofisma’ mima un ragionamento logico-deduttivo (o vi francesi e tedeschi, alla ricerca non, come si vorrebbe della verità, ma del falso, alla ricerca di un mezzo per distruggere un immenso insieme di prove indistruttibili, indistruttibili proprio perché costituiscono un insieme, non, come si tenta di far credere, un fascio di documenti sospetti» (p. 217). La demarcazione fra lo storico ed il non-storico passa, dunque, sul confine che separa la ricerca dei documenti dalla loro distruzione e, insieme, l’intenzione architettonica e costruttiva dalla dispersione caotica delle tracce. Secondo l’argomentazione di Vidal-Naquet, allora, il non-storico lavorerebbe a cancellare le tracce e a disseminarle: il che conduce, tuttavia, a conseguenze che finiscono per deligittimare più che il non-storico Faurisson, lo storico Vidal-Naquet. 4 Cfr. M. Untersteiner, Sofisti. Testimonianze e frammenti, vol. II, Firenze 1967, pp. 56-61. 5 J. F. Lyotard, Le différend, Paris 1983, p. 32 (tr. it. di A. Serra, Milano 1985, p. 32). Ma sull’argomentazione sofista si veda l’intera Notice Gorgias. 6 Cfr. S. Freud, Der Witz und seine Beziehung zum Unbewussten, tr. it. in Opere, vol. V, Torino 1972, p. 54. In tale argomentazione, che Freud sa bene essere più un sofisma che un motto di spirito, ogni singola replica di per sé è valida, prese insieme, però, si escludono a vicenda. ‘A’ (cioè colui che ha preso in prestito il paiuolo) tratta isolatamente ciò che deve essere considerato nel suo insieme (pp. 54-55). Il sofisma è, dunque, semplicemente una parodia ed uno sregolamento dall’interno delle regole logico-sintattiche.

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III. LYOTARD II. L’EMERGENZA DELLA FRASE

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l’intreccio di un racconto), ma il fatto che si sia consapevoli di assistere ad una ‘performance’ sofistica, di avere davanti nient’altro che un simulacro di un sillogismo corretto, conduce infine ad avere ragione? Forse ad avere ragione dal punto di vista logico, ma senza alcuna possibilità di persuasione: ci toccherà tenerci il paiuolo rotto, ci toccherà sentire uno storico sostenere, in quanto storico, l’inesistenza dei forni. C’è da chiedersi, allora, se simili dispute, dalla frivolezza di un paiuolo alla serietà dei forni crematori e della dimostrazione nichilista della non esistenza dell’ente, non siano strutturali alla comunicazione inter-soggettiva; se l’equivoco, il fraintendimento, lo stesso cattivo uso delle regole universali dell’intendersi e, dunque, la menzogna, la malafede e la falsa coscienza, siano degli accidenti secondari e derivati della ‘conversazione’, imputabili moralisticamente alla pervicacia del soggetto individuale, oppure siano coappartenenti alla possibilità stessa della comunicazione. Mentire – come restare in silenzio – non fa parte a pieno titolo della possibilità della parola? Un’altra storiellina ebraica lo dimostra: due ebrei s’incontrano sul treno; chiede il primo: «Dove vai? – e l’altro: A Cracovia. – Allora il primo risponde: Sei un bugiardo; se vai a Cracovia, è per farmi credere che vai a Leopoli. Ma io so che vai a Cracovia. Perché menti dunque»?7. Per quanto si voglia essere sinceri, per quanto le nostre parole siano il più possibile adeguate all’intenzione del voler dire, sempre qualcuno potrà accusarci di menzogna. Giacché, infine, chi ci assicura contro noi stessi, chi legittima la nostra buona intenzione? Non potrà, come quella del ‘buon’ storico, del ‘buon’ filosofo, essere a sua volta sospettata di nascondere qualcos’altro, di rispondere ad un altro interesse? Forse volevo inconsciamente andare a Leopoli e l’altro ha colto nella mia sincerità l’oscillazione del desiderio: dicendogli che vado a Cracovia egli ha ascoltato l’intenzione nascosta, finanche a me stesso, di andare a Leopoli; dunque, involontariamente, gli ho fatto credere che vado a Leopoli, mentre in realtà continuo ad andare a Cracovia. Ha ragione, allora, a risentirsi e ad accusarmi di menzogna deliberata. Se si volesse trarre la ‘morale’ della storiella, si potrebbe dire: è perché costituzionalmente io posso mentire a me stesso senza volerlo, che l’altro può, e deve, trattarmi preventi7

Ivi, p. 103. Freud aggiunge: «La sostanza più seria di questo motto è pero il problema su quale sia il criterio della verità»; questi motti, prosegue, «non assalgono una persona o una istituzione, ma la sicurezza della nostra conoscenza stessa, uno dei nostri beni speculativi. La denominazione esatta sarebbe quindi quella di motti ‘scettici’» (ivi). La struttura logica di questo motto-sofisma è, dunque, identica a quella del paradosso del mentitore.

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IL DISCORSO E LA CENERE

vamente come un mentitore. Nella mia ‘buona’ intenzione passa un messaggio contraddittorio con quello esplicitamente espresso, che l’altro coglie al volo e rimanda su di me con la marca del vero. Lo stupore che allora mi coglie è dovuto meno al fatto di essere stato così diabolicamente frainteso che all’essermi ingannato da solo. Come il lettore avrà notato per suo conto la serie degli esempi di argomentazione sofista, da quello che legittimamente può definirsi tale agli altri che ne sono la trasposizione ironica, rimanda al paradosso logico per eccellenza, quello del mentitore8. Se un cretese dice: «Tutti i cretesi mentono», non c’è escamotage meta-linguistico che possa annullare l’indecidibilità di questa frase. Non è tanto il destinatario a trovarsi in difficoltà col referente, che da qualunque parte lo prenda gli si rivolta contro, bensì il destinatore con se stesso: l’enunciato, infatti, funziona come un boomerang rispetto all’enunciazione ed al suo soggetto, procurando a quest’ultimo la vertigine del non saper più cosa dice, se il vero o il falso o entrambi o qualcosa d’altro di totalmente indefinibile. Ciò che lo sconforta non è tanto il trovarsi relegato nella non-verità – che sarebbe infine tranquillizzante, poiché la non-verità è purtuttavia un luogo delimitato e definito – quanto lo scoprire che il fondamento su cui credeva di poggiare è un senza fondo: dire la verità è mentire ed insieme mentire è dire la verità. Se lo scambio fra verità e menzogna – in senso extramorale, è il caso di dirlo –, fra essere e non essere, fra essenza ed apparenza, scambio che nessun meta-racconto – neppure quello dialettico – è in grado di porre a freno, istituendo i confini inviolabili fra le due regioni, è quel che si chiama nichilismo, sarà chiaro perché questo è l’inevitabile compimento della metafisica. Il nichilismo, infatti, è il suo ad-venire, solo perché era stato il suo a priori: se qualcosa come la metafisica – o la filosofia stessa – si è reso necessario, è stato per allontanare la tesi nichilistica, per sottrarre il vero all’abisso della non-verità costitutiva. Il nichilismo, dunque, riguarda l’inevitabile mise en abîme della verità quando essa ritenga di mostrarsi, e di-mostrarsi, nella proposizione prodotta secondo le regole logiche, dal momento che proprio queste ultime sono incapaci a loro volta di provare la loro giustezza, e la pretesa, dunque, di distinguersi da ciò che soltanto le imita, dall’ar8 Il richiamo al paradosso del mentitore è anche in Lyotard: cfr. Le diffèrend, cit., p. 20 (tr. it., p. 23). Ma si veda l’intera Notice Protagoras. Per una panoramica sul ‘paradosso del mentitore’ nella logica moderna si veda F. Rivetti Barbò, L’antinomia del mentitore. Da Peirce a Tarski, Milano 1986.

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gomentazione sofistica. Dovremo allora liquidare la verità a favore di una ‘coesistenza pacifica’ delle prospettive, dei punti di vista e dei giochi linguistici? O non dovremo ripensare, al contrario, daccapo lo statuto del vero? Lo scontro fra Faurisson e Vidal-Naquet, nota Lyotard9 , non è una disputa sulla verità delle frasi attestanti la realtà dei forni; finché esso sarà letto e promosso come tale dai contendenti – e da tutti gli altri – nulla potrà mettere all’angolo o far cadere nella rete il mentitore. L’effetto, anzi, sarà di gran lunga più grave: colui che crede di star dalla parte del giusto si troverà, costretto dall’argomentazione altrui, a mentire pur di far valere il vero; ritorcendo le accuse, accetterà il terreno dell’altro sul quale non avrebbe mai voluto scendere; tentando di delegittimare l’altro, si troverà de-legittimato egli stesso. Piuttosto si tratta di un dissidio (diffèrend): mentre un danno è il prodotto di un’offesa fatta alle regole di un genere di discorso o regime di frasi (denotativo, prescrittivo etc.) ed è rimediabile attraverso le regole stesse – scrive Lyotard10 –, un torto – e solo un torto è oggetto di un dissidio – è un’offesa prodotta dalle regole stesse: quelle con le quali si pretende giudicare il torto subito sono diverse da quelle in base alle quali si sta chiedendo giustizia. Un dissidio si apre a partire dalla non commensurabilità, dalla non traducibilità integrale ed esaustiva dei regimi di frasi. La vittima ha torto se accetta di venir giudicata dalle regole secondo le quali si muove il suo giudice, ma se tenta di chiedere giustizia in base alle proprie esse non le verranno riconosciute come valide. Risulta evidente che un dissidio non verte sull’uso più o meno adeguato delle regole di un discorso, bensì sulla loro giustezza e, in ultima analisi, sulla legittimità del legislatore. Ciò in cui una vittima s’impegna, spesso senza saperlo, non è la de-legittimazione della verità delle frasi, ma quella del meta-racconto o narrazione legittimante che fonda la verità interna al discorso. Ed è per questo che normalmente soccombe. Tuttavia, l’esempio da cui Lyotard prende le mosse, conduce a conclusioni più radicali. Si può immaginare, infatti, che una vittima nella maggior parte dei casi conduca la sua battaglia perché le regole siano, infine, cambiate e quelle con cui è giudicata inglobino anche quelle con cui essa protesta e la sua innocenza e il suo diritto. In questo caso avverrebbe una traduzione parziale fra generi di discorso diversi ed essi sarebbero d’ora in poi comparabili. Ma se la vittima sceglie il silenzio? Come 9

Ivi, p. 37 (tr. it., p. 37). Ivi, p. 9 (t r. it., p. 11).

10

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IL DISCORSO E LA CENERE

il mentire, il silenzio non è l’opposto della parola, ma una sua possibilità. Prima, dunque, dell’opposizione fra parola, cioè frase che, volente o nolente, si concatena in un discorso, e silenzio, c’è lo spazio di un mutismo primordiale; prima di parlare e di poter anche tacere – tacere dopo l’avvento della parola è un modo di continuare a parlare, di insistere nell’intenzione del voler dire – l’uomo è in-fans. Per questo non comunica? Ma se comunica, in quale lingua, in quale discorso e soprattutto cosa? I sopravvissuti parlano raramente, le testimonianze scarseggiano. Perché sanno che non saranno creduti o perché hanno vergogna della loro stessa abiezione? Anche per questo, ma soprattutto per un’impossibilità di parlare che non attiene al loro essere stati soggetti di un’esperienza votata all’incredulità o alla smentita, bensì perché l’esperienza non è un’esperienza, perché, pur essendo un’esperienza, non è raccontabile e perché, quand’anche la si potesse raccontare, risulterebbe intrasmissibile. Non è questa l’argomentazione sofista? E se lo è, come lo è, non comporta che la verità del campo sia diversa, d’altro statuto, da quella che confina indiscernibilmente con la menzogna? Se le vittime non parlano è perché sanno che, se parlassero, mentirebbero. Allora un qualunque Faurisson verrebbe a smentirle, a chiamarle bugiarde, ed avrebbe ragione. Un reduce – lo abbiamo visto – è preso dalla necessità del dire e dall’impossibilità del raccontare; egli sa di non essere un testimone, di non aver vissuto un’esperienza che possa dire sua, che possa esprimere in prima persona. È consapevole che la verità del campo non è oggetto di un’intenzione della coscienza, non si offre ad una visione intellettuale; il reduce sa in partenza di essere de-legittimato a parlarne, ma non dagli altri, da chi lo ascolta ora o dallo storico futuro, bensì – ed è qui il paradosso – dalla verità stessa; giacché la verità del campo è a sua volta al di là dell’opposizione fra vero e falso secondo il regime denotativo, al di là di quella fra silenzio e parola, fra essere e non essere, fra essenza ed apparenza. Il suo statuto – intramorale – è quello dell’essere dell’inesistere, dell’essenza dell’inappariscente. E, dunque, del silenzio prima della parola, della verità che antecede la verità logica per sua natura falsificabile. Tuttavia non sembra essere questa la direzione impressa da Lyotard al suo discorso teorico: lo impedisce il postulato di partenza dell’irriducibilità della frase: per quanto la vittima resti silenziosa, è solo perché non ha ancora trovato la frase e, di conseguenza, l’idioma, che le permetta di dire quel qualcosa che, inespresso, l’altro si rifiuta di riconoscerle. Da qui il richiamo da un lato alla terza critica kantiana che, equidistante dalla necessità dei regimi denotativo e prescrittivo rigoro-

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samente intesi, lascia aperta la strada all’esercizio del giudizio come libera comparabilità fra forme della ragione non pregiudicate dalla conoscenza teoretica e determinazioni empirico-individuali non relegate nella sfera del patologico: come se la vittima, in torto davanti al criterio trascendentale della verità e alla purezza della ragione pratica, soltanto nel giudizio venisse riconosciuta come portatrice di razionalità e potesse far valere il suo diritto. E dall’altro il richiamo agli scritti di filosofia della storia – l’ipotetica quarta critica già evocata da Dilthey –, che lasciano a loro volta impregiudicata la possibilità che i valori propriamente umani si realizzino in un movimento di progresso all’infinito, non preventivamente legittimato da un meta-racconto del soggetto del sapere assurto a rappresentante dell’umanità11. È certo che per Lyotard le frasi, venuto meno il potere legittimante del meta-racconto, presentano un’eccedenza rispetto a ciò che attualmente può essere detto attraverso di esse, cosicché la storia è sì lo spazio dei dissidi, ma è anche quello della possibile creazione di idiomi che non esistono ancora: il proprio della storia è l’essere aperta, strutturalmente non compiuta e, dunque, ambito non del necessario, bensì del possibile. Ma se colui che subisce un torto, pur essendogli offerta la possibilità di un idioma per esprimerlo, si rifiutasse alla parola? Se il grido, il pianto (e il riso) o il silenzio stesso fossero già un idioma? Quale lingua prima della lingua dovrebbe essere pensata? La situazione in cui si trova la vittima in-fans non è riducibile all’alternativa fra il poter-non-parlare ed il non-poter-parlare: fra, cioè, una privazione interna alla possibilità della parola e che può essere assunta liberamente, e una negazione della possibilità in quanto tale, che si completa nella tortura in quanto negazione della possibilità di tacere. Tuttavia, fa notare Lyotard, una possibilità in quanto tale non è minacciabile: benché io possa costringere a parlare sotto la minaccia che quello sarà l’ultimo silenzio della vittima o, all’inverso, a tacere con l’avvertenza che altrimenti ciò che ancora dirà sarà la sua ultima parola, per il principio che una frase sempre si concatena ad un’altra frase, l’ultimo silenzio e l’ultima parola avranno, per esser detti tali, bisogno di una frase ulteriore. Per dire la fine c’è bisogno di una frase ancora che nega la pretesa della precedente12. 11 Su questi punti si tornerà più dettagliatamente nel prosieguo di questo lavoro. Sull’interpretazione lyotardiana della filosofia della storia kantiana si veda: J. F. Lyotard, L’enthousiasme. La critique kantienne de l’histoire, Paris 1986. 12 Sulla capacità di parlare e di tacere e sul paradosso dell’ultima frase cfr. J. F. Lyotard, Le différend, cit., pp. 26-27 (tr. it., p’ 28).

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A cosa porta il paradosso dell’ultima frase o dell’ultimo silenzio? Al fatto che il soggetto non è il proprietario delle sue frasi e dei suoi silenzi, così come non lo è di quelli dell’altro. Il non poter mettere la parola fine o rinserrarsi nel silenzio, mostra, secondo Lyotard, come siano il destinatore, il destinatario ed il referente ad essere posseduti dalla frase attuale e dalla necessità, quando siano attualmente silenziosi, della frase futura. Esiste un ‘imperialismo’ della frase che, se da un lato esclude la convinzione che nella comunicazione vi siano delle informazioni da scambiare, di cui qualcuno (destinatore) è il proprietario o il soggettosupposto-sapere e che vengono date in cambio di quelle, attualmente o in futuro, in possesso del destinatario13, dall’altro nega l’esistenza di frasi che costringono sì il soggetto alla parola, ma allo stesso tempo ed inscindibilmente, al silenzio: frasi indecidibili ora e sempre, extra-storiche, perché in esse accade la verità. «C’è la cenere», è una di queste. D’altronde Lyotard non nega che il sopravvissuto possa, senza essere minacciato nella sua capacità di soggetto parlante-tacente, rifiutarsi alla parola. Ma in questo caso il silenzio della vittima è solo il negativo di una frase attualmente non detta o non dicibile, non il silenzio originario che la parola deve salvaguardare come tale. Il silenzio di fronte al competente della lingua secondo le sue varie declinazioni e relazioni con altre regioni del sapere (psico-linguistica, socio-linguistica, bio-linguistica etc.) o quello di fronte alle istanze (presunte) autoritarie che governano l’intellegibilità dei sintomi muti, delle reticenze e delle rimozioni (confessore, psicoanalista) potrebbero essere letti come una frase e tradotti: «Il caso non è di sua competenza», «Il caso non esiste», «Non si può significare», «Non mi riguarda»14. Frasi che, come si vede, ripetono l’argomentazione del sofista. Allora la vittima non testimonia col suo silenzio l’inesistenza dei forni, ma la sfiducia nell’autorità del destinatario: le sue regole non sono le mie, il torto, l’offesa che ho subito, non hanno posto nel suo discorso; resterò zitto finquando le regole non cambieranno ed il legislatore non sarà de-legittimato. Ancora una volta, per Lyotard, bisogna rispondere all’argomentazione sofista non per confutare le frasi che produce o la falsificazione che opera sulle altre, ma per de-legittimare la presunta giustezza delle regole, sia quelle del sofista sia quelle di chi volendo difenderci tira acqua al mulino dell’avversario. Dal momento che il testimone può ritenersi anche non autorizzato alla testimonianza o più semplicemente pensa che la parola sia incapace di dire il campo – inim13 Sulla presupposizione da parte delle scienze umane che la comunicazione implichi possesso cfr. ivi, p. 28 (tr. it., p. 29). 14 Cfr. ivi, p. 30 (tr. it., p. 31).

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maginabile, assurdo, proprio come il soldato liberatore: ‘spaventoso, sì, spaventoso’ – l’unica via d’uscita è superare la negatività dell’argomentazione sofista semplicemente così, mimandola: «Non ci sono stati forni crematori? Si invece. – Ma non potete formularlo in frasi? Sì che si può. – Ma ammesso che lo si possa formulare, nessuno ha l’autorità per comunicarlo e nessuno per ascoltarlo, nel suo senso intendo? Invece sì»15. Con ciò certamente Lyotard si schiera contro le letture ‘deboli’ della post-modernità, contro il nichilismo assunto come orizzonte invalicabile dell’epoca; il suo problema, scrive, è: «Data 1) l’impossibilità di evitare i conflitti (l’impossibilità dell’indifferenza) e 2) l’assenza di un genere di discorso universale per regolarli – il meta-racconto ormai delegittimato – o, se si preferisce, la necessità che il giudice sia parte in causa, trovare, se non ciò che può legittimare il giudizio (il ‘buon’ concatenamento – delle frasi o del silenzio con una frase), almeno salvare l’onore di pensare»16. Ossia, fra le narrazioni ed i giochi linguistici, privi ormai di legittimazione, ma tutti legittimati ad esprimersi in quanto prospettive equivalenti, occorre scegliere, giudicare quale più giusto di un altro, quale destinato all’espulsione dalla conversazione inter-umana; e per farlo, visto che a sua volta la facoltà del giudicare è infondata, bisogna occupare l’interstizio fra i discorsi, ascoltare il silenzio che cerca la sua frase, lottare per inventare la frase non ancora udita in cui l’intenzione che agita il silenzio si plachi ed il torto, se non riparato, sia almeno riconosciuto. Tutto giusto, se non fosse che Auschwitz non è indicibile perché inumano ed inimmaginabile, ma perché non sopporta frasi se non quella che tramanda, dicendosi, l’intrasmissibilità dell’esperienza, se non un racconto – un concatenamento certamente – che testimonia dell’impossibilità del raccontare. Auschwitz sopporta solo la frase, «C’è la cenere»; ma si trasmette la cenere? Testimonia la cenere? O si disperde, si dissemina? Accade e scompare in questo accadimento? Lyotard risponderebbe: Lei pregiudica circa l’Ac-cade17? Ma è esattamente per15

Ivi, p. 31 (tr. it., p. 32). Ivi, p. 10 (tr. it., p. 13). 17 « Ma l’occorrenza (occurence) non fa una storia? – Non è un segno, in effetti. Ma resta da giudicare, sin nella sua incomparabilità. Non si farà un ‘programma’ politico con l’occorrenza. Ma si può testimoniare in suo favore. – E se ne nessuno ascolta la testimonianza, ecc. (nr. 1 sgg.)? – Lei pre-giudica circa l’Accade (Arrive t-il)? (ivi, p. 260, tr. it., p. 227). E quel ‘nr.1 sgg.’ fra parentesi che testimonia almeno a favore dell’onestà filosofica di Lyotard, come se, una volta giunti alla fine, la questione da cui si era partiti fosse rimasta intatta: il testo non pretende l’esaustività; è aperto, pronto a sopportare di essere concatenato con altre frasi. 16

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IL DISCORSO E LA CENERE

ché non si vuole pre-giudicare circa l’Accade, che l’ac-cade, sia esso una parola o un silenzio, non si rinchiude in un regime di frasi, se non per testimoniare dell’impossibilità di qualsiasi regime presente o futuro con cui possa concatenarsi. Abbiamo scritto: le voci non attendono nuove frasi dalla storia, bensì una parola avvenire, parola che fedele all’attesa non sarà mai pronunciata, e che era per questo che nel frattempo scrivevano iscrivendosi. Ogni ‘Accade’ si destina al di là dei regimi di frasi, dei generi di discorso e dei giochi linguistici e, dunque, al di là del giudizio fra di essi, in un ‘avvenire’ che è tale perché sempre ad-veniente, sempre prossimo – forse il più prossimo – e tuttavia il più lontano, l’assolutamente lontano. L’eccedenza che anche Lyotard riconosce alle frasi, non è dunque tale rispetto ai regimi presenti, bensì a ciò che sorpassa tutti i regimi possibili: il silenzio, prima della parola, che costringe al dire, al dire questo stesso silenzio. In un altro contesto, in cui, però, si pone la stessa questione, Walter Benjamin ha sostenuto che se si può dire che la natura caduta è in lutto (trauert) perché muta (Stumm), più giusto sarebbe dire: il suo mutismo proviene dal suo lutto. Se le creature tacciono ciò non è dovuto al fatto che sia stata loro tolta la capacità della parola: essere in lutto spinge all’assenza di parola (Sprachlosigkeit), la malinconia d’essere rovina al rifiuto di comunicare18. Non era infatti l’intenzione della SS ridurre a natura il detenuto, intenzione che s’infrangeva davanti alla barriera della specie umana? Se la creatura è condotta sul limite – differenza indicibile – che separa l’umano dal semplicemente naturale, tuttavia l’esser natura per un uomo fa ancora parte dell’indivisibilità della specie. Ma quale lingua esprimerà, senza espressione, questo star sul bordo inattingibile che marca il salto fra le due regioni? Una muta lingua in cui si comunica quell’evento d’essere che le creature sono, quell’accade prima d’ogni frase e regime di frasi. Qualche pagina prima, Benjamin, citando Johann Wilhelm Ritter, poneva la domanda: esiste parola senza la sua lettera alfabetica, pensiero senza il suo gero-

18 Cfr. W. Benjamin, Ursprung des deutschen Trauerspiels, in Gesammelte Schriften, Band I, 1, Frankfurt am Main 1980, p. 398 (tr. it. di E. Filippini, Torino 1971, p. 244). Le frasi dell’Ursprung sono un’autocitazione dal saggio precedente sulla lingua, cfr. Uber Sprache überhaupt und über die Sprache des Menschen, in Gesammelte Schriften, cit., Band II, 1, p. 155 (tr. it. di R. Solmi in W. Benjamin, Metafisica della gioventù. Scritti 19101918, vol. I delle Opere, cit., p. 191). Sulla teoria della lingua in Benjamin rinvio al mio Walter Benjamin e la moralità del moderno, Napoli 1985, pp. 213 sg.

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glifico, senza la sua scrittura19? La stessa parola creatrice di Dio non va pensata come mai proferita nel soffio di una voce? E, dunque, come scrittura, sebbene originaria, come archi-scrittura (ma qui l’origine non è sempre anche assenza d’origine)? Il lutto (Trauer) della creatura è la consapevolezza d’esser stata scritta nel testo originario e d’esserne stata allontanata in vista di una voce umana: essa è ora testo conficcato nella determinatezza empirica. Ma non è un testo ciò che occupa l’intervallo fra la scrittura (l’archi-scrittura) e la voce? E l’unica voce che ascoltiamo non è una voce muta, la voce scritta che scrive? Che il contesto di queste riflessioni sulla lingua fosse costituito dal Tranerspiel e dalla scrittura allegorica, rafforza la necessità del richiamo: giacché, infine, quel che volevamo mostrare era che, se Auschwitz entrava come esempio in un discorso sulla legittimazione, sulla fine del meta-racconto e sulla questione della giustizia, non era perché Auschwitz si concatenasse con frasi del tipo: dopo Auschwitz non è più possibile letteratura, filosofia etc. Le riflessioni di Adorno che leggono in Auschwitz la resa finale di uno dei poli della dialettica dell’Aufklärung sono qui fuori gioco20. La ragione come rischiaramento ed eman19 Cfr. W. Benjamin, Ursprung des deutschen Trauerspiels , cit., pp. 387-388 (tr. it., pp. 231-232). Scriveva Ritter: la figura sonora è per noi interiormente una «figura di luce», una «scrittura di fuoco». E ancora che l’assoluta contemporaneità di parola e scrittura stava nel fatto che «l’organo del linguaggio per conto suo già scrive, per parlare». «Io volevo dunque – aggiungeva – ritrovare la struttura originaria o naturale», giacché «veramente tutta la creazione è linguaggio, e così letteralmente creata dalla parola, e la stessa parola creata e creatrice...». Ma a tale parola, tuttavia, andava, secondo Ritter, inseparabilmente connessa la lettera alfabetica (J. W. Ritter, Fragmente auf dem Nachlasse eines jungen Physikers. Ein Taschenbuch für Freunde der Natur, Heidelberg 1810; tr. it. di G. Baffo e con una introduzione di Fabrizio Desideri, Roma-Napoli 1988, p. 256; i passi sono citati in W. Benjamin, Ursprung des deutschen Trauerspiels, cit., p. 388, tr. it., p. 232). 20 Cfr. T. W. Adorno, Negative Dialektik, tr. it. di C.A. Donolo, Torino 1970, pp. 326 sg. Auschwitz rappresenta, per Adorno, da un lato, lo scollamento definitivo fra il pensiero speculativo e l’esperienza; l’individuo si trova spossessato anche dell’ultima misera cosa che gli era rimasta – la morte. Nel campo, la morte si fa anonima e di massa: «Non c’è più – infatti – alcuna possibilità che essa entri nella vita vissuta dei singoli come un qualcosa che concordi con il suo corso. L’individuo viene spossessato dell’ultima e più misera cosa che gli era rimasta». Tuttavia, tale estraneazione della morte è l’effetto finale dello stesso pensiero speculativo, cosicché Auschwitz, dall’altro lato, porta a compimento la tradizione della metafisica razionalistica, la cui norma è identificata con la « pura identità della morte». Auschwitz è allora nello stesso tempo l’annullamento della differenza individuale, cui è sottratta persino la possibilità della ‘propria morte’, e la corrispettiva distruzione dell’identità, cioè dell’eguaglianza A=A, come norma della ragione. Nei campi, chiarisce Adorno, «non moriva più l’individuo, ma l’esemplare»; nei campi, allora, è la specie stessa che

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IL DISCORSO E LA CENERE

cipazione mostra il suo rovescio: per liberarsi dal mito è stata costretta, d’altro canto, a costruire nuove tecniche di dominio istintuale e a mettere a freno oltre il dovuto, ed a profitto dell’io razionale, la spinta affettiva alla felicità. Non a caso il suo emblema è Odisseo: ascolta il canto delle sirene, ma legato all’albero della nave, mentre i suoi compagni hanno turate le orecchie; la ragione emancipatrice paga il suo scotto e diviene dominio. Kafka aveva visto più lontano: e se il fascino delle sirene fosse stato il loro silenzio? La coppia ragione emancipatrice, ragione-progetto di liberazione, e ragione come dominio non è interna ad una tradizione che rimuove il silenzioso accadimento della verità? Ora, Auschwitz non è la rappresentazione di come il progetto dell’Aufklärung – il meta-racconto illuminista – possa tradire se stesso, là dove dimentichi la dialettica che lo costituisce, e tolga dunque alla filosofia – all’ontologia tradizionale che di questa dimenticanza è responmuore, la presenza a sé della specie umana, di cui l’identità A=A costituisce la trascrizione logica. La conseguenza è che, morta la specie, « il morire deve attaccarsi anche a quelli sfuggiti a tale misura». Allo scampato resta solo la colpa del non essere morto e la morte anonima e burocratica diviene il lascito di Auschwitz: Il genocidio – scrive Adorno – è l’integrazione assoluta che si prepara ovunque, dove uomini vengono omogeneizzati, ‘scafati’ – come si dice in gergo militare – finché li si estirpa letteralmente, deviazioni dal concetto della completa nullità» (p. 237). Così Auschwitz inaugura il tempo dell’amministrazione totale, il genocidio coincide con l’integrazione assoluta ed il campo diviene l’emblema della società burocratizzata: con Auschwitz si fa effettuale il dominio della ragione calcolante, che giunge all’apice quando è in grado di quantificare anche la morte. Ora è proprio della ragione illuminista – ragione liberatrice, nucleo portante del meta-racconto razionale dell’emancipazione – trovarsi sempre ad un passo dal trasformarsi in annientamento: se, da un lato, la ragione rischiara e, quindi, libera, togliendo, attraverso l’opera della negazione, l’esteriorità del dato, dall’altro tale operari può rovesciarsi in una forma di dominio la cui cifra è la morte. Infatti, se è vero che, secondo il suo concetto, l’individuo è finitezza e, quindi, nulla, una ragione non criticamente sorvegliata può vedere, nella singolarità che è ancora un qualcosa, un ostacolo che va sradicato. Solo il lavorio di una dialettica, che si definisce negativa al fine di evitare che il suo scopo sia l’identità positiva dell’A=A, mantiene lo iato fra il progetto di liberazione ed il diritto della determinatezza empirica. Tuttavia Auschwitz è là, è accaduto: la ragione emancipatrice non può illudersi, deve ricominciare da questo nulla reso effettuale, deve concatenare tale silenzio. Può farlo? Non è questa la domanda sul dopo-Auschwitz? Ma di fronte a tale accadere non si manifesta da parte di Adorno un pregiudizio? Adorno pre-giudica circa l’accade, prende la specie secondo l’astratta identità A=A e solo per questo ne può dichiarare la morte. Da Antelme noi abbiamo appreso che la specie non è morta ad Auschwitz; piuttosto la specie umana, ‘l’esemplare’, vi si è manifestata come l’inappariscente. Se fosse questa e non altra la sua specifica modalità d’espressione: l’inespressivo? Cosa significherebbe allora concatenare Auschwitz? Quale frase dirà l’assoluta negatività della cenere?

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sabile – gran parte della sua legittimità; Auschwitz è, nei termini di Benjamin, un perfetto Trauerspiel. Auschwitz, infatti, è la messa in scena della fine della rappresentazione; vale a dire della verità come rappresentazione, nel doppio senso di ciò che si dà a vedere, lo spettacolo, e della ri-presentificazione della presenza a sè originaria: due sensi in qualche modo solidali se la rappresentazione è lo spazio della ri-presentificazione della presenza. E, dunque, fine della verità come adeguazione fra la rappresentazione e l’evento o la cosa di cui essa è la resa rappresentativa21. L’impossibilità di trasporre Auschwitz in racconto discende da tale suo carattere non rappresentativo: se non è uno spettacolo, Auschwitz non ha spettatori, come non ha eroe eponimo; sia una narrazione tradizionale sia un meta-racconto mancano la presa su Auschwitz per l’impossibilità di individuare un destinatore, un destinatario ed un referente. Se è vero che una narrazione si legittima per la sostanziale identità di queste tre istanze, allora Auschwitz attesta in quanto tale l’impossibilità della trasmissione. Da questo punto di vista Auschiwtz non è una scansione, per quanto radicale, nel tramandamento, solo perché l’umanesimo incontra nel campo il suo scacco e si rovescia in inumano; o, in altri termini, Auschwitz non costituisce il limite della tramandabilità come se, semplicemente, non trovasse posto all’interno delle forme canoniche del tramandamento. Auschwitz è in se stesso non trasmissibilità poiché la sua esperienza abolisce i presupposti di ogni trasmissione, e cioè un narratore, un ascoltatore e l’esperienza in quanto Erlebnis, vissuto soggettivo. Anche un meta-racconto razionale si dimostra impotente; e ciò non tanto perché il sapere, fosse pure assoluto, non sia in grado di inserire nel suo circolo anche questa determinatezza empirica, ma perché il soggetto del sapere – eroe eponimo, secondo Lyotard, del meta-racconto razionale – sempre si destina e, dunque, si trasmette a se stesso: si spedisce, narrandosi, a quell’ascoltatore che è lui stesso e che lo saprà comprendere meglio di quanto egli possa ora, quando è solo all’inizio, al sorgere aurorale della sua esperienza. Ciò che pone in crisi il meta-racconto razionale non è tanto che inizio e fine, origine e meta, si ricongiungano nell’esaustività di un sapere assoluto, quanto che tutto l’accadere, eccetto forse l’accidente empirico, sia narrabile, che sempre il soggetto, ad ogni stadio del suo cammino, possa raccontare la sua storia e trasmetterla. 21

Su questo punto si veda la voce Rappresentazione curata da Fernando Gil per l’Enciclopedia Einaudi.

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IL DISCORSO E LA CENERE

Ma il rapporto fra Auschwitz ed il Trauerspiel conduce ancora più lontano: se non c’è spettatore (destinatario) perché non c’è eroe (destinatore e narratore originario), nessuna catarsi di fronte ad Auschwitz; nessuna liberazione dalle/delle passioni, nessun transfert, almeno di non pensarlo al di là della sfera psicologica. Ed infine se è vero che il Trauerspiel – perlomeno secondo la tesi di Benjamin22 – è il compimento e la liquidazione del genere tragico, allora Auschwitz è anche la fine della verità scissa, della contraddizione fra i discorsi ad uguale pretesa di verità e giustizia, delle narrazioni simultanee e legittime fra le quali sia richiesto il giudizio: Benjamin ricorda che l’eroe della tragedia antica, giunto alla fine della sua esperienza, scopriva con costernazione – e ciò lo rendeva in-fans, moralmente infans – di essere migliore dei suoi dei: il loro contraddirsi era ciò che infine li de-legittimava: non più dei, ma demoni. Se Auschwitz è tutto questo, allora cosa attesta la cenere? Di che cosa è testimone? Cosa racconta? Che trasmette? Forse la specie immemoriale, l’alterità irriducibile, il dolore assoluto del pensiero, l’attesa senza attesa del desiderio. Forse l’accadimento stesso della verità senza racconto: c’è la frase: «C’è la cenere». Ed un ordine: racconta questa frase irracontabile.

22 Per questa tesi rinvio di nuovo al mio Walter Benjamin e la moralità del moderno, cit. pp. 305 sg..

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Capitolo quarto L’elogio della cenere. Controfirmato, Jacques Derrida

Kam, Kam, Kam ein Wort, Kam, Kam durch die Nacht, Wollt leuchten, wollt leuchten. Asche. Asche, Asche. Nacht. Nacht-und-Nacht – Zum Aug geh, zum feuchten* P. Celan, Engfürung

Da dove vengono le frasi? Da quale luogo? Sempre che vi sia – un luogo? Un certo tacito primato, che Lyotard accordava al proferimento sonoro delle frasi, costituiva, forse, uno dei limiti del suo discorso. È vero che perché si dia una frase, è necessario che vi sia una voce. Ma una voce – noi lo sappiamo – è sempre una voce scritta. Né noi abbandoneremo questa tesi, purché ci si ricordi che la scrittura è anche sempre la scrittura di una voce. Comunque, è da un testo che a noi giunge – o, piuttosto, accade – una frase – detta, scritta. ‘C’è la cenere’, dunque, viene a noi da un testo; solo, con una piccola variante: la scriveremo adesso, ‘C’è là cenere’. Scritto da Jacques Derrida, come suo nome d’autore, privo di controfirma visibile (ma vedremo subito la quasi-verità di un simile enunciato), Il y a là cendre o Feu la cendre o, secondo la traduzione italiana, Ciò che resta del fuoco, è un testo che, nel momento in cui pone la questione della frase, ‘C’è là cenere’, s’incinera come testo e insieme brucia il soggetto dell’interrogazione. Nato come testo scritto, letto più volte sotto forma * Scese, scese / scese una parola, scese / scese attraverso la notte, / volle risplendere, volle risplendere. / Cenere. / Cenere, cenere. / Notte. / Notte-e-notte. – Dal – / l’occhio va, dall’umido.

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di conferenza, pubblicato in veste di libro con una modifica del titolo (da Il y a là cendre a Feu la cendre, da cui deriva l’italiano Ciò che resta del fuoco), disponibile ora anche in un’edizione sonora, questo testo, che non è un testo, affronta già dal titolo la domanda sul rapporto fra la scrittura e la voce1. Non si potrà, infatti, avvertire la differenza di un accento che trasforma l’articolo determinativo ‘la’ nell’avverbio di luogo ‘là’ se non leggendo il muto segno scritto – mai nella purezza della voce. E, tuttavia – ciò va detto subito –, ciò non testimonia di una presunta superiorità della scrittura sulla voce come se l’intenzione (il suo più proprio ‘voler dire’: ma vedremo presto come l’intenzione sia ciò che qui, o piuttosto là, è in via di sparizione) di colui che scrive (o della ‘decostruzione’, se si preferisce un’etichetta) consistesse semplicemente nell’invertire quella gerarchia che, da Platone in poi, sembra governare la metafisica e l’onto-teologia. Una strategia questa che non tarderebbe a rivelare la propria debolezza giacché s’illude di poter abbandonare senza rischio, anzi con un gesto quasi di fastidio nemmeno privo di una certa dose d’arroganza, quell’intera tradizione sulla quale sembra sufficiente gettare nulla più che l’ombra di un sospetto perché la si dichiari liquidata. Si dimentica (o si rimuove, forse) che quei termini – le coppie concettuali – i quali, differenti, contraddittori e gerarchicamente organizzati, costituiscono la forma del discorso metafisico ed onto-teo-logico, sono legati (e disgiunti allo stesso tempo) da un tratto più antico ed immemoriale di quanto non presuma l’attualità di un gesto di rottura. Non si tratta nemmeno, d’altro canto, di sostituire alla loro differenza la neutralità di un’origine in cui, come si dice, ‘tutte le vacche son nere’. Ciò che è in gioco è, piuttosto, l’elaborazione di una pratica discorsiva che permetta l’articolazione del fatto che la differenza organizzata, quella che, dunque, fa opera di senso, è, a sua volta, l’effetto di un evento più originario ancora e che attesta in tal modo la non originarietà dell’origine stessa: vale a dire, di quel silenzioso differire, di quella ‘messa en souffrance’, di quella ‘can1 J. Derrida, Feu la cendre, tr. it. di Stefano Agosti dal titolo, Ciò che resta del fuoco, testo francese a fronte, Firenze 1984. Come conferenza e, dunque, col titolo, Il y a là cendre, il testo fu letto da Jacques Derrida, con l’ausilio della traduzione simultanea, a Firenze, nell’ambito della rassegna di conferenze, letture, spettacoli e concerti dal titolo, Fonè, la voce e la traccia, tenutasi fra il 16 ottobre 1982 e il 23 febbraio 1983. Gli atti della rassegna, eccezion fatta per il testo di Derrida, sono ora disponibili in volume: cfr. S. Mecatti (a cura di), Fonè, Firenze 1985. L’edizione sonora è stata pubblicata a cura delle edizioni des femmes: è letta da Jacques Derrida e da Carole Bouquet.

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cellazione’ o, infine, di quell’incenerimento della differenza, dai quali soltanto emerge qualcosa come la metafisica e/o l’onto-teo-logia. Dunque, non si tratta di un primato recentemente accordato alla scrittura, che abolisce, con un gesto sovrano, quello più antico della voce, bensì della comprensione di come voce e scrittura, quantunque siano da pensarsi differenti non solo, ma per di più in opposizione, si corrispondano, in realtà, secondo un ordine, questo sì, innavvertito dalla metafisica e dall’onto-teo-logia. Non si potrebbe, infatti, accogliere l’omofonia del ‘la’ e del ‘là’ se non nel soffio di una voce – mai nel muto segno scritto. Vale a dire che sarebbe impossibile ascoltare, senza, d’altronde, l’ausilio d’alcuna percezione organizzata, lo spostamento che, silenziosamente, avviene del ‘la’ nel ‘là’: lo slittamento dal ‘qui’, in cui sembra pronunciarsi, ‘C’è là cenere’, al ‘là’ da cui sempre una voce proviene e con esso il passaggio, altrettanto silenzioso, dall’identità di un’essenza – ‘la’ cenere – alla disseminazione di un corpo parcellizzato – là cenere. Ci eravamo chiesti: da dove parla (scrive) una voce? Da quale luogo, sempre che esista un luogo? Una voce parla (scrive) – avevamo risposto – da un luogo, un ‘qui’, che non è un luogo, bensì l’assenza di luogo e di dimora. Una voce parla (scrive) non dallo spazio della morte, ma da quello del di-più-di-morte, da quell’eccesso di morte che prende il nome di sopravvivenza. Ma ci eravamo domandati anche: cosa attende una voce? A cosa si destina in quest’attesa? Si destina all’attesa – avevamo risposto – del ritorno impossibile: del ritorno di ciò che, essendo la morte il suo destino, se torna, torna come morente, come ciò che non cessa di morire. Vedremo presto quanto tutto questo sia di pertinenza della cenere (criterio quello della pertinenza che, d’altro canto, la cenere abolisce); torniamo, invece, al tratto che lega, disgiungendole, la scrittura e la voce: è solo, dunque, perché una voce si fa cenere, quando le accade la frase, ‘C’è là cenere’, s’incenerisce, cioè, nell’atto stesso della sua emissione, che si fa strada la necessità del supplemento scritto. Solo scrivendo sarà possibile distinguere, rendere discreto – con nulla più di un segno, una piccola barra diagonale che, a mo’ di fulmine, colpisce l’innocenza di una lettera -, il lascito della differenza: che ‘la’ sia sempre ‘là’, che il luogo sia un (non) luogo, che l’essenza si disfi. Si potrà scoprire, allora, come quella ‘buona’ voce che la metafisica e l’onto-teologia contrappongono alla cattiva scrittura sia null’altro che l’eco indebolita di una voce che, appena emessa, subito si avvolge nel silenzio: una voce andata a fondo, una voce perduta come si dice di ciò che

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abbiamo amato ed è scomparso. E non è la scrittura, dunque, la modalità della sua sopravvivenza? Come potremmo dar voce alla voce se non attraverso il muto segno scritto? Si potrebbe rispondere che proprio questa è, in realtà, quella ‘buona’ scrittura che la metafisica e l’onto-teo-logia preferiscono all’altra – quella riprovevole ed abietta -: la ‘buona’ scrittura non tradisce l’intenzione della voce, non l’inabissa vertiginosamente nello sfondo dell’insignificanza, non è la tomba del suo più proprio ‘voler dire’. Ma se ciò ci conduce perlomeno ad ammettere che il dispositivo della metafisica e dell’onto-teo-logia sia più complesso di quanto sembravamo credere, tuttavia non ci dà ragione: quella voce perduta ed immemoriale è priva d’intenzione, non si presta ad essere tradotta in una oggettività dotata di un significato univoco ed universale; insomma questa voce non fa da trasparente ricettacolo in cui l’essenza possa manifestarsi nella sua identità, piuttosto la dissemina e disperde. E, dunque, questa voce la si trasmette solo a patto di rispettarne l’indecidibilità, vale a dire quella oscillazione di senso che la costituisce; criptandola in una tomba o piuttosto in un’urna dove sia conservata (e perduta) la sua morte senza rinascita, il suo morire senza morire – come un resto di cenere. Ora, è proprio la cenere che renderà ragione (ma al di là d’ogni Erklären come d’ogni Verstehen: la cenere, infatti, dissolve il principio stesso di ragione) del perché il testo – Il y a là cendre o Feu la cendre o Ciò che resta del fuoco – sia, non tanto privo di un titolo appropriato ed univoco, quanto sovra-titolato; del perché, insomma, dissemini esattamente ciò che più di tutto risponde all’esigenza dell’identificazione, dell’attribuzione e della classificazione e renda, quindi, quasi impossibile una sua archiviazione (per la disperazione di un bibliotecario, specie se di una biblioteca informatizzata). Se Il y a là cendre permetteva ancora di intravedere la differenza fra scrittura e voce, ecco che Feu la cendre la inabissa di nuovo: la frase, detta o scritta, è indecidibile. ‘Feu la cendre’: e ci sarà impossibile decidere sul suo significato, non potremo tradurla (e s’apre qui – là – tutta la questione della traduzione che, prima d’essere inter-linguistica, è infra-linguistica) secondo il criterio dell’univocità dell’essenza. La ragione – cioè il fondamento che diviene Ungrund – è questa: per una omonimia della lingua materna di chi scrive ‘feu la cendre’ può significare sia ‘fuoco la cenere’ sia ‘fu la cenere’. ‘Feu’, infatti, è anche un aggettivo che significa ‘fu’, ‘defunto’, ad esempio nell’espressione ‘feu un tel’, ‘fu un tale’. Quindi, quando si cerca di tradurre – anche infra-linguisticamente – ci si trova costretti ad intendere simultaneamente ‘fuoco’ e ‘fu’. Non solo: nessuna grammatica ci

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IV. L’ELOGIO DELLA CENERE. CONTROFIRMATO, JACQUES DERRIDA

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aiuterà a dare un ordine al senso della frase: tradurremo ‘fuoco fu la cenere’ ed insieme ‘fu fuoco la cenere’. La frase, dunque, non dice ciò che essa è, il suo esser presente, quanto piuttosto ciò che ‘fu’, ciò di cui è un’immemoriale memoria: il fuoco. Essa è la cenere di tutte le nostre etimologie perdute: fuit, functus, defunctus, fatum2. Cosicché, quando si pone la domanda, ‘che cos’è la cenere?’, la risposta non è, come si crede, un giudizio assertorio o una definizione – l’essenza -, bensì il segno di un resto, di uno scarto e, infine, una sentenza, un responso oracolare, quasi una predizione: l’indicazione di un destino che ci invia alla destinazione della cenere. ‘Fu la cenere’, e noi là c’inceneriamo. È che la cenere rende impossibile qualunque domanda genealogica, la dichiara indecidibile nell’atto stesso della sua formulazione. Non solo, dunque, non c’è risposta alla domanda ‘che cos’è la cenere?’, ma neanche a questa: ‘perché là cenere?’, vale a dire ‘da dove?’ o ‘a quali condizioni?’. Se la cenere sfalda la catena etimologica, così distrugge l’illusione di una genealogia: se si risponde, infatti, che ‘fu fuoco la cenere’, cioè che la cenere è stata fuoco, la frase obbliga a rovesciare chiasticamente la tesi nel suo opposto – ‘fuoco fu la cenere’, ossia ‘il fuoco è stato cenere’. Sarà mai possibile decidere? Ma la verità è che una domanda genealogica (ed anche ‘che cos’è?’ appartiene al territorio di una genealogia) già si trova iscritta nella frase-cenere, comandata dalla sua legge duplice e contraddittoria e ne ripete, quindi, la genealogia impossibile. 2 J. Derrida, Feu la cendre, cit., p. 9. Senza contare la possibilità che ‘cenere’ sia anche un nome proprio, ‘C’è là Cenere’: dunque, ‘Cenere è morta’, oppure, «fu Cenere». «Chi è Cenere? Dove sta correndo a quest’ora? Se l’omofonia trattiene il nome singolare nel nome comune, ciò si verificò proprio là: una persona scomparsa e e una cosa che a un tempo, ne serba e ne perde la traccia, la cenere. La cenere è appunto questo: ciò che serba per non più nemmeno serbare, mentre il resto è affidato alla dissipazione; non persona scomparsa che lasci là cenere: semplicemente il suo nome, ma illegibile. E nulla vieta di pensare che si tratti magari del soprannome del cosidetto firmatario. Vi è là cenere: una frase che dice appunto ciò che essa fa, ciò che essa è. Si incinera all’istante, sotto i vostri occhi: misione impossibile (non mi piace questo verbo, incinerare; non gli trovo nessuna affinità con quella che è la tenerezza vulnerabile, la pazienza di una cenere. È attivo, acuto, incisivo» (ivi). Non è forse vero che in ogni nome comune, nome che indica una generalità e, dunque, un significato, si nasconde un nome proprio, il nome di una singolarità unica ed irripetibile che si trasmette, ostinata, nella generalizzazione in cui, d’altronde, scompare? Nome del nostro desiderio impossibile, di cui resta appunto solo un nome, ma illegibile: solo un nome di cenere. Vedremo fra poco perché la cenere, pur essendo un resto, non sia, tuttavia, una traccia: non resti, ma si consegni, piuttosto, alla dissipazione. E vedremo anche in che senso ‘cenere’ sia una firma o il soprannome del cosiddetto firmatario.

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IL DISCORSO E LA CENERE

Dunque, la cenere è memoria del fuoco: il fuoco, quindi, fu una volta, in un tempo passato; ma, dal momento che ‘fuoco fu la cenere’, esso, a sua volta, era da sempre cenere: e non muore, infatti, incenerendo? La cenere, viene, dunque, prima del fuoco? Come non è un significato – un lekton (non si dà l’essenza del-là cenere) –, così la cenere non è un segno, perlomeno non nel senso di un rimando inferenziale: se cenere è là, allora là c’è stato fuoco. Dire che la cenere è là, infatti, non significa che stia come una traccia, che faccia da segnale: là indica appunto quel leggero slittamento per cui la cenere cessa di significare un oggetto, un presente passato o anche semplicemente colui che parla o scrive ed il luogo in cui la voce o la scrittura avvengono. Con la cenere basterà un movimento inintenzionale, sbadato ed inavvertito, o un respiro – un soffio appunto –, perché essa sia là e col suo spostamento esili dal qui (ed ora) in cui si crede d’essere tutti coloro che presumuno d’essere i destinatori della frase ‘Il y a là cendre (feu la cendre)’. Non servirà a nulla, infatti, affinché ci si senta autorizzati a dichiararsi i soggetti legittimi dell’enunciazione, chiamare in causa il legame genealogico: ‘io, sottoscritto, fu...’, con il quale il nostro nome proprio verrebbe identificato, riconosciuto come l’erede legittimo di una discendenza familiare. Che ci si affanni a portare le prove di una autorizzazione – ‘io, figlio di colui che fu’ – il nostro antenato – morto – non testimonierà per noi. Potremmo essere il frutto d’un altro seme, avere fratelli e sorelle legittimi quanto noi, ma sconosciuti. E non solo questo: per colmo d’ironia – dell’ironia dei morti – l’antenato potrebbe tornare dalla morte a smentirci, come lo storico che si fa erede dei boia taccia di menzogna la vittima sopravvissuta. Documenti segreti, appunti dimenticati in un cassetto, lettere spedite e mai arrivate a destinazione, potrebbero saltar fuori all’improvviso, svergognarci, metterci in ridicolo (come – sia detto di sfuggita – la scoperta di un inedito fa crollare interpretazioni consolidate, che fanno, come si dice, testo). Il morto sopravvive, torna a nostra insaputa, verde d’invidia, qualche volta benefico, più spesso ironico: pronto a giocare con la nostra identità, a distruggere la torre di Babele con la quale cerchiamo di costruirci un nome, dimenticando il debito, rimuovendo quell’alleanza in nome della quale siamo al mondo, cancellando le tracce di memoria. Quando, dunque, ci accade la frase, ‘Il y a là cendre (feu la cendre),’ noi siamo là; e là vuol dire (senza dire, d’altronde) precipitati nella genealogia impossibile, nel fondamento che sempre più sprofonda, nell’origine priva di originarietà. Ed è per questo che non possiamo dire semplicemente, ‘il fuoco è morto e resta solo cenere’; la genealogia della

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cenere ci smentisce: non cova, forse, il fuoco sempre sotto la cenere? Il fuoco, come l’antenato, non sopravvive – morto – nel-là cenere? Di una vita di cenere? Allora è vero: la cenere fu fuoco, ma il fuoco è là dov’è la cenere: morta la cenere, ma morto anche il fuoco che fu cenere. E, d’altronde, si potrà mai dare un luogo al fuoco? Ma ben più in generale, si può dare luogo al luogo? A ben vedere, infatti, nell’espressione, Il y a lieu, ‘C’è luogo’, anche il luogo accade; l’aver luogo è un evento unico ed irripetibile. Il luogo, dunque, non preesiste a quanto in esso accade – la cenere, ad esempio, o la voce stessa –, bensì avviene nell’avvenire della frase. Quando ci accade la frase, Il y a là cendre (feu la cendre), accade insieme il luogo in cui si dice (scrive); è, dunque, la frase che dà luogo al luogo in cui un soggetto si trova a dirla (scriverla). Il luogo è là dove si dà luogo (a procedere, forse, in un giudizio)3. Allora si comprenderà che il fuoco è là dov’è là cenere; non più in là della cenere, nello spazio o nel tempo, bensì presso la cenere, quantunque il ‘presso’ denoti qui una distanza interminabile. Non potremmo dire, ‘Se la cenere è là (qui), allora il fuoco è stato qui (là)’, ma solo, ‘Se la cenere è là, allora il fuoco sarà stato là’; non un semplice passato, ma un futuro anteriore sarà la declinazione verbale del tempo della frase, Il y a là cendre (feu la cendre). Se la cenere ci mostra l’impossibilità di una genealogia, allora insieme sconvolge le determinazioni temporali: certo la cenere in quanto resto del fuoco accenna ad un passato, all’evento di un olocausto, di un brucia-tutto di cui essa è memoria. E, tuttavia, se il fuoco è là dov’è la cenere, tale passato non dovremmo pensarlo come un passato senza tempo? Un passato puro, al di là di un tempo cronologico in cui le cose – fuoco e cenere – passano? Lo sappiamo: un passato senza tempo è quell’evento temporale che dà luogo all’essenza: appunto all’essenza del-là cenere. E si capisce allora perché un passato puro, cioè mai stato presente, mai appartenuto ad un qui, perché un passato là lo si declinerà secondo il modo di un futuro anteriore: prima ancora che la frase ci accada, la cenere sarà stata là; non viene anticipata nella protensione, così come non la si ri-presentifica in una ritenzione, ma ad-viene, continua ad ad-venire da là. Dal là da cui sempre proviene al là cui sempre si destina. 3

« – Vi è prescrizione. L’idiomatismo “vi è luogo”, non riuscirete mai a tradurlo. Alla stessa guisa di un nome proprio nascosto, eccolo dunque spiazzare tutto, spostare tutto verso il riconoscimento, il debito, il dovere, la prescrizione. Un nome proprio: vi è luogo di, vi è luogo di far questo o quello, di dare, di rendere, di celebrare, di amare» (ivi, p. 1113). L’aver luogo, dunque, è sempre l’aver luogo di una legge, di una prescrizione: in generale, della prescrizione del ‘render ragione’, della restituzione del dono della verità.

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IL DISCORSO E LA CENERE

Se, dunque, la cenere è memoria, è memoria del là, memoria immemoriale ed inobliabile del fuori (tempo e spazio, del fuori-storia); la cenere fa significanza, senza essere un indice né tantomeno un significato, di un fuori più fuori di quello che un dentro (qui) comunque declinato – un’internità psicologica, trascendentale o come si voglia – possa dire suo. La cenere è l’altro, l’altro che da sempre è là, l’alterità che da sempre noi siamo a noi stessi. L’altro è il fuoco; e il fuoco, dunque, è sempre l’altro della cenere. Giacché il fuoco verrà solo come cenere ed è la cenere là che attesterà l’alterità del fuoco. L’altro è un fuoco che ci brucia e ci riduce in cenere. Non ci si dovrà meravigliare, ora, se il testo della cenere sia la scena in cui viene ad iscriversi tutto il dispositivo heideggeriano della distruzione della metafisica (a conferma, ci sembra, del tratto che collega a tale programma filosofico quello della decostruzione; torneremo su questo). In primo luogo cos’è mai il dasein (être-là in francese, ‘esser-ci’ secondo la traduzione italiana) se non l’esser-sempre-là dell’essere presso quell’ente che noi sempre siamo, il suo costitutivo esser fuori, il suo statuto ek-statico? E se, dunque, il da-sein denota non soltanto la cosidetta ‘gettatezza’ dell’esserci, bensì soprattutto la differenza ontologica, vale a dire la differenza dell’essere dall’ente, quel da non sarà l’aver luogo del luogo in cui, rispondendo ad una domanda e ad un appello, si dice (scrive) l’evento della differenza? Non è un caso, dunque, che la voce (oppure un’altra voce) che dice (scrive) la frase, Il y a là cendre (feu la cendre), possa domandarsi: è la cenere la dimora dell’essere4? Se la cenere, accadendo ad un luogo (come la cenere di un focolare o di un fuoco di famiglia) è, in realtà, l’impossibilità dell’aver luogo, allora l’essenza del-là cenere, che di per sé inabissa la verità dell’essenza in generale, dice (scrive) che non c’è dimora dell’essere se non come assenza di dimora, come dislocazione e sparizione della differenza. Essere ed ente non sono forse il resto di cenere dell’in4 Ivi, p. 13. Ma si legga: « – Se un luogo medesimo si cinge di fuoco (e si riduce infine in cenere, è tomba come nome) quel luogo non è più. Resta (come resto) la cenere. Vi è là cenere, dovrai perciò tradurlo: la cenere non è, non è ciò che è. Essa resta di ciò che non è, al fine di richiamare al fondo friabile di sè nient’altro che non essere o impresenza. L’essere senza presenza non è stato, e non sarà nemmeno là dove vi è la cenere e dove quest’altra memoria dovrebbe parlare. Là, cenere vuol dire la differenza tra ciò che resta e ciò che è: ce la fa a dirla»? (ivi). Ce la fa a dirla, accade che la dica, la differenza fra ciò che resta e ciò che è? Ma la differenza arriva soltanto disparendo, senza dirsi, arriva là, come memoria del (non) essere. Dunque, la frase, Il y a là cendre, la dirà la differenza fra il fuoco e la cenere, la differenza là?

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cenerimento della differenza? Ora, è nell’aver luogo della cenere che si dà essere e differenza dell’essere dall’ente: Es gibt, scrive Heidegger – Il y a, ‘c’è’ – , ma anche ‘si dà’, ‘c’è dono’ d’essere. Resterà indecidibile per noi (lo è restato forse anche per Heidegger) stabilire se è l’essere che fa dono dell’ente ritraendosi o se è il dono che fa dono dell’apertura della differenza dell’essere dall’ente. Genealogia indecidibile quella dell’essere, della verità dell’essere, quando s’imbatta in un pugno di cenere. Ma se la cenere è dono – dono della cenere stessa e dono della frase, Il y a là cendre (feu la cendre) –, allora la cenere fa dono della verità; la cenere là dà il là al discorso della verità. Ma prima ancora di dar luogo al vero, essa dà luogo alla voce: nella frase, come dono della cenere, avviene la voce – voce di cenere, cenere di voce. Perché, insomma, una voce possa dire (scrivere) la cenere deve aver luogo il dono della cenere; così perché l’essere (non) sia e dia luogo all’ente, dovrà aver avuto luogo il dono dell’esser-là-cenere: dono in pura perdita, senza risparmio e senza resto. È questa, infine, l’indecidibilità della frase, Il y a là cendre (feu la cendre): esser-là, ma in nome di ciò non c’è, né mai vi è stato, né mai potrà più esservi; semmai in nome di ciò che sarà stato là: la verità del fuoco. Allora, che una voce dica (scriva) la frase e che solo dal darsi della frase per noi vi sia là cenere, non presuppone che là sia stata cenere (o sarà stata cenere) prima che la frase venisse ad attestarne l’essere? Cenere prima (o dopo) della frase-cenere, prima (o dopo) della voce che, chiamata dalla cenere a dir-là, si fa cenere mentre là dice (scrive). Si potrebbe obiettare: ma non è la dimora dell’essere il linguaggio, anzi quel dire (Sagen) originario, poetico-pensante, che dice la verità (aletheia) secondo la cadenza di un’apertura che già sempre si chiude su se stessa? Certo. Ma la stessa voce di quel dire non dovremmo pensarla come il dono della cenere? Come una voce di cenere? Non è nostra intenzione seguire qui tutta la strategia della ‘decostruzione’ del programma heideggeriano: volevamo mostrare come la cenere decidesse della messa in prospettiva – della mise en abîme – della questione stessa della verità – lo si ricorda? – , la verità del campo e della cenere: la necessità di dirla e l’impossibilità di metterla in discorso. Più, dunque, che di un movimento di apertura e riserva, la verità è il dono dell’olocausto, dono di un brucia-tutto originario e senza origine, che non lascia tracce: solo una traccia di cenere. Dono senza riserva e senza resto – abbiamo detto – , giacché appunto la cenere non resta, non lascia resti su cui investire ancora; semmai si disperde e, disperdendosi, dissemina anche il fuoco. Dono che si dona ancora, che continua a donarsi – interminabile dono della cenere.

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Apparirà più chiaro forse, adesso, perché la cenere obblighi al dire (scrivere) la frase, ‘C’è là cenere’, ed incineri, nello stesso tempo (o in una differenza di tempo, nella spaziatura dello scritto o nella pausa della voce) il detto nel suo dire e quest’ultimo nel mutismo di una cenere. Obblighi: vale a dire sia come un contratto (un patto o un’alleanza: una legge in generale) per chiunque si trovi detto (scritto) nel suo (non) dire: sopravvissuto al campo o filosofo che s’imbatta in una traccia di cenere. E quando allora dovrà controfirmare un simile contratto rispetto al quale non potrà in ogni caso pensarsi come un ‘legislatore’, egli firmerà solo, Il y a là cendre (feu la cendre). Avevamo detto all’inizio che questo testo, Il y a là cendre o Feu la cendre o Ciò che resta del fuoco, non portava firma visibile: ora, se ciò accadeva, era esattamente perché esso altro non era che una firma: firma di tutti i testi, scritti e non scritti, aventi come nome proprio quello di Jacques Derrida. Si apra La dissémination all’ultima pagina: ultima del testo; prima, dunque, dell’indice, prima della data di edizione e del luogo (anche un libro ha luogo) di stampa, prima del richiamo alla collezione Tel quel in cui il libro appare e prima della quarta di copertina che già cita il testo del La dissémination; prima, insomma, del testo-contratto e si legga; è scritto in basso, in una pagina che per il resto è bianca: «Allontanandosi da se stessa, formandovisi completamente, quasi senza resto, la scrittura di un solo tratto rinnega e riconosce il debito. Sprofondamento estremo della firma, lontano dal centro, anzi dai segreti che vi si suddividono per disperdere perfino la propria cenere». E andando a capo: «La lettera è sicura solo in questa indirezione, essa può mancare sempre all’arrivo: non prenderò ciò a pretesto per esentarmi dalla puntualità di una dedica: R. Gaschè, J.J. Goux, J. C. Lebensztejn, J. H. Miller, ed altri, qui come cenere, riconosceranno, forse, ciò che interviene della loro lettura»5. Dunque, a quel tempo, al tempo de La dissémination (‘Décembre 1971’), Il y a là cendre era firma e dedica: sprofondamento estremo della firma e debito infinito della dedica. E le due cose insieme: giacché firmare è riconoscere il debito contratto durante la scrittura; debito che quest’ultima non può non disconoscere: lo rinnega e cancella già solo per quel suo appropriarsi di 5 J. Derrida, La Dissemination, Paris 1972, p. 408, tr. it. a cura di S. Petrosino, Milano 1989, p. 371. Il passo è citato fra le animadversiones in Feu la cendre, cit., p. 4. Animadversiones: il rivolgere lo spirito a qualcosa; quindi: osservazioni, e per traslazione: osservare qualcosa con dispiacere; quindi: biasimo, castigo, riprensione, ad esempio, paterna; anche: pena di morte.

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IV. L’ELOGIO DELLA CENERE. CONTROFIRMATO, JACQUES DERRIDA

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coloro cui deve la sua stessa esistenza senza dirlo (citandoli, forse, ma non ci si fa un nome con le citazioni altrui, anche se debitamente indicate a piè di pagina o al fondo di un volume? E si pensi ancora all’indice dei nomi). Ma la verità è che quando si firma un contratto alla cui stipula non si è stati mai presenti e di esso ci si riconosce titolari solo appunto per l’apposizione di una firma, ecco che ci si scopre indebitati fino al collo: costretti a render grazie, a restituire, ma secondo le regole di un potlach e non di un semplice deposito, ciò che ci è stato dato in dono. E se ne avverte subito l’impossibilità: una restituzione mai colmerà, mai equiparerà la gratuità di ciò che ci è accaduto. La frase, infatti, è accaduta, arrivata: essa è il dono della cenere. Ma non per questo noi potremo illuderci di rispedirla al suo destinatore come se fosse una lettera con tanto di cartolina di ritorno. D’altronde, eravamo forse noi i suoi destinatari? Come fare a saperlo? Una lettera può sempre mancare la sua destinazione: può andare dispersa, raggiungere un indirizzo errato o giacere en souffrance in qualche ufficio dimenticato: proprio come la cenere. Dunque, non a noi era indirizzata, non eravamo noi i suoi lettori autorizzati ad interpretare il messaggio di cui era portatrice (sempre che ne avesse di messaggio: non ci arriva bruciacchiata, se non addirittura in cenere? E se fosse stata una pagina completamente bianca?) Tuttavia essa ci sottomette alla sua legge, ci si impone – inutile tentare di sfuggirle. Ora, la verità è che un dono impone un’espiazione: si scoprirà presto che l’obbedienza che si deve alla frase – dare voce alla cenere – si trasforma, come per incanto, in impotenza: come dirla se dirla vuol dire dirla là? Se ci scivola via tanto nell’emissione sonora quanto nel muto segno scritto? Torniamo, ora, a La Dissémination: loro, dunque, si riconosceranno, qui, riconosceranno quanto della loro lettura v’interviene solo a leggere una firma. Ma come si riconosceranno? Come cenere. Là, dunque, vale a dire in questo testo qui, c’è la loro cenere, la cenere della loro parola (scrittura). Ma, allora, se La Dissémination è il tentativo di pagare il debito contratto con la cenere degli altri, non sarà anch’essa cenere? La Dissémination là? Se volessimo tentarne una genealogia, non dovremo dire (scrivere): ‘La Dissémination feu cendre’? E chiaro adesso perché anche di questo testo, Il y là cendre, non si può dire altro che: ‘Il y a là cendre feu (la) cendre’ (e così si spiega la ragione della disseminazione del titolo). Si comprende allora perché colui che ha scritto – non il nome proprio: Jacques Derrida, ma il soggetto di scrittura – sia La Dissémination che Il y a là cendre (ma sarà poi lo ‘stesso’?), quando ha dovuto appor-

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re la sua firma, si sia trovato dislocato, là, e non abbia potuto firmare altro che questo: Il y a là cendre. E non è tutto: una volta apposta la sua firma-cenere, una volta, dunque, che si è scritto là, egli si è trovato espulso dal centro, vale a dire da quella internità concentrica che un qui istituisce e da cui, allo stesso tempo, è costituito. Ma chiedetevi: cos’è, in fondo, un centro se non cend(t)re? Mirare al centro, fare fuoco dritto al cuore, non è ridursi in cenere? Ci si rende conto, allora, come scrivere sotto l’autorità della frase, significhi anche essere trascinati via in un movimento di allontanamento: allontanati, che lo si voglia o no, dal qui e dal centro, dall’illusione del qui e del centro ed insieme da tutti quei segreti che l’interno sembra custodire (e d’altronde a che serve una dimora interiore od esteriore se non a conservare dei segreti – segreti personali, di famiglia o di stato – che è bene che nessuno sappia?). Ma non è vero anche che una volta scopertili, i segreti, tutti, nessuno escluso, si rivelano essere dei segreti di Pulcinella? Erano tali solo ad opera del qui, del centro e dell’interno: erano cenere. C’è da chiedersi: all’atto della firma era cosciente, voleva tutto questo, era questa la sua intenzione, il suo più proprio ‘voler dire’? Ma quand’anche fosse stato così (e non era), questo era il prezzo: incenerire. Dunque, la frase era firma e dedica; come una lettera essa era giunta inaspettata. A sorpresa si era scritta sotto la sua penna6. E scritta gli aveva imposta la sua legge: la legge della cenere. La legge – e, dunque, la destinazione della cenere. Si provi a immaginare: qualcuno la ripone in un’urna, attento a raccoglierla tutta (ma come esserne certi? E se vi si fosse mischiata un’altra cenere?), la cenere di quel caro defunto. Ce la spedisce (ma potrebbe anche portarcela a mano per essere più sicuro). Noi la lasciamo intatta e la riponiamo al centro della casa, se si vuole vicino al focolare. Ma la cenere, per quante precauzioni siano state prese, non sarà sempre e soltanto là, prossima e tuttavia lontana? È che una cremazione è diversa da una sepoltura o da una imbalsamazione. Se la prima, sottraendo alla vista la decomposizione del corpo, ci permette di serbare del morto una memoria viva e se la secon6 « – Vi è là cenere. Quando questo accadde, quasi dieci anni fa, la frase, di per se stessa, (si) teneva a distanza. Nonostante l’apparenza e la sua stessa collocazione, la frase non comportava nessuna marca personale, nesuna firma d’appartenenza; era un po’ come se, non significando nulla di propriamente intellegibile, essa venisse incontro, da una lontananza estrema, al suo presunto firmatario, il quale non si dava nemmeno la briga di leggerla, ma la riceveva così, o piuttosto la sognava come una leggenda o un fumo di tabacco: poche parole che vi escono dalla bocca, destinate a perdersi senza possibilità di riconoscimento» (J. Derrida, Feu la cendre, cit., p. 7).

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da ci concede l’illusione di avere lì davanti, quasi in carne ed ossa, vivi, sebbene resi rigidi e fissi dall’opera dell’imbalsamatore, i tratti del suo volto, il suo sguardo felice (o triste, come ci piacerà), la bellezza del corpo, la cremazione, invece, dissolve qualunque forma d’identità e d’identificazione. Più che distruggerle, la cenere le dissemina, così come il ricordo. Di fronte all’urna avremmo voluto che ci fosse stato dato il tempo di elaborare il lutto (torneremo su questo): invece possiamo solo piangere mentre diveniamo cenere7. La cenere è un resto – ed è qui che ci si inganna – , non del cadavere, ma del fuoco; come resto, la cenere non resta, arresta il suo restare. Non è come una traccia (e semmai una traccia è una traccia di cenere) che anche cancellata lascia un’impronta – , per non dire, d’altronde, che una cancellatura è ancora un’altra traccia. No – la cenere si disperde e dissemina. Non è nemmeno come una radice (o un rizoma) che, strappata, lascia comunque una ferita e, quindi, una nostalgia o un ricordo (forse un’invidia?). La cenere avviene, è un evento e, come tale, se non lascia tracce, tuttavia, sottraendosi, ritorna: mai un evento finisce, mai ha un inizio. Continua ad avvenire: ed è per questo che l’iscrizione della cenere sotto forma di firma sembra produrre quasi dieci anni dopo un effetto su colui che, quando fu chiamato ad apporre la sua firma, si trovò a scrivere Il y a là cendre. Ma si sbaglierebbe a pensare che ne fu la causa: l’evento della cenere non dà origine ad una catena di fatti legati da un rapporto causale; apre, piuttosto, la sua ripetizione, rende iterabile ciò che per statuto – la cenere – è l’irripetibile. Inaugura una destinazione: destinarsi al destino della cenere: vale a dire, divenir-cenere. Tale destino, cui egli non sapeva d’essere destinato (e avrebbe potuto anche non saperlo mai), lo riconosce adesso controfirmando quella firma d’allora: la sua identità è cenere. E per questo parla (scrive) di sé come di un lui, alla terza persona, quasi prossima al neutro. Lui, una volta soggetto epistemico di una scienza – la grammatologia – , si fa voce scritta (ma quale? Il y a là cendre o Feu la cendre o Ciò che resta del fuoco è un testo a più voci, maschili, femminili, e forse d’altro genere ancora. Come sapere quale voce è la sua? O è lui che si dissemina in più voci? Quel che è certo è che c’è sempre un’altra voce). E scrive l’evento della cenere, il movimento nel quale lui sparisce: « – ma questo sparire è proprio quello che lui chiama la traccia. Adesso ho l’impres7 Su questa metafora dell’urna-cripta e sul rapporto lutto-malinconia si veda: J. Derrida, Fors, prefazione a N. Abraham M. Torok, Cryptonymie. Le verbier de l’homme aux loups, Paris 1976.

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sione che il miglior paradigma della traccia, per lui, non sia affatto, come hanno creduto certuni, e forse lui stesso, la pista di caccia, il varco, il solco nella sabbia, la scia dentro il mare, l’amore del passo per la propria impronta, ma proprio la cenere (ciò che resta, senza restare, dell’olocausto, del brucia-tutto, dell’incendio: l’incenso)»8. E non è questo l’evento della cenere? Allora, in un’altra svolta del tempo, lui ha creduto – e con lui molti altri – che una scienza della differenza si risolvesse in una metaforica della traccia e del tratto. Influenzato da altri (da Lévinas, ad esempio: debito anche questo9) ha ritenuto che il differire della differenza si dovesse pensare come il movimento di una cancellazione: un ritornare del passo sulla propria impronta per depistare chi da sempre ci è alle spalle. Non c’era in questo tutto uno sfondo di violenza e potere? Il differire della differenza non era forse visto a partire da un paradigma cacciatore-preda? Tutto uno schema agonale – offeso ed offensore, fuggiasco ed inseguitore – non era ancora all’opera? Certo così s’inaugurava un esodo: a differenza della morale della favola cui da sempre ci si educa – la favola di Pollicino – noi non lasciamo tracce per ritornare alla fine (al lieto fine) nella dimora da cui ci hanno cacciati, per riabbracciare nel calore di un focolare una madre perduta. Siamo adulti: sappiamo che non si torna indietro. Non solo: non vogliamo tornarci; e per questo ci affanniamo a cancellare il passo già compiuto, a rendere invisibile il sentiero; ma in questi gesti quanta nostalgia rimossa, quanto desiderio inconfessato. Ora tale rimando alla violenza gli appare decisivo: tutti gli esempi, le metonimie (ma anche le metafore) – la pista di caccia, l’apertura di un varco, il solco nella sabbia, la scia nel mare e finanche l’amore del passo per la propria impronta – non denotano forse la violenza? Non richiamano tutti un rapporto di forza fra lo strumento d’iscrizione e l’inerte materia? Non implicano una certa effrazione della quieta purezza del supporto (e lasciaremo all’immaginazione del lettore quanto qui trovi posto tutto un dispositivo della sessualità: il femminile come materia passiva ed informe – il maschile come violenza, stupro e donazione di senso)? Ma se tale era il suo discorso prima dell’evento della cenere, non partecipava ancora della tradizione della metafisica e dell’onto-teo-logia? Non aveva impa8

J. Derrida, Feu la cendre, cit., p. 15. Si veda in particolare La trace de l’autre, in En découvrant l’existence avec Husserl et Heidegger, Paris 1974 (tr. it. di F. Ciaramelli, con il titolo, La traccia dell’altro, Napoli 1979). Il testo di Lévinas è citato in Della grammatologia, dove Derrida rimanda anche al suo saggio, Violence et métaphisique, sur la pensée de E. Lévinas in L’écriture et la différence: cfr. J. Derrida, De la grammatologie, tr. it., Milano 1969, p. 79. 9

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rato che metafisica e violenza sono i due nomi della stessa cosa? D’altronde lui non aveva mai nascosto ciò che ad altri era stato motivo di critica o di fraintendimento: mai aveva sostenuto che alla scrittura fosse possibile attribuire un carattere libertario o rivoluzionario. Semmai la scrittura era indecidibile: una volta sostegno del potere, una volta suo principio di dissoluzione; e per questo il discorso metafisico si era affannato a distinguere, da Platone in poi, la buona dalla cattiva scrittura. Nessun rapporto d’opposizione semplice ed immediato – logos contro scrittura – , come tutti (o quasi) hanno creduto, è all’origine della metafisica. Ma se il miglior paradigma della traccia gli appare ora la cenere, ciò vuol dire che quel che – in questo momento stesso, in quest’opera qui, dicendo (scrivendo): eccomi – egli tenta è di cancellare (ma sa che non ci riuscirà) anche l’ultima traccia, l’ultimo residuo di violenza. Niente di meno che questo: oltrepassare la metafisica, ma secondo la cadenza di un passo interminabile. Cosa c’è, infatti, di più tenero, di più vulnerabile, di più paziente della cenere? La cenere è solo passività, dolore: puri. Resto di un olocausto, di un incendio, la cenere brucia ad ogni istante: essa è la ripetizione dell’evento del fuoco: paziente incenerisce – dalla cenere viene solo altra cenere ancora. Ma se, dunque, la cenere non è come una traccia che resta anche sotto la cancellatura (giacché una traccia appartiene alla sfera del ‘posto’, del rap-presentato), non dovremmo dire che, piuttosto, vola o, altro debito ancora, altro ringraziamento, che danza – metonimia di un filosofo ballerino (o di una marionetta) trascinato a seimila piedi d’altezza, là, forse in Engadina? Ora per lui non si tratta più (posto che di questo si fosse mai trattato) di contrapporre la scrittura alla voce; piuttosto di comprendere come ben prima della differenza fra scrittura e voce c’era stato (o vi sarà stato) il dono della cenere. È per questo che è falso (ed insieme inevitabile) accordare così semplicemente il primato alla scrittura: ciò, infatti, implicherebbe una idolatria, non dell’immagine questa volta, ma del testo e trasformerebbe il suo discorso in una variante del progetto ermeneutico. Ed allora accanto all’archi-traccia, da sempre differita, sottratta al criterio della presenza a sé, egli ci invita a pensare un’archi-voce: una voce che dall’origine è già cenere. Forse una nuova (o terribilmente vecchia?) scienza: una fono-grammato-logia o, se si vuole, una meta-grammatologia. E se, infine, il dono della cenere non fosse anche e soprattutto quel dono che ci destina ad un’etica? Un’etica non umanistica della non violenza? Un’etica che non poggiasse più sul primato de ‘la-vita-la-morte’, bensì sulla sopravvivenza della cenere? Sul di più di morte? ‘C’è là cene-

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re’, ancora, nei campi: ridotti a musei non vi si respira ancora un’aria di cenere? Il fuoco non vi brucia ancora? Le vittime non continuano a bruciare? Gli aguzzini non sono ancora divorati dalle fiamme? Sembra, tuttavia, che non vi sia frase per concatenare la cenere; nell’archivio delle frasi prescrivibili non c’è nessun posto per la cenere. Tuttavia c’è il dono della cenere e il dono della cenere è la frase ‘C’è là cenere’; una volta accaduta, la frase fa impazzire l’archivio (in un altro tempo si sarebbe detto: bruciare le biblioteche); nessuna classificazione è possibile di tale frase, nessun programma riesce a tradurla in un giudizio fondato su di una logica della definizione. Ma la frase trasmette la verità dei campi: leggiamo: «– Poco fa dicevi che non ci potevano essere, “oggi come oggi”, delle frasi per la parola cenere. Invece sì. Ce n’è una, una sola forse, la cui pubblicazione incuta rispetto. Essa direbbe del bruciatutto, detto anche olocausto, e del forno crematorio: in tedesco in tutte le lingue ebraiche del mondo»10. La frase tradurrebbe la verità dei campi in tutte le lingue del mondo e tutte le lingue sarebbero tradotte in un’unica lingua: la nostra lingua originaria. Così solo la frase, ‘C’è là cenere’ – traducibile ed intraducibile insieme; forse legge della traducibilità in generale – , sarebbe degna: degna d’essere scritta, resa pubblica, e non perché come una testimonianza viva impedisca l’oblio dell’inimmaginabile, bensì perché trasmetta l’inimmaginabile, l’intraducibile, l’irripetibile stesso: che il fuoco brucia ancora la vittima e il carnefice – e se la specie umana avesse origine e fine in un brucia-tutto originario? Leggiamo ancora: in un altro luogo di questo strano dialogo (o, piuttosto, polilogo) dai molti titoli – un’altra voce dice (scrive): « La cenere è giusta: per il fatto di non aver traccia, essa traccia appunto più di un’altra traccia e alla pari dell’altra»11. Lo sappiamo: senza lasciare tracce, la cenere traccia al pari e più di un’altra traccia; il poco (juste) che essa è trasmette esattamente (justement) la giustizia del fuoco. Giacché quasi nulla si riesce a comprendere della giustizia finquando la si raffigura come una bilancia che soppesa equamente i diritti ed i torti e poco si conosce del giudizio se lo si pensa come una scelta, inutile prima ancora d’esser fatta, fra generi di discorso, interpretazioni, forme di vita e di pensiero, tutti apparentati dalla comune infondatezza. La giustizia è un fuoco che brucia e riduce in cenere. Ed è appunto per questo che alla frase, ‘C’è là cenere’, che è come dire alla cenere stessa, non sarà mai dato un senso: nessuna ermeneuti10 11

J. Derrida, Feu la cendre, cit., p. 29. Ivi, p. 31.

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ca svelerà il significato riposto della cenere. La cenere si sottrae alla sfera dello spirito oggettivo, sfugge all’accerchiamento della fusione d’orizzonti: non essendo una traccia, la cenere non ci sta di fronte, non si rappresenta, né ri-presentifica l’origine. No, non ci servirà a nulla dire che tutto questo ci è già noto: che abbiamo imparato che sempre un messaggio arriva stravolto, sovra-determinato da tutte le interpretazioni e le aspettative successive, pre-compreso prima ancora che se ne tenti un’interpretazione consapevole; o che, in una parola, noi sappiamo che l’essere è storico, che esso si destina e s’invia e che l’oltrepassamento della metafisica non è quel semplice passo con cui c’inoltreremmo nell’età dell’oro, bensì la pietas verso ciò che dal passato ci giunge già privato del suo senso forte: come distorto dalle vicissitudini del tempo12. 12

Sono le tesi del ‘pensiero debole’: è sintomatico il tentativo, condotto soprattutto da Maurizio Ferraris, di ricondurre la decostruzione entro tale schema interpretativo, dimenticando, ci sembra, l’implicazione etica del pensiero della differenza. Si vedano di M. Ferraris: Derrida 1975-1985. Sviluppi teoretici e fortuna filosofica, «Nuova Corrente», n. 94-95, interamente dedicato al tema ‘Decostruzione tra filosofia e letteratura’; Tracce, Milano 1983, pp. 68-82 e 125-140, in cui un paragrafo viene significativamente intitolato Verso un’ermeneutica della traccia; La svolta testuale, Milano 1986, soprattutto pp. 33-79. Che si prenda la dovuta distanza da Gadamer, per il quale si tratta, infine, di salvare la tradizione e la possibilità dell’interpretazione in quanto tale del testo del passato (il dialogo, infatti, assunto secondo il modello platonico, è l’invariante del programma ermeneutico), non comporta, in effetti, una variazione interpretativa apprezzabile; dopo aver riconosciuto che il rapporto con la tradizione è un rapporto governato da un regime di double bind, Ferraris aggiunge che ciò si traduce in un «uso parassitario dei termini e dei testi inscritti in quella tradizione (La svolta testuale, cit., p. 64), avvalorando dunque le seguenti tesi: la decostruzione è una forma di ripetizione condotta fino all’estenuazione (posizione molto vicina ad un estetismo tardo-romantico) della tradizione; la decostruzione comporta una sorta di ‘libertà ermeneutica’ in nome della quale si può dire tutto, visto che è venuta a mancare qualunque possibilità di meta-discorso; l’effetto della decostruzione è una traduzione-trasformazione della filosofia nella letteratura: «Non sorprende – scrive Ferraris – che la Wirkungsgeschichte, la ‘storia degli effetti’ del decostruzionismo, sia stata prevalentemente letteraria» (ivi, p. 65), richiamandosi al testualismo americano. Era quanto, al contrario, avrebbe dovuto sorprendere: il programma decostruttivo è, infatti, tutto interno al progetto stesso della filosofia, vale a dire al progetto della scienza; esso s’inscrive all’interno della legge filosofica come double bind rispettandone il mandato: «Devi dire la verità, dunque non puoi»; pone certo la questione del linguaggio, ma non nel senso di un linguaggio altro da quello filosofico, bensì nel senso di una torsione di quest’ultimo al fine di dire la differenza e la sua sparizione; riprende secondo una tonalità ‘forte’, sebbene critica, il programma heideggeriano della distruzione della metafisica. La dimenticanza in cui viene lasciato tutto il rapporto fra la decostruzione, la riflessione di Maurice Blanchot (si veda a tale proposito J. Derrida, Parages, Paris 1986) e il pensiero dell’altro di Emanuel Lévinas impedisce di vedere come proprio la dichiarata assenza di fondamento faccia problema per la decostruzione: questa assenza stessa, infat-

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Ci servirà sapere tutto questo? Giacché la cenere, nonostante la coscienza sovraccarica di sapere storico, non cessa, tuttavia, di trasmettere: di trasmettere una verità situata al di là della storia, di tutti i discorsi sovra-impressi, di tutte le re(mis)interpretazioni. La cenere trasmette il là, il fuori stesso, il fuoco: la cenere fu(oco) cenere. Si legga: « – Il fuoco: ciò che non si può spegnere in quella traccia fra tante che è una cenere. Memoria, oppure l’oblio – come preferisci – ; ma comunque del fuoco, indizio che riconduce ancora ad una bruciatura. Il fuoco si è certo ritirato, l’incendio è stato domato, ma se vi è là cenere, questo vuol dire che – sotto sotto – un po’ di fuoco resta. Ed è ancora tramite questa sua dissimulazione che finge d’aver abbandonato il campo. Continua a simulare, continua a mascherarsi sotto la molteplicità, la polvere, le ciprie, il pharmakon inconsistente d’un corpo plurale che non gli appartiene più. Non restar più in contatto con sè, non appartenere più a sè: sta in questo l’essenza della cenere, la sua stessa cenere»13. ti, intesa non semplicemente come Abgrund, abisso in cui si cade per ‘sfondamento’ del fondamento, bensì come Ungrund, non-fondo costitutivo di tutto ciò che si dice (si scrive e si fa), chiama alla responsabilità morale ed implica, quindi, un’etica della filosofia. Una considerazione di questo tipo renderebbe comprensibile l’insistenza sul tema della giustizia e sulla facoltà del giudicare, l’importanza del problema della legge e del desiderio filosofici, la centralità della questione dell’altro, le ricerche sul ruolo politico-istituzionale della ricerca e dell’insegnamento della filosofia. Tutto ciò avrebbe permesso d’identificare nel Viens del L’arrêt de mort (su cui si veda J. Derrida, Sur-Vivre, tr. it. di G. Cacciavillani, Milano 1982) e nell’oui di Joyce (cfr. J. Derrida, Pacific Decostruction. 1. Ulysses Gramophone. L’oui dire de Joyce, tr. it. di M. Ferraris, «Nuova Corrente», cit.) non tanto l’esperienza che ciò che si dice (si scrive) è sempre già stato detto (scritto), quanto da un lato la ‘vocazione’ più originaria, precedente cioè ogni affermazione come ogni negazione e, dall’altro la risposta alla voce che chiama, quel ‘si’, appunto, come iscrizione del debito di fronte alla legge e al suo double bind, «sì» antecedente ogni morale codificata ed ogni interpretazione possibile. Viens e oui come modulazioni della voce di cenere. In una direzione diversa, molto più vicina a quella che qui si tenta di sviluppare, si muove, invece, Silvano Petrosino nel suo Jacques Derrida e la legge del possibile, Napoli 1983, II edizione aggiornata e ampliata, Milano 1997. 13 J. Derrida, Feu la cendre, cit., pp. 33-37. Su questo tema del fuoco, dell’olocausto e del brucia-tutto Feu la cendre rimanda sotto forma di animadversiones alle pagine di Glas dedicate ad Hegel ed in particolar modo al concetto di religione naturale quale viene elaborato nella Fenomenologia dello spirito sotto il titolo L’essenza luminosa. Scrive Hegel che nella prima immediata scissione dello spirito assoluto che sa sé, la figura che ad esso conviene si determina in base alla coscienza immediata e alla certezza sensibile. Lo spirito assoluto, di conseguenza, s’intuisce nella forma dell’essere, sebbene di un essere riempito di spirito. Tale essere spiritualizzato è la figura della relazione semplice dello spirito a se stesso o «la figura della mancanza di figura» (G.F. Hegel, Phänomenologie des Geistes, tr. it. cit., II, p. 209). «In grazia di questa determinazione tale figura è la pura, aurorale essenza luminosa che tutto contiene e riempie e che si conserva nella sua sostanzialità priva di forma. Il suo

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IV. L’ELOGIO DELLA CENERE. CONTROFIRMATO, JACQUES DERRIDA

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Lo si comprende adesso cos’è la storia di cui ci si fa forti? La storia è l’infinito camuffamento della cenere – le sue maschere: polvere, cipria, pharmakon; il corpo plurale e molteplice della cenere che ad esser-altro è il negativo altrettanto semplice, la tenebra; i movimenti della sua propria alienazione, le sue creazioni nel docile elemento del suo esser-altro sono piogge di luce; essi, nella loro semplicità, sono parimente il suo divenir-per-sé e il ritorno dalla sua esistenza, torrenti di fuoco che consumano la figurazione (...) Il contenuto che questo puro essere sviluppa, o il suo percepire, è perciò un inessenziale gioco in quella sostanza che soltanto sorge senza calare in se stessa, senza farsi soggetto e senza consolidare, mediante il Sé, le sue differenze» (ivi, pp. 209-210). Tuttavia, tale «vita convulsa» deve determinarsi come esser-persé, dare consistenza alle sue «dileguanti figure»; perciò «la luce pura decompone la sua semplicità come un’infinità di forme e si offre in olocausto all’esser-per-sé, per modo che il singolo si prenda il sussistere nella sua sostanza» (ivi, p. 210). Ha inizio, allora, la religione dei fiori. (Sulla religione dei Parsi e sul culto della luce-fuoco, si vedano anche le Lezioni sulla filosofia della religione, tr. it. a cura di E. Oberti e G. Borruso, Bari 1983, II, pp. 167-173). Per Derrida queste pagine hegeliane costituiscono l’iscrizione sotto le metafore della luce e del fuoco della differenza come gioco (ein wesenloses Beiherspielen), origine inessenziale della storia occidentale e della filosofia. Ad esse si potrebbe accostare la tesi di Hegel secondo la quale essenza dell’uomo è di non averne: la specie umana, dunque, come tale è inessenziale, irriducibile ad una qualsiasi generalità logica. Se di un origine si può parlare, essa è piuttosto il ‘brucia-tutto’ della luce e l’olocausto cui, senza l’ombra di un sacrificio, la luce si affida: «Pura e senza figura, questa luce brucia tutto. Si brucia nel brucia tutto che essa è, non lascia, di se stessa né di nulla, nessuna marca, nessun segno di passaggio. Pura consumazione, pura effusione di luce senza ombra, mezzogiorno senza contrario, senza resistenza, senza ostacolo, onda, ondate, fiotti infammiati di luce (...) Il brucia-tutto che non ha luogo che una volta e si ripete tuttavia all’infinito si allontana così bene da ogni generalità essenziale da rassomigliare alla pura differenza di un accidente assoluto. Gioco e pura differenza: ecco il segreto di un brucia-tutto impercettibile, il torrente di fuoco che brucia se stesso» (J. Derrida, Glas, Paris 1974, pp. 265-266). In che modo, allora, questa consumazione incessante, questa dépense radicale, darebbero origine alla storia? In che modo «l’incendio panico del brucia-tutto sarebbe in grado di erigere un qualche monumento, non fosse altro che crematorio»? (ivi, p. 267). Non si mostra in questo passaggio la forza implacabile del negativo? «Per poter essere quello che è, purezza del gioco, della differenza, del consumarsi, il brucia-tutto deve passare nel proprio contrario: salvaguardarsi, conservarsi, conservare il proprio movimento di perdita, apparire come ciò che esso è nella sua stessa sparizione. Non appena appare, non appena il fuoco fa la sua apparizione, esso resta, indugia, si perde come fuoco» (ivi, pp. 267-268). Si potrebbe dire: resta come cenere. Ecco la ragione dell’olocausto: se il brucia-tutto si offre in olocausto (Opfer – sacrificio), se si sacrifica, lo fa per restare, «per assicurarsi la propria protezione, per legarsi a se stesso, saldamente, diventare se stesso, per-sé, unito a sé. Per sacrificarsi, esso si brucia (...) In questo sacrificio, tutto è bruciato e il fuoco non potrà spegnersi se non attizzato» (ivi, pp. 268-269). È evidente che in tale sacrificarsi, in tale dono che il brucia-tutto fa di sé, il fuoco si salvaguarda in quanto fuoco: si dona la possibilità di ritornare interminabilmente dalla propria morte - sotto forma di cenere. Dunque, il fuoco continua a bruciare la storia. E l’etica? Basterà ricordare il legame, su cui Hegel insiste nelle Lezioni di filosofia della religione, fra la luce-fuoco e il bene: quest’ultimo, dunque è già qui, perlomeno per Hegel, al di là dell’essenza o, per dir meglio, è l’inessenzialità stessa: bene è che tutto bruci.

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IL DISCORSO E LA CENERE

ogni istante c’illude che il fuoco si sia spento, l’incendio estinto, il desiderio acquietato14. Ma se sotto la cenere cova il fuoco, allora la nostra storia brucia, sta bruciando proprio in questo momento; brucia di quel fuoco che da sempre, da un tempo immemoriale, distrugge il nomos della terra e i cicli della storia. Se ci si chiede quale sia, allora, l’essenza della cenere si scoprirà che, se la cenere è là – là dov’è il fuoco – , essa non sarà mai presso di sé, mai la si potrà pensare secondo il ritmo

14 Fra i vari camuffamenti della cenere c’è anche quello attraverso il quale ci si illude intorno alla possibilità di reinvestirla, di renderla, in altre parole, produttiva. Si legga, a tal proposito, una pagina di Primo Levi: «Le ceneri umane provenienti dai crematori, tonnellate al giorno, erano facilmente riconoscibili come tali, poiché contenevano spesso denti o vertebre. Ciò non ostante, furono usate per vari scopi: per colmare i terreni paludosi, come isolante termico nelle intercapedini di costruzione in legno, come fertilizzante fosfatico; segnatamente, furono impiegate invece della ghiaia per rivestire i sentieri del villaggio delle SS, situato accanto al campo. Non saprei dire se pur pura callosità, o se non invece perché, per sua origine, quello era materiale da calpestare (P. Levi, I sommersi e i salvati, cit., p. 100). Il passo fa parte di un contesto il cui tema è la violenza inutile e più in generale il carattere totalmente improduttivo del campo: si pensi al lavoro, ad esempio, che, tranne quei pochi casi in cui era collegato all’industria, non aveva alcun fine utilitario al di fuori di quello di snervare ulteriormente la resistenza dei deportati. Tale aspetto dei campi, e cioè il loro sfuggire quasi completamente al principio di utilità, l’essere, in realtà, espressione di un enorme dispendio di energia organizzativa e di ‘materiale umano’, il fatto, dunque che essi sembrino governati piuttosto dalla legge della dépense – tutto questo mostra come Auschwitz sia solo per un suo lato il modello del ‘mondo amministrato’ secondo la lettura di Adorno, ma ne costituisca allo stesso tempo una caricatura: certo involontaria. Vogliamo dire che la tesi di Adorno può essere vera ad una sola condizione: che si aggiunga che il ‘mondo amministrato’ non funziona. È quando tutto sembra andare bene, che ça marche, che si può esser certi che qualcosa va male. C’è un aspetto nelle ‘memorie’ dell”altra parte’ che non può essere semplicemente liquidato con un gesto di fastidio: un aspetto ironico e tragico costituito dalle continue lamentele del buon funzionario tedesco, del buon amministratore alla Rudolf Höss, per il fatto che niente, nei campi, funziona come dovrebbe. Impossibile smaltire il lavoro della distruzione; a Berlino danno ordini, ma che ne sanno di come vanno le cose qui. Si avesse almeno un personale efficiente. Ma che! Si è costretti a servirsi di delinquenti abituali, gente senza disciplina, che non ama il lavoro. E tutte quelle carte. Altro che principio di prestazione, altro che organizzazione tedesca! Immaginatelo quando, con i soldati americani alle porte, distrugge i protocolli dello sterminio, brucia le carte con gli elenchi dei gasati. Non è questa un’astuzia della cenere? La cenere che si levava nei campi era quella dei corpi o cenere di carta – cenere di nomi? La cenere è «questa cosa di cui non si sa nulla, di cui non si sa quale passato porti ancora quella grigia polvere di parole nè quale sostanza si sia lì consumata prima di spegnersi in lei (lo sapete quanti tipi di cenere distinguono i naturalisti? E di quale “legno” certe ceneri talvolta schiudano un desiderio?), di una cosa siffatta sarà ancora possibile dire che essa serba comunque un’identità di cenere»? (J. Derrida, Feu la cendre, cit., p. 15).

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di un movimento di ritorno a sé. La sua essenza è la sua stessa cenere. Sarà chiaro, dunque, perché questo strano polilogo sembri non condurre a nulla: nulla di dicibile, nulla di comunicabile, nulla su cui accumulare altre interpretazioni ancora: un dialogo senza alcuna crescita, nessuna acquisizione. Esegesi infinita, interminabile (e su questo si potrebbe anche essere d’accordo), ma da cui non si può estrarre nessun plus-valore, su cui non ci si può costruire un nome a meno di fraintenderla. Cosa poter fare di questo polilogo che dissolve l’identità degli interlocutori (e dei lettori) – simbolica, psicologica, sessuale: le ceneri « cambiano sesso, si androginano, si androginocidano»15 – , che in quanto appartenente al genere ‘dialogo’, lo de-genera, che distorce le regole grammaticali e per ciò stesso incinera tutta una grammatologia? Nulla. E lui lo sa: si legga: « – Tramite il ritorno paziente, ostinato, ironico dell’esegesi che non porta a nulla e che gli ingenui troverebbero indecente, staremmo forse modellando l’urna di un linguaggio per questa frase di cenere, che lui, per quanto lo riguarda, ha abbandonato al suo destino e alle sue probabilità, virtù di autodistruzione che fa fuoco da sola dritto al cuore»16? E se fosse proprio tale movimento incessante e paziente, tragico ed ironico, che a nulla approda se non alla sua cenere, ad essere quell’arte – modulazione di una esegesi impossibile – necessaria per modellare l’urna linguistica della frase-cenere? Essa sarebbe quell’unico discorso che trasmetterebbe l’essenza della cenere e la frase, ‘C’è là cenere’, sarebbe l’unica cripta della cenere. Ma ci si guardi dal credere quest’urna un monumento, ancora un serbatoio di memoria viva, tali da concedere il tempo di un lavoro e di un aufheben: il tempo di un lutto. Si legga ancora: « – Al di sopra del luogo consacrato, ancora l’incenso; e tuttavia nessun monumento, nessuna Fenice, niente che si eriga – o cada – , solo la cenere senza ascensione»17. No, non si potrà interiorizzare la cenere, farla ascendere dalla lettera allo spirito, transustanzializzarla, come una Fenice che sempre resuscita dalle proprie ceneri, né sarà concesso alcun Mercoledì delle ceneri. Questa frase-urna si dissolverà non appena ci si provi a pronunciarla – diverrà cenere: « – Ma l’urna di linguaggio è così fragile. Si sbriciola, ed ecco che ti trovi a pronunciarla in una polvere di parole che sono la cenere stessa»18. 15

J. Derrida, Feu la cendre, cit., p. 39. Ivi, p. 25. 17 Ivi, p. 39. 18 Ivi, p. 27. 16

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IL DISCORSO E LA CENERE

Polvere di parole, la cenere, la frase della cenere, lui, allora, non può che abbandonarla al suo destino privo di destinazione, alla sua vocazione malinconica ed afona. Ma nell’abbandonarla anche lui s’abbandona all’autodistruzione, desiderio che corrisponde alla legge della cenere. Giacché l’ordine della cenere è: Fuoco! Far fuoco dritto al cuore. E quando il cuore s’accende in un incendio come potrà sottrarsi al desiderio della cenere? Ecco che vi s’annuncia – là dov’è la cenere – un’etica della filosofia. Derrida – per tornare al nome proprio che denota per noi un certo corpus testuale, per quanto lui abbia scritto che è tutto un ‘cumulo di cenere’ – ha da sempre legato il programma della ‘decostruzione’ alla questione del ‘si deve’ (il faut). Vale a dire che ha unito l’esercizio della pratica filosofica all’occorrenza di una frase prescrittiva (e performativa insieme) che da sempre precede ogni impianto teoretico ed ogni elaborazione riflessa e consapevole della legge morale in generale. La frase – ‘devi sapere’, ‘sapere aude’, ‘c’è volontà di verità’ per fare qualche esempio – legittima, prima d’ogni determinato ‘voler dire’ filosofico, prima d’ogni ‘idea di sistema’, il desiderio stesso della verità; la frase, allora, funge da vero e proprio principio di fondazione, da autentico discorso d’origine. Ma cosa accade quando l’epoca moderna, la Neuzeit, pone all’ordine del giorno la questione della fine della filosofia? Andrà compreso subito che interrogarsi sulla fine della filosofia è porre insieme la domanda sul suo scopo: non si darebbe fine in senso proprio della filosofia (semmai soltanto una delegittimazione: da parte dei saperi informatici, ad esempio) se essa non coincidesse con lo svelamento integrale della sua essenza, con il compimento della sua destinazione. E d’altronde di cosa sono cifra titoli quali ‘il ritorno a sé dello spirito’, ‘il rovesciamento del pensiero in prassi’, ‘la pratica del nichilismo’, ‘il programma della distruzione della metafisica’, se non della ripetizione, nell’epoca inaugurata dall’opera dissolutrice della critica kantiana, di un discorso, filosofico certo, ma che non potremmo non definire apocalittico, che coniuga la fine con il fine, il gesto della chiusura con il compimento dello scopo, che pensa, insomma, la chiusura stessa come la destinazione della filosofia? È subito evidente come tale situazione sia affine al paradosso: renda, cioè, insostenibile la posizione del soggetto filosofico. Ed è per questo che noi dovremmo chiederci in via preliminare quale sia lo statuto del soggetto filosofico nell’epoca della fine della filosofia, quale il suo desiderio, quale la sua voce o, per dir meglio, quale il tono che ci

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IV. L’ELOGIO DELLA CENERE. CONTROFIRMATO, JACQUES DERRIDA

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permetterà di riconoscerla nel brulichio assordante dei linguaggi, d’individuarla nel rumore di fondo dei discorsi. Replicando a Jean-Luc Nancy19, che rifletteva appunto sull’il faut, Derrida ha risposto: «Io ho cercato di liberarmene, rispondendo a ciò che – uso le tue parole – nella differenza (différance) implicava già l’etica. Ma insieme, da quest’appello (appel-là) non ci si libera mai. Per esempio, ‘Devi, dunque puoi’, io lo intendo sempre come ‘Devi, dunque non puoi’, checché tu faccia. A questo segno di sconforto (détresse) riconosco questa voce dell’altro che detta e a cui bisogna (il faut) obbedire. È per me il solo imperativo. Si riconosce che questa voce è dell’altro dal fatto che non le si può rispondere, non all’altezza di ciò che dell’altro viene dall’altro. La struttura stessa della legge obbliga alla sua trasgressione. Il che può tradursi altrettando bene in una formulazione tragica di sconforto quanto nell’ironia del double bind. È quando sono sprovveduto e non so che fare che ho a che fare con la voce dell’altro»20. Scrivere, dunque, – e da filosofi – è in primo luogo corrispondere alla voce dell’altro; dire sì, sono pronto, all’appello dell’altro: sottostare alla frase che dice (scrive) il desiderio e la sua legge. E tuttavia, da cosa riconosceremo la voce filosofica se non da un certo tono sprovveduto, da una certa inflessione di sconforto, propri di chi abbia perduto certezza ed orientamento e, sentendo venirgli meno il terreno sotto i piedi, sia preso da vertigine? Giacché la frase imperativa, che lo legittima a dirsi filosofo, lo espone allo stesso tempo ad uno scacco: essa non dice più, ‘Devi (sapere), dunque puoi’, bensì, ‘Devi sapere (lo scopo e per ciò stesso devi porre la parola fine), dunque non puoi’. Che la frase si presenti secondo lo stile di una scena tragica o secondo quello dell’ironia di un double bind, la questione non cambia: essa comanda la sua stessa trasgressione. Ritorniamo al compito proprio del soggetto filosofico nell’epoca della fine/il fine della filosofia: come non vedere la sua strutturale impossibilità, la sua radicale indecidibilità? Essere filosofi per cessare d’esserlo, occupare il posto del soggetto filosofico al solo scopo d’abolirlo ed abolirsi con esso. In altri termini, non aver luogo accadendo ad un luogo: essere sempre ‘là’ – come la cenere. E sapere che ‘esser-là’

19

Cfr. J. L. Nancy, La voix libre de l’homme, in Le fins de l’homme. A partir du travail de Jacques Derrida (atti del colloquio di Cerisy tenutosi dal 23 luglio al 2 agosto del 1980), Paris 1981, pp. 163 sg. 20 Ivi, p. 183.

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IL DISCORSO E LA CENERE

non potrà mai essere confuso con un qualsiasi ‘al di là’ della filosofia – poesia, narrazione od altro: il compito della fine/il fine è il compito della filosofia, della filosofia soltanto. Altrimenti perché esso sarebbe, in quanto impossibile ‘si deve’, tale da gettare nella détresse, nello sconforto dell’indecidibile? Si comprenderà allora perché quella strana situazione per cui colui che si presentava come il più accanito dei distruttori possa apparire al suo erede come il più radicale continuatore di ciò che voleva liquidare, non dovrà essere più ascritta ad un limite esteriore del discorso filosofico, bensì accolta come l’inevitabile conseguenza del double bind della legge, vale a dire di quel patto originario, di quella alleanza fondatrice, in nome dei quali si è legittimati ad essere filosofi nel tempo della fine. Al contrario, dunque, di una certa ‘libertà interpretativa’, di un certo ‘tutto va bene’ ermeneutico21, la decostruzione implica, in primo luogo, l’esercizio 21 Questa è anche la critica di Gadamer a Derrida (altro esempio del double bind filosofico). Si veda la conferenza letta a Parigi nell’aprile del 1981, Testo e interpretazione, ed ora nella traduzione italiana di F. Vercellone, «Aut-Aut», nn. 217-218, gennaio-aprile 1987, in cui sono riportate anche la replica di Derrida e la controreplica di Gadamer (ma si veda anche sempre di Gadamer, Decostruzione e interpretazione, «Aut-Aut», n. 208, luglio-agosto 1985). L’accusa di Gadamer poggia sul fatto che Derrida si richiamerebbe a Nietzsche, là dove l’ermeneutica avrebbe le sue fonti ispiratrici nella tradizione romantica e in Dilthey. Dunque, in primo luogo Derrida non condividerebbe la tesi heideggeriana secondo la quale Nietzsche resterebbe ancora legato alla metafisica, rappresentandone semmai solo il compimento. In secondo luogo, Derrida, appunto a partire dalle tesi nietzscheane, vale a dire dall’affermazione del nichilismo radicale, opterebbe per una posizione per la quale l’interpretazione sarebbe il prodotto della volontà di potenza dispiegata; dunque, una proliferazione d’interpretazioni, un’autentica disseminazione ermeneutica, che non potrebbero più essere sottoposte non solo al criterio vero-falso, ma neppure a quello giusto-ingiusto. Si prenda, allora, il saggio che Derrida ha dedicato a Nietzsche, vale a dire Èperons. Les styles de Nietzsche, tr. it. di S. Agosti con testo francese a fronte, Venezia 1986 (ma si veda anche di Derrida, Otobiographies. L’enseignement de Nietzsche et la politique du nom propre, Paris 1984, tr. it. di R. Panettoni,Padova 1993); ci si accorgerà che l’analisi che Derrida conduce del frammento nietzscheano dell’autunno del 1881, «ho dimenticato il mio ombrello» (cfr. F. Nietzsche, La gaia scienza. Idilli di Messina e Frammenti postumi, vol. V, t. II delle Opere, ed. it. a cura di G. Colli e M. Montinari, Milano 1976, p. 415 sg.; la frase è virgolettata nel testo) non produce per nulla il risultato paventato da Gadamer; non si tratta di far vedere che il frammento è sottoponibile a qualunque interpretazione, quanto di mostrare che, anche se si arrivasse ad una interpretazione la più fondata possibile sia sul piano filologico che su quello ermeneutico, la verità del frammento resterebbe indecidibile. Ora, secondo i curatori il frammento è una citazione (da qui le virgolette); allora, quand’anche si riuscisse ad individuare la fonte, ciò non cancellerebbe il carattere citazionale della frase. È quest’ultimo che decontestualizza la frase e dissemina il valore di verità che si attribuisce alla fonte. La quale, a sua volta, cos’altro sarà se non un insieme di citazioni, esplicite o tacite? Voglia-

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di un’auto-sorveglianza; proprio in quanto la decostruzione vuole essere quella strategia che cerca di articolare la domanda sul compito o la vocazione della filosofia nell’epoca della sua fine, proprio per questo essa ha elaborato tutta una serie di dispositivi o un intero sistema di parerga22 al fine di poter sottrarre all’incomprensibilità ed insieme a tutti i tentativi di riduzione (ma, semmai, per poterla riconoscere come la modalità della legge a partire da cui s’instaura la pratica stessa della filosofia) quell’impasse in cui s’arresta il passo filosofico e che consiste nel ritrovarsi, da parte di colui che tenti di dire (scrivere) la fine/il fine della filosofia, a dover inevitabilmente riprendere l’intera tradizione del discorso filosofico, a restaurare le tecniche (filologiche, ermeneutiche, etc.) per il suo tramandamento, a ripetere l’evento stesso della sua origine. Se per un verso tale tesi della decostruzione può apparire sorella di quella del circolo ermeneutico, essa se ne differenzia, tuttavia, per l’esigenza di conservare intatta l’istanza che la guida, di rispettare fino in fondo il compito cui la destina l’ordine impossibile: dar compimento (o distruzione; ma è chiaro ormai che sono la stessa cosa e forse ‘la cosa stessa’ della filosofia) al discorso che si legittima come filosofico. Il contrario, dunque, del programma ermeneutico che, esattamente della salvezza della parola del passato dall’estinzione e/o dal fraintendimento, sembra aver fatto il proprio motivo dominante. Se, infatti, la cosidetta ‘urbanizzazione della provincia heideggeriana’23 consiste nell’assumere mo dire che il frammento è qui la cifra (una fra le tante) dell’iterabilità di una marca che dall’origine si cancella impedendo l’applicabilità del criterio di verità; semmai inaugurandolo. Si dovrebbe ricordare, d’altro canto, che Èperons pone la questione della verità: della verità che è donna; ma della donna, come della verità, non si dà essenza: della donna è impossibile dire che cos’è, domandare: «che cos’è la donna»?. Semmai potremmo dire, ‘C’è là donna’: la donna, infatti, è a distanza, fa distanza, è la distanza stessa. La verità, dunque, non è ciò che manca o che non c’è; la verità è semplicemente là. Ora, quale ermeneutica la dirà, la verità là? Si vede, allora, perché risulta necessario porre la questione del linguaggio filosofico; questione che non verrebbe risolta da una semplice abdicazione di quest’ultimo a favore di quello poetico-letterario. Il problema è piuttosto quello dello stile: dello stile appunto, cioè dello stilo, dell’oggetto acuminato con cui s’inscrive la verità là – la verità che altro non è che questo brucia-tutto che brucia anche se stesso senza lasciare tracce se non di cenere. Problema dello stile che per noi si pone ora come la questione del tono di una voce, della modulazione (im)possibile di una voce silenziosa e atonale, di una voce disseminata e de-genere. E poi si sa: lo stile è l’etica. 22 Sul concetto di parergon si veda, J. Derrida, Parergon in La vérité en peinture, Paris 1978, tr. it. di G. e D. Pozzi, Roma 1981. 23 L’espressione, come è noto, è di Habermas: cfr. J. Habermas, Urbanisierung der Heideggerschen Provinz, tr. it. di R. Cristin, «Aut-Aut », nn. 217-218, cit. Habermas la usa, tuttavia, in un senso opposto al nostro; ma questa è la legge della citazione.

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IL DISCORSO E LA CENERE

come invariante del dialogo ermeneutico proprio la possibilità della mis-interpretazione, vale a dire la realtà della Wirkungsgeschichte, è, invece, da un approccio, certamente critico, quantunque meno ‘urbano’, meno da ‘buone maniere’, al programma della distruzione della metafisica che la decostruzione prende abbrivo; ciò che è in gioco non è tanto la salvezza della tradizione, quanto la possibilità d’articolare il fatto che proprio ciò che la tradizione filosofica tramanda non è altro che l’insostenibilità stessa della filosofia. Ed è ponendoci da questo punto di vista che noi vorremmo mostrare come la decostruzione sia, forse, la scintilla provocata dal cortocircuito fra due esperienze fondamentali della filosofia contemporanea: vale a dire il programma della fenomenologia husserliana ed appunto il pensiero di Heidegger. E ciò non tanto dal punto di vista di una rigorosa ricostruzione filologica dei contenuti filosofici della decostruzione, quanto da quello delle domande sul destino della filosofia di cui poi i dispositivi di pensiero sono la dispiegata articolazione. Si apra la Crisi: si noterà subito il richiamo ad un compito cui sono chiamati quelli che Husserl definisce ‘i filosofi del presente’: tale compito consiste nella riconquista, oggi – nell’epoca della crisi – , dell’essenza dimenticata della filosofia24. 24 Tutto l’attacco della Crisi è, si potrebbe dire, incentrato sul senso che si deve dare al termine filosofia. Il dissolvimento dell’ideale di una filosofia universale, tale cioè da fondare razionalmente il senso dell’essere, ha prodotto da un lato lo sviluppo delle scienze positive e dall’altro la scissione nel campo stesso della filosofia. Non solo, come sempre, si assiste ad una lotta fra le vere filosofie e le non filosofie (lo scetticismo ad esempio), ma anche ad una proliferazione filosofica che induce alla dimenticanza del compito unico della filosofia. Ecco il senso della crisi che attanaglia i ‘filosofi del presente’: possiamo, si chiede Husserl, tornare tranquillamente alla costruzione della nostra propria filosofia dopo «che abbiamo scoperto con certezza che la nostra filosofia, come quelle di tutti gli altri filosofi presenti e passati, non avrà che l’effimera esistenza di una giornata nell’ambito della flora filosofica che sempre di nuovo si rinnova e che poi torna a sfiorirsi»? (E. Husserl, Die Krisis der europaïschen Wissenschaften und die transzendentale Phänomenologie, tr. it. cit., p. 46). È in questo tratto della caducità – tratto proprio del moderno – che consiste la miseria del presente, la contraddizione esistenziale di noi filosofi del presente: «Noi non possiamo rinunciare alla fede nella possibilità della filosofia come compito, nella possibilità di una conoscenza universale. Noi sappiamo di essere chiamati a questo compito in quanto vogliamo essere seriamente filosofi. Eppure, come tener fermo a questa fede, che ha un senso soltanto in relazione con un fine unico, e a noi tutti comune, cioè con la filosofia»? (ivi). Ora, come risolvere questa contraddizione? È a questo punto che, per Husserl, accanto alla diagnosi della crisi attuale, acquista un peso decisivo l’altra considerazione: quella per la quale noi «siamo eredi del passato», eredi del compito iscritto nel nome stesso ‘filosofia’. Di fronte a tale eredità occorrono

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Dal suo canto, per Heidegger, la trascrizione (o il fraintendimento dal punto di vista di Husserl25) di tale compito ha preso l’aspetto di un pensiero rammemorante il cui scopo è appunto, nell’epoca della fine, la tematizzazione compiuta della domanda sulla fine della filosofia26. È certo «considerazioni storiche e critiche», ma il loro scopo è quello di giungere «prima di qualsiasi decisione, a un’auto-comprensione radicale», occorre cioè, «indagare ciò che originariamente si perseguiva con la filosofia, ciò che tutte le filosofie e tutti i filosofi, storicamente intercomunicanti, hanno perseguito, e tutto ciò attraverso una considerazione critica di ciò che nella propria finalità e nel proprio metodo rivela quell’aderenza ultima e autentica alla propria origine (Ursprungsechtheit) che, una volta penetrata, lega a sé apoditticamente la volontà» (ivi, pp. 46-47). Il progetto filosofico è, come si vede, un compito etico. Si tratta, dice Husserl, di fronte alla crisi del presente, di ritrovare nella finalità originaria ciò che legittima la volontà apoditticamente a far suo quel compito da cui, ‘prima di qualsiasi decisione’, si sente chiamata. Il ritorno indietro al senso proprio del nome ‘filosofia’ legittima a dirsi filosofi nel tempo della fine. 25 Sul fraintendimento fra maestro ed allievo, che, come sempre, nasconde un eccesso di somiglianza, si vedano i testi raccolti da Renato Cristin in E. Husserl, M. Heidegger, Fenomenologia. Storia di un dissidio (1927), Milano 1986. Ma si veda anche la lettera ad Alexander Pfänder in cui Husserl si giustifica di aver favorito Heidegger, piuttosto che l’interlocutore, nella scelta del suo successore alla cattedra di Marburgo (e un discorso a parte meriterebbero le ragioni portate da Husserl per tale scelta: s’intende quelle non personali): cfr. E. Husserl, Lettera a Pfander (1931), tr. it. di R. Cristin, «Aut-Aut», n. 213, maggio-giugno 1986. 26 Si prenda come esempio il testo heideggeriano, Das Ende der Philosophie un die Aufgabe des Denkes, tr. it. di E. Mazzarella in M. Heidegger, Tempo e essere, Napoli 1980. Le domande poste da Heidegger sono due: «In che senso la filosofia nell’epoca presente è giunta alla sua fine?» e «Quale compito resta riservato, alla fine della filosofia, al pensiero?» (p. 163). Se filosofia vuol dire metafisica e metafisica, a sua volta, significa pensare l’essere al modo dell’essente, allora la fine della filosofia coincide con la fine della metafisica. Ma come pensare questa fine della filosofia? «Intendiamo troppo facilmente – scrive Heidegger – la fine di qualcosa in senso negativo come il semplice cessare, come il venir meno di un processo, se non addirittura come decadimento ed impotenza. Al contrario, il discorso della fine della filosofia indica il compimento (Vollendungun) della metafisica» (p. 164). Compimento, tuttavia, specifica immediatamente Heidegger, non significa raggiungimento di una perfezione; piuttosto, in base al legame fra la parola Ende e la parola Ort, la fine della filosofia «è quel ‘luogo’, in cui la totalità della sua storia si raccoglie nella sua estrema possibilità. Fine come compimento significa questo raccoglimento» (p. 165). Qui il discorso assume tonalità husserliane: «Il diramarsi della filosofia nelle scienze autonome, in modo sempre più decisivo intercomunicanti, è il legittimo compimento della filosofia (...) Essa ha trovato il suo luogo (Ort) nella scientificità dell’agire sociale dell’uomo. Il tratto fondamentale di questa scientificità è ad ogni modo il suo carattere cibernetico, cioè tecnico» (p. 166). L’estrema possibilità della filosofia è il dispiegamento della tecnica, «il trionfo dell’organizzazione pianificabile del mondo su basi tecnico-scientifiche e dell’ordinamento sociale adeguato a questo mondo. Fine della filosofia significa: inizio della civilizzazione del mondo fondata sul pensiero dell’occidente europeo» (pp. 166-167). Ora, se la tecnica è il luogo in cui si raccoglie l’estrema

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vero che la decostruzione, sottoponendo entrambi questi programmi al proprio lavoro critico, ha riscontrato in essi il ripristino (e ciò nonostante le loro intenzioni più o meno dichiarate) di un certo primato del logos, non tanto come logica della proposizione, quanto come indice della presenza a sé del presente vivente – vale a dire come raccoglimento nell’intimità di un luogo al fine di sottrarsi alla dispersione del fuori, ossia alla disseminazione di una traccia di cenere; ma non per questo ha cessato di rispettarne l’istanza più profonda27. Sia in Husserl che in Heidegger, e nonostante la diversità dei tragitti e degli esiti, si mostra infine il fatto che la tematizzazione della fine (quella che Husserl, ad esempio, chiamerebpossibilità della filosofia come metafisica, allora la tecnica non rappresenta un’accidente storico (cui corrisponderebbe la fine della filosofia come decadimento ed impotenza), bensì la destinazione più propria della metafisica. E, infatti, l’avvento delle scienze costituisce il compimento legittimo della filosofia. «Dimentichiamo – chiarisce Heidegger – che già all’epoca della filosofia greca appare un tratto decisivo della filosofia, vale a dire lo sviluppo delle scienze è allo stesso tempo il loro svincolarsi dalla filosofia e l’istituzione della loro autonomia. Questo processo appartiene al compimento della filosofia» (p. 165). Ma, se questo è vero, se ne dovrà concludere che la filosofia è nel suo compimento già dalla sua origine o, in altri termini, che si dà tecnica a partire dal fatto che l’essere è pensato come un essente: manipolabile, dunque, come tutti gli enti. La conclusione di Heidegger è, allora, la seguente: «Ma allora la fine della filosofia nel senso del diramarsi nelle scienze è anche già la compiuta realizzazione di tutte le possibilità, in cui il pensiero che si è realizzato come filosofia è stato posto? O c’è per il pensiero oltre l’ultima possibilità così definita (la risoluzione della filosofia nelle scienze tecnicizzate) una prima possibilità, da cui il pensiero filosofico dovette certamente partire, ma che proprio in quanto filosofia non fu in grado di esperire ed intraprendere»? (p. 167). Non vogliamo ricostruire qui la risposta heideggeriana alla seconda domanda, «Quale compito resta riservato al pensiero alla fine della filosofia?», che occupa la seconda parte del testo; ci basta aver fatto vedere che oltre l’ultima possibilità della filosofia, si dà al pensiero una prima possibilità che non questa o quest’altra filosofia avrebbero mancato, ma che la filosofia nella sua stessa storia non è stata in grado di esperire. Una possibilità che, dunque, deve essersi iscritta dall’origine della filosofia nella filosofia stessa sebbene immediatamente nascondendosi, andando, si potrebbe dire, in riserva (altrimenti da dove estrarremmo quel compito che appunto resta riservato al pensiero alla fine della filosofia?). Questa prima possibilità certo ci si dischiude solo quando l’ultima si sia interamente dispiegata, ma non è forse prima soprattutto nel senso di essere prima dell’ultima, se così si può dire, primultima? Prima possibilità della filosofia in quanto tale e che, dunque, include in sé anche l’ultima? Non è questo il carattere di un pensiero rammemorante? 27 Su Husserl il rimando, come è ovvio, è a J. Derrida, La voix et le phénomène, Paris 1967, tr. it. di G. Dalmasso, Milano 1968 ed alla introduzione alla traduzione francese dell’appendice III della Crisi, più conosciuta sotto il titolo, L’origine della geometria: cfr. J. Derrida, Introduction a Husserl, L’origine de la géométrie, Paris 1962, tr. it. di C. Di Martino, Milano 1987. Riguardo ad Heidegger si vedano, J. Derrida, OUSIA et GRAMME. Note sur une note de Sein und Zeit, in Marges de la philosophie, cit. e J. Derrida, Geschlecht, différence sexuelle, différence ontologique, «L’Herne», n. 45, Paris 1983.

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be la dissoluzione dell’ideale di una filosofia universale) non può andare disgiunta da quella dell’origine della filosofia stessa: non sarebbe possibile, in altri termini, nemmeno articolare la domanda senza contemporaneamente interrogarsi sulla scaturigine di questo progetto (cui essi, non lo si dimentichi, si sentono chiamati) che ha per nome proprio ‘filosofia’, e cioè ricerca (o, piuttosto, desiderio) della verità. È proprio nel momento in cui la filosofia avverte di essere sottoposta al rischio della dissoluzione e della fine, percepisce, in altri termini, che è posta in dubbio (dal contesto o, forse, dalla sua stessa storia?) la sua legittimità, che essa si vede costretta alla rimemorazione della propria origine affinché ritrovi il fondamento della certezza del proprio diritto. In una parola: quel compito cui sono chiamati i ‘filosofi del presente’ non è altro che la ripetizione di quella ‘vocazione’ da cui la filosofia ha tratto la sua origine. Che tale vocazione possa essersi occultata e perduta nell’arte dell’imitazione sofistica, oppure, secondo Husserl, nello scetticismo e/o nell’obiettivismo o ancora nella tradizione metafisica come oblio dell’essere secondo la dizione di Heidegger, non per questo la vocazione filosofica – il desiderio della verità – si è estinta: sopravvive muta, sepolta nei discorsi tramandati – come il fuoco cova sotto la cenere. Ed è qui (là) il punto: la morte della filosofia non è altro che la forma della sua sopravvivenza. Ma se la filosofia sopravvive, non alla morte, alla morte come stato, alla morte come posizione d’essere, per quanto tale essere sia preceduto dal segno negativo, bensì nella morte, nel processo del suo interminabile morire, allora noi non potremo non pensare che essa sopravvive da sempre, da prima ancora d’avere avuto inizio. Se tale tesi appare paradossale, si pensi allora alla figura del proto-geometra husserliano, che per noi qui fa da metonimia di quella, ancora più improbabile, di un proto-filosofo; si pensi, dunque, a questo ipotetico primo filosofo: come potrebbe dichiararsi tale, legittimarsi come eroe eponimo, destinatore e destinatario del ‘logos’ filosofico, se la filosofia come progetto non fosse già da sempre all’opera? Se, in altri termini, il suo gesto inaugurale e fondatore non fosse, in realtà, la ripetizione di un gesto più anteriore ed immemoriale? Se il desiderio che lo fa filosofo non fosse già stato incendiato dal fuoco della verità? Ed è per questo che il protofilosofo è già cenere – resto in cui sopravvive la morte del fuoco, traccia in cui si trasmette la giustizia che divora e brucia28. 28

La questione sollevata dall’appendice al paragrafo 9a della Crisi riguarda la pensabilità di una tradizione, nel caso specifico quella della scienza geometrica. Non si trat-

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E se il proto-filosofo husserliano appare una figura ancora troppo legata ad un discorso segnato dalla sua provenienza trascendentale, dalla sua appartenenza genealogica alla famiglia (come non casualmente si usa dire: ecco di nuovo la pretesa di raccogliere la cenere – tutta per

ta, tuttavia, per Husserl, del tramandamento di un certo sistema di enunciati (da qui la critica all’Historizismus), bensì della possibilità di una trasmissione di quella evidenza prima, in carne ed ossa, attraverso la quale gli oggetti ideali – le verità geometriche – si sono dati ad una visione originale. Il problema, dunque, non è quello dell’acquisizione di un sapere astratto, ma quello della ripresentificazione della visione originaria. D’altronde tale possibilità di ripresentificazione deve implicare che l’origine della geometria non sia un’evento temporale della serie del passato, giacché, in tal caso, essa risulterebbe semplice oggetto di un sapere storico. L’origine non si è data una volta nel tempo, piuttosto la sua temporalità specifica è quella ‘eternità’ di ciò che è logico: un’origine deve essere cioè ripetibile in linea di principio. Il discorso husserliano riprende qui il problema della differenza fra una genesi psicologico-empirica ed una originarietà gnoseologico-trascendentale (differenza, d’altronde, che costituisce il filo rosso della ricerca fenomenologica): per la questione dell’origine della geometria non è significativo il rimando alle modalità attraverso le quali un ipotetico proto-geometra sia giunto alla formulazione delle prime verità geometriche, modalità, appunto, psicologico-empiriche, bensì la ripresentificazione della costituzione dell’oggettività ideale della geometria. «Non è uno strano capriccio – scrive, infatti, Husserl – quello di voler ricondurre il problema dell’origine della geometria a un Talete irreperibile, che non esiste nemmeno nella leggenda? Ciò che esiste è la geometria, con le sue proposizioni, con le sue teorie»; ed aggiunge: «A nessuno verrà in mente di far risalire il problema gnoseologico a quel Talete immaginario – sarebbe del tutto superfluo! (E. Husserl, Die Krisis der europaïschen Wzssenschaften und die transzendentale Phänomenologie, tr. it. cit., p. 396). La geometria, allora, il progetto geometrico in quanto tale, deve essere pensato logicamente anteriore all’enunciazione storico-empirica, documentabile dalla ricerca storica, delle proposizioni geometriche. L’enunciazione dell’irreperibile ed immaginario proto-geometra è già l’effetto di una ripresentificazione del senso originario della geometria; e ciò varrebbe anche nel caso in cui la ricerca storica ne dimostrasse nel frattempo l’esistenza. Tuttavia, la geometria è storica: storica per aver avuto un’origine, storica per il fatto stesso di tramandarsi, di costituire una tradizione. Eppure non è storica nel senso di una storia di fatti, nel senso dell’Historie. È storica, risponde Husserl, nel senso di poggiare a sua volta su di un a priori: non formale questa volta, quanto storico anch’esso. Un a priori storico: il che vuol dire che la storia stessa, come storia di fatti, prende il suo senso a partire da una fondazione gnoseologico-trascendentale; occorre, insomma, che preliminarmente vi sia un’apertura della storicità in generale perché vi sia qualcosa che sia definibile storico in senso proprio: anche una storia della geometria. Tale questione, tuttavia, non deve attendere la stesura della Crisi per fare la sua apparizione nel progetto fenomenologico. Si prenda il terzo paragrafo dell’introduzione alle Ricerche logiche (cfr. E. Husserl, Logische Untersuchungen, tr. it. di G. Piana, Milano 1968, I, pp. 274-277): qui Husserl elenca le difficoltà specifiche dell’atteggiamento fenomenologico. In primo luogo «l’analisi fenomenologica esige un orientamento innaturale del pensiero e dell’intuizione. Invece di abbandonarsi all’effettuazione di atti stratificati

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carità – nell’unità di un focolare) dei discorsi che potremmo chiamare a fondamento forte, ci si rivolga ad Heidegger: quando il suo pensiero rammemorante ritorna alla parola dei greci – dei primi filosofi – perché in essa, in questo Sagen originario, quasi non più poetico, non ancora del tutto filosofico, in questa indecidibile (ma lui lo sa?) soglia che chiamiamo origine, si è detta (scritta – scritta appunto: marca, traccia, cenere di una voce impossibile) la parola (ancora e sempre una parola) ‘aletheia’29. Parola che nel momento in cui si scrive già si cancella: su questa traccia cancellata si sovra-impone orthotes; ma non era questo il suo destino? La sua destinazione? Che ‘ aletheia’ si trasformasse, si perdesse, si occultasse in esattezza ed adeguazione ed infine in tecnica? E se questa era la sua destinazione (e solo questa): lasciare come resto di sé il mondo della tecnica, non era, dunque, a sua volta un resto – ‘aletheia’, resto di un’altra verità, nemmeno iscritta, bensì dispersa, secondo molteplici modalità, di porre come esistenti, per così dire, ingenuamente, gli oggetti intenzionati nel loro senso, di determinarli o assumerli come ipotesi, di trarre di qui conseguenze, ecc., dobbiamo invece ‘riflettere’, cioè rendere oggetti specifici questi stessi atti ed il loro contenuto di senso immanente» (pp. 274-275). Una seconda difficoltà, immediatamente inerente alla prima, è costituita dal fatto che in questo passaggio innaturale dall’effettuazione ingenua degli atti all’atteggiamento riflessivo, i primi subiscono una modificazione di cui andrà tenuto conto. È a questo punto che accanto alla difficoltà di poter reiterare tale atteggiamento innaturale, compare inevitabilmente quella della sua esposizione e trasmissione ad altri. Come trasmettere questo esercizio continuo che trasforma l’atteggiamento innaturale in un habitus, in una specie di seconda natura? Che un singolo vi riesca – Husserl, il proto-fenomenologo – acuisce, piuttosto che semplificare, la questione. Ma per quanto grandi siano queste difficoltà, dice Husserl, non sono, tuttavia, tali da rendere disperato il tentativo di un loro superamento: «Oserei affermare – scrive subito dopo – che il deciso lavoro, condotto in comune e consapevolmente da una generazione di scienziati interamente dediti a questa grande impresa, dovrebbe portare a piena soluzione le questioni più importanti di questo campo, cioè quelle relative alla sua struttura essenziale» (p. 277). La risoluzione della difficoltà della reiterabilità dell’atteggiamento fenomenologico è, dunque, individuata nella costituzione di una comunità fenomenologica che si faccia carico della trasmissione di questo atteggiamento. In altre parole, la fenomenologia per trasmettersi deve istituzionalizzarsi (in una successione cattedratico-universitaria ad esempio); attraverso l’istituzionalizzazione la fenomenologia si costituisce come tradizione: una tradizione – lo sappiamo – , non di morti enunciati, bensì una tradizione vivente – la tradizione dell’atteggiamento innaturale della riflessione. Allora, la fenomenologia, che è quanto dire, per Husserl, la filosofia tout court, ha, come tradizione, un’origine; e se ha un’origine, questa non coincide con il proto-fenomenologo, con colui che per primo ha compiuto il passaggio all’atteggiamento innaturale. La fenomenologia sarà, allora, piuttosto il destino che accade al protofenomenologo, quel compito cui si sente chiamato, una vera e propria ‘vocazione’. 29 Su questo punto si vedano i saggi raccolti in Unterwegs zur Sprache, tr. it. di A. Caracciolo e M. Caracciolo Peroni, Milano 1973.

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IL DISCORSO E LA CENERE

disseminata, persa là nel fuori, nel fuoco-fuori? Vogliamo dire che verità ed esattezza costituiscono in Heidegger già da sole un sistema: esse sono in opposizione, obbediscono ad una gerarchia, certo non moralistica (come d’altronde quella fra esistenza inautentica ed autentica), e tuttavia ripetono il dispositivo della metafisica e dell’onto-teologia. La differenza fra verità ed esattezza è già il risultato di una apertura ancora più originaria e per ciò stesso senza origine: essa è il risultato del differire della differenza, di ciò appunto che la decostruzione chiama, ma più esattamente scrive, la différance – ed ancora una volta noi non potremmo avvertire la differenza di una ‘a’ da una ‘e’ se non leggendo la parola scritta, mai nel soffio di una voce; ma allo stesso tempo solo il soffio di una voce ci renderà udibile il lavoro silenzioso attraverso cui avviene il differire, vale a dire la disseminazione, della differenza – della cenere che da sempre è là30. Se, dunque, la verità come opera del fuoco è sempre in via di sparizione, allora la filosofia – il desiderio della verità – altro non sarà che l’esercizio di quel lavoro lento e paziente che è il lavoro del lutto. Il pensiero null’altro che la tomba della cenere. E, tuttavia, non avevamo detto che di fronte alla frase, ‘C’è là cenere’, urna friabile (come il suo contenuto) della verità di cenere, ci sarebbe stato impossibile elaborare il lutto? Che la cenere si sarebbe sottratta al tentativo dell’interiorizzazione, vale a dire al desiderio di circoscriverla in una qualunque forma d’internità – psicologica, trascendentale o altro? Noi dovremo, adesso, tentare di pensare il lutto come la forma stessa della malinconia; già in Freud31 – e nonostante tutta la strategia messa in opera per evitare tale esito – lutto e malinconia non sono due modalità separate e distinte – l’una normale, l’altra patologica – del comportamento psichico. Se il lavoro del lutto consiste nell’abbandono del morto al suo destino affinché nell’interiorità ne sia conservata la memoria viva (e viva qui significa: tale che permetta al sopravvissuto di continuare a vivere), la malinconia, dal suo canto, rappresenta la resistenza del morto a lasciarsi rinchiudere nello spazio assegnatogli: il regno dei morti o il centro dei centri della casa, là dove appunto s’accende un focolare. Senza pretendere qui di ricostruire tutte le fasi psichiche della malinconia, ci basti dire: essa è l’altra scena del lutto. Sempre un’elaborazione 30 Su questo il rimando è, come è ovvio, a J. Derrida, La différance in AA. VV., Théorie d’ensemble, Paris 1968. 31 Cfr. S. Freud, Trauer und Melancholie, tr. it. in Opere, vol. VIII, Torino 1977. Per questa lettura del rapporto fra lutto e melanconia rimando al mio, Walter Benjamin e la moralità del moderno, cit., pp. 406-413.

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luttuosa si rovescia nell’impossibilità di dare morte al morto. Dal regno dei morti, infine, si torna come un fuoco di famiglia può sempre trasformarsi in un incendio e bruciare la stabile dimora. Fantasmi, larve invadono il soggetto, come Paolo e Francesca, avvolti dalle fiamme del fuoco, il corpo di Dante che, alla fine, stremato, cade come un corpo morto anch’esso. La sopravvivenza del morto come di ciò che continua a morire, che si rifiuta, dunque, di morire una volta per tutte, fa dell’esistenza del rimasto in vita una forma di quasi-morte: se nel lutto (riuscito) egli s’illude di vivere una vita piena e presente, la malinconia lo richiama al suo statuto di sopravvivente. Il vivente aveva scritto Nietzsche (e Derrida lo ricorda nel testo della cenere) è una specie del morto. Se, dunque, la filosofia vive, vive del suo interminabile morire; sopravvivendo alla sua stessa de-generazione, la filosofia è la modulazione della sopravvivenza della verità. Certo, di una verità da sempre morta, perduta, come l’oggetto perduto del desiderio di cui parlava Freud. Ma allo stesso tempo ‘aletheia’, verità, non è nulla di mortale (come dice Heidegger), giacché essa è l’interminabilità stessa del morire. La frase-cenere, allora, non è un tomba, non appartiene al regno circoscritto della morte, non funge da dimora; semmai è un’urna invaginata in una cripta dove il morto più che morire si conserva in una quasi-vita, in una quasi-morte (ci si ricordi di quel che Hegel dice della piramide32). E dentro l’urna – là cenere: « No, non è la tomba che avrebbe sognato affinchè un’elaborazione del lutto – come dicono loro – abbia luogo di prendere tutto il suo tempo. In questa frase io vedo: la tomba di una tomba, il monumento di una tomba impossibile – vietata, come la memoria di un cenotafio, la pazienza del lutto rifiutata, e rifiutata anche la lenta decomposizione, posta al riparo, sistemata, accasata, ricoverata in te mentre tu ingurgiti e sputi fuori tutto (…). Una incenerazione celebra forse il nulla del tutto, la sua distruzione senza ritorno che è però pazza del suo desiderio e della sua astuzia (…) l’affermazione disseminale a corpo perduto ma anche tutto il contrario, il no categorico al travaglio del lutto, un no di fuoco. Come accettare di lavorare per sua signoria il lutto»? 32

Cfr. G.F.W. Hegel, Asthetik, tr. it. di N. Merker e N. Vaccaro, Torino 1967, pp. 401-403. In queste pagine dedicate all’arte simbolica, Hegel si richiama ancora alla religione della luce e, poco dopo, indica nella Fenice che si incenerisce, ma ringiovanita rinasce dalle fiamme e dalla cenere (p. 399), ii simbolo generale indicativo dello stadio del simbolismo vero e proprio. Sulla figura della ‘piramide’ in Hegel si veda: J. Derrida, Le puits et la pyramide, in Marges de la philosophie, cit.

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IL DISCORSO E LA CENERE

Ma c’è sempre un’altra voce: « e come non accettare? Il lutto è proprio tutto questo: la storia del suo rifiuto, il racconto della tua rivoluzione, e la tua ribellione, tesoro mio»33. Il lutto è la ribellione al lutto: questa la sua storia. E come, d’altronde, potrebbe esserci lutto se non c’è luogo? Come pot;ebbe, allora, avere luogo? E d’altra parte per quanto un’incenerazione sia la celebrazione per aver messo la parola fine a tutto (e per averne con questo realizzato lo scopo), non vi sarà sempre un resto di cenere pronto ad incendiare di nuovo il desiderio? E accanto al desiderio un’astuzia del morto per non morire ancora? Noi, certo, interiorizzeremo la verità di cenere, tenteremo d’incorporarla, a pezzi, forse mangeremo il pane della verità; ma subito lo risputeremo o, per usare un’omonimia italiana al posto di quella offerta dal francese, lo mangeremo, certo, ma esattamente come l’erede de-genere mangia l’eredità che ha ricevuto. La verità si dilapida da sempre, si dissemina: nessuno la possiederà se non per perderla. Per questo noi riconosceremo la voce filosofica quando nel suo tono risuonerà – suono di una voce muta – l’inflessione del dolore; quel dolore puro che si prova di fronte all’ordine impossibile cui ci destina la legge della verità: la necessità del dire e l’impossibilità della parola. Giacché la legge, che comanda il desiderio, ordina null’altro che l’incenerazione: che si affidi alle tavole, supporto duro e opaco della tracciascrittura, non toglie che una voce la ‘dettava’ dicendosi dall’al di là di una nuvola o bruciando tra le fiamme di un roveto. La scrittura – lo si vede infine – è il resto di una voce, di una voce di cenere. Ma se l’elogio della cenere è un elogio funebre (ed ogni elogio lo è) – elaborazione luttuosa e disfacimento malinconico – è perché il canto che l’intona è la commemorazione della morte interminabile del fuoco: ‘C’è là cenere’ .

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J. Derrida, Feu la cendre, cit., p. 27.

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Capitolo quinto La prosopopea della legge. Platone, un détour attraverso la scena primaria

4 settembre 1977 L'ordine dato a D. per mezzo della Lettera II, è di fatto l'ordine più innamorato, il più pazzo ordine che ti avevo dato anch'io, angelo mio (non ti ho mai chiamata angelo mio, solo per iscritto) e che non hai sentito (...) Il mio ordine era la preghiera più indifesa e il simulacro più inconcepibile per me stesso anzitutto. Come potevo chiederti di bruciare, vale a dire non leggere, quello che ti scrivevo? Ti ho subito messa in una posizione impossibile. Non leggermi. Questo enunciato organizza infatti la propria trasgressione nell'istante stesso in cui, per il solo evento di una lingua posseduta (non accadrebbe niente di simile per chi non è istruito nella nostra lingua) detta legge. Costringe a violare la propria legge, qualunque cosa si faccia, ed esso stesso la viola. Ecco a che cosa è destinato, all'istante. E destinato a farsi violenza, ed è lì tutta la sua bellezza, la tristezza della sua forza, la disperata debolezza della sua onnipotenza. J. Derrida, La carte postale

Era stato Lyotard ad evocare il nome di Platone riguardo al doppio registro della legittimazione e alle questioni delle narrazioni legittimanti e dei meta-racconti. Di fronte alla proliferazione, infatti, dei discorsi (logoi) come decidere quali siano veri e quali falsi? Occorrerà, dunque, un metro di giudizio che ci renda possibile discernere il discorso condotto secondo le regole della verità da quello che soltanto le imita. Discorso vero sarà solo quello che si appoggia sulla dialettica ideale, falso quello che sostituisce alla dialettica la speciosità della tecnica eristica. S’intravede già, da queste poche battute, ciò che sarà il Leit-motiv del dialogare platonico: la de-legittimazione del sofista. Giacché quest’ultimo non si presenta tanto come un possessore di tecniche e di saperi, quanto come un legislatore, cioè come uno che insegna la tecnica lin-

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guistica per legittimare un qualsiasi discorso. La polemica di Platone opera dunque su due fronti: delegittimando il sofista in quanto legislatore, egli tende insieme a delegittimarlo come buon insegnante. Che in questo scontro ne vada del soggetto-supposto-sapere e del soggettosupposto-insegnare, sarà la direttiva della nostra lettura. Nella polemica contro le arti imitative un posto specifico occupa il problema del racconto. Come per le arti in generale, così per il racconto non si tratta mai per Platone di espellere in massa dalla ‘buona’ Repubblica gli esperti della riproduzione. Come sempre il problema sarà quello di istituire il confine invalicabile fra la buona imitazione, che di diritto entra a far parte della organizzazione politica, e quella cattiva, che ne deve essere accuratamente esclusa. Ad esempio tutti quei racconti che attribuiscono agli dei, ai demoni e agli eroi un’inclinazione al male – cioè i racconti mitici – saranno vietati, sia perché falsi, sia perché diseducativi. Per quanto riguarda, invece, i racconti che narrano degli uomini, qualora essi sostengano che «molti sono ingiusti e felici, e giusti e infelici, che l’ingiustizia giova purché non scoperta, e la giustizia è un bene in persona estranea e un castigo in persona propria», allora, dice Platone, «noi vieteremo di dir cose simili e ordineremo di cantare e favoleggiare il contrario di esse» (Repubblica, 392b)1. Se i racconti (logoi) sembrano così impunemente rovesciare le regole morali, non si dovrà dapprima stabilire che cos’è la giustizia e solo in seguito delegittimare quei racconti che tendono a legittimare come vera l’opinione che la giustizia sia inutile e dannosa? Dunque, anche quando un racconto sembri narrare un’esperienza comune – che la giustizia non paga, per intenderci –, ciò non sarà motivo per legittimarlo: anzi, il contrario. Il piano della doxa dovrà essere tenuto distinto da quello della verità e il buon legislatore (il legislatore legittimato) sarà chiamato a negargli la qualifica di discorso vero in nome del fatto che è un discorso contro la giustizia e, dunque, ingiusto. Quindi, non è il racconto ad essere in sé falso, ma la pretesa di legittimarlo come vero, e ciò che va delegittimato è, prima del racconto in se stesso, il discorso che ne vuole dare la legittimazione. È il legislatore ad essere ingiusto ed è per questo che legittima il racconto che contraddice la giustizia. 1 Citiamo dalla traduzione di Francesco Gabrieli, Platone, La Repubblica, con una introduzione di F. Adorno, Milano 1981. Per il testo greco delle opere platoniche ci siamo serviti dell’edizione di J. Burnet, Oxford 1892-1906 e di quella delle ‘Belles Lettres’, Paris 1920 sg.

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Ora, che cosa raccontano i sofisti, questi legislatori illegittimi ed insegnanti prezzolati, e forse l’una cosa in conseguenza dell’altra? Come c’informa l’Ippia maggiore i sofisti narrano racconti di fondazione. Rispondendo a Socrate, che, con l’ironia che lo distingue, gli chiede perché lo ascoltino e lo applaudano, se perché parla degli astri e dei fenomeni celesti, o della geometria, o dei calcoli, o ancora del valore delle lettere, delle sillabe, dei ritmi e delle armonie, e volontariamente dimentica l’arte – la mnemotecnica – in cui è esperto, Ippia, dopo aver detto che di tutto questo coloro che lo ascoltano non vogliono sentir nulla, aggiunge: parlo «delle genealogie degli eroi e degli uomini, Socrate, e delle fondazioni, di come anticamente si fondarono le città, in una parola, ascoltano con grande piacere tutta la storia antica, onde per contentarli sono stato costretto a studiare e ad approfondire tutti questi argomenti» (Ippia maggiore, 285b)2. Il sofista sembra non essere esperto in nessuna tecnica o sapere determinato; semmai egli può essere considerato l’esperto dei racconti antichi che narrano le genealogie e le origini, ed è per questo che deve eccellere nell’arte del tenere a memoria, nell’arte della mnemotecnica. Come il narratore tradizionale di cui parlava Lyotard, il sofista ha la cura dei racconti, la cura della memoria dei racconti. Ma, d’altro canto, egli appartiene ad un’epoca – di cui è anche un prodotto – che ha relegato nel passato le comunità castali; a differenza del narratore tradizionale, il sofista non è più autorizzato da nessun racconto canonico, da nessun patronimico3 Non avendo occupato né la posizione del destinatario, né quella dell’eroe eponimo, il sofista è espulso dalla memoria viva della trasmissione e deve ricorrere alla tecnica derivata e secondaria della mnemonica. Per questo, infine, scrive: la polemica contro la scrittura condotta da Platone, soprattutto nel Fedro4, che come sempre più che contro la scrittura in generale è rivolta a trovare il discrimine fra buona e cattiva scrittura, discende forse dalla necessità di ripristinare il legame con l’origine, che l’avvento della 2

Citiamo dalla traduzione di Francesco Adorno in Platone, Opere, vol. V, Bari 1971. Sul problema complessivo della crisi della tradizione orale e del passaggio ad una civiltà della scrittura ed in particolare per la posizione occupata da Platone in tale transizione, si veda lo studio fondamentale di E. Havelock, Preface to Plato, tr. it. di M. Carpitella (col titolo, Cultura orale e civiltà della scrittura), Bari 1973. 4 Per questo punto di veda J. Derrida, La pharmacie de Platon, in La Dissémination, cit. (è stata edita recentemente una traduzione italiana a cura di R. Balzarotti, Roma 1985). 3

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società democratica ha spezzato e rispetto a cui il sofista agisce come un parassita5. Ma se abbiamo trovato il metro di giudizio che ci ha permesso di distinguere, riguardo all’argomento, i buoni dai cattivi logoi – non il racconto degli dei e degli eroi, non quello contro la giustizia –, il passo successivo consisterà nel distinguere ulteriormente fra le modalità del raccontare. Il problema del modo d’espressione diviene ora centrale; se, infatti, si è deciso che non tutti i racconti vanno espulsi – altrimenti come insegnare? –, ma solo quelli che insegnano come vera l’ingiustizia, allora la tecnica dell’esposizione sarà fondamentale: quale modo, infatti, più giusto al fine educativo del racconto? Quello – lo anticipiamo subito – meno imitativo, meno lontano cioè dai paradigmi ideali. Si potrebbe dire – ma non è Platone a dirlo6 – che all’interno della mimesi in generale è possibile istituire una gerarchia fra il meno imitativo e il più mimetico, il più lontano dalla copia della copia e il più vicino al gioco di riflessi dei simulacri. Il passaggio linguistico rafforza il nostro assunto: «La parte sulle narrazioni (logôn), dunque, abbia qui punto. Dopo ciò penso, dovremo esaminare quanto riguarda la forma d’espressione (to lexeôs), e allora avremo esaminato completamente ciò che va detto (lekteon) e il come va detto (ôs lekteon)» (Repubblica, 392c). Se logos significa discorso, racconto, narrazione, ma con riferimento all’oggetto, all’argomento della narrazione, lexis si riferisce all’atto del parlare, alla dizione, al modo ed infine allo stile dell’elocuzione. Siamo forse in presenza della voce narrante? Non c’è dubbio: la sfera della lexis riguarda la voce – non certo quella scritta, ma solo quella proferita – e le sue tonalità. Platone ne individua tre, schierate, come sempre, in ordine gerarchico: la narrazione diegetica, o discorso indiretto, in cui la voce si potrebbe dire è onnipresente; al polo estremo la narrazione mimetica, o discorso diretto, in cui la voce narrante si dilegua a favore di quella dei personaggi; ed in mezzo, la narrazione mista. Le modalità della lexis strutturano una teoria dei generi: nella diegesi è facile vedere il racconto, la narrazione totalmente descrittiva o narrazione semplice 5 Sulla scrittura come memoria della tradizione quale viene tematizzata nelle Leggi (741 c-d) o come ‘memoria del tempio’ nel Timeo (22e-23c), si veda F, Sircana, Le figure platoniche della scrittura e della moneta, in AA. VV., L’ideologia della città, Napoli 1977. 6 Cfr. G. Genette, Frontiere del racconto, in Figures II, tr. it di F. Madonia, Torino 1972, p. 26. Su questi temi, ma in direzione opposta alla nostra, si veda F. Rella, La battaglia della verità, Milano 1986

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(aplê) – o che perlomeno si presume tale –, che Platone identifica nel ditirambo; nella mimesi il dramma e nel racconto misto l’epica7. È esattamente da quest’ultima, l’Iliade omerica, che Platone trae l’esempio che illustra la differenza fra la diegesi e la mimesi: «Dimmi, conosci tu il principio dell’Iliade, in cui il poeta dice che Crise prega Agamennone di lasciargli libera la figliuola, e quello si arrabbia, e l’altro, non ottenuto l’intento, impreca agli Achei rivolto al dio»?; ora, prosegue Platone, fino ad un certo punto «è il poeta stesso che parla, e non cerca rivolger altrove la nostra mente come se parlasse qualcun’altro e non lui. Ma quello che segue lo dice invece come se fosse lui stesso Crise, e cerca quanto più può di far sì che a noi sembri, colui che parla, non Omero ma il vecchio sacerdote medesimo» (Repubblica, 392e – 393b). Si può capire già fin d’ora cosa disturba Platone nella mimesi: farci credere ad un’apparenza, ad una copia come se fosse vera. Non si tratta, di conseguenza, di bandire l’imitazione come tale, ma di assicurarsi che essa sia preceduta da una marca che ne permetta ogni volta l’identificazione. Il racconto diegetico è preferito, non tanto perché non sia un’imitazione, quanto perché è marcato sempre come tale; ora, la marca è il poeta stesso. La costante presenza della voce narrante, il suo non assentarsi, assicura contro la volontà d’inganno. Chiede Socrate: «E l’assimilare se stesso ad un altro, o nella voce o nell’aspetto, non è imitare colui a cui uno si assimili?», e si risponde: «Ora, se il poeta non nascondesse mai se stesso, tutta la sua poesia e narrazione avverrebbe senza mimesi» (Repubblica, 393c-d). Si ha mimesi, allora, quando il poeta – potremmo dire il soggetto – si spaccia per un altro, quando, imitandolo, fa di se stesso un altro, quando, in una parola, si nasconde, si dissimula, cioè nasconde e copre la sua simulazione. Non è questo esattamente un simulacro?8 Non è questa la cattiva imitazione? Tutto ciò sembra ricordare la gara fra i pittori: quello che crede di aver vinto, perché dipingendo dell’uva ha ingannato gli uccelli che vengono a beccarla, si dichiara sconfitto dall’altro che ha dipinto soltanto una tela, ma così verosimile da costringerlo a chiedergli di scostarla per fargli vedere il quadro. Perché Parrasio vince? Perché egli non si è limitato a produrre una copia del vero, identificabile come tale (e se inganna, inganna esseri non dotati di ragione), ma ha imitato l’apparire stesso: non l’oggetto, ma lo sfondo a 7 8

Cfr. E. Havelock Preface to Plato, cit., pp. 23 sg. Si veda ancora Havelock (cit., pp. 119 sg.) sull’identificazione fra mimesi e poesia.

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partire dal quale esso prende figura. La sua imitazione è di secondo grado: Parrasio ha dipinto un quadro, ma, avendo reso impossibile la sua identificazione in quanto quadro, ha obliterato la marca di riconoscimento (ed inganna, infatti, l’essere razionale). Esattamente allo stesso modo opera il poeta che nasconde se stesso e la sua arte, che rende impossibile, cioè, prendere la sua opera per un prodotto dell’imitazione. Il pericolo che l’imitazione non marcata – e dunque il racconto mimetico – rappresenta per la costituzione politica, riguarda il problema dell’insegnamento: in particolar modo l’educazione dei governanti stessi9. Una volta chiarita la differenza fra i modi del racconto e quella fra i generi poetici che ne discende, la domanda successiva è se sia giusto permettere ai ‘guardiani’ di godere dei racconti mimetici. La risposta è negativa: anche quando la mimesi narra di uomini giusti e non infrange dunque la giustizia, essa resta bandita, perché essendo un’imitazione non marcata inganna comunque. La politeia si regge sulla divisione del lavoro: ognuno è esperto di qualcosa e pone la sua arte al servizio dell’insieme. Al guardiano spetta sorvegliare che, appunto, non vi siano scambi, sostituzioni di persone e di ruoli; soprattutto che nessuno pretenda di prendere il posto di un altro senza possederne il titolo. Se ogni arte è comunque un’imitazione, ciascuno deve attenersi alla propria. Ma se il racconto mimetico presume che uno solo – il poeta – sia in grado di imitare molti, di assimilarli a sé, allora esso insegna non l’arte dell’imitazione corretta, ma quella del far finta di saper imitare molte cose. Ancora una volta una mimesi di secondo grado. Una cosa, infatti, è imitare l’arte di un’altro, un’arte che non si possiede, un’altra dissimulare la facoltà stessa dell’imitazione, facendo credere così di saper fare qualunque cosa. Ora, se noi permettessimo che i guardiani dello stato fossero educati al loro compito attraverso la mimesi, essi non saprebbero più distinguere colui che esegue bene la sua arte da quello che si limita a far finta. Il che significherebbe la rovina dello stato. Si deve, dunque, non raccontare mai nulla a quei fanciulli che un giorno saranno i guardiani dello stato? Ovviamente no. Si deve raccontare in stile diegetico di argomenti giusti: «Se dunque manterremo intatto il nostro primo ragionamento (logon), che i nostri guardiani, 9 Sul pensiero platonico in quanto essenzialmente motivato dal problema della paideia si veda, oltre al classico W. Jaeger, Paideia. Die Formung des griechischen Menschen, tr. it., Firenze 1970, anche E. Havelock Preface to Plato, cit., pp. 11 sg.

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abbandonato ogni altro mestiere, debbano essere valenti artefici della libertà cittadina, e di null’altro aver cura che a ciò non conduca, essi non avranno bisogno di fare o imitare altra alcuna cosa. Che se poi dovessero far della mimesi, la facciano, sin da fanciulli di ciò che ad essi si conviene, di uomini cioè coraggiosi, saggi, pii, liberi e simili, e le cose vili né facciano né siano abili ad imitare, e così nessuna altra cosa indegna, affinché dalla mimesi non ne traggano il vero esser tali. Non hai notato, infatti, che le mimesi, se cominciando da giovane età si spingono troppo oltre, si mutano in abitudini e in disposizioni naturali, nel corpo, nella voce e nella mente ?» (Repubblica, 395b-d). Si sarà notato che nel procedere del dialogo, Platone ha già stemperato la rigidità della tripartizione di partenza. Nell’impossibilità di impedire che i fanciulli ascoltino racconti mimetici, Platone reintroduce la discriminante del soggetto. I fanciulli, specialmente quelli destinati al governo dello stato, debbono ascoltare quei racconti, che, pur infrangendo il principio diegetico, narrano tuttavia di uomini coraggiosi, pii, saggi e liberi. Vale a dire che i fanciulli possono acquisire l’arte dell’imitazione solo nel caso in cui l’oggetto da imitare sia degno, corrisponda alla loro funzione futura: in una parola sia giusto. Se ne deduce, allora, che solo a questa condizione Platone accetta la mescolanza della mimesi con la diegesi ed ammette, dunque, nello stato, la presenza del racconto misto. Questo passaggio dall’argomento al modo d’espressione – dal logos alla lexis –, e poi di nuovo dal modo d’espressione all’argomento, gli ha permesso comunque di delimitare il campo dell’imitazione in generale, di gerarchizzarlo e di espellere in via definitiva dallo stato il genere corrispondente al racconto totalmente mimetico, cioè il dramma – tragedia o commedia che sia. C’è, dunque, un caso in cui un uomo giusto non si vergognerà di farsi credere un altro, di nascondere la propria voce: «Se dunque, diss’io, intendo quel che tu dici, c’è un tipo (eidos) di espressione (lexeôs) e narrazione (diegêseôs) di cui si servirebbe il vero valent’uomo quando dovesse dire qualcosa, e per contro un altro difforme da questo a cui sempre si atterrebbe colui che avesse natura ed educazione opposta a quel primo. – E quali sarebbero questi? – Per quel che a me pare, diss’io, un uomo a modo quando pervenga nella narrazione a un detto (lexin) o fatto (praxin) di un valent’uomo, vorrà riferirlo come se egli stesso fosse colui, e non si vergognerà di tale mimesi, soprattutto quando imiti l’uomo buono che si trova sicuro e padrone di sé, meno e più debolmente quando sia caduto in basso per malattie o passioni o per ubriachezza o altra disgrazia. Ma quando s’imbatte in qualcuno inde-

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gno di sé, non vorrà sul serio assimilare se stesso a chi è peggiore di lui, se non fuggevolmente, quando colui faccia qualcosa di buono; ma piuttosto se ne vergognerà, sia per essere egli senza esercizio dell’imitare (mimeisthai) questi cotali, sia per l’avere a sdegno di rimpastare ed immettere se stesso nelle forme (ma più propriamente marchio, impronta, conio – tupous) dei peggiori, spregiandole nel suo giudizio ove non sia per semplice gioco» (Repubblica, 396c-e). Di conseguenza, il buon narratore – che insieme è anche buon reggitore dello stato, dunque legislatore legittimato – sarà quello che intercalerà brevi tratti di mimesi all’interno del racconto diegetico. Colui, si potrebbe dire, che saprà fare la buona mescolanza: «Perciò non farà egli uso di una narrazione (diegêsei) quale noi abbiamo vista poco fa circa i versi di Omero, e il suo dire (lexis) non parteciperà (metechousa) forse di entrambi gli elementi, la mimesi e la restante narrazione (diegêseôs) ma con una piccola parte di mimesi entro un lungo discorso (logô)? Dico bene?» (Repubblica, 396e). Con un procedimento che ritroveremo in tutt’altro contesto – certo più generale e decisivo –, Platone parte da una affermazione che sembra non ammettere repliche – la superiorità del racconto diegetico e l’esclusione della mimesi – per poi negarla in un secondo tempo e giungere così ad una posizione mediana – diegesi con mimesi a piccole dosi. Più che a mantenere fermi i poli dell’opposizione, Platone è interessato a costruire il logos giusto del misto; e poiché il misto, nell’arte dei racconti, è l’inevitabile confondersi di diegesi e mimesi, tutto l’itinerario concettuale di Platone ha mirato da sempre, non all’esclusione in generale dell’imitazione, ma, come già detto, all’introduzione di una gerarchia, all’istituzione di confini che segnassero il giusto uso della mimesi, espellendo dalla buona Repubblica soltanto un suo dispiegamento assoluto e senza regole. Una mimesi sotto il controllo della diegesi, una giusta gradazione nella mescolanza: ecco la risposta platonica al problema del racconto. Sarebbe facile notare, a questo punto, che Platone, dal suo canto, ha scelto, come genere letterario cui affidare il contenuto della sua dottrina, il dialogo, cioè un esempio di racconto drammatico10 – nulla vieterebbe, infatti, la rappresentazione dei dialoghi platonici, dal momento che essi presentano al loro interno un dispositivo scenico. E ciò in contraddizione con quanto Platone ha sostenuto riguardo alla superiorità del raccon10 Che resta tale – come vedremo – anche là dove il dialogo sia presentato come l’oggetto di una narrazione svolta da uno dei personaggi del prologo (ma il prologo stesso è drammatico), cioè quando sia incastonato in un contesto diegetico.

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to diegetico stemperata soltanto dal racconto misto, vale a dire l’epica (notiamo di sfuggita che Omero interviene nel testo di Platone non come racconto canonico, ma ‘citazionalmente’, se così si può dire, fra virgolette, a testimoniare la già avvenuta interruzione della trasmissione dei racconti, su cui d’altronde il sofista fondava il proprio insegnamento). Ma il testo di Platone ha al suo interno la risposta: la possibilità dell’infrazione, della trasgressione della regola è data dal fatto che, nel caso di Platone, decide la superiorità del modello. Poiché Platone narra di un uomo assolutamente giusto, Socrate, egli è autorizzato, in questo caso, a nascondere la propria voce ed a fare finta che sia Socrate a parlare. Platone, cioè, ha ripristinato la trasmissione del racconto e, dunque, la fonte della legittimazione; se l’eroe eponimo, ma anche il primo narratore del racconto, è Socrate, e Platone il suo destinatario, allora egli è legittimato a narrare ed a narrare in forma mimetica. Platone in quanto destinatario del racconto finisce per coincidere con il destinatore e con l’eroe eponimo. Ma, d’altro canto, qual è stato il prezzo da pagare per legittimarsi come narratore legittimo in un’epoca in cui le narrazioni canoniche tradizionali compaiono come citazioni e come materiale dell’eristica? Rinunciare al primato diegetico, accettare la mimesi, divenire un esperto dell’imitazione: in breve imitare il sofista. Per questo l’elemento centrale di tutta la riflessione platonica è costituito dalla lotta incessante col sofista; per rilegittimare i racconti, per istituire il filosofo come unico legislatore autorizzato, Platone è costretto ogni volta a scendere sul terreno dell’avversario, a rischiare la confusione, a mettere in crisi la tradizione del racconto (logos) filosofico usando le argomentazioni del sofista. Perché la dialettica ideale possa alla fine distinguersi dall’eristica, è necessario attraversare il campo delle tesi sofistiche fino al limite dell’indiscernibilità, far proprie le argomentazioni dell’avversario, ritorcerle contro il logos regio e paterno, e solo allora diverrà possibile rimarcare la differenza. Si potrebbe dire che un testo filosofico – ma ciò vale per il testo in generale – si articoli sempre secondo il dispositivo di una doppia scena: mentre nell’una il filosofo è impegnato nella delegittimazione del sofista, cioè del non filosofico in generale che mira a prendere il posto della filosofia, e, di conseguenza, a legittimare se stesso e la filosofia come le fonti legittime della legittimazione, autorizzati, dunque, a distinguere fra i discorsi veri e quelli falsi, tra le regole giuste e quelle ingiuste, nell’altra egli delegittima la filosofia stessa, strappa il tessuto della falsa continuità del logos filosofico, mette in questione la propria legittimazione, s’interroga sull’origine dell’autorità regia e paterna, pone la verità in

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bilico. Se la prima scena è rappresentativa, cioè dice la verità, la mette in frasi, la seconda è messa in scena della fine della rappresentazione: la verità, infatti, è ora al di là delle frasi, estranea certamente all’eristica, ma insieme laterale alla dialettica stessa, dislocata rispetto al racconto (logos) vero; differenza pura che, cancellandosi, apre lo scontro – tanto più aspro a causa della somiglianza – fra il filosofo ed il sofista11. Vedremo adesso come il dispositivo della doppia scena sia all’opera nella scena del Sofista, di quel dialogo, cioè, che rappresenta la punta dell’iceberg nella lotta che Platone conduce per debellare il sofista. E la definiamo scena anche per un’altra ragione: il Sofista si presenta immediatamente con una certa aria familiare, cioè come una scena di famiglia. All’interno della scena del Sofista si mette in scena una scena primaria: un certo rapporto fra padre e figlio, la ripetizione di un certo dramma edipico. Desiderio della morte paterna ed inaugurazione del lutto interminabile. La scena del Sofista si mostra subito presa in un movimento di incorniciatura; è dall’interno stesso del testo, infatti, che emerge la legge della mise en abîme. Immaginato come la prosecuzione, secondo le unità di tempo e luogo, del Teeteto, il Sofista sembra soggiacere alle regole di trasmissione che il prologo del dialogo sulla scienza enuncia. In un’epoca molto lontana da quella in cui il dialogo fra Socrate e Teeteto s’immagina avvenuto, Euclide incontra Terpsione che porta la notizia d’aver incontrato di ritorno da una battaglia Teeteto ferito12. Dall’incontro scaturisce il desiderio di Terpsione di udire i dialoghi fra Socrate e Teeteto, di cui Euclide è a conoscenza attraverso il racconto che gliene ha fatto Socrate. Euclide è, dunque, già un testimone di secondo grado, testimone indiretto perché non ha assistito al dialogo, ma riporta il racconto di uno dei testimoni auricolari. Tuttavia nemmeno questo è sufficiente: egli non è in grado di recitarlo a memoria (apo stomatos); ha bisogno di un supplemento scritto. Infatti già allora Euclide decise di trascrivere (egrapsamên) i suoi ricordi e tornava da Socrate ogni volta che la memoria gli veniva meno. Infine il dialogo è interamente trascritto: è divenuto un libro (biblion) che stranamente

11 Sul dispositivo della ‘double séance’ e sulla necessità per la strategia decostruttiva di passare per una fase di inversione violenta delle. gerarchie della tradizione, si veda J. Derrida, Positions, Paris 1972, pp. 56 sg. 12 Sul problema della datazione e sul rapporto scrittura-dialogo vivo si veda F. Adorno, Introduzione a Platone, Bari 1978, pp. 9-26.

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Euclide ha con sé13. Perciò alla richiesta di Terpsione di leggerglielo, Euclide non ha che da prenderlo; tuttavia non sarà lui a leggerlo, ma il ragazzo che l’accompagna; e con un ultimo avvertimento: questo: «Il libro, Terpsione, eccolo qui. Se non che il dialogo io lo scrissi in questo modo: e cioè non come se Socrate me lo raccontasse (diêgoumenon) come me lo raccontò (diêgeito) bensì come se direttamente parlasse (dialegomenon) con quelli con cui disse d’aver parlato (dialechthênai). E disse d’aver parlato con il geometra Teodoro e con Teeteto. Ora dunque perché nello scritto non dessero fastidio quelle indicazioni tra un discorso e l’altro, sia quando Socrate diceva di sé, per esempio, ‘E parlai io’, oppure ‘E io dissi’; sia quando diceva della persona interrogata, per esempio, ‘Conveniva’, oppure ‘Non era d’accordo’; perciò scrissi il dialogo come se Socrate dialogasse egli stesso con loro, e tolsi via tutte queste indicazioni» (Teeteto, 143c)14. Nulla di più esplicito riguardo al passaggio dal diegetico al mimetico, dal narrato al letto, dalla voce allo scritto, ma è facile vedere come il prologo del Teeteto differisca totalmente da un arteficio retorico o da una giustificazione anticipata. Esso denota, al contrario, l’estrema consapevolezza di Platone rispetto al problema della trasmissione, che, in questo caso, si riferisce agli stessi racconti socratici. Il prologo, come è ovvio, ha dato il via ad una discussione sulla datazione del dialogo: a quale battaglia ci si riferisce? Il dialogo è scritto all’epoca della battaglia o dopo? O il dialogo è stato scritto prima e il prologo aggiunto solo in seguito? Tutte questioni rilevanti; ma ciò che noi vorremmo sottolineare è che, a prescindere da una risoluzione del problema cronologico, comunque il prologo attesta la difficoltà di elaborare una strategia per superare la distanza temporale che, fosse di decenni o di un attimo solo, si apre fra il dialogo diretto e la sua ripetizione. In un’epoca in cui nessun racconto canonico autorizza più i narratori – lo abbiamo visto a proposito dei racconti omerici – anche la parola socratica entra in un discorso come citazione, fra virgolette15. Si tratta allora per Platone di accedere al fatto che la trasmissione si affida necessariamente alla traccia scritta ed insieme di evitare la disper13 Sulla diffusione del libro e della scrittura all’epoca di Platone si vedano E.G. Turner, I libri nell’Atene del V e VI secolo ac., in G. Cavallo (a cura di), Libri, editori e pubblico nel mondo antico, Bari 1975, e D. Lanza, Lingua e discorso nell’Atene delle professioni, Napoli 1979, pp. 52 sg. 14 Usiamo la traduzione di Manara Valgimigli, in Platone Opere, vol. 11, cit. 15 Sul carattere ‘citazionale’ e ‘virgolettato’ del segno scritto cfr. J. Derrida, Signature événement contexte, in Marges de la Philosophie, cit., p. 377, tr. it. cit., p. 406.

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sione che la caratterizza. Platone deve ricostruire, certo a fatica, una trama di narratori e destinatari autorizzati, in modo tale che egli, come firmatario del testo che si legittima a trasmettere all’avvenire la parola socratica, possa ritenersi un narratore a sua volta autorizzato. Senza contare l’eventualità che, essendo Teeteto e Sofista dialoghi tardi, Platone stesso si trovi nella situazione di non saper più distinguere con precisione quanto è di Socrate e quanto invece gli appartiene in proprio, e si trovi costretto, di conseguenza, a tematizzare, nella continuità della trasmissione, l’irruzione della discontinuità, di cui è egli stesso il responsabile. La scena del Sofista complica, da questo punto di vista, la questione della trasmissione. Parallela alla difficoltà di ripetere il discorso socratico nella sua autenticità scorre quella di farsi portavoce del logos parmenideo, che in un primo tempo era sembrato decisivo per discriminare fra il filosofico in quanto tale e il non filosofico, cioè la sofistica. Da questa prospettiva il rimando a Parmenide era servito a distinguere il metodo confutatorio di Socrate da quello dei sofisti. Ora, invece, la situazione si è come rovesciata: proprio il discorso parmenideo legittima il sofista, certo al prezzo di una trascrizione nichilista del suo assunto. Ma il fatto che sia comunque possibile una simile mis-interpretazione dimostra che anche il logos parmenideo entra, non per avventura esterna, ma per la necessità interna allo statuto della traccia in generale, nella pratica della citazione. Se il sofista può citare Parmenide all’interno di un’argomentazione che ha come proprio risultato la dimostrazione della non esistenza dell’ente in generale e, di conseguenza, della sua non conoscibilità e comunicabilità, allora anche Platone, se vuole falsificare a sua volta il ragionamento dell’avversario, è costretto a ‘citare’ Parmenide, accettando allo stesso tempo la conseguenza che la pratica della citazione comporta: citare costituisce il gesto preliminare di ogni falsificazione. Ma a differenza del sofista per il quale la falsificazione avveniva indirettamente, per Platone si tratta di assumersene la paternità, cioè di prendere su di sé la responsabilità morale – e filosofica – di un parricidio. Si può essere padri dell’assassinio del proprio padre? Ci si può, in altri termini, legittimare all’eliminazione della fonte di ogni legittimazione? Come si può essere narratori autorizzati del vero e del giusto, quando l’origine della legittimità è morta, ed è morta ad opera dell’ingiustizia dell’erede? Non ha tradito quest’ultimo il legato testamentario che lo sottometteva al padre, che lo inseriva legittimamente in una tradizione, e che infine lo legittimava come prosecutore del discorso paterno?

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V. LA PROSOPOPEA DELLA LEGGE

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Ma non è questa la scena familiare del Sofista, la messa in scena di una scena primaria? Non è su questa scena che si colloca l’emergenza del lutto interminabile, cioè, per dir meglio, di quella inevitabile contaminazione malinconica del lutto? Giacché in gioco non è semplicemente ciò che appare ovvio allo storicismo e all’ermeneutica, vale a dire che la trasmissione sia sempre trasmissione di ciò che è morto, di ciò che, in quanto finito, appartiene al tempo, bensì che il morto sopravviva e che la sopravvivenza obblighi l’erede alla ripetizione della morte. Una morte solamente naturale non ha corso nell’universo della specie umana, è una moneta senza valore negli scambi inter-soggettivi; la morte acquista valore e senso soltanto quando essa sia fatta propria dai soggetti, quando, cioè, la morte altrui sia riconosciuta non come quel destino che riguarda me così come ogni essere finito, bensì come quella morte di cui io sono responsabile. Solo allora la morte dell’altro diviene la mia morte, ma qui l’aggettivo possessivo non indica ciò che mi appartiene, bensì ciò che mi spossessa; se uccidere è una possibilità della specie umana, e la specie umana è l’alterità in quanto tale cui tutti apparteniamo, allora dare la morte a ciò che, morto, sopravvive, attesta l’appartenenza al mondo umano ed il salto non a sua volta ‘naturale’, ma in verità neppure solamente logico, compiuto una volta per tutte rispetto al semplicemente naturale. Aver ridotto la trasmissione culturale al modello della catena generazionale è il peccato d’origine dello storicismo e dell’ermeneutica. Ciò che fa scacco, infatti, nella questione della trasmissione e della responsabilità che ne consegue, è che i padri sopravvivano ai figli e non i figli ai padri, come è ovvio nella generazione naturale che segue il ritmo delle età. Inconcepibile, infatti, fin quando si resti legati ad una tale prospettiva, è che il troppo vecchio viva e il giovane muoia in anticipo, ci sembra, sulla sua destinazione biologica. Al problema della trasmissione si accompagna sempre un’economia del vivente, ma tale da non presumere di poter ordinare la vita e la morte secondo le scansioni di una successione regolare che veda ciò che ha vissuto abbastanza cedere il passo a chi è solo all’inizio. Un’economia generale del vivente-uomo deve contemplare la possibilità della sopravvivenza fantasmatica del morto, del suo ritorno incessante, che oltrepassa sempre qualunque forma, canone o genere di discorso con cui il figlio abbia tentato di capitalizzare sulla morte del padre. Tentativo che era, dal suo canto, iscritto nel lascito testamentario. Ma non era questa la détresse del ‘si deve’ (dell’ il faut)? La sua veste tragica ed ironica? Il double bind della legge?

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Se sempre un figlio investe sulla morte del padre, e tenta – giusto secondo la parabola evangelica – di trarre plus-valore dall’eredità, allo stesso tempo la morte sopravvive a se stessa. Sempre la morte implica un di più di morte, un eccesso di morte che fa vacillare la costruzione con cui il figlio aveva creduto di aver ottemperato all’ordine paterno. ‘Tu devi, dunque non puoi’ – era la frase della legge: “Tu devi proseguire la mia opera, difenderla dai detrattori, salvare l’onore del mio nome; ma, insieme, sempre io verrò dalla tomba a ricordarti che tu sei cenere, a dissolvere la tua opera, a richiamarti all’impossibilità di parlare in mio nome. Tu costruirai una torre per farti un nome e per onorare il mio, ma sempre io la farò crollare, obbligandoti ad un dé-tour, a girare intorno alle sue rovine, a scegliere tra le vie che hai di fronte quella più lunga e che forse non conduce da nessuna parte. Allora tu devi – sono io a dirtelo, la legge –, devi, se ancora vuoi rispettare il mio ordine, uccidermi, farmi morire una seconda volta. Con tale gesto tu uscirai di minorità, ma non illuderti: questo gesto ti perseguiterà finché vivi, ed io ritornerò anche dalla seconda morte, sarò sempre un passo avanti a te, sempre un passo al di là. E ciò fin quando io non decida di ritirarmi nell’inaccessibile e nel non raccontabile e ti lasci finalmente libero: di vivere e di morire. Attendi dunque. Attendi il giorno in cui io giungerò alla mia destinazione”. Se tale è la ‘prosopopea’ della legge16, di quel ‘si deve’ anteriore ad ogni tematizzazione consapevole della legge morale in generale, essa riguarderà anche la struttura della trasmissione e la questione dell’insegnamento. Il sofista, come sappiamo, pretende di essere legittimato come insegnante: egli trasmette la tecnica dei discorsi, vale a dire l’arte della persuasione; è l’esperto nella tecnica della citazione dei racconti canonici e trova normale che questo suo insegnamento venga retribuito. La critica rivoltagli da Platone in tutta la prima parte del Sofista non fa che riprendere temi già noti. Semmai ciò che cambia è una certa consapevolezza della difficoltà sempre più crescente di riuscire a trovare un 16 La figura retorica della prosopopea applicata alla legge è, come è noto, usata da Platone stesso nel Critone (50-54). Qui il double bind della legge consiste nel fatto che il debito che si ha nei suoi confronti – debito della vita umana e civile che solo essa rende possibile – si paga con la morte. O per dir meglio: ‘Giacché tu vivi in mio nome, accetterai il mio ordine anche quando esso sia la tua morte’. Sulla possibilità (e, insieme, la necessità), ma anche sui problemi che pone, di una traduzione della tradizione greca in quella ebraico-cristiana e viceversa, programma tematizzato da Emmanuel Lévinas, si veda J. Derrida,Violence et rnétaphzsique, essai sur la pensée d’Emmanuel Lévinas, in L’écriture et la différence, Paris 1967.

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discrimine sicuro tra il filosofo ed il sofista. Non basta, infatti, sottoporre quest’ultimo al metodo della divisione: che si distingua fra un insegnamento come purificazione dell’anima da un insegnamento come vendita dei discorsi, non toglie che l’arte dell’insegnare avvenga comunque attraverso il metodo della confutazione e del contraddittorio. Ora, noi sappiamo che la definizione più certa del sofista, su cui si è attestato Platone, è quella di un esperto delle imitazioni. Ma non tanto dell’imitazione come rappresentazione di qualcosa, dunque nel senso della copia, quanto come arte dell’imitare il saper imitare. Le pagine della Repubblica analizzate in precedenza ci avevano portato ad individuare nel sofista una mimesi di secondo grado: non imitazione di una cosa, ma imitazione di ciò a partire da cui le cose si danno a vedere e sono passibili di imitazione. In una parola, un’arte del produrre apparenze, simulacri e fantasmi: l’arte del dissimulare. Si potrebbe dire che il sofista insegni non tanto a mentire, quanto ad imitare la menzogna, a simulare la menzogna stessa; e che è questo insegnamento a risultare il più pericoloso fra tutti per il discorso vero: una menzogna che dissimuli il suo essere può facilmente prendere il posto della verità ben più di una ‘vera’ menzogna che come tale è sempre identificabile. E quanto prima avevamo tematizzato come il problema dell’assenza della marca di riconoscimento. Il dialogo sul sofista perviene esattamente a questo stesso punto; è qui, infatti, che lo straniero di Elea, colui cioè che conduce il contraddittorio, tenta, al fine di afferrare nella rete il sofista, l’ultima divisione. Se la sua arte è quella del produrre immagini (eidôlopoiein) a quale dei due lati apparterrà? A quello della copia (eikasma) o a quello del simulacro (fantasma)? E una volta risposto che, senza ombra di dubbio, appartiene al lato del simulacro e che, dunque, la sua arte consiste nel produrre apparenza e può essere correttamente chiamata arte dell’apparenza (technê fantastiké), avremo per ciò risolto il nostro problema? O il sofista ci sfuggirà nuovamente? Giacché proprio l’apparenza potrebbe rivelarsi il suo rifugio più sicuro; in altri termini, il luogo in cui da bravi cacciatori l’abbiamo costretto senza più vie di fuga, potrebbe trasformarsi in una tana inaccessibile. E, infatti, concessa, permessa e prescritta al filosofo la possibilità di dire qualcosa sull’apparenza? O ciò non contraddice il discorso vero, il logos paterno dal quale traiamo la legittimità di dirci filosofi, di braccare il sofista e di relegarlo nel non filosofico? Qui, ci sembra, la scena del Sofista inizia a rovesciarsi come un guanto, si traduce, chiasticamente, nell’altra scena; dice lo straniero:

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«Mio caro, ci troviamo veramente nel corso di una ricerca piena di difficoltà. Il fatto che una cosa appaia (fainesthai) e sembri (dokein), ma non sia (einai), che si dica qualcosa che non sia vera (alethê), tutto questo comporta difficoltà (aporias) innumerevoli, e ciò sempre nel passato e ciò ancora oggi. Come debba uno che parla affermare e pensare (dochazein) che il falso (pseudê) veramente sia, senza cadere in una contraddizione (enantiologia), questo, Teeteto, è assolutamente difficile da indicare» (Sofista, 236e)17. Se il sofista appartiene al lato dell’apparenza, noi per definirlo dovremmo formulare una proposizione – una frase – che dica: il sofista è esperto di ciò che non è, vale a dire non di ciò che si limita a copiare l’essere, bensì di ciò che simula come essente il non essente. Una tale frase vuole essere puramente constativa; ma è prescrivibile secondo il genere di discorso prescritto come constativo, cioè veritiero? Se il discorso prescritto come vero è quello di Parmenide, è evidente che la frase, indipendentemente dal suo essere vera o falsa, è impossibile, dal momento che infrange il dispositivo su cui si costruisce il logos parmenideo e che vieta la formulabilità di frasi che affermino l’essere del non essere. Allora, se Platone vuole delegittimare il sofista, verrà a trovarsi a sua volta delegittimato, in quanto il regime delle frasi prescrivibili da cui traeva la propria legittimazione è automaticamente messo in crisi. Platone è di fronte ad un bivio: o rinuncia al tentativo di delegittimare il sofista, ma in questo caso tutta la serie delle distinzioni fra sofista e filosofo, narratore non autorizzato e narratore autorizzato, esperto dei simulacri ed esperto del discorso vero, cattivo e buon insegnante, verrà a cadere ed egli avrà comunque disatteso il discorso regio e paterno, abbandonandolo anzi all’uso indiscriminato dell’avversario; oppure decide di forzare il discorso regio e paterno mutando le regole di prescrivibilità delle frasi, ma in tal caso sarà costretto ad assumere su di sé il peso di un gesto col quale egli delegittima la fonte dell’autorità e si propone come nuova fonte di legittimazione: abbatterà un legislatore per divenire legislatore a sua volta. Non è in questo dilemma che s’incunea la questione della responsabilità? O, perlomeno, una sua prima forma? Ed è qui che un certo andamento drammatico del dialogo si rivela essere, non un artificio 17 Citiamo la traduzione di Attilio Zadro, Platone Opere, vol. II, cit. Sul problema dell’immagine in Platone si veda J.P. Vernant, Image et Apparence dans la théorie platonicienne de la ‘Mimesis’, tr. it. di A. Montagna (col titolo Nascita di immagini), in J.P. Vernant, Nascita di immagini, Milano 1982.

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retorico, bensì una necessità di carattere etico: si deve delegittimare il sofista? Si deve, per delegittimario, attaccare il discorso paterno? Lo straniero esita, vorrebbe rimandare il momento della confutazione. Più le difficoltà aumentano, più prende tempo, fino al punto di tentare di delegare a qualcun’altro questo compito così pesante. Ma questo tempo sospeso del dialogo, in cui ci si avvicina al gesto del parricidio, si è aperto allorquando lo straniero ha compiuto l’atto preliminare della confutazione: quando, cioè, ha citato il padre. E citare il padre non è averlo già fatto morire? «Perché quel discorso (logos) osa fondarsi sull’ipotesi che è ciò che non è. Non altrimenti che su questa base infatti sarebbe il falso, se fosse. Il grande Parmenide, figlio mio, dal principio alla fine della sua opera questo ha testimoniato per noi che allora eravamo bambini, così dicendo ogni volta in prosa e pure in versi: ‘Mai tu costringerai ad essere ciò che non è, tu invece da questa via, nel tuo cercare, tieni lontano il pensiero’» (Sofista, 237a). Nell’atto della citazione il morto è ritornato, ma per essere ucciso. Da questo momento, infatti, è solo una questione di tempo. E viene il tempo di decidere. Lo straniero, tuttavia, esita ancora; chiede a Teeteto di essere indulgente, di non credere che egli divenga quasi un parricida. La sua voce si fa sprovveduta: «Dicevo poc’anzi a un dipresso come nei riguardi della confutazione che si riferisca a frasi del tipo di quelle enunciate, sempre io mi sia trovato senza forze e così anche ora» (Sofista, 242a). Non era questo il tono della voce filosofica? Lo straniero ha paura: «Ho dunque paura delle cose appena dette, ho paura di apparirti un insensato, un pazzo che, da un momento all’altro, fa una giravolta completa» (Sofista, 242b). Teeteto lo rassicura: non penserà mai che egli possa fare qualcosa di illecito; tuttavia per lo straniero il discorso resta temerario. Ma alla fine la confutazione ha luogo. Non è nostra intenzione ricostruire in questa sede il processo della confutazione e la soluzione che Platone adotta – la traduzione della contraddizione nella diversità come genere18. Apporre il segno della negazione nella proposizione dinnanzi ad un soggetto e, di conseguenza, dinnanzi alla copula, non significa affermare l’essere del non essere, ma semplicemente constatare l’esistenza di un genere di cose che non 18 Su questo punto si veda F. Adorno, Introduzione a Platone, cit., pp. 167 sg. Sulla diaresi e sul passaggio dal non essere al diverso cfr. A. Levi, Il problema dell’errore nella metafisica e nella gnoseologia di Platone, Padova 1970, pp. 86-103. Sul rapporto fra Platone e le tecniche e il ruolo del sofista si veda G. Cambiano, Platone e le tecniche, Torino 1971.

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partecipano di una data qualità. Le cose non belle non contraddicono quelle belle, ma denotano una differenza qualitativa del genere bello. Così la frase constativa, ‘Teeteto vola’, è falsa, dal momento che Teeteto non partecipa del genere volare; vera, invece, sarà la frase ‘Teeteto siede’. Sembra allora che per Platone le idee non siano l’essere, ma le forme o i generi dell’essere e che l”è’ dell’essere sia ciò che le relaziona. Discorso vero, dunque, non è quello che si limita a dire l’essere, bensì quello che dis-corre secondo le regole di inferenza fra i generi e dice in tal modo la complessità del reale che da parte sua non è altro che questa stessa mescolanza di generi diversi. Certo il discorso continuerà a dividere dicotomicamente ciò che si presenta mescolato, ma secondo quella direzione di ricerca che ha come fine la riconduzione della mescolanza empirica alla relazionalità razionale dei generi. Tale discorrere secondo le regole della nuova prescrizione è la dialettica. E il discorso falso, di conseguenza, è individuabile per il cattivo uso di quest’ultima, perché attribuisce ad un soggetto un genere sbagliato, perché, infine, collega male. Allora il falso non è il falso in assoluto, bensì solo quello relativo ad un genere: si potrebbe dire che la falsificazione di Parmenide abbia inaugurato il principio di falsificazione. Se noi ci siamo, al contrario, arrestati sull”altra’ scena del Sofista, era perché volevamo mostrare come il testo stesso, indipendentemente dai contesti in cui è possibile collocare il pensiero di Platone e con cui si ritiene di ‘spiegare’ il testo scritto, metteva in scena la questione della responsabilità in connessione con quella della trasmissione del ‘sapere’ filosofico e, di conseguenza, con la possibilità in generale della sua sopravvivenza. E come tutte queste domande non potessero non prendere la forma di un’economia: a partire da quella esplicita di un’economia politica (questione del buon reggitore dello stato), passando per quella di un’economia domestica per giungere infine a quella di un’economia generale del ‘la vita, la morte’. Difficile negare, almeno di saltare il testo verso un fuori-testo comunque declinato: storia dello spirito, storia delle idee, storia della cultura, storia politica, biografismo, che il Sofista sia attraversato interamente da, e insieme costruito su, una metaforica del rapporto padre-figlio; e secondo tutte le sue varianti: padri permissivi e padri che riprendono i figli quando sbagliano; figli ossequienti e figli degeneri; rispetto filiale e necessaria rivolta; ricordo elegiaco di quando si era bambini e si ascoltavano gli insegnamenti paterni ed obbligo della maturità di distaccarsi, anche al prezzo di un delitto, dal volere del padre. Tutta, dunque, una messa in scena dei rapporti familiari che si vorrebbe puramente generazionale, ma che mostra

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immediatamente la difficoltà di appiattire la trasmissione culturale, cioè la trasmissione della verità della specie umana, sull’impronta della riproduzione biologica19. Lo scacco, si potrebbe dire, cui va incontro la tematizzazione della trasmissione consiste nel fatto che esiste sempre un punto del processo in cui l’arte filosofica del dividere in vista del connettere, la via regia della dialettica, si trova costretta a ritorcersi sulla fonte stessa della sua legittimazione: seguendo la metafora familiare la diairesi dovrà attraversare, spaccandolo, il corpo del padre, che è insieme quello del re. Più propriamente tagliargli la testa: parricidio e regicidio mirano in fondo ad una decapitazione, a mostrare il padre-re-logos acefalo e, di conseguenza, privo della legittimità perché privo dell’istanza della ragione. O, secondo un’altra metafora, a mostrarlo nudo, privo della sua velatura, estromesso dal suo segreto: un padre che, più che inseminare il figlio, dissemina il suo seme, va alla deriva. Ma, d’altro canto, proprio questa deriva paterna obbliga il figlio al rispetto del double bind della legge, a rispondere all’appello dell’unico imperativo, del (non) originario ‘si deve’: ‘devi, dunque non puoi’. Da qui l’investimento inevitabile sulla morte, lo spodestamento del padre (e del re) per divenire a propria volta padre (e legislatore); ma, insieme, il trovarsi preso nella deriva paterna (e regia) per cui si è acefali quanto il padre, illegittimi quanto il legislatore, narratori mancati quanto il primo narratore ed eroe eponimo del racconto della verità, cattivi insegnanti quanto il sofista che si voleva estromettere dallo stato retto dai filosofi. Ora, la voce filosofica noi l’abbiamo individuata per un certo scoramento di fronte al compito, per una certa sprovvedutezza di fronte al disparire del sapere, non solo del sapere come saper-fare, ma anche e soprattutto, di quel sapere vero e legittimato in quanto tale, che è appunto il sapere del discorso paterno. Ed abbiamo anche colto in questo tono quasi balbettante, l’emergenza della responsabilità morale del soggetto filosofico. Ma la sua voce è anche sempre una voce scritta, in bilico fra una voce silenziosa cui cerca di corrispondere ed una voce avvenire che sia in grado di dire la verità. Secondo un’altra direzione di discorso, la voce narrante – presente o assente non importa – si situa sempre fra un nome d’autore ed una controfirma che presuppone, per iscriversi, l’assentarsi della fonte giuridica della legittimità. 19 Sul carattere di ‘scena di famiglia’ o ‘scena edipica’ del Sofista, ma in generale del pensiero platonico, cfr. J. Derrida La pharmacie de Platon, cit., pp. 164 sg. (tr. it., p. 125). Sul ‘parricidio’ platonico, cfr. A. Masullo, Metafisica, Milano 1980, pp. 47 sg.

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Rispetto a Platone noi vorremmo, ora, concludere questo nostro détour, tematizzando due grandi questioni su cui tutt’oggi la critica discute, e che riguardano da vicino ciò che siamo venuti dicendo: l’esistenza di un insegnamento non scritto, di cui dà testimonianza Aristotele20, e il rapporto con Socrate. Vedremo subito come le due questioni siano solidali e connesse dal momento che l’insegnamento non scritto, che verte sulla teoria delle idee-numeri e sul Bene, si lega strettamente all’affermazione platonica in base alla quale tutto ciò che egli ha scritto non è altro che memoria della parola socratica. Indipendentemente dalla dimostrabilità storica e filologica della tesi di un insegnamento non scritto, noi vorremmo mostrare come il corpus testuale platonico presenti sempre un dispositivo in base al quale la voce scritta rimanda ad una voce orale, ad un proferimento sonoro. E ciò non solo facendo riferimento alle lettere, in special modo alla seconda e alla settima (da qui forse la disputa sulla autenticità), ma in generale all’intero corpus scritto: si pensi alla polemica nei confronti della scrittura condotta nel Fedro, al rapporto dialogo diretto e ripetizione scritta del prologo del Teeteto, alla ricerca di colui che può raccontare i dialoghi all’inizio del Parmenide, e al contraddittorio fra Socrate e Parmenide che rimanda alla questione della buona mescolanza fra diegetico e mimetico, cioè all’esigenza di ridurre al minimo il pericolo della mimesi introducendo la funzione narrante, che attesta contemporaneamente la distanza temporale fra dialogo a viva voce e dialogo muto dello scritto. Ossia, si pensi a tutte le volte in cui Platone gioca con la mise en abîme solo per autorizzarsi a narrare, per superare lo scoglio del cominciamento21. Vogliamo dire, in altri termini, che tutte queste funzioni narrative, che potrebbero sembrare esteriori all’esigenza di una riflessione filosofica, le sono in realtà intrinseche, che ad esse si affida il compito centrale della instaurazione del soggetto filosofico come voce scritta. Per costruirsi, il testo – anche quello che si legittima come filosofico – è costretto a rimandare dal proprio interno e per la legge stessa della trasmissione, ad una fonte ‘non scritta’ da cui trae la propria legittimazione, sebbene, per la stessa necessità questa fonte slontani in un passato immemoriale, legittimi senza legittimazione, sia acefala o, come vedremo, bruci lasciando solamente cene20

Fisica, IV (4), 2, 209b, 10-15. Scoglio che la narratologia ha ben messo in evidenza; si vedano, ad esempio, le pagine che Gerard Genette dedica al problema del cominciamento della Recherche proustiana in Discorso del racconto. Saggio di metodo, in Figures III, cit. 21

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re. Dal che si può finalmente vedere come la mise en abîme, in quanto pratica della ‘decostruzione’, sia tutt’altro da un rimando infinito da testo a testo (o lo sia solo in modo derivato), rimando che si situa nell’orizzonte interminabile e, di conseguenza, inafferrabile, dello ‘spirito oggettivo’, là dove sia venuto meno il modello del ‘sapere assoluto’ o il potere di un meta-racconto razionale. Piuttosto la mise en abîme opera attraverso una verticalizzazione vertiginosa del testo, nella direzione della sua ‘origine’, della fonte della sua stessa possibilità; che questa origine si riveli perduta non esime mai un testo dal porre la domanda sulla sua legittimazione ultima. Ma proprio quando l’auto-consapevolezza della non originarietà dell’origine colpisce la voce filosofica – la voce scritta in generale –, allora emerge l’eticità essenziale. Che il testo – il genere di discorso, il regime di frasi, il gioco linguistico – si scopra infondato, non lo salva dalla questione della responsabilità; anzi essa gli viene rilanciata moltiplicata. Proprio perché illegittima, la voce filosofica deve assumere, a prezzo della testa, la responsabilità della verità. Apriamo, dunque, la II Lettera; apriamola in quel punto in cui Platone, rispondendo a Dionisio, che vuole avere chiarimenti sulla natura del ‘primo’, scrive: «Te ne parlerò, dunque, ma per enigmi (di’ainigmôn), affinché se la lettera andrà perduta nei recessi del mare o della terra, chi la legga non capisca. Le cose stanno così. Tutto sta intorno al re del tutto (peri ton pantôn Basilea pant’esti), e tutto è per esso, e tutte le cose belle sono da esso; le cose seconde stanno intorno al secondo; le terze intorno al terzo. Ordunque, l’anima umana desidera conoscere (oregetai mathein) come esse sono e guarda alle cose che le sono affini (suggenê, della stessa stirpe, appartenenti alla stessa genealogia), ma di queste nessuna è bastevole. Per quanto riguarda il re e le cose che ho dette nulla c’è di simile. Allora l’anima si domanda: ‘Di che specie (poion) sono?’. E questa è la domanda, o figlio di Dionisio e di Donde, ch’è causa di tutti i mali; o piuttosto la doglia che si genera nell’animo per rispondervi, e dalla quale essa dev’essere liberata, se vuole giungere alla verità» (II Lettera, 312d-e)22. C’è dunque qualcosa di cui si può parlare, per iscritto, solo per enigmi, qualcosa che quando la si scrive va tenuta sotto velatura, affinché, se per caso non giunga alla sua giusta destinazione, perduta nei 22

Citiamo la traduzione di Antonio Maddalena, Platone Opere, vol. VIII, cit. Sulla questione dell’autenticità/inautenticità delle lettere si veda l’introduzione di Dario Del Corno alla sua traduzione del testo platonico (Milano 1986). Sul tema segretezza/pubblicità cfr. la voce a cura di Mario dal Pra Esoterico/essoterico dell’Enciclopedia Einaudi.

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recessi del mare o della terra, risulti incomprensibile agli occhi di chi ne sia venuto in possesso senza esserne il destinatario autorizzato. Un messaggio affidato ad una bottiglia e per di più cancellato o distorto: solo chi è in possesso del codice segreto potrà decifrarlo. Ma per quale ragione la natura del ‘primo’, e ciò che ne consegue, non si può dire (scrivere) se non per enigmi? Per evitare all’anima (psuchê) il dolore (ôdis, il dolore del parto – e finalmente il femminile fa la sua comparsa nella scena di famiglia!) che si genera non tanto dal domandare, bensì dalla scoperta che fra se stessa e le cose affini al ‘primo’, al re, non c’è nessuna affinità, nessuna comune discendenza; forse perché l’unica genealogia si è spezzata irrimediabilmente un giorno; o, forse, perché una volta svelato l’enigma, il ‘primo’, il re, si scoprirebbero senza testa, acefali, morti da sempre, fantasmi ritornanti. Allora conservare la velatura enigmatica potrebbe essere il gesto della pietà filiale, ma insieme e necessariamente costituirebbe la rimozione su cui il figlio fonda la sua pretesa di legittimazione. È sintomatico: accanto alla lettera corre un ‘fattorino’ in carne ed ossa: Archedemo, portatore delle lettere, ma anche custode di chiarificazioni a voce. Un intermediario certo, ma che assicura maggiore segretezza alle lettere e maggiore autenticità alle parole. Questo commercio di lettere e di carne è, dice Platone, il «più bello e più gradito agli dei, per cui tu mandi Archedemo ed egli viene» (II Lettera, 313e). Non bisogna far cadere questa lettera nelle mani degli uomini ignoranti: essi ritengono simili discorsi ridicoli. Ma per comprenderne la bellezza mirabile ed ispiratrice non c’è altra via che ascoltarli sempre di nuovo, discutere insieme più volte fin quando essi divengano chiari. Per questo la lettera che, imprudentemente, li affida alla scrittura, non deve cadere nelle loro mani, priva come sarebbe della protezione paterna e della rispettosa disposizione filiale; e se mai vi cada, ecco l’ulteriore accorgimento: essa sarà scritta per enigmi. Ma infine meglio sarebbe non scrivere: «Il miglior modo per mantenere un segreto è quello di non scrivere, ma d’imparare a memoria (ekmanthanein, imprimere nell’anima: scrittura buona che si differenzia da quella cattiva, da quella che si può perdere, che può non giungere a destinazione, che può cadere nelle mani di un cattivo destinatario, di un figlio degenere), perché non è possibile evitare la divulgazione di ciò che è scritto (ta grafenta mê ouk ekpesein: ci si soffermi su questo verbo, che significa sì venir pubblicato, esser conosciuto, ma anche in sequenza: cader giù o fuori, cader via di parti del corpo, denti ad esempio, precipitare, essere gettato, spinto, trasportato, essere scacciato, bandito). Per questa ragione io non ho mai

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V. LA PROSOPOPEA DELLA LEGGE

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scritto di queste cose; sicché non esiste e non esisterà mai un trattato (sungramma) di Platone. Quanto ora gli si attribuisce è dovuto a Socrate bello e giovane. Animo, dunque, e dammi ascolto: leggi questa lettera più volte e poi bruciala (katakauson)» (II Lettera, 314b-c). Agli occhi dell’aristocratico Platone23, il carattere pubblico dello scritto, la sua natura castrante ed extra-territoriale, non possono che apparire sospetti; sottratta agli scribi, al corpo dei funzionari statali, come, ad esempio, nel dispotismo orientale, la scrittura cessa di essere uno strumento del potere di uno o di pochi e si coniuga al processo di democratizzazione della società. Da qui si vede come il dispositivo della doppia scena prenda il via proprio dalla irriducibile duplice natura della scrittura, dal suo dissolvere il primato della presenza in nome della dif-ferenza. Se è impossibile attribuirle tout court un carattere rivoluzionario o perlomeno progressista, dal momento che essa si allea col potere in società da poco uscite dalla trasmissione orale, è altrettanto vero che la sua diffusione corrode l’ordine politico gerarchizzato ed accellera i processi di democratizzazione. Rovesciandosi chiasticamente sull’altra scena, la scrittura svela il segreto che sembrava proteggere, sottrae al centro l’istanza di governo e la rende periferica e decentralizzata. Certo è possibile che parallelamente a questo processo, la scrittura si trovi a sostenere la formazione di un ventaglio di micropoteri diffuso ed interiorizzato, ma era appunto questo che volevamo mostrare: se la scrittura elide la presenza a sé di un originario, di un meta-linguaggio, e, dunque, di una qualunque fonte di legittimazione, ciò non avviene in nome di un’altra istanza generale di governo, in nome di un progetto comunque declinato che abbia come suo fine quello della restituzione dell’essenza umana alla sua autenticità. La scrittura rispetta la ‘differenza’ specifica, cioè l’alterità radicale della specie a qualunque ordine linguistico-istituzionale. Se la scrittura è politica, lo è nel senso che essa costituisce il taglio del discorso, la spaccatura che colpisce il logos in generale e lo rende acefalo. Scrivere è, in questo senso, sempre assumersi una responsabilità politica rispetto all’intera tradizione da cui si proviene ed insieme di fronte all’istituzione a partire dalla quale si è, o ci si ritiene, autorizzati a parlare. L’atto di scrittura ha di conseguenza il carattere di un gesto inaugurale e fondativo, per quanto consapevole dell’infondatezza costitutiva che lo 23

Per una ricostruzione socio-politica del pensiero platonico cfr. A. Capizzi, Platone nel suo tempo, Roma 1984.

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governa; ed è per questo che esso è costretto a porre la questione della propria legittimità, a nascondere a se stesso l’abisso su cui si fonda, a rendere riflesso il problema del cominciamento, secondo un movimento ancora una volta doppio: la rimozione dell’assenza di fondamento e il ritorno sintomatico del senza fondo nelle pieghe del discorso. Platone sembra ben consapevole di tale natura della scrittura e ciò dovrebbe spiegare il tentativo di riorientamento generale che egli opera rispetto al problema del rapporto fra l’orale e lo scritto, una volta che il primato della trasmissione orale del sapere ‘enciclopedico’ della comunità affidato ai poeti sia stato corroso dall’avvento della civiltà della scrittura. Ed è forse in questa prospettiva che si chiariscono le oscillazioni platoniche rispetto alla natura dello scritto: dalla critica impietosa della mimesi poetica, dell’imitazione di secondo grado, che non può non investire il primato dell’oralità, al tentativo di ripristinare un’autonomia della phone di fronte all’avvento della trasmissione scritta; certo, ora la voce non sarà più dipendente dalla pratica imitativa, bensì costituirà la sede immateriale in cui si enunciano le idee secondo le regole della dialettica. Ma proprio tale ristrutturazione dei ruoli della voce e della scrittura aprirà nuovi fronti di lotta, sui bordi del discorso comparirà tutta una sintomatologia scriptoria, che non potrà non rimandare ad una scena primaria, alla scena dell’economia familiare: alla scena del Sofista. Dunque, non c’è nulla di scritto che possa presentarsi come testimonianza attendibile del pensiero più proprio di Platone; se non questa lettera, forse inautentica, e che comunque una volta letta va bruciata. Lo scritto è responsabile solo della parola socratica, al tempo della sua giovinezza, prima della morte. Platone si eclissa, il suo nome si cancella e sulla sua traccia viene sovraimpresso quello di Socrate. La firma di Platone è cenere, resto di un fuoco che ha bruciato la lettera in cui egli testimoniava, in prima persona, della verità. Certo, si potrebbero formulare molte ipotesi, tutte legittime, su questa dichiarazione platonica: sulla morte di Socrate Platone ha costruito la propria fortuna, si è fatto un nome, si è tramandato ai posteri per interposta persona; ha atteso che il maestro morisse e ha investito sulla sua morte, gli ha attribuito le proprie opinioni, ha sfruttato l’eredità producendo plus-valore. Ma insieme – e ciò è indecidibile – ha salvato dall’oblio la memoria del padre e del maestro, ha riabilitato Socrate dall’accusa infamante di empietà e corruzione dei giovani (certo salvando così anche se stesso)24, ha negato che 24

Cfr. ivi, pp. 75 sg.

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V. LA PROSOPOPEA DELLA LEGGE

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fosse un sofista: scrivendo ha trasmesso e salvato il desiderio di Socrate, che in quanto desiderio dell’altro, era divenuto il suo desiderio, costitutivo della sua identità. Così la scrittura si rivela essere insieme strumento di potere, istituzionalizzazione (chi potrebbe negare, infatti, che l’istituzione ‘Platone’, abbia deciso e tuttora governi la storia della cultura occidentale?) e veicolo del desiderio dell’altro: emblema, dunque, della pietà filiale, pratica del ringraziamento per il dono ricevuto, risposta all’appello della voce dell’altro. Si potrebbe sostenere allora che la scena del Sofista non sia altro che il raddoppiamento necessario del rapporto con Socrate, la sua messa in scena. Che lì si tratti di un altro discorso paterno la cui confutazione è necessaria per far proseguire il discorso filosofico rifondando la differenza tra quest’ultimo e quello sofista, non mostra in filigrana un altro parricidio, quello che Platone, scrivendo, sta commettendo rispetto a Socrate? È vero: anche in questo caso la scrittura mostra il volto della pietà; la confutazione viene, infatti, attribuita allo Straniero di Elea – dunque, un discepolo di Parmenide e cioè in qualche modo autorizzato a tanto –, per evitare di doverla attribuire a Socrate, che, d’altro canto, aveva più volte indicato come proprio nel divieto parmenideo di dire il non essere si annidasse la difficoltà maggiore. Che la figura dello Straniero sia ottenuta per spostamento – egli supplisce Platone o lo stesso Socrate – o per condensazione di entrambi, non cambia la questione cruciale: la trasmissione richiede un gesto terribile. Lo si può differire o delegare, ma ‘si deve’ uccidere il padre, e, una volta uccisolo, errare secondo la deriva paterna, ringraziare, cioè, per il dono di questa morte che ha reso possibile la sopravvivenza. Se tutto questo è vero, allora la tesi avanzata da Jacques Derrida, secondo la quale è Socrate a scrivere sotto la dettatura di Platone, apparirà meno frivola25. Con essa si tenta, infatti, di dare forma concettuale alla questione della trasmissione, con il titolo metaforico di una ‘metafisica postale’; vale a dire uno scambio di lettere in cui il destinatore s’invia a se stesso sotto le vesti di un altro, lettere che, d’altronde, per quante precauzioni egli possa prendere – scrivere per enigmi, dare ordine di bruciarle – possono sempre non giungere a destinazione: perdersi nei recessi del mare o della terra, esser lette dagli igno25

O mostrerà, se si vuole, che un’archeologia del testo filosofico è sempre un’archeologia del ‘frivolo’, cioè di quell’apparato non filosofico necessario alla costituzione del testo, ma che questo marca immediatamente come irrivelante. Sulla ‘metafisica postale’ si veda J. Derrida, La carte postale, Paris 1980.

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ranti, cioè da chi non ha la titolarità del destinatario. E che quand’anche fossero bruciate, resterebbero sotto forma di cenere, non a testimoniare della verità, bensì a rendere pubblica la sua impossibilità ad essere scritta e detta in una frase qualunque. Giacché il segreto in cui si cerca di mantenere la verità non ha altra mira che quella di nascondere ai profani, cioè a tutti i non autorizzati, lo stato effettivo della verità, la sua non presenza costitutiva, il suo immemoriale essere-giàda-sempre-morta, la sua alterità irriducibile che nessun discorso come nessuna coscienza può dire propria: come, infine, Platone stesso scrive, la forma paradigmatica della verità è l’enigma. Inviandosi a se stesso, attribuendo a Socrate quanto invece gli appartiene, sfruttando il fatto che Socrate sia colui che non scrive nel momento stesso in cui lo presenta come il suo merito maggiore, Platone fa scrivere Socrate, lo iscrive e tenta così di ripristinare l’identità performativa fra il destinatore, il destinatario e l’eroe eponimo della verità. Ma allo stesso tempo, mentre ‘detta’ a Socrate quel che deve scrivere, Platone si trova afferrato nella deriva mortale, poiché è pur sempre a partire dalla morte di Socrate che egli può tentare di iscriverlo; allora questa morte lo sopravanza; egli scopre d’essere incapace di governarla, di esserle totalmente debitore. Nell’invio che fa di sé a se stesso, un resto – di cenere – non lo raggiungerà, gli sopravviverà, sarà sempre un passo avanti a lui, rendendolo il destinatario mancato della sua stessa spedizione. E questo resto, malgrado lui, ma anche con il suo assenso, farà il resto di tutta la storia – del platonismo, della filosofia. L’estrema divisione fra ciò che non si può scrivere – ma, vedremo, forse neppure dire – e ciò che, invece, si può/si deve scrivere, è sintomo nel discorso platonico del desiderio di dire la verità e dell’impossibilità di raccontarla se non come assenza e fantasma. Giacché che cosa, infine, si è tramandato nel testo scritto – comprese le lettere – se non la verità come differenza irriducibile fra muto e sonoro, scrittura e voce? Tramandamento reso possibile proprio dal rimando continuo del testo alla sua origine perduta ed indicibile, di cui esso costituisce l’inevitabile supplemento, cioè l’unica modalità, l’unico tono di voce della sua dicibilità (scritturalità)? La VII Lettera ribadisce l’inesistenza di uno scritto che dica il pensiero più proprio di Platone; diffida, addirittura, quanti scriveranno o avranno scritto dicendo di conoscerlo. Giacché, vi si dice, la scienza che Platone insegna non è come le altre: «Essa non si può in alcun modo comunicare, ma come fiamma (fôs, luce) s’accende da fuoco che balza: nasce d’improvviso nell’anima dopo un lungo periodo di discus-

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sioni sulla cosa stessa (to pragma autò) e una vita vissuta in comune, e poi si nutre di sé medesima » (VII Lettera, 341c-d). Ora, dice Platone, sarebbe meglio per queste ragioni non scriverne; se, infatti, avesse creduto che fosse iscrivibile, chi meglio di lui avrebbe potuto farlo? E non si sarebbe afflitto se si fosse accorto di averne scritto male? Tale occupazione, tuttavia, sarebbe stata giovevole solo a pochi, non alla massa, e questa, infine, è la ragione per cui non ne ha scritto. Ma ora, ai familiari ed agli amici di Dione, in questa lettera dal tono vagamente consuntivo e testamentario, egli ripeterà quel discorso vero (logos alethê) che già altre volte, e con le stesse precauzioni, ha fatto. Non è sintomatica questa continua oscillazione fra la necessità del dire ed il suo rifiuto? Infine la verità è scritta, ma per enigmi e con l’ordine di bruciare la lettera. Solo che ora quel fuoco che avrebbe dovuto incenerire lo scritto temerario ed azzardato, diviene ciò da cui, come resto, scaturisce nell’anima il desiderio di dire la verità. Ma insieme l’impossibilità di dirla, giacché lo statuto del vero prende qui la forma dell’olocausto, del brucia-tutto anteriore al discorso e all’emergenza della parola, e di cui il desiderio è il residuo impossibile. Ciò che, allora, Platone dirà (scriverà) qui sarà di nuovo, come egli stesso dice, un mito ed una digressione (muthos e planê), denegando immediatamente quel che ha appena definito discorso vero. Non tenteremo un’interpretazione26 di questo logos-mythos platonico affine nella sua funzione a tutti i racconti mitici disseminati nel testo scritto e che ricoprono il ruolo di mettere in frasi ciò che borda il movimento della dialettica e lo trascende: mito della caverna, mito di Er, etc. Si potrebbe dire che nel momento stesso in cui Platone affida alla scrittura il tramandamento del discorso vero, diffida, come abbiamo già detto, dall’interpretazione che voglia essere esaustiva e razionale; il nuovo narratore, che egli implicitamente autorizza, viene contemporaneamente delegittimato ad investire sul suo nome più di quanto le regole della trasmissione permettano. Quel resto che Platone stesso non è riuscito a governare sopravanzerà inevitabilmente l’esegeta futuro, che avrà, di conseguenza, quale unica chance quella di ripetere sull’altra scena il dispositivo presente nel testo stesso. Giacché ciò che come verità Platone tramanda, non è altro che la prosopopea della legge: ‘tu devi (interpretarmi), dunque non puoi’. 26 Come fa, invece, Giorgio Agamben che tende ad identificare la cosa stessa con la cosa-del-linguaggio o il linguaggio tout-court: cfr. G. Agamben La cosa stessa, in G. Dalmasso (a cura di), Di-segno, Milano 1984.

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IL DISCORSO E LA CENERE

Quindi non formuleremo ipotesi sulla natura del ‘quinto’ (così come non le abbiamo formulate su quella dei ‘primo’) che segue, o precede, i quattro attraverso cui si snoda il lungo processo intrapreso dall’anima, accesa di desiderio, per attingere il vero: nome (onoma), definizione (logos), immagine (eidôlon) e scienza (epistêmê) o intellezione (nous) o retta opinione (alêthês doxa). Ci interessa riflettere, invece, su quell’ennesimo avvertimento che viene ad interrompere per un attimo l’esposizione del logos-mythos: « Non è possibile – scrive Platone – avere compiuta conoscenza, per ciascuno di questi oggetti (quelli che ha enumerato una riga prima: figura dritta e figura rotonda, i colori, il buono, il bello, il giusto, gli oggetti fabbricati e naturali, il fuoco, l’acqua e tutte le altre cose simili a queste, i viventi e l’ethos dell’anima, le creazioni – poiêmata – e le passioni – pathêmata –; l’ente in generale insomma) del quinto, quando non si siano in qualche modo afferrati gli altri quattro. Oltre a questo, tali elementi (i quattro) esprimono non meno la qualità (poion) che l’essere (to on) di ciascuna cosa, per via della inadeguatezza dei discorsi (dia to tôn logôn asthenes); perciò nessuno che abbia senno oserà affidare i suoi pensieri ai linguaggio, tanto più se si tratta di un discorso immobile, quai è quello scritto con le lettere» (VII Lettera, 343a). C’è dunque, accanto ai limiti dello scritto, una inadeguatezza dei discorsi, una debolezza stessa della voce (in un punto afferma che il rapporto fra i quattro e il ‘quinto’ si deve pensare come un’unica cosa che non ha sede en fonais, ma nell’anima: forse in un soliloquio?Nel sunnoein eautô?27); debolezza che viene attribuita all’inevitabile compresenza, nel dire dell’essere, della qualità. Mai potremmo dire, cioè, l’essere se non secondo una sua qualificazione, secondo una sua determinazione: ciò che aveva costituito il fulcro della delegittimazione del sofista e che aveva richiesto il gesto del parricidio, vale a dire che l’essere si potesse dire in molti modi, cioè secondo specie e generi fra cui quello del diverso, mostra qui il suo rovescio. L’essere vero ed indeclinato si situa al di là del discorso. Anche la voce non esiste se non nella diversità dei toni, nelle modalità della lexis. C’è una voce pura? Solo nel logos-mythos, solo nell’immemoriale. Ma allora tutto questo ripete puntualmente l’aporia strutturale, l’indecidibilità essenziale del discorso filosofico e ribadisce come al fondo dell’onto-teo-logia o della metafisica si radichi, senza radici, una posizione etica, una risposta all’appello del ‘si deve’: mettere in discorso, nella voce e nello scritto, la verità esattamente perché questo è impos27

Cfr., A. Cancrini, Syneidesis, Roma 1970, pp. 100 sg.

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V. LA PROSOPOPEA DELLA LEGGE

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sibile. E non è forse vero che quel che ha chiamato il Bene, cioè l’origine del valore e la fonte della legittimazione, si situi al di là dell’essenza (epekeina tês ousias,, Repubblica, 508-509b), vale a dire al di là della dicibilità dell’essere? Quando Platone attribuisce alla qualità (poion) la debolezza dei discorsi, noi dobbiamo pensare a quella doglia dell’anima che si chiede a proposito delle cose che stanno intorno al ‘primo’: ‘Ma di che specie sono?’, e scopre che l’assenza di affinità, la mancanza di una genealogia comune la separano per sempre dall’origine. Questa doglia, questo dolore della partoriente (e non si dimentichi: l’arte socratica è l’arte maieutica), che cercano disperatamente di dar forma al desiderio che le brucia dentro, che tentano, dunque, di dar consistenza all’eccesso del desiderio, non troveranno requie. Cosa resta, allora, se non la cenere del fuoco originario, il cui desiderio cova nell’anima e la fa bruciare? Il desiderio del vero: la filo-sofia. Desiderio che s’accende come fuoco nell’anima, giacché la giustizia della cenere consiste nel fare fuoco dritto al cuore.

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Capitolo sesto Teoria del discorso. Jacques Lacan o la sovversione del desiderio

Avant de signifier quoi que ce soit toute émission de langage signale que quelqu’un parle (...) La seule voix dit bien des choses, avant d'agir comme porteuse de messages particuliers. Elle dit: Homme, homme, femme, enfant. Telle langue, connue ou non. Demande, prie, ordonne. P. Valéry, Cahiers

Socrate e Menone dialogano: sulla virtù. Si chiedono: esistono molte virtù o una sola? È la virtù una scienza? E se è scienza, è insegnabile? Come sempre accade quando si dialoga con Socrate, c’è un momento in cui l’interlocutore viene a trovarsi come spaesato: credeva di sapere e si accorge di non sapere più. La sua mente è come intorpidita; si chiede: se non sappiamo più nemmeno ciò che cerchiamo di sapere, come continuare l’indagine? Se abbiamo escluso che la virtù sia insegnabile attraverso la trasmissione padre-figlio – quanti figli degeneri da padri notoriamente virtuosi –, attraverso l’insegnamento dei sofisti ed infine attraverso la scuola di retorica, come parlarne? Alla lettera noi non sappiamo quel che diciamo. A questo punto la torpedine-Socrate lo rassicura: sapere di non sapere è la via regia della conoscenza. Giacché conoscere, aggiunge, non dipende da una trasmissione genetica – familiare o scolastica che sia –, ma da una genealogia ideale: conoscere è ricordare. E ciò vale per tutti; il sapere, infatti, non è il possesso di pochi: di quelli che hanno avuto la ventura di nascere da padri virtuosi o di quelli abbastanza ricchi da pagare il sofista o il retore. Il sapere è al di là delle differenze di ceto o di classe, fa parte di una genealogia comune; giace dimenticato al fondo di ognuno di noi: esso deve essere semplicemente riattivato, ri-presentificato. Dunque, anche uno schiavo sa, vale a dire è in grado di ricordare, lui che occupa nella scala sociale il gradino più basso, lui che quasi non è considerato un uomo ma uno strumento.

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IL DISCORSO E LA CENERE

«Chiama qui il tuo schiavo», dice allora Socrate a Menone, «e ti dimostrerò quanto ho detto». Inizia qui da parte di Socrate una ‘performance’ il cui destinatario resta Menone, che dovremo immaginare spettatore muto per tutto il tempo della ‘dimostrazione’, e rispetto alla quale, nonostante la democraticità dell’assunto, lo schiavo funge, fedele al suo statuto, da strumento e da medio. Ora, non basta dire allo schiavo: «Ricorda». Lo si deve guidare, si deve mettere in movimento la sua mente, spingerlo alla riattivazione del sapere che, lui più di tutti, non sa di sapere. E allora non servirà a nulla raccontargli in un discorso, per quanto ben fatto, la regola della duplicazione del quadrato; lo schiavo, infatti, potrà mnemonizzarla e ripeterla esattamente, addirittura con le stesse parole. Ma l’avrà compresa? Sarebbe in grado di ripeterla, cioè di ritrasmetterla a sua volta? C’è da dubitarne: imparare a memoria, che è l’arte del sofista, non è ricordare: per Socrate-Platone non costituisce sapere vero. Ascoltando semplicemente un discorso, come quello poetico, lo schiavo non sarà arrivato da solo al sapere, esso, come si dice, non sarà farina del suo sacco; e se anche avesse imparato le tecniche linguistico-retoriche del sofista e del retore, non avrebbe in tal caso raggiunto un sapere marcato col segno del vero. Si tratta allora di condurlo progressivamente alla risoluzione del problema attraverso il metodo domanda-risposta. Insegnare, infatti, direbbe Socrate, non consiste nel trasmettere dei contenuti già formati, delle risposte già confezionate, bensì nell’educare al buon modo di discorrere: la ricerca del vero non è altro che l’arte di porre domande. S’insegna allora una via, un metodo, non si trasmette uno stato già determinato del sapere. Quindi, concatenando le frasi-domanda alle frasi-risposta secondo le regole del metodo confutatorio – la dialettica –, anche lo schiavo può essere educato, cioè spinto alla rimemorazione del sapere vero. Questa scena del Menone è richiamata da Jacques Lacan in un seminario del 1969-70, intitolato L’envers de la psychanalyse1. Il rap1 Come è noto la maggior parte dei seminari lacaniani circola dattiloscritta: allievi ed ascoltatori più o meno illustri hanno trascritto per uso proprio o alle volte per altri fini la parola del maestro. È possibile, di conseguenza, avere più versioni di uno stesso seminario senza il conforto di un testo originale cui confrontarle. A parte gli Ècrits, dunque, l'insegnamento di Lacan si affida ad una serie di testimoni oculari/auricolari, dei quali sarà sempre possibile porre in questione la buona fede, al dì là della loro stessa intenzione. Anche l'edizione 'autorizzata' di Jacques Alain Miller non sfugge ad un tale destino; anzi, la posizione di Miller come esecutore testamentario di Lacan, oltre che genero, acuisce la difficoltà: in quanto preso in un legato testamentario, non si troverà, in piena innocenza certo, nella condizione di dover tradire il mandato? Ciò, tuttavia, non toglie nulla al fatto

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VI. TEORIA DEL DISCORSO

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porto fra Socrate e lo schiavo, centrato sulla questione del sapere, funge in Lacan, se così fosse lecito esprimersi, da illustrazione di ciò che egli definisce il discorso del Maître o discorso della scienza. Tuttavia, prima di addentrarci nell’itinerario lacaniano, torniamo per un attimo sul dialogo platonico. Se ci si chiedesse in che cosa consista la centralità del Menone nello sviluppo del pensiero di Platone, la risposta sarebbe facile: nella tesi che conoscere è ricordare. A tale conclusione si perviene attraverso la messa in crisi delle forme tradizionali di sapere e delle modalità della loro trasmissione. È quanto viene indicato nella metafora della torpedine: il dialogare socratico produce uno stato di torpore, una specie di paralisi non corporea quanto mentale, che fa vacillare le certezze dell’interlocutore. Il soggetto che credeva di sapere viene posto in uno stato d’indeterminazione: l’enunciato in cui, da che, di qui a pochi anni, l’edizione da lui curata, farà, come si dice, testo (nota aggiunta nel 2006: come era facilmente prevedibile, la predizione si è avverata. Nel 1991 ha visto la luce l’edizione francese del testo del seminario e nel 2001 si è avuta anche la traduzione italiana. Per cui tutte le citazioni saranno riferite a queste edizioni non senza che qua e là si continui ad avvertire l’eco del dattiloscritto: cfr:, J. Lacan, Le Séminaire. Livre XVII. L’envers de la psychanalise, Paris 1991, tr. it. a cura di A. di Ciaccia, Torino 2001). Ciò che vogliamo dire è che un insegnamento che, intenzionalmente ed in nome proprio di ciò che pretende insegnare – l’esperienza analitica che non si trasmette né con la parola né con lo scritto, ma semmai attraverso la pura disseminazione della lettera inconscia –, si affida ad una parola lavorata a tal punto da rendersi intrasmissibile (e lo scritto, quando c’è, non fa che seguirne la legge), produce inevitabilmente, ma consapevolmente, l’elisione della questione del testo originale quello, intendiamo, legittimato dal nome proprio e controfirmato esplicitamente o meno. Il lascito di Lacan è questo: poiché il discorso psicoanalitico pone in bilico la possibilità stessa della trasmissione in generale, dal momento che individua nel soggetto del sapere una béance che rende impossibile il racconto della verità, ciò che s’insegna (giacché, comunque, c’è trasmissione della psicoanalisi) sarà l’insegnamento dell’intrasmissibile o, in altri termini, il resto e lo scarto, la trascrizione e il supplemento di quella verità che il discorso strutturalmente elide. Cosicché anche se i seminari fossero stati video-registrati, noi avremmo sempre avuto a che fare con dei supplementi disperatamente o ironicamente privi di originali: giacché da quella buona divinità dedita allo scherzo che era, Lacan, rendendosi illegibile, ha imposto agli allievi il compito ingrato di arrangiarsi; nel medesimo senso va interpretato il gesto con cui Lacan ha chiuso la Scuola-istituzione insegnante, ambito di formazione di competenze, luogo dell’elargizione della passe, cioè della legittimazione a dirsi analisti: è che con quel gesto egli ha impedito che il discorso analitico venisse ridotto alla dimensione di un sapere disciplinare manipolabile ed insieme manipolatore del desiderio soggettivo. Dunque, noi useremo qui una delle trascrizioni possibili del seminario lacaniano: testo privo di ogni legittimazione, ‘orfano’ come avrebbe detto Platone, nemmeno confortato dalla forma del pubblico contratto; oggetto, semmai, di baratto, adorazione, forse alle volte di lucro o, come in questo caso, segno d’amicizia e ringraziamo qui Paola Carola di averci fatto dono della preziosa ‘lettera’.

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questo momento in poi, egli esprime il proprio statuto è quello del ‘sapere di non sapere’, che, se da un lato, sfiora il rischio dello scetticismo, dall’altro è la leva per ogni possibile conoscenza vera. Così la tesi centrale del Menone: conoscere è ricordare, ri-presentificare un sapere originario – ideale –, prepara ed annuncia da un lato la teoria delle idee e dall’altro quella dell’immortalità dell’anima – un mythos nel logos? – che Platone tematizzerà nel Fedone. Tuttavia, accanto a (ma anche al di là di) tale motivo, noi vorremmo sottolineare un aspetto che, per quanto non esplicitato nel dialogo, anzi apparentemente negato, costituisce, forse, il suo tratto più decisivo. È vero, infatti, che il Menone si chiude lasciando in sospeso la questione da cui era partito: quella della insegnabilità della scienza della virtù, questione che assurgeva ad esempio, non casuale, della insegnabilità del sapere in generale. Può addirittura apparire che il Menone, affidando la sua ultima frase alla tesi che la virtù sia, forse, un dono divino, concluda per la sua non insegnabilità. Ma sarebbe, questa, una interpretazione errata; il Menone, si potrebbe dire, funge da lato destruens di una argomentazione intorno alla insegnabilità del sapere: in esso Platone si disfa delle forme tradizionali della insegnabilità, da quella familiare a quella sofista o retorica (la recente istituzione della scuola di Isocrate). Insieme il dialogo mostra che il conoscere raggiunto attraverso la fronesis non è ancora scienza in senso proprio. Ed infine falsifica anche quello ottenuto attraverso lo stesso processo della reminiscenza: quest’ultimo, infatti, produrrà soltanto un’opinione vera (doxa alethes), ma non ancora una scienza (episteme). La ragione consiste nel fatto che il sapere prodotto attraverso l’intelligenza pratica e quello raggiunto attraverso il metodo domanda-risposta, conservano un certo carattere fortuito e, di conseguenza, effimero. Scienza, al contrario, implica un possesso stabile, uno ‘star sopra’ o comunque ‘ben messo’ rispetto al sapere, per cui esso, una volta prodotto, sia riproducibile, ripetibile e, dunque, insegnabile in linea di diritto. Fuor di metafora si può dire allora che un sapere per essere una scienza, cioè un sapere vero, deve istituzionalizzarsi. Nel ricordare – processo che richiedeva, comunque, due condizioni base: lo schiavo doveva parlar greco e saper ragionare, di cui vedremo fra breve l’importanza – si perveniva ad un’opinione vera; in ciò era presente la tesi che il conoscere consistesse, non tanto nelle serie dei contenuti particolari, quanto nella connessione che li legava secondo una regola. Ciò che lega, che mette in rapporto, è l’idea rievocata attra-

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verso il processo della reminiscenza. Ma restare all’opinione vera, dirà Platone nella Repubblica, equivale ad essere un cieco che, per abitudine o intelligenza pratica, riesca a camminare lungo una strada senza cadere (Repubblica, 412e-413b). Il cieco è in grado di orientarsi, possiede un certo saper-fare – una techne –, ma si potrebbe sostenere che è nel pieno possesso della scienza? Ora, la metafora della cecità non è certo casuale: l’idea e, dunque, la verità, non si giocano in Platone sul versante di una pura visibilità da un lato e sulla potenza di una visione integrale, duratura ed inobliabile, solo accidentalmente scalfita dall’opacità corporea, dall’altro? Ma allora che cosa assicurerà che il nostro conoscere non sia l’effetto fortuito del nostro saper-fare, della nostra casuale capacità di rimemorazione, effimero prodotto dello ‘sfregamento’ dei discorsi, bensì scienza, vale a dire stabile possesso delle relazioni che connettono il nostro esperire e del metodo adatto per raggiungerle? La risposta di Platone, pratica stavolta, ma non meno teorica, è: una scuola2. La fondazione dell’Accademia istituzionalizza il metodo confutatorio domanda-risposta, ossia la dialettica; ne permette la ripetizione e, di conseguenza, supera anche il carattere occasionale del dialogare socratico ed il rischio in esso presente di potersi concludere senza aver dato una soluzione al problema affrontato. Una scuola, al contrario, è sempre in grado di riprendere secondo una successione regolata l’alternativa su cui si sospende una fase della ricerca rendendola punto di partenza di quella successiva. In tal modo il sapere frammentario si connette progressivamente in sistema e l’affermazione secondo la quale la scienza consiste nelle relazioni e nei rapporti trova il proprio supporto materiale nell’istituzione insegnante. Il tema centrale del Menone, dunque, ci sembra consistere nella connessione che Platone istituisce fra la questione della scienza e della sua insegnabilità e la consapevolezza che non è possibile né discorso scientifico né sua tramissibilità al di fuori della loro istituzionalizzazione. In altri termini, il discorso scientifico si lega necessariamente, pena la sua impossibilità, all’istituzione insegnante, o tout court il discorso è un’istituzione. Ma cosa significa quest’ultima affermazione? Quali le sue conseguenze? Attribuire al discorso un carattere istituzionale vuol dire che, 2

Sulla connessione fra il Menone e la costituzione della scuola vedi G. Cambiano, Platone e le tecniche, cit., pp. 146-151. Per il testo del Menone abbiamo consultato la traduzione con testo a fronte di G. Cambiano, in Platone, Protagora Menone Fedone, Milano 1983.

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ben prima di una possibile distinzione fra discorsi veri e discorsi falsi, legittimi e illegittimi, un discorso, qualunque esso sia, determina le posizioni degli interlocutori, struttura i ruoli del destinatore e del destinatario, circoscrive il referente, anticipa, non i singoli risultati – gli enunciati –, bensì il genere d’appartenenza – la forma dell’enunciazione. Un discorso, cioè, è normativo, costituisce un ‘si deve’, non in rapporto ai contenuti, bensì alla sua forma o, detto con termine più recente, alla sua struttura. La legge di un discorso, direbbe Lacan, è una legge di struttura3, indipendente, quindi, dagli enunciati effettivamente pronunciati e dai parlanti effettivamente ed attualmente impegnati nel discorso. Si deve dire, anzi, che i soggetti parlanti sono tali solo in base alle posizioni che vengono ad assumere nel discorso. Ora, ciò era già stato fatto vedere a proposito dei racconti tradizionali e delle modalità con cui il narratore autorizzava se stesso ed il narratore successivo: esse erano iscritte, quali sue funzioni, all’interno del racconto stesso. 3 Secondo Lacan bisogna distinguere «quel che nel discorso, come struttura necessaria, eccede di molto la parola, sempre più o meno occasionale. Quel che preferisco, dicevo, e un giorno l’ho anche esposto, è un discorso senza parole. Senza parole, infatti, può benissimo sussistere. Sussiste in certe relazioni fondamentali. Queste, letteralmente, non potrebbero mantenersi senza il linguaggio. Attraverso lo strumento del linguaggio s’instaura un certo numero di relazioni stabili, all’interno delle quali è di certo possibile iscrivere qualcosa che è molto più ampio e che va ben oltre le enunciazioni effettive. Nessun bisogno di queste perché il nostro comportamento, i nostri atti s’iscrivano eventualmente nel quadro di certi enunciati primordiali» (J. Lacan, Le Séminaire. Livre XVII. L’envers de la psychanalise, p. 11, tr. it., p. 4). Qui è all’opera un certo rapporto fra linguaggio e discorso: se la sfera del linguaggio è insieme luogo di formazione del soggetto e di apertura all’altro (e la prima cosa in funzione della seconda) e, di conseguenza, intersoggettività originaria ed altrettanto originario rapporto con la Legge, il discorso, allora, rappresenta, intersecandosi col linguaggio, quella modulazione particolare dell’intersoggettività in cui si privilegia l’aspetto strutturale, necessario, della relazione fra i parlanti: in altri termini, nel discorso il linguaggio diviene effettivamente legame: rapporto cioè che costituisce la verità dell’atto di parola. Sempre nella seduta del 26 novembre Lacan collega la funzione discorsiva con il rilevamento della istanza del Super-io; e in Encore chiarisce: «Il significante (cioè, come si vedrà, ciò che rappresenta il soggetto presso un altro significante: relazione che costituisce il linguaggio in generale) in quanto tale non si riferisce a nulla se non a un discorso, cioè ad un modo di funzionamento, a una utilizzazione del linguaggio come legame. Ma bisogna anche precisare a questo riguardo che... il legame... è un legame fra coloro che parlano (J. Lacan, Encore, Paris 1975, p. 32, tr. it. a cura di G. Contri, Torino 1983, p. 30). Sul concetto di ‘discorso’ si vedano gli scritti di Emile Benveniste, Remarques sur la fonction du langage dans la découverte freudienne, pubblicato per la prima volta in «La psychanalyse», n. 1, 1956 e Les niveaux de l’analyse linguistique (1964), ora in Problèmes de linguistique générale, tr. it. di M.V. Giuliani, Milano 1971.

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Non dovrebbe meravigliare, allora, che il carattere strutturale del discorso venga attribuito anche al discorso vero, a quel discorso, cioè, che pretende di sostituirsi ai racconti tradizionali, in primo luogo a quello poetico, e che si è contrapposto anche al discorso sofista – narrazioni mitiche di fondazione e più in generale racconto mimetico di secondo grado. L’attacco è dovuto, come sappiamo, alla volontà platonica di legittimare il discorso vero come l’unico discorso autorizzato ad intervenire nelle questioni che riguardano lo statuto della verità. Ma allora come sarà possibile coniugare il discorso vero che non riposa su nessuna autorità: religiosa, poetica o retorica, bensì soltanto sulla trasparenza delle regole che presiedono alla produzione della scienza e sulla universale visibilità delle idee che fungono da paradigmi del sapere, con il carattere normativo, in qualche misura autoritario, del discorso in generale? Non c’è dubbio che Platone abbia stemperato l’autorità del discorso attraverso quella modifica essenziale che consiste nell’unificare ricerca ed insegnamento. La scuola platonica non ha nulla del carattere iniziatico della setta religiosa, dell’ascolto passivo del canto poetico, né tantomeno dello stupore di fronte all’abilità sofista. La scuola è una libera comunità scientifica volta alla ricerca della verità, in cui fra il maestro e il discepolo vige la regola dell’eguaglianza. Ed infine la verità non è anche indifferente alle differenze di ceto? Non è anche dello schiavo? Lo schiavo appunto. È l’interferenza di questa figura nel contesto della questione della verità a costituire un problema. Una prima ragione della presenza dello schiavo nella relazione maestro-discepolo – SocrateMenone – è presto detta: Platone, come già sappiamo, ha di mira una scienza del misto. Egli si contrappone alla rigida divisione fra verità e doxa: il parricidio era servito ad inaugurare la possibilità di una scienza della realtà sensibile che dal suo canto si trovava organizzata in quel vasto ambito delle tecniche, cioè di saperi più o meno irriflessi, che tuttavia permettevano l’orientamento nella mutevole e contraddittoria sfera dell’esperienza. Tutta la serie dei saperci fare, come, ad esempio, sapersi muovere nonostante la cecità, costituisce un territorio che, piuttosto che essere espunto dall’ambito della verità, deve esservi ricondotto, deve ricevere dalle idee, e attraverso il metodo dialettico, la propria coordinazione, affinché sia superata l’instabilità che lo contraddistingue ed il sapere sia reso effettivamente insegnabile, indipendentemente da un tipo di trasmissione che, o familiare o scolastica nel senso tradizionale, corre sempre il rischio o dello scacco o addirittura della propria estinzione. Ma ai liberi cittadini della polis, dediti all’onore delle armi o a quelli delle cariche pubbliche, ripugna il possesso delle tecniche: esse sono

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appannaggio degli schiavi; si può dire allora che, mentre la verità è del signore, il sapere è sempre servile. Ma se la verità è per Platone solo quella che si applica come una marca al sapere o che si estrae dal sapere, allora la presenza dello schiavo nella ricerca-trasmissione della scienza diviene necessaria. Occorrerà rivolgersi all’unico titolare del sapere per estrarre quella verità che fonda, in quanto relazione, quella tale competenza, quella specifica abilità, che per esplicarsi non hanno d’altronde alcun bisogno di risalire al proprio fondamento. Che sono appunto prodotti dell’intelligenza pratica, di una casuale capacità mnemonica, ma che non sono di per sé autoconsapevoli delle radici del proprio operare. Se ne deduce facilmente che lo schiavo non diverrà in alcun caso un discepolo di Socrate, né che verrà accolto nella scuola per proseguire la sua paideia. Lo schiavo, come abbiamo detto, resta uno strumento, ma non tanto come oggetto inanimato, quanto come possessore di tecniche: semmai cambia lo statuto dello strumento: esso nella sua materialità è un concentrato di sapere, un deposito muto di tecniche. Se la memoria pura è la sede delle idee, lo schiavo è l’archivio vivente dei saperi. Ma appunto c’è bisogno che parli: l’arte socratica, come arte maieutica, non consisterà, forse, nell’educare lo schiavo alla parola, nell’introdurlo nel discorso? Se Socrate sarà in grado di estrarre dal sapere dello schiavo quel contenuto di verità che vi albergava a sua insaputa, ciò potrà avvenire alle sole condizioni di costringere lo schiavo alla parola e di mettere in frasi il suo sapere. Il discepolo di Socrate resta Menone; è per educare Menone, ma anche per sedurlo – col che introduciamo il tratto del desiderio – che Socrate si è abbandonato alla ‘performance’ rammemorativa. Ma allora potremo finalmente mostrare in che senso Platone si contrappone alla forma d’autorità propria dei racconti tradizionali ed indicare un altro aspetto, non meno importante, della necessità della presenza dello schiavo. Tutte le forme tradizionali del sapere e della sua trasmissibilità si basano sulla differenza costitutiva fra un soggetto titolare del sapere e che sa di saperlo, ed un soggetto il cui statuto è quello di non sapere ancora. La dissimetria di tale relazione è evidente e si comprende anche perché la trasmissione del sapere non possa avvenire che nelle forme dell’iniziazione, dell’ascolto passivo o dello stupore. Il tratto che decide della ‘democraticità’ del dialogo platonico consiste nell’azzeramento di tale differenza: la diade maestro-discepolo non presenta l’asimmetria fra un sapere posseduto e un non sapere ancora. Anzi – e lo abbiamo già anticipato – Socrate definisce se stesso, in quanto maestro e soggetto del sapere vero, colui che sa di non sapere: con tale gesto

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Socrate si equipara al discepolo, elimina la vecchia forma dell’autorità. L’eguaglianza si realizza, ancorché in negativo: nessuno possiede il sapere di cui si va in cerca; né il discepolo – e ciò è quasi ovvio –, né il maestro, sebbene sia una lieve differenza nel non sapere che rende Socrate Maître: il suo non sapere è pur sempre un sapere in più. Ma allora la ricerca sarebbe totalmente insensata – ed era appunto la sensazione di Menone all’inizio del dialogo. È pur necessario che il sapere, anche se irriflesso, risieda da qualche parte per essere lavorato e condotto alla sua verità. Ecco, dunque, lo schiavo. Ma è possibile introdurre lo schiavo nella relazione maestro-discepolo, solo perché anch’egli, in una certa misura, partecipa del non sapere di tutti. Egli, infatti, è titolare del sapere, ma non sa di saperlo: egli, per usare un termine lacaniano, è nel discorso della scienza il soggetto-supposto-sapere, quel soggetto, cioè, di cui solo un altro – il maestro – è in grado di supporre che possieda il sapere. È la presenza dello schiavo, allora, a produrre uno slittamento essenziale nella legge del discorso e nelle modalità della sua trasmissione e a trasformare il racconto tradizionale ed i logoi sofisti nel discorso della scienza. Ciò che muta, infatti, in corrispondenza dell’introduzione dello schiavo nel discorso è lo statuto del soggetto del sapere. Sarà impossibile d’ora in poi porre la questione riguardante la verità nei termini tradizionali di un legittimo proprietario del sapere: sacerdote, poeta, sofista o retore. Se il soggetto del sapere – il maestro – è colui che sa di non sapere, ma estrae la verità dal sapere dell’altro – e lo schiavo, in quanto possessore del sapere, seppure inconsapevole, non potrà, di conseguenza, essere nella posizione del soggetto del sapere – allora la titolarità deriverà dalla capacità di assumere la posizione di chi guida il discepolo nella ricerca comune del sapere che per definizione è dell’altro. Si è maestri, dunque, non perché si possiede il sapere, bensì perché, mancandone, lo si desidera. Ma si è insieme padroni e signori perché si espropria l’altro di ciò che egli, senza saperlo, possiede. La maestria e la padronanza di Socrate consistono in questo: non nel trasmettere un sapere dogmatico da prendere o da lasciare, ma neppure in un puro trasferimento del sapere da chi sa senza sapere a chi sa di non sapere. Il nuovo regime di proprietà o il nuovo modo di produzione del sapere non implicano più la conservazione del sapere accumulato che semplicemente passerebbe di mano. Al contrario, puntano sull’innovazione e sulla produzione di nuovo sapere: le tecniche e i loro titolari corrispondenti, gli schiavi, sono da questo punto di vista il territorio depu-

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tato dell’invenzione. Si tratterrà allora di estrarre dal sapere servile il plus-valore o in altri termini di valorizzare il sapere prodotto dal lavoro dello schiavo: tale valorizzazione, che si compie nel discorso della scienza o discorso del Maître, prende il nome della verità. Perché il vero possa apporsi come una marca o tratto differenziale al sapere in modo da poter distinguere l’enunciato vero da quello falso e, dunque, il discorso giusto da quello ingiusto, risulterà preliminare la valorizzazione del sapere, l’estrazione da esso del contenuto di verità, cioè di ciò che, in quanto rapporto e legame, unifica e potenzia i singoli saperi, li conduce ad una stabilità che come semplici tecniche non possedevano, mette in sistema le diverse e disperse competenze. Il discorso della scienza fondata sul sapere dello schiavo e sulla nuova maestria, implica in primo luogo che la verità non sia data una volta per tutte, ma sia un processo sempre in fieri. Ma se la valorizzazione del sapere è il tratto specifico del discorso della scienza, ciò non delucida ancora perché un soggetto prenda in esso la posizione del soggetto del sapere, maestro della ricerca e signore del sapere del servo; così facendo, in fondo, egli rinuncia al prestigio accordato agli antichi maestri di verità. A ben vedere, Socrate non ottiene dal suo ruolo né un sapere determinato: la regola della duplicazione del quadrato o qualsivoglia altro saperci-fare, ma neppure la verità che, in quanto prodotto del discorso ed in base all’assunto ‘democratico’ che lo regge, è di tutti. Occorrerà mostrare, allora, come accanto alla valorizzazione del sapere, ma in stretto legame con essa, corra nel discorso della scienza la valorizzazione dello stesso soggetto del sapere. Il tornaconto che Socrate si aspetta dall’aver assunto la posizione di Maître, è la sua stessa costituzione come soggetto del sapere, come soggetto epistemico: anticipando una terminologia hegeliana, potremmo dire: il riconoscimento. Ora, l’aspetto decisivo di tutto questo discorso consiste, tuttavia, nel fatto che tale valorizzazione-riconoscimento, si esprime per il soggetto del sapere nei termini del godimento. Il desiderio di sapere, che legittimava Socrate alla maestria, s’identificava, come avevamo già detto, seppure di striscio, con la seduzione del discepolo. Nel momento in cui ‘la performance’ socratica istituiva il discorso della scienza, essa era motivata dal desiderio, era anche e soprattutto una parade sessuale. Ma che essa non si risolva nella miseria di un rapporto sessuale, sta ad indicare che il desiderio della verità s’istituisce solo perché esso poggia sul differimento del godimento – tesi che il Simposio, come vedremo fra breve, s’incaricherà di tematizzare.

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Infine, il godimento di Socrate risiede soltanto nel sapere il sapere dell’altro; è allora la seduzione di Menone priva di scopo? Per nulla. L’esibizione della maestria, che segue, lo si ricorderà, l’attimo di smarrimento di Menone, dubbioso sulla legittimità del maestro, ha di mira proprio il fatto che il discepolo, in modo definitivo questa volta, entri nel discorso della scienza. Lo scopo della seduzione di Menone non è, dunque, godere del suo corpo, ma spingerlo ad assumere nel discorso la posizione del servo: Socrate vuole godere del sapere di Menone. Non sarà, allora, lo schiavo a divenire il discepolo di Socrate, ma sarà Menone, il discepolo, a divenire il servo di Socrate. È dunque il desiderio del maestro la genealogia nascosta del desiderio della verità? È certamente quanto Lacan ci invita a pensare. Ma ciò a cui siamo pervenuti attraverso la ricostruzione del Menone è anche la consapevolezza che nessuna scienza, nel senso occidentale di questo termine, né il desiderio come desiderio della verità, sarebbero mai emersi nella storia della specie umana, se non fossero stati istituiti da una legge discorsiva determinata, il discorso del Maître appunto4. Non si dà scienza se non in quella relazione inter-soggettiva particolare costituita dal rapporto Maître-schiavo. Siamo ora in grado di indicare le prime tre posizioni standard del discorso che funge da inaugurazione della tradizione occidentale, fondata sul primato della scienza e del soggetto epistemico: il maestro-padrone (Maître), l’altro supposto sapere (schiavo), la verità-godimento quale posta in gioco nella relazione fra i primi due5. 4 Già nel 1954-1955 Lacan aveva indicato fra le referenze del discorso psicoanalitico la figura di Socrate e la questione dell’aretè, collegandole con la rivoluzione analitica – la rivoluzione copernicana di Freud. Cfr. J. Lacan, Le moi dans la theorie de Freud et dans la technique de la psychanalyse, Paris 1978, pp. 11-34, tr. it. a cura di G. B. Contri, Torino 1991, pp. 5-31. 5 Sul rapporto fra il discorso del Maître e l’episteme e, dunque, sulla filosofia in quanto tale, si legga: «Che cosa indica la filosofia in tutta la sua evoluzione? Proprio questo – attraverso l’operazione del Padrone, il furto, il ratto, la sottrazione alla servitù del suo sapere. Per accorgersene è sufficiente avere un po’ di pratica dei dialoghi di Platone(…) Cominciamo distinguendo quelle che in questa occasione chiamerei le due facce del sapere, la faccia articolata e questo saper-fare così simile al sapere animale, ma che non è assolutamente sprovvisto, nel servo, di quell’apparecchio che ne fa una rete di linguaggio altamente articolata. Si tratta d’accorgersi che il secondo strato, l’apparecchio articolato, si può trasmettere, il che vuol dire passa dalla tasca del servo a quella del padrone – ammesso che all’epoca esistessero le tasche. Sta qui tutto lo sforzo di messa in luce attraverso ciò che si chiama epistéme. È una parola strana, non so se ci avete mai riflettuto – mettersi in buona posizione, ed è tutto sommato costruito come Verstehen. Si tratta di trovare la posizione che permette al sapere di diventare sapere da padrone. La funzione dell’epistéme in quanto specificata come sapere trasmissibile (…) è sempre intera-

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IL DISCORSO E LA CENERE

È tempo di chiedersi come avvenga l’inserzione dei soggetti all’interno della legge discorsiva: essi, infatti, come soggetti linguistici debbono essere pensati logicamente preesistenti al discorso, sia esso il racconto tradizionale o il discorso della scienza. Dovrà soccorrerci, allora, il richiamo a quelle due condizioni base che permettevano allo schiavo di dialogare con Socrate e che erano il parlar greco ed il saper ragionare. Esse non ci sembrano accidentali, né prese separatamente, né nel loro accostamento. Tali condizioni non indicano semplicemente la mente mutuata dalle tecniche artigianali, servili. Si tratta di estrarne l’essenza affinché questo sapere divenga sapere da padrone (J. Lacan, Le Séminaire. Livre XVII. L’envers de la psychanalise, p. 21, tr. it., p. 16-17). Ma il discorso del Maître in quanto discorso dell’epistéme, produce anche l’ontologia: essa è quella forma specifica con cui si risponde alla domanda, scaturiente dallo stesso discorso del Maître, sull’essenza o sulla verità dell’essere; a questo proposito sono decisive alcune osservazioni lacaniane tratte da Encore: «L’ontologia è ciò che ha messo in vigore nel linguaggio l’uso della copula, isolandola come significante. Fermarsi al verbo essere – un verbo che non ha nemmeno un uso, nel campo completo della diversità delle lingue, che possa essere qualificato come universale –, produrlo in quanto tale, è un’accentuazione piena di rischi. Per esorcizzarlo, basterebbe forse affermare che, quando si dice di una qualsiasi cosa che è quel che è, niente obbliga in alcun modo ad isolare il verbo essere... In quest’uso della copula non ci sarebbe niente da vedere.., se un discorso, che è il discorso del Padrone, Maître, M’être [termine che il traduttore rende con M’essére] non mettesse l’accento sul verbo essere» (J. Lacan, Encore, cit., p. 33, tr. it., p. 31). È dunque il Maître, in quanto illusione d’essere, o illusione – rimozione – di non essere mancanza ad essere, che produce, come posizione del discorso, l’essere in quanto verità del discorso stesso: egli si prende cioè per un Messere, un Monsieur, cioè un parlante dotato di una consistenza d’essere. Dove si vede, anticipatamente, la provenienza di quel sum del cogito che caratterizza la prima rivoluzione del discorso filosofico, quella in cui il Maître perviene a dirsi come soggetto dell’enunciazione: io penso, dunque sono.Tuttavia, come si dovrà intendere quell’essere che inevitabilmente viene prodotto dal discorso del M’être? Risponde Lacan: l’essere sembra ciò che si situa al di là del linguaggio (ed insieme al di qua, fondamento e/o telos del discorso). Ma è infine il linguaggio che c’impone l/d’essere, anche se ci costringe contemporaneamente ad ammettere che dell’essere noi non abbiamo mai niente. È che «ciò cui dobbiamo romperci – dice Lacan –, è a sostituire a questo être sfuggente – non il paraître ma il par-être, all’è il par-è, ossia l’essere para, l’essere a lato. Dico bene: par-être e non pare, l’apparire.., il fenomeno». Per cui noi dovremmo abituarci a coniugare nel seguente modo: «Io par-sono, tu par-sei, egli par-è, noi par-siamo, e così via» (ivi, p. 44, tr. it., p. 44). L’essere, dunque, l’essere del soggetto, come a lato, ciò che cade via, resto del discorso. Dire ‘io sono’ dovrebbe sempre significare: io sono, cioè il sum che io sono, l’essere che mi attribuisco e con cui m’identifico, il mio essere Maître, il sum, dunque, è a lato, ossia è un effetto di linguaggio, è a lato del linguaggio: e allora: sum (cioè qui c’è del linguaggio), dunque par-sono. In una direzione che sostanzialmente condividiamo si muovono due testi recenti riguardanti il rapporto fra la psicoanalisi freud-lacaniana e il discorso filosofico: cfr. E. Perrella, Il tempo etico o la ragione freudiana, Pordenone 1986 e L. Russo, Nietzsche, Freud e il paradosso della rappresentazione, Roma 1986.

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necessità di una koinè linguistica che renda possibile un livello elementare dell’intendersi, pena l’impossibilità stessa del dialogo (a meno di non supporre un traduttore simultaneo) e, nemmeno, la necessità del possesso di altrettanto elementari regole calcolatorie. Si deve ritenere, al contrario, che fra il parlare greco e la capacità del ragionare corra un legame ben più stretto di quanto non appaia a prima vista. Se, infatti, ragionare equivale, in Socrate-Platone, a discorrere, e se il discorrere presuppone comunque dei soggetti parlanti (giacché, forse, esistono lingue in cui il dialogare platonico-socratico sarebbe impossibile: non sappiamo d’altra parte che esistono lingue ‘naturalmente’ più ‘speculative’ di altre?), allora la linguisticità, sia nel senso di appartenere ad una lingua data, sia in quello di essere fondati dall/nell’apertura del linguaggio in generale, deve essere posta come la condizione del discorso. Vogliamo dire, insomma, che soltanto un parlante in greco può discorrere ed occupare una delle posizioni del discorso della scienza o discorso del Maître, ma che, se questo è vero, è altrettanto vero che il parlar greco con tutto quel che comporta, è una declinazione del linguaggio in generale che, se non produce in quanto tale il discorso della scienza, se non parlando greco, detta le condizioni a partire dalle quali o dentro le quali c’è del soggetto linguistico in generale. Utilizzando una terminologia suassuriana (ma secondo una certa estensione del suo significato originario) potremmo dire che il parlar greco è una delle paroles – lingue determinate, idiomi particolari, storicamente connotati – della langue intesa come determinazione antropologica della specie in quanto linguistica. Dunque, un parlante in greco sarebbe come tutti i soggetti linguistici determinato dalla trama dei segni, cioè dal linguaggio come sistema di tratti pertinenti. Ma essere soggetti di un discorso è qualcosa di più dell’essere dei semplici soggetti linguistici, sebbene il linguaggio ne sia il fondamento. Il discorso è una pratica di produzione del sapere e della sua trasmissione, ed esso traduce il generico soggetto parlante nel narratore tradizionale o nel soggetto del sapere vero, tanto per riferirci agli esempi per noi più decisivi. Il discorso allora non s’identifica né con la langue (sia secondo l’uso ristretto di Sassurre, sia secondo quello esteso), né con la parole, né sta fra di esse alla stregua di un medio. Esso è una forma storicamente determinata (e determinata, se si vuole, da una parole specifica: il parlar greco) delle relazioni intersoggettive, intese questa volta, a differenza della dimensione della langue, come modi particolari di produzione e trasmissione del sapere – ciò che, in altri termini, vuol dire della società stessa. Dovremo, dunque, mostrare come l’equazione, che

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in Lacan esprime il soggetto in quanto linguistico, venga ad iscriversi in quella attraverso cui si formalizza il discorso del Maître. È noto come il nucleo della psicoanalisi lacaniana ed il fulcro del programma del ‘ritorno a Freud’ siano costituiti dalla centralità accordata al linguaggio. L’enunciato chiave, su cui Lacan non si stanca di ritornare anche in questo seminario6, per stigmatizzare interpretazioni che ne stravolgono il senso, è il seguente: ‘Il linguaggio è la condizione dell’inconscio’. Tale enunciato, all’apparenza constativo, discrimina secondo Lacan, il discorso psicoanalitico da quello filosofico. Prendendo distanza dal cosiddetto ‘inconscio dei filosofi’7, Lacan indica 6 Richiamandosi al saggio di Laplanche e Leclaire, L’inconscient: une étude psychanalitique (1966) (tr. it. di L. Boni, Parma 1980), in cui si sosteneva che l’inconscio fosse la condizione del linguaggio, tentando così un’interpretazione della tesi lacaniana secondo la quale ‘l’inconscio è strutturato come un linguaggio’, e riprendendo la prefazione scritta per una tesi universitaria sulla sua opera (cfr. A. Rifflet-Lemaire, Jacques Lacan, tr. it., Roma 1972, p. 14; la prefazione di Lacan è lasciata in originale nell’edizione italiana), Lacan ribadisce «che dire che l’inconscio è la condizione del linguaggio non è lo stesso che dire che il linguaggio è la condizione dell’inconscio. Il linguaggio è la condizione dell’inconscio – è questo che dico io. Il modo in cui ciò viene tradotto attiene a ragioni che potrebbero certo, nei loro particolari, essere del tutto causate da motivi strettamente universitari – e questo potrebbe certamente condurre lontano, e forse vi porterà molto lontano quest’anno. Da tali motivi strettamente universitari, dico io, deriva che la persona che mi traduce, essendo formata nello stile e nella forma d’imposizione del discorso universitario, non ha potuto far altro, pensando di commentarmi o meno, che rovesciare la mia formula, dandole così una portata che è, occorre dirlo, assolutamente contraria alla verità e perfino niente affatto omologa con quel che io sostengo» (J. Lacan, Le Séminaire. Livre XVII. L’envers de la psychanalise, cit., p. 45, tr.it., p.44). L’inversione della formula deriva, dunque, dalla necessità inerente alla forma del saggio, studio o tesi universitaria, di ricondurre l’esperienza analitica allo statuto di un sapere trasmissibile, cioè allo statuto dell’epistéme. Tale operazione avverrebbe attraverso lo slittamento dell’inconscio nella posizione di un fondamento o essere che si svelerebbero via linguaggio. Il discorso universitario elide appunto il linguaggio (anche e soprattutto quando lo insegna come scienza linguistica) come instaurazione dell’inconscio, inconscio che diviene sperimentabile, di conseguenza, solo a partire dal linguaggio: in altri termini, il discorso universitario elide la béance che solo il linguaggio introduce nell’esperienza umana. L’inconscio, infine, è solo un effetto di linguaggio. 7 Per quel che riguarda Freud è noto che il rimprovero che a più riprese egli ha rivolto al sapere filosofico concerneva l’identificazione fra lo psichico e il conscio ed il fatto che l’inconscio fosse, di conseguenza, relegato a far da indice di processi solamente fisici. Per Freud l’estensione dello psichico eccede l’ambito della coscienza, cosicché l’attribuzione della qualità psichica anche a dei fenomeni inconsci implica più o meno esplicitamente una revisione del concetto di soggettività quale perlomeno si è andato costituendo nel pensiero moderno. L’identificazione, infatti, fra il pensiero, la coscienza e l’io si rompe: includere nel territorio della psichicità, che è quanto dire della soggettività,

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come nel rovesciare l’enunciato trasformandolo in ‘L’inconscio è la condizione del linguaggio’, ne vada della psicoanalisi stessa. E ciò per due ragioni: da un lato, perché così facendo l’inconscio prende la posizione di fondamento con tutti i caratteri tradizionalmente attribuiti a quest’ultimo perlomeno nel pensiero moderno; dunque, nulla di più di una revisione interna del cogito cartesiano. Dall’altro, perché l’inconscio così inteso viene determinato concettualmente come ciò che è sempre in via di divenir conscio. Da questo punto di vista, la differen-

l’inconscio significa negare la trasparenza del cogito. Perciò per Freud l’inconscio non è soltanto uno strato preconscio della vita psichica e, dunque, in linea di diritto sempre in via di divenir-conscio, ma una regione determinata e dotata di proprie specifiche leggi dell’apparato psichico. L’inconscio indica piuttosto che qualcosa del soggetto, non riconducibile a sfere non psichiche, si è costituito indipendentemente dall’attività della coscienza, né può accedervi se non per via indiretta, quando riesca ad eludere la barra della censura. Per queste ragioni l’atteggiamento di Freud è critico non solo nei confronti di quelle posizioni filosofiche che attribuiscono all’inconscio una portata ontologica: si pensi agli accenni, disseminati qua e là nel corpus freudiano, a Schelling, ma anche rispetto a quei tentativi di costruzione di una filosofia dell’inconscio portati avanti in quegli ambiti culturali in cui il rapporto (ed il confronto) fra filosofia e psicologia andava facendosi sempre più stretto. Il riferimento è a Eduard von Hartmann e alla sua Philosophie des Unbewussten, diligentemente citata da Freud nella Traumdeutung, ma allo scopo precipuo di rilevare immediatamente la distanza che di fronte ad essa si doveva prendere. Se Hartmann riconosce all’inconscio una funzione critica nei confronti della psicologia associazionistica e la capacità di rendere conto del carattere finalistico che pertiene anche alle rappresentazioni sensibili e agli stati affettivi, però poi a proposito del sogno dice che i suoi contenuti non sono altro che le noie della veglia e non il godimento artistico e letterario, unica cosa che abbia il potere di riconciliare con la vita l’uomo colto. Freud ha gioco facile nel notare che Hartmann non vede del sogno l’elemento essenziale: l’appagamento del desiderio (cfr. S. Freud, Traumdeutung, tr. it. in Opere, cit., p. 131). Ma ciò significa un’incomprensione più radicale della natura dell’inconscio che, per Freud, ha a che fare, non con l’ambito della sensibilità e degli istinti, bensì col desiderio del soggetto: quanto dire col problema della sua stessa identità. Fin qui, ci sembra, Freud. È chiaro che quando Lacan riprende il discorso freudiano egli si trova in una situazione in cui le commistioni fra la filosofia e la psicoanalisi sono ormai avvenute; e, dunque, in una situazione in cui la psicoanalisi è stata chiamata in causa per aggiornare, modificare o rilanciare il discorso filosofico. Ma dove, tuttavia, quel che resta sintomatico è il fatto che la psicoanalisi sia stata utilizzata da filosofie di tradizione soggettivistica il cui programma, si potrebbe dire, è la revisione del cogito (si pensi a due autori con i quali il confronto è per Lacan d’obbligo: Merleau-Ponty e Ricoeur). Da qui la modifica profonda cui Lacan è costretto rispetto a qualcosa come ‘l’inconscio dei filosofi’ e rispetto anche al sapere universitario che si è impadronito, in vari modi, del discorso psicoanalitico. Da qui, infine, anche (ma insieme a molte altre ragioni) il motivo della centralità accordata al linguaggio.

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za fra conscio ed inconscio non potrebbe mai accennare a quella Spaltung originaria e costitutiva del soggetto – vero e proprio pivot, secondo Lacan, della psicoanalisi freudiana –, ma si limiterebbe ad introdurre nella coscienza una semplice differenza di grado: solo surrettiziamente la coscienza avrebbe abbandonato il suo ruolo di fondamento inconcusso. A tutto ciò, infine, non potrebbe non accompagnarsi l’inevitabile corredo contenutistico dell’inconscio filosofico, vale a dire la tesi che attraverso esso si designi null’altro che il magma istintuale ovvero la potenza delle passioni: in una parola, l’irrazionale. Potrebbe sembrare però che l’enunciato, indicando il linguaggio come la condizione dell’inconscio, si limiti semplicemente ad una diversa denominazione del fondamento: il linguaggio al posto dell’inconscio senza nessuna modifica concettuale. È qui che interviene il richiamo ad una teoria determinata del linguaggio, per quanto, come sempre, essa riprenda l’intera tradizione occidentale dell’indagine sulla natura del segno in generale: vogliamo dire, la linguistica strutturale di Saussurre. L’enunciato che l’introduce, e che risponde alla domanda tipicamente rivolta a Lacan: ‘Allora lei crede che Freud abbia anticipato la linguistica?’ – domanda esemplare dell’atteggiamento storicista – è il seguente: ‘L’inconscio è la condizione della linguistica’8. Il paradosso costituito dai due enunciati e dalla loro connessione – il linguag-

8 Che cosa indica propriamente l’inconscio? Per Lacan esso mostra «che il soggetto non sia colui che sa ciò che dice, mentre bell’e buono qualcosa si dice ad opera della parola che gli manca, ma anche nella disparità di una condotta ch’egli crede sua, tutto questo non rende facile collocarlo nel cervello, di cui sembra servirsi soprattutto in quanto questo dorme (punto che la neurofisiologia attuale non smentisce) ecco con tutta evidenza l’ordine di fatti che Freud chiama inconscio». È dalle «vacillazioni nei passi del linguaggio, in altri termini nella parola, che essa (la psicoanalisi) è stata anticipata». Allora «enunciando che Freud anticipa la linguistica, dico meno di ciò che s’impone, e cioè la formula che libero ora: l’inconscio è la condizione della linguistica. Senza l’eruzione dell’inconscio, non c’è modo che la linguistica esca dalla dubbia luce con cui l’Università, nel nome delle scienze umane, mantiene la scienza in eclissi» (J. Lacan, Radiophonie, in Id. Autres ècrits, Paris 2001, p. 406, tr. it. di G. Contri, in Id., Radiofonia Televisione, Torino 1982, p. 6; Lacan legge il testo dell’intervista radiofonica nella séance del 9 aprile 1970 del seminario sull’Envers de la psychanalise). Pensare la langue come sistema significa, non solo determinarla come ciò che sorpassa la parole, ma anche come ciò che l’interseca costantemente, di modo che il parlante non possa mai ritenersi padrone del linguaggio o, in altri termini, non possa mai sapere ciò che dice; e tale non sapere ciò che si dice (o ciò che si fa che, più appare balordo, più lo si imputa ad un cervello sognante), mai trasformabile in un sapere di non sapere, è il soggetto (della scienza).

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gio è la condizione dell’inconscio, ma l’inconscio è la condizione della linguistica – è tale appunto solo per una prospettiva continuistico-evolutiva, che riduce il movimento della storicità al nesso causale. Una scienza linguistica è resa possibile, in base al nostro assunto, solo a partire dall’instaurazione del discorso della scienza: quest’ultimo, dunque, è l’a priori di una scienza in generale. Ma se la scienza è il risultato dell’estrazione della verità dal sapere servile, anche la scienza del linguaggio deriverà dallo stesso processo. C’è, infatti, un sapere, di cui tutti siamo allo stesso titolo legittimi proprietari: siamo, in quanto soggetti appartenenti alla specie umana, dei soggetti parlanti. Siamo nel (o, per dir meglio, coincidiamo con) l’apertura del linguaggio in generale, ma ciò non significa, come diceva Goethe, che sappiamo cosa sia il linguaggio, che ne possediamo la verità. Allora, mentre il linguaggio, in cui da sempre siamo, instaura l’inconscio, l’incidenza di quest’ultimo nel soggetto parlante diviene la condizione di una scienza che tematizza lo statuto del soggetto linguistico. Se è vero che solo ascoltando il discorso dell’altro – dunque, dell’altro in quanto parlante – Freud ha estratto dalla sua parola l’inconscio, sarà vero anche che l’emergenza dell’inconscio rende possibile la comprensione scientifica della soggettività linguistica. Proviamo a chiarire tale argomentazione passando ad una esposizione della teoria saussuriana e alle conseguenze che Lacan, sulla scorta di Freud, ne trae. È noto che Saussure tematizza il linguaggio come un sistema di segni, isolato sincronicamente, e determina la natura del segno in generale come derivante dal rapporto arbitrario (e necessario insieme, come si vedrà) fra la regione dei significanti (immagini acustiche) e quella dei significati (rappresentazioni, idee). Con la tesi dell’arbitrarietà, Saussure indicava l’assenza di una qualunque istanza referenziale che decidesse in anticipo sul legame fra significante e significato. L’effetto di significazione, che, tuttavia, ed in ogni caso, pertiene al linguaggio, derivava allora dagli scarti differenziali che si davano fra i significanti stessi: la langue non è altro che il sistema (struttura) dei tratti pertinenti. Ora, se la tesi dell’arbitrarietà esclude il rimando ad un legame ‘naturale’ o ‘metafisico’ fra significante e significato, la determinazione della langue come sistema implica invece una necessità nel loro rapporto: una volta avvenuto, si potrebbe dire, l’aggancio fra i due livelli, il carattere sistematico della langue produce una forma di stabilità dei significati, una specie di quasi-biunivocità fra la sfera dei significanti e quella dei significati (quasi-biunivocità, dal momento che tende a rimuovere l’altrettanto strutturale equivocità del linguaggio;

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ma saremmo allora sul rovescio del Saussure del Cours, cioè sul Saussure degli ‘anagrammi’9. Ma non è chiaro, allora, che la necessità di cui parla Saussure è la necessità scientifica, semmai più propriamente della scienza moderna (ma qualcosa come la scienza ‘moderna’ non è reso possibile a sua volta dal discorso della scienza, del Maître)? Tale necessità non si fonda, infatti, su di un’autorità metafisica o naturalistica, bensì sulla capacità di formalizzare (mettere in sistema) le differenze – i tratti pertinenti. Le differenze non provengono a loro volta da un sapere legittimato e precostituito, ma sono estratte, una per una si potrebbe dire, dalla pratica dei soggetti parlanti. L’attenzione non viene più rivolta al loro presunto significato, bensì alla loro incidenza, cioè alla loro ricorrenza, nel flusso linguistico. Le differenze – quasi delle idee – mostrano, in quanto strutturate a coppia, il loro carattere relazionale: come differenze, da nulla giustificate, esse, allo stesso tempo, sono forme relazionali, paradigmi del legame in generale. Perché Lacan, altrimenti, avrebbe dato tanto ascolto, come Freud d’altronde, al ‘Fort-da’, se non perché esso era l’inaugurazione del sistema linguistico e del suo soggetto? E si badi: il ‘Fort-da’ non è la traduzione linguistica del rapporto ‘naturale’ fra una madre ed un bambino, o di quello ‘logico’ fra la presenza e l’assenza. No, la verità è che il ‘Fort-da’ rende possibile l’emergenza nella realtà di qualcosa come una madre ed un bambino e di una logica della presenza-assenza. La scienza non è altro che questo: messa in sistema delle differenze estratte dal sapere servile, sia poi il ‘servo’ l’intero mondo naturale o il soggetto parlante. Ora, non era tutto questo già iscritto nella scena del Menone? Lo scopo della riattivazione della memoria dello schiavo consisteva nel fare emergere attraverso il metodo dicotomico (regola dialettica del metodo confutatorio), cioè attraverso il progressivo differenziarsi della questione da cui si erano prese le mosse, una differenza – l’idea – irriducibile al metodo stesso, dunque, non ulteriormente dicotomizza9 Sugli anagrammi saussuriani si veda J. Starobinski, Le mots sous le mots. Les anagrammes de Ferdinand de Saussure, tr. it. di G. Cardona, Genova 1982. Per Saussure il rimando è, come è ovvio, al Cours de linguistique générale (tr. it. di T. De Mauro, Bari 1967), di cui Lacan rovescia letteralmente la formula del segno:

da

Significato Significante

a

Significante Significato

Su questo punto e sull’iscrizione operata da Lacan della psicoanalisi nel campo della teoria si veda lo splendido testo di J.L. Nancy e P. Lacoue-Labarthe, Le titre de la lettre, tr. it. di S. Benvenuto, Roma 1980.

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bile. Ma si ricorderà anche che il ricordo dell’idea così prodotto non poteva sfuggire ad un certo suo carattere occasionale e fuggevole. Era necessario se si voleva passare dalla differenza ideale così trovata al rango della scienza, individuare le condizioni per la ripetizione, stavolta intenzionale e non più casuale, dell’intero processo rammemorativo: tale condizione era l’istituzionalizzazione della ricerca, la creazione della scuola. Cos’altro è la langue se non l’istituzione linguistica per eccellenza? La messa in sistema, cioè la ripetibilità in linea di diritto, delle differenze – i legami totalmente formali, privi di significato – a partire dalle quali i parlanti enunciano l’infinita serie possibile di paroles? Ma, d’altronde, se le differenze – i tratti pertinenti – sono stati estratti dalla pratica – la tecnica – irriflessa del linguaggio, ossia da quel sapere sul linguaggio che ognuno di noi, senza saperlo, possiede, tale sapere non potrà definirsi che inconscio. In altri termini, al nostro essere parlanti corrisponde una spaccatura originaria – una Spaltung – che separa il nostro sapere sul linguaggio dal nostro sapere di sapere: ossia, se c’è del linguaggio, soggetti linguistici in generale, c’è dell’inconscio. Il linguaggio è la condizione dell’inconscio. Allo stesso tempo, se l’estrazione delle differenze e la loro messa in sistema sono dovute a quella spaccatura fra linguaggio e sapere del/sul linguaggio, allora: se c’è dell’inconscio, c’è della scienza linguistica. L’inconscio è la condizione della linguistica. Il movimento, come si vede, che annoda il linguaggio, l’inconscio e la scienza del linguaggio, non potrà mai essere sciolto su di una superficie piana, mai sarà rappresentabile attraverso una linea. È piuttosto un movimento circolare, di avvolgimento dell’un termine sull’altro o di rovesciamento chiastico. D’altronde la possibilità di una scienza del linguaggio presuppone comunque l’esistenza della pratica linguistica, s’iscrive, cioè, in un orizzonte, che, se da un lato la scienza contribuisce a determinare nella sua verità, dall’altro la precede infinitamente; sempre una comprensione rimanda ad una pre-comprensione e ad un pre-giudizio: che si parli e si sappia cosa si fa mentre si parla. E, dunque, se è vero che la scienza del linguaggio presuppone il linguaggio, è altrettanto vero che, presupponendo perlomeno la competenza linguistica – come Socrate presuppone la competenza calcolatoria dello schiavo – tale competenza sia paradossalmente il culmine di un non saperne niente. Essere competenti in qualcosa – il linguaggio o il pescar con la lenza – significa certo goderne – metterla in pratica e trarne il vantaggio –, ma esattamente come un cieco che cammina per strada senza cadere. Alla competenza pertiene una cecità essenziale cui supplisce, ma non certo a vantaggio

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questa volta del soggetto-supposto-sapere, la visione ideale: questa è del Maître. Col che noi escludiamo che il movimento circolare sia una variante del circolo ermeneutico: che la comprensione rimandi ad una pre-comprensione, non significa che il movimento infinito dell’interpretazione dello spirito oggettivo faccia l’andirivieni fra la scienza e il pre-giudizio, reiscriva l’atto della conoscenza nell’orizzonte storico dei saperi, parassiti il già detto. L’ermeneuta non per questo cessa d’essere un Maître: pur sempre da questo andare e venire egli estrae frammenti di verità, che se non si dispongono in un sistema di conoscenze, tuttavia lo confermano nella sua posizione di soggetto del sapere. Di tutto si potrà dubitare eccetto che della forza del dialogo: la debolezza del soggetto è la forma in cui si conserva la potenza dell’istituzione. Se, al contrario, è proprio lo spirito oggettivo, come orizzonte dei saperi e delle competenze, a mostrare il suo non sapere costitutivo, la sua natura inconscia, allora nessuna ermeneutica, per quanto avvertita, esorcizzerà la Spaltung originaria nella regola dialogica, dal momento che perché vi sia dialogo o discorso della scienza, è necessario che essa sia all’opera, che produca insieme il soggetto-supposto-sapere ed il soggetto del sapere-dell’altro. Nella scienza, cioè, la spaccatura che attraversa il sapere si riproduce nella divisione del soggetto della scienza: che esso sia diviso in due (ma in realtà in tre e, lo vedremo subito, in quattro e in non più di quattro funzioni), non ha nulla a che vedere con la ‘civile’ coppia dei dialoganti, proiezioni l’un l’altro della pura potenza del dialogo, fascio immaginario retto dall’illusione di poter coniugare sapere e godimento. Tutt’altro: la divisione spacca il soggetto in modo inconciliabile, ed è il discorso che produce tale spaccatura riesumandola dal soggetto parlante: giacché chi gode del sapere, non ne sa nulla, e chi non sa, gode del (non) sapere dell’altro. Torniamo ora a Saussure-Freud-Lacan: abbiamo chiarito il senso da attribuire al carattere scientifico del linguaggio: la langue come sistema di differenze, i tratti pertinenti, e istituzione linguistica. Ma la conseguenza di tale tesi è che Saussure si ferma alla distinzione fra langue e parole: rispetto alla langue-istituzione, la parole è solo una sua variabile, effetto casuale del gioco combinatorio. In altri termini, la parole non testimonia del soggetto parlante in quanto tale, ma solo dell’esistenza dei singoli atti linguistici; spiega la possibilità in generale degli enunciati, ma non la forma dell’enunciazione, forma che s’identifica con la funzione soggettiva. Il limite dello strutturalismo, si potrebbe dire, e con esso della linguistica saussuriana, come tentativo di applicare i criteri della scienza alle cosiddette ‘scienze umane’ dopo lo scacco delle

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tesi empiristiche ed il contemporaneo esaurirsi delle posizioni idealistico-soggettive, consiste, come si vede, nella difficoltà a render conto della soggettività, non tanto come soggetto interno all’enunciato, quanto come soggetto dell’enunciazione: funzione questa che indirettamente Cartesio aveva fatto emergere nella tesi del cogito. L’intreccio che Lacan opera fra la linguistica saussuriana e la psicoanalisi freudiana si annoda intorno alla questione del soggetto. Se è vero che il linguaggio è un sistema differenziale di segni ed un segno è la relazione fra un significante e un significato, occorrerà chiedersi se la soggettività, nei riguardi del linguaggio, sia soltanto l’indice dell’uso possibile del sistema linguistico, come formulazione di enunciati singolari. oppure se sia prima di tutto ciò che esprime se stessa come soggettività attraverso il linguaggio. Il soggetto, infatti, non sussiste prima del linguaggio (sarebbe in tal caso un fondamento e, in termini linguistici, un referente), ma esiste solo come linguistico. Se tale essenza della soggettività deve essere collegata con la scienza del linguaggio, se ne dovrà dedurre che essa sia prima di tutto un segno e, di conseguenza, costituita di significante e significato. Se accanto a ciò si terrà conto di quella conseguenza che s’accompagna alla nascita di una riflessione sul linguaggio, e cioè che il segno è tale perché sta al posto della cosa significata, la presentifica in assenza, e che, nella trascrizione scientifica di Saussure, tale potenza del segno, messa fuori gioco la cosa-referente, deve essere attribuita al significante stesso in rapporto al significato, si comprenderà che l’essenza linguistica del soggetto comporta in prima istanza che esso sia un significante, stia, cioè, al posto di (del suo significato). Da qui il decisivo enunciato lacaniano, che rappresenta l’architrave dell’intero edificio: ‘Il significante è ciò che rappresenta il soggetto presso un altro significante’. Se il significato deriva dalla differenza fra i significanti, esso occupa, per così dire, una posizione interstiziale, dal momento che solo il significante può rappresentarlo, esattamente perché esso è in un rapporto di differenza con uno/tutti gli altri significanti. Ma si può dire anche che il significato può emergere e raggiungere una stabilità soltanto se si lascia rappresentare presso gli altri significanti da un significante particolare cui si sia legato arbitrariamente. Ciò che è arbitrario da una prospettiva verticale, cioè il rapporto significante-significato che costituisce il segno, è necessario da quella orizzontale che riguarda le relazioni dei soli significanti – la langue come sistema. Se la necessità orizzontale produce il significato con il suo corredo di identificabilità stabilizzata, l’arbitrarietà verticale signi-

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fica che il significato ‘originario’ sia ciò che strutturalmente si elide. Il significato emerge, in altri termini, come risultato della langue, solo perché esso è andato preventivamente a fondo, delegandosi presso il sistema linguistico attraverso il/un significante. La formula saussuriana era dunque: Segno

=

significante significato

La trasformazione operatane da Lacan con l’interferenza del soggetto è allora la seguente: S1 S/

S2

dove S1 designa il significante delegato del soggetto, S/ il soggetto (significato) che si elide e S2, il sistema dei significanti presso cui S/ si lascia rappresentare da S1. La barra che divide S1 da S/, che come si vede colpisce il soggetto stesso, sta a rappresentare la censura, vale a dire ciò che instaura l’inconscio, rimuovendo costitutivamente il soggetto-significato a favore del suo significante. Si ricordi però che il rapporto fra il significante ed il significato è all’origine arbitrario, e che, dunque, se il soggetto ‘sceglie’, se così si può dire, dal sistema linguistico un significante, d’ora in poi abilitato a rappresentano, tale scelta, tuttavia, non si fonda su nessun legame preesistente, naturale, concettuale o simpatetico che sia (d’altronde il suo ‘senso’ potrà emergere solo ad avvenuta inclusione nel sistema differenziale dei significanti). Allora, se il soggetto è tale solo perché linguistico e se il significante per definizione non lo potrà mai esprimere compiutamente, sia perché il loro legame è arbitrario, sia perché esso non è nient’altro che un suo delegato, si comprenderà come la Spaltung dell’io sia cooriginaria alla formazione della soggettività, perché il soggetto sia strutturalmente inconscio e in che senso il linguaggio sia la condizione dell’inconscio. Non c’è inconscio animale, né l’inconscio indica la sfera degli istinti o delle passioni; l’inconscio non è un fondamento dove ciò che è ancora naturale è sempre-in-via-di-divenir-conscio, cioè umano. L’inconscio di Freud e di Lacan, difforme da quello dei ‘filosofi’, è solo quello della specie umana, ossia esso si instaura solo a partire dalla specificità dell’uomo come specificità linguistica. L’inconscio non è ciò che sta alle

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spalle della cultura, premendo per entrare, e si scontra con il guardiano che gli concede il passing solo se convenientemente depurato; piuttosto è ciò che si costituisce a partire dalla instaurazione della cultura e la segue come il suo rovescio, non la sua ombra o il suo lato oscuro, bensì semplicemente come l’altra scena: una scena illuminata a giorno10. Perché allora non lo vediamo? Più che l’appartenenza alle sfere del tenebroso e del notturno, cioè a ciò che non si dà a vedere in piena luce, all’inconscio pertiene una manifestatività che deborda la capacità della visione, un eccesso di visibilità piuttosto che la sua assenza. Se, come si deve, includeremo l’inconscio nella trama delle metafore costitutive del discorso filosofico, quali quelle della luce e della visione (da cui l’idea, la teoria etc.), se ne vedrà subito, ad esempio, la parentela con il sole platonico, immagine sensibile del Bene, ossia della fonte della legittimazione del sapere vero, principio, dunque, della visibilità in generale, sia fisica che mentale, e per ciò stesso invisibile in quanto tale; invisibile dall’occhio e dalla mente umana, non per assenza di luminosità, bensì per un sovrappiù di lucentezza il cui effetto è l’accecamento. Allora l’inconscio non si situa in un al di qua del linguaggio, non sta dietro il discorso, ma si manifesta sulle loro superfici; esso coincide con gli strappi, seppur minimi, del tessuto linguistico, con le smagliature della trama discorsiva. Lapsus, dimenticanze, sogni (non in quanto fenomeni biopsicologici, ma in quanto trascrizioni linguistiche), ma anche sospensioni afasiche del dire, costruzioni discorsive iperrazionali, ed infine parola silenziosa della paralisi corporea, ecco i grafemi del discorso dell’inconscio. Se essi sono ‘normalmente’ marginalizzati o dichiarati privi di senso, ciò non avviene a causa dell’arroganza della coscienza o dell’autoritarismo dell’io, bensì per l’elisione costitutiva del significatosoggetto a favore del significante. La caratteristica, infatti, dei grafemi inconsci non è quella di essere senza senso, ma di manifestare la Spaltung; mentre il discorso della coscienza si poggia sulla quasi necessità del sistema linguistico, producendo l’illusione della corrispondenza fra i significanti ed i significati (illusione possibile per la rimozione del fatto che i 10

«L’inconscio di Freud non è affatto l’inconscio romantico della creazione immaginante. Non è il luogo delle divinità della notte. A tutti questi inconsci, sempre più o meno affiliati ad una volontà oscura considerata come primordiale, a qualcosa prima della coscienza, ciò che Freud oppone è la rivelazione che a livello dell’inconscio c’è qualcosa di omologo in tutti i punti a ciò che avviene a livello del soggetto – che c’è qualcosa che parla e che funziona in modo altrettanto elaborato che a livello del conscio, che perde così quello che sembrava essere il suo privilegio» (J. Lacan, Les quatre concepts fondamentaux de la psychanalyse, Paris 1973, pp. 26-27, tr. it. a cura di G. Contri, Torino 1979, pp. 25-26).

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significati sono il risultato delle relazioni tra i significanti), quello dell’inconscio dà a vedere il gioco del significante e l’arbitrarietà del suo rapporto col significato. L’inconscio dice al soggetto che egli non è altro che quel significante che insiste nella trama linguistica e col quale si delega presso gli altri significanti, restando costantemente fuori gioco. In altri termini, l’inconscio ricorda al soggetto, contro l’illusione della coscienza di corrispondere ad un significato, che egli non esiste se non come significante arbitrario, che non ha altra consistenza, altra ‘sostanza’ (ed essenza) al di là di quelle linguistiche; che egli è, infine, solo questa spaccatura e questa scissione, questo vuoto (béance), che egli coincide, cioè, con la barra che separa S1 da S/. Il soggetto non sta, dunque, prima del linguaggio come fondamento ora chiaro e distinto, ora oscuro e caotico, ma viene instaurato dal linguaggio stesso come il suo limite interno, la sua irriducibile differenza. Mai il linguaggio potrà dire il soggetto in quanto ‘cosa’ (significato), e ciò perché il soggetto non è alla maniera della cosa che è, bensì esiste come ‘mancanza ad essere’, cioè come un ‘ammanco’ (manque) nell’essere, propriamente un ‘buco’ (così come si dice che c’è un ‘buco nel bilancio’); non, dunque, come privazione d’essere, ma come desiderio d’essere – costitutivo ‘v(u)oto’ d’essere. Torneremo sul tema del desiderio come voto, che solo colui che non è al modo delle cose, il soggetto umano, può provare. Si tratta ora di comprendere quale conseguenza comporta il fatto che il soggetto, sebbene sia rappresentato presso il resto del sistema linguistico da il/un significante, debba essere identificato in realtà con la barra che separa S1 da S/ e che, come si vede, attraversa il simbolo stesso del significato. Ancora una volta se provassimo ad applicare il dispositivo scenico presente nel testo platonico, saremmo facilmente portati ad immaginare che il dialogo fra Socrate e lo schiavo sia accompagnato da un gesto di scrittura: Socrate iscrive silenziosamente le figure su cui verte il processo della reminiscenza. Dovremmo vedere gli sguardi di Socrate e dello schiavo spostarsi alternativamente dall’interlocutore ad una superficie, non importa di quale materiale, su cui vengono formandosi le figure geometriche. Tale presenza della ‘scrittura’ all’interno del dialogo può anche apparire indifferente. Lo sembrerà di meno se si ricorderà che il Menone è il dialogo in cui si pone la questione della scienza, cioè del sapere vero e della sua trasmissibilità; che esso ha escluso che la verità si dica e si trasmetta in un discorso tradizionale e che la sua conclusione è piuttosto questa: il vero (ossia ciò che traduce il sapere in scienza) non è ciò che si enuncia in un discorso, bensì ciò che si

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rammemora attraverso il discorso. Il discorso è la via attraverso la quale emerge la verità – l’idea – come differenza irriducibile; sostenere, dunque, che esiste un discorso della scienza significa che la verità non è il detto del discorso, bensì il limite del suo dire. Ed, infatti, la verità così ottenuta risultava occasionale e fortuita, nulla la predisponeva alla ripetibilità. A tale problema rispondeva, come si ricorderà, l’istituzione della scuola. Ma ora siamo in grado di fare un passo in più: nessuna scuola e, dunque, nessuna trasmissione sarebbero possibili se non si fosse trovata preventivamente una modalità per rendere iterabile la differenza ideale. Ora, che cosa nel dispositivo concettuale platonico possiede le caratteristiche della ripetitività e della archiviazione mnemonica? La scrittura. Soltanto scrivendosi la verità supera l’effimero che altrimenti la sommergerebbe. Certo questa memoria è dichiarata di secondo grado rispetto a quella attivata nella reminiscenza; essa non è originaria, non va in cerca della verità. Si limita ad archiviare il già ricordato, il già prodotto dalla memoria viva, dal dialogo ‘faccia a faccia’ delle coscienze. Ed insieme la scuola subito ricopre ciò cui deve la sua stessa esistenza: essa è l’istituzionalizzazione del dialogo, né una biblioteca né un museo. Ma c’è un’altra ragione che spiega la necessità del supplemento della scrittura. Se, infatti, la verità – l’idea – è la differenza irriducibile al dialogo, al discorso, sebbene solo attraverso di essi sia producibile, e se può divenire al massimo il punto di partenza di un successivo discorso, essa è, allora, fuori/il fuori della dicibilità. Non che partecipi di una regione iper-uranica – un ennesimo mythos nel logos –, semplicemente non è oggetto di discorso, non è un enunciato. Come si potrebbe, infatti, concatenare in una frase ciò che si definisce differenza irriducibile? Come dis-correre di ciò che è irrelato, che non si relaziona ad altro? Che è, anzi, la relazione, il rapporto, il nesso, il legame a partire da cui un discorrere è possibile? La verità è al più ciò che permette di concatenare un discorso ad un altro discorso, mai ciò che si concatena in un discorso. Ma cosa vuol dire che la verità sia extra-discorsiva nel modo non religioso, non poetico e non retorico che abbiamo visto? Significa che essa è incommensurabile al discorso, cioè è l’incommensurabile d’ogni discorso possibile. Ora, quale era l’idea che lo schiavo ricordava nel processo della reminiscenza? L’incommensurabilità della diagonale. La conoscenza (mathema) che veniva prodotta era una misura a sua volta non misurabile, un numero ir-razionale, perché origine della misura stessa: una verità non discorsiva. A maggior ragione si pone, dunque, il problema

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della sua iterabilità, giacché come ripetere ciò che non è dicibile ora e mai in un discorso, come archiviare ciò che non ha parola che corrisponda al suo significato? Attraverso un segno scritto. Proprio perché la scrittura è per definizione estranea alla necessità della parola sonora di corrispondere senza equivocità al significato dettato dall’anima, essa può sopportare di mostrare il senza voce, l’indicibile dei discorso, la non misura che è insieme misura assoluta. Dal che deriva che la scienza, pur producendosi soltanto in un discorso, si sia fin dal principio identificata con la possibilità della costruzione di una scrittura logico-matematica, che riducesse ad un numero finito di elementi semplici la complessità del reale, ed abbia manifestato la sua potenza nella sola capacità della manipolazione di tali segni, condotta secondo le regole del calcolo razionale11. Si può spiega11 «Il sapere del padrone si produce come un sapere interamente autonomo dal sapere mitico ed è quel che si chiama scienza (…) Essa si basa sulla conservazione di un’unità che non è altro che una costante e che è sempre ritrovata nel conto (…) di una manipolazione di cifre, che sarà definita in modo tale da fare comunque apparire nel conto questa costante. Ecco ciò che supporta ciò che, al fondamento della scienza fisica, chiamiamo energia». L’unico mito del discorso del Maître, mito, d’altronde, ultra-ridotto come dice Lacan, è che il soggetto sia preso come «identico al suo proprio significante»; tale mito rende affine il sapere del Maître al sapere matematico (e la matematica è, per suo conto, la scienza tout court). Il soggetto, infatti, si rappresenta da solo, senza aver bisogno di un discorso mitico che gli dia le sue relazioni. È per questo che la matematica «rappresenta il sapere del padrone essendo questo costituito su leggi diverse da quelle del sapere mitico». La matematica si costruisce sul fatto che «il significante possa significare se stesso. La A che scrivete una volta potrà essere significata attraverso la ripetizione della medesima A. Ora, questa posizione non può essere assolutamente mantenuta, costituendo un’infrazione alla regole rispetto alla funzione del significante, il quale può significare tutto tranne appunto se stesso. È proprio di questo postulato iniziale che bisognerà sbarazzarsi perché possa inaugursi il discorso matematico» ((J. Lacan, Le Séminaire. Livre XVII. L’envers de la psychanalise, cit., p. 102-103, tr. it., p. 107-108). Lacan esprime il piccolo mito del discorso del Maître (e del sapere matematico) anche in un altro modo; si dia ad esempio un enunciato del tipo: «Ho tre fratelli: Paolo, Ernesto ed io». Il suo aspetto paradossale consiste in questo: quell’unità che io sono ritorna sempre nel conto, una volta al livello dell’enunciato, un’altra a quello dell’enunciazione. Come nota Lacan: «prima sono contati i tre fratelli, Paolo, Ernesto e io, poi c’è io al livello in cui si dice che devo riflettere il primo io, vale a dire io che conta» (J. Lacan, Les quatre concepts fondamentaux de la psychanalyse, cit. p. 24, tr. it., p. 22). In altri termini, l’io che conta è insieme un’unità nel conto e il mito del discorso si costruisce a partire dalla confusione fra l’io dell’enunciazione e l’io dell’enunciato, fra l’unità e l’uno della serie contabile. In breve, il mito d’origine del discorso del Maître è l’identità A = A, tradotta successivamente in quella io = io. Ora, il discorso mitico in senso proprio fondava, come abbiamo visto, in tutt’altro modo l’enunciatore o destinatore del racconto, distinguendolo così da ciò che contava (raccontava), senza però poter produrre un discorso vero, ossia l’epistéme. Allora se l’i-

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re, così, anche ciò che altrimenti apparirebbe un incomprensibile paradosso, e cioè che la scrittura scientifica si possa essere presentata nel corso della storia occidentale come l’unica ‘lingua’ in grado di realizzare il miraggio dell’univocità linguistica; evento che si data dal momento in cui il meta-racconto metafisico e religioso ha lasciato il posto a quello razionale come nuova fonte di legittimazione dei saperi scientifici. Quando Lacan, allora, ricorda che la barra non è altro che il segno minimo d’ogni scrittura, l’asta che faticosamente e ripetutamente ci costringono a disegnare quando impariamo a scrivere, indica con ciò che il soggetto non si dice, ma solamente si scrive. Proprio perché si parte dalla scienza del linguaggio, che ha già per suo conto ridotto la parola viva ad un sistema differenziale di segni, e proprio perché il soggetto, se vuole dirsi (e non può non dirsi), si dice solo attraverso il significante (pura differenza sonora) delegato a rappresentarlo, proprio per questo è extra-linguistico. Ma certo non al modo mistico-religioso, poetico-letterario e peggio ancora passionale-istintuale, bensì in quanto scrittura, esprimibile, cioè, solo attraverso il supplemento necessario del linguaggio, ciò che costituisce il suo rovescio ovvero il suo bordo interno. terabilità del significante, dell’uno o della barra, è ciò che rende possibile qualcosa come il sapere matematico, ciò avviene alla sola condizione d’infrangere il postulato fondamentale del linguaggio secondo il quale un significante può significare tutto eccetto se stesso: come a dire che il significante del soggetto non entra nel conto (racconto). D’altra parte se è vero che il significante significa il soggetto, allora la sua iterabilità è l’indice, nel discorso psicoanalitico, piuttosto della impossibilità da parte del soggetto di dirsi nel discorso (se non in un semi-dire) e viene a rappresentare, dunque, qualcosa come una ‘commemorazione’ di ciò che proprio il discorso del Maître e il sapere matematico, una volta dissolto il sapere mitico, hanno reso strutturalmente perduto. Dice Lacan: «La ripetizione è la denotazione precisa d’un tratto che nel testo di Freud ho circoscritto come identico al tratto unario, al bastoncino, all’elemento della scrittura – d’un tratto che commemora l’irruzione del godimento» ((J. Lacan, Le Séminaire. Livre XVII. L’envers de la psychanalise, cit., p. 89, tr. it., p.92). Il soggetto è significato da un tratto minimo, la barra o asta della scrittura, in cui risiede il suo esser l’uno e ‘uno’, la cui ripetizione o insistenza nel discorso fa da supplemento del godimento. Se il godimento del narratore mitico stava nella ripetizione, nel senso però che egli non valeva come soggetto e poteva, dunque, essere sempre contato nella serie dei narratori autorizzati di cui faceva parte per aver assunto la posizione di destinatario, quello del M’être risulta, invece, sbarrato proprio per il fatto che egli s’illude d’essere l’origine assoluta del discorso, identico appunto a ciò attraverso cui si significa, insieme colui che conta e colui che è contato. Per questo il godimento gli si darà solo quando egli si trovi destituito dal suo rango di M’essere e, di conseguenza, come resto del discorso del Maître. Sul rapporto fra la logica, la matematica ed il sapere analitico e in particolare sui concetti di marca, mancanza e zero, si veda AA.VV., Cahiers pour l’analyse, tr. it. di R. Balzarotti, Torino 1972.

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Come un numero ir-razionale, come l’incommensurabilità della diagonale, così il soggetto è iterabile soltanto se scritto. Se esso esiste (ed insiste) nel linguaggio attraverso la ripetitività del significante che lo rappresenta, allora si mostra come verità extra-linguistica, cioè come significato, proprio nella iterabilità della barra, cui non è attribuibile altra modalità d’essere al di fuori di quella della scrittura. Così la barra si sposta e da segno della separazione fra il significante ed il significato, va ad attraversare in diagonale il simbolo del soggetto, sia per indicare che quest’ultimo non è se non scisso, sia perché solo la barra, come tratto di scrittura, è in grado di mostrarlo. È tempo ormai di vedere in che modo si intrecciano nella psicoanalisi lacaniana il soggetto linguistico e la legge del discorso. Possiamo anticipare fin d’ora che l’equazione del discorso del Maître agganciandosi a quella della soggettività linguistica produrrà la formula dell’economia (del desiderio) del soggetto epistemico. Ricordiamo, dunque, le posizioni standard del discorso della scienza o discorso del Maître: posizione dominante

posizione dell’altro

posizione della verità se ora noi sovrapponiamo al discorso del Maître lo schema della soggettività linguistica, S1 S/

S2

avremo che il significante del soggetto va in posizione di Maître, il sistema linguistico in quella del servo (altro) e S/ in quella della verità. Se il soggetto è ciò che si rappresenta presso il sistema linguistico attraverso il/un significante, restando costitutivamente eliso, quel che egli desidererà essenzialmente sarà di sapere la verità su se stesso; a chi o a che cosa potrà rivolgersi se non all’insieme dei significanti da cui per differenza deriva il suo significato, dal momento che egli nel linguaggio non esiste che come rappresentato da il/un significante? Ma domandare da parte del soggetto intorno alla verità di sé, non consisterà forse nel far passare il sapere di sé al rango di sapere vero, cioè di scienza? E allora quale struttura discorsiva è stata elaborata nella storia occidentale – la storia della ‘scienza’ (episteme) –‘ se non quella che abbiamo definita il discorso del Maître?

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Sarà ormai chiaro che quando noi parliamo del discorso della scienza e soprattutto del soggetto, usiamo questi termini nel senso loro conferito dalla tradizione filosofica occidentale (l’unica, d’altronde, che presenti qualcosa come la filosofia ed il soggetto epistemico): noi parliamo della scienza come di quel discorso (logos) che ha di mira la verità (e che si differenzia, come abbiamo visto, da tutti gli altri tipi di discorso), e del soggetto o, come nel pensiero antico, quale soggetto logico dell’enunciato (vero, falso: ciò lo deciderà il discorso scientifico), la cui conoscenza si ottiene attraverso il suo concatenamento con un predicato, cioè una qualità o genere; o, ed è il soggetto nel senso moderno, quale soggetto dell’enunciazione, certezza apodittica di sé, marca della dicibilità e pensabilità in generale, nel senso che, qualunque sia l’enunciato, fosse anche quello del dubbio iperbolico, resta vero che il soggetto è certo di sé come di ciò a partire da cui è resa possibile la totalità degli enunciati. Soggetto, dunque, appartiene alla serie linguistico-concettuale: upokeimenon, substantia, cogito, ‘io penso’, ‘io puro’, Geist, Erlebnis, coscienza intenzionale. Il soggetto, sia nel senso della metafisica antica, sia in quello della moderna ontologia soggettivistica, occupa sempre il posto del fondamento (che è d’altronde il suo significato letterale: ciò che sta sotto, che regge: l’edificio del discorso), vale a dire del fondamento della scienza (episteme) che, come sappiamo, significa, dal suo canto ‘star sopra’, controllare la congerie dei fatti e dei discorsi sempre poggiando, tuttavia, su di un solido fondamento, ossia sul soggetto stesso. E fin qui nulla di nuovo. Ciò che è decisivo è che tutto il senso del programma lacaniano del ‘ritorno a Freud’ consista nell’attribuire alla psicoanalisi, non solo lo statuto di un discorso scientifico, ma anche e soprattutto nell’individuare quale suo oggetto la stessa soggettività. In altri termini, la psicoanalisi è la scienza del soggetto logico-epistemico, vale a dire il discorso, possibile solo all’interno della tradizione occidentale, che ha di mira la verità del soggetto della scienza. Si comprenderà allora perché la psicoanalisi freudiana non sia una psicologia: essa non studia il soggetto psicologico, cioè quella serie di complesse stratificazioni che vanno dalla percezione alla memoria, dalla ricostruzione genetica del processo di apprendimento alla sfera generale della affettività, bensì il soggetto che è impegnato nella determinazione della verità logica degli enunciati e, di conseguenza, nella verità di sé come soggetto logico dell’enunciazione. Si potrebbe dire che, mentre la psicologia ricostruisce la genesi empirica degli enunciati, qualunque essi siano: constativi, prescrittivi, valutativi etc., ed il suo metodo, scientifi-

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co anch’esso ma derivato, è quello induttivo-congetturale, la psicoanalisi freudiana12 guarda alla ‘genealogia’ della verità. Da questo punto di vista la psicoanalisi freudiana risulta imparentata, più che alla psicologia, alla tradizione filosofica moderna, a quella tradizione, cioè, che pone la questione dello statuto del soggetto logico della verità. Ma ciò che caratterizza in modo inequivocabile il discorso psicoanalitico rispetto a quello filosofico, è l’aver legato la questione del soggetto logico-epistemico alla dialettica del desiderio, indipendentemente da ogni mediazione psicologistica. Per chiarire questo punto, e cioè in che modo si possa (e si debba) parlare di un desiderio non psicolo12 Se insistiamo sull’aggettivazione – freudiana – è perché, come è noto, la storia della psicoanalisi presenta posizioni ben diverse da quella lacaniana; posizioni che alla luce di quanto qui si va avanzando dovrebbero essere bollate come ‘psicologiche’: tutta la psicoanalisi dell’io, ad esempio, perenne oggetto della polemica lacaniana. Ci sembra comunque che una storia della psicoanalisi non possa farsi secondo il modello di una storia delle idee: essa è possibile soltanto come storia dell’istituzione psicoanalitica. Come storia, cioè, dell’istituzione insegnante rivolta alla trasmissione del sapere e dell’esperienza analitici e, dunque, alla formazione dei soggetti di tale sapere. Il carattere conflittuale e disseminato della storia dell’istituzione, la serie dei ‘tradimenti’, delle esclusioni, delle scissioni e secessioni, come, d’altronde, dei ‘ritorni a’, non sarebbero così un aspetto accidentale della trasmissione del sapere analitico, bensì la modalità propria con cui un nucleo di verità si dispone alla sopravvivenza. Da questo punto di vista l’istituzione psicoanalitica svolge rispetto al discorso freudiano lo stesso ruolo che l’istituzione universitaria ha nei confronti del sapere scientifico: una delle tesi che si cerca di sostenere in questo lavoro è proprio che l’analisi della tradizione filosofica dovrebbe essere condotta attraverso la decostruzione dell’istituzione insegnante, intesa quest’ultima quale unica base autenticamente ‘materalistica’ del sapere. Piuttosto che il riferimento all’extra-testuale – politico, economico, storico o sociologico –, per una storia del sapere filosofico dal punto di vista materialistico dovrebbe valere il rapporto immanente fra il discorso della verità e la sua trasmissione istituzionale. Il discorso insegnante, come luogo istituzionale, cioè come ciò che rende visibile l’istituzionalità in quanto tale del sapere, sarebbe allora il territorio proprio da cui si potrebbero evincere la politicità, e con essa la storicità e l’economicità, che pertengono al sapere in quanto tale. C’è, dunque, una politicità propria del sapere che non ha bisogno per essere colta del richiamo ad una forma qualunque di fuori-testo: un sapere è prima di tutto una strategia discorsiva, retta da una certa economia, istituente delle gerarchie, delle inclusioni e delle esclusioni e rivolta nella sua stessa costituzione ad imporre il proprio tramandamento. Nel caso della psicoanalisi come non vedere che l’istituzione si fonda sulla gestione valorizzante dell’eredità di Freud? Gestione che inevitabilmente può passare anche attraverso il tentativo della cancellazione del debito che ogni psicoanalista contrae col nome del padre – Freud – in nome del quale si legittima di fatto a proseguirne l’opera anche là dove si disponga a tradirla. Non è tutto questo stranamente simile al rapporto di filiazione che il filosofo intrattiene necessariamente con il pensiero platonico? Non si è presi comunque – psicoanalista o filosofo – nella legge antinomica del tramandamento? Su questi punti si veda J. Derrida, Speculer – Sur ‘Freud’, in La carte postale, cit.

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gico, vale a dire del desiderio puro del sapere – di ciò che Nietzsche avrebbe chiamato la ‘volontà di verità’ –, noi percorreremo una via, da Lacan stesso indicata, in cui il discorso del Maître è esplicitamente instaurato a partire dalla realtà del desiderio: la figura hegeliana della ‘Signoria-servitù’. Tale figura che si presenta, si potrebbe dire, come il terminale della storia filosofica inaugurata dalla scena del Menone, illumina il retroterra della costituzione della relazione di comando. Mentre, infatti, una buona parte delle considerazioni fatte a proposito del dialogo platonico valgono anche per il testo hegeliano – ad esempio: il sapere è sempre il sapere dell’altro; solo il servo possiede la verità di cui il signore è in cerca; e solo il contrasto fra il sapere di non sapere del signore e il sapere inconscio del servo produce la verità –, quel che di specifico quest’ultimo aggiunge alla relazione Maître-servo è il desiderio quale genealogia della verità. Prima di istituirsi come pura contemplazione teoretica dell’oggetto, il soggetto è Begierde: l’autocoscienza in quanto primariamente vita – coscienza vivente – si appropria dell’oggetto consumandolo. Dalla Begierde e dalla sua soddisfazione, la coscienza ricava la riconferma della sua identità con sé e della sua indipendenza (Selbständingkeit). Ma l’autocoscienza è, oltre che vita, anche coscienza di sé come coscienza vivente; questa duplicazione cambia lo statuto del desiderio, lo istituisce come desiderio propriamente umano. Un primo tratto del discorso hegeliano salta subito agli occhi già da queste poche battute: il soggetto è scisso. Scisso rispetto al mondo, cui lo lega soltanto il bisogno; scisso rispetto a se stesso a causa della differenza fra il Selbst e la Bewusstein. Ora, il desiderio che costituisce il soggetto è desiderio di ripristinare l’identità con sé, messa in pericolo dalla potenza dell’esteriorità: come coscienza vivente, il soggetto lo realizzava attraverso l’appropriazione – incorporazione – dell’oggetto. Ma per l’autocoscienza l’oggetto è già mediato dal lavoro del sé: esso allora non è più un’esteriorità più o meno disponibile, che basterebbe afferrare per vedere ricomposta la propria identità. L’oggetto, ora, è a sua volta qualcosa di spirituale ovvero l’oggetto della coscienza è il ‘sé’ stesso. Esso ha la forma di un’alterità, ma di un’alterità autocosciente. Allora il desiderio non si rivolge più ad un oggetto semplicemente vivente, bensì ad un’altra autocoscienza da cui attende la riconferma della propria identità, posta in bilico, ora, non dalla semplice esteriorità in generale, ma da un’alterità che porta i tratti della più vertiginosa somiglianza. Hegel ha in tal modo operato un passaggio dalla scissione del soggetto alla pluralità delle autocoscienze, come se la differenza che ineri-

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sce al soggetto si propagasse producendo l’insieme delle relazioni intersoggettive. Ma ciò che conta è che il carattere contraddittorio della differenza fra il Selbst e la Bewusstein, vale a dire quell’avvertimento doloroso della mancanza, che riprende ad un più alto livello quello del bisogno della coscienza vivente, trapassa a regola della formazione dell’inter-soggettività. In altre parole, fra le autocoscienze si apre originariamente un conflitto, giacché esse mirano, ciascuna per sé, e tutte contemporaneamente, al ristabilimento della propria identità; e se il desiderio d’identità, cioè di riappropriazione dall’alienazione nell’alterità del sé, può essere soddisfatto solo da un’altra autocoscienza, ne deriva allora che il riconoscimento non potrà mai essere simultaneo e reciproco. L’autocoscienza riconoscente, infatti, sarebbe costretta a rinunciare alla propria identità con sé a beneficio dell’altra, dal momento che il sé – lo spirito – è ciò che è ad entrambe comune. In conformità al carattere scisso e contraddittorio del soggetto, ed a partire da esso delle relazioni fra le autocoscienze, il desiderio, come già abbiamo anticipato, cambierà statuto. La Begierde da puro avvertimento della mancanza al livello della coscienza vivente, semplice spinta istintuale al soddisfacimento, dovrà divenire desiderio dell’altro in quanto soggetto. Ma non è questo il tratto decisivo: in questo salto – non logico ma appunto desiderante – dal vivente in generale alla determinazione autocosciente, il desiderio riceverà lo stesso carattere contraddittorio che colpiva la soggettività. Esso sarà a sua volta scisso o, per dir meglio, costitutivo della scissione del soggetto: la Begierde spaccherà il soggetto nei due versanti della Bewusstein e del Selbst, del sapere di sé e del godimento, ed, infine, renderà dissimetriche e conflittuali le relazioni fra le stesse autocoscienze. Il desiderio, infatti, originatosi dalla distanza apertasi fra la coscienza vivente e l’autocoscienza, si dicotomizzerà nei due poli della vita e del riconoscimento. Ma ora nessuna identità semplice con sé sarà in grado di ricomporre la separazione. Vita e riconoscimento si presenteranno come estremi non immediatamente conciliabili: all’autocoscienza non resterà che scegliere: o l’una o l’altro. Se, come dice Hegel, l’operare dell’una autocoscienza è anche l’operare dell’altra, se, cioè, tutte le autocoscienze, contemporaneamente, mirano al riconoscimento, allora l’esito di tale conflitto generalizzato non potrebbe essere che la morte comune. La neutralizzazione del conflitto sarebbe prodotta da una comune rinuncia: col che la storia dello spirito si estinguerebbe prima ancora d’essere cominciata. È qui che la vita riprende i suoi diritti; ma a quale prezzo? Di fron-

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te alla morte, padrone assoluto, dice Hegel, dei soggetti – o piuttosto nome di quella negatività che scinde il soggetto da se stesso –, una delle autocoscienze alza le mani in segno di resa. Fra i due poli del desiderio sceglie quello della vita e rinuncia a quello del riconoscimento: ecco l’origine della servitù. E si noti la lucidità di Hegel: la servitù è logicamente anteriore alla formazione della signoria. Rispetto, come avrebbe detto Bataille, alla possibilità di una comunità di soli sovrani – tutte le autocoscienze riconoscentesi l’un l’altra contemporaneamente –, di cui ben presto si rivela l’insostenibilità, la signoria in senso stretto è derivata, è il risultato della servitù: la signoria è un’istituzione della servitù. Un’istituzione appunto: non è questa la risposta di Hegel? Di fronte al conflitto generalizzato, prodotto dal desiderio di riconoscimento, la via d’uscita, tale da evitare l’estinzione della storia, è l’istituzionalizzazione della differenza e della contraddizione, la costituzione dei ruoli – signore, servo–, provvisori certo, e tuttavia tali da mediare il desiderio, non mediatizzabile in se stesso, del riconoscimento. Cosa si mostra in prima istanza nella figura servile? Da un lato che il soddisfacimento – il godimento – del desiderio di riconoscimento, è differito; che, anzi, è tale differimento ad instaurare il servo: la messa a freno del desiderio, in nome del piacere di restare in vita, è, se così si può dire, l’a priori della servitù. Dall’altro che il signore uscito dalla lotta non è nient’altro che quell’autocoscienza che, essendo stata riconosciuta, gode del desiderio realizzato. Se il servo si reimmerge nel piacere della vita, il signore gode del sapere di sé. Era quanto accadeva nel Menone: anche là al servo toccava il piacere derivante dall’esercizio del sapere – quel saperci-fare che per l’uomo equivale a saper vivere –, mentre al Maître spettava il godimento della verità di sé come soggetto della scienza. Ma è qui che Hegel aggiunge, non il semplice rimando al desiderio, bensì la consapevolezza del suo carattere dialettico – dicotomico appunto. Ora, la dialettica del desiderio si mostra già nel fatto che alla lunga i ruoli saranno rovesciati; lo avevamo detto: essi erano soltanto provvisori. Giacché il servo, differendo il desiderio, resta in contatto col ‘mondo della vita’, lo lavora, accumula sapere e con esso potenza. D’altro canto, il signore gode del prodotto del lavoro del servo – del plusvalore –, ma proprio per questo ne dipende; mancando di un rapporto diretto con l’oggetto, egli come forma pura dell’identità con sé, diviene progressivamente un guscio vuoto la cui inutilità si fa ogni giorno più patente. La dialettica del desiderio produce allora una lenta corrosione delle relazioni di comando fino al punto di un totale rovesciamento. Per Hegel questo processo va nella direzione del sapere assolu-

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to dell’idea, il cui supporto nella realtà effettuale è lo stato come realizzazione etica del desiderio d’eguaglianza. Per Lacan, sulla scia di Bataille, la ‘rivoluzione’ che trasformerà in signore il servo, non toglierà che il nuovo signore resti un servo rimosso. Che Lacan opti per la seconda soluzione significa che il suo sguardo resta fisso sul carattere disgiuntivo del desiderio piuttosto che lasciarsi distogliere dalle possibilità di mediazione: esse, per lo psicoanalista, restano sintomi, vale a dire formazioni di compromesso – formazioni reattive avrebbe detto Nietzsche. Se la figura hegeliana della ‘Signoria-servitù’ ha un senso, esso riposa sull’individuazione del desiderio come dicotomia irriducibile, come differenza ultima la cui struttura è il differimento, ma che continua a manifestare la sua opera attraverso la scissione del soggetto: giacché quest’ultimo, se mira al godimento, non ne saprà nulla, e se vuole saperne dovrà differirlo. Occorrerà, ora, determinare più dappresso lo statuto del desiderio secondo Lacan e comprendere attraverso quale itinerario il pensiero hegeliano entri a far parte del suo discorso. Non c’è dubbio, infatti, che la tesi per cui la figura hegeliana della lotta per il riconoscimento ed il suo sbocco nella relazione signore-servo rappresentano la descrizione fenomenologica della formazione del soggetto e delle relazioni intersoggettive pensate a partire dal desiderio, sia, forse, soltanto una vicissitudine ermeneutica del testo hegeliano. Ed è possibile allora che già nella ricostruzione che ne abbiamo tentato siano state anticipate, con un classico esempio di precomprensione, le linee interpretative che Lacan vi sovraimpone. Ma tant’è: ciò che guida la nostra riflessione è il tentativo di delucidare il senso del programma lacaniano quale si evince dalla teoria del discorso del Maître. È d’altronde noto – né Lacan lo nasconde – che l’interpretazione di Hegel è mediata, in primo luogo, dalla lettura che Alexandre Kojève ha condotto della Fenomenologia dello spirito e del pensiero hegeliano in generale, e, in secondo luogo, sebbene in modo meno esplicito, dalla riflessione di Georges Bataille. La (mis) interpretazione di Kojève è dovuta, fra l’altro, a ciò che si potrebbe definire un effetto di traduzione: la resa, cioè, nel passaggio dal tedesco al francese, della Begierde con désir13. Per Kojève si tratta13

Cfr. A. Kojève, Introduction à la lecture de Hegel, Paris 1947, in particolare per il tema del désir, pp. 11-14, tr. it. a cura di G. Frigo, Milano 1996, pp. 17-21. Per le pagine hegeliane sulla figura della lotta delle autocoscienze cfr. G.F.W. Hegel, Phänomenologie des Geistes, cit., pp. 153-164. Commenta Hyppolite: «In francese noi abbiamo tradotto il termine tedesco Begierde usato da Hegel con désir e non con appétit. Il fatto è che questa Begierde contiene più di quanto non sembri a tutta prima: pur confondendo-

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va, forse, semplicemente di evitare il possibile appiattimento del termine tedesco sullo spettro semantico dell’istinto e del bisogno naturale, dimenticando il carattere spirituale, riferentesi, cioè, alla sfera dello spirito inteso come quell’io che è noi e noi che è io’ che, certamente, Hegel vi affidava. Ma al di là delle forzature che Kojève finiva per operare del dettato hegeliano, l’effetto di traduzione ha implicato conseguenze di più vasta portata. Se il termine Begierde va correttamente inteso nel senso dell’appetito e/o della concupiscenza (traduzione, non a caso, di de Negri), con il quale si fa riferimento ad una pulsione del vivente già lavorata dalla coscienza e pronta, dunque, a trapassare nell’autocoscienza (e forse Hegel ha in mente la triade spinoziana, conatus, appetitus, cupiditas), la traduzione con désir scatena una tutt’altra sequenza semantica. Désir, ed il suo derivato italiano desiderio, discendono dal latino desiderium; ma desiderium significa letteralmente ‘aver cessato di contemplare gli astri a scopi augurali’ o, in altri termini, l’essere stati privati della protezione delle stelle. Desiderio designa, dunque, la condizione umana come caratterizzata da un disastro: l’uomo si trova espulso da una situazione originaria in cui la sua vita era determinata, e dunque salvaguardata, dalla potenza degli astri. Ora, che si sia cessato di contemplarli a scopi augurali, vuol dire che una frattura si è venuta a creare fra l’uomo e le stelle: interrogarle è divenuto un gesto temerario e forse inutile: giacché esse o restano mute o peggio, come l’oracolo di Delfi, danno risposte ambigue. Desiderio, allora, designa sì uno stato di mancanza, ma non nel senso dell’avvertimento del bisogno naturale la cui soddisfazione è regolata da un apparato istintuale; desiderio non è la brama, termine che, derivando da una radice alto tedesca che significa ‘muggire’, rimanda alla voce o al grido animale intesi come segnali di uno squilibrio fra l’organismo ed il suo ambiente, tanto violento da comportare un dolore insopportabile. Piuttosto il desiderio connota una mancanza essenziale che attiene all’essere umano in quanto tale: come dice Lacan ‘una mancanza ad essere’, l’impossibilità, cioè, per il soggetto umano di poter attingere quella felicità che deriverebbe dalla sempre riconquistata – perché solo scalfita dal bisogno naturale – identità con sé; quella appunto che Hegel attribuiva alla coscienza vivente. si inizialmente con l’appétit sensibile in quanto dà sui diversi oggetti concreti del mondo, reca in sé un significato infinitamente più ampio. Nel fondo in tale appetire (désir) l’autocoscienza cerca se stessa e si cerca nell’altro» (J. Hyppolite, Genèse et structure de la ‘Phénomenologie de l’Esprit’ de Hegel, tr. it. di GA. De Toni, Firenze 1972, p. 196, ma per tutta la parte riguardante la lotta delle autocoscienze cfr., pp. 173-215).

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Il desiderio o la mancanza ad essere rimandano alla scissione del soggetto. Non si tratta, dunque, dell’effetto perverso di un allontamento del pacifico mondo naturale, quanto della rottura inevitabile con la natura mitica, con il potere mitico-astrale, che, in quanto tale, è già un prodotto della cultura, chiamato ad esorcizzare la natura del desiderio. Se l’uomo de-sidera, non è tanto perché ha cessato di far tutt’uno con la natura, quanto perché è effetto di un dis-astro. La necessità divina ed astrale non governa più l’ordine del cosmo, le stelle non rispondono più alle domande degli uomini e gli auguri non sono più in grado d’interpretare i presagi che giungono o confusi od ambigui. Come diceva Plutarco, è perché Pan è morto e la natura è ammutolita, che l’uomo si trova catapultato nell’universo del desiderio e della catastrofe. Da ciò deriva quel significato secondario, ma non per questo meno decisivo, del desiderio, che consiste nel fatto che, mentre desiderare è rivolgersi al futuro, la sua soddisfazione coincide con il ripristino di uno stato che appartiene al passato: un tempo mitico perché anteriore al tempo proprio del desiderio. Quest’ultimo è governato da un movimento temporale complesso: mentre, infatti, si dispone nell’attesa del futuro, è in realtà dal passato che attende il ritorno di ciò che desidera. Allora, desiderare significa, anche, aver fede nel fatto che ciò che si ritiene perduto, sopravviva e possa ritornare un giorno a noi dall’avvenire, come se, insistendo in un altro tempo da quello della nostra coscienza, esso non solo fosse eterno, ma anche superasse d’un balzo il tempo finito dell’esistere umano e ci venisse incontro, cioè ci attendesse, nel punto d’incrocio fra il tempo e l’eternità. È facile vedere in tutto questo le tesi principali della psicoanalisi freudiana: che all’inconscio non appartenga il tempo, che la sua modalità più propria non sia la successione irreversibile, bensì la ripetizione, che il desiderio sia strutturalmente rivolto al passato. Ora, due notazioni di Lacan chiariscono la questione in modo per noi definitivo. Sono: il rimando, da un lato, alla natura dell’eros platonico e l’insistenza, dall’altro, nel ricordare che i termini usati da Freud per designare il desiderio sono il sostantivo Wunsch e il verbo wunschen14. Per 14

Cfr. J. Lacan, La direction de la cure, in Écrits, Paris 1966, p. 620, tr. it. a cura di G. Contri, Torino 1974, p. 615. Lacan richiama il termine tedesco Wunsch e l’equivalente inglese wisch per contrapporli paradossalmente al francese désir, ma solo perché quest’ultimo (come d’altronde l’italiano desiderio) viene usato per denotare la concupiscenza. I Wunscben sono, insiste Lacan, dei voti (voeux). Ma désir, come abbiamo visto, non è altro che un voto augurale privo però della protezione degli astri.

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quanto riguarda l’eros platonico si tratta in un primo luogo di rilevare come esso non designi per nulla la sfera della sessualità, concetto questo che per i greci coincideva con quello della procreazione. Eros indica, al contrario, esattamente quello stato di mancanza che attiene al desiderio: se si apre il Simposio si percepirà subito, infatti, e già dai ‘racconti’ degli altri convitati (in particolare da quello di Aristofane), che eros rimanda alla perdita irreversibile di una condizione mitica originaria in cui i soggetti non erano colpiti dalla separatezza e, in modo più specifico, dalla differenza sessuale. Essi vivevano felici in quel loro pacifico accoppiarsi privo di qualunque differenza interna: maschio con maschio, femmina con maschio, femmina con femmina. Eros, da questo punto di vista, indica allora il desiderio di ripristinare nelle condizioni finite dell’essere umano, prodotte dall’arroganza degli uomini e dalla conseguente punizione divina, un fac-simile – il rapporto sessuale – dell’unità e della felicità originarie. Ma quel che è accaduto nel frattempo è stato l’emergenza di una differenza ultima ed irriducibile: la differenza sessuale. La differenza – simbolica stavolta – ‘maschile-femminile’ verrà a tagliare trasversalmente qualunque combinazione biologica dei sessi: anche l’accoppiata maschio con maschio o femmina con femmina non eluderà la necessità di dover fare i conti con la differenza ideale, quella, cioè, non ulteriormente dicotomizzabile: la differenza extra-discorsiva. E che tale sia il carattere di eros lo si evincerà anche dalla ricostruzione della sua genealogia: figlio di povertà (penia) e di espediente (poros) esso ricorda agli uomini, che, proprio perché poveri, essi debbono imparare ad industriarsi; debbono imparare a farcela con il poco, col poco rappresentato dall’aggeggio sessuale15. Che il rapporto sessuale sia allora niente di più di un fac-simile è dovuto al fatto che, se con esso il soggetto cerca di suturare la differenza, essa si ripresenterà intatta alla fine d’ogni piacere d’organo: o, in altri termini, ‘animal triste post coitum’. 15 Il desiderio, per Lacan, non è in connessione col sesso e la procreazione; piuttosto «la nostra tradizione lo tratta per ciò che è: Eros, presentificazione della mancanza» ((J. Lacan, Le Séminaire. Livre XVII. L’envers de la psychanalise, cit., p. 87, tr. it., p. 90). Per i passi del Simposio: il racconto di Aristofane, 189c-193d; per il discorso di Diotima, 201d212c. La traduzione del Simposio consultata è quella di Franco Ferrari (con testo a fronte ed una introduzione di V. Di Benedetto), Milano 1985. Sull’eros platonico connesso alle strategie della soggettivazione si veda M. Foucault, L’usage des plaisirs, secondo volume dell’Histoire de la sexualité, Paris 1984. Sulla lettura lacaniana del Simposio sono tornato in seguito: cfr. B. Moroncini, Sull’amore. Jacques Lacan e il Simposio di Platone, Napoli 2005.

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Ma se si passa dalla frivolezza del racconto di Aristofane alla serietà nobilitante di quello di Socrate (è o non è il maestro?), che parla sotto la dettatura di Diotima (fuori-scena femminile della rappresentazione: oscenità e pornografia di qualunque scena e scrittura maschili), si vedrà come lo statuto di eros non cambi, anzi ne sia definitivamente inverato. Giacché è proprio a partire dal fatto che la protesi sessuale sia riconosciuta come tale (e solo una donna lo sa), industriosa appendice che non serve a niente, che fa da sbarramento al godimento piuttosto che veicolo, che eros trapassa da desiderio dell’altro sesso a desiderio della verità: volontà di sapere quella verità irriducibile a qualunque relazione, discorsiva o sessuale che sia. Col che si vede la parentela stretta che unisce l’eros e il discorso: giacché a che servono i bei discorsi se non a supplire l’impossibilità del rapporto sessuale? Quello ad esempio fra Socrate ed Alcibiade? Inutile fare a gara su chi si siederà più vicino a Socrate fino a toccarlo. Il Maître metterà a freno il desiderio, non per moralismo, ma per la consapevolezza che da li certo non ne verrà alcun godimento. L’arte dei bei discorsi (e il Simposio è l’unico dialogo che non proceda secondo il metodo domanda-risposta) inaugura il potere del Maître: che egli deluda il desiderio dell’altro è il mezzo col quale mira al vero godimento: sapere il sapere dell’altro, estrarre dalla techne amorosa del giovane, ma soprattutto dall’unica che abbia, senza saperlo, il sapere del godimento: la donna, la verità. Se si desidera sapere la verità – la verità del rapporto sessuale – è esattamente perché, come dice Lacan, ‘non c’è rapporto sessuale’; l’accento di eros non cade, dunque, sul sessuale, bensì sul rapporto, cioè su quella misura a sua volta incommensurabile – numero irrazionale – a partire da cui i sessi – ma allo stesso tempo i ‘generi’, le categorie – si legano secondo misure regolate, senza tuttavia poter mai abolire la differenza. Eros allora non riguarda soltanto la verità del godimento – la verità che non c’è rapporto sessuale –, ma la verità in quanto tale e, di conseguenza, la verità del soggetto della scienza: se il soggetto s’istituisce come soggetto epistemico, ciò è possibile per il fatto che egli è, in primo luogo, soggetto di desiderio16. 16 Sul desiderio, cfr. J. Lacan, Le moi dans la théorie de Freud et dans la technique de la psychanalyse, cit., pp. 259 sg, tr. it., pp. 281 sg. Il desiderio è in prima istanza spinta, pulsione (Trieb): in una parola, energia. Per questa ragione il sapere del Maître, come sapere matematico, ossia progetto di una misurazione universale fondata su misure assolute, deve elidere strutturalmente la verità del desiderio come energia non misurabile in quanto tale, ma sperimentabile solamente attraverso i suoi effetti. Di più, la dinamica energetica squilibra l’universo statico (ed omeostatico) delle misure e chiama in causa

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Ma se il soggetto entra nel linguaggio solo come significante ed accede alla legge discorsiva soltanto occupando una posizione determinata della struttura, allora il soggetto della scienza sarà ciò che nel discorso occupa la posizione del significante Maître. Essere Maître vuol dire sapere di non sapere: e ci si meraviglierà allora se eros viene definito da Socrate, per il tramite di Diotima, il demone dell’intermedio? Se eros è la cifra del desiderio della verità, è perché esso colloca il soggetto del sapere in bilico fra l’antica sapienza che credeva di possedere già il sapere ed era, dunque, priva del desiderio di cercarlo, e la totale ignoranza – o il negativismo sofista – che non sa nemmeno più cosa vuole sapere ed è, dunque, nell’impossibilità di cercarlo. Eros, invece, sa ciò che desidera, ma sa anche di non possederlo ancora; ed è così che il desiderio del soggetto s’iscrive nel discorso del Maître. La seconda notazione lacaniana riguardava l’uso freudiano dei termini Wunsch e wunschen per indicare il desiderio. Ora essi declinano il significato del desiderio nel senso dell’augurare e rimandano, dunque, al significato originario di desiderium. Ma l’augurare, a se stessi o agli altri, qualcosa di buono – alias il godimento – è reso impossibile dalla natura disastrosa del soggetto umano. A meno che egli non acceda alla regola dello scambio: rinunciare a qualcosa in vista di qualcos’altro. Fare voto di sé per ottenere ciò che si desidera: il Maître platonico faceva voto del piacere in vista della verità, quello hegeliano della vita in vista del riconoscimento. Ma in entrambi i casi, per quanto sia solo la sovraimpressione del testo hegeliano su quello del Menone a produrre tale effetto, è la rinuncia – il voto – del piacere – quello dell’esercizio delle tecniche o quello, ben più generale, della vita in quanto tale – in vista della verità a produrre il godimento. La dialettica del desiderio che Lacan estrae dalla figura hegeliana della signoria-servitù e che fa reagire sul testo platonico, lascia in tal modo intravedere un concetto, centrale già per Freud, cui Lacan, contro le interpretazioni prevalenti nel campo psicoanalitico, riconferma il posto che gli spetta: al soggetto umano, come soggetto del desiderio e un’economia del ‘la-vita-la-morte’: il rimando è ovviamente alla centralità in Freud dell’Al di là del principio del piacere, ossia al desiderio, come si vedrà, come voto di sé (morte) in nome della jouissance. Per il discorso del Maître (e per ogni discorso) la verità, allora, si dirà solamente in un semi-dire: «Il semi-dire insomma è la legge interna di ogni specie d’enunciazione della verità, e ciò che meglio incarna tale legge è il mito» (J. Lacan, Le Séminaire. Livre XVII. L’envers de la psychanalise, cit., p.127, tr. it., p. 134). Per mito si dovrà intendere l’enigma, quello della sfinge, ad esempio, cui Edipo pretende di rispondere dando misura umana all’incommensurabile: vale a dire all’uomo stesso.

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del sapere, pertiene uno strutturale essere spinto al di là del principio del piacere; o in altri termini, in corrispondenza della distinzione hegeliana fra la coscienza vivente e l’autocoscienza, corre parallela la differenza fra il piacere ed il godimento. Se l’uno è quella indipendenza o identità con sé raggiunte attraverso il ripristino dell’equilibrio con l’ambiente (equilibrio dovuto non solo alla soddisfazione del bisogno, ma soprattutto a quei saperi-tecniche – il principio di realtà – che ci permettono di orientarci nel mondo per strappargli quel che soddisfa la nostra natura di viventi), l’altro comporta il rischio della morte: ciò che al vivente non può che ripugnare: che il suo padrone sia la morte, è la verità che si svela all’autocoscienza: nessun riconoscimento se non si dà in cambio la vita. E dal momento che il riconoscimento è il godimento che l’autocoscienza si attende dal suo desiderio, morte e godimento sono i due nomi della stessa cosa. Ora, della dialettica del desiderio che sottende il testo hegeliano, Lacan isola l’aspetto dicotomico, quello, cioè, privo d’ogni possibile mediazione o conciliazione: in luogo dell’aufheben il vel disgiuntivo: o la vita o il riconoscimento17. Ma la portata specifica di tale opposizione è tale che, qualunque sia la scelta, il soggetto perderà la vita; giacché se sceglie il riconoscimento non potrà goderne per il fatto che la vita si sarà volatilizzata, ma se sceglie la vita quello che perde è una vita veramente umana, il ‘più che vita’ dello spirito. Ed era quanto accadeva a quell’autocoscienza che per paura della morte rinunciava al riconoscimento: la vita che ne riceveva in cambio era una vita da servo, una vita mutilata. 17 Il vel dell’alienazione è definito da una scelta le cui proprietà dipendono dal fatto che, nella riunione, c’è un elemento che comporta che, quale che sia la scelta operata, essa ha come conseguenza un né l’uno, né l’altro. La scelta dunque è solo quella di sapere se si intende conservare una delle parti, mentre l’altra scompare in ogni caso. Il vel alienante si distinue da due altre forme di disgiuntivo: quello esaustivo esemplificato nel ‘vado qui o là’ in cui bisogna scegliere se andare di qui o di là, e dal vel equivalente in cui è indifferente se decido di andare di qui o di là. Il vel alienante è tutt’altro; si dia questo esempio: ‘o la borsa o la vita’. Ebbene, dice Lacan: «Se scelgo la borsa, le perdo tutte e due. Se scelgo la vita, ho la vita senza borsa, cioè una vita amputata». La vita la perdo comunque. E Lacan continua: «È in Hegel che ho trovato, legittimamente, la giustificazione di questa denominazione di vel alienante. Di che si tratta in Hegel? – economizziamo i passaggi: si tratta di generare la prima alienazione, quella per cui l’uomo entra nella via della servitù. La libertà o la vita! Se sceglie la libertà, crac!, le perde tutte e due immediatamente – se sceglie la vita, ha la vita amputata della libertà» (J. Lacan, Les quatre concepts fondamentaux de la psychanalyse, cit., pp. 192-193, tr. it., pp. 215-216). Non serve cambiare l’alternativa: ‘La libertà o la morte!’: scegliere la libertà significa soltanto scegliere la libertà di morire.

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VI. TEORIA DEL DISCORSO

Come già sappiamo, per Hegel, nel gesto inaugurante della servitù riluce l’astuzia della ragione, giacché se d’ora in poi il servo lavora, lavora esattamente al rovesciamento della signoria. D’altro canto, il signore18, se gode del riconoscimento, non sa di che gode, dal momento che il sapere appartiene al servo. Si comprende allora come la figura hegeliana reinscriva al proprio interno, come nel gioco delle scatole cinesi, o secondo il procedimento della mise en abîme, la scena del Menone. Infatti, è solo perché un signore si trova istituito dalla servitù, che logicamente lo precede, come colui che gode senza sapere, che, a sua volta, egli metterà a freno il desiderio per estrarre dal sapere del servo la verità di cui manca. Ma ciò che nella traduzione resta inalterato è la scissione del soggetto, lo iato incolmabile fra sapere e godimento, fra il piacere (del sapere vitale) e quel più di godimento parente della morte. Ed è per questo che al di là del sapere, fosse anche il sapere assoluto, resiste sempre un plus-de-jouir, che sfugge al soggetto della scienza e al suo discorso. È inutile dire (il lettore vi sarà ormai arrivato da solo) che il plus-de-jouir è l’equivalente della verità. Se allora vorremo completare l’equazione del soggetto della scienza, che è insieme quella del discorso del Maître, noi dovremo iscrivere la verità-godimento come ciò che resiste alla presa discorsiva. Avremo allora la quarta posizione standard del discorso del Maître: quella del resto, e la lettera ‘a’19 minuscola sarà il simbolo dell’oggetto proprio del desiderio; e dunque: S1 S/

S2 a

Se ‘a’ designa quel che resta del desiderio di verità del soggetto, ciò ribadisce che il plus-de-jouir è parente della verità20, giacché la verità noi 18

Sul Maître hegeliano come maîtrise élaborée, produzione del soggetto del sapere fino al possesso del sapere assoluto (e alla frustrazione che ne consegue), cfr. J. Lacan, Le moi dans la théorie de Freud et dans la technique de la psychanalyse, cit., pp. 90-92, tr. it., pp. 89-91. 19 In contrasto con ‘A’, simbolo del grande altro e in ricordo del petit objet, dell’objet abject di Georges Bataille. 20 « Ciò che qui si designa, ponendosi come residuo dell’effetto di linguaggio, come ciò che fa sì che l’effetto di linguaggio non sottragga al godere se non ciò che l’ultima volta enunciavo come entropia, come più-di-godere, è un qualcosa che non si vede – la Verità come fuori del discorso, ebbene, è la sorella di questo godimento proibito. Dico è la sorella» (J. Lacan, Le Séminaire. Livre XVII. L’envers de la psychanalise, cit., p. 76, tr. it., p. 79).

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IL DISCORSO E LA CENERE

l’abbiamo articolata dal principio come il più-di-sapere, dunque il piùdi-discorso. Allora ‘a’ non è altro che ‘l’idea’ – il differenziale puro – che, lo si ricorderà, non era concatenabile in un discorso – non era il suo detto, non un enunciato –, bensì concatenava, come forma dell’enunciazione, i discorsi fra di loro; costituiva, cioè, l’estremo del dire ed il principio di transizione ad un nuovo dire. Lacan prende alla lettera l’affermazione platonica: basterà, infatti, far ruotare la lettera ‘a’ nelle quattro posizioni per ottenere, con lo spostamento di tutti gli altri simboli, le quattro (quattro e non più di quattro, come quattro sono gli elementi costitutivi dell’economia soggettiva) forme fondamentali di discorso attraverso le quali si snoderà, più che la storia della formazione del soggetto (la sua Bildung), una sua possibile sovversione: la messa in crisi del soggetto della scienza e con esso della tradizione filosofica occidentale. È tempo ormai di dare in sequenza i quattro discorsi. Si legge, come sempre, da sinistra a destra: Discorso del Maître (designato con M) S1 S/

S2 a

Discorso dell’isterico (designato con I) S/ a

S1 S2

Discorso universitario (designato con U) S2 S1

a S/

Discorso analitico (designato con A) a S2

S/ S1

Il lettore si sarà subito accorto che la sequenza dei quattro discorsi non è per nulla lineare. Se il movimento di ‘rotazione’ di ‘a’ fosse sempre in senso anti-orario come avviene fra M e U, allora da quest’ultimo dovrebbe derivare A e da A I, il che non solo tradurrebbe l’economia soggettiva nella forma del racconto, ma soprattutto consegnerebbe il soggetto alla più completa afasia, dal momento che S2 farebbe da resto e cadrebbe fuori del discorso: allora soltanto il silenzio mistico, l’estasi religiosa, l’ascolto di un ‘lingua fondamentale’, sarebbero le (Be)Stimmungen (paranoia e schizofrenia) del soggetto. Al contrario fra M e U – il discorso Maître-universitario – e I e A si opera una vera e

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VI. TEORIA DEL DISCORSO

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propria inversione. I simboli di U si spostano in diagonale improvvisamente dando adito a I, che con una rotazione oraria passa in A. È qui che la dialettica del desiderio mostra di aver pagato il debito residuo con il movimento dell’aufheben e si svela per quel che è: dialettica sovversiva del desiderio. Il rovesciamento chiastico che trasforma U in I, è la prova che al culmine del discorso universitario, massimo potenziamento del discorso della.scienza, la verità, come l’incommensurabile del discorso del sapere vero, forza i limiti della trasmissione e dà origine, su di un’altra scena, alla sovversione del soggetto logico-epistemico. Si potrebbe dire che, mentre in M e U resiste l’illusione che la verità sia, infine, dicibile nel discorso, afferrabile nel detto e mostrabile nella rappresentazione, I e A tendono ad affermarne, invece, il carattere non discorsivo, non enunciabile e non rappresentativo. Senza rischiare, tuttavia, con questo, di ricadere nel racconto miticopoietico e senza pervenire a qualche forma ek-statica di accesso alla verità. Basterà notare a tal proposito, ed anticipiamo qui una possibile conclusione, che, se I trapassa in A, non solo l’economia soggettiva non fuoriesce dall’ambito discorsivo, ma soprattutto che il discorso analitico lascia come resto esattamente il significante Maître: rovesciate chiasticamente A ed avrete un nuovo discorso del Maître. Come dire: nessuna parola piena in Lacan, nessun silenzio che venga a sigillare la fine del discorrere inter-soggettivo. Piuttosto la (non) storia del soggetto della scienza presenta la forma di una spirale al centro della quale accade, ad opera del desiderio, la sovversione del soggetto: essa non si risolve nell’azzeramento del discorrere e, dunque, non si trasforma né in pura utopia né in desolante nichilismo. Se la sovversione ha un termine (analisi terminabile o interminabile?), esso coinciderà con un movimento di ritorno all’indietro che segnerà, insieme, anche un nuovo inizio: la ripetizione della spirale dei quattro discorsi (fino a completa estinzione della sequenza? Forse; ma ciò non sarà mai opera di un semplice gesto). Nel passaggio da una sequenza ad un’altra dovrà accadere un certo slittamento, seppur minimo, del soggetto, una certa perdita di violenza da parte del suo desiderio, l’acquisizione della scissione fra sapere e godimento e, dunque, del desiderio dal suo oggetto. Con le parole di Lacan ci sarà da sperare che al termine della sequenza il nuovo Maître sia meno arrogante e, dunque, meno bête21. 21 «Io non sono un fottuto progressista, poiché ciò che vi spiego, è che si gira in tondo. Si fa un girotondo comunque, ma si cambia di passo. E quando sarà varcato il passo di ciò che ne può effettivamente essere dell’incidenza d’un discorso analitico, che una nuova

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IL DISCORSO E LA CENERE

Si deve notare, tuttavia, che l’economia generale dei quattro discorsi è governata a sua volta da una dialettica complessa. Se è vero, come abbiamo detto, che M e U, da un lato, e I e A, dall’altro, costituiscono due blocchi omogenei fra i quali s’interpone la sovversione del soggetto, divisi a loro volta in due sottoscene secondo una struttura quadripartita che si potrebbe rendere graficamente in questo modo: M

U

I

A

e se è vero che ‘l’altra scena’ (I e A) rende possibile la chiusura della rappresentazione della verità, è altrettanto vero che ogni discorso si muove secondo la legge di un’economia ristretta. Lo abbiamo già visto a proposito di I che può sempre tentare di istituirsi come termine ekstatico del discorrere, ma dovremo riconoscerlo anche ad A, che non sfugge, solo per il fatto d’essere il discorso analitico, al pericolo di pretendere l’ultima parola, di volersi come parola piena e definitiva piuttosto che come inizio di una ripetizione. Occorrerà allora andare sem-

grande volta del girotondo potrà cominciare, la quale forse fa svanire ben più di quanto possiamo presumere tutto l’apparato sul quale noi ci fondiamo in questa dimostrazione, ma che, dopo un giro, ottiene forse finalmente un décalage. Il significante Maître sarà forse un po’ meno stupido (bête). Siate certi che se è un po’ meno stupido, sarà un po’ più impotente» (Questo passo così come è riportato nel dattiloscritto manca nell’edizione a stampa. Ciò che in quest’ultima potrebbe corrispondervi è il seguente capoverso: «Se si vuole che qualcosa giri – certo non si può mai girare fino alla fine, l’ho abbastanza sottolineato – non è certamente per progressismo, ma solo perchè non può smettere di girare. Se tutto ciò non gira, allora cigolerà dove le cose fanno problema, vale a dire là dove prende posto qualcosa che si scrive a», J. Lacan, Le Séminaire. Livre XVII. L’envers de la psychanalise, cit., p. 208, tr. it. p. 225). Sulla relazione fra rivoluzione astronomica e girare in tondo dei quattro discorsi, intorno al centro rappresentato dal significante Maître si veda J. Lacan, Encore, cit., pp. 41-43, tr. it., pp. 41-44. In particolare si legga: «Ça tourne. Il fatto continua a conservare per noi tutto il suo valore, per quanto ridotto alla fin fine sia divenuto, e motivato solamente dal fatto che la terra gira e che per questo ci sembra che sia la sfera celeste a girare. Essa continua imperterrita a girare, e ha ogni genere di effetti, per esempio il fatto che voi calcolate la vostra età in anni. La sovversione, se mai essa è esistita in un luogo e in un momento dati, non è nell’aver cambiato il punto di virata di ciò che gira, ma nell’aver sostituito at ça tourne un ça tombe» (ivi, pp. 42-43, tr. it., p. 42). Si ha sovversione perché girando, qualcosa – la verità-plus-de-jouir – cade o schizza via.

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pre dall’economia ristretta di un discorso all’economia generale che lo regge e in cui s’iscrive e viceversa; attivare un dispositivo critico che, facendo leva sull’economia generale del discorrere, ponga in crisi la pretesa di esaustività, comunque declinata, d’un singolo discorso, che impedisca e denunci le inversioni della sequenza, che sleghi le alleanze innaturali, pur sapendo che la legge della separazione fra i generi di discorso, comporta, anche in questo caso, la regola del double blind: costringe alla mescolanza. In altri termini, la legge dell’economia generale dei quattro discorsi implica (come ogni legge), quale proprio dispositivo interno, la possibile trasformazione in un’economia ristretta: di ciò un pensiero dall’attitudine critica, sarà sempre avvertito. Torneremo su questa economia generale dei quattro discorsi. Ora sono necessarie alcune chiarificazioni sul discorso universitario, su quello isterico e su quello analitico. Il discorso universitario costituisce, nota Lacan, la forma moderna del discorso del Maître. Esso, infatti, presuppone che sia avvenuta l’accumulazione primitiva del sapere, lo sfruttamento intensivo del servo, in modo tale che il sapere così capitalizzato possa assurgere alla posizione di Maître. La questione chiave del discorso universitario, infatti, consiste, come sappiamo, nella trasmissione del sapere, dal momento che senza l’istituzionalizzazione in tradizione nessun sapere (vero) sarebbe possibile: alla lettera, non esisterebbe. Ma come avviene la trasmissione del sapere? La risposta di Lacan è la seguente: il problema dell’insegnamento, cioè della trasmissione del sapere capitalizzato nell’accumulazione originaria, si risolve attraverso la trasformazione del servo da valore d’uso in valore di scambio. Il passaggio dal discorso del Maître al discorso universitario detta la legge strutturale di quello dall’economia familiare all’economia capitalistica22. Ciò è mostrato dal fatto che ora ‘a’ viene in posizione di servo; se ‘a’, come si ricorderà, era la lettera attraverso cui s’iscriveva nel discorso il plus-de-jouir, che in M occupava la posizione di resto, che ora essa compaia in quella di servo, significa che il sapere tende ad appropriarsi esattamente di ‘a’, tentando di trasformarlo in unità di valore, vale a dire in unità di sapere. Il plus-de-jouir che rappresentava l’eccesso del desiderio, il suo oggetto impossibile ed incommensurabile, deve essere quantificato, reso a sua volta misurabile attraverso un regime di equi22 Sul rapporto fra psicoanalisi e marxismo si vedano gli scritti di Virginia Finzi Ghisi, Archeologia dell’avanzante e Un tratto di terra (forma naturale e forma logica prima di parlare di nevrosi, ora in Id., I saggi 1968-1998, Bergamo 1999.

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IL DISCORSO E LA CENERE

valenza ed, infine, scambiabile23. La trasmissione-insegnamento, in altri termini, è resa possibile solo attraverso una quantificazione e/o misurazione della verità: vale a dire, lo scopo del discorso universitario consiste nel tentativo di riduzione integrale della verità all’ordine sistematico del sapere stesso (da ciò si spiega la suddivisione del sapere in discipline e regioni, l’ideazione di regole per lo scambio fra le discipline delle singole unità di sapere, la costituzione del sapere in sistema fino alla costruzione dell’università come istituzione deputata alla ricomposizione unitaria del sapere). Noi sappiamo, tuttavia, che ogni discorso lascia un resto, ossia che c’è sempre un impedimento a che, come direbbe Lacan, ça marche. Nel caso del discorso universitario il resto è rappresentato da S/, il soggetto del desiderio, mentre nel posto che quest’ultimo occupava in M si trova ora S1. Il che vuol dire che la verità del discorso universitario s’identifica con il significante dei soggetto, ma che il soggetto-significato diviene esattamente il non detto del discorso. Si attua così una modifica nello statuto del soggetto del sapere: esso, come verità del discorso universitario, non è più il significante di un soggetto (un Maître determinato ed empirico), bensì il significante della funzione soggettiva in generale. Il significante, dunque, cessa di essere ciò che rappresenta il soggetto nell’enunciato e si fa indice del soggetto dell’enunciazione; il suo sigillo linguistico è ‘io’. Certo non l’io empirico, bensì l’io come forma universale della dicibilità degli enunciati; in altri termini, il cogito o l’io trascendentale. Ma la domanda fondamentale che concerne la pensabilità – e l’efficacia pratica – di qualcosa come l’io trascendentale riguarda la possibilità della sua costituzione, cioè in qual modo si passi dall’io empirico, che in quanto tale è sempre e soltanto soggetto dell’e23 «Ma esso (il linguaggio) ci porta qualcosa in più ed è il meno di quel che ci occorrerebbe davvero sapere per rispondere alla domanda con cui ho cominciato e cioè che cosa succeda attualemente a livello del discorso universitario. Bisogna cominciare a vedere per quale ragione il discorso del padrone sia così così solidamente istituito al punto che, come sembra, pochi di voi saprebbero misurare quanto sia stabile. Questo ha a che fare con ciò che Marx ha dimostrato(…) riguardo alla produzione, chiamandolo plusvalore e non più-di-godere. Qualcosa è cambiato nel discorso del padrone da un certo momento della storia. Non ci romperemo le scatole per sapere se è a causa di Lutero o di Calvino oppure di certi traffici di navi attorno a Genova, nel mare Meditteraneo o altrove, poichè il punto importante è che, a partire da un certo giorno, il più-di-godere viene contato, contabilizzato, totalizzato. Comincia allora quel che è chiamato accumulazione del capitale» (J. Lacan, , Le Séminaire. Livre XVII. L’envers de la psychanalise, cit., p. 206-207, tr. it., p. 222-223).

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nunciato, all’io trascendentale come soggetto dell’enunciazione. Ciò avviene attraverso un processo di valorizzazione: estraendo plus-valore da ‘a’, previa la sua riduzione a valore di scambio, S2 valorizza S/ e lo eleva (aufhebt) al rango di io puro. Si comprende in tal modo l’equivalenza che il discorso universitario istituisce fra l’economia capitalistica e la forma moderna del soggetto: come il denaro neutralizza le differenze qualitative inaugurando la possibilità dello scambio generalizzato, così l’io trascendentale azzera quelle fra gli enunciati – constativi, prescrittivi, etc. – e le riduce ad unità di valore. L’io trascendentale, si potrebbe dire, è la regola di traducibilità integrale dei regimi di frasi ed è, dunque, l’atto di nascita del meta-racconto razionale, del meta-racconto del soggetto del sapere. Da qui la serie delle equivalenze istituite da Lacan fra il discorso universitario e quello filosofico della modernità. La filosofia s’identifica col primato dell’io trascendentale come significante fondamentale della verità, che in quanto tale pretende di sostituirsi al soggetto del desiderio – S/. Quando il discorso filosofico, così, tenta di iscrivere nella propria trama l’inconscio, lo fa riducendolo ad un territorio solo provvisoriamente sottratto alla sovranità dell’io. L’inconscio non indica la Spaltung del soggetto, bensì solo un lieve differimento temporale nel processo del divenir cosciente. L’inconscio dei filosofi, dunque, anche quando sembra fungere da fondamento, si rivela essere solo uno strato delle funzioni dell’io. Ma è proprio tale difficoltà nel far coincidere l’io come soggetto del desiderio con l’io come soggetto della scienza, che fa zoppicare il discorso universitario. La stessa necessità, cui il discorso filosofico va inevitabilmente incontro, di dover postulare un retroterra dell’io, fa da spia e da sintomo del suo fallimento; l’istituzione del soggetto del sapere va di pari passo con l’impossibilità di reperire al proprio interno il soggetto stesso: questi fa da resto. Il soggetto di desiderio è quanto il discorso universitario non è in grado di afferrare e che, infine, eccede la sua regola. A tal proposito, Lacan richiama quel passo di Analisi terminabile e interminabile in cui Freud accenna all’impossibilità strutturale dei tre atti essenziali che connotano l’essere umano: le tre ‘professioni’ impossibili: governare, insegnare, interpretare (analiticamente)24. Ora, la difficoltà strutturale dell’insegnamento, cioè della trasmissione della scienza, consiste appunto nell’impossibilità di tramandare insieme con la scienza il 24

Cfr. S. Freud, Die endliche und die unendliche Analyse, tr. it. in Opere, cit., vol. 11, p. 531.

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IL DISCORSO E LA CENERE

suo soggetto, vale a dire quel desiderio che aveva dato origine al discorso del Maître. Proprio perché l’oggetto dei desiderio (ma anche, come dice Lacan, la sua causa) – ‘a’ – è andato in posizione di servo (in termini filosofici: la Ding an sich, la Sache, la cosa stessa del pensiero, l’oggetto impossibile dell’io, il fuoco delle correnti intenzionali, etc.) di fronte al sapere-Maître, il soggetto del desiderio – S/ – cade fuori del discorso. Invece di suturare nel sapere la scissione del soggetto – lo iato fra S e ‘a’ –, il discorso universitario allarga il solco che divide la scienza dal desiderio, il soggetto della scienza dal soggetto del desiderio. Ora, è proprio tale impotenza a governare (ed insegnare e interpretare anche) la dialettica del desiderio, ciò che decide della sovversione del soggetto epistemico. Detto altrimenti: l’inversione attraverso la quale il discorso universitario si rovescia in quello isterico consiste in questo: S/, resto in U, diviene Maître in I. In tal modo il soggetto desiderante sovverte il soggetto della scienza, lo capovolge o, forse, lo mette finalmente sui piedi: finora stava, infatti, a testa in giù25. Ma, ora, se S/ occupa la posizione di Maître ed ‘a’ viene a trovarsi in quella della verità, chi farà da servo, strumento e medio del desiderio? Solo S1, che si è valorizzato attraverso lo sfruttamento di ‘a’ ad opera di S2 e lo ha, se così si può dire, incorporato. Allora, per ricongiungersi con ‘a’, come con la sua verità, S/ sarà costretto a decapitare S1, vale a dire a mettere in crisi la sua pretesa di valere come significante unico ed ultimo della verità. S/, cioè, s’impegna in un processo di delegittimazione di S1: gli chiederà, dapprima sommessamente, poi con sempre maggiore ironia e violenza, di mostrare le credenziali, quale sia, cioè, la fonte di legittimazione a partire da cui pretende di occupare la posizione della verità. E ad ogni tentativo di S1 di dimostrare la validità della sua pretesa di valere per la verità, S/ risponderà contrapponendo il suo solo esserci di fatto, mostrandosi, dunque, ma senza di-mostrarsi. S rilancerà su S1 la sua pretesa di essere l’origine della dicibilità in generale, esibendosi come ciò che sfugge in linea di principio al discorso: come parola seduttrice, come silenzio caparbio, come promessa anticipatamente smentita, come arte del tradimento, come ermeneutica del sospetto ed infine come paralisi corporea ed afasia linguistica. E come tradurre in sapere ciò che si situa al di qua o al di là del linguaggio? 25 Si dovrebbe vedere un’equivalenza fra il rapporto che intercorre fra U e I e la critica marxiana di Hegel e dell’ideologia in generale: in entrambi i casi il soggetto dell’enunciazione è ritradotto-sovvertito in soggetto di desiderio.

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VI. TEORIA DEL DISCORSO

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In altre parole, S/ mette in opera tutta una femminilizzazione del discorso universitario. Ora, è nota l’equivalenza da sempre istituita fra l’isteria ed il femminile; ma ciò che di determinante la psicoanalisi vi apporta è l’aver reso l’isteria una funzione discorsiva fondamentale (in base, d’altronde al proprio atto di nascita: c’è del discorso analitico dal momento in cui si dà un certo ascolto di quello isterico). Rendere l’isteria una legge di struttura significa sottrarre peso alla differenza dei sessi intesa come differenza biologica: come già sappiamo, la differenza sessuale è una differenza ideale, o per dirla con Lacan, simbolica. Allora, qualunque sia il sesso del soggetto, questi si femminilizzerà, allorquando venga ad iscriversi nel discorso isterico: il primo effetto, infatti, ricorda Lacan, del transfert analitico, è sempre una certa femminilizzazione del discorso del ‘paziente’, indipendentemente dal suo sesso anagrafico. Resta, tuttavia, nella pratica freudiana, un uso molto netto e preciso della differenza sessuale: da un lato, ad esempio, la libido è solo maschile, cioè attiva; dall’altro, il desiderio femminile mostra una resistenza radicale alla presa analitica, il che, come si sa, era la ragione principale che spingeva Freud ad optare per la tesi dell’interminabilità dell’analisi. Ma tutto ciò pertiene alla dialettica del desiderio che sottende e governa le pratiche discorsive e, di conseguenza, alle posizioni simboliche che maschile e femminile vengono ad assumere nella struttura rispetto alla natura del desiderio. Se il soggetto è scisso fra il godimento ed il sapere del godimento, e se il sapere, sia esso il sapere servile o il sapere del Maître, è caratterizzato dal differimento del godimento, allora si definirà maschile chi in ogni caso opterà per il sapere e femminile chi in ogni caso sceglierà il godimento. In altri termini, se il femminile di fronte alla domanda ‘Cosa vuole una donna?’ (non cos’è, ma cosa vuole, quai è l’a priori della sua volontà?), risponderà ‘Ancora’, volgendosi, in tal modo, verso ‘a’, il plus-de-jour, il maschile, di fronte alla domanda ‘Che cosa vuole un uomo?’, risponderà, al contrario, ‘Sapere la verità del plus-de-jouir’, ridurre, cioè, ‘a’ a sapere. Alle strette, il maschile dirà ‘Basta’26. 26 Per cui mentre il godimento maschile tende a suturare l’Altro, quello femminile vi si trova, al contrario, originariamente in rapporto. Ciò vuol dire che all’uomo è necessario un intermediario, alla donna no, senza che questo comporti per quest’ultima lo statuto dell’immediatezza: il non saperne nulla di tale godimento dell’Altro è ciò che, infine, la restituisce alla differenza. Ma l’intermediario dell’uomo non è a sua volta nient’altro che il fantasma, l’oggetto ‘a’, causa del suo desiderio. Per tutto questo cfr. J. Lacan, Encore, cit., p. 75, tr. it., p. 79.

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IL DISCORSO E LA CENERE

Si vede bene, dunque, come in base alla struttura simbolico-linguistica e, di conseguenza, nell’ordine del discorso, il maschile stia sempre dalla parte del sapere – come significante Maître o come sapere che assume la posizione di Maître –, mentre il femminile occupi sempre quella del godimento. Allora, per l’economia generale dei quattro discorsi, il femminile incarnerà ‘l’altra scena’, la messa in scena della chiusura della rappresentazione della verità e della sovversione del soggetto della scienza. È evidente che nulla vieta, in linea di diritto, ad un individuo di sesso femminile di occupare le posizioni di significante Maître in M o del sapere in U; il fatto è che, come un individuo di sesso maschile si femminilizzerà a causa del discorso isterico, così uno femminile diverrà maschile a causa di quello Maître-universitario. Vogliamo dire, in altri termini, che anche là dove una donna si iscriva come significante Maître o come soggetto insegnante, sempre il femminile, anche per lei, resterà interdetto e ciò a causa della struttura del discorso del sapere (vero) e non del sesso del destinatore. È il femminile in generale a costituire il bordo del discorso Maltre-universitario, la ‘ferita’ non cicatrizzabile, il principio della degenerazione della legge del genere (di discorso) ed, infine, se si vuole, ‘l’eterna ironia della comunità’. Che il rapporto si dia fra uomini, fra donne o fra uomini e donne, il femminile come polo della differenza ideale, costituirà sempre l’altra scena, la défaillance della misura. Sarà quel che impedirà che il discorso universitario possa chiudersi su se stesso, assumere la forma del sapere assoluto di sé da parte del soggetto, la forma, cioè, del circolo dei circoli. Come pratica effettuale dell’assioma d’incompletezza, il femminile renderà sempre possibile l’ultimo quarto di giro della spirale sovversiva dei quattro discorsi. Tuttavia anche il discorso isterico zoppica, cioè lascia un resto27. Come già abbiamo avuto modo di notare il resto del discorso isterico è S2, il sapere. Il discorso isterico, dunque, rischia strutturalmente l’afasia, dal momento che si limita a contrapporre alla verità il silenzio assoluto. Se è vero che S/, attraverso la detronizzazione di S1, mira al plusde-jouir, sarà possibile che esso goda ‘ancora’, ma di tale godimento non ne saprà nulla; ancora una volta, la scissione del soggetto, cioè quella fra sapere e godimento, impedisce la chiusura del discorrere. 27 Sulla metafora dello zoppicare da Edipo-il-piè-zoppo fino all’Al di là del principio del piacere si veda M. Lavagetto, Freud la letteratura e altro, Torino 1985, pp. 76-77. Sul mito di un Edipo zoppicante si veda J.P. Vernant e P. Vidal-Naquet, Le Tyran boiteaux: d’Oedipe à Périandre, in Mythe et tragédie II, Paris 1986, pp. 46-69.

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VI. TEORIA DEL DISCORSO

D’altronde un godimento senza sapere è in contraddizione con la posizione di Maître come lo era un sapere senza godimento. Ed è per questo che la posizione di Maître è di fatto insostenibile, sia che implichi il governo, l’insegnamento o l’interpretazione. L’isterico, allora, gode; gode del plus-de-jouir (godimento che resta al di là di tutte le illusioni immaginarie, il modello unico ed ultimo – si potrebbe dire: la Bestimmung – del desiderio maschile). Eppure non sa di che gode, non può dirlo, neppure in un semi-dire28. Non resta, infine (ma solo secondo l’economia generale del discorrere; giacché in base all’economia ristretta sono sempre possibili la fissazione e la regressione), che porre ‘a’ in posizione di Maître. Signore è, ora, l’oggetto del desiderio e servo il suo soggetto. Ma nel mutare di posizione rispetto ad M, dove essi si trovavano sotto la barra e legati da una relazione che si leggeva: S/ desiderio di ‘a’, ne deriva che essi si leggono ora in questo modo: ‘a’ causa di S/. Ciò che era l’oggetto del desiderio negli altri discorsi, viene riportato da quello analitico al suo statuto di causa, senza che questo voglia dire ancorare il discorso ad un fondamento extra-discorsivo e/o extra-linguistico. Se, da un lato, come causa, ‘a’ scatena il discorrere, dall’altro la verità, di cui esso è scrittura, resta un prodotto del discorso. ‘a’ non è un fondamento perduto che il discorso tenta faticosamente di condurre all’espressione, bensì l’indice che sempre un discorso – o il discorso in generale – si flette su se stesso, s’invagina e traduce il proprio oggetto ultimo – la meta – nella causa – l’origine. E che in tale movimento esso constaterà sempre di nuovo l’impossibilità di far coincidere l’a priori ed il telos nell’esaustività di un sapere (o di un rapporto sessuale). 28 La complessità del rapporto dell’isterico/a con il significante Maître è esplicata da Lacan in questo modo: se è vero che l’isterico/a pone in discussione la legittimità del Maître, è anche vero che il suo desiderio richiede comunque un Maître: un Maître su cui regnare. Infatti, «lei vuole un padrone. È quel che si trova nell’angolino in alto a destra, per non nominarlo diversamente.

S/ a

S s

Vuole che l’altro sia un padrone, che sappia molte cose, ma non tante da non credere che è lei il prezzo supremo di tutto il suo sapere. In altre parole, vuole un padrone su cui regnare. Lei regna e lui non governa. è da qui che Freud è partito. Lei è l’isterica, ma ciò non è necessariamente specifico di un sesso. Appena ponete la domanda – Che vuole il tal dei tali?, entrate nella funzione del desiderio e fate venir fuori il significante padrone» (J. Lacan, Le Séminaire. Livre XVII. L’envers de la psychanalise, cit., p. 150, tr. it., p. 160).

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IL DISCORSO E LA CENERE

Attraverso il transfert, l’analista è quella figura che nel discorso va a dare esistenza fantasmatica a ciò che è al di là della rappresentazione ed ascolta il discorso del soggetto del desiderio; da quest’ultimo estrae il sapere del desiderio: dove potrebbe risiedere la verità del soggetto se non nel gioco dei significanti? Allora, ricostruendo la trama linguistica, solo ubi consistam del significante Maître, gettando ponti fra i vuoti della memoria, sfilando e riannodando i fili della genealogia, l”a’nalista lega S/ attraverso S2 ad un nuovo significante Maître – o, forse, più che ad un nuovo, ad un rinnovato significante Maître. Vi riuscirà ad una sola condizione: che, come causa del desiderio, ricordi al soggetto (e a se stesso) che il ‘padrone assoluto’, l’unico vero Maître del signore e del servo, la causa del loro desiderio, è la morte. Giacché vivere (e sapere) sono possibili solo differendo la morte e, dunque, la verità (e il plus-dejouir) sono la differenza che cesserebbe di differirsi: sono la morte del discorso e del soggetto. Cosa distinguerà, allora, il nuovo Maître? Cosa lo renderà meno arrogante, dunque meno bête? Il fatto che, a differenza del vecchio, che si era trovato riconosciuto a causa della paura del servo e che, dunque, non aveva sperimentato fino in fondo la morte, il nuovo Maître parlerà ora a partire dalla morte – corne un sopravvissuto. Ma soprattutto il fatto che, se è un soggetto, egli è scisso: sempre la morte – il plus-dejouir – sopravanzerà il sapere, fosse anche il sapere assoluto. Col che si comprende, infine, il titolo del seminario lacaniano: il discorso analitico è l’envers di quello filosofico. Lo avevamo detto solo implicitamente ed è tempo di tematizzarlo: se il programma hegeliano, inteso qui come summa del discorso filosofico-universitario, consiste nel riconoscere statuto di vita autenticamente umana solo a quella che non «inorridisce dinanzi alla morte, schiva della distruzione», ché anzi solo «quella che sopporta la morte e in essa si mantiene, è la vita dello spirito»; e se riposa sull’affermazione che lo spirito «guadagna la sua verità solo a patto di ritrovare sé nell’assoluta devastazione» giacché esso è potenza «sol perché sa guardare in faccia il negativo e soffermarsi presso di lui»29, allora paradossalmente (ma non tanto quanto sembra) tale programma è condotto a compimento solo dal discorso analitico, quando reinscrive nella propria scena il discorso filosofico. Non ‘si deve’, dice Lacan, recedere di fronte all”enormità’ del sapere assoluto, non si deve imboccare la scorciatoia, più facile perché meno perturbante, dello spirito oggettivo 29

G.F.W. Hegel, Phänomenologje des Geistes, cit., I, p. 26.

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VI. TEORIA DEL DISCORSO

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(linea di fuga dello storicismo e dell’ermeneutica); occorre, invece, un ‘hegelismo senza riserve’, che scopra come il sapere assoluto – ‘enormità’ in cui s’inscrivono il soggetto del sapere ed il suo desiderio – solo apparentemente abbia riconciliato il sapere di sé col godimento. Il discorso analitico coglie l’operare eccessivo della morte che, al culmine del circolo dei circoli, eccede ancora il soggetto della verità. Di tale operare sotterraneo e silenzioso il discorso analitico è l’ascolto. E se lo ascolta è perché parla nei sintomi, nei lapsus e nei sogni: dovunque nella trama dei discorso vi sia iscrizione del significante Maître come rappresentante del soggetto del desiderio. Si può ascoltare allo stesso modo un testo filosofico? E con esso un’intera tradizione? Era questa la domanda – il voto – sotterraneo di tutte le nostre considerazioni. La tesi, insomma, è questa: la teoria dei quattro discorsi – la sua economia generale – funge da schema per la decostruzione del corpus testuale della filosofia, del genere di discorso che si rubrica sotto il titolo ‘filosofia’. È vero: la ‘decostruzione’ in senso proprio ha fatto oggetto della propria analisi sia Freud che Lacan30; e, tuttavia, ci sembra, iscrivendosi nel programma generale della psicoanalisi. Nella misura in cui è possibile un’economia ristretta anche del discorso analitico, esso rischia sempre ed in linea di diritto la riduzione al rango di una strategia che ricodifichi o una trasmissione lineare del sapere – A come discorso universitario, ‘psicoanalisi della cattedra’ –, o una ricomposizione del soggetto del sapere – A come discorso del Maître. Se una lettura del ‘lasciti’ freudiani ritematizza il carattere istituzionale del discorso analitico, quella del seminario sulla Lettera rubata reinscrive nella scena ‘regale’ la disseminazione della piccola lettera, dell’objet a, cui pertiene nel suo esser destinata – inviata e spedita come l’epistola platonica – il poter non giungere a destinazione. Ma è proprio la teoria dei quattro discorsi che ci sembra riprendere, certo involontariamente e al di là di qualunque cronologia, la ‘piega’ del discorso provocata dal rilievo critico, per quel suo marginalizzare il primato del linguaggio a favore della legge discorsiva. Come ha notato in più luoghi Jacques-Alain Miller31, se di una modifica si può parlare nell’itinerario lacaniano, essa riguarda lo statuto del desiderio. Se in una prima fase (coincidente, in gran parte, con gli Écrits) il problema con30

Cfr. J. Derrida, Le facteur de la vérité, in La carte postale, cit., tr. it. di F. Zambon, Milano 1978. 31 Oggi raccolti in traduzione italiana in J. Lacan, J.A. Miller, M. Silvestre, C. Soler, Il mito individuale del nevrotico (a cura di A. Di Ciaccia), Roma 1986.

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IL DISCORSO E LA CENERE

sisteva nel trovare la parola per dire il desiderio inconscio o, in termini hegeliani, condurre il soggetto al riconoscimento del desiderio attraverso la parola, l’effetto indotto (volontario o meno) rischiava d’essere l’ancoraggio della pratica analitica – del discorso – al potere di una parola, che si definiva ‘piena’, in omaggio ad un’intera tradizione, per il suo corrispondere al significato, per la sua facoltà espressiva. Tale assunto, tuttavia, mostrava la sua debolezza quando si trattava di affrontare il problema della fine dell’analisi: giacché fin quando si pensi che la ‘fine’ e il ‘fine’ consistano nel dar parola al desiderio (anche come impossibile: il discorso non cambia), un’analisi è per principio interminabile, cioè fallita. Se, infatti, il desiderio è per struttura inconscio, renderlo alla parola può significare soltanto o la fuga precipitosa del ‘paziente’ o la sua reimmersione nell’immaginario dove il soggetto vive l’illusione di esser pervenuto, una volta per tutte, al sapere di sé. Occorreva, allora, spostare l’accento dalla parola alla logica, dal verbo ad una legge di struttura: la logica dell’oggetto ‘a’ come oggetto separato, indice della scissione del soggetto, ‘causa’ del desiderio. In altri termini, non c’è parola per dire il desiderio, ma c’è discorso che, in quanto legame inter-soggettivo, slega la proiezione immaginaria che annoda S/ ad ‘a’. Il discorso analitico si chiude laciando aperta la separazione fra il soggetto del desiderio ed il suo oggetto, proprio quando riconduce ‘a’ dal bordo inferiore del discorso, vale a dire oggetto, termine, si potrebbe dire, di un’intenzione soggettiva – a quello superiore – causa, origine sempre assente del discorso che inaugura il, ma allo stesso tempo si fonda sul, soggetto del desiderio. Terminabile è, allora, il discorso analitico, interminabile la legge del discorrere che ‘a’ istituisce nella sua disseminazione. Il discorso analitico non deve ancorare il soggetto alla parola, ma reiscriverlo in una topologia, situarlo in una legge di struttura, articolarlo in un discorso, che, per essere istituzione di una relazione, è insieme opera della differenza. Se ‘a’, come abbiamo mostrato, è la differenza ultima ed irriducibile, tuttavia, ad esso pertiene l’auto-differirsi, lo strutturale aprirsi al ‘per altro’ che lo fa legame – ‘Fort-da’, ad esempio. Nel suo differirsi ‘a’ inaugura il discorso, la legge generale del discorrere con le sue quattro forme, i suoi quattro toni fondamentali, e le sue quattro modulazioni della voce soggettiva. A sua volta, il discorso produce ‘a’ come il suo telos, la sua destinazione ultima, come quel risultato che inevitabilmente retrocede nel passato ‘essenziale’ del discorso. Da qui l’illusione necessaria del discorso sulla ricongiunzione dell’inizio e della fine, del principio e del fine, nell’autoconsapevolezza del soggetto del sapere. Ma

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da qui, insieme, l’impossibilità di tale riconciliazione: giacché, come differenza, ‘a’ continuerà a sottrarsi al movimento della circolarità: continuerà, appunto, a fare differenza nel sapere, pure in quello assoluto. A quale logica generale corrisponde infine tale logica di ‘a’, oggetto fantasmatico del desiderio e sua causa? Ci sembra, alla stessa logica tematizzata dalla ‘decostruzione’: ciò che Derrida chiamerebbe la ‘doppia invaginazione chiastica dei bordi’32, che non è altro che la reiscrizione nell’altra scena della logica del ‘cominciamento’. Se ‘a’ è causa, bordo superiore del discorso, differendosi s’invagina nella piega del discorso, si rovescia come suo bordo interno; ripiegandosi nel discorso ne diviene l’oggetto, si rovescia di nuovo come suo bordo esterno; ma in quanto esteriorità si rilancia come causa, ripercorre a ritroso l’intero discorrere fino al luogo del suo cominciamento. Per questa logica – dialettica e insieme al di là della dialettica – entrambi gli enunciati – “ ‘a’ è l’origine del discorso” ed “ ‘a’ è il prodotto del discorso” – sono possibili e non contraddittori. È che ‘a’ non è né fuori né dentro il discorso: è il dentro/fuori, è la doppia bordatura o la duplicazione dell’incorniciatura o qualunque altra ‘metafora’ la decostruzione abbia voluto usare. Si comprende allora perché la verità si dica, se si dice, sempre in un semi-dire o, come scrive Lacan, nella forma dell’enigma; l’enunciazione della verità è ambigua o paradossale: si muove secondo la contiguità dell”e-e’ ed insieme la disgiunzione ‘o-o’. Dice senza dire, enuncia l’impossibilità dell’enunciare, racconta l’inesistenza del racconto. Vogliamo dire, infine, che attribuire alla psicoanalisi e/o a Lacan la tesi di una verità extra-discorsiva, destinata al silenzio e come tale giàda-sempre-perduta, è imputargli qualcosa che nemmeno Platone ha scritto se non appunto nella forma del mito – e non sono per Freud le pulsioni i nostri miti? Ancora: un mythos nel logos. Lo statuto della verità – di ciò che per noi è la verità – è tale per cui essa è una funzione del discorso della scienza; ed è solo il discorso – e le sue variazioni di tono – ad instaurare la verità come ciò che precederebbe il discorso stesso. Più dunque che opera di una memoria viva – reminiscenza platonica, Erinnerung hegeliana: dispositivi per una ripresentificazione in generale – la ripetibilità della verità e della jouissance è sempre niente di più (e di meno) di una commemorazione: effetto della tecnica mnemonica, risultato di una nietzscheana storiografia antiquaria; capacità, infine, dell’archiviazione della traccia, o, per dir meglio, di un resto di 32

Ad esempio in La loi du genre, in Parages, cit., p. 272.

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IL DISCORSO E LA CENERE

cenere: cripta-urna in cui resta, senza restare, un di-più-di-morte. Queste ultime osservazioni ci permettono di tornare sul rapporto che lega il discorso filosofico a quello analitico e ci dispongono a qualche conclusione (come sempre provvisoria). In primo luogo la possibilità del rovesciamento del discorso filosofico-universitario in quello analitico, previo il passaggio attraverso l’isterico, non costituisce l’effetto di una procedura estrinseca, esterna, cioè, alla tradizione ontoteo-logica, che pretenziosamente intenda dichiararne avvenuto l’esaurimento. Non è, dunque, una forma di critica negativa che rischia sempre, per suo conto, d’incorrere nella stessa valutazione liquidatoria che proiettava sul proprio oggetto. Il discorso analitico, al contrario, è l’attivazione di un dispositivo iscritto all’interno del discorso filosofico in base al quale quest’ultimo mostra da se stesso il proprio limite di dicibilità, indica il luogo del proprio rovesciamento. Tale dispositivo noi l’abbiamo chiamato il dispositivo della doppia scena. Tuttavia va aggiunto che sarebbe errato ritrascrivere il dispositivo della doppia scena nei termini di una attribuzione al discorso filosofico della capacità di auto-superarsi o auto criticarsi. In tal modo, infatti, restituiremmo semplicemente il discorso universitario al suo sogno di esaustività e di totalizzazione: tale sarebbe, ad esempio, lo stile di un programma storico-filosofico (che, come tale, è anche sempre un programma politico generale e di politica della filosofia in particolare), che leggesse le variazioni e le modulazioni della voce filosofica come momenti di un processo unitario la cui legge fosse indifferentemente o quella della mera sommazione o quella del superamento dialettico o, infine, quella della differenza storica. Sarebbe in ogni caso la trascrizione acritica del modello dell’istituzione insegnante e, dunque, della trasmissione del sapere, quale Platone l’ha consegnato alla tradizione occidentale nello stesso momento in cui ve la impegnava. Il succedersi dei singoli apparati discorsivi che costituiscono quel qualcosa che va sotto il nome di ‘storia della filosofia’ si concatenerebbe sempre a partire da un nucleo di verità e ciascun discorso, quindi, riprenderebbe ad un livello più alto ed articolato quanto il precedente non era stato in grado di formulare, o a causa di un limitatezza intrinseca o per ingerenza del fuori-testo (comunque inteso: stato della cultura in generale, determinatezza storica, limiti di classe). La ‘storia della filosofia’ si troverebbe allora inevitabilmente strutturata secondo un telos: il telos dello svelamento integrale della verità. E non vi sfuggirebbero neppure tutti quei discorsi che a qualunque titolo ne negano la possibilità: restandovi legati, ancorché in negativo,

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VI. TEORIA DEL DISCORSO

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essi ripetono, quali varianti interne, il programma originario del discorso filosofico: nichilismo, ermeneutica, storicismo radicale. Giacché ancora una volta delle due l’una: o un discorso coincide infine letteralmente con la verità e si istituisce allora come la fine (e il fine) della filosofia, o la verità si manifesta al di fuori del discorso filosofico e decide, quindi, della sua inutilità. Ma la decostruzione, appunto, s’insinua nella piega del discorso filosofico, in quella piega che la verità produce inaugurando il discorso stesso ed il suo programma: interrogherà allora il discorso a partire dalla forbice fra il fine e la fine, denuncerà sia l’istanza di totalizzazione sia il rimando all’altro da sé: la coincidenza di verità e discorso come la resa ad altre forme della narrazione: poetica, storiografica, scientifica etc.; conserverà intatta l’indecidibilità o la forma dell’enigma: difesa della filosofia che coincide con la sua messa in crisi. In una parola la decostruzione cita in giudizio l’istanza stessa della trasmissione, il criterio di ripetibilità, il dispositivo della ripresentificazione, trascrivendoli sull’altra scena per mostrarli come archiviazione, iterabilità della traccia, funzione della differenza, opera, senza opera, di un resto di cenere. Ma a quale condizione? Alla condizione di una isterizzazione-femminilizzazione del discorso filosofico; giacché, se la questione riguarda la pretesa di legittimità del soggetto del sapere, isterizzare significherà porla in crisi, non in nome di un sapere più esaustivo, bensì a partire dalla dialettica del desiderio. La scena isterica è iscritta nel testo filosofico, ne costituisce il non detto o, più propriamente, il limite del dire e la si riconosce, infatti, ogni volta che il femminile, insinuatosi nell’ordine ossessivo della ratio, rende la voce filosofica scoraggiata di fronte al compito, ‘orfana di padre’, sola al cospetto di un enunciato che dica: ‘Si deve la verità’. Isterizzare indica allora il limite della trasmissione, non tanto come limite congiunturale e provvisorio, quanto come limite strutturale: ciò che il discorso non può trasmettere sebbene sia la ragione della sua esistenza: la verità del soggetto del sapere33. Quando l’isterico si erge contro il soggetto del sapere, mostra in tal modo che qualcosa di essenzia33 Giacché che cosa si trasmette infine da padre in figlio, da Maître a Maître, da sapere a sapere, se non la castrazione? Cosicché la legittimazione ad essere Maître – narratori autorizzati, figli legittimi, discepoli riconosciuti – non procede che dalla trasmissionederiva della castrazione. Freud stesso, fa notare Lacan, attese per scrivere la Traumdeutung, al cui centro sta il sogno di un padre dormiente che lascia il figlio bruciare tra la fiamme, la morte del padre (J. Lacan, Le Séminaire. Livre XVII. L’envers de la psychanalise, cit., p. 141, tr. it., p. 150 ).

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IL DISCORSO E LA CENERE

le sfugge alla scena filosofica, è irrapresentabile; e che solo su di un’altra scena, iscritta tuttavia nella prima, il soggetto del desiderio può esporsi, farsi figura sullo sfondo, senza che il discorso filosofico possa renderlo di nuovo parte del proprio progetto. È vero: l’isterico non può avere l’ultima parola. Come dice Lacan: l’isterico, infine, vuole un Maître, ha bisogno di un padrone per riconoscersi come l’antagonista. L’esito del discorso isterico non è, da questo punto di vista, anticipabile: può sfociare nell’afasia, nel ripristino della supremazia del Maître o può tradursi nel discorso analitico. Questo, infine, riconduce ‘a’ sul bordo superiore, verità insieme extra ed intradiscorsiva, dentro-fuori del discorso, che da sempre espropria il soggetto del sapere. Come logica dell’oggetto ‘a’, il discorso analitico sospende l’arroganza del soggetto del sapere, lo rende meno bête. Si possono intravedere così le conseguenze più generali ricavabili dalla teoria dei quattro discorsi: esse riguardano le questioni di un’etica del discorso, di una politica filosofico-universitaria e della responsabilità filosofica in generale. Per il primo punto è evidente che l’espressione ‘etica del discorso’, non significa, in questo contesto, l’individuazione di una strategia per l’universalizzazione degli enunciati prescrittivi34. Se il discorso, come legge di struttura, è inter-soggettivo, tutti i suoi enunciati avranno di diritto un carattere d’universalità, in quanto retti dalla sua forma d’enunciazione, indipendenti, cioè, dalla volontà del destinatore e del destinatario come dalla situazione particolare in cui essi si trovano. I loro enunciati singoli saranno veri – di quella verità che coincide con il legame inter-soggettivo –, senza dover essere necessariamente dei constativi; piuttosto essi saranno, in diversa misura, più o meno esplicitamente, del performativi; trascrizioni del ‘si deve’ del discorso. Etica, allora, non significa la possibilità da parte del soggetto di poter scegliere il genere di discorso, bensì soltanto il fatto che il soggetto è posto di fronte alle scelte che ogni discorso, in cui si sia trovato iscritto, articola. Ma, d’altro canto, etica non è nemmeno riducibile ad una forma di soggetto-oggettività: in altri termini, una determinazione integrale del soggetto da parte del discorso. Giacché ciò non era vero neanche per Hegel: il carattere oggettivo della ‘figure’ non sottraeva l’autocoscienza alla drammaticità della scelta. Il percorso che il 34 Come tenta J. Habermas in Moralbewußtsein und kommunikative Handeln, tr. it. di E. Agazzi (col titolo Etica del discorso), Bari 1985.

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VI. TEORIA DEL DISCORSO

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filosofo ricostruiva a cose fatte, post festum, restava accidentale per l’autocoscienza che lo sperimentava momento per momento. Come una figura già lasciava dei resti su cui l’autocoscienza era chiamata a prender posizione, così il discorso si apre su delle opzioni che per il soggetto restano indecidibili prima della scelta. E d’altronde anche all’autocoscienza, una volta pervenuta al sapere assoluto, non restava che prender atto della distanza che ancora la separava strutturalmente dalla cosa stessa: se il filosofo concilia il soggetto del sapere con la realtà, tale conciliazione è tuttavia ancora soggettiva35. Era appunto tale la caratteristica del discorso: pervenire ad una situazione dicotomica, aprirsi a forbice e restare sospeso ad una alternativa che se era da un lato il risultato necessario dettato dalla sua legge, dall’altro non riceveva alcuna soluzione dall’interno del discorso stesso. L’etica è, dunque, sì una determinazione oggettiva, ma tale da porre il soggetto di fronte ad una alternativa irriconciliabile: o la vita o la morte, o la vita o il riconoscimento, o il sapere o il godimento. Va da sé che il soggetto può rifiutarsi di assumere fino in fondo la responsabilità della scelta, ma ciò sarebbe ancora e sempre una risposta, regressiva forse, nevrotica in ogni caso, all’oggettività del discorso. Ed infine scegliere non sarebbe altro che passare in un altro discorso: prima d’ogni scelta determinata, si sceglie la, o si è scelti dalla, legge della discorsività in generale. Il discorso rimanda, infatti, a quel ‘si deve’ anteriore a qualunque formulazione riflessa della legge morale e che precede, quindi, sia la questione di un agire morale razionalmente fondato sia quella dell’universalizzazione degli enunciati prescrittivi. Impossibile sarebbe universalizzare, cioè rendere constativi, gli enunciati prescrittivi se gli stessi constativi sono in primo luogo dei performativi (infelici). È lo stesso discorso della scienza che in quanto tale produce i constativi, ad essere a sua volta un performativo e, quindi, un prescrittivo: ‘si deve sapere’, ‘sapere aude’, ‘c’è volonta di verità’. L’etica non si occupa dell’autonomia dei regimi di frasi, della possibilità di distinguere enunciati constativi da enunciati prescrittivi, al solo scopo di ricondurre questi ultimi al criterio di razionalità degli altri, bensì, per riprendere una tematica lyotardiana, del dissidio che sempre si apre fra i regimi di frasi o i generi di discorso; dissidio provocato in primo luogo dall’impossi35 Per questa interpretazione di Hegel cfr. A. Masullo, Coscienza e trascendentalismo in Di/they, in G. Cacciatore, G. Cantillo (a cura di), Wilhelm Dilthey. Critica della metafisica e ragione storica, Bologna 1985, pp. 121-122.

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bilità di ciascuno di essi di essere esaustivo, totalizzante, di dire nella sua modalità, secondo il suo tono di voce, l’intero del dicibile, compreso il silenzio. Vi è un certo sapere – il sapere del desiderio – che sfugge al potere del discorso; sapere non è potere: è piuttosto l’effetto di una passività più passiva d’ogni passività, di una certa ‘pazienza’ o di un’attesa cui si dispone il soggetto della verità. Passività nei confronti della legge inaugurata dall’accadere della verità come commemorazione di un plus-de-jouir, di un desiderio eccessivo. Desiderio che, al di là della volontà del soggetto, lo impegna, lo obbliga alla responsabilità morale verso la verità. Ed è così che una morale soggettiva si trova sempre iscritta in un’etica del discorso. C’è da chiedersi allora quale potrebbe essere la responsabilità specifica cui obbliga il discorso filosofico-universitario. Esso, da un lato, dice il sapere come sistema, iscritto, cioè, nel doppio movimento della suddivisione regionale e della ricomposizione unitaria, in una parola come ‘enciclopedia’; dall’altro, non è in grado di articolare al suo interno lo statuto del soggetto del desiderio: può descrivere, certo, fenomenologicamente la dialettica del desiderio, ma si sospende sull’impossibilità di seguirla quando essa sovverte il soggetto del sapere. Costretto dalla sua legge di struttura alla valorizzazione, attraverso l’insegnamento, del significante fondamentale, deve arretrare di fronte al soggetto del desiderio; impegnato nell’edificazione del sapere, elide il carattere eccessivo del desiderio: come discorso, quest’ultimo gli resta interdetto, detto, senza possibilità di dirlo, nella piega del suo dire. Per questo il soggetto insegnante è posto di fronte alla scelta: da un lato l’accumulo valorizzante che produce sempre nuovo sapere e allo stesso tempo conferma il potere di una tradizione, di una certa trasmissione del sapere, dall’altro la sua interruzione, il rovesciamento isterico del discorso universitario, la messa in posizione di Maître di ‘a’, oggetto-causa del desiderio. È facile vedere quanto tale pratica non sia semplice, non si riduca in nessun caso ad un processo lineare, unidirezionale. Anzi, tale pratica è di fatto insostenibile, come governare e insegnare, visto che in una certa misura essa corrisponde a quella dell’interpretazione. Se la difficoltà della posizione analitica consiste, come ha visto Lacan, nell’autorizzazione a dirsi analisti (ciò che egli ha articolato sotto il nome di ‘passe’: passo, passaggio e lasciapassare insieme), vale a dire nel trovarsi in una situazione tale che niente autorizza a tale passo se non il fatto che ci si autorizza da sé, allora simile è la condizione in cui si pone il soggetto filosofico quando ‘decostruisce’ quella tradizione da cui riceve la propria legittimità. Come d’altronde situarsi, trovare

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VI. TEORIA DEL DISCORSO

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cioè il luogo dal quale parlare (scrivere) dal momento che, in nome della verità, ci si trova sempre dentro/fuori il discorso universitario? Non dovremo, forse, ripetere quell’evento luttuoso che si dava su di una scena primaria? Non dovremo, cioè, ripetere il gesto di un parricidio? E ripetendolo non ci ritroveremo iscritti di nuovo nella scena filosofica, consegnati al lutto interminabile, all’elaborazione malinconica di una perdita? E chi o che cosa ci assicurerà d’essere autorizzati a tanto, di non far la parte di un folle o di un ingrato? Iscritto nella legge del discorso, al soggetto filosofico non resta che una pratica (che è sempre una politica) dei bordi: star nella piega, disporsi sulla linea, seguire col suo passo l’internarsi/esternarsi chiastico del discorso, pronto, tuttavia, a sospenderlo prima che la piega si ripieghi ed egli divenga un ‘bordeline’. Pratica quanto mai difficile, ai limiti dell’impossibile come si vede; e, tuttavia, pratica già messa in opera in un certo senso all’interno stesso della tradizione filosofica. Non si potrebbe interpretare, infatti, larga parte del pensiero post-hegeliano come una forma d’isterizzazione del meta-racconto razionale del soggetto della scienza? Leggere nei testi di Kierkegaard, di Marx, di Nietzsche, ma finanche in quelli di Dilthey e Husserl, fino ad Heidegger, l’emergenza del soggetto di desiderio? Ma, appunto, tale rilettura non dovrebbe dimenticare, mentre pone in rilievo le strategie per la messa in crisi del soggeto del sapere, i punti di blocco, le strozzature e le afasie che denotano la permanenza della tradizione onto-teo-logica nella trama stessa del suo rovesciamento. Tale, d’altronde, ci sembra essere stato il lavoro della decostruzione in senso stretto che, se si apparenta con una forma di pensiero che si definisce romantica – pratiche dell’ironia, della parodia etc. – lo fa perché in essa è stata tematizzata la legge della degenerazione della legge del genere (di discorso): ci riferiamo a quel concetto di prosa che, in quanto piùche-genere, prende i discorsi lungo la loro piega e li rovescia. Prosa che anticipa il concetto di scrittura36. Ora, se insistiamo tanto sulle difficoltà, è perché non vogliamo nasconderci gli ostacoli disseminati lungo una strada che voglia connettere il progetto filosofico alla psicoanalisi e la teoria dei quattro discorsi alla pratica della decostruzione: è facile vedere come i due movimenti siano strettamente intrecciati e solidali. Per questo secondo punto l’avvertimento è quello di tenere sempre presente il rapporto fra 36

Su questo punto rinvio al mio Walter Benjamin e la moralità del moderno, cit., pp. 147 sg.

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IL DISCORSO E LA CENERE

un’economia generale ed un’economia ristretta; sapere che come il discorso analitico può decadere a discorso del Maître (e nulla di più bête di un discorso analitico fallito), così la decostruzione può credere di aver raggiunto lo scopo, di aver superato la linea, e scadere a ribellione isterica, discorso mistico od anche a mero gioco: gioco di un’ermeneutica infinita che elude il ‘si deve’ della legge. Ma per quanto riguarda il primo punto, noi vorremmo ora, a mo’ di conclusione, indicare cosa certamente la psicoanalisi non sia da un punto di vista filosofico: certamente non è (ed è quasi ridicolo ricordarlo) fare l’analisi (selvaggia) dell’individuo empirico, una specie di biografia filosofica aggiornata con le ultime scoperte delle scienze umane. Ma di più, la psicoanalisi non è uno dei tanti metodi ausiliari che con alterne fortune viene chiamato a sostegno del discorso filosofico: ad esempio, come ermeneutica del sospetto in una teoria generale dell’interpretazione. Ed infine la psicoanalisi non è il possibile membro di una ennesima variante del meta-racconto dell’emancipazione. Abbiamo voluto mostrare, al contrario, che, se esiste una possibilità di chiamare in causa la psicoanalisi e la sua (mis)-interpretazione lacaniana, questa consiste nel fatto che oggetto della psicoanalisi è lo stesso soggetto della scienza letto a partire da una archeologia del desiderio. Solo a quest’altezza la psicoanalisi entra a far parte del programma filosofico; solo a partire da qui tutto un certo lavoro di traduzione fra la psicoanalisi e la filosofia può avere inizio. Ed è, infine, per il suo andare alla radice desiderante del soggetto della verità che la psicoanalisi riguarda la filosofia e può citarla nel suo discorso. È tempo ormai, crediamo, che quei sogni da visionario che Kant giustamente espelleva dal territorio della filosofia, tornino a turbare l’autonomia del soggetto della scienza. Essi hanno mutato di segno: se a quel tempo svendevano la ragione in cambio di un accesso diretto alla verità, oggi richiamano il soggetto al fuoco del desiderio di cui brucia; giacché la filosofia come è, da un lato, il tentativo di mettere a tacere il desiderio, così è dall’altro la forma della sua sopravvivenza: «il fuoco onirico è la bruciante soddisfazione del desiderio sessuale, ma ciò che fa sì che il desiderio prenda forma nella sostanza sottile del fuoco, è tutto quanto rifiuta quel desiderio e cerca continuamente di spegnerlo»37.

37 M. Foucault, Introduzione a L Biswanger, Sogno ed esistenza, tr. it. di L. Corradini e C. Giussani, Milano 1993, p. 22.

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Capitolo settimo Kant I. Risposta alla domanda ‘Che cos’è l’università?’

Signori, nel momento in cui per la prima volta prendo servizio in questa università come docente di filosofia, ufficio a cui mi ha chiamato la grazia di Sua Maestà il Re, consentitemi di premettere questo preambolo, e di dire che ho considerato come particolarmente augurabile e gradevole per me poter entrare in un campo di attività accademica più vasto, proprio in questo momento e in questo luogo. Per quel che riguarda il momento, mi sembra che siano intervenute le circostanze per le quali la filosofia può di nuovo ripromettersi di essere oggetto di attenzione e di amore e nelle quali questa scienza, quasi ammutolita, può di nuovo innalzare la sua voce. G.F.W. Hegel, Allocuzione ai suoi ascoltatori all'inizio delle sue lezioni a Berlino il 22 ottobre 1818

Dove siede la facoltà filosofica nel parlamento universitario? Kant non ha dubbi: a sinistra, sui banchi dell’opposizione. L’affermazione perentoria si trova in un tardo testo kantiano che porta come titolo, Der Streit der Fakultäten: «La classe delle facoltà superiori [come la destra (die recbte Sette)] del Parlamento della scienza (Gelehrtheit), difende gli statuti del governo (Regierung), mentre occorre che in una costituzione libera (freien Verfassung), così come bisogna che vi sia quella ove si tratta della verità (Wahrheit), vi sia anche un partito d’opposizione (Oppositionspartei) [la parte sinistra (die linke Seite)], che è appunto il banco della facoltà filosofica, perché senza il severo esame e le obiezioni di essa, il governo non sarebbe edotto sufficientemente su ciò che possa essergli vantaggioso o svantaggioso»1. 1 Cfr. Kants Werke. Akademie.Textausgabe, vol. VII, Berlin 1968, p. 35 (l’edizione riproduce quella curata dall’Accademia prussiana delle scienze, Berlin 1902 sg. Le opere di Kant saranno d’ora in poi sempre citate da questa edizione con la sigla KW seguita dall’indica-

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IL DISCORSO E LA CENERE

D’emblée Kant ci offre la messa in scena di un rapporto e di un conflitto: da un lato, infatti, l’istituzione universitaria si modella sull’esempio di una ‘libera costituzione’, quasi una democrazia rappresentativa; dall’altro, ciò implica un conflitto tra le facoltà che riguarda molto da vicino il governo dello stato. Il conflitto è doppio: non solo spacca l’unità del sapere scientifico, ma soprattutto costringe il governo a dover prendere posizione. Esso deve fare i conti con una opposizione filosofica che, per quante cautele prenda, deborda sempre i limiti del dibattito scientifico ed invade il territorio della politica. Non ci soffermeremo sulla portata storica (ma anche sull’effetto sull’immaginario collettivo degli ultimi due secoli) della metafora destrasinistra connessa non solo alle collocazioni politiche in senso stretto, ma soprattutto allo statuto della verità: la verità sta sempre a sinistra, strutturalmente all’opposizione rispetto al governo. Posizione, d’altronde, non del tutto nuova, bensì iscritta nella tradizione stessa: non si opponeva Socrate (e Platone con lui), fino all’accettazione della messa a morte, ai discorsi dominanti e attraverso di essi al governo della polis? La differenza rispetto all’utopia della Politeia sarebbe da vedersi nel fatto che ora il discorso della verità fa leva sull’autonoma sfera della società civile, che l’eroe eponimo, come direbbe Lyotard, non è più l’insieme dei cittadini, ma il popolo visto nella sua determinatezza storica, lavorato dalla spinta della ‘razionalità materiale’ e che, quindi, il progetto dell’eguaglianza, tenendo ferma la differenza e sfruttando, come direbbe Baczko2, l’immaginario collettivo, si fa politica effettuale. Eppure non sembra essere questo il senso del discorso kantiano: in Kant l’accento sembra cadere piuttosto sul conflitto che si apre all’interno dell’istituzione universitaria e da lì fra l’università, in particolar modo la facoltà filosofica, ed il governo. Il discorso della scienza evita, dunque, di scadere al rango di una ideologia e non pare pretendere di avere il ruolo di riunificatore del sapere da un lato e del sapere così zione del volume in numeri romani e da quella della pagina in numeri arabi; fra parentesi il numero di pagina della traduzione italiana di volta in volta citata). Per la traduzione italiana del Der Streit der Fakultäten ci siamo serviti di quella di A. Poggi, Genova 1953 (il passo citato è a p. 41); tuttavia per la seconda sezione dell’opera, Se il genere umano sia in costante progresso verso il meglio, abbiamo usato la traduzione di G. Solari e G. Vidari in I. Kant, Scritti politici, Torino 1978. Sul concetto della ‘rappresentanza’ politica degli intellettuali all’epoca di Kant si veda, P.A. Schiera, Scienza e rappresentanza della scienza nella Germania del primo ottocento, «Il Centauro», n. 15, settembre-dicembre 1985. 2 Si veda B. Baczko, Lumières de l’utopie, Paris 1978.

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VII. KANT I. RISPOSTA ALLA DOMANDA

«CHE COS’E’ L’UNIVERSITA’»

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ricomposto con lo stato dall’altro. Per quanto Kant, senza dubbio, partecipi del meta-racconto illuminista, tuttavia la filosofia occupa sempre una scena intermedia fra la positività dei saperi particolari e la falsa universalità del discorso universitario. Il conflitto – o il dissidio, come d’ora in poi renderemo il termine Streit – è strutturale ed insormontabile; dissidio che, come vedremo, si spinge fin dentro il territorio del filosofico in quanto tale e che, quindi, viene a connotare anche lo stesso statuto della verità. Non ci sembra, dunque, che sia su questo punto che il testo kantiano incontri, come direbbe Derrida3 , il suo limite di traducibilità quando si tenti di farlo slittare dal suo tempo al nostro. Ci sembra, al contrario, che la sua caduta afasica si collochi là dove Kant si prova a spingere la facoltà del giudicare su quel bordo pericoloso da cui il pensiero tenta di dire la destinazione della specie umana; là dove, cioè, nonostante tutto, la verità viene ricondotta su di una scena rappresentativa. Ma per giungere a tale esito, è necessario ripercorrere l’itinerario kantiano a partire dal luogo materiale in cui la filosofia fa sentire la sua voce: vogliamo dire dall’istituzione universitaria. Come, cioè, iniziare a parlare dell’università da una prospettiva che, per Kant, vuole essere, non storica e diacronica, bensì strutturale e sincronica? Si legga: «Non fu cattiva la trovata (kein ubeler Einfall) di colui, il quale concepì da prima il pensiero e lo propose per la pubblica attuazione, di trattare tutto l’insieme dell’erudizione (ganzen Inbegriff der Gelehrsamkeit – ma Inbegriff significa sostanza, quintessenza ed anche incarnazione, personificazione) [propriamente le teste dedicate ad essa (eigentlich die derselben gewidmeten Köpfe)] quasi industrialmente, mediante la divisione del lavoro (gleichsam fabrikenmässig durch Vertheilung der Arbeiten) ove fossero collocati tanti insegnanti pubblici (öffentliche Lehrer), tanti professori quante sono le discipline della scienza (Wissenschaften), come depositari di essa (als Depositeure), i quali costituissero insieme una specie di entità scientifica comune (eine Art von gelehrtem gemeinen Wesen), detta università o scuola superiore che avrebbe la propria autonomia [poiché solo dei dotti (Gelehrten – intellettuali) possono giudicare (Urtheilen) dei dotti in quanto tali]; grazie alle sue facoltà (piccole società distinte secondo le diversità delle principali discipline dell’erudizione, fra le quali si dividono i dotti universitari), sarebbe autorizzata (berechtigt wäre) da 3

J. Derrida, Mochlos ou le conflit des facultés, «Philosophie, n. 2, Paris 1984, p. 13. (Di questo testo di Derrida esiste una traduzione italiana a cura di M. Ferraris in «Aut-aut», n. 208, 1985). Sul Kant del Conflitto delle facoltà Derrida è tornato in Lettre, prefazione a AA.VV., La grève des philosophes, Paris 1986.

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IL DISCORSO E LA CENERE

una parte ad accogliere gli allievi delle scuole inferiori, dall’altra ad autorizzare liberi docenti (che non sarebbero membri dell’università), chiamati dottori, dopo un esame preliminare ed in virtù del proprio potere di un rango universalmente riconosciuto (conferendogli un grado), cioè a crearli (creiren)»4. Il genere letterario scelto da Kant è manifestamente quello della narrazione mitica di fondazione; esso implica, come si vede, la figura di un proto-inventore ed un’idea – la buona trovata – venuta da chissà dove: quasi un dono divino, una felice reminiscenza o un effetto che l’intelligenza pratica produce alla cieca. Comunque, una verità che, una volta data, si mette all’opera e produce la costruzione dell’istituzione. L’opzione per il genere mitico-fondativo non è tuttavia un artificio retorico: con esso Kant vuole indicare alcuni caratteri strutturali che attengono in proprio all’istituzione universitaria. Primo fra tutti la divisione del lavoro intellettuale: la suddivisione del sapere in regioni è quasi un a priori del discorso della scienza e di quello universitario, cosicché il richiamo all’economia politica, reso evidente da quell’ ‘industrialmente’, fatto come in fabbrica, testimonia che l’emergenza della società civile rende effettuale quanto nell’ambito del sapere era vero da sempre. L’istituzione deve soltanto adeguarsi ad una realtà nella quale il sapere è divenuto principio di valorizzazione. Tuttavia, la felice trovata non consiste soltanto nel riconoscere la necessità della divisione del lavoro intellettuale; accanto ad essa – e in ciò propriamente risiede il carattere industriale – si tratta di radunare i dotti in un unico luogo – l’università come fabbrica del sapere – sottraendoli alla sfera privata, sia essa domestica o accademica. È evidente nel ragionamento kantiano la consapevolezza che l’impresa universitaria può essere soltanto un investimento pubblico di cui solo lo stato può rendersi garante. Da qui la duplicità strutturale dello statuto dell’università: da un lato l’autonomia (essa sola può ‘creare’ dottori, cioè autorizzare all’insegnamento, per quanto ‘libero’) e dall’altro la sua subordinazione all’autorità dello stato. L’università legittima nuovi dotti a partire da una fonte di legittimazione esterna: da qui la prima causa di dissidio che, tuttavia, si riverbera all’interno dell’università, lungo i confini fra le facoltà. L’analogia con l’economia politica si fa chiara: come il passaggio dallo sfruttamento antico del servo alla moderna estrazione di plusvalore presuppone la costruzione – un’altra buona trovata – dell’istituzione fab4

KW, VII, 17 (17, parzialmente modificata).

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VII. KANT I. RISPOSTA ALLA DOMANDA

«CHE COS’E’ L’UNIVERSITA’»

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brica, lo sradicamento, cioè degli individui dalla terra e/o dal lavoro domestico e la loro agglomerazione in uno spazio unico, così la produzione del sapere e la valorizzazione che ne consegue richiedono che uno spazio pubblico divenga la sede eletta della ricerca e dell’insegnamento. Radunare, dunque, tutte o quasi, le teste (e metaforicamente le menti), formando una specie di ‘corpo’ pensante unitario, è l’atto preliminare per l’incremento della produzione del sapere. È sintomatico in questo senso quanto Kant dice, subito dopo, sulle Accademie private: «Oltre questi dotti uniti in corporazione (zünftigen) si possono avere anche dotti liberi da tale unione, i quali non appartengono all’università; ma in quanto lavorano soltanto intorno ad una parte del grande complesso dell’erudizione, essi formano certe corporazioni libere (freie Corporation) (chiamate Accademie o società scientifiche) come altrettanti laboratori o vivono quasi nello stato naturale dell’erudizione e s’adoperano ciascuno per sé, senza prescrizione e regole pubbliche (ohne öffentliche Forschrift und Regel), come dilettanti (Liebhaber), ad accrescere o a diffondere la scienza»5. Accanto alla differenza che attiene al sapere in generale – la divisione del lavoro intellettuale – se ne fa strada un’altra tra esercizio privato ed esercizio pubblico del sapere. Coloro, dunque, che o in privato, o anche associati in Accademie, la cui costituzione non investe la responsabilità dello stato, ma semmai soltanto la sfera del diritto privato, si dedicano alle scienze, sono, secondo Kant, dei dilettanti, cioè sono spinti da un desiderio soggettivo di sapere che non implica responsabilità pubbliche e che, quindi, non riguarda il popolo; e che, forse, non rimanda neppure ad una responsabilità nei confronti della verità. La ragione di questa distinzione è immediatamente esposta da Kant. Accanto ai dotti propriamente detti (quelli, si deve ritenere, che a pieno titolo insegnano nell’università) esistono i cosidetti ‘letterati’ o ‘istruiti’ (Litteraten, Studirte), i quali «come strumenti del governo (Instrumente der Regierung) investiti di un impiego da quest’ultimo per proprio fine (non precisamente per il meglio delle scienze) bisogna certamente che abbiano fatto i loro studi all’università»6. Si noti la cura terminologica con cui Kant distingue il ruolo dell’insegnamento universitario da quello che potremmo definire dell’amministrazione statale; mentre i dotti in quanto tali sono i ‘depositari’ della scienza ed è solo a questo titolo che 5 6

Ivi, 18(17-18) Ivi (18).

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IL DISCORSO E LA CENERE

il protoinventore li ha radunati nello spazio universitario (come essi si formino non è detto, in conformità al genere mitico del discorso, sebbene si debba pensare che i liberi docenti siano i futuri dotti), i letterati sono gli ‘strumenti’ del governo. Che essi, dice Kant, abbiano dimenticato l’aspetto teorico delle dottrine che applicano, è irrilevante, dal momento che ad essi è richiesto solo, in nome della funzione civile cui sono chiamati e che certo si fonda, nei suoi principi essenziali, sulla ricerca e sull’insegnamento dei dotti, di saper mettere in pratica quanto hanno studiato. In altri termini si può dire che l’interesse che lo stato dimostra nei confronti dell’università è dovuto alla necessità di formare – dirigendo il meccanismo di produzione – il personale amministrativo in senso lato, quello che non solo faccia ben funzionare la macchina statale, ma che soprattutto svolga opera di controllo sul popolo, fonte della legittimazione dello stato, ma insieme oggetto del suo governo. Costoro, dunque, che Kant chiama anche gente d’affari (Geschäftleute) o tecnici della scienza (Werkkundige), resi tali dall’università, valorizzano a loro volta lo stato e si dividono secondo le tre grandi funzioni del controllo: ecclesiastici, magistrati e medici. Anticipando di poco, abbiamo così la ripartizione delle cosidette facoltà superiori. Ora, l’aggettivo superiore, spiega Kant, rimanda semplicemente alla gerarchia degli interessi del governo, il quale indica ciò che deve essere insegnato pubblicamente e decide intorno a quali teorie vadano accolte dalle rispettive facoltà e quali respinte come non congruenti con i propri fini. Il governo certo non insegna, ma decide del genere di discorso legittimo; la motivazione di ciò risiede nel fatto che i letterati, che costituiscono il corpo dei funzionari dello stato e che sono strumenti del governo, esercitando un’influenza legale sul pubblico, non possono fare uso della scienza acquisita secondo il proprio criterio, ma devono sottostare alla censura delle rispettive facoltà. Essi, dunque, rispondono al governo dell’esercizio del loro sapere, dal momento che il governo è la fonte della loro legittimazione, ma derivano il loro sapere dalle Facoltà, che, a loro volta, dipendono, nella scelta delle dottrine e per il loro insegnamento pubblico, dal governo. Tale intreccio di responsabilità si complica con la presenza della facoltà inferiore, ma si può dire anche che proprio tale nodo finisce per richiedere, secondo Kant, l’esistenza della facoltà filosofica. Se gli interessi del governo portano al privilegio delle facoltà superiori, ciò può divenire fonte, se non di dissidio, perlomeno di difficoltà: come potrebbe, infatti, il governo decidere quali dottrine siano insegnabili e quali

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VII. KANT I. RISPOSTA ALLA DOMANDA

«CHE COS’E’ L’UNIVERSITA’»

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no, se le facoltà superiori non possono far altro che eseguire i suoi ordini? In altri termini, a quale fonte di legittimazione il governo dovrà ricorrere per decidere intorno a ciò che gli è più o meno vantaggioso dal punto di vista scientifico, se esso in quanto tale non sa nulla di scienza e visto che, se se ne occupasse nell’augusta persona del Sovrano, «annullerebbe, a causa di tale pedanteria, la stima che gli è dovuta» o, volendo familiarizzare con il suo ceto intellettuale, cadrebbe «al di sotto della sua dignità»7? Sebbene non sia detto apertamente da Kant, la possibilità di un dissidio fra le facoltà ed il governo è iscritto nel reticolo di responsabilità che lega insieme i letterati, il governo e le facoltà superiori. Lo abbiamo già visto: i letterati possono fare un uso del sapere diverso da quello prescritto, possono cioè trascurare il potere giudicante che spetta alle facoltà; ma è anche vero che il potere delle facoltà è dato dal governo ed infine che il governo è il responsabile dei letterati. Se, dunque, si apre un dissidio fra un letterato e le facoltà, o fra un letterato ed il governo, o, infine, fra il governo e le facoltà, chi sarà chiamato a dirimere il conflitto? La necessità della facoltà filosofica trova in ciò la sua radice. In quanto ha di mira la verità, la cui assenza, nota Kant, va a scapito dello stesso governo, la facoltà filosofica dirime i conflitti. Ma ciò che va subito messo in rilievo è il fatto che per decidere intorno alla verità, essa sia inevitabilmente produttrice a sua volta di dissidio. La facoltà filosofica deve, dunque, essere pensata nel suo statuto come quella che non ricevendo ordini dal governo, come accade per le altre, neppure li dà (infatti, non produce letterati); la facoltà filosofica, secondo Kant, si limita a valutare, cioè a giudicare, coloro che hanno rapporti con l’utilità quando pretendono di parlare in nome della verità: in altri temini, gli stessi componenti delle altre facoltà, nella misura in cui essi insegnano dottrine che pretendono lo statuto del vero. Alla ragione, dice Kant, non è possibile ordinare cosa ritenere vero (e fra parentesi Kant precisa che non è possibile ordinare alcun credo, giacché essa riconosce soltanto un libero credo). Allora, la facoltà filosofica non ha la sua fonte di legittimazione nel governo, a differenza delle altre facoltà e, come si ricorderà, dell’università in quanto tale, ma nella ragione che per definizione non può essere che libera, ed accetta di buon grado la qualifica di inferiore, perché, come dice Kant, colui che può comandare ad un altro si crede superiore a chi, essendo veramente libero, non ha bisogno di comandare a nessuno. Perciò la facoltà filosofica non prescrive dottrine, 7

Ivi, 19(20).

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IL DISCORSO E LA CENERE

non indica contenuti cui attenersi, ma si limita semplicemente a prescrivere le regole della ragione per giudicare del vero. È tempo di fare alcune considerazioni prima di andare oltre. La posizione della facoltà filosofica all’interno dell’istituzione universitaria sembra sottoposta ad un regime di quasi extra-territorialità; pur facendo parte a pieno titolo del discorso universitario, la facoltà filosofica sembra esserne posta ai margini, sembra agire sui confini. Se l’autorità da cui l’università dipende per la sua stessa esistenza risiede nel governo, ed è, quindi, extra-territoriale rispetto all’istituzione, la facoltà filosofica si richiama ad un’altra fonte dell’autorità e della legittimazione – la ragione – ed è, dunque, extra-territoriale nei riguardi delle facoltà superiori, le quali rispondono del loro operato al governo. L’articolazione del discorso universitario sembra guidata anche in Kant da un dispositivo che rimanda a quello della doppia scena: la rappresentazione del sapere all’interno del discorso universitario è come raddoppiata dalla scena filosofica. Quest’ultima, infatti, rovescia gli enunciati degli altri saperi e ne verifica il carattere conoscitivo (e prescrittivo) alla luce delle regole che fungono da condizioni di un sapere scientifico in generale. Ma vedremo subito come l’operazione di verifica degli enunciati constativi sottintenda anche per Kant, in nome del doppio registro della legittimazione, la messa in crisi degli enunciati prescrittivi (ed infine performativi) che inevitabilmente stanno al fondo dei generi di discorso. È esattamente a causa dell’attivazione di tale dispositivo che, ci sembra, la questione della facoltà del giudicare viene ad assumere un ruolo sempre più centrale e sempre più problematico, giacché il giudizio, fedele in ciò al suo dettato filologico, è l’apertura del dissidio fra i generi di discorso. Se il portato fondamentale della critica è stato quello di ricondurre la ragione nel suo aspetto conoscitivo al rispetto dei propri limiti, ancorandola alla sfera della sensibilità, ciò ha avuto come risultato l’introduzione di un criterio per distinguere enunciati constativi ed enunciati prescrittivi, e soprattutto per impedire che i primi prendessero surrettiziamente il posto dei secondi e viceversa. Allora, verificare se un enunciato risponda alle condizioni di demarcazione dei generi di discorso non significa più analizzare se è conforme alle regole fondamentali del sapere corrispondente, ma delegittimare quel sapere stesso in quanto le sue regole permettono che un enunciato di fatto prescrittivo pretenda di valere come constativo. La conseguenza dell’operare della critica consiste, in altri termini, nel fatto che Kant ha dovuto, per delegittimare la metafisica dommatica, per-

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VII. KANT I. RISPOSTA ALLA DOMANDA

«CHE COS’E’ L’UNIVERSITA’»

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venire alla separazione netta fra il genere di discorso constativo – critica della ragione pura – e quello prescrittivo – critica della ragione pratica –, negando qualunque passaggio fra di essi. Il primo effetto della critica è stato quello di istituire dei territori i cui confini fossero ben custoditi, in modo tale che né fughe né intrusioni indesiderate fossero possibili. Tuttavia, nello stesso tempo in cui il giudizio è tale facoltà di demarcazione fra i generi di discorso (e ciò a partire dal fatto che il giudizio in generale distingue in quanto determina e rende discreto il flusso dell’esperienza), al giudicare pertiene il porre in relazione, l’istituzione del legame: il giudizio, da questo punto di vista, è la forma elementare del discorso, ciò che, infine, lo rende possibile. A sua volta, come abbiamo già visto, il discorso costituisce l’insieme di regole che permettono di decidere sulla qualità del giudizio, cioè sul tipo di regime cui appartengono i singoli giudizi: constativo, prescrittivo, etc. D’altronde, quando Kant è chiamato a definire la destinazione della filosofia, quale essa proviene dalla tradizione ed insieme quale si presenta a partire dall’apertura della scena critica, non può far altro che determinarla come quella propria di una «scienza della relazione di ogni conoscenza con i fini (Zweke) essenziali della ragione umana (teleologia rationis humanae)»; mentre la destinazione del filosofo è quella di essere non «un artista della ragione, bensì un legislatore della ragione umana»8. Dunque, la filosofia non è altro che l’esercizio del giudicare stesso, inteso come l’istituzione del legame, del rapporto, cioè della verità, fra le conoscenze e i saperi, da un lato, ed i fini, gli scopi, della ragione dall’altro; quei fini, cioè, che la ragione ha dedotto autonoma8 KW, III, 542 (tr. it. di G. Colli, Milano 1976, p. 811). È questo il luogo in cui Kant distingue la filosofia come Schulbegriff dalla filosofia come Weltbegriff e specifica in una nota: «Concetto cosmico significa qui un concetto riguardante ciò che interessa necessariamente chiunque; di conseguenza io determino il fine (Absicht) di una scienza secondo concetti scolastici, nel caso in cui la consideri soltanto come un’abilità (Geschlichkeit) destinata a certi scopi arbitrari (beliebigen Zwecken) (ivi, 543, tr. it., p. 812). Ma sempre nella Kritik der reinen Vernunft Kant si richiama all’istituzione universitaria (e con essa al problema generale dell’educazione) come al luogo deputato del dissidio, cui mette fine, non una vittoria, quanto una sentenza (e da ciò discende per Kant anche il diritto all’esposizione pubblica delle diverse e contraddittorie posizioni): La critica della ragione può essere considerata come il vero tribunale per tutte le dispute (Streitigkeiten) della ragione pura. Tale critica, in effetti, non si interessa delle controversie, che si riferiscono immediatamente ad oggetti, ma è destinata piuttosto a determinare e a giudicare (beurtheilen) i diritti (Rechtsame) della ragione in generale, in base ai principi della sua originaria istituzione (ivi, 491, tr. it., p. 744).

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IL DISCORSO E LA CENERE

mente da se stessa senza alcun riferimento all’ambito molteplice e contraddittorio degli scopi empirici. È facile vedere allora come tale definizione della destinazione della filosofia così come l’enuncia la Critica della ragione pura apra di fatto un dissidio proprio con la scena critica da cui essa riteneva di trarre la propria legittimazione. La ricerca sui limiti di estendibilità dei concetti puri della ragione (categorie e idee), infatti, ha semplicemente ristretto l’applicabilità degli enunciati constativi; i giudizi che la critica riconosce come pertinenti alla sfera scientifico-conoscitiva sono solamente quelli che la Critica del giudizio definirà giudizi determinanti, cioè giudizi per i quali l’universale è dato e il particolare, il contenuto, che come tale non è deducibile dai concetti puri della ragione, proviene dal lato ricettivo-passivo del soggetto conoscitivo. Allora il giudizio dovrà soltanto sussumere il particolare sotto l’universale; in altri termini, costruire il suo significato oggettivo ed universale a partire dall’universalità ed oggettività dei concetti della ragione. È l’aspetto costruttivistico del conoscere che proprio la scena critica ha reso possibile. Ma il giudicare filosofico, o la filosofia come esercizio del giudizio, rimanda, come si è visto, all’istituzione, non solo di un legame in generale, bensì di un legame secondo finalità. Il particolare, in questo caso l’insieme dei saperi, non si limita, né lo potrebbe, ad essere sussunto sotto le categorie dell’intelletto, ma tende ad accordarsi con le idee della ragione, cioè con concetti di scopo, concetti, cioè, la cui struttura logica è quella dell’autofinalità. Ma allora c’è da chiedersi se un giudizio proprio della filosofia sarebbe ancora puramente constativo o non piuttosto prescrittivo ed, infine, performativo. Si tratterebbe, infatti, in tal caso di giudicare se il senso che il particolare mostra di possedere in proprio, al di là di quanto possano dire le forme a priori della sensibilità e le categorie dell’intelletto, corrisponda all’autofinalità dei concetti puri della ragione. Detto altrimenti, il giudizio qui dovrebbe fondare la possibilità che uno scopo empirico sia tale da permettere insieme alla sua realizzazione anche quella dello scopo della ragione. Non è un caso se la Critica della ragione pura lascia la questione irrisolta, optando, forse, per l’impossibilità di trovare le regole per tali tipi di giudizio; e a ragione: in base, infatti, ai presupposti della critica della ragione pura, tale regola del giudizio non potrebbe essere che a sua volta constativa, dovrebbe cioè sussumere di nuovo un giudizio finalistico sotto un giudizio determinante, il che equivarrebbe in termini più recenti al tentativo di universalizzazione teoretico-razionale dei giudizi prescrittivi.

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VII. KANT I. RISPOSTA ALLA DOMANDA

«CHE COS’E’ L’UNIVERSITA’»

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Kant lascia, al contrario, la questione in sospeso: e le conseguenze sono note. Da un lato, infatti, la sospensione del giudizio sul giudizio stesso apre la possibilità della ragione pratica, cioè la possibilità di fondare la validità degli enunciati prescrittivi proprio sul terreno della critica; dall’altro postula in generale la necessità di una pensabilità del giudizio finalistico, quello, cioè, che accordi la serie empirica, strutturata a sua volta secondo scopi empirici, con l’autofinalità della ragione, e che, dunque, sottoponga il giudizio non alle regole del regime constativo, ma a null’altro che alle coordinate della critica. Come può fondare allora la critica della ragione pratica la validità degli enunciati prescrittivi? Come si sa proprio attraverso la separazione fra ragione e patologia, cioè fra scopi empirici – il piacere – e scopo morale-razionale – conformità alla legge da parte della volontà. È appunto in nome di un paradosso, che perciò stesso mostra la verità, che vengono fondati nella loro validità gli enunciati prescrittivi, vale a dire i giudizi propriamente moral-pratici: la volontà è effettivamente libera, sciolta, dunque, da tutte le finalità empiriche, solo quando si conformi alla pura legge morale, quando cioè si leghi nel giudizio – la massima –, si sussumi, è il caso di dirlo, alla forma pura della legge. Il legame fra la massima soggettiva della volontà e la forma pura della legge produce la legge pratica, e, dunque, un giudizio morale che, come guida dell’agire, sia criticamente fondato. Torneremo sulla forma imperativa che necessariamente la legge morale deve assumere nei confronti del soggetto. Ora ci si deve chiedere a quale prezzo viene ottenuta da Kant la fondazione critica degli enunciati prescrittivi. Sebbene solo qui le idee della ragione, i concetti dotati di autofinalità, acquistino una validità anche se soltanto secondo l’uso regolativo, è pur vero che essi continuano a risultare inapplicabili alle configurazioni empiriche, in cui l’aspetto finalistico sia intrecciato inevitabilmente con interessi empirici. In conclusione della Critica della ragione pratica, e riprendendo forse inconsapevolmente una questione già sollevata da Platone, quella dell’insegnabilità della virtù, Kant definisce la scienza «la porta stretta (enge Pforte) che conduce alla dottrina della saggezza (Weisheitslehre), se per questa non s’intende semplicemente ciò che si deve fare, ma ciò che deve servire da regola ai maestri per spianar (bahuen) bene e far conoscere la via della saggezza»9. 9

KW, V, 163 (tr. it. di F. Capra, Bari 1966, p’ 203).

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IL DISCORSO E LA CENERE

Ma la dottrina della saggezza non era forse la definizione classica della filosofia derivante dalla tradizione? Ciò che la scena critica vi aggiunge, nel senso di tematizzarlo come problema, è, forse, il fatto che la filosofia, come arte del vivere secondo ragione, non può affidarsi all’intelligenza pratica, alla fronesis, che di fatto mi permette di connettere saperi e fini, ma deve individuare la regola, cioè la scienza del porre relazioni: e tale era la definizione kantiana della filosofia. Ma ora la scienza, cioè il sapere teoretico-razionale, non è più in grado di fondare l’agire pratico: non c’è passaggio, se non stretto, fra gli enunciati constativi e quelli prescrittivi; di più, passaggio ancora più stretto si dà fra la scienza dell’agire morale e la sua insegnabilità, cioè la sua effettualità pratica. Ciò spiega la risposta kantiana a quei critici che credevano di delegittimare la sua posizione rimproverandolo di non aver offerto nessun nuovo principio della moralità. Ma Kant ha facilmente ragione a bollare tale critica come stupida: chi ardirebbe mai trovare nuovi principi della moralità? Significherebbe credere che finora gli uomini siano vissuti senza regole ed in completa assenza di legge. Semmai essi hanno finora vissuto sotto il comando di codici morali che traevano la loro legittimità dall’autorità della tradizione e non dal libero esercizio della loro ragione. Il che permetteva oltretutto che il loro giudizio morale fosse ora rozzo, ora stravagante e geniale, ma sempre privo di quella legittimità che proviene dalla ragione. In altri termini, il problema di Kant non è quello della legittimazione dei comportamenti di fatto esistenti: si può dire, infatti, che in media gli uomini conducano la loro esistenza in conformità alle leggi morali che sono quelle che sono e che nessun filosofo ha mai inventato, né potrebbe, bensì di legittimare le regole del discorso morale, quello cioè che produce i singoli giudizi pratici. Allora ciò che la critica individua è che i giudizi prodotti dalla fronesis, cioè dall’intelligenza pratica, sono soltanto, dal punto di vista morale, degli imperativi ipotetici; sono insomma tali per cui la conformità alla legge è intrecciata con degli scopi empirici, con delle finalità che nulla hanno a che vedere con gli scopi della ragione. Ed insieme che nessuna operazione (tale è l’intervento specifico della critica) permetterebbe di ricondurre i giudizi pratici così intesi a dei giudizi constativi. Ossia nessuna fondazione constativoscientifica è possibile dei giudizi pratici10. 10 «La coscienza di questa legge fondamentale (la legge morale) si può chiamare un fatto (Faktum) della ragione – scrive Kant – non perché si possa dedurre per ragionamento dai dati precedenti della ragione, per es., dalla coscienza della libertà (perché questa

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VII. KANT I. RISPOSTA ALLA DOMANDA

«CHE COS’E’ L’UNIVERSITA’»

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La fondazione critica della validità degli enunciati prescrittivi acuisce allora il problema del giudicare filosofico o della filosofia come giudizio. La risposta che Kant dovrà dare a tale intreccio di problemi sarà quella che coinciderà con l’apertura del territorio della terza critica (e, forse della cosidetta ‘quarta critica’, cioè quella che ha per oggetto la storia considerata da un punto di vista filosofico), che tematizzerà appunto il giudizio in quanto tale. Poiché è necessario che s’istituisca il legame fra le conoscenze e i saperi, cioè insiemi empirici già strutturati e dotati di senso, con i fini autonomi della ragione, senza venir meno ai confini che la critica ha stabilito, il giudizio farà da regola a se stesso; l’atto del giudicare inaugurerà la regola stessa del giudizio. Il giudizio, in altri termini, non è a sua volta sottoposto ad un regime discorsivo, bensì è un regime di discorso che, si potrebbe dire, si situa ai limiti dell’extradiscorsività. Esso, infatti, pone la relazione, cioè istituisce la verità, fra i constativi ed i prescrittivi. Mentre tiene ferma la loro irriducibile differenza, li lega, li relaziona; ma allora la verità, cioè il rapporto in base al quale il legame viene posto, non è prodotto a sua volta da un genere di discorso; è piuttosto il limite stesso del discorso filosofico, o la filosofia come tematizzazione del limite di validità dei discorsi: discorso che si sospende nel processo stesso del discorrere (e tale è forse il senso dell’als ob, del come se)11. coscienza non ci è data prima), ma perché essa ci si impone per se stessa come proposizione sintetica a priori, la quale non è fondata su nessuna intuizione né pura né empirica; mentre essa sarebbe analitica, se si presupponesse la libertà della volontà, per la quale però, come concetto positivo, si richiederebbe un’intuizione intellettuale, la quale qui non si può affatto ammettere. Eppure, per riguardare senza falsa interpretazione questa legge come data, si deve notare che essa non è empirica, ma è il fatto particolare della ragion pura, la quale per esso si manifesta come originariamente legislativa (sic volo, sic iubeo)» (ivi, 31, tr. it., p. 39). Ma si veda anche quest’altro passo dove si dice: «Invece la legge morale, quantunque non se ne dia nessuna veduta, pure presenta un fatto assolutamento inesplicabile con tutti i dati del mondo sensibile e con tutto l’àmbito dell’uso teoretico della nostra ragione, un fatto che ci indica un mondo dell’intelletto puro, anzi lo determina in modo affatto positivo e ce ne fa conoscere qualcosa, cioè una legge (ivi, 43, tr. it., p. 54). Tesi che, ci sembra, testimoniano della distanza di Kant dall’etica aristotelica per il fatto, appunto, di ribadire che l’azione e la deliberazione sono retti da una legge universale e necessaria senza che per questo sia necessario il ricorso alla sfera teoretico-conoscitiva. 11 Per i problemi sollevati dalla terza critica kantiana si veda L. Scaravelli, Osservazioni sulla ‘Critica del giudizio’, in Scritti kantiani, Firenze 1968, soprattutto le pagine dedicate al cosiddetto ‘terzo molteplice’, cioè l’insieme variegato ed eterogeneo delle leggi empiriche che l’intelletto, impegnato dal suo canto solo ad individuare le forme (in senso lato) di un’esperienza possibile in generale, non potrebbe mai concatenare in un sistema unitario della natura (cfr., p. 357 sg.). Sulla facoltà del giudizio si veda J.F. Lyotard(a cura), La faculté de juger, Paris 1985; in particolare il saggio di J. Derrida, Préjugés; devant la loi, dedicato al racconto kafkiano, Vor dem Gesetz.

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IL DISCORSO E LA CENERE

In termini propriamente kantiani la sfera del giudizio di cui tratta la terza critica è quella dei cosidetti giudizi riflettenti: quelli cioè in cui è il particolare ad essere dato ed il problema è legarlo ad un universale. Vi sono cioè fenomeni che non sono sottoponibili al lavoro costruttivo delle forme e delle categorie, per la sola ragione di mostrare nel loro esser fenomeni già l’apparire di un senso, dotato di una certa universalità ed oggettività e, in particolare, di una certa finalità ed autofinalità per cui il problema consiste nel giudicare se tale finalità ed autofinalità siano traducibili nell’autofinalità della ragione. Il concetto di riflessione risponde a tale questione: si tratta insieme di riflettere sul fenomeno per isolare il suo aspetto finalistico dall’intreccio degli interessi empirici e riflettere, in un senso, potremmo dire, ottico-speculare, lo scopo della ragione sulla configurazione empirica: proiettare letteralmente la finalità propria della ragione sulla finalità empirica12. Gli oggetti del giudizio riflettente sono, dunque, tutti quei fenomeni, e gli enunciati corrispondenti, che mostrano questa specie di autofinalità: enunciati estetici riguardanti il bello ed il sublime; enunciati propriamente teleologici riguardanti gli esseri organizzati in generale – il vivente. Ed anche quel tipo di esseri organizzati che sono le istituzioni socio-politiche della specie umana: in base ad una analogia che, quantunque in nota, la stessa Critica del giudizio non può non anticipare, la società civile e lo stato13. E in tutti i casi in cui tali enunciati pretendano 12 Uno sviluppo del concetto di riflessione nel senso di un’autoriflessività propria del fenomeno è tematizzata dalla cultura romantica. Su questo punto si veda W. Benjamin, Der Begriff der Kunstkritik in der deutschen Rormantik, Band I, 1, cit. (tr. it. di C. Colaiacomo in W. Benjamin, Il concetto di critica nel romanticismo tedesco. Scritti 1919-1922, vol. II delle Opere, cit. Per tutta la questione rinvio al mio Walter Benjamin e la moralità del moderno, cit., pp. 149 sg. 13 La nota in questione si trova nel § 65 intitolato Le cose come fini della natura sono esseri organizzati e cade là dove Kant sta escludendo che l’organizzazione della natura abbia qualche analogia con tipi di causalità da noi conosciuti. Suona: «Si può invece dar lume, mediante un’analogia coi fini suddetti della natura, ad una certa connessione (Werbindung), che però si trova più nell’idea (in der Idee) che nella realtà (Wirklïchkeit). Così, trattandosi dell’impresa di una totale trasformazione (Umbildung) di un grande popolo in uno stato, si è adoperata spesso e molto opportunamente la parola organizzazione (Organisation) per designare l’assettamento delle magistrature, etc., e persino di tutto il corpo dello stato (Staatskörper). Perché in un tutto (Ganzen) come questo ogni membro dev’essere non soltanto mezzo (Mittel), ma anche scopo (Zweck); e mentre concorre alla possibilità del tutto, è determinato a sua volta dall’idea del tutto, relativamente al suo posto e alla sua funzione» (KW, V, 375, tr. it. di A. Gargiulo, Bari 1970, p. 243). Ma si veda sul rapporto fra meccanismo universale e principio teleologico il § 78 (ivi, pp. 410 sg., tr. it., pp. 284 sg.).

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VII. KANT I. RISPOSTA ALLA DOMANDA

«CHE COS’E’ L’UNIVERSITA’»

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la forma di un giudizio, essi rimandano alla sfera morale: il bello come simbolo sensibile del bene; il sublime come richiamo alla coscienza morale prodotto dall’apprensione dei limiti della facoltà dell’immaginazione; la teleologia come apertura della possibilità critica di un eticoteologia. Ed è da notare come la Critica del giudizio ponga già il problema essenziale di ogni giudizio teleologico, e cioè il rapporto difficile ed indecidibile fra lo scopo ultimo della serie (storico-) empirica e lo scopo finale della serie ideale14. In altri termini, i fenomeni di cui tratta la Critica del giudizio si presentano come un intreccio di enunciati constativi ed enunciati prescrittivi, i quali, tuttavia, non possono essere semplicemente distinti e ricondotti ciascuno al proprio genere di discorso corrispondente. La scomposizione, in questo caso, avrebbe per conseguenza la vanificazione del fenomeno stesso. I fenomeni estetici, quelli che mostrano il vivente in generale ed infine quelli storici non possono eludere il fatto che gli enunciati constativi che li riguardano siano indissolubilmente prescrittivi e performativi: implichino, cioè, quasi sempre tacitamente, scelte di valore ed un agire corrispondente a tali scelte. Il mondo storico è sì descrivibile attraverso dei saperi scientifici quali l’antropologia, la psicologia, l’economia politica, la scienza dello stato e del diritto, ma questi saperi da un lato contengono decisioni, progetti, desideri e scopi e dall’altro producono a loro volta una nuova serie di volizioni soggettive. La commistione, come si vede, fra fatti e valori è in tal caso ineliminabile. Da tutto questo discende una portata politico-pratica del giudizio, ed in generale della filosofia, che costituisce il cuore di queste nostre considerazioni e la cui chiarificazione, per ragioni d’economia d’esposizione, sarà ancora differita. Si può, tuttavia, anticipare fin d’ora che se la pensabilità critica del giudizio che investe la questione della finalità, cioè della destinazione della specie umana come specie natural-razionale, non fosse stata fondata da Kant, ciò avrebbe comportato una resa della filosofia, una vera e propria irresponsabilità filosofica, di fronte al prepotere del procedere effettuale degli ordinamenti storico-sociali. L’analogia con l’economia politica vista a proposito della istituzione della fabbrica 14

«Ma se noi percorriamo tutta la natura, non troveremo in essa, in quanto natura, alcun essere che possa pretendere al privilegio (Vorzug) di essere lo scopo finale della creazione (Endzweck der Schôpfung); e si può dimostrare anche a priori che ciò che in qualche modo potrebbe essere uno scopo ultimo (ein letzter Zweck) della natura, con tutte le determinazioni e le proprietà di cui si potrebbe corredarlo, non può esser mai come cosa della natura (Naturding), uno scopo finale» (ivi, pp. 426, tr. it., p. 302).

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IL DISCORSO E LA CENERE

universitaria incontra il suo limite in ciò: che al livello empirico si dia una mano invisibile che armonizza (e, dunque, finalizza) istanze individuali – e generi di discorso altrimenti autonomi –, aspetto che Kant racchiude nel concetto della ‘insocievole socievolezza’, non abolisce il fatto che da tale armonizzazione ‘naturale’ non possa dedursi in nessun caso un altro tipo di finalità, quella razionale. Se c’è in Kant qualcosa come l’astuzia della ragione, essa si limita al riconoscimento del mero dato di fatto che si può agire moralmente anche se gli imperativi cui si obbedisce sono ipotetici; in altri termini, che un’etica – le regole e le prescrizioni cui ci si attiene per tradizione o per naturale sviluppo dei rapporti inter-umani – è presente, senza essere, tuttavia, criticamente fondata. Il rischio allora sta tutto nella possibilità che risulti indistricabile l’intreccio fra scopi razionali e scopi empirici e che nella pratica, morale e politica, del giudizio, posti di fronte alla scelta si opti per i secondi piuttosto che per i primi, o, cosa ben più grave, avvenga lo scambio fra di essi per eccesso di mimetizzazione. Se torniamo ora alla questione universitaria si vedrà come tutta la problematica del giudizio sia decisiva per la sua comprensione. Da un lato la facoltà filosofica giudica le altre facoltà: apre, dunque, il dissidio. Ma, dall’altro, giudicando, non ricompone in un meta-discorso – il discorso universitario – l’insieme dei saperi. Il giudizio è, come abbiamo visto, una pratica di sospensione del discorso: esso, pur ponendo il legame, non per questo ri-legittima i generi di discorso di cui ha fatto vedere l’uso improprio nella produzione degli enunciati, lo slittamento, cioè, di un enunciato prescrittivo in un enunciato constativo. Kant ne è talmente consapevole da premettere al testo sul Dissidio fra le facoltà la lettera con cui Federico Guglielmo II lo riprendeva ‘paternamente’ dopo la pubblicazione della Religione entro i limiti della sola ragione. Kant vi veniva accusato di essere un irresponsabile (unverantwortlich), sia nei confronti della sua funzione di maestro della gioventù, sia verso le intenzioni sovrane; veniva invitato ad assumersi in pieno la responsabilità del suo errore e diffidato dal ripeterlo. Che cosa era accaduto? Era successo che la verifica degli enunciati del genere di discorso teologico si era inevitabilmente trasformata in una critica del discorso stesso. Tale esito, tuttavia, non riguardava soltanto i dotti della facoltà corrispondente, ma in prima persona il sovrano quale garante dell’ordine sociale. Allora se la risposta alla lettera sovrana15 è il testo sul dissidio fra le facoltà, ciò 15

Che Kant pubblica perché nel frattempo è salito al trono un sovrano illuminato, Federico Guglielmo III, il quale «intento a liberare lo spirito umano dalle sue catene ed

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VII. KANT I. RISPOSTA ALLA DOMANDA

«CHE COS’E’ L’UNIVERSITA’»

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dimostra quanto Kant abbia tenuto conto nella descrizione dell’istituzione universitaria del duplice registro della legittimazione. A tal punto da introdurre all’interno del discorso universitario un insanabile scontro, non tanto fra regole diverse di produzione degli enunciati, quanto fra fonti opposte dell’autorità: da un lato quella regia, dall’altro quella razionale. È vero, come nota Derrida16, che oggi simili lettere sovrane non giungono più ai filosofi, sebbene essi le desiderino: un’ingiunzione sovrana di tal fatta rassicurerebbe il filosofo di trovarsi all’opposizione, a sinistra, dalla parte giusta. La sua mancanza non è forse sintomo di un ‘tutto è permesso’ che piuttosto che assomigliare ad una realizzata libertà, accenna ad una inutilità, ad una impotenza della parola filosofica? Ma se traduciamo il testo kantiano nella nostra attualità si potrà vedere che l’aspetto generale della responsabilità filosofica non è stato intaccato. Esso riguarda la sfera del giudizio pratico: la difficoltà di emetterlo si è forse accresciuta, ma sulla linea indicata da Kant. È proprio la prospettiva del nichilismo realizzato, dell’in-differenza dei generi di discorso, a rendere sempre più improrogabile la necessità del giudizio anche se la difficoltà della sua formulabilità è divenuta sempre più grande: che a ciò risponda una trasformazione dello statuto del vero e della scrittura filosofica è quanto noi tentiamo, in prima approssimazione, di tematizzare. Ma torniamo al testo kantiano. Verificheremo ora come quanto detto finora vi trovi un preciso riscontro. Kant abbandona il genere di discoridoneo, appunto per questa libertà di pensare, ad ottenere un’obbedienza maggiormente sollecita» (KW, VII, 5, tr. it., p. 5), permette il ‘volo’ a queste pagine. D’altronde nella lettera di risposta all’ingiunzione sovrana, riportata nella prefazione del Der Streit der Fakultäten, Kant nota che, se a proposito della religione la ragione si mostra come sufficiente a se stessa, mentre la rivelazione appare superflua, ciò è da attribuirsi alla stima che la ragione ha per se stessa, stima dovuta, non tanto per la sua capacità teoretica, quanto per quella moral-pratica. Col che vuol ribadire che ciò che si deve credere in base ad argomenti storici, cioè la rivelazione stessa, è inessenziale, mentre la ragione da sé sola produce l’universalità, l’unità e la necessità delle massime di fede: in altri termini che la vera religione è quella fondata su di una fede razionale (cfr. ivi, 8, tr. it., p. 10). Per quanto riguarda poi l’ordine sovrano di non occuparsi mai più in avvenire di questioni attinenti alla sfera religiosa, Kant spiega in una nota che, se usò nella promessa con cui s’impegnava a rispettare il desiderio del re l’espressione «il più fedele suddito della vostra reale maestà», fu a ragion veduta e cioè al fine di non «rinunciare alla libertà del mio giudizio nel dibattito sulla religione, per sempre, ma solo fino a che Sua Maestà fosse in vita» (ivi, 10, tr. it., p. 12). Ecco un caso, si potrebbe dire, in cui ‘l’infelicità’ del performativo è una scelta felice. 16 J, Derrida, Mochlos ou le conflit des facultés, cit., pp. 25-26.

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IL DISCORSO E LA CENERE

so mitico, marca, anzi, quanto esposto fino a quel punto come un artificio. Ma perché solo ora? Perché solo dopo aver dato il quadro complessivo dell’istituzione universitaria come dissidio fra le facoltà, si può fare a meno della figura del proto-inventore e del richiamo alla buona trovata, alla felice idea venuta all’improvviso? Nella descrizione non erano già rinvenibili i tratti storici, attuali, della costruzione della fabbrica universitaria? Leggiamo: «Si può ammettere che tutte le istituzioni artificiali (kunstliche Einrichtungen) che hanno per base (Grunde) un’idea della ragione (Vernunftidee) (come è quella di un governo), la quale deve provarsi praticamente nei confronti di un oggetto dell’esperienza (come tutto l’attuale campo del sapere) siano state sperimentate non semplicemente con un casuale ed arbitrario raggruppamento di fatti che si succedono, ma seguendo un qualche principio esistente nella ragione, sebbene in modo confuso e secondo un piano che, fondato su tale principio, rende necessaria una certa maniera di divisione. Per tale motivo (Grunde) si può riconoscere che l’organizzazione di un’università (Organisation einer Universität) rispetto alle sue classi e facoltà non sia dipeso completamente dal caso, ma che il governo, senza attribuirgli, per questo, una saggezza e sapienza precoci, già per il bisogno (Bedurfnis) da lui intimamente sentito (di agire sul popolo tramite certe dottrine) abbia potuto giungere a priori ad un principio di divisione, che sembra sotto altri aspetti d’origine empirica (empirischen Ursprungs); ma che si accorda felicemente con quello attualmente (jetzt) ammesso; sebbene io non voglia parlare in suo favore, come se fosse privo di difetti»17. Dunque, l’ideazione e la costruzione di un’università divisa in facoltà non sono opera del caso, bensì hanno seguito un’idea della ragione. Certo in modo confuso e senza postulare una sapienza regia; tuttavia, l’università non è il risultato di un’aggregazione caotica di eventi, ma di un progetto quasi-consapevole. È, infine, la realizzazione di un fine razionale. Non avevamo d’altronde già anticipato che la divisione del lavoro intellettuale costituiva un a priori? Ma allora perché Kant ha atteso tanto per dirci ciò che s’intravedeva già nell’esposizione mitica? Perché se avesse detto subito che l’università rispondeva ad un’idea della ragione, allora la facoltà filosofica non avrebbe potuto far altro che ratificare quanto era stato edificato in nome della ragione, cioè in nome di ciò da cui essa traeva la sua legittimazione e, quindi, l’autorità di opporsi al governo. Come avrebbe potuto giudicare ciò che si presentava con la legittimazione della ragione? 17

KW, VII, 21 (22).

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VII. KANT I. RISPOSTA ALLA DOMANDA

«CHE COS’E’ L’UNIVERSITA’»

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Si torni ora con la mente a quanto si è detto prima sul giudizio riflettente e, in particolar modo, sui giudizi teleologici: non c’è dubbio che l’università sia uno di quei fenomeni non sussumibili direttamente sotto le categorie dell’intelletto, in particolare quella di causa, ma rispetto al quale sia necessaria una strategia conoscitiva completamente diversa. La riflessione del fenomeno universitario mostra che la tessitura della sua costruzione è stata sì il risultato dell’intreccio di molteplici fili – interesse e bisogno del governo, stato e sviluppo dei saperi, necessità dell’insegnamento –, ma come guidata da un filo rosso, che la ragione non può non riconoscere come proprio. Nel giudizio, allora, la ragione fa i conti con la ragione, ben più di quando istituiva i limiti dell’uso degli enunciati constativi o quello dei prescrittivi. Sul piano universitario ciò comporterà, come vedremo, non solo il fatto che la facoltà filosofica entri in dissidio con le altre facoltà, ma soprattutto che presenti il dissidio dentro di sé: essa dovrà opporre se stessa a se stessa, scindersi lungo quella linea che separa una ragione tramandata da una ragione critica. Se così non fosse il giudicare filosofico potrebbe marcare come conciliata una totalità – il discorso universitario ad esempio – che sarebbe in realtà solo falsa ed aberrante: concilierebbe, per dirla con Benjamin, solo nell’apparenza. Si noti, infatti, la cautela, che sconfina nell’ironia, con cui Kant prende distanza da quanto ha appena detto: il governo sembra essere stato guidato da un a priori nel pervenire ad una divisione del lavoro intellettuale, che dal suo canto sembra d’origine empirica e che s’accorda ‘felicemente’, ancora una volta per caso, con quella di fatto esistente. Tanta conciliazione fra istanze così diverse non deve tuttavia offuscare la facoltà del giudizio: Kant non intende parlare in suo favore come se tutto funzionasse bene o, forse, proprio perché tutto funziona anche troppo bene. Ricostruiamo la sequenza. Il governo è mosso da un bisogno: agire sul popolo attraverso certe dottrine. Dunque, deve individuare di quali dottrine si tratti, quali, cioè, permettano il controllo, affidarne l’insegnamento a dei dotti, radunandoli in un unico luogo, e dare ad essi il diritto di creare, da un lato, nuovi dotti e dall’altro soprattutto esperti e tecnici delle rispettive dottrine – coloro che saranno, una volta abilitati, gli strumenti del governo. Ora, dice Kant, i motivi (Triebfedern) che il governo può utilizzare per raggiungere il suo scopo, per soddisfare il suo bisogno, sono, secondo un piano oggettivo, cioè razionale, tre, e si presentano secondo un ordine esso stesso dettato dalla ragione. In realtà il governo sembra basarsi su saperi, cioè su conoscenze, leggi empiriche

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IL DISCORSO E LA CENERE

che riguardano il comportamento umano, e più specificamente il soggetto di desiderio, preso sia individualmente che in connessione con altri individui. È propriamente un sapere antropologico quello che, con le sue regole, i suoi enunciati, le sue congetture, guida il governo e funge da a priori del suo operare. Il desiderio umano, della specie umana, si squaderna secondo tre direttive fondamentali: esser rassicurati sul possesso da parte di ciascuno di un bene (Wohl) eterno, cioè la speranza di una vita dopo la morte; essere certi di una regola civile che protegga in quanto membri di una società dalla malevolenza altrui; viver bene e in salute fin quando si è in vita. Benessere eterno, benessere con gli altri, benessere fisico: ecco le richieste del popolo. Kant ci aveva educati nella Critica della ragione pratica a saper distinguere sempre il benessere, che si fonda sul principio del piacere e sull’amor proprio (Selbstsucht) dal bene (das Gute), oggetto della legge morale. Il governo allora, pur muovendosi secondo un’idea della ragione, non si preoccupa affatto della moralità dei suoi sudditi, ma soltanto di soddisfare per il proprio bisogno le richieste di benessere del popolo (e non è questa la radice di ogni consenso politico in generale? Non si fonda quest’ultimo sull’identificazione immaginaria con l’autorità supposta capace, come un buon padre, di elargire ai figli il piacere che essi richiedono? Non si regge qualunque stato su questo perfetto, troppo perfetto, innestarsi di desiderio e piacere? Non è di fronte a questo che Kant avanza il suo dubbio critico?). D’altronde, il sapere antropologico-psicologico non può che limitarsi, come ogni sapere, ad individuare leggi empiriche; in questo caso la legge del piacere-dispiacere quale fondamento dei comportamenti individual-collettivi. Ma una legge appunto è già una risposta, cioè una certa organizzazione dei dati fenomenici e, di conseguenza, l’indicazione di una certa finalità della radice desiderante del soggetto. È tale finalità intrinseca della legge del piacere-dispiacere, cioè il benessere, conforme al fine della ragione? Non è su questo che la facoltà filosofica è chiamata a giudicare? Torniamo sull’agire del governo. Una volta stabiliti i motivi da utilizzare allo scopo di dar benessere al popolo e, dunque, di agire su di esso in vista del controllo, al governo non resta che istituire la mediazione necessaria rappresentata dall’università. Attraverso l’insegnamento pubblico e la formazione dei tecnici, la facoltà teologica permette di esercitare «la più grande influenza sull’intimità del pensiero (das innere der Gedanken) e sulle intenzioni più segrete dei sudditi, per scoprire quello per dirigere queste»; la facoltà giuridica di «contenere il loro comportamento esteriore sotto il freno della pubblica legge»; e, infine,

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VII. KANT I. RISPOSTA ALLA DOMANDA

«CHE COS’E’ L’UNIVERSITA’»

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la facoltà medica di «assicurarsi l’esistenza di un popolo forte e numeroso»18. La ragione, come si vede, ha anche indicato la gerarchia delle facoltà superiori. Se tale è la finalità del governo nella costruzione della fabbrica universitaria, sia l’esito che la sua causa non possono semplicemente essere tacciati d’irrazionalità e liquidati con un’alzata di spalle. Il governo rispetta la ragione quando persegue una finalità sintetica ed unitaria nei confronti del popolo, preoccupandosi di tenere stretta in un legame civile e statuale, non semplicemente fondato sulla forza, ma anche sul consenso, una molteplicità di istanze individuali che, abbandonate al loro amor proprio, tenderebbero alla disgregazione. Esso si è lasciato guidare da dei saperi più o meno chiari, più o meno tematizzati, ma comunque dei saperi (antropologico, economico, etc.) e si è affidato ad altri saperi come mediazione del suo operare. Ha lasciato all’università, di cui è pure la fonte di legittimazione, un certo grado di autonomia, limitandosi ad intervenire quando le dottrine insegnate pubblicamente rischiavano di essere contrarie ai suoi scopi. In tutto questo c’è un comportamento rivolto a fini; e come dovremmo chiamarlo altrimenti che razionale? Certo con una forte accentuazione calcolistica, ma tuttavia razionale. Forse nel tardo Kant, nel Kant della critica del giudizio, dei testi di filosofia della storia ed anche per certi versi dell’Opus postumum, si è fatta strada la consapevolezza che nelle configurazioni empiriche e moralmente patologiche, dietro, ed accanto, l’istanza autoritaria e di potere che le domina, corre una corrente di vita che i confini dell’esperienza possibile impediscono di vedere. Acquisizione che invece sarà propria di quella che Benjamin ha definito la corrente classicista del romanticismo e i cui nomi più rappresentativi sono quelli di Humboldt e di Goethe (più in generale si tratta della cultura dell’idealismo tedesco)19. Come se essi avessero colto che una ragione non formalistica (sempre che quella di Kant lo fosse) s’intrecciasse proprio con le istanze mitiche, con i reperti della tradizione, con la sfera delle passioni, secondo un’altra antropologia del desiderio. E, tuttavia, a quale prezzo? Al prezzo, alle volte, di vanificare proprio il terreno critico, quello che manteneva aperta la differenza fra la ragione e, dunque, la verità, e ciò che ne era soltanto il simulacro (e che 18

Ivi, 21-22 (23). Ii passo benjaminiano si trova nelle Goethes Wahlverwandtschaften, cit., p. 127 (tr. it., p. 181). 19

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per esserlo doveva pure averne carpito qualcosa, come il sofista che, alla lunga, confonderete sempre con il filosofo). La critica non è un’istanza che, pretenziosa, sentenzia sugli enunciati e sui comportamenti; essa deriva dall’interno del discorso, dà vita alla richiesta che ogni discorso o sapere fa di auto-riflessione, quando si scopre, impotente ad auto-fondarsi, incapace per essenza di auto-giustificarsi con un proprio meta-linguaggio. Lo abbiamo visto: è carattere moderno del sapere quello di ricorrere per la propria legittimazione ad un genere di discorso diverso da quello che esso incarna e la critica accoglie questa domanda rispettandone il senso più proprio: non offrendosi come un meta-linguaggio onnicomprensivo ed esaustivo, bensì come un’operazione che mostra del sapere la strutturale infondatezza: esso non ha verità ultima cui affidarsi e in cui riposare. La critica è custode non della verità come qualcosa che si possa possedere, ma come ciò che resta l’impossibile del discorso, l’incommensurabile del sapere: custode di un limite. Per questo la critica è la pratica pensante della differenza e del differimento; differenza continuamente aperta fra i saperi, le conoscenze e la ragione; differimento costante della verità. Provocando la differenza, la critica differisce l’avvento della verità, che coinciderebbe o con il suo annullamento o con la sua contraffazione. Ma non è forse anche vero che la filosofia è la scienza della relazione – e che cos’è la verità se non relazione? – delle conoscenze particolari con i fini universali della ragione? Ecco quindi la banda d’oscillazione della facoltà filosofica: connettere quanto sull’altra scena è costretta a sciogliere. Riguardo al problema dell’università la posizione di Kant apparirà più chiara se la paragoneremo a testi altrettanto programmatici e fondativi scritti di lì a pochi anni dal Dissidio delle facoltà. La memoria humboldtiana del 1810 Sull’organizzazione interna ed esterna degli istituti scientifici superiori in Berlino, che fa da palinsesto per la fondazione dell’università berlinese, prende distanza dal testo kantiano proprio nel suo elemento cruciale: «Di solito per istituti scientifici superiori s’intendono le Università e le accademie delle scienze e delle belle arti. Non è difficile far derivare questi istituti, sorti casualmente, come sorti invece da un’idea; solo che in parte in tali derivazioni, molto in voga da Kant in poi, resta sempre qualcosa di falso, in parte l’impresa medesima è inutile»20. Cosa si cela dietro l’attacco alla derivazione ideale della struttura 20 W. Von Humboldt, Uber die innere und äussere Organisation der höreren wiessenschaftlichen Anstalten in Berlin, tr. it., di P. de Fidio in W. Von Humboldt, Università e umanità (a cura di F. Tessitore), Napoli 1979, p. 42.

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VII. KANT I. RISPOSTA ALLA DOMANDA

«CHE COS’E’ L’UNIVERSITA’»

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universitaria così come Kant l’ha descritta? La tesi che ridurre l’università a luogo di semplice insegnamento e divulgazione della scienza, questo sì non corrisponde veramente alla sua destinazione ideale. La distinzione fra accademie e università, che d’altronde Kant non aveva tematizzato così come Humboldt sembra attribuirgli, è falsa se s’intende riservare alle prime l’incremento e lo sviluppo della scienza e alla seconda la sola formazione. Humboldt accentua il legame fra ricerca ed insegnamento che in Kant gli appare ancora carente. Ma in questo allontanamento dal testo kantiano ciò che si pone è che, a differenza del Dissidio delle facoltà, in cui il soggetto dell’università sembra essere piuttosto il governo che la scienza e proprio questo concede alla facoltà filosofica il suo statuto eccentrico e d’opposizione, per Humboldt il soggetto dell’università deve divenire la scienza stessa. È vero che l’essenza degli istituti scientifici superiori (ma si legga tout court l’università) consiste «nel collegare, internamente, la scienza oggettiva all’educazione soggettiva, esteriormente, l’istruzione scolastica con lo studio che si va iniziando secondo alcune direttive personali o piuttosto nel realizzare il passaggio dall’una all’altra», ma «la prospettiva fondamentale resta comunque la scienza: giacché appena essa si presenta pura, viene accolta spontaneamente e nella sua totalità»21. La scienza non è un che di dato, codificabile una volta per tutte: essa va trattata come «un problema non ancora del tutto risolto», e richiede, dunque, che si resti «costantemente su posizioni di ricerca»22. Allora gli istituti scientifici non sono altro che, «affrancata da ogni forma statale, la vita spirituale degli uomini, che una disponibilità esteriore o una tensione interiore spingono verso la scienza e la ricerca»23. Si noti quell’‘affrancata da ogni forma statale’: per il ‘liberale’ Humboldt, l’università cessa di riferirsi direttamente allo stato. Il dissidio è in linea di diritto tolto: semmai è esterno e non più interno all’università. Ma, paradossalmente, l’accentuazione dell’autonomia universitaria apre la possibilità della conciliazione fra interesse dello stato e interesse dell’università, fra cultura e forza. Mentre in Kant il governo era parte integrante dell’università e ciò apriva il dissidio, in Humboldt stato e università corrono paralleli: così, se da un lato le possibilità d’attrito tendono al minimo, dall’altro si esaltano quelle di collaborazione. 21

Ivi, p.35 Ivi, p. 36 23 Ivi. 22

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Ma il tratto precipuo del discorso humboldtiano riguarda lo statuto della scienza. Come evitare che il sapere si riduca ad erudizione, accumulo e raccolta, archiviazione, modalità che non solo tradiscono la scienza, ma risultano inutili allo stato come all’umanità, cui interessano poco la ‘sapienza e le parole’, bensì molto ‘il carattere e l’azione’? Secondo Humboldt c’è una triplice aspirazione dello spirito che va sempre salvaguardata: «In primo luogo, dedurre tutto da un principio originario (...); secondariamente, informare tutto ad un ideale; infine, collegare quel principio e questo ideale in un’idea»24. È la stesura di un programma il cui obiettivo è fare della scienza un sistema unitario del sapere, di cui l’università è l’istituzione pratica ed effettuale. La scienza come discorso che ricompone la parcellizzazione del sapere e che, di conseguenza, si offre come chiave della formazione (Bildung) non unilaterale dei soggetti. Ciò che Kant lasciava diviso ed in contrasto, Humboldt tenta di riunificare; quel che era un compito della ragione, diviene un dato oggettivo da cui si parte. La scienza come meta-discorso si sostituisce alla filosofia come scienza della relazione. La posizione di Humboldt non è che un momento di una tendenza complessiva del tempo che mira ad individuare nell’università, non solo il luogo dello sviluppo della scienza, ma insieme, ed inseparabilmente, quello della formazione del soggetto scientifico. L’università, già in Humboldt, era la forma concreta in cui si realizzava la vita spirituale degli uomini. L’università cessa di essere simile ad una scuola (o, all’inverso, la scuola viene investita della funzione che si assegna all’università), in cui i soggetti fungono da ricettacoli più o meno passivi di un sapere dato e trasmesso senza alcun riferimento esplicito alla formazione della soggettività. Al contrario, essa è, come dice Schleiermacher due anni prima di Humboldt, «un processo di vita spirituale totalmente nuovo», ed il suo compito consiste nel «risvegliare l’idea della scienza nei giovani più nobili, già forniti di nozioni di qualche genere, di aiutarli a dominarle in quel settore di conoscenza, cui ciascuno di essi voglia dedicarsi». Tuttavia in modo tale che «diventi per loro naturale considerare tutto dal punto di vista della scienza» e connettere «ogni particolare non di per se stesso, ma nelle sue prossime connessioni scientifiche ed ordinarlo in un più ampio contesto», affinché sia colto sempre in relazione «all’unità e alla totalità del conoscere»25. 24

Ivi, p. 38. F.D.E. Schleiermacher, Gelegentliche Gedanken über Universitäten in deutschen Sinn. Nebst einem Anhang über eine neu zu errichtende, tr. it. in L’unità del sapere. La que25

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VII. KANT I. RISPOSTA ALLA DOMANDA

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Il compito dell’università è sì quello di sviluppare la scienza, ma alla condizione che preliminarmente si dia formazione del soggetto del sapere; ed è in ciò che l’università si distingue dalle accademie e dalle scuole inferiori. La centralità che viene ad assumere d’ora in poi la questione della ‘vita degli studenti’, e che sarà tematizzata più volte nel corso della cultura ottocentesca, ma anche ai giorni nostri26, sarebbe incomprensibile senza queste premesse. Giacché nel problema della formazione del soggetto del sapere si gioca la revisione dello statuto della scienza a partire da quella della posizione del discepolo. Rispetto ad una tradizione in fin dei conti recente, la cultura ottocentesca sembra riprendere il filo rosso del discorso del Maître, divenuto, forse, sotterraneo, come un fiume carsico, nel corso del tramandamento: lo studente è, in stione universitaria nella filosofia del XIX sec., Roma 1977, p. 233. Per i testi hegeliani sull’insegnamento della filosofia nelle scuole secondarie e nell’università si veda G.F.W. hegel, La scuola e l’educazione. Discorsi e relazioni (Norimberga 1808-l816), a cura di L. Sichirollo e A. Burgio, Milano 1985; per il Gutachten hegeliano del 1822, Über den Unterricht in der Philosophie auf Gymnasien, si veda G.F.W. Hegel, Berliner Schriften 1818-1831, vol. 11 delle Werke in zwanzig Bänden, Frankfurt am Main 1970, pp. 31-41. Su questo testo hegeliano si veda il saggio di J. Derrida, L’âge de Hegel, in Greph (a cura di), Qui à peur de la philosophie?, Paris 1977. Sempre sui problemi riguardanti la posizione della filosofia nell’istituzione insegnante si vedano ancora di J. Derrida, Où commence et comme finit un corps enseignant, tr. it. di A. Jeronimidis in AA.VV., Politiche della filosofia (a cura di Dominique Grisoni), Palermo 1979; Popularités. Du droit à la philosophie du droit, prefazione a AA.VV., Les sauvages dans la cité, Seyssel 1985 ed ancora Les pupilles de l’Université (le principe de raison et l’idée de l’Université, «Le cahier du collège international de philosophie», n. 2, luglio 1986. Ed infine i testi raccolti in AA.VV., Etats generaux de la philosophie, Paris 1979. 26 Si pensi, per fare solo alcuni esempi, agli scritti nietzscheani Über die Zukunft unserer Bildungsanstalten e Von Nutzen und Nachtheil der Historie für das Leben, e per quanto riguarda i primi del novecento a quelli di Walter Benjamin fra cui spiccano Das Leben der Studenten e Metaphysik der Jugend. Non meraviglierà, leggendo soprattutto questi ultimi, scoprire quanto il problema chiave della vita degli studenti sia il sesso, propriamente la sua impraticabilità: se la sua pratica è frustrata e relegata nel mondo della prostituzione, neppure la sua forma sublimata – l’eros – sembra possibile al soggetto del sapere in formazione. Su questa produzione benjaminiana si veda G. Schiavoni, Sopravvivere alla cultura, Palermo 1980, pp. 96 sg. Il problema della vita degli studenti è ritornato in modo prorompente nel ‘68: testimonianza esemplare ne è il libro di R. Vaneigem, Traité de savoir vivre è l’usage des jeunes generations, Paris 1967, tr. it. di P. Salvadori, Firenze 1973. Sulla storia del movimento situazionista e sull’intreccio fra estetica e politica rivoluzionaria si veda M. Bandini, L’estetico il politico, Roma 1977. Su questi temi sono tornato in seguito: si veda B. Moroncini, Vita fattizia e eros impotente. Heidegger, Benjamin e la questione unversitaria, in Id., La lingua muta e altri saggi benjaminiani, Napoli 2000, pp. 35-107.

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primo luogo, un soggetto psicologico-antropologico, vale a dire un soggetto di desiderio il cui telos è il piacere. Allora il problema dell’educazione consiste nel come tradurre – e-ducare – il suo desiderio in modo tale che esso divenga desiderio di sapere. Richiamandoci a quanto Lacan aveva sostenuto rispetto al discorso universitario, vorremmo ricordare a tal proposito che la posizione del servo vi veniva assunta da ‘a’ – lettera del desiderio come resto del discorso –, su cui S2, il sapere, investiva allo scopo di valorizzare S1, significante fondamentale del soggetto della scienza. Lo studente è, allora, alla ‘lettera’ il desiderio – il plus-de-jouir –‘ o la vita, della scienza: senza di esso, senza la sua formazione complessiva, che investe prima di tutto il suo essere individuo privato e perfino la sua sessualità, non si può dare né scienza né università. Il problema della ‘vita degli studenti’, la necessità, datasi in varie forme a seconda dei tempi, delle ‘società studentesche’, hanno sempre costituito una condizione strutturale dell’esistenza dell’università: essere discepoli nell’università è una forma di vita; lo studente non può non interrogarsi sul proprio statuto di soggetto della scienza in formazione, giacché esso non è un accidente, bensì una forma di discorso che investe la sua stessa vita. Sarebbe possibile, tuttavia, un tale discorso sull’università – un tale discorso universitario – senza un ribaltamento della collocazione della facoltà filosofica? Se Humboldt attribuiva alle matematiche il compito primario nella formazione del soggetto scientifico, Schleiermacher, con molta maggiore conseguenzialità, riconosce alla filosofia il primato incontrovertibile nella questione della formazione. La facoltà filosofica costituisce la base ed il coronamento degli studi universitari; essa «è pur la prima, perché chiunque deve rendersi conto ed ammettere che essa non si scardina e non si risolve come le altre in un molteplice eterogeneo (...) Essa è anche la prima ed in effetti signora di tutte le altre, perché tutti i membri dell’università, a qualunque facoltà appartengano, debbono essere radicati in essa»27. Se Schleiermacher sembra più vicino a Kant di Humboldt, è solo perché lo slittamento di senso sia marcato più chiaramente: le facoltà, è vero, sono ancora quelle: teologia, diritto e medicina, ma esse hanno la loro unità in «un negozio esterno e raccolgono ciò che ad esso serve dalle varie discipline»; la facoltà filosofica, invece, ha la sua unità solo nella conoscenza ed essa soltanto rappre27 F.D.E. Schleiermacher, Gelegentliche Gedanken über Universztäten in deutschen Sinn. Nebst einem Anhang über eine neu zu errzchtende, cit., p. 239.

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VII. KANT I. RISPOSTA ALLA DOMANDA

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senta «ciò che il sodalizio scientifico avrebbe istituito per sé come università»28. La facoltà filosofica è, dunque, la rappresentazione più propria – la scena in cui si rappresenta l’unità del sapere – dell’università; essa tende ad identificarsi completamente con l’università. Se quest’ultima è rivolta alla formazione del soggetto della scienza, la filosofia tende a presentarsi come quel discorso che tematizza appunto il soggetto scientifico. Siamo ad un passo dalla tesi della filosofia come meta-racconto razionale del soggetto del sapere. Ora, un’affermazione di Schleiermacher ci permetterà di ritornare al testo kantiano. Poiché l’università mira alla formazione del soggetto della scienza, il sapere deve essere, allora, istituito come il suo presupposto: quale sarà la forma in cui si concretizzerà il sapere come presupposto dell’università? Nelle forme del compendio e del manuale, cioè in una veste sistematica ed enciclopedica; solo in tal modo esso potrà fare da base al vero compito del soggetto: imparare ad imparare, vale a dire formarsi come soggetto scientifico in senso stretto. E ciò sarà vero, in particolar modo, per la filosofia, dal momento che questa è il territorio fondamentale della formazione del soggetto. In quanto unità immediata di tutto il conoscere, la filosofia deve avere il sapere come proprio fondamento per poterlo dispiegare e riunificare secondo un principio guida. La polemica anti-kantiana di Schleiermacher assume allora toni sempre più perentori: «Lo spirito scientifico, inteso come supremo principio, come unità immediata di ogni conoscenza, non può essere isolato e esibito nella pura filosofia trascendentale, al modo dei fantasmi (...), agitando spettri e creature poco rassicuranti. Non si può pensare qualcosa di più vuoto che una filosofia che si spoglia tanto integralmente e attende che tutto il sapere concreto (...) debba essere dato o assunto da qualcosa di totalmente estraneo; e non ci sarebbe nulla di più inutile per la scienza che impegnare i giovani nei loro anni migliori con una filosofia che non offrirebbe alcuna guida particolare nella futura vita scientifica in tutte le discipline, ma servirebbe, al più, a ordinare la mente (...) Solo nel suo vivente influsso su tutto il sapere si può manifestare e cogliere la filosofia, solo con il suo corpo, con il suo reale sapere si può manifestare e cogliere questo spirito»29. Kant, dal suo canto, attribuisce alle sole facoltà superiori la necessità di dover fondare il loro insegnamento sullo scritto (Schrif), sul libro 28 29

Ivi, p. 238 Ivi, p. 235.

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(Buch). Ma lo scritto non è il compendio sistematico del sapere, quanto esattamente lo statuto (Statute), cioè l’insieme di norme (Normen), sulle quali il popolo deve conformare i propri comportamenti. Tali norme si presentano come dei precetti dottrinali (Lehren) che ricevono la loro autorità dall’arbitrio (Wilkür) di un superiore. Le norme non necessariamente debbono derivare dalla ragione e non basterebbe il governo da solo a legittimarle. Il superiore di cui si parla, dunque, è tale anche rispetto al governo: si prenda l’esempio più semplice: la facoltà teologica si basa sul testo biblico – sulla ‘scrittura’ dunque –, su di un libro, cioè, cui lo stesso governo è sottomesso (sebbene sia legittimato ad intervenire sulla sua interpretazione: da qui l’apertura, in linea di diritto, del dissidio). Ora, lo scritto su cui si fonda l’autorità delle facoltà superiori è cosa totalmente diversa da quei libri, redatti dalle facoltà, che valgono come condensazioni (Kuszug) dello spirito del Codice normativo (der Geistes des Gesetzbuchs) che ne legittima l’esercizio del potere. Tali libri possono al massimo fungere da Organon, cioè da introduzione al Codice, ma mai come sistema autonomo di conoscenze30. Quali conseguenze trarre da queste precisazioni kantiane? In primo luogo che il reticolo delle responsabilità diviene sempre più complesso: l’autorità delle facoltà superiori è sì derivata dal governo per quanto riguarda l’insegnamento pubblico delle dottrine, ma insieme essa riposa su testi (sacri e non) cui lo stesso governo deve attenersi. Come abbiamo già sottolineato è tale situazione a produrre dissidi fra il governo e le facoltà superiori, dal momento che il primo deve pur sorvegliare che l’insegnamento pubblico sia conforme al codice (in mancanza, come è ovvio in una prospettiva riformata, di un’istituzione delegata al tramandamento della scrittura e la cui autorità poggia su di un mandato divino, il che comporta la posizione difficile del Lehre, esperto in dottrina, pastore d’anime ed insegnante insieme, che, libero formalmente nell’ermeneutica del testo sacro, è contemporaneamente sottomesso all’autorità della facoltà). Ma non potendo il governo insegnare in prima persona, è costretto a delegare tale compito, con tutti i rischi connessi, alle facoltà; ed ancora una volta è questa la ragione, per Kant, che rende necessarie l’esistenza e la libertà della facoltà filosofica. La libertà appunto. Ora, su che si basa, in prima istanza, la libertà della facoltà filosofica? E, dunque, quella del dotto-filosofo, che si distin30

KW, VII, 22-23 (23-25).

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VII. KANT I. RISPOSTA ALLA DOMANDA

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gue, per Kant, dall’esperto in dottrina prodotto dalle altre facoltà? E tralasciamo qui tutta la questione, che diventerà rilevante di lì a poco, sulla destinazione del filosofo, destinazione etica, sociale e politica insieme. Si fonda esattamente sul suo non fondarsi sull’autorità dei libri. Sembra, dunque, che la contrapposizione fra la facoltà filosofica e le facoltà superiori sia questa: da un lato, l’autorità della scrittura, che finisce, come sempre, col confondersi con quella del governo, e dall’altro la legittimità della ragione che si fonda in se stessa e per se stessa. Dunque, in nome dell’opposizione classica, che sembra funzionare indipendentemente dalla consapevolezza di Kant, la ragione si confonde con la parola o, per dir meglio, con la voce. Torneremo sul tema, in Kant, della voce filosofica che costituisce, d’altronde, uno dei Leit-motiv di queste nostre considerazioni, non senza però aver fatto vedere fin d’ora come l’opposizione fra scrittura e voce subisca, come sempre, uno slittamento tale per cui essa non sussiste senza il suo rovesciamento chiastico: ci riferiamo al fatto che per Kant il nucleo dell’illuminismo consiste nella scrittura pubblica della ragione. Non, dunque, tanto nella possibilità astratta della libertà di parola, quanto nella circolazione, senza censura, dello scritto. Da questo punto di vista, la scrittura è veicolo della formazione di un’opinione pubblica illuminata o in via d’illuminazione, il che conferma il carattere doppio da noi attribuito al testo scritto: fonte dell’autorità del potere ed insieme sua messa in crisi31. Che la cosa non sia così semplice lo si evince non appena si passi a considerare il concetto e la”divisione” della facoltà filosofica stessa, dopo che Kant ha esposto le proprietà peculiari delle facoltà superiori. Mettendo fra virgolette il termine”divisione” (Eintheilung), citandolo ed estraendolo dal contesto, vogliamo porre in rilievo come la divisione fra le facoltà superiori e la facoltà inferiore, fra scrittura e voce, si riverberi immediatamente all’interno della facoltà filosofica, la quale, in tal modo, non si presenta ai suoi avversari come un blocco unitario, ma piuttosto afferrata da un dissidio che l’attraversa da parte a parte. A partire dal presupposto che la facoltà filosofica non dipende né dai libri né dal governo e che essa, di conseguenza, non accoglie nessuna dottrina per semplice obbligo esteriore, ma solo dopo che l’abbia passata al vaglio della ragione, ne vien fuori che essa, tuttavia, deve fare i conti con il fatto che una parte cospicua del suo sapere dipende a sua volta da un’autorità eteronoma rispetto al puro sapere razionale. 31

Su questo punto si veda J. Habermas, Strukturwandel der Oeffentlichkeit, tr. it. di A. Illuminati, F. Masini e W. Perretta, Bari 1977, soprattutto pp. 127-142.

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IL DISCORSO E LA CENERE

La facoltà filosofica si divide, secondo Kant, in due sezioni (Departemente): quella della conoscenza storica (historischen Erkenntnis), di cui fa parte non solo la storia (Geschichte) propriamente detta, ma l’insieme delle cosidette Humanae Litterae e la parte della scienza naturale adatta ad una conoscenza empirica; e quella del sapere razionale puro (reinen Vernufterkenntnisse) che comprende matematica e filosofia pure, metafisica della natura e dei costumi32. Nella Critica della ragione pura, Kant aveva già accuratamente distinto una conoscenza storica da una razionale e ciò poche righe prima di definire la filosofia come scienza della relazione fra conoscenze e fini. «Se io faccio astrazione – diceva Kant – da ogni contenuto della conoscenza, considerata oggettivamente, in tal caso ogni conoscenza, dal punto di vista soggettivo, o è storica, o è razionale. La conoscenza storica è cognitio ex datis; la conoscenza razionale, invece, è cognitio ex principis. Una conoscenza potrà essere data originariamente in un modo qualsiasi, ma in chi la possiede soltanto nella misura in cui gli è stata data dall’esterno (e non ha alcuna importanza, che gli sia stata data per esperienza immediata, o mediante una narrazione, oppure per mezzo dell’istruzione, cioè di conoscenze generali)»33. Anche se una conoscenza è razionale, aggiunge Kant, ma io l’abbia ricevuta conformandomi sui modello di una ragione estranea, dunque imitativamente, essa resterà soggettivamente storica. Una conoscenza razionale, tale che sia oggettiva anche per il soggetto, deriva solo da concetti o dalla costruzione dei concetti. Ora, è questa derivazione da principi razionali che rende possibile anche la critica: è evidente, infatti, che la testimonianza dei sensi, dell’esperienza immediata in generale, delle narrazioni e dell’istruzione ricevuta è irrilevante dal punto di vista della verità. La narrazione, qualunque sia l’attendibilità del testimone, non funge mai da contenuto del discorso razionale; essa è semmai in primo luogo l’oggetto dell’esame critico della ragione. Derivando da principi, la conoscenza razionale può verificare la possibilità di un’assunzione degli enunciati narrativi sotto categorie o quella del loro aggancio con i concetti puri: in entrambi i casi si tratta dell’esercizio della facoltà del giudicare. Il dissidio passa, dunque, anche all’interno della facoltà filosofica: quest’ultima ha a che fare con una ragione data, tramandata e narrata che poggia sull’autorità della tradizione o su quella della narrazione, ma che resta, d’altronde, strutturalmente eteronoma. Il soggetto della scien32 33

KW, VII, 28 (32). KW, III, 540 (808-809).

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VII. KANT I. RISPOSTA ALLA DOMANDA

«CHE COS’E’ L’UNIVERSITA’»

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za è a sua volta diviso: scisso, se così si può dire, fra un sapere di sé che gli resta esteriore e un’identità con sé che, pur dandosi come una rappresentazione, assomiglia ad una scena vuota, mossa solamente, come vedremo, dall’oscillazione temporale. Più che il risultato di una formazione attraverso il sapere, il soggetto è un fatto della ragione, un infondato presupposto. Giacché se ad esso è devoluto il compito filosofico del giudizio, della messa in relazione, c’è, d’altronde, una regola certa per sussumere? La Critica della ragione pura l’aveva escluso; la Critica della facoltà del giudizio è il tentativo di pensare il giudizio stesso come regola. Ma se ciò è possibile, lo è, come abbiamo visto, alla condizione che il giudizio resti sospeso: se la riflessione del principio della ragione s’identificasse troppo con la configurazione empirica, la differenza dei livelli verrebbe annullata e con essa anche il dissidio fra la ragione storica e la ragione pura. Uno storicismo criticamente avvertito riterrebbe senza dubbio che molta acqua sia passata sotto i ponti dai tempi di Kant; ma proprio il suo essere avvertito dei rischi cui va incontro una riduzione della ragione al tramandamento storico, dimostra l’essenzialità della questione sollevata da Kant: che lo storicismo lotti contro l’esito relativistico fa da spia del fatto che una ragione solamente storica, legata appunto al dominio del tramandamento e che ripone, di conseguenza, l’essenza della verità nel tramandamento stesso, incorre nel pericolo dell’impossibilità del giudizio, nell’impotenza della decisione. Ora, Kant tiene fermo che la questione della verità, cioè della legittimazione o del fondamento, tagli a perpendicolo il piano orizzontale su cui scorre la tradizione. Ma allora c’è da chiedersi: lo fa forse in nome di un’essenza razionale della specie umana tutta dispiegata cui la molteplicità storica va ricondotta affinché sia giudicata ed ascolti passivamente la sentenza? Eppure noi l’abbiamo visto: la critica non è la legge, semmai il custode del limite; ed un custode parla solo in nome della verità, non è egli stesso la verità, al massimo chiede che gli si mostri il lasciapassare. Infine, che la verità non sia storica, anche quando sia seppellita nell’accadere degli eventi, vuoi dire che essa non è narrabile, che di essa non si può fare racconto: se il vero offre le coordinate per un’esperienza possibile in generale, non è a sua volta oggetto dell’esperienza, non nel senso perlomeno che il soggetto possa farlo sua. Se lo fosse, allora, il soggetto potrebbe raccontarsi, dire il suo significato, ma ciò è quanto ci sembra che Kant abbia escluso. Se, dunque, la verità è tale solo a partire dal discorso della ragione critica che continuamente separa in se stessa quanto è di derivazione

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IL DISCORSO E LA CENERE

storica da quanto, invece, viene dedotto dai suoi puri principi, allora la facoltà filosofica è autorizzata, secondo Kant, a giudicare le dottrine delle facoltà superiori, la cui legittimità poggia esplicitamente sul testo tramandato, dotato, cioè, di un’autorità che deriva dal potere della tradizione. Come si vede il binomio verità-libertà costituisce l’architrave del discorso kantiano: esso è usato da Kant per giustificare l’esistenza della facoltà filosofica all’interno del territorio universitario. La ragione per cui la facoltà filosofica deve essere libera dagli ordini del governo e, di conseguenza, libera di entrare in conflitto con le facoltà superiori, è riposta sempre da Kant nella presunzione che la ricerca della verità sia l’interesse primario del governo come discrimine per giudicare dell’uso che i ‘letterati’ possono fare delle dottrine pubblicamente insegnate. Secondo Kant, quindi, il governo ha bisogno della facoltà filosofica per controllare le facoltà superiori affinché non deroghino dalla direzione pre-tracciata. Perlomeno tale è la giustificazione che Kant porta a più riprese in difesa della libertà della facoltà filosofica; ma la stessa ripetitività, quasi auto-rassicurante, di questa tesi prova, forse, che Kant sia ben poco convinto che al governo interessi davvero essere edotto sulla verità. Ricordare al governo il suo interesse per la verità e, di conseguenza, che la facoltà filosofica non lavora contro di lui, è probabilmente nulla di più di una precauzione: Kant, in fondo, sa bene che provarsi a delegittimare le regole dei discorsi teologico, giuridico o medico, è di fatto delegittimare il governo stesso – come gli ha dimostrato la lettera sovrana. Ma tant’è: quel che è certo è che rispetto alla differenza fra una forma illegale (gesetzwidrig) di dissidio fra le facoltà ed una legale, la prima sia opera solo delle facoltà superiori; il che significa che, mentre queste ultime, per Kant, si pongono di fatto fuori dell’ordine della legalità, solo la facoltà filosofica apre dissidi legalmente riconosciuti e legittimamente fondati: ha il diritto alla dissidenza. Ora, si definisce illegale esattamente quel dissidio provocato dal fatto che le facoltà superiori, o i loro ‘letterati’, insegnano dottrine che spingono il popolo alla trasgressione delle leggi del governo: una ragione di più, come si vede, perché il governo rispetti, nel suo stesso interesse, la libertà della facoltà filosofica. Il popolo, come si ricorderà, domanda benessere, vale a dire piacere e rassicurazione. A tale domanda il governo ha risposto delegando l’insegnamento pubblico delle dottrine atte a tale scopo alle facoltà superiori e autorizzandole a licenziare ‘esperti’ che traducano l’insegnamento ricevuto in pratica effettiva.

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VII. KANT I. RISPOSTA ALLA DOMANDA

«CHE COS’E’ L’UNIVERSITA’»

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Ma, poiché il popolo, come dice Kant, vuole essere più che governato, ingannato (betrogen), in nome della sua tendenza al godimento (geniessen), ciò che esso chiede è, se così si può dire, una scorciatoia verso il piacere: altro che porta stretta! La facoltà filosofica, dal suo canto, che cosa può ricordargli se non di vivere onestamente, di non commettere ingiustizie e di godere con moderazione restando paziente nelle malattie? Ma il popolo, il cui godimento consiste in verità proprio nell’essere ingannato (che non è per nulla atteggiamento anti-democratico, ma lucida consapevolezza delle strutture del potere. E si ricordino piuttosto quella pigrizia e quella viltà che, per Kant, sono le cause del fatto che gli uomini debbano imputare solamente a se stessi il mancato esercizio della loro libera ragione), non sa che farsene delle indicazioni della facoltà filosofica e si rivolge allora a quelle superiori. Fra queste si scatena, allora, la gara a chi darà la ricetta per la ricerca del piacere più semplice e più a buon mercato: in breve, la facoltà teologica insegnerà e trasmetterà attraverso i suoi ‘pastori’ il miglior modo per salvarsi l’anima un attimo prima ‘della chiusura della porta’, dopo beninteso aver vissuto una vita da delinquente; quella giuridica come vincere un processo avendo torto marcio e quella medica come restare in piena salute, nonostante si conduca una vita da debosciati. Ai dotti e ai letterati delle facoltà superiori non sembra vero di poter assumere la funzione dei soggetti supposti sapere: è che il loro godimento ha trovato finalmente l’equivalente con cui scambiarsi. Diventano allora taumaturghi e mistagoghi, sfruttano la forza magica che il popolo gli ha attribuito e vince, infine, quello più bravo nel farla in barba alla legge. Ora, se la facoltà filosofica non avesse il diritto d’intervenire contro questi maghi (si ricordi: il sofista era un esperto delle arti magiche) ne risenterebbe il governo stesso che verrebbe a trovarsi nella sgradevole situazione di autorizzare la trasgressione delle leggi che deve difendere e su cui poggia la sua autorità. Certo ciò rimanda, da un lato, a quella impossibilità dell’arte del governo di cui parlava Freud. Ma, dall’altro, spinge a porre una domanda solo all’apparenza paradossale: è poi vero che il governo abbia interesse a difendere la legge? O non è più probabile che ogni governo gestisca per i suoi fini – il dominio – l’impossibilità strutturale di ottemperare alla legge e per questo prepari le scappatoie affinché l’economia soggettiva, e con essa l’economia politica, non ne vengano scardinate? Se ne potrebbe da tutto questo ricavare una conclusione generale: di fronte al double bind della legge ogni governo tende ad elaborare strategie di riduzione della complessità, cioè di neutralizzazione dell’indecidibilità della legge. In altri termini, il governo

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IL DISCORSO E LA CENERE

tende a conciliare l’antinomicità della legge, a tradurre un’economia generale in un’economia ristretta e ciò in perfetta sintonia con il soggetto – sia quello empirico che quello del sapere – da sempre alle prese con il plus-de-jouir, invischiato nel problema di cosa farne, come reinvestirlo, come renderlo equivalente. Sembra che in Kant la ragione stia dalla parte di un’economia generale (sebbene ciò si rovesci, come sempre, su di un’altra scena): la verità viene sempre pensata come un al di là del sapere, un di più del saperci-fare (del savoir faire, come Kant definisce, lasciandolo in francese, il sapere dei letterati). Ma torniamo al testo sul Dissidio delle facoltà: che Kant sia consapevole che, forse, il governo alla lunga preferisca l’arte magica dei letterati, lo si può evincere dalla chiusura del paragrafo: c’è, dice Kant, un mezzo ‘eroico’ per por fine ad un dissidio: la morte di uno dei litiganti. Come il medico cialtrone guarisce la malattia facendo morire il paziente, così il governo può risolvere il dissidio delegittimando la facoltà filosofica34 . Non ci sembra, dunque, del tutto vero quanto sostiene Derrida35 che a Kant interessi meno il dissidio illegale che quello legale, dal momento che solo il secondo è integralmente istituzionale e, dunque, riguardante dall’interno il discorso universitario. Se solo in questo caso il dissidio è propriamente tale, la risoluzione non ‘eroica’ del primo ne è pur sempre la condizione. L’illegalità delle facoltà superiori è la scena complessiva a partire da cui sono possibili dissidi legali, cioè riconosciuti ed approvati dal governo. Se questo decidesse la chiusura della facoltà filosofica, nessun dissidio legale sarebbe possibile. In un momento in cui è in gioco la riduzione e/o esclusione dell’insegnamento filosofico dalle scuole secondarie e la possibilità di una trasformazione della facoltà filosofica che, in fondo, nella sua composizione, non è poi molto cambiata dai tempi di Kant, la doppia scena del dissidio, legale ed illegale, ci sembra ancora decisiva ed esattamente nei termini posti da Kant. La delegittimazione storica della facoltà filosofica e della filosofia tout court (che convive senza contraddizione con una certa fortuna ‘pubblica’ della filosofia, con il savoir faire filosofico dei ‘letterati’) ci sembra essere andata molto avanti. La pratica del discorso filosofico è da tempo in una condizione di illegalità, la filosofia è, come direbbe Blanchot, la «nostra compagna clandestina»36. Certo non v’è 34

KW, VII, 32 (37). J. Derrida, Mochlos ou le conflit des facultés, cit., pp. 47-48. 36 Cfr. M. Blanchot, Notre compagne clandestine, in AA-VV., Textes pour Emmanuel Lévinas, Paris 1980, pp. 79-80. 35

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VII. KANT I. RISPOSTA ALLA DOMANDA

«CHE COS’E’ L’UNIVERSITA’»

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stato bisogno del ‘mezzo eroico’, né di lettere sovrane o di decreti governativi: un certo processo soft, strategie più sofisticate di rassicurazione del ‘popolo’ hanno ottenuto ciò che l’ingiunzione diretta aveva mancato. Tuttavia, il risultato è lo stesso: dall’eccesso di fiducia accordatole come tecnica per la valorizzazione del soggetto del sapere, la filosofia è divenuta oggetto di un ripudio che l’obbliga ad occupare gli interstizi della civile ‘conversazione’. Ed è a partire da tali considerazioni che le conclusioni più generali che si possono trarre dal discorso kantiano ci appaiono ancora oggi decisive. In primo luogo ciò che Kant invita a pensare (ed è indecidibile con quale grado di consapevolezza da parte sua) è un governo che s’impegni a gestire il dissidio, senza pretendere o di ridurlo o di risolverlo attraverso la dichiarazione d’illegalità. Il dissidio non si risolve neppure attraverso composizioni amicali (friedliche Übereinkunft, amicalis compositio): esso, dice Kant, è propriamente interminabile, non può mai esaurirsi37. È pensabile, allora, un governo che lasci libero il dissidio, che accetti in via preliminare di convivervi per sempre, che riconosca nella legalità del dissidio la condizione necessaria del suo stesso operare come governo, del suo esser fonte di diritto? Questa, ci sembra, infine, è, secondo Kant, la questione fondamentale della politica, quando, cessando di volersi identificare con la morale, percepisce, tuttavia, la necessità della relazione. Giacché come il governo non insegna, così non produce enunciati prescrittivi: esso è solo il territorio regolato del dissidio che rende possibili giudizi etico-pratici. Non è questa la questione principe di un partito d’opposizione, della ‘sinistra’? Allora compito del governo è di lasciare libera la facoltà filosofica di dire la verità. Ma ciò che qui si offre di decisivo è il fatto che, sebbene, dice Kant, il suo dovere sia quello di dire la verità, essa accetterebbe che il governo riconosca come legale, se non il dirla tutta pubblicamente, perlomeno il poter badare a che sia vero ciò che, pubblicamente, viene presentato come principio38. La precisazione appare, in prima istanza, come un capolavoro di diplomazia: Kant rassicura il governo sul fatto che la facoltà filosofica non abuserà del diritto che le viene riconosciuto. Ma letta da un altro punto di vista la precisazione accenna a qualcosa di ben più perturbante: e se la verità fosse per struttura incapace di dirsi tutta? C’è, forse, un discorso in grado di esporla integralmente, di 37 38

KW, VII, 33-34 (39-40). Ivi, 34-35 (40-41).

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IL DISCORSO E LA CENERE

esaurirla? E se la verità, invece, si dicesse sempre e solo in un semi-dire? C’è da chiedersi cosa il governo riterrebbe per sé più vantaggioso: una verità che si dispiegasse in un discorso o un discorso che testimoniasse soltanto del carattere inter-detto della verità39? Un governo opterebbe per la prima soluzione: di una verità risolta nel detto ci si può sempre fare padroni, si può sempre ridurla a savoir faire, a risposta per la soddisfazione del bisogno, farne strumento di potere e di legittimazione del governo. Ma se la verità si sospende nel dire, è impossibile manipolarla, renderla oggetto di calcolo: essa sfugge per principio alla presa. Se la facoltà filosofica occupa, nel parlamento della scienza, i banchi dell’opposizione, siede nella parte sinistra, è perché, se è vero che essa parla in nome della verità, è altrettanto vero che, da buon custode, ne sorveglia l’accesso, non solo per impedire che la verità divenga possesso privato, ma soprattutto per ricordare che la verità è il bordo del discorso, il limite del dire, il suo resto di cenere. Ma che la verità si sospendesse in un semi-dire, era la regola del giudicare filosofico. Allora, il discorso universitario come dissidio interminabile fra le facoltà e della facoltà filosofica con se stessa, e in quanto si connette con la facoltà del giudicare come oscillazione continua fra il legare e il dividere, annuncia una tematizzazione della responsabilità filosofica – morale e politica insieme –, che, se non è più sicura di occupare i banchi dell’opposizione, la parte sinistra del parlamento della scienza, mostra, tuttavia, l’emergere della necessità del giudizio proprio là dove si rivela l’infondatezza dei generi di discorso e dei meta-racconti. Se c’è una responsabilità, essa è per ciò che si mostra senza mostrarsi, si dice senza dirsi, per ciò che avviene a partire dall’apertura dello iato fra il regime constativo e quello prescrittivo. Tale luogo-non luogo è il qui/là del soggetto del giudizio chiamato all’esercizio insostenibile della facoltà del giudicare.

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Lacan potrebbe dire che, come la donna, la verità ‘non tutta’.

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Capitolo ottavo Kant II. La logica del passo o della filosofia chiliastica

Le ‘’pas au delà’, là où cependant l’on ne passe pas. M. Blanchot, Le pas au delà

La questione intorno alla quale si apre il dissidio fra la facoltà giuridica e quella filosofica è la seguente: è possibile formulare una frase, e se sì a quali condizioni, che postuli il costante progredire del genere umano (menschliche Geschlecht) verso il meglio? La frase, che nella seconda sezione del Dissidio delle facoltà si presenta sotto una forma ipotetica, con un indice d’incertezza sulla sua legittimità, è, come si vede, un giudizio etico-teleologico. Nell’affrontarlo, si può dire che Kant debba lottare su due fronti: da un lato contro quegli enunciati a pretesa constativo-scientifica che negano il progresso del genere umano verso il meglio; dall’altro contro quelli, altrettanto pretenziosi, che l’affermano sulla base di un fondamento ‘naturale’, sia esso poi naturale nel senso di un astratta essenza razionale del genere umano, o in quello di una naturale bontà del vivente distorta dalla sua entrata in società. L’avvertimento che Kant introduce immediatamente, prima ancora di entrare nel merito della questione, sembra rivolto a scongiurare questa seconda interpretazione: quando si pone il problema della legittimità di un simile giudizio, scrive Kant, non ci si riferisce alla storia naturale dell’uomo (Naturgeschichte des Menschen) – ad esempio, se nell’avvenire per cause empiriche possano formarsi nuove razze (Racen) umane più dotate delle attuali –, bensì alla storia del costume (Sittengeschichte), considerata, a sua volta, non secondo il concetto della specie (Gattungsbegrff, singulorum), ma secondo quello della totalità (Ganzen) degli uomini uniti in società (universorum)1. 1

KW, VII, 79 (213).

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IL DISCORSO E LA CENERE

Qui la differenza linguistica fra il termine Geschlecht (genere, ma anche sesso) e la parola Gattung diviene una vera e propria opposizione pertinente e quindi un’articolazione concettuale: mentre al livello della Gattung è possibile prendere gli individui uno per uno senza che l’unità e l’identità della specie mutino o si differenzino, a quello del Geschlecht ci si interroga invece sullo sviluppo complessivo del genere umano nonostante la presenza di tassi di differenziazione individuale molto forti che possono andare dal sesso alla cultura in generale. Senza voler (né poterlo d’altronde) affrontare il problema del posto della specie nel discorso antropologico di Kant né quello del rapporto fra specie e genere, che forse sottende quello ben più generale fra l’antropologia e la sfera trascendentale, ci sembra, comunque, che l’accento posto da Kant sul Geschlecht sia decisivo. Il giudizio di cui si fa questione acquista tutto il proprio senso soltanto quando esso si riferisca a quella dimensione sociale del genere umano che ne fa una realtà multiforme e complessa, differenziata e contraddittoria. Parlare di una Sittengeschichte, si potrebbe dire, equivale per Kant a parlare del carattere tout court storico del genere umano, del suo essere immerso in un grande processo di differenziazione, non solo geografico (distribuzione sulla terra di popoli diversi con diversi costumi ed usanze), ma propriamente culturale: molteplicità, a volte contraddittoria, di abitudini, tradizioni, convinzioni etiche, saperi. Si vede subito un primo tratto della estrema difficoltà che si incontra nel tentativo di legittimazione del giudizio: si tratta, infatti, di pensare questo insieme storico-culturale altamente differenziato come se fosse disposto secondo una prospettiva di progressiva universalizzazione e tale da costituire una totalità morale. O, in altri termini (che esprimono, tuttavia, la stessa cosa), di poter predicare, senza contraddizione, dello sviluppo storico-empirico del genere umano, un telos morale, il quale ne costituirebbe lo scheletro e la direzione. Tale difficoltà inerisce, d’altronde, alla facoltà del giudicare in generale, cioè alla classe dei giudizi riflettenti. Se è vero, come abbiamo mostrato, che l’ufficio proprio della ragione (e della filosofia) era stato individuato nella sintesi dell’eterogeneo, nella capacità di connettere conoscenze empiriche, vale a dire saperi – nel senso lato del sapercifare, orientamento in generale nell’esperienza – e fini universali, è altrettanto vero che Kant ha escluso qualsiasi regola di traducibilità integrale fra gli enunciati constativo-scientifici e quelli prescrittivi. Non c’è meta-discorso, si potrebbe dire, che unifichi l’ambito della conoscenza con quello pratico-morale; se l’uno organizza i fenomeni secon-

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VIII. KANT II. LA LOGICA DEL PASSO O DELLA FILOSOFIA CHILIASTICA

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do le categorie dell’intelletto, in particolare secondo relazioni di cause efficienti, l’altro si muove secondo il modello della causa finale: la libertà non è esperibile nelle forme dello spazio e del tempo. Non c’è, dunque, esibizione empirica di un’idea della ragione. Il presupposto da cui si parte (e che viene confortato, come vedremo, secondo Kant, dalla convinzione popolare) è che la serie empirica e quella ideale siano radicalmente distinte, prive di qualsiasi mediazione che permetta il passaggio dall’una all’altra e viceversa. Ora, era appunto l’assenza di un termine medio a generare la necessità della terza critica; ma la soluzione che Kant apportava non aboliva la differenza: si trattava in realtà sì di attribuire una finalità (soggettiva nel giudizio di gusto, oggettiva in quello teleologico) ad una configurazione empirica, ma solo attraverso un movimento di riflessione di un principio puro della ragione, senza, dunque, nessuna valenza conoscitiva. È che per Kant restava fermo che non fosse possibile individuare una regola, constativa a sua volta, per giudicare, cioè per legare conoscenze e scopi finali. Il giudizio era semmai regola a se stesso. Torneremo più tardi su questo punto. Ora è necessario soffermarsi su di una difficoltà specifica posta dal giudizio in questione, che, se non è estranea alla problematica del giudizio in generale, è, tuttavia, in questo caso, la più immediata ed evidente. Trattandosi, infatti, di legare nel giudizio lo sviluppo storico-empirico del genere umano con il suo scopo ultimo, la moralità, balza agli occhi la centralità della questione del tempo. Se in generale è possibile dire che un giudizio deve ritenersi legittimato nel caso in cui esso si sia premunito, per quel che è possibile, contro l’eventuale falsificazione prodotta da un qualsiasi contro-esempio empirico, nel caso specifico si tratta di predicare una finalità ideale nonostante e, si potrebbe dire, a partire dal fatto, che il futuro, di per sé non progettabile né prevedibile, possa, in linea di diritto, smentirla. Certo, se si trattasse di postulare semplicemente una metafisica transcrescenza delle disposizioni ‘naturali’ della specie secondo lo schema di uno sviluppo lineare, il problema forse non sussisterebbe o presenterebbe difficoltà d’altro genere; ma qui si tratta, invece, non della previsione tipica di una legge fisica, che stabilisce una connessione stabile fra certe condizioni codificate e la ripetibilità di un dato evento, bensì un tipo di predizione che si applica a dei processi caratterizzati dal principio di variazione, cioè dalla differenziazione costante. Allora cosa assicura che la predizione fatta in condizioni presenti in un tempo T, resti valida anche in presenza di condizioni totalmente

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IL DISCORSO E LA CENERE

cambiate nel tempo T1? Che cosa potrebbe rendere certo il soggetto del giudizio che la sua predizione resti valida in ogni tempo? Il lettore avrà già per suo conto rilevato quale sembri essere il limite di traducibilità più evidente della proposizione kantiana: l’uso del concetto di progresso (Fortschritt). Ora, la ragione di tale diffidenza nei confronti del concetto di progresso sembra discendere esattamente dalla questione del tempo. Il soggetto che afferma il progresso del genere umano (verso una comunità morale, un sapere assoluto o una società senza classi) sembra ipotecare in ogni caso il tempo che si frappone fra l’atto della sua enunciazione ed il momento della realizzazione della sua predizione. Egli deve presumere o che l’intervallo di tempo sia indifferente rispetto alla realizzazione del fine o addirittura che lo favorisca. Poiché è piuttosto questa seconda ipotesi che è andata affermandosi nel pensiero moderno, la questione si è posta nei seguenti termini: a quale condizione il soggetto può ritenere che il tempo gli sia sostanzialmente favorevole, sia, cioè, consustanziale alla finalità, allo scopo ultimo verso il quale egli si progetta? È evidente, infatti, che, essendo qualunque frase constativa, prescrittiva e performativa insieme, il giudizio sia necessariamente ciò in cui il soggetto si trova impegnato, vale a dire il suo progetto teoretico e pratico. I due concetti – progresso e progetto – sono, dunque, solidali; e solidali proprio nel loro comune riferirsi al tempo. Progettare il progresso del genere umano è per il soggetto che lo enuncia il proprio stesso gettarsi in avanti, il suo esser già presso il fine, anticipandolo così rispetto al reale accadere temporale. Il soggetto si situa, si potrebbe dire, in una sfera atemporale, che costituisce, d’altronde, la verità intrinseca del processo del tempo. È questa, infine, la condizione a partire da cui è possibile pensare che il tempo non si opponga alla predizione sul progresso del genere umano: la verità del tempo, la sua razionalità contrapposta alla sua empirica successione, è il progredire stesso o il tempo non è altro che il tempo del progetto del soggetto. Sembra, allora, che il concetto di progresso si leghi strutturalmente ad un meta-racconto, e non tanto e non solo ad un meta-racconto emancipativo, quanto soprattutto a quello razionale del soggetto della scienza. Tale meta-racconto, infatti, unifica sistematicamente l’autodestinazione del soggetto al sapere di sé attraverso la possibilità di porre in racconto e, di conseguenza, accumulare l’esperienza cui di volta in volta va incontro con il tempo di tale processo di riappropriazione e con il fine ultimo dello svelamento dell’essenza umana. Si potrebbe dire, dunque, che il tempo è orientato in base ad una legge,

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VIII. KANT II. LA LOGICA DEL PASSO O DELLA FILOSOFIA CHILIASTICA

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ma che il realizzarsi di tale legge coincide con il processo attraverso il quale il soggetto perviene al sapere di sé. Il tempo è il tempo del soggetto, il tempo del suo racconto (insieme tempo della fiction e tempo reale), o il tempo è il soggetto. In corrispondenza della crisi del meta-racconto razionale – esempio perfetto di come la modernità tenti di ripristinare l’identità performativa della narrazione tradizionale –, anche il concetto di progresso sembra rivelarsi obsoleto. Se viene meno la legittimità di una legge constativa, che nella sua oggettività è anche soggettiva, allora il concetto di progresso del genere umano perde rilevanza; e con esso la possibilità stessa di una progettazione da parte del soggetto. Il giudizio più che difficile o impossibile, diviene privo di senso: è la situazione che va sotto il nome di post-modernità, caratterizzata appunto dall’indifferenza fra i generi di discorso, dall’impotenza della scelta. Ma il senso di queste nostre considerazioni è proprio quello di provare a tematizzare la possibilità del giudizio a partire dalla crisi del meta-racconto razionale del soggetto della scienza. Per tornare a Kant, dunque, se è vero che il suo edificio concettuale contribuisce, per un lato neppure tanto marginale, alla formazione del meta-racconto razionale, vale a dire a quella valorizzazione del significante fondamentale del soggetto epistemico propria del discorso universitario, tuttavia, da un altro punto di vista, ne rappresenta anche una possibile confutazione: basterebbe per questo far leva sui molti distinguo, sulle numerose avvertenze e sulle tante precauzioni di cui è costellato il suo itinerario. D’altronde, noi abbiamo già fatto vedere come, ad esempio, per Kant, il soggetto della scienza sia scisso, diviso fra un sapere tramandato, storico ed empirico ed un sapere come forma vuota della pensabilità/dicibilità in generale. La stessa collocazione eccentrica ed extra-territoriale della facoltà filosofica rispetto alla ‘fabbrica’ universitaria ha mostrato come Kant si distanzi da un modello totalizzante del sapere o che perlomeno tale istanza sistematica, pur affermata, sia lasciata strutturalmente in sospeso. Se, dunque, si vuole tentare una lettura di Kant che lo traduca nei termini della nostra attualità storica, sarà necessario sottolineare proprio tali elementi non congruenti con lo schema di un meta-racconto razionale, attivare, in altri termini, il dispositivo della doppia scena: il passaggio continuo, già all’opera nel testo kantiano, dalla scena del sapere storico-empirico a quella critica e viceversa. Per tornare al giudizio sul progresso morale del genere umano, la sua difficoltà rispetto alla questione del tempo è dovuta alla seguente

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considerazione: il giudizio deve restare valido nonostante che il futuro possa produrre situazioni che lo smentiscano. Per usare un esempio di Kant, se mai comparissero nuove razze umane oppure, aggiungiamo noi, nuove configurazioni della vita civile e culturale, la frase predittiva non dovrebbe perdere il suo valore. Ma vorremmo provare a spingere il ragionamento fino all’assurdo: si dia un’ipotesi iperbolica secondo la quale nel corso dello sviluppo storico prenda corpo la possibilità di un’estinzione quasi-volontaria della specie umana oppure quella, in realtà già sperimentata, di una volontà di riduzione del genere alla specie (usando i termini al modo kantiano), vale a dire la relegazione del genere umano nei limiti dell’animalità; la domanda è allora: di fronte a queste situazioni-limite, il giudizio conserverà la propria legittimità? La risposta ci sembra essere positiva: essa si fonda, infatti, sulla radicale eterogeneità dei due livelli, quello della serie temporale empirica e quello della serie temporale ideale. Seguendo il ragionamento kantiano fino in fondo, si potrebbe dire, ad esempio, che, in nome della eterogeneità, in campo pratico, fra la virtù e la felicità, la legittimità del giudizio sulla perfettibilità morale del genere umano non verrebbe falsificata neppure dal contro-esempio limite della scomparsa della specie. Ma se questo è vero, allora daccapo: come è possibile mediare nel giudizio le due serie, che cosa costituirà il termine medio? Ci troviamo spinti, in tal modo, a dover esplicitare l’interpretazione kantiana del tempo. Prenderemo le mosse dalla Critica della ragione pura, scegliendo come filo conduttore la lettura di Gilles Deleuze. Come si sa il problema del tempo è affrontato da Kant a proposito della esposizione della stessa architettonica della ragione pura: l’accento non cadrà qui tanto sul tempo come forma a priori dell’estetica trascendentale, quanto sul processo di temporalizzazione inerente alla facoltà trascendentale dell’immaginazione. È l’immaginazione, infatti, che fa da medio, attraverso la schematizzazione, fra la pura esibizione fenomenica nelle forme dello spazio e del tempo e le categorie dell’intelletto. La mediazione è resa possibile appunto dal fatto che attraverso l’immaginazione si passa dal tempo come successione dell’uno dopo l’altro alla temporalizzazione del tempo: perché, infatti, si dia un’effettiva sintesi del molteplice è necessario che preliminarmente si sia data una sintesi temporalizzante come sintesi di passato-presente-futuro, vale a dire uno schema della temporalità a partire dal quale sia possibile la stessa successione dell’uno dopo l’altro e, dunque, una qualsiasi misura del tempo. Secondo Deleuze l’effetto più rilevante dell’introduzione della temporalizzazione del tempo nell’architettonica della ragione pura è una

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declinazione temporale del soggetto stesso della scienza, vale a dire il fatto che l’io penso si trova ad essere affetto dalla differenza temporale. Scrive Deleuze che l’introduzione della «forma del tempo nel pensiero come tale» costituisce «la più grande iniziativa della filosofia trascendentale», dal momento che «questa forma, come forma pura e vuota, significa indissolubilmente il Dio morto, l’io incrinato e l’io passivo»2. A partire da questa osservazione di Deleuze ci sembra possibile interpretare in modo diverso quel formalismo da sempre rimproverato a Kant: forma pura e vuota significa in primo luogo che il tempo viene sciolto da qualunque contenuto empirico, il quale, d’altronde, potrebbe acquistare una dimensione temporale soltanto se ricondotto all’apertura del tempo in quanto tale. In secondo luogo, così facendo il tempo non è una qualità del soggetto psicologico e non è legato ad un contenuto d’esperienza soggettiva. Se la temporalità è un’esperienza, lo è piuttosto nel senso dell’Erfahrung, vale a dire nel senso di qualcosa rispetto alla quale il soggetto – io penso – è ricettivo. Vogliamo dire che nell’esperienza del tempo il soggetto è sottratto alla sua identità, subisce una flessione, derivante dal movimento della differenza cui è sottomesso e s’incrina irrimediabilmente. Il tempo non è più il tempo del soggetto, bensì ciò che lo estranea a se stesso, che introduce la differenza all’interno stesso della rappresentazione ‘io penso’. Il tempo produce, infine, quella discordanza di cui parlava Agostino quando si poneva la domanda sulla sua natura. Abbiamo detto che nell’esperienza del tempo il soggetto è ricettivo. Ma più ancora che ricettivo, seguendo Deleuze, dovremmo aggiungere: passivo; e di una passività, tuttavia, più originaria di quella che potrebbe identificarsi con il concetto di ricettività. L’io ricettivo, il lato sensibile del soggetto, presenta ancora un versante di spontaneità – spazio e tempo come forme a priori; per Deleuze, in realtà, esso è il risultato di una sintesi a sua volta passiva, la sintesi della temporalizzazione, che in nessun caso si lascia riprendere dalla spontaneità dell’io3. Ora è tale sintesi passiva ed originaria a distendere il soggetto secondo 2

G. Deleuze, Différence et répétition, tr. it., di A. Guglielmi, Bologna 1971, p. 146. Sulla centralità del tema della temporalità in Kant, Deleuze è ritornato recentemente con un testo breve, ma decisivo: Sur quatre formules poétiques qui pourraient résumer la philosophie kantienne, «Philosophie», n. 9, Paris 1986. Per una lettura della filosofia kantiana come sistema articolato e, alle volte conflittuale, delle facoltà, nel senso delle facoltà dello spirito, si veda sempre di Deleuze, La philosophie critique de Kant – Doctrine des facultés, tr. it. di M. Cavazza e A. Moscati, Napoli 1997. 3 G. Deleuze Difference et répétition, cit., pp. 147 sg.

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l’apertura della differenza temporale, cioè secondo le estasi del tempo, che appunto non sono riconducibili alla circolarità dello Stesso, ma ripetono soltanto la loro strutturale discordanza. Useremo per designare le tre sintesi del tempo il linguaggio di Deleuze, sebbene esso sia il risultato di una riflessione sul tempo, di cui Kant rappresenta solo uno dei possibili riferimenti; tale uso linguistico ci sembra, tuttavia, utile per la questione che, attraverso Kant, noi cerchiamo di porre. Dunque, le tre sintesi del tempo sono Habitus, o sintesi del presente come serie delle abitudini o dei saperci-fare; Mnemosine, come sintesi del passato, inteso come passato puro ed immemoriale; Thanatos, o sintesi del futuro come dimensione a partire dalla quale s’inaugura la ripetizione del tempo. In primo luogo va notato che il soggetto, in quanto effetto delle tre sintesi del tempo, viene a trovarsi in bilico fra un passato che sfugge strutturalmente alla sua coscienza ed un futuro che egli non può progettare dal momento che lo sopravanza costantemente. Il soggetto viene identificato a partire dall’identità ristretta di Habitus, vale a dire a partire dai saperi come organizzazioni empiriche dell’esperienza, capacità di orientamento in generale rispondente al principio del piacere. Ma proprio perché il soggetto è reso possibile dall’apertura temporale, egli si trova espulso dal mondo di Habitus; già di per sé infatti il concetto di abitudine rimanda alla sedimentazione di una tradizione e, di conseguenza, alla sfera del passato. Ma ciò che è rilevante è che è proprio la sintesi del futuro, Thanatos, a produrre un movimento di ritorno che sconvolge Habitus nella misura in cui non è in grado di ritrovare in Mnemosine il marchio d’origine che lo legittimerebbe. Il regno di Mnemosine è propriamente fuori memoria, cosicché l’andare a ritroso, piuttosto che chiudere il circolo del tempo, lo riapre, riafferma la differenza costitutiva delle estasi. È vero: il modello della sintesi temporale passiva assomiglia a quello del Wunsch freudiano. Ma è Deleuze che in nota rimanda oltre che al concetto di cesura in Hölderlin4, a quello di pulsione di morte. L’incrinatura dell’io, la differenziazione interna del soggetto è l’opera silenziosa di Thanatos come sintesi del futuro. È di pronte al tentativo di anticipare, di progettare il futuro – tentativo che necessariamente chia4 Sulla cesura del tempo in Hölderlin rinvio al mio La cesura del tempo. Nota su temporalità e tragedia, «Studi tedeschi», XXVII, 3, Napoli 1984, ora in Id., La lingua muta e altri saggi benjaminiani, cit., pp. 241-250.

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ma in gioco il passato ed il presente –, che il soggetto incontra la propria morte, vale a dire la spaccatura e la scissione che lo costituiscono come soggetto e che derivano dalla sua declinazione temporale. Che cos’è, infine, la pulsione di morte se non l’insistere, nell’economia ristretta del soggetto, della differenza? Che cosa se non quel ritornare verso il passato immemoriale di Mnemosine (e si legga: reminiscenza platonica), che, pur andando a vuoto, sconvolge, tuttavia, la serie di Habitus, vale a dire quella sfera delle abitudini che in termini kantiani equivarrebbe alla pigrizia ed alla viltà da cui gli uomini sono trattenuti in stato di minorità? Si potrebbe dire allora che l’operare silenzioso di Thanatos è proprio ciò su cui fa leva la ragione per opporsi al dominio di Habitus, al primato del principio del piacere. Vedremo fra breve la portata di questa tesi. Ora dobbiamo ritornare al giudizio sul progresso morale del genere umano. Se una delle conseguenze maggiori che noi abbiamo tratto dalla sintesi passiva del tempo è l’impossibilità di progettare il futuro come chiusura della differenza temporale nel circolo della Medesimezza, sbaglieremmo di molto se traducessimo questa radicale incrinatura dell’io nei termini di una impossibilità ad organizzare nella forma-racconto gli eventi avvenire? Il soggetto, in verità, sperimenta insieme la difficoltà della narrazione del passato, che, in quanto immemoriale, sfugge alla sua coscienza, e quella della narrazione del futuro; ma è solo a partire da quest’ultima che la sua istanza di equilibrio attraverso la narrazione – quell’identità performativa di cui abbiamo già più volte parlato – è messa in crisi. Ora, la prima cosa che Kant dice a proposito del giudizio sul progresso morale del genere umano è che ciò che in esso si vuole sapere è un frammento della storia futura dell’umanità. Come è possibile, si chiede Kant, fare storia del futuro? Secondo tre modalità: in base a leggi naturali note (ad esempio, la previsione delle eclissi di sole o di luna), modalità che, è evidente, non è quella che può aver corso in questo caso; divinatoria se predice senza basarsi su leggi naturali; ed infine augurale o profetica se non può aversi altrimenti che per comunicazione ed estensione sovrannaturale della prospettiva del futuro. La domanda che Kant pone immediatamente dopo è come si possa sapere la storia futura dell’umanità. Se si sceglie la soluzione divinatoria noi dovremmo avere «una narrazione storica (Geschichtserzählung) di ciò che riserva l’avvenire, cioè (...) una esposizione a priori possibile dei fatti che devono accadere»5. Ma una narrazione è comunque possibile a partire dal fatto che le 5

KW, VII, 79 (213).

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IL DISCORSO E LA CENERE

res gestae siano date: una conoscenza storica, foss’anche quella degli eventi futuri, è sempre una cognitio ex datis, implica un testimone. Ed è esattamente questa la risposta di Kant, risposta, come vedremo, dalle rilevanti implicazioni politiche. Si prenda l’esempio dei profeti ebrei: le loro previsioni di sventura e catastrofe si sono avverate. Come è stato possibile? Perché, nota Kant ironicamente, essi preparavano le condizioni a partire dalle quali le loro predizioni potevano divenire effettuali. E infatti: «I profeti ebrei ben potevano predire che non solo la decadenza, ma la completa dissoluzione, presto o tardi, sovrastava al loro Stato, poiché essi stessi erano gli autori di questo loro destino. Come reggitori del popolo essi avevano aggravato la loro costituzione di tanti oneri ecclesiastici e conseguenti oneri civili, che il loro stato si rese del tutto incapace di reggersi da sé, soprattutto in rapporto con i popoli vicini, e le geremiadi dei loro sacerdoti dovevano perciò naturalmente riuscire vane; essi si ostinavano nell’idea di una costituzione insostenibile fatta da loro stessi, per cui l’evento poteva da essi esser previsto con sicurezza»6. I profeti ebrei possono divinare gli eventi futuri, come si vede, perché ne sono la causa, vale a dire i testimoni interessati: essi narrano avvenimenti catastrofici di cui sono i responsabili in quanto costringono il popolo sotto leggi ingiuste, sotto una costituzione civile insostenibile che si legittima in nome della loro autorità divina. Ma il rimando al profetismo ebraico si rivela essere niente più di uno schermo: in realtà Kant vuole riferirsi alle attuali costituzioni e ai ‘nostri’ politici: «I nostri uomini politici – scrive infatti – nella sfera della loro influenza fanno altrettanto e sono altrettanto fortunati nelle loro predizioni»7. L’argomentazione con la quale si giustificano è quella secondo la quale bisogna prendere gli uomini così come sono, cioè naturalmente inclini al male, pigri, vili e interessati soltanto alla ricerca del piacere: non si deve, dunque, dare ascolto ai sognatori che immaginano piuttosto come dovrebbero essere. La risposta di Kant è che se gli uomini appaiono inclini al male, ciò non dipende da come sono, bensì da come li si è fatti diventare, cioè da come li si è costretti ad essere a causa di ingiuste costituzioni civili ed insostenibili pratiche religiose che sono state sostituite a quei semplici precetti morali che porterebbero da sé soli l’umanità al meglio. 6 7

Ivi, 80 (213-214). Ivi (214).

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Se ne deve dedurre, allora, che la predizione divinatoria sia soltanto una maschera sotto la quale si nasconde l’esercizio di un dominio presente o il desiderio di un potere futuro: la narrazione divinatoria risponde ad un interesse di dominio di colui che predice. Ci sembra, dunque, che delle tre tesi con le quali si cerca di rispondere alla questione sollevata dal giudizio e che Kant smonta una per una (la tesi del terrorismo morale che predica il costante regresso verso il peggio del genere umano, quella eudemonistica, versione ‘ottimistica’ del progresso verso il meglio e quella dell’abderitismo che postula una specie di stato stazionario dell’umanità, un equilibrio fra bene e male8), la prima sia quella più rilevante dal punto di vista teorico e pratico-morale, perché si collega strettamente al modello di una narrazione divinatoria. La tesi terrorista ritiene che il genere umano sia in costante regresso verso il peggio; ma dal momento che tale regredire non può andare all’infinito, giacché allora implicherebbe la distruzione della specie umana, ecco che essa rovescia il suo assunto: quanto più si ammassano misfatti sempre più grandi, tanto più ci si avvicina ad un limite. Si dice: più di così non è possibile, si è vicini all’ultimo giorno. E il pio visionario, aggiunge Kant, già sogna la palingenesi di tutte le cose, il brucia-tutto del tempo della decadenza sulle cui ceneri sorgerà un mondo nuovo. La posizione del terrorismo morale, se la rapportiamo alla questione del tempo, pretende, più ancora che anticipare il futuro, azzerare la differenza temporale. In realtà, il tempo dell’enunciazione divinatoria coincide per il soggetto profetico con l’ultimo giorno dell’umanità. Il soggetto della profezia desidera, vuole con un gesto sovrano l’avvento dell’olocausto. Egli si situa addirittura al di là del brucia-tutto, puro inizio di un’altra storia: signore del tempo, come figura principe del delirio paranoico – esemplificato da Freud nel Presidente Schreber –, il soggetto divinatorio si erge a principio di una rigenerazione integrale del mondo per una impossibilità, si potrebbe dire, tutta soggettiva di riconoscersi, non causa, ma resto di cenere di un brucia-tutto originario (e senza origine) o, per restare nei termini kantiani, iscritto nella forma pura e vuota del tempo. Lasciamo al lettore la cura di far corrispondere su questo punto l’attualità storico-politica di Kant con la nostra. Vorremmo indicare, tuttavia, la ragione per cui proprio il giudizio sul progresso morale del gene8

Ivi, 81-82 (214-216). Sulle tre tesi e più in generale sulla filosofia della storia in Kant si veda, A. Philonenko, La théorie kantienne de l’histoire, Paris 1986, soprattutto pp. 47 sg.

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re umano sia il motivo di dissidio fra la facoltà giuridica e quella filosofica: al di là, ma anche in corrispondenza, delle cause extra-testuali (generale atteggiamento anti-rivoluzionario del governo e delle facoltà giuridiche), c’è un motivo interno al testo sul Dissidio delle facoltà che va esplicitato. Noi abbiamo visto come la ‘decostruzione’ della storia divinatoria poggiasse sulla critica a quei politici che, con i loro cattivi consigli ai governi sulla modalità della costituzione civile, costringono gli uomini al rispetto di leggi ingiuste, le quali da sole giustificano la degenerazione del genere umano che essi poi, trasformatisi in soggetti profetici, non si stancano di predire. Ma sappiamo anche che la facoltà giuridica deriva la propria legittimazione dal Codice e risponde al governo per quanto riguarda le dottrine insegnate pubblicamente e la formazione dei propri ‘letterati’: dottrine e formazione che ineriscono alle regole cui gli uomini devono sottomettersi in quanto uniti in società. I dotti della facoltà giuridica dovrebbero, dunque, educare gli uomini al rispetto della legge, quella legge su cui d’altronde riposa l’autorità del governo. Ma Kant ha fatto vedere come i dotti della facoltà giuridica (insieme, d’altronde, a quelli delle altre due facoltà superiori) preferiscano rispondere piuttosto alla domanda del popolo di un sempre più grande benessere ed elaborino, dunque, per esso, più che regole da rispettare, scorciatoie per eluderle; in una parola, insegnano a trasgredire la legge in modo tale da evitare la sanzione. Ma non distruggono così facendo le fondamenta stesse del diritto? E allora non solo costringono gli uomini sotto leggi ingiuste, ma, invitandoli a trasgredirle senza danno, preparano quella catastrofe dello stato che, come profeti, annunciano ad ogni occasione. Qualunque sia la veste, cioè il tipo di enunciato e la sua giustificazione, con la quale essi cercano di dimostrare le loro tesi, difendono sempre un progetto di dominio: futuro nel caso del terrorismo morale; fedele allo status quo in quello della tesi dell’abderitismo; progressista senza fondamento secondo la tesi eudemonistica. Ed è evidente allora il diritto della facoltà filosofica di sottoporle a critica. Ma è solo in tal modo che ne viene delegittimato, per il doppio livello della legittimazione, anche il governo. Giacché infine sarà il Codice stesso ad essere ingiusto, a configurare una costituzione illegittima, non solo dal punto di vista morale, ma anche da quello del diritto naturale9. Fin qui la critica di Kant. Ma quando la facoltà filosofica dichiara la propria esclusiva sul giudizio sul progresso morale del genere umano, 9 Sul diritto in Kant si vedano i saggi di Gioele Solari dedicati a tale tema e raccolti ora in G. Solari, La filosofia politica, Bari 1974.

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vale a dire di essere l’unica facoltà legittimata a discutere di tale argomento ed a poterne tentare una dimostrazione razionale, non incorre in quelle stesse difficoltà che ha rivelato nell’argomentazione dell’avversario? In particolare non si trova daccapo con l’impensabile di una storia profetica? Una prima conclusione cui vorremmo giungere è che Kant sa che quando ci si trova di fronte al giudizio sulla destinazione ultima, sullo scopo finale del genere umano, la voce filosofica non può non prendere una tonalità profetico-apocalittica. Ora, il soggetto filosofico deve certo evitare che la storia profetica – ricordiamone l’esatta dizione kantiana: quella che si ottiene per ‘comunicazione ed estensione sovrannaturale della prospettiva nel futuro’ – si trasformi in quella divinatoria, cioè in una maschera del dominio, ma insieme non può sottrarsi a questo rischio, pena il lasciar campo libero all’avversario. Di più: nel delirio sulla degenerazione e la rinascita del genere umano proprio della tesi del terrorismo morale, c’è, come in ogni delirio, un nucleo di verità, di cui la filosofia dovrà tener conto. Ed esattamente il fatto che, proprio partendo dalla eterogeneità delle serie – storico-empirica ed ideale –, la questione dello scopo ultimo non può non affrontare quella della fine di tutte le cose o della fine del mondo. Vediamo di chiarire perché: si può dire che il modo più semplice (che non a caso è quello su cui si attesta il pensiero religioso) per pensare il passaggio fra le due serie, sia di ritenere che la seconda non possa avere inizio realmente, se la prima non sia giunta al suo esaurimento: è quanto il discorso religioso cifra con i termini di ultimo giorno o giorno del giudizio. Ed è facile vedere in tutto questo una forma di meta-racconto in cui l’ordine della creazione è iscritto in un piano provvidenziale scandito da quei quasi-eventi temporali costituiti dalla creazione, dalla rivelazione e dal giudizio universale. Ma la difficoltà specifica di una simile concezione, quando essa venga sottoposta al vaglio della critica razionale, attiene ancora una volta al problema del tempo. Ciò che viene alla luce è, infatti, la contraddizione fra la differenza e la divergenza delle serie ed il fatto che, tuttavia, esse siano pensate come disposte secondo una temporalità lineare: ancora una volta la differenza temporale è azzerata nell’identità. È solo allora che sorgono quelli che potremmo chiamare i paradossi del tempo e cioè che, una volta assunto il tempo come serie lineare di istanti, uno di essi dovrà svolgere necessariamente il doppio ruolo di ultimo della serie storico-empirica e di primo di quella ideale. È in uno scritto del 1794, Das Ende aller Dinge, che Kant affronta direttamente

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la questione con uno stile che sembra essere quello di un’analisi (o un’ermeneutica) del linguaggio ordinario. Di un uomo che muore, esordisce Kant, si è soliti dire che passa dal tempo all’eternità. Ma se si volesse con questo intendere che egli entra in una durata infinita si sbaglierebbe; la durata, infatti, è ancora una dimensione temporale, a differenza dell’eternità che implica l’assenza totale del tempo. Ma come si può pensare la fine del tempo in quanto tale? Per pensarla, il che significa qui farsene un’immagine, noi siamo costretti a ritenerla – la fine del tempo che è anche la fine di tutte le cose, che se esistono, esistono nel tempo – a sua volta come un’esperienza possibile e, in quanto esperienza possibile, temporale. Avremo, dunque, che la fine del tempo deve accadere nel tempo. Ma il problema era pensare il passaggio dal tempo all’eternità; allora quell’esperienza temporale in cui accade la fine del tempo deve essere insieme l’inizio di una sopravvivenza (Fortdauer), non come realtà empirica, che sarebbe ancora nel tempo, ma come un’essenza sovrasensibile (übersinnlicher), dunque, extra-temporale. E in quanto essenza sovrasensibile, tale sopravvivenza sarà interpretabile solo come una destinazione (Bestimmung) morale10. Bene: non è questo lo schema di una storia profetica che deve predire il passaggio dalla serie storicoempirica a quella morale e che s’incaglia nella difficoltà di voler trovare la fine della prima e l’inizio della seconda all’interno della stessa serie, quella empirica, senza di che quell’evento che dovrebbe valere da prova non sarebbe esperibile, impedendo di conseguenza la possibilità di produrre un enunciato constativo? Ma d’altronde tale enunciato a pretesa constativa non risulterebbe a sua volta talmente contraddittorio da delegittimarsi da solo o, per impedire tale esito, non dovrebbe ricorrere ad un fondamento metafisico-dogmatico, ad una meta-racconto religioso? Sembrano queste le alternative su cui si arena la possibilità del giudizio sul progresso morale del genere umano. Teniamoci fermi per ora al fatto che un pensiero criticamente avvertito sa di fare i conti con la compresenza nel giudizio del fine (Zweck) e della fine (Ende), in altri termini che il suo voler essere voce profetica lo porta inevitabilmente ad essere una voce apocalittica, e riprendiamo l’analisi kantiana. I giorni, dice Kant, sono figli del tempo: il giorno che segue è il prodotto di quello che lo precede. E allora come la lingua chiama l’ultimo figlio il figlio nuovissimo, così definisce l’ulti10

KW, VIII, 327.

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mo giorno, il giorno della fine del tempo, il giorno più giovane (jüngsten Tag): l’ultimo giorno è insieme l’inizio (Anfang). Ma se questo è vero, allora l’ultimo dei vecchi giorni deve appartenere ancora al tempo: in esso, infatti, accade qualcosa e se accade qualcosa e se l’accadere è nel tempo, esso non partecipa dell’eternità che, come assenza di tempo, non può implicare alcun accadere. In realtà, aggiunge Kant, in quest’ultimo giorno che è insieme il primo della nuova serie, di cose ne accadono in gran quantità; esso è il giorno del giudizio, il giorno in cui si è chiamati in udienza (Gerich), per rispondere dell’uso che si è fatto del tempo assegnato e per ascoltare la sentenza senza appello: la grazia o la condanna definitiva. Tale giorno, ultimo e primo, è anche il giorno del giudizio e del giudizio ultimo se è vero che contro la sua decisione non si può ricorrere11. Quel che, ci sembra, Kant tenta di tematizzare è che quando si affronta la legittimazione del giudizio sulla destinazione morale, sovrasensibile, del genere umano, non si parte ex novo: si è debitori di una tradizione, il discorso religioso-teologico, che ha per suo conto già dato una risposta, la quale sembra aver soddisfatto, nonostante la sua contraddittorietà, generazioni di uomini, felici nella loro pigrizia morale e per ciò stesso mentale. Di fronte ad essa si tratta allora di farne la critica, senza però chiudere gli occhi sulle difficoltà che in qualche modo la tradizione religiosa pur affrontava. Non ci sembra, tuttavia, che tale rapporto con il discorso teologico debba essere letto nei termini, oggi diffusi, della secolarizzazione; si tratta propriamente di una nuova forma di legittimazione e, dunque, anche di segnare una distanza netta rispetto al passato: se si vuole, un dissidio interminabile. Allora la connessione fra il fine e la fine andrà ripensata alla luce della nuova regola del giudizio, non contrabbandata sotto le spoglie di un nuovo meta-racconto, anche se, stavolta, di tipo razionale. La necessità che la voce filosofica si faccia profetico-apocalittica sarà sottoposta alla critica della ragione, passata al vaglio del custode del limite. Se il giudizio sulla destinazione morale del genere umano ha la stessa forma del giudizio ultimo di origine religiosa, dove quest’ultimo passa il limite, si sottrae al controllo del custode, fa, si potrebbe dire, il passo più lungo della gamba? Quando non pensa il tempo come differenza, sintesi passiva, ma lo riduce all’identità di un’unica serie di istanti o, per dirla con Kant, di giorni. 11

Ivi, 328.

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Si chiede Kant sempre nel testo su La fine di tutte le cose: perché gli uomini attendono in generale una fine (Ende) del mondo? Ma soprattutto: perché l’attendono con terrore12? La risposta di Kant al primo quesito è la seguente: gli uomini riterrebbero la loro vita una vita insensata se la durata del mondo non si collegasse con la realizzazione della loro essenza razionale; altrimenti la stessa creazione apparirebbe uno spettacolo (Schauspiel) privo di scopo e d’intenzione razionali. Ma perché con terrore? Perché contemporaneamente alla necessità di pensare la presenza di uno scopo nella durata empirica, gli uomini, tuttavia, sperimentano la loro insufficienza rispetto a tale destinazione: ciò che il discorso religioso traduce nella tesi di una originaria corruzione della natura (Beschaffenheit) del genere umano. Da qui la proiezione immaginaria del giorno del giudizio e la paura di doversi presentare di fronte al tribunale supremo. Ora, se si vuole smontare tale convinzione dell’immaginario collettivo, se si vuole, in altri termini, fare opera di rischiaramento, è necessario individuare un fondamento (Grund) razionale di tale configurazione immaginaria (che spiega a sua volta il credito di cui godono i teologi). Si tenterà forse di elaborare una nuova teodicea di tipo rousseauiano, facendo divenire soggetto dell’imputazione dell’origine del male, non più la natura umana, di per sé incorrotta, bensì il legame societario? Non proprio. La risposta di Kant punterà piuttosto su di un’analisi del tempo storico come pluralità di tempi, aventi velocità e misure diverse, e soprattutto non ricomponibili in un unico tempo, non riducibili al dominio dell’identico. Leggiamo: «Secondo una modalità naturale (Naturlicheweise) nei progressi del genere umano, la cultura dell’ingegno (Talente), dell’abilità (Geschcklichkeit) e del gusto (Geschmack) (con la sua conseguenza, l’eccesso di benessere – Uppigkeit), va più in fretta (voreilen) dello sviluppo (Entwicklung) della moralità; e questa circostanza è proprio la più pericolosa e la più pesante per il costume quanto per il benessere fisico: poiché i bisogni (Befürdnisse) crescono più intensamente dei mezzi per soddisfarli. Ma la disposizione (Anlage) morale dell’umanità, che (come il poena oraziano pede claudo) gli sta sempre dietro zoppicando, lo supererà un giorno (quel progresso), che, nella sua corsa precipitosa s’impiglia (verfangt, cioè si confonde per il suo troppo successo) e spesso inciampa»13. 12

Ivi, 330-331. Ivi, 332. Sull’accelerazione del tempo storico come tratto precipuo della modernità si veda, R. Koselleck, Vergangene Zukunft. Zur Semantik geschichlicher Zeiten, tr. it. di A. Marietti Solmi. Genova 1986, su Kant in particolare pp. 230-233 e 313-319. 13

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VIII. KANT II. LA LOGICA DEL PASSO O DELLA FILOSOFIA CHILIASTICA

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La tesi, dunque, della corruzione della natura del genere umano ha questa causa materiale: la divergenza delle serie temporali, lo slittamento dell’una rispetto all’altra. Il progresso della cultura in generale va più in fretta dello sviluppo morale e per questo eccede i propri limiti e dà la sensazione di una inevitabile degenerazione. Dal suo canto, lo sviluppo morale zoppica e sembra lasciarsi sfuggire il progresso della cultura: letteralmente non ce la fa a stargli dietro. Come si vede, è pur vero che, secondo Kant, esiste una disposizione naturale del genere umano alla moralità, ma tale disposizione s’intreccia indissolubilmente con quella modalità, naturale anch’essa, per cui i tempi divergono. Questa natura, si potrebbe dire, è storica; comunque temporale: e certo non di una temporalità lineare a partire dalla quale sarebbe pensabile uno sviluppo morale del genere umano senza contraddizioni, quasi inevitabile come una legge fisica. Piuttosto questo sviluppo è legato alla differenza dei tempi, esposto allo scacco, imprevedibile e non progettabile. Dipende, come vedremo, dalla contingenza storica. Ora, nel passo citato, Kant offre l’inizio di una soluzione. Se è vero che lo sviluppo morale zoppica ed arranca dietro il progresso della cultura, tuttavia può sempre sfruttare a suo vantaggio l’inciampo cui quest’ultimo va necessariamente incontro nella sua corsa precipitosa: usarlo come una leva per superare l’altro d’un balzo. Non solo, dunque, per abolire l’handicap che lo separa dal progresso della cultura, ma anche per trovarsi al di là di esso ed imprimere al tempo una direzione diversa. Ecco, si potrebbe dire, cosa mancava ad Achille, quando scaduto da personaggio mitico a semplice citazione del discorso vero, rincorreva, nei paradossi zenoniani, la lenta tartaruga senza riuscire mai a raggiungerla: gli mancava – e poco conta che nel paragone il rapporto velocitàlentezza sia invertito – una leva da cui spiccare il salto, un mochlos o un hipomochlium come li chiama Kant. Ma proviamoci ora ad estrarre dalla rete metaforica del testo kantiano, le coordinate di una logica, quella che potremmo chiamare la logica dell’evento, di un evento che sia la cifra del tempo come differenza e che, più che storico, sarebbe da definire trans-storico. Giacché è pur vero che, se non si può risolvere il problema del giudizio sul progresso del genere umano immediatamente mediante l’esperienza, tuttavia la storia profetica del genere va pur riconnessa ad una qualche esperienza. Tutto l’accento cada su quell”immediatamente’: se volessimo, infatti, attribuire il valore di connessione fra le serie ad un evento della serie empirica preso così nella sua immediatezza, ci ritroveremmo dac-

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IL DISCORSO E LA CENERE

capo con le difficoltà viste a proposito della discussione dell’ultimo giorno. L’esperienza cui riconnettere la storia profetica deve essere, al contrario, un evento in qualche misura indiretto; un evento, cioè, che mostri in se stesso il darsi di una mediazione e di una ri-flessione rispetto alla serie empirica. Un evento che, nel tempo, sia l’indice della sua flessione: un Umwendungspunkt o punctum flexus contrarii14. Un tale evento, dunque, non deve immediatamente partecipare nè della serie empirica nè di quella ideale; deve essere, piuttosto, ciò che permette il loro legame pur restando esse divergenti. Un ‘oggetto x’ o oggetto ‘triste precursore’, come lo chiamerebbe Deleuze, che scorre fra le serie o più propriamente salta fra di esse permettendo appunto quel balzo dello sviluppo morale; ma un oggetto x che si manifesta, d’altra parte, come ostacolo su cui inciampa il progresso della cultura. Un evento, ancora, che non vale mai per se stesso, ma solo per ciò di cui fa segno, che non è derivato da altro secondo una concatenazione per cause efficienti e che non è nemmeno causa libera dell’inizio di un’altra serie. Solo un’indicazione (Hindeutend) o un segno storico (Geschichtszeichen)15. Tale segno storico o avvenimento (Begebenheit), insiste Kant, può soltanto attivare la disposizione degli uomini ad essere causa libera (Ursache) e, dunque, quella del genere umano ad essere autore (Urheber), del progresso verso il meglio. Esso appunto non fa da causa; ed insieme non c’è soggetto che possa pretendere di fungere, a sua volta, da causa, dal momento che agli uomini si può soltanto indicare (dictiren) quel che debbono fare dal punto di vista morale, ma non certo si può predire quanto faranno o quanto gli accadrà – a meno di non essere come i profeti ebrei... Ma di più: il segno storico, in quanto ‘evento donato’, che si dà, cioè, in sovrappiù rispetto alle serie temporali, deve essere pensato, secondo Kant16, come un segno rammemorativo, dimostrativo e pro14

KW, VII, 83 (216). Ivi, 84 (218). 16 Rileva Lyotard che nel manoscritto di Cracovia, preparatorio alla stesura dell’Idea di una storia universale dal punto di vista cosmopolitico, Kant usa, per designare il segno storico, il termine Ereignis, quasi a voler sottolineare il carattere di dono e liberazione insieme che si deve attribuire all’avvenimento (cfr. J.F. Lyotard, Le différend, cit., p. 236, tr. it., p. 206). Ma nell’Idea... Kant, dopo aver affermato che si può considerare la storia della specie umana «nel suo insieme come l’effettuazione di un occulto piano della natura per porre in essere una costituzione politica internamente (e a questo scopo anche esteriormente) perfetta», chiarisce ulteriormente: «Come si vede la filosofia può anche avere 15

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VIII. KANT II. LA LOGICA DEL PASSO O DELLA FILOSOFIA CHILIASTICA

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gnostico17. In questa triplice qualificazione del segno storico come non vedere embricate in un unico evento le tre sintesi del tempo ed anzi la stessa apertura del tempo in generale? Il segno storico come criptazione della differenza sconvolge la temporalità empirica, ma per ridistribuirla secondo un’altra direzione. Se essa correva verso un progresso catastrofico ed inciampava, infine, sul suo stesso passo eccessivamente accelerato, il segno storico cambia il rapporto fra i tempi, permette anche, se si vuole, una diversa relazione fra le dimensioni temporali: dopo il suo avvenire, il passato potrà essere letto diversamente da quando era il presente ed il futuro apparirà diverso. Su di esso, infatti, s’è appoggiato il passo lento dello sviluppo morale per spiccare il balzo nel futuro e cambiarne così le sembianze. A partire dal farsi segno dell’evento, se si chiedesse al progresso della cultura quale sia la sua condizione risponderebbe come quel malato che, alla domanda sulla sua salute, replicava: «Muoio a forza di star meglio», mentre, se si chiedesse allo sviluppo morale quale sia la sua certezza, direbbe (un po’ lacanianamente): «Quando ça marche, sta sicuro che qualcosa gira a vuoto». Il segno storico è, dunque, per tornare al lessico deleuziano, Mnemosine perché rispetto alla serie del passato si dà come sua nuova origine da cui discende una sequenza causale impensabile prima, un po’ come quando l’evento-segno madelaine fa sorgere al posto del passato della memoria volontaria quello sepolto nella memoria pura; è Habitus perché disfa i saperci-fare inaugurando una nuova organizzazione dell’esperienza; e Thanatos perché a partire da esso il tempo si è piegato su se stesso, è entrato nel movimento della ripetizione, ha subito la cesura, è stato lavorato dall’opera silenziosa della pulsione di morte. Quest’ultimo punto merita una riflessione ulteriore. Se la pulsione di morte è definita da Freud come quella spinta dell’organismo vivenil suo millenarismo (Chiliasmus): ma un fine millenaristico tale che alla sua attuazione può giovare anche solo l’idea di esso, sia pure molto lontana, e che perciò è tutt’altro che illusorio. Tutto si riduce a vedere se l’esperienza riveli qualcosa di siffatto andamento del disegno della natura. Io affermo che solo qualche piccolo dettaglio (Weniges) si rivela, poiché il ciclo delle cose sembra esigere così lungo tempo prima di chiudersi... Ma, anche tenuto conto dell’epoca lontanissima cui la nostra specie deve pervenire, la natura umana è così fatta da non appagarsi della sola certezza di poterla attendere. Massime nel nostro caso ciò può tanto meno accadere, in quanto sembra che per la nostra stessa struttura razionale noi potremmo affrettare per i nostri posteri l’avvento di questa così felice. In vista di ciò anche i deboli indizi dell’avvicinamento ad essa (die Schwachen Spuren der Annäherung) diventano per noi molto importanti (KW, VIII, 27, tr. it. in I. KANT, Scritti politici, cit., pp. 134-135). 17 KW, VII, 84 (218).

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IL DISCORSO E LA CENERE

te a ritornare ad uno stadio anteriore della sua esistenza tale da coincidere con un tragico ‘meglio sarebbe non essere mai nati’, per poco che la si sottragga, come già avviene in Freud, al discorso biologico ed insieme ai vaneggiamenti pessimistici sulla vita dell’uomo, e la si leghi invece, in nome del suo statuto scientifico, al problema del tempo, a quel modo d’essere del tempo dell’inconscio (che esiste altroché) che è la ripetizione, si vedrebbe come essa legittimi, in termini laici e razionali questa volta, la profezia religiosa della fine del mondo; giacché un’illusione avrà sempre un’avvenire se non si riconosce, come già abbiamo avuto modo di dire, il suo nucleo di verità. Nella fine del mondo, nella prospettiva apocalittica, cos’altro si pensa, come dice Kant, se non la necessità di una sospensione della serie empirica affinché possa affermarsi quella ideale? La pulsione di morte non è altro che il concetto attraverso cui si pensa la flessione del tempo, il suo movimento di ripetizione che a nulla approda – Mnemosine è passato puro, immemoriale – se non alla riapertura del tempo come differenza, ad una nuova sintesi temporale. Ma nel frattempo della ripetizione avviene una selezione fra i fatti: qualcosa viene espulso che prima occupava il centro della scena, qualcos’altro che prima era considerato marginale e se ne stava sullo sfondo viene in primo piano. Le parti dello spettacolo, come Kant chiama la scena della creazione, vengono ridistribuite, fino a che non si abbia una nuova rappresentazione. Ma nel passaggio fra la versione religiosa dell’apocalissi e quella laica molto è mutato; giacché ora non è più necessario pensare la fine del mondo e del tempo come passaggio all’extra-temporale, all’extra-storico. L’orizzonte della trascendenza è sorpassato integralmente verso quello dell’immanenza storica; e, tuttavia, la storia non si riduce interamente alla sola dimensione dell’empirico. Se la serie ideale non deve più attendere per avere inizio che a quella empirica sia messa la parola fine, ciò non vuol dire che vi si identifichi: la differenza ora è rapportata alla struttura differenziale del tempo. È l’apertura del tempo in generale ad essere ritmata secondo le scansioni della differenza e della ripetizione: il tempo, dunque, è trans-temporale e la storia trans-storica. È d’altronde lo statuto dell’evento-segno: come cripta della differenza esso, come abbiamo detto, scorre fra le serie, scivola su di esse. È trans, ma insieme, infra-temporale, si forma nella piega del tempo, lega le serie, ma restando all’interno dell’orizzonte dell’immanenza: è la differenza di tempo dentro il tempo. C’è tempo là, ecco di cosa fa segno il segno storico; c’è sempre un tempo in più o un tempo in meno,

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VIII. KANT II. LA LOGICA DEL PASSO O DELLA FILOSOFIA CHILIASTICA

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che impedisce che il circolo si chiuda, che tutto vada bene, mentre la catastrofe avanza. Si vede allora come nel passaggio all’immanenza, le serie non si dispongano più secondo la forma del tempo siglata dall’uno dopo l’altro; la temporalizzazione introdotta a proposito della facoltà trascendentale dell’immaginazione nella Critica della ragione pura dà i suoi frutti anche in ambiti molto lontani dal suo luogo di nascita. Anzi, riferita alla storia del genere umano e al giudizio sul progresso morale, dà, forse, i suoi frutti migliori. Se il carattere essenziale della temporalizzazione era la simultaneità delle sintesi, l’originaria compresenza di passato-presente-futuro, ciò si riverbera sulla pensabilità del rapporto fra la serie empirica del progresso della cultura e quella ideale dello sviluppo morale: le due serie sono a loro volta simultanee, immanenti l’una all’altra, ma secondo quelle differenze di velocità, quegli slittamenti, che abbiamo mostrato. E ciò che le lega è a sua volta nient’altro che differenza: l’evento-segno le pone in relazione soltanto per disporre, secondo un’altra sequenza, la loro radicale ed ineliminabile divaricazione, per spostare su di un’altra scena il loro interminabile dissidio. È lecito, allora, a partire da queste ultime considerazioni, chiedersi dove si situi il segno storico, verso quale spazio ci si debba volgere per essere sicuri che, presto o tardi – è il caso di dirlo –, esso possa apparire. Ma è evidente che il suo territorio non sia altro che la pura immanenza storica, il tempo dell’attualità. Dove altrimenti dovrebbe mostrarsi, dal momento che non è un oggetto ottenibile per via di pura deduzione razionale? Ma l’attualità noi dovremo pensarla come quel tempo storico che è tale solo perché in esso sempre avviene la sintesi passiva del tempo come apertura della differenza; altrimenti il segno storico scadrebbe a semplice effetto di una causa empirica. E nemmeno questo, come sappiamo, appartiene alla logica dell’evento. Si tratta, in altri termini, della questione che riguarda le caratteristiche che ci faranno riconoscere in un fenomeno il marchio del segno storico, che ce lo faranno distinguere, nella distesa dell’attualità storica, da tutti gli altri fenomeni che restano legati alla loro radice empirica. Esso dovrà rispondere a due caratteri: da un lato non dovrà appunto presentarsi come effetto di una causa empirica, dall’altro non dovrà essere causa di una nuova sequenza empirica o ideale. Dovrà semplicemente essere causa di un entusiasmo morale negli spettatori disinteressati, vale a dire quelli che da esso non trarranno nessun beneficio, presente o futuro, ma che al contrario potrebbero ricevere a causa del loro

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entusiasmo soltanto un danno (si ricordi: il soggetto della storia divinatoria era invece un testimone molto interessato) Bene. Quale evento nell’attualità storica di Kant risponde a tali caratteristiche? La risposta è: la rivoluzione. Da un lato la rivoluzione è l’ostacolo su cui inciampa, a causa del suo stesso correre, il progresso della cultura: se esso accresce i bisogni e, dunque, la richiesta di benessere, non produce poi i mezzi per soddisfare e gli uni e l’altro. Certo la rivoluzione potrà essere stata desiderata, segretamente o pubblicamente auspicata, ma quanti vi si saranno riconosciuti una volta che lo iato di tempo fra il desiderio e l’augurio da un lato e l’effettualita dall’altro sarà stato azzerato? Comunque, la rivoluzione non era lo sbocco verso cui procedeva, consapevolmente si potrebbe dire, il progresso della cultura. Dall’altro, Kant si ostina a chiarire, e non solo per ragioni diplomatiche, che non è per il suo contenuto, per i suoi effetti nella serie storico-empirica, che la rivoluzione fa da segno storico. Non contano le miserie e le crudeltà che essa può aver prodotto, ma conta l’entusiasmo che essa ha suscitato su coloro che dall’esterno vi assistevano, spettatori disinteressati, estranei ai partiti in lotta. Conta soprattutto che tale entusiasmo si affermi pubblicamente, giacché è proprio in tale divenir manifesto che la rivoluzione si mostra come segno storico, vale a dire evento il cui senso non è immediato, ma indiretto; ed è per questo che non testimonia soltanto a favore della speranza di un progresso verso il meglio, bensì è già di per sé un passo in tale direzione. In altri termini, che la rivoluzione produca un tale entusiasmo, il quale, se manifestato pubblicamente, non è esente da rischi, fra cui quello della vita stessa, testimonia della disposizione morale del genere umano, proprio perché la causa dell’entusiasmo non è empirica – un qualunque interesse –, bensì ideale18. Soltanto a partire da queste caratteristiche la rivoluzione consegue poi anche dei risultati pratici che si configurano soprattutto come ripristino della sfera del diritto; diritto, fra l’altro, dei popolo ad essere governato attraverso una costituzione civile che esso possa ritenere anche moralmente legittimata (si pensi, ad esempio, alla statuizione del principio che vieta le guerre offensive e con il quale diviene regola pubblica quello che era un preliminare del kantiano progetto per una pace perpetua e per una federazione degli stati). Siamo così giunti di fronte a ciò che, nei corso di queste considerazioni, era già stato annunziato come il loro scopo precipuo: ci trovia18

Ivi, 85 (219).

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mo, cioè, sulla soglia dell’intraducibilità del testo kantiano, limite su cui necessariamente inciampa il tentativo di trasferirlo dall’attualità storica di cui è la risposta alla nostra. Nel porsi la stessa questione, Michel Foucault ha chiarito che certo non si tratta di «preservare i resti dell’Aufklärung», bensì di custodire il problema stesso di «questo evento e del suo senso». Il pensiero kantiano tematizzerebbe, secondo Foucault, il problema di una filosofia dell’attualità storica; l’‘attuale’, come noi abbiamo già visto, non è quel che del presente si potrebbe conoscere dal punto di vista teoretico, bensì quell’orizzonte in cui si dà un evento che fa segno di un mutamento di direzione dei tempo storico. È ‘attuale’ non ciò che produce effetti più o meno lontani nella catena dei fatti empirici, ma ciò che attiva negli ‘spettatori’ quella «volontà di rivoluzione», quell’entusiasmo, che sono «altra cosa dalla impresa rivoluzionaria in se stessa»19. È evidente che Foucault conserva del discorso kantiano quella differenza, effetto d’altronde della divergenza delle serie, fra l’evento ed il suo senso, i quali, se s’incontrano, è per quel carattere di segno, di ciò che sta per altro, di ciò che indica per via indiretta, che qualifica il segno storico. È, dunque, un problema che riguarda il rapporto, si potrebbe dire, fra lo Zeichen e la sua Ausdruck. Ma porre la questione in questi termini, vuol dire appunto, per Foucault, introdurre nel pensiero kantiano una netta distinzione: si tratterebbe, insomma, di abbandonare definitivamente quella parte del discorso di Kant che guarda ad una analitica della verità, al reperimento delle condizioni a priori di un’esperienza possibile in generale, ed incrementare quella che si potrebbe chiamare ‘un’ontologia del presente o ontologia di noi stessi’. L’opzione della nostra attualità storica sarebbe preliminarmente questa: scegliere fra una filosofia che si presenti «come una filosofia analitica della verità in generale» e una che sia «un’ontologia di noi stessi, un’ontologia dell’attualità»20. 19

Cfr. M. Foucault, Qu’es-ce que les Lumières? (prima pubblicazione: «Magazine littéraire», n. 207, Paris 1984), in Id. Dits et ècrits 1954-1988, vol. IV 1980-1988, Paris 1994, p. 687, tr. it. di S. Loriga, in Id. Archivio Foucault, 3 1978-1985, Milano 1998, p. 26. Su questo intervento di Foucault si veda il commento di J. Habermas, Una freccia scagliata al cuore del presente: a proposito della lezione di Michel Foucault su ‘Was ist Aujklarung?’ di Kant, «Il Centauro» n. 11-12, Napoli 1984. 20 Ivi (tr. it., p. 261). La responsabilità filosofica è, dunque, per Foucault, più una responsabilità verso l’attualità storica che verso la verità. D’altronde le linee di pensiero da cui Foucault stesso dichiara di aver preso le mosse – Hegel e la scuola di Francoforte, Max Weber e Nietzsche – sembrano confortare tale tesi. Se la relazione fra verità e pre-

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Fatta la scelta, ne deriva, per Foucault, che le domande da porsi sono le seguenti: che cos’è la nostra attualità? Qual è il campo attuale delle nostre possibili esperienze? Domande che rimandano a questa: qual è il segno storico della nostra attualità? Ora, se ciò che dell’eredità kantiana va salvaguardato è la differenza fra l’evento ed il suo senso, non si tratterà certo di conservare la rivoluzione come modello del segno storico, ma di individuare come tale quell’evento che, facendo segno, produce in noi, spettatori attuali, un entusiasmo morale, la volontà (o il desiderio) di rivoluzione. Giacché, già in Kant, l’accento non cadeva sull’evento in quanto empirico, ma sul rapporto che esso instaurava fra il suo esser segno e la sua interpretazione-espressione – la sua Ausdruck – da parte dei soggetti spettatori. Aggiungiamo anche: l’interpretazione che ne dava il soggetto dei giudizio in vista della sua legittimazione ad enunciare il progresso morale del genere umano. Ora è fuori di dubbio (e non indagheremo oltre su questo punto) che la rivoluzione abbia cessato da tempo di costituire un segno storico e sia ridivenuta null’altro che un evento empirico della serie del passato – oggetto, semmai, della ricerca storiografica, forse dei suoi dissidi, ma certo non più spinta di un progetto ideale. La rivoluzione non è più un segno storico anche perché il nostro tempo è ormai il tempo della rivoluzione realizzata21. Ma se questo è vero, non dovremmo dire anche che ciò che si è esaurito sia, insieme alla rivoluzione, quell’entusiasmo, quella volontà di rivoluzione che essa produsse allora sugli spettatori disinteressati? Come fare a separarli? Il rapporto fra il segno e la sua espressione interpretativa non è forse divenuto univoco? Vogliamo dire che un secolo e più di sospetto generalizzato sulla verità (analitica o dialettica che fosse) ha gettato discredito, fino a dissolverla, anche sulla volontà di verità. E con essa ha sottoposto ad una geneasente storico è ancora salvaguardata in Hegel, ciò cessa di esser vero dopo. Ma va notato anche che Foucault ha volutamente impresso una divaricazione a forbice nell’eredità del moderno fra il tema dell’attualità e quello delle condizioni di possibilità della verità: l’aver fatto oggetto, sulla scia di Nietzsche, di una genealogia metodica la volontà di verità ne è la prova, quasi che la ricerca dell’attualità storica andasse di pari passo con un sospetto sempre più generalizzato nei confronti della verità stessa. 21 È significativo che nel passo richiamato alla nota 16, Kant istituisca un’analogia fra il «ciclo delle cose» e «il corso del sole con l’intero esercito dei suoi satelliti nel grande sistema delle stelle fisse». Sul concetto di rivoluzione politico-astronomica, cioè come ritorno e compimento dello scopo e della destinazione, si vedano di K. Grienwank, Der neuzeitliche Revolutionsbegrff Entstehung und Entwicklung, tr. it. di G.A. De Toni, Firenze 1979, e di AA.VV., Il concetto di rivoluzione, Bari 1979.

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logia distruttiva anche la volontà di rivoluzione che, in fondo, non era null’altro che una delle forme della volontà di verità: quella propria del meta-racconto della liberazione. Ora noi crediamo, al contrario, che il problema sia di ripensare l’intera problematica kantiana del giudizio sul progresso morale del genere umano alla luce di uno statuto della verità che escluda in linea di principio proprio la relazione fra la verità e la volontà di verità, che riconduca, infine, criticamente, il soggetto del giudizio alla sua radice di soggetto di desiderio; che sottragga, insomma, il ragionamento di Kant al territorio del discorso universitario, per quel tanto di cui inevitabilmente ne partecipa. Si tratta, detto in altri termini, d’introdurre, nell’argomentazione kantiana, dei décalages ogniqualvolta il suo discorso mostri di andare nella direzione di un rafforzamento del significante fondamentale del soggetto epistemico piuttosto che in quella della verità come eccesso del discorso e, dunque, del soggetto come soggetto di desiderio. Dovremo, allora, riprendere le mosse proprio da quel punto in cui si tematizza il rapporto fra il segno storico e la sua interpretazione, dal momento che, come vedremo, qui si decide della formazione del soggetto del giudizio, dell’interpretante del segno, come soggetto, non teoretico, bensì pratico-morale. Riprendiamo la tematica della temporalità: essa ci ha condotto all’elaborazione di una logica dell’evento trans-storico. Ma non abbiamo certo dimenticato che, attraverso Deleuze, noi avevamo in primo luogo definito il movimento della temporalizzazione come incrinatura e passivizzazione dell’io. In quanto esperienza del senso interno, la temporalizzazione fletteva l’io nel senso della differenziazione, della perdita, dunque, dell’identità. Ora, noi vorremmo provare a stemperare l’affermazione di Deleuze secondo la quale Kant restituirebbe all’io (e di conseguenza a dio) la sua sovranità nella Critica della ragione pratica. Vorremmo mostrare, al contrario, come proprio nella sfera morale il soggetto del giudizio pratico non possa essere pensato che come ciò che sta in bilico, sospeso nella differenza di tempo, come ciò che letteralmente vacilla perché sta su un piede solo, giacché dapprima zoppica e dopo poggia un piede per prendere lo slancio mentre l’altro è alzato, pronto al balzo ma anche alla caduta. È proprio quella tecnica del passo che Kant illustra in una nota della terza parte del Dissidio delle facoltà: se ci si è fatta fare, scrive Kant, una scarpa su misura per il piede sinistro, essa non calzerà mai bene al piede destro. Se dobbiamo saltare un fosso noi poggiamo il sinistro e passiamo col destro. Ma che «il fante prussiano sia addestrato a partire con il

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piede sinistro non costituisce una confutazione (del vantaggio del destro sul sinistro), ma una conferma; perché mette in avanti quel piede come su un hypomochlium, per dar slancio all’attacco con il lato destro, ed eseguendolo così con il destro contro il sinistro»22. Se volessimo vedere in questa arte del buon camminare una metafora dello stile filosofico, noi dovremmo arguirne, in primo luogo, che il filosofo ha bisogno di un addestramento. Se vuole essere tale, deve educarsi al ribaltamento delle abitudini ‘spontanee’, all’inversione delle tecniche che si trova a usare per intelligenza pratica o per ‘dono divino’: camminare, ad esempio, poggiando sul sinistro e avanzando col destro. Ma come il fante, il filosofo militante deve affrontare ostacoli o fossati ben più pericolosi, di fronte ai quali le tecniche non servono. Allora imparerà, per quanto ciò non gli venga d’istinto, a poggiare il destro ed alzare il sinistro, giacché il primo come leva gli darà più slancio di quanto non gliene possa dare l’altro. Ed è giusto: se il soggetto del giudizio pratico sullo sviluppo morale del genere umano non poggiasse il destro sul segno storico da dove gli verrebbe la forza per saltare oltre il progresso della cultura che, non essendo addestrato, è inciampato sui suo stesso passo? Altrimenti non continuerebbe a zoppicare e basta, ad arrancare dietro la corsa del progresso della cultura, incapace finanche di saper approfittare della sua défaillance? Finirebbe per non riconoscerlo, il segno storico. Lasciamo la metafora (sempre che la si lasci). Vogliamo dire che il darsi, nell’attualità, del segno storico costituisce l’incrinatura del soggetto della scienza, o il momento in cui la voce filosofica deve abbandonare il tono scientifico-constativo per assumere quello apocalitticoprofetico con tutti i rischi che ciò può comportare. Vale a dire che la struttura logica dell’evento trans-storico pone in crisi il soggetto epistemico: ci si provi, infatti, a produrre una frase constativa che esprima il segno storico. Ma se esso è il darsi della differenza come apertura del tempo in generale, nessun apparato categoriale, nessun concatenamento di frasi secondo il genere di discorso scientifico, saranno mai in grado di rendere la frase sul segno storico un giudizio determinante. Ciò non vuol dire che non si possano produrre frasi constative sulle rivoluzione, ma significa che tale frasi saranno soltanto dei giudizi empirici anche se fondati a partire dalle coordinate della critica della ragione pura. Vale a dire che per questi enunciati la rivoluzione resta un evento empirico, non è presa per ciò di cui fa segno, non, appunto, come segno storico. 22

KW, VII, 106 (136, parzialmente modificata).

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VIII. KANT II. LA LOGICA DEL PASSO O DELLA FILOSOFIA CHILIASTICA

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D’altronde nell’enunciato ipotetico: se il genere umano sia in costante progresso verso il meglio, il segno storico non fa da soggetto della frase: esso è piuttosto quell’oggetto x, quella differenza pura a partire da cui la frase si rende possibile. La frase, dunque, concatena il segno storico, proprio perché esso cade fuori da ogni frase constativa. Ora, noi abbiamo descritto il rapporto fra il soggetto del giudizio pratico e il segno storico come un passaggio dallo Zeichen all’Ausdruck, dall’esser segno dell’evento alla sua espressione nel giudizio attraverso una tecnica interpretativa. E ciò perché fra l’evento e ciò di cui fa segno non c’è rapporto univoco: l’evento fa segno in modo obliquo ed indiretto. Ma allora interpretare il segno non ci rimanda al problema di una storia profetica che sempre deve avere qualcosa della divinazione, a patto però di non scadere nel profetismo ebraico e di non farlo, il mestiere d’indovino, come Kant ci ricorda in una nota proprio all’inizio della seconda sezione del Dissidio delle facoltà, senza conoscenza o senza onestà, alla maniera della Pitia o della zingara? C’è dunque un modo onesto e consapevole di fare l’indovino o il soggetto di una storia profetica ed augurale. C’è un modo critico, non religioso e non teologico, di predire l’avvenire: si può essere auguri, si può far voto di un progresso del genere umano verso il meglio. In altri termini, il progresso morale del genere umano è l’oggetto del desiderio. Riduciamo, così facendo, la validità del giudizio ad una massima semplicemente soggettiva? No, se ci ricorderemo che il soggetto di desiderio è il risultato dell’incontro, attraverso l’interpretazione, del soggetto epistemico col segno storico, il resto del loro cortocircuito. Definiamo, autorizzati in ciò dallo stesso Deleuze, il segno storico, l’oggetto x, l’oggetto ‘a’ di Lacan e ricordiamo la formula del discorso universitario S2 S1

a S/

Nel tentativo di S2 di valorizzare S1 attraverso l’estrazione di plusvalore da ‘a’, S/ cade fuori dal discorso. Il soggetto di desiderio è il resto del discorso universitario. Si tratterà allora di far vedere come Kant tematizzi esplicitamente il soggetto di desiderio, come soggetto del giudizio pratico-morale, in quanto resto del soggetto della scienza. Ciò potrà avvenire attraverso un’analisi del rapporto fra l’evento ed il suo senso, fra il segno e la possibilità della sua interpretazione: nei termini kantiani, fra l’evento che fa segno in modo indiretto e l’entusiasmo. La

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IL DISCORSO E LA CENERE

risposta a queste domande è quella, ci sembra, offerta dalla sezione della Critica del giudizio dedicata all’analitica del sublime. Si definisce sublime in generale quell’insieme di eventi (mentali: la serie infinita dei numeri; naturali: ogni tipo di sconvolgimento della natura fisica; ed aggiungiamo: storici come, ad esempio, la rivoluzione) che oltrepassano la capacità dell’immaginazione; vale a dire quei fenomeni, che, pur esibendosi nello spazio e nel tempo, non sono schematizzabili, per i quali cioè l’immaginazione non è in grado di produrre schemi possibili di oggetti dotati di configurazione e di senso cui possano applicarsi le categorie dell’intelletto. Se si tiene conto del ruolo decisivo che gioca la facoltà trascendentale dell’immaginazione nel processo di costituzione di un’esperienza possibile in generale e, dunque, di una conoscenza scientifica, si comprenderà perché l’evento sublime incrini irrimediabilmente il soggetto epistemico. Ma se di fronte al sublime, venendo meno il potere dell’immaginazione, viene meno anche quello del soggetto della scienza, il soggetto, allora, si qualificherà come soggetto patico; nella misura in cui la sua spontaneità è messa in crisi, acquisterà rilievo la sua paticità. E, infatti, la facoltà su cui poggiano i giudizi riflettenti è quella del sentimento del piacere (dispiacere). Dal sublime, come dall’oggetto estetico, il soggetto è affetto, prova delle affezioni di piacere o di dispiacere. Ma il tempo era l’essere affetto del soggetto secondo il senso interno; l’affetto (Affeckt), dunque, è quella modalità patica attraverso la quale il soggetto è declinato dalla differenza: insomma, l’affetto è la risposta soggettiva alla differenza temporale. Torniamo al Dissidio delle facoltà: la reazione degli spettatori disinteressati nei confronti del segno storico ‘rivoluzione’ è l’entusiasmo. Ora, l’entusiasmo è un affetto, concetto quest’ultimo che Kant distingue accuratamente dalla passione (Leidenschaft) che è, invece, una malattia dell’anima23. L’entusiasmo, cioè, è il modo con cui essi partecipano all’evento – lo interpretano paticamente – nella misura in cui esso ha incontrato il loro desiderio (Wunsch)24, ossia il loro voto, il loro augurio di un progresso morale del genere umano. 23 Nella Critica del giudizio Kant si era già soffermato su tale differenza: mentre gli affetti si riferiscono al sentimento (Gefühl), le passioni riguardano la facoltà del desiderare. Queste ultime sono propriamente delle inclinazioni (Neigungen) che rendono impossibile ogni determinazione (Bestimmberkeit der Willkür) per mezzo di principi (Grundsatze): cfr. KW, V, 272 (125). 24 KW, VII, 85 (219). La traduzione italiana recita: «Una partecipazione d’aspirazioni che rasenta l’entusiasmo». Si perde così la portata del termine Wunsch che, come si vedrà

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VIII. KANT II. LA LOGICA DEL PASSO O DELLA FILOSOFIA CHILIASTICA

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Il segno storico, dunque, come oggetto ‘a’ diviene non un oggetto prodotto dalla schematizzazione dell’immaginazione e, dunque, conoscibile scientificamente, bensì l’oggetto del desiderio (secondo l’algoritmo lacaniano: S/ desidera ‘a’): l’indice di un plus-de-jouir, di un al di là del principio del piacere. Non affronteremo qui (lo riserviamo al prossimo capitolo) il problema del ruolo specifico che occupa nel discorso kantiano il concetto di Wunsch, distinto dalla facoltà superiore del desiderare (Begehrungvermögen) ed anche dal principio del piacere (Lustprinzip). Vorremmo per ora sottolineare soltanto che il desiderio entra in gioco quando qualcosa – un evento – fa segno, chiede di essere interpretato in un modo quasi divinatorio – segno augurale –, e non di valere per quello che è come dato di fatto empirico. Il desiderio, cioè, sembra mancare di un proprio oggetto specifico, cui corrisponda univocamente, ma è come se avesse bisogno, per manifestarsi, di segni indiretti ed obliqui, di tracce: in una parola, di sintomi. Ora, se l’entusiasmo, in quanto affezione del soggetto, è un sintomo del desiderio, un’interpretazione patica della differenza temporale, esso diviene a sua volta un segno, un sintomo, per un altro interpretante, cioè per il soggetto del giudizio pratico, che su di esso fa leva per la propria legittimazione. Abbiamo così una sequenza scandita secondo due momenti ben distinti e tuttavia correlati: in un primo tempo il desiderio interpreta l’affetto producendo un sintomo; in un secondo tempo il soggetto traduce lo Zeichen, il sintomo in espressione; ma quest’ultima non sarà mai un’espressione logico-scientifica, una frase constativa, bensì solo un giudizio sospeso, una verità detta ‘come se’, solo un augurio – e tuttavia legittimi. La domanda, ora, è appunto questa: come può legittimarsi un giudizio che non è altro che un’interpretazione di un sintomo del desiderio? La risposta di Kant è la seguente: che cosa è in generale extraimmaginativo, al di fuori della portata della facoltà trascendentale dell’immaginazione e, dunque, non sottoponibile alle categorie, non riducibile alla relazione causale? La libertà: non l’arbitrio, ma la libertà morale che, in quanto tale, è sovrasensibile. E qual è l’oggetto della libertà morale se non il bene? Ma non sappiamo anche che la libertà morale è possibile solo se vi sia detrimento del principio del piacere? Allora il bene è l’irrapresentabile; ma se è tale, come potremo prediin seguito, presenta in Kant una valenza semantica ben determinata. Sulla posizione di Kant nei confronti della rivoluzione si veda il bel libro di D. Losurdo, Autocensura e compromesso nel pensiero politico di Kant, Napoli 1986.

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IL DISCORSO E LA CENERE

carlo del soggetto ‘genere umano’, come potremo mai giudicare su di esso? Solo attraverso l’interpretazione di un affetto che, come sintomo, fa segno verso, sta per esso, allude al bene, e che quale sintomo del desiderio eccede il principio del piacere. L’analitica del sublime definisce propriamente l’entusiasmo come la congiunzione di un affetto con l’idea del bene. Questa non è oggetto di frasi constative, bensì di un sentimento: la si avverte, la si inferisce in nome del piacere che procura. Ma se il piacere prodotto dall’entusiasmo era, come si ricorderà, disinteressato, tale, anzi, da far rischiare la vita se espresso pubblicamente, che tipo di piacere dovrà essere? C’è un piacere tale da far desiderare anche la morte pur di ottenerlo? Un piacere il cui equilibrio comporti la rinuncia alla vita? Occorrerà pensare, allora, un piacere che, pur essendo per un lato un dispiacere, sia per un altro il sentimento di un accordo del soggetto con se stesso tale da farlo rinunciare al piacere della vita. «Il sentimento del sublime – scrive Kant – è dunque un sentimento di dispiacere (Unlust) che nasce dall’insufficienza dell’immaginazione, nella valutazione estetica delle grandezze, rispetto alla valutazione della ragione; ed è insieme un sentimento di piacere suscitato dall’accordo appunto di questo giudizio sull’insufficienza del massimo potere sensibile, con idee della ragione, in quanto il tendere a queste è per noi una legge»25. È legge morale – legge, si potrebbe dire, del genere umano in quanto tale – tendere alle idee della ragione, dunque, all’idea del bene. Ma se essa è inimmaginabile, quello che sembra un limite, si rivelerà come lo statuto specifico della sua pensabilità, cioè della sua predicabilità nel giudizio. La condizione è questa: che il sentimento di piacere che si prova per essa sia un dispiacere per il soggetto epistemico che poggia la sua sovranità sul massimo potere della sensibilità, il potere dell’immaginazione. Se il piacere è sempre definito concettualmente da Kant come un accordo del soggetto con se stesso, tuttavia esso è come scisso ed antinomico: come accordo della ragione con se stessa esso è un dispiacere per il soggetto empirico non solo, bensì anche per quello epistemico. Non si potrebbe dire allora che la ragione implica un piacere in più, un godimento, preclusi al soggetto empirico, pago dei saperci-fare, ed a quello epistemico che si limita a tradurre i primi in discorsi scientifici? Godimento che è anche un dolore? Ma allora di nuovo il soggetto è scisso, non solo fra sensibilità e ragione, sapere storico e sapere di sé, ma anche fra piacere e godimento. 25

KW, V, 257(107).

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VIII. KANT II. LA LOGICA DEL PASSO O DELLA FILOSOFIA CHILIASTICA

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Ora, tale scissione riceve in Kant uno statuto particolare: è per essa, infatti, che il dispiacere, lo scacco e l’impossibilità della rappresentazione costituiscono la condizione del «sentimento della nostra destinazione sovrasensibile», acquistando senso in tal modo quell’inadeguatezza delle idee della ragione ad ogni misura della sensibilità26. È rilevante, tuttavia, che questa scissione, come limite della rappresentazione e, dunque, anche della rappresentazione ‘io penso’, marca dell’enunciazione in generale di tutti gli enunciati, cioè dei giudizi, impedisca contemporaneamente che, in nome del sentimento dell’accordo della ragione con se stessa, questa dimentichi i limiti della critica e, come i profeti ebrei, disegni un mondo tutto razionale, la cui unica effettualità sarebbe il più perfetto sistema di dominio. Il sentimento del piacere proprio della ragione non dà il diritto, specifica Kant, di abbandonarsi a quel fantasticare (Schwärmerei) che «consiste nell’illusione di voler vedere qualcosa al di là dei limiti della sensibilità, cioè nel sognare secondo principi (vaneggiare con la ragione)»27. Si può, dunque, anche vaneggiare con la ragione – c’è del metodo nella follia –, si può sognare secondo principi, prefigurare un mondo – il mondo futuro – in tutti i suoi particolari, fare dell’utopia del tutto razionale. Forse troppo: ed è appunto quando il soggetto pretende di dedurre dai concetti puri della ragione la differenza, imbrigliare la verità nella rete categoriale. Il soggetto del giudizio pratico allora si trova come preso fra due fuochi: da un lato una legge che ordina di giudicare, forte dell’accordo della ragione con se stessa, dall’altro la stessa legge che lo obbliga al rispetto del limite: l’aver sottoposto a scacco la sensibilità non significa tuttavia ignorarne i limiti. Altrimenti cosa distinguerà il suo entusiasmo dalla pura demenza, il suo legittimo delirio da quello dello storico divinatore, dal profeta ebraico? È vero: la ragione può produrre mostri. 26 Ivi, 258 (107-108); ma in generale tutto il § 27. Scrive Kant: «In realtà è impossibile concepire un sentimento (Gefühl) pel sublime della natura, senza legarvi una disposizione dell’animo (die Stimmung des Gemüth), simile a quella che è propria del sentimento morale; e sebbene il piacere immediato pel bello naturale supponga e coltivi una certa liberalità nel modo di pensare, cioè l’indipendenza dal piacere (Wohlgefallens) dal semplice godimento sensibile (Sinnengenusse), la libertà qui sta piuttosto nel gioco che in una occupazione regolare; mentre quest’ultima è il carattere proprio della moralità umana, in cui la ragione fa necessariamente violenza alla sensibilità; soltanto che nel giudizio estetico sul sublime questa violenza ce la rappresentiamo come esercitata dall’immaginazione stessa, in quanto strumento della ragione» (ivi, 268-269, tr. it., pp. 121-122). 27 Ivi, 275 (129).

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IL DISCORSO E LA CENERE

Kant sa perfettamente che il confine che separa l’entusiasmo morale dalla demenza è labile: basta un nulla a farcelo infrangere e del resto solo un semplice custode lo sorveglia. Tutto il peso della distinzione fra il delirio (Wahnsinn) e la demenza (Wahnwitz) si regge su quella, già accennata, fra l’affetto e la passione: mentre quest’ultima è una vera e propria malattia, uno sconvolgimento strutturale e perciò durevole della psiche, l’altro è un accidente passeggero che può colpire anche l’intelletto più sano; come dice Kant, se nell’affetto l’immaginazione è senza freni (zugellos), nella passione è invece senza regole (regellos)28. Può accadere perciò che nell’entusiasmo la ragione possa usare l’immaginazione al fine di godere di sé nell’abbandonarsi a configurare un mondo futuro, ma ciò non toglie che essa sia chiamata, pur nel godimento, a rispettare quelle regole, venute meno le quali il rischio per la ragione sarebbe di credere tanto al suo sogno da scambiarlo per una esibizione empirica del sovrasensibile. In tal caso, essa sarebbe veramente una ragione sognante, allucinerebbe all’istante l’oggetto del desiderio e, se il sogno fosse ad occhi aperti, si trasformerebbe in demenza. Ora, cosa può materialmente evitare la demenza della ragione? Solo Thanatos come sintesi del futuro. Ci si ricorderà che avevamo anticipato che Thanatos, in quanto messa in squilibrio del principio del piacere, faceva da leva alla ragione. Ma Thanatos era ciò in cui il soggetto incontrava la propria morte, l’io la propria incrinatura. Non è allora Thanatos che impedisce al soggetto del giudizio sul progresso del genere umano, come soggetto di una storia profetica, di sorpassare il limite, di varcare la soglia che trasforma la ragione in sogno? Giacché una volta varcata tale soglia, il rischio è quello di non riuscire più a svegliarsi dal delirio morale, come avviene in quei sogni in cui sogniamo di non poter svegliarci, sappiamo di sognare ma non sappiamo più uscire dal sogno. Si dovrebbe dire: il soggetto del giudizio sta sul limite; questa è la sua sola condizione di possibilità: resistere sui limite, un piede ben poggiato, l’altro in aria pronto al balzo, sempre, tuttavia, in procinto di cadere nell’abisso della demenza. Come ha commentato Lyotard, le pagine dell’analitica del sublime tentano di tematizzare la possibilità di un passaggio fra il regime delle frasi constative e quello delle frasi prescrittive: questo passaggio è il pathos. Deve emergere, dunque – primo décalage del discorso kantiano –, dal soggetto epistemico, a certe con28 Ivi. Sul concetto di malattia mentale in Kant si veda, O. Meo, La malattia mentale nel pensiero di Kant, Genova 1982.

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dizioni e con certe cautele, qualcosa come il soggetto di desiderio. Nell’ambito etico-politico un logos senza pathos sarebbe votato all’impotenza. E tuttavia, aggiunge Lyotard, tale passaggio non fa da snodo dialettico: esso è piuttosto «un passaggio in via di passarsi (passage en train de se passer), e la sua via, il suo movimento è una sorta di agitazione senza spostamento nel vicolo cieco (impasse) dell’incommensurabilità, al di sopra dell’abisso»29. Cos’altro ha descritto Lyotard se non lo stile del passo filosofico, del passo ben addestrato sia per prendere lo slancio – saltare il fosso che separa le frasi constative da quelle prescrittive –, sia per sospenderlo, per stare al passo – evitare di cadere nell’abisso della demenza? C’è forse un passo che non sia un’impasse? Ci sarebbe da chiedersi se la quarta domanda kantiana: che cos’è l’uomo? – compendio delle prime tre: che cosa posso sapere? che devo fare? che cosa ho diritto di sperare?30 –, non possa, forse, essere tradotta in questo modo: quanto tempo è concesso all’uomo dall’economia generale della verità di restare nell’impasse del desiderio? Senza dubbio, poco. Posizione in se stessa insostenibile, essa costringerebbe il soggetto o a ricadere nell’economia ristretta dei saperci-fare, del principio del piacere o, per poco che vi si fosse attardato più della sua forza, a vaneggiare con la ragione. Ma non è Kant a dirci indirettamente che, se un giudizio sul progresso morale del genere umano è legittimo, è perché esso fa leva sul poco che ci resta? Resto della temporalità empirica: il segno storico, resto del discorso della scienza: il pathos, resto del soggetto: il desiderio? E non dovremmo chiederci: qual è il poco della nostra attualità storica? L’evento che fa segno al desiderio, oggi, quando la rivoluzione e la volontà di rivoluzione non sono più dei segni, tutt’al più dei reperti? Ora, noi condividiamo la tesi di Lyotard: il discorso kantiano quale si consegna nella terza critica ed in particolare nell’analitica del sublime, negli scritti sulla filosofia della storia ed infine in quei testi di difficile classificazione come Das Ende aller Dinge, risponde nelle sue coordinate generali alla nostra situazione storica. Non siamo noi di nuovo di fronte, dopo la crisi dei meta-racconti, al problema del giudizio? Alla difficoltà di trovare un passaggio fra i regimi di frasi? Non 29

J.F. Lyotard, Le différend, cit., p. 240 (tr. it., p. 209). Le quattro domande fondamentali (erano solo tre nella Critica della ragione pura) si trovano nelle lezioni di logica pubblicate nel 1800 a cura dell’allievo ed amico dl Kant Gottlob Benjamin Jäsche, cfr. KW, IX, 24-25 (tr. it. di L. Amoroso, Bari 1984, p. 19). Su questo tema si veda L. Goldmann, introduction ì la philosophie de Kant, Paris 1967. 30

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IL DISCORSO E LA CENERE

siamo di nuovo chiamati a far fronte alla possibilità di un’indifferenza pratica per cui tutto va bene? Ma avevamo anche preso distanza da Lyotard per un suo certo primato della frase; uscire dall’impasse è pur sempre effetto di un concatenamento del pathos in una frase ed una frase è parte di un genere di discorso, forse non ancora prodotto, forse futuro, ma tuttavia un genere. Ora, è pur vero che, se di qualcosa Lyotard rimprovera Kant, è di avere concatenato troppo in fretta, cosicché quella solennità con cui infine si legittima a predire il progresso verso il meglio, denuncia in realtà una rapidità eccessiva: «Ora io credo – conclude Kant e Lyotard cita – anche senza essere dotato di spirito profetico, di poter presagire (vorhersagen) per il genere umano, in base agli aspetti e ai segni precorritori (vorzeichen) dei nostri giorni, la realizzazione di questo fine (Zweck) e con ciò un progresso verso il meglio che non conoscerà più un totale regresso»31. Ed aggiunge subito dopo, a controprova di quanto ha appena detto, che un simile fenomeno, una volta che si sia dato nella storia dell’umanità, non si dimentica più, dal momento che ha offerto la prova, che nessun politico (moralista politico, fa notare Lyotard32, che Kant distingue dal politico morale) avrebbe mai potuto desumere dal semplice corso dei fatti, di una disposizione morale degli uomini la quale, divenendo pubblica, si sottrae per sempre all’oblio. Nessun dubbio: la predizione di Kant è stata falsificata. La storia successiva si è incaricata di produrre un evento che sembra aver fatto da contro-esempio limite – Auschwitz. Eppure il giudizio non era tale da valere in ogni caso? Dunque, anche in questo caso? Che cosa allora non ha funzionato? La troppa fretta, come direbbe Lyotard? Quella fretta in logica che obbliga a concludere? O, forse, qualcos’altro. Attraverso Lyotard noi possiamo dire che il pathos entusiastico si concatena in una frase del tipo: ‘C’è il progresso morale del genere umano’, quando si dia un segno che faccia da referente alla frase, anche se non si può mai preventivare di che segno si tratterà e quale sarà il tempo del suo accadere. Ma si provi, ora (cosa che sembra fare implicitamente anche Lyotard), a tradurre Auschwitz, da evento che falsifica la predizione kantiana, nel segno storico della nostra attualità, in quella differenza che pone in bilico il presente storico. Allora, per applicare ad Auschwitz la teoria critica del giudizio 31 32

KW, VII, 88 (222 ). J. F. Lyotard, Le différend, cit., p. 245 (tr. it., p. 214)

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etico-teleologico, noi dovremmo stabilire in che modo Auschwitz fa segno, è, cioè, sintomo del desiderio, e quale frase porta ad espressione tale suo far segno. In altri termini, chi sono gli spettatori di Auschwitz, da quale sentimento sono affetti? In primo luogo, noi abbiamo mostrato, con Antelme, che l’effetto di Auschwitz è il silenzio: silenzio delle vittime, oblio degli spettatori. Finanche per il testimone, prima ancora d’essere smentito dallo storico, la verità di Auschwitz sfugge alla forma-racconto, non sopporta frasi. Dunque, nessun pathos entusiastico, d’altronde impossibile; semmai, da questo punto di vista, Auschwitz sembra realmente negare qualunque possibilità di progresso morale del genere e si presenta come l’evento culmine del nichilismo. E tuttavia c’è una verità di Auschwitz: essa è l’emergenza della specie umana come indivisibile, alterità assoluta, impossibilità, pur nell’abiezione, della sua scomparsa. Ora, tale verità si dice nell’impossibilità a dirsi, si dice sull’orlo del discorso, nella piega del tempo. C’è una frase che dice la verità di Auschwitz: la frase, ‘C’è là cenere’. Ora, tale frase è possibile a partire dal segno: come segno storico, Auschwitz indica in modo obliquo ed indiretto, lascia, rispetto al dato di fatto empirico che è, una traccia: la cenere. Quest’ultima è il sintomo del desiderio della specie quale verità di Auschwitz. Allora, il problema consiste nel trovare la frase che porti ad espressione il segno-cenere; frase che si concatenerà, se non oggi, domani, in un genere di discorso che esprima, infine, il torto subito dalla vittima. Ma, a questo punto, allontanandoci da Lyotard, noi abbiamo anche mostrato l’assenza, in linea di diritto, di un genere di discorso tale da concatenare la frase, ‘C’è là cenere’. In quanto iscrizione della differenza, la frase può solo avvolgersi su se stessa, flettersi secondo la sua piega: come frase-cenere può solo incenerirsi proprio quando si enuncia, sottrarsi al dire là dove si dice. Secondo lo stile del passo filosofico, la frase segna il passo, ripete la sua stessa sospensione nell’impasse. Il suo soggetto, come soggetto del desiderio della specie umana, attende senza attesa. Perché questo? Perché pur non essendo un’espressione, non necessariamente logico-scientifica, ma anche in quanto enunciato possibile, la cenere è, tuttavia, più e meno di un segno. Meno perché, come sappiamo, la cenere non resta al modo di una traccia, non indica; se è un sintomo, lo è al modo di quello che per Freud era l’ombelico del sogno, il punto in cui ogni interpretazione s’arresta, autentica soglia della terminabilità/interminabilità dell’analisi. Per questo la cenere non sop-

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IL DISCORSO E LA CENERE

porta interpretazione e non solo nel senso dell’ermeneutica, ma anche in quello quasi divinatorio che ancora è traducibile in discorso. Ma di più perché la cenere è la scrittura della verità della specie come differenza e differimento: quella verità che si dice solo in un semi-dire, fra un giro di frase e l’altro. Ed ecco la domanda: perché la teoria kantiana del giudizio eticoteleologico non permette di legittimare la frase, «C’è là cenere»? E la risposta: non è, forse, perché, nonostante tutto, Kant riserva ancora un posto al primato della rappresentazione, pur avendo visto che l’idea del bene, come la verità della specie – la cenere –, è ciò che sfugge al potere dell’immaginazione? ‘Inimmaginabile’, diceva il soldato: di tutto ciò non ci si può fare rappresentazione alcuna. Ma lasciando uno spazio al primato della rappresentazione, non si riconsacra in tal modo il soggetto epistemico, la rappresentazione ‘io penso’? Non viene di nuovo salvaguardato dall’incrinatura, dalla passivizzazione, l’io dell’enunciazione? Se è vero che l’enunciato, il giudizio, non è constativo, non c’è, tuttavia, ancora un io che nell’enunciarlo si valorizza a partire dal segno, dunque da ‘a’? Si dà in Kant radicale incenerimento del soggetto? Certamente no. Per dimostrarlo, abbandoneremo quel livello del testo kantiano che coincide con la dimostrazione esplicita ed intenzionale al fine di attivare appunto l’altra scena. Ed è proprio di una scena che si tratta: dove accade, infatti, il segno storico? Certo nell’attualità storica. Ma a sua volta questo spazio non è forse pensato da Kant ancora come uno spazio rappresentativo? Una scena dove si dà uno Schauspiel, uno spettacolo che resterebbe privo di senso se in esso non s’iscrivesse il segno? E d’altro canto non sono forse degli spettatori – disinteressati – gli interpreti del segno? Non i personaggi della scena, interessati questi perlomeno alla parte che sostengono nell’intreccio, ma coloro che non partecipando al gioco teatrale, non essendo parte in causa, sono appunto per questo i veri testimoni, gli auguri sicuri della rappresentazione? Ora, la funzione della metafora teatrale è una funzione di cornice: incastona il testo kantiano, lo individua, ma allo stesso tempo lo relaziona al fuori: è un parergon. Come una cornice è sempre dentro/fuori quel di cui è contorno, così la metafora teatrale attraversa il discorso kantiano, decide del suo apparato logico, anticipa, quasi distrattamente, la possibile conclusione. È che la filosofia stessa è il potere della metaforizzazione all’opera: educare il desiderio al sapere, la sensibilità alla ragione, l’essere al pensiero – non è tutto questo una forma di trasferimento, di

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VIII. KANT II. LA LOGICA DEL PASSO O DELLA FILOSOFIA CHILIASTICA

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invio (la metafora postale come metafora della metaforizzazione filosofica: la filosofia come effetto di metafora e metafora a sua volta)33? E come metafora, la filosofia è tramandamento, invio di sé nel tempo, metaforico anch’esso, della tradizione; secondo un movimento che è sempre un passaggio dalla metafora morta allo spirito vivente e dalla metafora viva al segno scritto sedimentato ed opaco. Quando allora le metafore teatrali compaiono nel procedere kantiano esse sono metafore morte; il filosofo non sente il bisogno di marcarle, di sottoporle a critica. Fanno parte dell’archivio delle immagini retoriche, sono luoghi dell’argomentazione, finanche ornamenti. Sono divenuti puri utilizzabili, ‘fondo’: strumenti pronti all’uso, indifferenti ai contesti, neutri. Citarle, rimarcare le metafore teatrali, vuol dire allora mostrare il potere del morto, la forza di una tradizione che nemmeno il pensiero critico è riuscito del tutto a spezzare. Giacché nulla di più filosofico del teatro. Dalla lotta di Platone contro il poeta tragico, il teatro e, con esso, tutte le arti imitative fanno da cornice al discorso filosofico. Se è vero, come ha scritto Benjamin, che la scrittura filosofica deve, ad ogni svolta del tempo, ad ogni svolta della differenza, riprendere daccapo la questione della rappresentazione/esposizione (Darstellung) della verità, e se è vero che questo è quanto la filosofia ha realmente fatto nel corso della sua storia, allora non si ritroverà tale questione anche in Kant e al di là di Kant ancora presente nella nostra attualità? È che il filosofo ha dovuto riutilizzare la metafora teatrale ogni volta che si sia trovato di fronte alla necessità di chiarire razionalmente la possibilità di una esibizione empirica di quella verità che d’altro canto tematizzava come irrapresentabile. Non è qui il luogo per tentarne una storia; ma almeno questo: il discorso kantiano si situa in quella svolta del tempo in cui il mondo è stato pensato come rappresentazione di un soggetto e allo stesso tempo teatro34. Nella misura in cui il soggetto 33 Sul problema della metafora cfr. J. Derrida, La mythologie blanche, in Marges de la philosophie, cit., ed ora Le retrait de la métaphore, in Psyché, Paris 1987, in cui Derrida replica alle critiche che Ricoeur gli aveva fatto ne La métaphore vive; ma anche H. Blumenberg, Paradigmen zu einer Metaphorologie, tr. it. Bologna 1969 e il più recente Schiffbruch mit Zuschauer, tr. it. di F. Rigotti, Bologna 1985, soprattutto l’ultima parte intitolata, Sguardo su una teoria dell’inconcettualità in cui le metafore ‘irriducibili’ vengono ricondotte all’husserliana, pre-categoriale e pre-riflessiva Lebenswelt: tesi distante da quella che qui viene perseguita. 34 Il rimando è al dispositivo ormai classico d’interpretazione epocale della modernità elaborato da Heidegger: cfr. Die Zeit des Weltbildes, in Holzwege, tr. it. di P. Chiodi, Firenze 1968. Ma più pregante ci è sempre apparsa la lettura che Michel Foucault ha offer-

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IL DISCORSO E LA CENERE

della rappresentazione non è più il soggetto dell’enunciato, parte in causa, dunque, dell’intrigo delle frasi, bensì il soggetto dell’enunciazione, cioè il fondamento della verità, non come verità inerente agli enunciati, ma come quell’apertura a partire da cui si dà la possibilità di enunciati in generale, egli assume la posizione ideale dello spettatore, occupa il palco regale: è la nuova forma della sovranità. Certo, lo sappiamo: anch’egli fa parte del mondo, è anche attore della rappresentazione. Ma proprio per questo è scisso: io empirico, io trascendentale. Il soggetto nel momento in cui si fa emissione pura, condizione di possibilità dell’enunciabilita in generale, prende il ruolo dello spettatore: davanti a lui, sulla scena, tutto – le cose e gli eventi naturali, gli altri individui e i loro intrecci mondani, persino lui stesso nella misura in cui fa parte della scena – si dà a vedere come uno spettacolo. Il soggetto, appunto come ha mostrato Foucault, è dentro/fuori la rappresentazione. Ebbene, non è forse in questo senso che la metafora teatrale opera in Kant? Giacché si tratta proprio di stabilire la pensabilità di una scena in cui l’idea del bene, in sé irrapresentabile, fuori portata per il potere dell’immaginazione, incontri un segno storico che, ancorché indirettamente, tangenzialmente per così dire, ne sia una possibilità di esibizione. Ed insieme che, posto fuori gioco il soggetto logico-scientifico, tale incontro fra il segno storico e l’idea del bene, di per sé non conciliante le due serie, chiami in causa il pathos del soggetto, alla condizione, tuttavia, che egli sia uno spettatore disinteressato. Ora, è la natura disinteressata del soggetto-spettatore, che potrebbe far segno di una reticenza, infine, di Kant nei confronti di una prosecuzione politica della rivoluzione (non è forse vero che, in fondo, Kant preferirebbe evitarle le rivoluzioni?), ad essere, in realtà, perfettamente in linea con la portata interna del concetto di rappresentazione, inteso come scena teatrale e come ri-presentificazione della verità. Il che è d’altronde iscritto negli albori di una riflessione filosofica sulla scena tragica. Nella discussa definizione aristotelica della tragedia per cui essa è «adatta a suscitare pietà e paura, producendo di tali sentimenti la purificazione che i patimenti rappresentati comportano»35, non era in gioco, come vedrà Brecht, la funzione dello spettatore disinto del problema della rappresentazione attraverso l’interpretazione del quadro di Velazquez, Las Meninas, situata ad apertura del suo Les mots et les choses, tr. it. di E. Panaitescu, Milano 1967, pp. 17 sg. 35 Poetica, ‘6’, 8-9 (citiamo dalla traduzione a cura di Carlo Gavallotti, Milano 1974).

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VIII. KANT II. LA LOGICA DEL PASSO O DELLA FILOSOFIA CHILIASTICA

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teressato? La pietà e la paura sono certo prodotte nello spettatore, ma mimeticamente; esse non cessano nemmeno per un attimo di essere delle passioni rappresentate, marcate come tali. Nella lettura di Aristotele, che testimonia già, ben più di Platone che ancora vi si scontra, l’obsolescenza della scena tragica, lo spettatore è disinteressato: mai egli ha il dubbio di assistere ad una finzione: il lenimento delle passioni è effetto della forma dell’intrigo, puro risultato dello scioglimento dell’azione come parte integrante della tecnica della rappresentazione tragica. Il richiamo ad Aristotele non voleva essere nulla più di un accenno. Volevamo solamente far vedere come la funzione dello spettatore disinteressato fosse insita nella metafora teatrale; e gli esempi. difformi, soprattutto contemporanei – abolire lo schermo della rappresentazione o spingere l’illusione scenica a tal punto da farla coincidere con la realtà – confermano la regola. È vero, senza dubbio, che il teatro, come qualunque tecnica discorsiva, è in grado di citare se stesso, marcare la rappresentazione nella rappresentazione. Ma quando il personaggio (e con esso l’attore), scimmiottando il soggetto, ammicca al pubblico, ricordandogli che sta assistendo ad una rappresentazione, in quanto è ancora parte di essa come colui che nella rappresentazione rappresenta il fuoriscena, non fa che rafforzarla. È come Amleto, quando, in pieno dramma, dopo aver assistito alla performance degli attori, da cui si aspetta la possibilità di smascherare Claudio, attribuendo così alla finzione il potere di produrre lo svelamento della verità, si chiede chi sia Ecuba per lui e lui per Ecuba che ne debba piangere. Insinuando così, anche se solo per un attimo, il dubbio nello spettatore su chi sia Amleto per lui e lui per Amleto, che egli debba partecipare al suo dolore. La verità, infine, è che trarre piacere da una rappresentazione non deriva per nulla dalla sua realtà empirica. Se c’è un piacere, esso non è prodotto dai fatti in quanto tali, bensì dalla loro rappresentazione, dal senso compiuto che essi acquistano a causa della forma del racconto. Rappresentare è dare senso alla sequenza empirica, orientare teleologicamente gli eventi, disporli secondo la sequenza della peripezia e dell’agnizione. E il fatto che le passioni si risolvano sulla scena (e non importa l’esito: tragico, comico, etc.) a produrre il piacere, cioè quell’alleggerimento della tensione del desiderio che Aristotele definiva catarsi. Giacché lo spettatore disinteressato è certo un soggetto di desiderio, ma il suo desiderio si acquieta nel piacere prodotto da quell’esser segno costituito dalla rappresentazione. L’uso distratto della metafora teatrale comporta, come si vede, il ripristino di un certo primato della rappresentazione come scena della

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verità e del soggetto pratico come soggetto dell’enunciazione. Vogliamo dire che, una volta messa in gioco la metafora teatrale, le condizioni di pensabilità dei rapporti fra la sfera della verità e quella dell’esperienza, fra il soggetto e la verità e fra il desiderio e il soggetto, non potranno non articolarsi secondo il dispositivo della metafora: l’esperienza diviene il campo rappresentativo aperto dall’attività soggettiva; il soggetto, a sua volta, lo spettatore disinteressato, vale a dire il testimone attendibile della verità36; e il desiderio, il versante patico della rappresentazione ‘io penso’, si trova ricondotto sotto la regola del principio del piacere. Infatti, per quanto l’oggetto ‘a’ ponga in crisi il principio del piacere, nella misura in cui mostra l’insufficienza del potere dell’immaginazione, e costringa il soggetto a slittare dalla posizione di soggetto logicoscientifico a quella di soggetto pratico, tuttavia non riesce a sottrarsi al primato soggettivo dell’enunciazione in generale: esso viene infine metaforizzato. Nella misura in cui si sottomette (o viene sottomesso) all’interpretazione da parte dell’interpretante del segno, l’oggetto ‘a’ passa all’espressione. Da eccedenza del discorso universitario esso viene di nuovo valorizzato al prezzo di una delimitazione del soggetto logico: rinuncia che è, tuttavia, una acquisizione, dal momento che permette una estensione del potere del soggetto dell’enunciazione. D’ora in poi anche gli enunciati prescrittivi non solo hanno la propria legittimazione, ma soprattutto legittimano il soggetto in quanto tale L’oggetto ‘a’, il plus-de-jouir può entrare a far parte di un enunciato: indirettamente certo, attraverso un certo lavoro interpretativo, una certa capacità di metaforizzazione; infine in nome di una certa volontà di verità. Tuttavia, esso è ricondotto ad un principio di dicibilità, ad una regola espressiva, alla possibilità della predizione. Così nell’oggetto ‘a’ che da segno è diventato senso attraverso l’interpretazione, ed infine significato, di nuovo stabile ed univoco, nell’enunciato, il soggetto alleggerisce la tensione del desiderio, messa in moto dal sintomo quale spia dell’eccesso del desiderio e della sua strutturale inoggettivabilità. Era esattamente quanto Lyotard intendeva quando diceva che Kant aveva concatenato troppo presto il pathos in una frase e la frase nel genere di discorso prescrittivo. Qui, dunque, è il limite di traducibilità del discorso kantiano, la sua soglia d’afasia: nell’aver pensato il rapporto fra il segno storico e il soggetto ancora nei termini della rappresentazione. E allora di nuovo: se 36 Sulla metafora dello spettatore di fronte al tumulto degli eventi si veda il già citato libro di H. Blumenberg, Schiffbruch mit Zuschauer.

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VIII. KANT II. LA LOGICA DEL PASSO O DELLA FILOSOFIA CHILIASTICA

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la svolta del tempo, della nostra attualità, comporta la messa in discussione del concetto di rappresentazione/esposizione della verità, non lo fa forse nei termini di una tematizzazione della fine della rappresentazione? Di una divergenza radicale della verità dal campo rappresentativo? E di una conseguente ridefinizione della soggettività il cui carattere rappresentativo è ricondotto, infine, ad una logica del fantasma mentre la sua ‘attività rappresentativa’ è dispiegata come una tecnica di rimozione della costitutiva assenza dell’oggetto del desiderio? È sempre di una scena che si tratta: di un’altra scena. Noi abbiamo definito Auschwitz come un Trauerspiel, messa in scena della fine della rappresentazione. Scena luttuosa senza dubbio: messa in scena del lutto interminabile, giacché finirla con qualcosa non è così semplice come mettere la parola fine all’ultima pagina di un racconto. E se Auschwitz è un Trauerspiel, non sopporta racconto e non ha spettatori: nessun testimone attendibile; non c’è soggetto dell’enunciazione che possa mettere Auschwitz in un enunciato e da qui in un genere di discorso. Solo una frase, ‘C’è là cenere’, senza soggetto dell’enunciazione: accade una frase che, detta, incinera il soggetto o lo dissemina: lo fa stare al passo, sospeso fra il dire e il silenzio. E se una verità dice la frase, come verità della specie indivisibile ed altra, tale verità è immemoriale, antecedente il potere della memoria come quello dell’oblio. Tale verità non è valorizzabile, nessun soggetto allargherà il suo dominio sulla sua dicibilità. Ma se è questa la ragione dell’impossibilità da parte del discorso di Kant di poter valere come condizione di legittimazione della frase, ‘C’è là cenere’, e se Auschwitz è il segno storico della nostra attualità, dovremo allora dichiarare il giudizio sul progresso morale del genere umano impossibile? Eppure c’è qualcosa della tesi di Kant che vale ancora, che vale in ogni caso: è legge morale per noi tendere all’idea del bene. C’è una legge, la legge del genere umano che obbliga in ogni caso, qualunque sia il segno che faccia da referente al giudizio, qualunque l’attualità storica, all’esercizio del giudizio. Una legge che dice:”Tu dovrai giudicare e proprio là dove il giudizio ti sembri impossibile, quando la degenerazione del genere umano abbia raggiunto il limite dell’impensabilità. Quando la specie sia votata all’estinzione o alla riduzione all’animalità, quando tu dirai, come il soldato, ‘inimmaginabile’, allora dovrai giudicare. Giacché come legge morale del genere umano io ordino la degenerazione stessa affinché si mostri, infine, che io esisto al di là di tutto, che sopravvivo nell’abiezione e nella morte del genere, che, eternamente, sono là dove il tuo desiderio mi cerca. Sempre là, sempre un passo al di là”.

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E se questa è la legge del genere umano, il ‘si deve’ antecedente ogni morale codificata, ogni sistema oggettivo dell’eticità, allora il soggetto è chiamato a rispondere nonostante tutto; e corrispondendo alla vocazione della legge, la voce filosofica si farà inevitabilmente voce profetica. Alla condizione che essa quando enunci la frase, ‘C’è là cenere’, incenerisca, bruci al cospetto della verità, di fronte al brucia-tutto originario; come voce del desiderio che le brucia dentro, la voce profetica sul progresso morale del genere umano, è solo questo: una voce di cenere.

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Capitolo nono Kant III. La dea velata o la verità che parla

«Io sono dunque per voi l'enigma di colei che si sottrae non appena è apparsa, uomini che tanto ve l'intendete a dissimularmi sotto gli orpelli delle vostre convenienze. Ammetto nondimeno che il vostro imbarazzo sia sincero, perché anche quando vi fate miei araldi non valete a portare i miei colori più dei vostri abiti, vostri e simili a voi, fantocci che non siete altro. Dove vado dunque, una volta passata in voi, dove ero prima di questo passaggio? Ve lo dirò forse un giorno? Ma perché voi mi troviate là dove sono, vi insegnerò a qual segno riconoscermi. Uomini, ascoltate, ve ne dò il segreto. Moi, la vérité, je parle». J. Lacan, La chose freudienne

Platone mistagogo? Platone «padre di ogni fantasticare (Schwärmerei) con la filosofia»?1 È quanto Kant non esita a scrivere e a firmare di proprio pugno in un saggio-recensione del 1796 (in mezzo, dunque, fra la stesura della prima sezione del Dissidio delle facoltà e quella della seconda) dal titolo Von einem neuerdings erhobenen vornehmen Ton in der Philosophie, e cioè Di un tono di distinzione (secondo la traduzione di Arturo Massolo; ma anche: signorile, aristocratico ed insieme raffinato, elegante e pretenzioso) adottato recentemente in filosofia. Ma se il Platone accademico fu padre del fantasticare filosofico senza averne colpa (poiché egli usò le sue intuizioni intellettuali soltanto per chiarire [Erklären] la possibilità di una conoscenza sintetica a priori, non per ampliare tale conoscenza attraverso quelle idee leggibili in un intelletto divino)», quello delle lettere non ha più scuse: «Chi non vede qui il mistagogo scrive, infatti, Kant – che non solo si esalta 1

KW, VIII, 398 (tr. it. di Arturo Massolo, «Studi urbinati», n. 41, 1967, p. 113).

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per conto suo, ma tiene anche un club, e mentre parla ai suoi adepti in opposizione con il popolo (e per popolo si devono intendere tutti i non iniziati) assume un tono di superiorità con la sua sedicente filosofia»2? Platone, dunque, è posto da Kant in dissidio con se stesso: se quello dei testi scritti e dell’insegnamento essoterico va salvato a metà, quello delle lettere e dell’insegnamento esoterico va espulso dal territorio della filosofia. Certo, colpa maggiore è quella di chi, in piena epoca di rischiaramento, traduce (rendendole così leggibili al popolo) e commenta le lettere di Platone per avvalorare soltanto il proprio desiderio di superiorità e porsi, così facendo, in opposizione al popolo, il che è perlomeno una singolare contraddizione. Ma non c’è dubbio che di fronte a questo certo Schlosser, traduttore ed interprete delle lettere platoniche, l’Aufklärer insorga: il vero motivo del contendere, infine, non è tanto Platone, quanto decidere ciò che nell’epoca del rischiaramento sia degno del nome di filosofia. Ed è infatti una lotta per il nome e per l’assunzione dell’eredità che il nome comporta, ciò che l’Aufklärer ingaggia con il mistagogo che si fa scudo del nome del padre della filosofia. È sulla legittimità di potersi fregiare del nome di filosofo che Kant impegna il proprio nome, lo mette a repentaglio nello scontro con il nuovo sofista – il mistagogo – che, al posto della riduzione della verità alla tecnica eristica, inalbera i nuovi vessilli dell’intuizione intellettuale e/o del sentimento. «Il nome di filosofia – scrive Kant ad apertura del testo – perduto il suo primo significato di una sistematica saggezza di vita (wissenschaftlichen Lebensweisheit), venne ben presto ricercato come titolo ornamentale per l’intelletto di pensatori non comuni, per i quali rappresentò un modo di rivelazione di un mistero (eine Art von Enthellung eines Geheimnisses)»3.Tutti i nomi, dunque, che denotano o una strategia (ascetismo, iniziazione), o una facoltà particolare (intuizione intellettuale, sentimento), che permettono l’accesso diretto al mistero, sono degli usurpatori rispetto all’unico uso corretto del nome ‘filosofia’. Quest’ultimo, infatti, sostiene Kant, designa soltanto la sfera di un intelletto discorsivo4: in altri termini, colui che vuol dirsi filosofo, accettando la responsabilità che ne consegue, è legato alla legge del discorso, in particolar modo a quella del 2

Ivi (113-114). Ivi, 389 (105). 4 Ivi, 391 (107). 3

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IX. KANT III. LA DEA VELATA O LA VERITA’ CHE PARLA

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discorso della scienza, attraverso il quale, d’altro canto, è istituito come soggetto epistemico. Che da qui poi possa indagare i confini ed i limiti del discorrere, che possa, ad esempio, individuare la validità del sentimento morale (la fede pratica) o quella del principio del piacere (nell’ambito specifico dei giudizi riflettenti), non toglie, tuttavia, che anche tale accesso all’al di là del discorso scientifico resti comandato dalla legge discorsiva, dalle coordinate della critica in generale. Ma su quale scena complessiva avviene questo scontro fra l’Aufklärer ed il mistagogo, la cui posta in gioco è l’eredità del nome ‘filosofia’? Noi abbiamo già fatto vedere come la questione sollevata dalle lettere platoniche fosse da ricondurre, più che alla delucidazione del loro contenuto, all’instaurazione della tradizione stessa di qualcosa come la filosofia. Il lascito testamentario del padre della filosofia, a sua volta figlio degenere di un padre più originario, sarebbe stato comunque tale da impegnare gli eredi in un compito impossibile: rispondere all’ordine di dire la verità, realizzare il desiderio che ci fa filosofi e allo stesso tempo dover riconoscere tale compito come impraticabile. Era la prosopopea della legge: «Devi, dunque, non puoi». L’invito, o piuttosto l’ingiunzione perentoria (e per ciò stesso inevasa), che Platone inviava ai propri destinatari, di bruciare le lettere, erano l’ironia sublime del padre della filosofia: un padre che già si sapeva meramente supplementare, padre vicario di una paternità assente, di cui il gesto del parricidio aveva sancito la distanza inaccessibile. Proprio nelle lettere Platone aveva avvertito il ritorno della deriva paterna e l’aveva trasmesso agli eredi, instaurando così la storia stessa della filosofia. Allora, il contrasto tutto moderno fra l’Aufklärer ed il mistagogo è ricondotto al luogo originario del discorso filosofico, e viene, quindi, pensato quale effetto tardivo di una scena primaria. La lotta per il nome è da questo punto di vista cooriginaria all’emergenza stessa della filosofia, e forma, per così dire, il nucleo della sua storia. Si potrebbe affermare addirittura che la lotta per il nome costituisca qualcosa come una storia della filosofia, disseminandosi dall’origine fino all’attualità del presente storico ed ai problemi che esso pone. La filosofia è, in questo senso, l’istituzionalizzazione del dissidio sul suo nome. E se poi, come nel caso di Platone secondo Kant, il dissidio non si apre soltanto fra avversari ben distinti (il filosofo ed il sofista, l’Aufklärer ed il mistagogo), ma attraversa, spaccandolo in due, un corpo testuale che si identifica per l’univocità di un nome proprio, allora si può dire, con

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Derrida5, che in generale ogni filosofo è sempre l’Aufklärer di se stesso o, in altre parole, che in ogni filosofo si annida il rischio della degenerazione a sofista ed a mistagogo. Come Platone combatte quei sofisti cui il suo Socrate assomiglia e combatte in se stesso il mistagogo (da qui l’ordine di bruciare le lettere), così il filosofo in generale, qualunque sia il suo tempo ed il volto dell’avversario, sa di aver a che fare, non solo con il diverso da sé, bensì anche e soprattutto con il suo simile. Era d’altronde quanto in Kant si presentava come contrasto fra una ragione tramandata ed una ragione critica e quanto più in generale noi avevamo articolato come scissione strutturale del soggetto fra significante (io penso) e desiderio. Si tratta ora di vedere come tale dissidio si ripresenti in Kant e di tematizzare il modo della sua manifestazione: in conformità alla tradizione, esso sarà individuato nelle trasformazioni della lexis, della dizione, cioè attraverso le differenze di tono della voce filosofica. C’è sempre, dunque, secondo Kant, un punto in cui la voce filosofica fa un salto di tono: ciò avviene quando giunta nel corso della ricerca alla chiarificazione dei fondamenti a priori della nostra conoscenza, la voce filosofica si ferma di fronte al mistero della loro origine. È nel momento in cui la voce filosofica diviene consapevole che tale origine si situa in una regione posta al di là del discorso, che essa è spinta a fare un passo al di là: a ricorrere, cioe, a forme di conoscenza diverse da quella dell’intelletto discorsivo come quella, ad esempio, di un presentimento del sovrasensibile. È evidente, scrive Kant, «che qui c’è un certo tono mistico (ein mystlicher Takt, vale a dire una battuta di tempo sbagliata, una stonatura, ma anche una mancanza di tatto), un salto (Übersprung) (salto mortale) di concetti al non pensabile (Undenkbaren), una capacità di cogliere ciò che nessun concetto può cogliere, una attesa di misteri, o meglio un tenere a bada, un portare a spasso mediante tali misteri; ma in realtà c’è uno sconvolgimento delle menti, che vengono volte al fantasticare. Infatti il presentimento è una oscura attesa e ha in sé una speranza di soluzione, che però in termini di ragione, è possibile solo a mezzo di concetti; se dunque quei problemi sono trascendenti e non possono condurre a nessuna conoscenza dell’oggetto, debbono necessariamente promettere un surrogato, una comunicazione sovrannaturale (übernatürliche Mittheilung) (illu5 J. Derrida, D’un ton apocalyptique adopté naguère en philosophie, in Les fins de l’homme, cit., p. 462 (del testo di Derrida esiste una traduzione italiana in G. Dalmasso (a cura di), Di-segno, cit.

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IX. KANT III. LA DEA VELATA O LA VERITA’ CHE PARLA

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minazione mistica – mystische Erleuchtung): ciò che è allora la morte di ogni filosofia»6. Ma non si vuol mettere in guardia, con tale discorso, dal fatto che una qualunque opera di rischiaramento (Aufklärung) può sempre trasformarsi in una pretesa di illuminazione (Erleuchtung) mistica7? Non si vuole avvertire, in altri termini, che il passo lento e zoppicante dell’Aufklärer può improvvisamente accellerare a tal punto da fare il salto mortale dello svelamento integrale, della rivelazione del mistero? L’intreccio metaforico del testo kantiano raggiunge qui una complessità quasi sconvolgente. Da un lato ne dobbiamo dedurre che vi sia salto e salto: il salto dello sviluppo morale che sorpassa il progresso della cultura inciampato sul suo stesso correre e questo salto mortale che anticipando uno svelamento della verità, d’altronde impossibile, conduce appunto alla morte d’ogni filosofia. E tuttavia è sempre lo stesso passo: come a dire che ogni volta che la filosofia alza il piede per fare il passo al di là del progresso della cultura rischia strutturalmente di cadere nell’abisso, nello sconvolgimento delle menti e nel fantasticare. Come trovare nel passo stesso quella differenza che ci assicurerebbe che il nostro passo non sia un passo mortale? Forse in quella leva, in quel mochlos su cui poggiare il piede? Ma a sua volta la leva in quanto segno storico è un oggetto indeducibile da parte della ragione; solo il giudizio, interpretando il segno, decide sulla natura adeguata dell’ap6

KW, VIII, 398 (113). Già nella Critica del giudizio nel § 40 dove discute del senso comune (Gemeinsinn) Kant mostra di essere consapevole del rischio inerente alla posizione dell’illuminismo. È come al solito una nota ad introdurre nel testo l’elemento di dubbio e di sospensione. Kant sta ricordando le massime del senso comune: la prima – pensare da sé – è la massima dei modo di pensare libero da pregiudizi, vale a dire un modo di pensare in cui la ragione non è mai passiva. Il pregiudizio più grande di tutti, aggiunge Kant, consiste nel rappresentarsi la natura come se non fosse sottoposta alle regole prodotte dall’intelletto: un tale pregiudizio si chiama superstizione e l’illuminismo non è altro che la liberazione dalla superstizione. E a questo punto che il richiamo in nota specifica: «Si vede subito che l’illuminismo è una cosa facile in tesi, ma difficile e lunga ad ottenersi in ipotesi; perché il non esser passivo con la propria ragione, facendola essere sempre legislatrice di se stessa, è qualcosa di molto facile per un uomo che vuole restare fedele al suo scopo essenziale e non desidera (verlangt) sapere ciò che è al di sopra della sua intelligenza; ma poiché la tendenza (Bestrebung) al sapere al di là si può appena impedire, e non mancherà mai chi promette con molta sicurezza di potere appagare questo desiderio di sapere ( Wißbegierde), sarà molto difficile mantenere o stabilire la semplice negativa (che costituisce il vero illuminismo) nel modo di pensare specialmente presso l’opinione pubblica» (KW, V, 294, tr. it., p. 151). 7

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IL DISCORSO E LA CENERE

poggio tale da non far cadere nel fosso il fante prussiano (il filosofo militante). Ma allora se la leva è istituita attraverso il giudizio e se questo non possiede regola constativa cui appoggiarsi a sua volta, ne consegue che il passo filosofico è radicalmente infondato, aperto ed esposto alla caduta – e si sa che i filosofi, dal momento che de-siderano, cadono nei fossi mentre guardano le stelle8. Dall’altro lato, nel testo kantiano, accanto alla metafora del passo va di pari passo quella della luce e del suo opposto: la tenebra. Ad ogni passo della filosofia corrisponde un passo in avanti nel rischiaramento. Ma anche la metaforica della luce si sdoppia: da un lato c’è un movimento progressivo che toglie spazio all’oscurità, la quale resta, tuttavia, la cornice d’ogni ulteriore illuminazione; dall’altro la pretesa di una illuminazione integrale. Ma a sua volta la tenebra si duplica: accanto a quella dell’oscura attesa (l’attesa dei misteri) c’è quella provocata dall’eccesso di visibilità, cosicché il raggiungimento del cuore della visione equivale all’accecamento: come a dire che l’eliminazione totale delle tenebre azzera la visibilità stessa. Ma per il mistagogo sottrarre gli adepti all’oscurità significa togliere quel velo che ricopre – e ricoprendo mostra e nasconde ad un tempo – il corpo stesso della verità. Illuminare vuol dire, allora, sollevare il velo del mistero – mistero tale solo perché un velo lo sottrae alla vista – e guidare l’adepto alla visione. La metaforica della luce si lega, dunque, strutturalmente a quella della velatura: alla verità velata, che non si può vedere se non indirettamente – attraverso il discorso, direbbe Kant – e che, se denudata, mostrerebbe forse nient’altro che l’inappariscente. Infine, quel passo cadenzato ed insieme abissale non è anche un passo di danza? Passo cadenzato dal ritmo di una voce? E la voce non fa tutt’uno col corpo? Se questo inciampa, la voce ha una caduta, perde il tempo e allo stesso modo se la voce stona il piede perde il passo: sospeso nell’impasse scivola e cade. Bene: fermiamoci anche noi ché non si faccia il passo più lungo della gamba e ci si perda nel labirinto metaforico. Ci soffermeremo allora sulle metafore della luce e dello svelamento, consapevoli d’altronde che presto saremo, da Kant stesso, rigettati nell’intreccio inestricabile di un velo, di un passo e di una voce dai molteplici toni9. 8 E su quest’altra metafora si veda ancora H. blumenberg, Der Sturz des Protophilosophen, tr. it. di P. Pavanini, rivista da S. Bortoli, Parma 1983. 9 Quante volte compare in Kant la metafora della voce? E in quante modalità diverse? Compito questo che sarebbe meglio affidare ad un computer. Qui, senza alcuna pre-

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IX. KANT III. LA DEA VELATA O LA VERITA’ CHE PARLA

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Kant ci ha detto che il mistagogo di fronte ai limiti dell’intelletto discorsivo, ritiene di poter presentire il sovrasensibile. Ora nella tradizione filosofica fondata sul primato della visione, la fonte della visibilità in generale è il sole, immagine sensibile del sovrasensibile. Il mistagogo allora presume di poter presentire il sole, vale a dire guardarlo direttamente. Ma, per Kant, un vero filosofo «non potrebbe presentire il sole... potrebbe forse presumerlo per spiegare con l’ammissione della ipotesi di un tale corpo celeste, quel fenomeno»10. Il filosofo cioè tesa di esaustività, ci limiteremo ad un semplice florilegio: A) Nelle Congetture sull’origine della storia l’uomo primitivo, vi si dice, è guidato dall’istinto e l’istinto è così definito: «Questa voce di Dio (Stimme Gottes) cui tutti gli animali obbediscono» ; la ragione, tuttavia, viene ben presto a destarlo e d’allora quell’uomo incolto cessò di obbedire a «questa voce della natura (Ruf der Natur) (KW, VIII, 111, tr. it. in I. Kant, Scritti politici, cit., p. 197). B) Nella Critica della ragion pura la voce trapassa in proposizione: «Sin dal principio, peraltro, deve sembrare strano che la condizione, sotto cui in generale io penso, e la quale perciò è semplicemente una proprietà del mio soggetto, debba al tempo stesso essere valida per tutto ciò che pensa; e del pari, sembrerà strano che noi possiamo presumere di fondare su di una proposizione apparentemente empirica un giudizio apodittico ed universale, cioè questo: tutto ciò che pensa è costituito così come lo dichiara entro di me la voce dell’autocoscienza (Ausspruch der Selbstbewußtseins)» (KW, III, 266, tr. it., p. 400). C) Che cosa rende possibile l’universalità del giudizio di gusto? La risposta: «Si vuol sottoporre l’oggetto ai propri occhi, appunto come se il piacere dovesse dipendere dalla sensazione; e nondimeno, quando si dichiara bello l’oggetto, si crede di avere per sé una voce universale (allgemeine Stimme) e si esige il consenso di ognuno; mentre ogni sensazione individuale dovrebbe decidere solo pel contemplatore e pel suo sentimento del piacere. Ora qui è da notare che nel giudizio di gusto non vien postulato altro che tale voce universale, riguardo al piacere senza mediazione di concetti, e quindi la possibilità di un giudizio estetico, che possa essere nello stesso tempo considerato valevole per ognuno (KW, V, 216, tr. it., p. 58). D) E rispetto al sentimento del sublime? Si legga: «Intanto l’animo (Gemüth) sente in se stesso la voce della ragione (die Stimme der Vernunft), che, per tutte le grandezze date, ed anche per quelle che non potranno mai essere apprese interamente, ma che tuttavia son giudicate come interamente date (nella rappresentazione sensibile) esige la totalità, e quindi la comprensione in una intuizione» (KW, V, 254, tr. it., p. 103). Interrompiamo qui l’elenco; ma non possiamo evitare una considerazione, che d’altronde è uno dei motivi conduttori di questo lavoro: è forse il testo filosofico in generale nient’altro che una ‘polifonia’, un appellarsi e corrispondersi di molteplici voci (scritte) o la disseminazione di una sola voce – la voce filosofica – secondo una, perlomeno in linea di principio, infinita variazione di toni? È la scrittura – è la nostra tesi – lo spazio in cui si ordisce la trama che intreccia una voce (Stimme), una disposizione (Stimmung) ed una destinazione (Bestimmung)? 10 KW, VIII, 399 (114). Sul problema dell’esposizione, problema che da Kant in poi diviene centrale nel discorso filosofico, si veda J.L. Nancy, Le discours de la syncope. I. Logodaedalus, Paris 1976. A partire da Kant la questione dell’esposizione filosofica, come esposizione della verità, si presenta come il problema del rapporto, ed insieme della differenza, fra genere di discorso filosofico e genere di discorso ‘letterario’; tale

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IL DISCORSO E LA CENERE

procede per via indiretta, discorsiva; resta, se si vuole, legato alle ombre, vale a dire alla sfera della sensibilità e dei fenomeni. Un’intuizione sensibile diretta, senza schermi, del sole (e metaforicamente un’intuizione intellettuale) comporterebbe l’accecamento. Nonostante ciò, il mistagogo si ostina a presentirlo; ma allora, è la risposta di Kant, egli ci dà solo un sole da teatro, un surrogato che spaccia per vero. Facendo leva sul nostro sentimento e sulla nostra attesa ci illuderà; ci ingannerà attraverso espressioni figurate che ci diano il brivido del contatto, della più assoluta vicinanza. Ma ora al posto del sole c’è una dea: Iside, la dea velata. Il mistagogo ci farà sentire, allucinando, il fruscio della veste; ci convincerà che il velo che la ricopre sia ridotto quasi a nulla, tanto trasparente da lasciarsi completamente attraversare dal nostro sguardo. Ora, tutto questo armamentario immaginifico, vero prodotto dell’arte mimetica per eccellenza, quella dell’illusionista, a cosa porta? «Quanto sottile sia il velo – glossa Kant – qui non è detto, ma esso è evidentemente ancora così fitto, che si può fare del fantasma (Gespenst) ciò che si vuole. Altrimenti ci sarebbe un vedere; cosa che doveva senz’altro essere evitata»11. Da un lato il mistagogo deve illudere di poter svelare il mistero, ma dall’altro deve allontanare tale possibilità proprio nel momento in cui ha condotto l’adepto nel punto più vicino allo svelamento. Egli sa, infatti, che, al di là del velo, non c’è nulla da vedere. Sarebbe certamente interessante seguire questa contraddizione che si annida anche nell’arte dei misteri; ma tant’è: per Kant ciò è solo la prova della sua falsità. Sapendo l’impossibilità di un autentico presentire, il mistagogo ricorre all’inganno: illude sulla possibilità di svelare il mistero, fa credere insieme alla sua esistenza come mistero e alla sua rivelazione. Che alla fine non si debba vedere equivale a quella segretezza con cui il prestigiatore circonda la propria abilità: se si vedesse o si conoscesse il trucco, addio successo. Ma intanto tutto ciò produce qualcosa di molto pericoloso: proprio perché non c’è nulla da vedere, il mistagogo fa emergere, al posto del nulla, qualcosa. L’adepto, il cui desiderio è stato portato al culmine, è condotto a sostituire a quel vuoto della visione un’allucinazione, a riempire l’assenza con un surrogato. Sogna e scambia il sogno con la situazione, che caratterizzerà tutta la filosofia moderna e contemporanea, è dovuta al venir meno di ogni ipotesi ‘metafisica’ intorno al modo d’esposizione della verità: il mos geometricum ad esempio. 11 Ivi.

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IX. KANT III. LA DEA VELATA O LA VERITA’ CHE PARLA

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realtà. Si potrebbe dire: pur di non vedere che non c’è nulla da vedere, s’illude di vedere qualcosa. Ebbene, il pericolo costituito dal mistagogo, da questo usurpatore del nome ‘filosofia’, è qui: riempire a qualunque costo l’intuizione, dare in carne ed ossa, in presenza, ciò che è assente e sostituire ciò che non si dà a vedere con un surrogato. Ma non è questo anche il procedere del filosofo? Limitarsi al fenomeno, a ciò che appare, quale supplemento di una impossibile Ding an sich, oggetto semmai solo del pensiero, mai di un’intuizione sensibile? Che cosa distinguerà allora il filosofo dal mistagogo? Il fatto che mentre il filosofo marca il fenomeno in quanto tale ad evitare qualunque confusione, il mistagogo abolisce il segno di riconoscimento: il surrogato è l’originale stesso. Ancora una volta, l’arte del mistagogo, come arte dell’illusionista, non consiste tanto nel produrre le copie del sensibile, quanto nell’imitare le coordinate dell’apparire in generale affinché, là dove non c’è nulla da vedere, tuttavia si veda: si veda l’inesistente. Il mistagogo infrange il limite al di là del quale l’immaginazione produttiva si trasforma in un vaneggiamento: in un’immaginazione senza regole. Finora, dunque, la dea Iside, quale allegoria della verità sovrasensibile, è servita da illustrazione delle tecniche mimetiche del mistagogo: facendo leva sul dispositivo della velatura, costui inganna attraverso l’uso feticistico del velo. Schermo trasparente ed opaco ad un tempo, il velo dona all’apparire una illusoria profondità: esso fa presagire che un ‘velato’ si nasconda nei recessi del campo rappresentativo cui il desiderio avrebbe accesso solo scostando quella sottile pellicola. Ciò che si mostrerebbe allora sarebbe sì soltanto una ennesima apparenza, ma tale da esser presa per vera. Tuttavia, Kant non rinuncia all’immagine: essa deve semplicemente cambiare statuto affinché sia sottratta alle arti del mistagogo e ricondotta nella sfera del discorso filosofico. Tale passaggio è ottenuto attraverso un cambiamento di registro: dal primato della visione a quello della voce. Si potrebbe dire che quella stonatura mistica che identifica la voce del mistagogo ha come effetto una afasia totale ed il conseguente abbandono alla visione. Se, invece, una voce filosofica è possibile, è solo perché essa si riconosce come ciò che corrisponde ad un’altra voce: quella della legge. Ed ecco, verso la fine del testo kantiano, tornare la dea velata. La voce ha ripreso il suo ritmo, il tono di distinzione e di superiorità del mistagogo è scomparso. Anzi, il filosofo può (e deve) inginocchiarsi davanti alla dea: non c’è illusione stavolta, né tentativo di strappare il velo per vedere il nulla da vedere. È che la dea non è più l’oggetto di

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IL DISCORSO E LA CENERE

una rappresentazione muta, bensì il luogo dell’emissione di una parola: la dea velata parla come Dio da dietro le nuvole che fanno velo al cielo. «La dea velata – scrive Kant –, dinnanzi alla quale noi da entrambe le parti pieghiamo il nostro ginocchio, è la legge morale in noi, nella sua inviolabile maestà. Avvertiamo certamente la sua voce (Stimme) e comprendiamo anche perfettamente il suo comando; ma quando lo udiamo siamo in dubbio se la voce venga dall’uomo, dalla sovranità della sua propria ragione o se venga da altro, la cui essenza è sconosciuta all’uomo, e che all’uomo parla a mezzo di questa sua ragione»12. Accenneremo soltanto di striscio al fatto che qui è in gioco il dissidio fra i due versanti che costituiscono la nostra tradizione: quello greco-classico, fondato sul primato della visione ideale e quello ebraico-cristiano che poggia su quello della voce. Quel che è sintomatico è che in Kant tale divaricazione tocchi i regimi di discorso: la regione degli enunciati scientifico-constativi pertiene ancora all’ambito della rappresentazione, mentre quella degli enunciati prescrittivi si riferisce al darsi di una voce come voce della legge. Lo stesso soggetto dell’enunciazione è ancora pensato da Kant, finquando si resti nei confini della ragione pura, come una rappresentazione: la rappresentazione ‘io penso’. Ma noi abbiamo già fatto vedere come, nonostante un certo recupero della rappresentazione anche in campo pratico, tuttavia, per Kant, il soggetto del giudizio pratico-morale si sottragga in gran parte al primato della rappresentazione. Quel che volevamo mostrare era piuttosto come anche il nuovo statuto dell’allegoria della legge morale – della verità morale – lasci in sospeso la questione della sua provenienza. Nulla in effetti ci assicura che la voce della legge non sia a sua volta un’allucinazione. Noi certamente ascoltiamo la voce della dea, ne comprendiamo il comando, ma continueremo ad avere difficoltà a decidere se tale voce è una voce umana, la voce della nostra ragione o la voce di un altro. O, infine, una 12 Ivi, 405 (120). L’immagine di Iside, la dea velata, compare nella Critica del giudizio insieme come madre natura e come strumento disciplinare ad uso dell’insegnante. Come sempre in nota: «Forse non è stato mai detto qualche cosa di più sublime, o espresso in un modo più sublime un pensiero, come in quell’iscrizione del tempio d’Iside (la madre natura): ‘Io sono tutto ciò che è, che fu e che sarà, e nessun mortale ha sollevato il mio velo’. Segner si servì di questa idea per mezzo di una figura ingegnosa messa nel frontespizio della sua fisica, al fine di riempire di un sacro orrore l’allievo che si accingeva ad introdurre in questo tempio, e di disporre il suo spirito ad una solenne attenzione» (KW, V, 316, tr. it., p. 176).

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voce soltanto immaginata: la nostra stessa voce che per una perversione dei sensi ci appare provenire da un altro, dal di fuori della nostra coscienza. E se la voce, il fenomeno della voce non fosse anch’esso un fenomeno-limite, non costituisse cioè la soglia del dentro/fuori che scinde il soggetto, tal quale il fenomeno dell’allucinazione visiva, proiezione immaginaria del soggetto ed insieme realtà dotata del carattere della certezza sensibile? È che forse una delle ragioni per cui Kant non rinuncia all’immagine della dea velata per raffigurare la legge morale sta proprio nel fatto che essa gli permette di articolare lo statuto particolare della voce: questa è la voce della ragione (die Stimme der Vernunft), il suo comando in nessun caso potrà essere confuso con quello di un’autorità eteronoma rispetto al soggetto e, tuttavia, essa è e resta una voce altra, la voce dell’altro, il che, d’altronde, è esattamente ciò attraverso cui noi possiamo riconoscerla. Poche righe prima Kant aveva scritto a proposito dell’unico uso legittimo possibile in filosofia del sentimento, e cioè un uso pratico e non teoretico, che «l’esperienza interna, il sentimento (che è in sé empirico e quindi contingente) è eccitato soltanto dalla voce della ragione (dictamen rationis), la quale parla chiaramente ad ognuno ed è capace di una conoscenza scientifica». Qui Kant riprende i temi dell’analitica del sublime ed anticipa quell’entusiasmo di cui parlerà nella seconda sezione del Dissidio delle facoltà. Qualche riga dopo aggiunge: «Ogni uomo trova nella sua ragione l’idea del dovere e trema quando ode la sua voce inflessibile, se si agitano in lui inclinazioni che tentano di persuaderlo a disobbedirle»13. C’è uno stupore, dice Kant, che invade l’uomo quando egli s’accorge di possedere delle disposizioni interiori tali da indurlo al rispetto della voce della ragione nonostante essa richieda il sacrificio degli impulsi sensibili. Ora, tale stupore non è tanto la prova della libertà del soggetto, poiché in questo caso noi ci troveremmo dinnanzi ad una tautologia, quanto del fatto che la voce è la voce della legge morale. La libertà semmai è l’effetto del nostro corrispondere al comando della voce. In altri termini, siamo liberi, non perché possiamo scegliere, ma perché obbediamo alla voce della legge. È questa contraddizione, per cui la libertà coincide, senza perdere in autonomia, con l’obbedienza alla legge razionale, che Kant esprime attraverso l’immagine della dea velata. 13

KW, VIII, 402 (117).

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IL DISCORSO E LA CENERE

In questo senso la libertà stessa è un mistero e ci si dovrebbe chiedere quale sia di fronte a tale difficoltà l’atteggiamento globale di Kant. È il mistero il semplice prodotto delle arti del mistagogo o è la ragione stessa nella sua insondabile provenienza a costituire di per sé sola un mistero? Se da un lato Kant sembra invitare a non porsi domande sui mistero – «noi faremo meglio – scrive a proposito della provenienza della voce – a dispensarci da questa ricerca, poiché essa è semplicemente speculativa ed è sempre la stessa cosa ciò che noi dobbiamo fare»14, cioè rispettarne il comando –, dall’altro il mistero resta come cornice del darsi simultaneo della legge e della libertà. La differenza starebbe nel fatto che mentre il mistagogo pretende di andare al di là dei limiti della ragione per svelare il mistero o semplicemente per illudere sulla possibilità di svelamento, il filosofo fa del mistero il limite interno alla ragione stessa: esso indica semplicemente il ‘fatto’ irriducibile ad una deduzione trascendentale ed oltre il quale la ragione incomincerebbe a vaneggiare. Da qui allora che anche il filosofo possa usare l’immagine allegorica della dea velata per indicare la legge morale, dipende forse da una necessità estetica – tentare, cioè, una rappresentazione dell’irrapresentabile –, ma non deve mai far dimenticare che il suo concetto è puramente razionale e che l’analogia con la rappresentazione non è nulla di più di una metafora. Ed è solo a questa condizione, conclude Kant, che noi possiamo anche spingerci a dire di presentire la dea, volendo intendere con questo che noi siamo guidati al concetto del dovere dal nostro sentimento morale e prima di aver avuto di quel concetto una chiarificazione razionale. E, tuttavia, anche il filosofo deve ricorrere ad un supplemento; esso, è vero, si differenzia dal surrogato che produce il mistagogo, non pretende di sostituirsi all’originale; ma insieme, per quante cautele prenda, se il filosofo vuole esprimere il concetto del dovere deve far uso dell’immagine. Questa deve mostrare l’impossibile di una voce propria ed altra ad un tempo e di un sentimento di rispetto per la legge che valga anche in assenza di qualunque frase constativa. Col rischio, dunque, che la differenza con il mistagogo, appena tracciata, si cancelli all’istante. Quel che volevamo mostrare – trascurando, d’altronde, gran parte della tessitura del testo kantiano: vale a dire il ritorno incessante delle metafore, da quella della leva a tutte le variazioni stilistiche sul tema 14

Ivi, 405 (120).

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della voce – era che una lotta sul diritto a portare il nome di filosofo comportava anche in Kant la difficoltà di cogliere la differenza con il non filosofo, dal momento che il filosofo è esattamente colui che parla delle stesse cose che rimprovera all’altro e che la ragione non combatte null’altro che il suo stesso desiderio. Già la Critica della ragione pura aveva, d’altra parte, riconosciuto nel desiderio dell’incondizionato la causa del necessario avvolgersi della ragione nella dialettica dell’illusione. E, tuttavia, è in questi testi tardi che ci sembra che il problema assuma una tutt’altra drammaticità: forse perché nel frattempo, per dirla con Foucault, Kant ha abbandonato il terreno di un’analitica della verità e si è spostato su quello di una filosofia dell’attualità. Ora, proprio a causa di tale passaggio, la difficoltà aumenta a tal punto da rischiare di non essere più padroneggiabile: ora si tratta, infatti, di farsi filosofi dell’attualità storica e cioè interpreti del segno storico come evento puro. Si tratta, in altri termini, di assumere fino in fondo la responsabilità del giudizio, pena la resa di fronte all’accadere empirico. Ma se è vero che qui il giudizio non può essere determinante, ciò vuol dire che giudicare implica predicare dell’evento il suo esser leva della destinazione morale del genere umano. Il filosofo è costretto, dunque, forse suo malgrado, a farsi profetico, la sua voce apocalittica. Anch’egli, allora, presente, in qualche modo, la dea, predice uno svelamento o perlomeno anticipa, nel sentimento morale, la certezza che la voce che lo obbliga al dovere (e di conseguenza al giudizio eticoteleologico) sia la voce della legge morale. E allora di nuovo: cosa distinguerà il tono di superiorità del mistagogo dalla voce che predice lo sviluppo morale del genere? Chi ci darà la prova che la voce della ragione non sia quella che ci invita al sogno, prodotto anch’essa dell’illusione? È l’assenza di un meta-discorso che ancora una volta fa della lotta un dissidio interminabile e del passo filosofico un passo sempre esposto alla caduta: passo che danza sull’orlo di un precipizio. Ora, noi non tenteremo, fedeli, ci sembra, da questo punto di vista a Kant, di ricondurre tale antinomia ad un meta-racconto che pacifichi il dissidio. Vorremmo, invece, mostrare l’esistenza nel testo kantiano, per quanto situato in una posizione marginale, di un indice materialistico-antropologico (e che sfugge anche ai limiti di un’antropologia empirica), il quale rende conto del cambio di passo e delle modulazioni della voce. La questione è la seguente: qual è la causa di questa inevitabile oscillazione della voce filosofica, del suo passare dal tono scientifico-razionale a quello profetico-apocalittico, dal tono

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IL DISCORSO E LA CENERE

patetico-sentimentale alla stonatura mistica? Che cosa produce l’effetto straniante di una voce altra che ordina ed impone la legge morale, ma che può anche farsi suadente e fascinosa nell’invitare al sogno? Per rispondere noi dovremo sfruttare fino in fondo la presenza nel testo kantiano dell’immagine della dea velata, riconoscendo in essa l’iscrizione del principio universale della femminilità e con esso la presenza del desiderio (Wunsch). Nel corredo mitico della dea Iside non è in gioco forse un assassinio, quello di Osiride? E accanto ad esso una ricomposizione del suo corpo parcellizzato con la sola eccezione del fallo? E, dunque, quella velatura propria della dea non è il diaframma posto a protezione della rivelazione dell’assenza, del buco nero del sesso femminile? È il velo, allora, in quanto oggetto feticistico, a fare da limite, e da cartina di tornasole insieme, del desiderio del soggetto, a costituire, ben più dell’io, il significante del soggetto epistemico. È l’insistere del velo nell’economia del soggetto della scienza a porre in crisi l’universo della rappresentazione, come di lì a poco Schopenhauer tematizzerà compiutamente15. Ora, si potrebbe dire 15 Il rimando, come è ovvio, è a Die Welt als Wille und Vorstellung: qui, si può dire, Schopenhauer si pone di fronte all’universo della rappresentazione come quel pittore che chiedeva al suo avversario di spostare il velo per fargli vedere il quadro. È che la rappresentazione ha cessato di essere la costruzione di un intelletto legislatore ed è divenuta il prodotto di un’attività mimetica: essa è illusione. A tutto ciò va connesso, ben più di quanto non si faccia abitualmente, la centralità in Schopenhauer dei temi del sogno e del fantasma: si prenda ad esempio lo scritto, Saggio sulle visioni di spiriti e su quanto vi è connesso, compreso in Parerga e paralipomena (tr. it. a cura di G. Colli, Milano 1981) e si legga quanto vi si dice a proposito del sogno. Crediamo, esordisce Schopenhauer, che gli oggetti del sogno siano solamente illusori dal momento che essi scompaiono al risveglio; ma non sempre è così: «Esiste cioè uno stato – infatti –, in cui noi dormiamo e sognamo, è vero, ma facciamo questo solo sognando la realtà stessa che ci circonda. Noi vediamo allora la nostra camera da letto, con tutto ciò che vi è contenuto, ci accorgiamo anche eventualmente delle persone che vi entrano, sappiamo che noi stessi siamo nel letto, vediamo cioè tutto rettamente e con precisione. Eppure noi dormiamo, con gli occhi chiusi, e sognamo; senonché ciò che sognamo è vero e reale. Le cose non sono altrimenti, che se il nostro cranio fosse divenuto trasparente, tanto che il mondo esterno ormai può giungere direttamente ed immediatamente nel nostro cervello, invece di allungare la strada attraverso la stretta porta dei sensi. Questo stato è molto più difficile a distinguersi dalla veglia che non il sogno comune, poiché all’atto del risveglio non si verifica alcuna trasformazione dell’ambiente, cioè nessun mutamento oggettivo» (p. 327). Tale tipo di sogno, che più oltre viene definito con la lapidaria espressione ‘sognare il vero’ (p. 329), va in contraddizione, aggiunge Schopenhauer, con la tesi secondo la quale l’unico criterio di demarcazione fra il sogno e la veglia sia il risveglio: tutto questo resta, allora, un profondo mistero. Si potrebbe dire, infatti, che, risvegliandoci da que-

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che la presenza della dea velata costituisca nel testo filosofico kantiano e per quante precauzioni siano prese, un principio d’isterizzazione del discorso filosofico-universitario; presenza inquietante di fronte alla quale è necessario elaborare delle strategie di difesa. Allora il mistagogo e il filosofo si assomigliano perlomeno in questo: entrambi lottano contro il pericolo dell’evirazione della ragione (Entmannung der Vernunft), espressione usata da quel certo Schlosser e diligentemente citata da Kant. Essi se la rimproverano reciprocamente, giacché castrazione della ragione e morte della filosofia fanno tutt’uno. Se per il mistagogo-platonizzante il pericolo proviene dalle ‘sublimazioni metafisiche’ cui si risponde con il ricorso all’analogia ed alla verosimiglianza, per Kant, invece, il rischio sta proprio nell’illudere di poter presentire qualcosa, vedere ciò che non si dà a vedere, quando, invece, la legge morale parla in noi con una voce sì inflessibile, ma assolutamente comprensibile ed emette un ‘si deve’, la cui validità universale e razionale è incontrovertibile pur se indipendente da una verifica scientifica. Per il mistagogo la ragione è evirata quando le s’impongono limiti; per il filosofo, al contrario, quando, oltrepassandoli, entra nella demenza. Si avrà allora che il mistagogo è costretto ad illudere al fine di far credere che dietro il velo, al posto dell’assenza, vi sia ancora ‘qualcosa’, foss’anche un surrogato. D’altro canto, il filosofo si limita sto sogno, noi, in realtà, si continui a sognare. Come dire meglio che la rappresentazione è apparenza e sogno, ossia un’allucinazione e quindi il prodotto, non di un intelletto legislatore, bensì del desiderio? E che, dunque, essa è la mescolanza dei vivi e dei morti – i fantasmi –, il luogo di una commemorazione? Non v’è dubbio che come il discorso di Schopenhauer è la ripresa in termini moderni del grande tema del ‘la vita è sogno’ che nell’aurora del pensiero moderno era servito da leva per la fondazione della certezza soggettiva e che qui invece è l’arma per disfarla, così esso è solo una stazione di una storia che ha come sua destinazione la Traumdeutung freudiana: giacché è Freud a dirci, e Lacan con lui, che se si sogna è per continuare a dormire, ma che, se ci si sveglia, è per continuare a sognare. Giacché il criterio di demarcazione non passa più fra la veglia e il sogno, ma fra l’economia generale del desiderio e la sua trascrizione in un’economia ristretta: ecco perché si può essere svegli senza per questo cessare di sognare: sognare che il proprio desiderio si realizzi, ed ecco perché la rappresentazione – l’esperienza possibile – è sempre la realizzazione allucinatoria del desiderio. Ed infatti mi sveglio solo, come ha detto Valéry, quando il sogno eccede il suo compito ed il desiderio che in esso si agita rompe gli argini: meglio svegliarsi allora e poter così continuare a sognare. Ma quando ci si sveglia davvero? Quando si sa che il desiderio è l’impossibile. Resta solo da dire che niente è più distante di questa tesi di Schopenhauer da quella di Kant consegnata nel pamphlet, Die Träume eines Geisterseher erläutert durch die Träume der Metaphysik: e non ci sarebbe nulla di strano se non fosse che Schopenhauer si proclama l’erede di Kant – il che è un prezioso esempio di tramandamento e di deriva.

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a dichiarare il velo intangibile: non potremo neppure sfiorarlo e nemmeno avvertire il fruscio della veste della dea: ciò sarebbe già un’accondiscendenza al carattere eccessivo del desiderio. Il filosofo conserva il velo in quanto tale, ne mostra la doppiezza, consapevole che ciò che esso risparmia alla vista è l’inappariscente in quanto tale, che, mostrato, porterebbe all’accecamento. Il filosofo custodisce il soggetto – solo un velo che non vela nulla – dalla dialettica sovversiva del desiderio; e lo fa tenendolo a quella debita distanza dalla dea velata che gli permette di ascoltarne la voce: al delirio del contatto tattile-visivo, egli sostituisce il godimento dell’ascolto. Si può dire allora che se Kant non rinuncia in pieno all’immagine della dea velata e la identifica anzi con la legge morale in quanto tale, nonostante il fatto che l’obbedienza all’imperativo che da essa promana lasci il dubbio sulla provenienza della voce che lo emette, ciò non avviene solo perché tale ordine opponendosi ai nostri impulsi sensibili ci fa scoprire, con stupore, di possedere disposizioni morali tali da farci scegliere comportamenti che si contrappongono al principio del piacere, ma soprattutto perché il desiderio eccessivo, quel più-di-godimento che proprio l’ordine fa emergere, vi trova contemporaneamente il suo punto d’arresto. La voce della legge, che da un lato lo mette in movimento, si offre dall’altro come quel quasi-oggetto in cui si placa; sebbene ne rispetti la natura infinita – la voce non ordina nulla di determinato, ma solo la forma pura della legge –, insieme, tuttavia, impedisce il passaggio al delirio. La voce fa da soglia su cui il desiderio si sospende, luogo dell’impasse che evita quel passo che si trasformerebbe in caduta nell’abisso. Ora, tutto questo ribadisce la natura fantasmatica dell’oggettovoce, incarnazione, secondo Lacan, del petit objet a, causa ed oggetto, come si è visto, del desiderio. Ed è tale natura fantasmatica che il filosofo rimuove nonostante essa riemerga di tanto in tanto nelle pieghe del discorso. È evidente allora che ogniqualvolta il fantasma ritorna (vero e proprio ritorno del rimosso), esso faccia segno dell’insistere del desiderio. Era esattamente quanto avevamo annunciato: tematizzare la presenza nel testo kantiano, per quanto marginale (e potrebbe d’altronde essere una presenza non marginale?), del desiderio: di un desiderio senza oggetto, che non coincide, quindi, né con la cosidetta facoltà superiore del desiderare, né con quella inferiore retta dal principio del piacere. Si apra, dunque, la Critica del giudizio alle prime pagine dell’introduzione, là dove Kant sta ancora tentando di definire il giudizio quale termine medio fra intelletto e ragione, fra conoscenze

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secondo cause e conoscenze secondo fini e richiama la tripartizione delle facoltà dell’anima. Al momento della citazione della facoltà del desiderare, una lunga nota interrompe la continuità del testo; aggiunta nella seconda edizione, la nota costituisce quel punto d’arresto nella fluidità del discorso prodotto dall’irruzione del desiderio. Mi si è rimproverato, scrive Kant, d’aver lasciato troppo nell’indeterminato il concetto del desiderio nella prefazione della Critica della ragione pratica: nel definire la facoltà superiore del desiderare, distinguendola accuratamente dal sentimento del piacere, Kant avrebbe tralasciato una dimensione del desiderio che pure ha gran parte nella descrizione e comprensione dell’esperienza umana. Ora, una volta determinata la facoltà del desiderare (Begehrungvermögen) come quella facoltà per cui il soggetto è la causa della realtà degli oggetti della propria rappresentazione, mercè tale rappresentazione stessa, resta non chiarita l’esistenza, rilevabile empiricamente, di un certo tipo di desideri (Wunschen) i quali non sembrano da soli essere in grado di dare realtà ai propri oggetti. La risposta di Kant non contesta la verità dell’osservazione: riconosce anzi la realtà di tale tipo di desideri e tenta di essa una descrizione ed una giustificazione che possano lasciare a prima vista stupiti. Nell’uomo, dice Kant, si danno desideri che lo pongono strutturalmente in contraddizione con se stesso; pur sapendo che il desiderio è irrealizzabile (cioè non può produrre l’oggetto corrispondente) o perché le ‘forze meccaniche’ sono insufficienti o perché manifestamente si augura l’impossibile, come ad esempio, nel caso in cui desideri che ciò che è accaduto non lo sia, oppure perché ‘nell’attesa impaziente’ pretende di annullare l’intervallo di tempo che lo separa dal suo oggetto, l’uomo, tuttavia, impegna gran parte delle proprie risorse psichiche in ciò che può apparire, ed è, un desiderio vano, un puro fantasma. Ed è normale allora che quanto più le forze dell’uomo si tendono nella rappresentazione per farvi apparire l’oggetto desiderato, tanto più il cuore ne venga dilatato ed afflosciato a causa della reiterata ed inevitabile esperienza della mancanza di tale oggetto, mentre l’animo cade nella depressione. Ma perché, si chiede Kant, nella nostra natura è stata posta una simile propensione a desiderare vanamente? La risposta spetta alla teleologia antropologica: attraverso essa l’ordine benefico della natura ha voluto che l’uomo imparasse a saggiare le proprie forze. L’esperienza della loro insufficienza nel produrre l’oggetto attraverso la rappresentazione, è in realtà propedeutica alla loro applicazione nei casi inversi: come a dire che se l’uomo fosse da sempre assicurato sulla suf-

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ficienza delle proprie forze non le metterebbe mai alla prova ed esse non si svilupperebbero. Ora, tale spiegazione kantiana della necessità nella natura dell’uomo della presenza del desiderare vano, riecheggia una convinzione la cui portata va ben oltre i limiti di un’osservazione da ‘moralista’: l’esperienza del dolore, come effetto della messa in crisi del principio del piacere, è la condizione strutturale per l’emergenza di una coscienza morale16. Per comprendere questo rapporto fra il desiderio, il dolore e la soggettività pratico-morale, noi porremo, ora, il discorso kantiano in relazione con un’esperienza di scrittura a tutta prima estranea al rigore quasi ossessivo della ragione pratica, e cioè con l’esperienza sadiana. E per farlo ci serviremo dell’accostamento, individuabile già dal titolo, Kant avec Sade, che Jacques Lacan ha operato della morale di Kant con quel luogo dove si viene educati al vizio in base all’equazione: felicità nel vizio, sventura nella virtù. Che la moralità poggi su un al di là del principio del piacere è ciò che costituisce, secondo Lacan, l’aspetto sovversivo dell’etica kantiana; a costituire un problema nel testo lacaniano non è, dunque, la messa in relazione, all’apparenza irriguardosa, dell’Aufklärer con l’aristocratico libertino, bensì la tesi generale, che vi si enuncia in apertura, secondo la quale una rettifica della posizione dell’etica prepara una modifica nello statuto della scienza17. Ora, se l’etica è quel genere di discorso in cui si tematizza il rapporto fra il soggetto del desiderio e la sfera della legge e solo a partire da esso la questione in generale dell’azione in riferimento al fine (ed al fine ultimo), allora un passo in avanti in quella che noi abbiamo chiamato la dialettica sovversiva del desiderio provoca immancabilmente uno slittamento del discorso Maltre-universitario. 16 Cfr. KW, V, 177-178 (16-17). Ma si vedano anche l’Anthropologie in pragmatischer Hinsicht, dove Kant distingue fra il desiderio come appetitio, il desiderio (Wunsch) come augurio, la brama (Sehnsucht), il desiderio indeterminato ed il capriccio (cfr. KW, VIII, 251, tr. it. di G. Vidari, Bari 1969, p. 141), e la Metaphysik der Sitten (KW, VI, 213, tr. it. di G. Vidari, Bari 1970, pp. 13-14). Sul tema dell’antropologia in Kant si veda P. Manganaro L’antropologia in Kant, Napoli 1983. Ci permettiamo di azzardare a questo punto un’ipotesi: e se il Wunsch fosse il filo rosso capace di condurci verso la tematizzazione di un’antropologia fondamentale? 17 J. Lacan, Kant avec Sade, in Écrits, Paris 1966, p. 764 (tr. it., p. 764). Solo quando il presente lavoro era ormai terminato è stato pubblicato i1 seminario lacaniano del 1959-1960 dedicato all’etica della psicoanalisi. È in questo seminario che Lacan affronta tutte le questioni che si ritroveranno in Kant avec Sade; cfr. J. Lacan, L’éthique de la psychanalyse, Paris 1986.

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Il boudoir sadiano18, secondo Lacan, non va visto come un luogo privato in cui il vizio possa scatenarsi al riparo d’occhi indiscreti in base alla formula, ‘vizi privati-pubbliche virtù’, bensì considerato alla stregua di un’antica scuola – accademia, liceo, stoa – dove il desiderio della verità, la filosofia appunto, veniva istituzionalizzato e sottratto così alla transitorietà di un’esperienza, che, per mancanza di codificazione e, di conseguenza di prevedibilità, era affidata al caso. Nel boudoir sadiano si assiste, infatti, ad un insegnamento del vizio, ad una educazione del desiderio, che è l’esatto corrispettivo della questione della trasmissibilità della virtù: più che sfrenatezza il vizio richiede metodo. La corruzione, allora, cui viene sottoposta la giovane Eugenie procede attraverso il regolare intervallarsi di discorsi che infiammano l’anima ed improbabili intrecci corporei che, portando il godimento al culmine, scaricano la tensione prodotta dal potere della parola e rilassano i personaggi affinché essi siano pronti per l’ascolto successivo e la nuova e conseguente posizione erotica. Se vi si fa attenzione è esattamente lo schema dell’istituzione insegnante in cui il plus-de-jouir o la verità concatenano i discorsi. Che poi l’educazione abbia come suo fine la pratica del delitto, il più grave per il sesso femminile – il matricidio – è ciò che segna la distanza del prontuario che le madri faranno leggere alle proprie figlie dall’empietà di cui veniva accusato Socrate. Come si vede nel boudoir sadiano si pone rovesciata la questione su cui si sospendeva il Menone platonico: è la virtù una scienza e, se è scienza, è insegnabile? Anche in questo caso la trasmissione familiare è messa fuori gioco: la madre di Eugenie è una donna virtuosa ed è piuttosto il padre che ha autorizzato i libertini a dare alla figlia un’educazione come si deve. Se l’educazione delle giovinette è a carico del gineceo, anche qui qualcosa non ha funzionato. Ma neppure è sufficiente per trasmettere il vizio una retorica: il vizio come d’altronde la virtù non è un contenuto, un certo insieme di enunciati, bensì una pratica discorsiva in cui prendono posto un Maître, un soggetto-supposto-sapere, ciò che fa da verità ed un resto. Quando, infatti, gli educatori si riuniscono con Eugenie non è per convincerla della superiorità del vizio sulla virtù attraverso l’arte della persuasione, ma per estrarre dal corpo vergine della fanciulla tutta la potenzialità di scelleratezza che vi riposa immemore e di cui l’allieva non sa nulla. È Eugenie che, senza saperlo, possiede un sapere del vizio che attende soltanto un 18

Cfr. D.A.F. De Sade, La philosophie dans le boudoir, vol. XV delle Oeuvres completes, Paris 1970 (tr. t. di V. Finzi Ghisi, Bari 1974).

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Maître che lo trasformi in verità. Ora, la funzione dei discorsi che fanno da interpunzione agli attimi di godimento, è appunto quella di costringere Eugenie – il servo – alla parola affinché essa divenga discepola del Maître. Costui, infine, gode del sapere dell’altro. E, tuttavia, quando si giunge al culmine del godimento, la parola vien meno: al di là delle espressioni stereotipate quali ‘Scarico’, ‘Non ne posso più’ o ‘Come mi piace’, si scade in un balbettio che si limita ad accompagnare il sommovimento dei corpi. Del godimento non se ne sa nulla: lo si deve solo differire per elaborarlo nel discorso; differimento tanto esteso e sublimato da raggiungere, come si sa, la sfera del discorso politico. La verità del godimento resta nell’extra-discorsivo: è il resto che, se si dice, si dice in un semi-dire. Letta in questa chiave l’esperienza sadiana viene sottratta da Lacan alla genericità, tutta letteraria, della rubrica pseudoromantica della ‘felicità nel male’ ed insieme ad una tassonomia psichiatrica delle perversioni. La voce libertina ha in realtà un tono di ragione: ed è tale tono della voce sadiana che, per essere perversa, non è per questo meno razionale, a legare Kant avec Sade. Nessuna rivoluzione copernicana sarebbe stata possibile nel discorso scientifico se Kant non avesse sovvertito l’etica tradizionale prendendo a misura proprio il carattere smisurato e perciò doloroso del desiderio; se non avesse compreso anche lui che la conformità alla legge morale, in cui la facoltà superiore del desiderare trova il proprio godimento, è resa possibile dal dispiacere che la coscienza prova di fronte allo scacco della propria istanza di benessere, dunque rispetto al piacere. Secondo la tradizione l’etica poggia su di un presupposto fondamentale: l’identità della virtù con la felicità e con il sapere. Dal Socrate platonico alle due grandi versioni, epicurea e stoica, dell’eudemonismo e fino alle tesi spinoziane, sempre la riconduzione dello statuto del soggetto alla legge naturale, anche là dove fosse identificata con l’ordine intellettuale del cosmo, aveva fatto coincidere l’esercizio della virtù con la conformità del comportamento alla determinazione naturale. Da qui la necessaria conseguenza: gli enunciati descrittivi, quelli cioè constativi dei motivi oggettivi dell’agire, equivalgono immediatamente agli enunciati prescrittivi: la risposta alla domanda ‘che cos’è?’ implica quella alla domanda ‘Che cosa devo fare?’. Ora, noi sappiamo, al contrario, che Kant ha nettamente distinto gli enunciati descrittivi da quelli prescrittivi, bollando come uso improprio, vale a dire non critico, della ragione, quello che può produrre confusione fra i due regimi di frasi. Ma come è stato possibile

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istituire in quanto tale il territorio stesso della critica? Proprio con un sovvertimento in campo etico, è la risposta di Lacan. Il primato della ragione pratica acquista così una sfumatura di senso diversa da quello normalmente attribuitogli: la ragione pratica non è tanto ciò che permette di oltrepassare i limiti imposti dalla ragione pura, quanto ciò a partire da cui una ragione pura in generale è possibile. È, infatti, per aver spezzato l’equivalenza classica fra virtù e felicità e di conseguenza quella fra virtù e sapere, che Kant ha potuto portare l’attacco decisivo alla metafisica dommatica. E lo ha fatto, aggiunge Lacan, in base ad una semplice osservazione filologica, come a dire che le rivoluzioni in filosofia avvengono sempre, come ha detto Benjamin, in base alla lotta per il senso di poche, singole parole. Il bene non è, per Kant, un significante univoco – d’altronde come tutti. Riferito al principio del piacere (-dispiacere) esso non è altro che benessere (Wohl), soddisfa l’amor proprio, cioè quella benevolenza (philautia) verso se stessi, che, di fronte a quegli atti di cui avvertiamo perfettamente il carattere immorale, ci porta o a far mostra di modestia – ‘è stato più forte di me’ – o d’arroganza: più che di benevolenza, in questo caso, si tratta di compiacenza. Invece, il bene, quale oggetto proprio della volontà morale, è il Gute. Quest’ultimo diviene oggetto d’esperienza attraverso una voce che dall’interno (esterno) del soggetto enuncia un comando, dunque una prescrizione, la cui validità sta tutta nel fatto d’opporsi a qualunque soddisfazione dell’amor proprio19. In altri termini, l’esperienza della voce della ragione produce l’oggetto della volontà moralmente buona, come dice Kant, per via negativa. Come viene determinata la volontà? Attraverso un ordine. Ma cosa fa sì che proprio perché soggetta ad un ordine la volontà sia libera ed autonoma? Ossia come è possibile che la volontà sia universale, che la sua massima valga in ogni caso – e non per tutti, che, invece, è l’indice di una generalità? Scrive Kant: «L’essenziale d’ogni determinazione della volontà mediante la legge morale è: che essa venga determinata solo mediante la legge come volontà libera, e quindi non soltanto senza il concorso degli impulsi sensibili, ma anche con l’esclusione di tutti questi impulsi, e con danno di tutte le inclinazioni, in quanto possono esser contrarie a quella legge. In questo senso, dunque, l’effetto della legge morale come movente è soltanto negativo, e come tale può essere conosciuto a priori. Invero ogni inclinazione ed 19

J. Lacan, Kant avec Sade, cit., p. 765 (tr. It., pp. 765-766).

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ogni impulso sensibile sono fondati sul sentimento, e l’effetto negativo sul sentimento (mediante il danno che avviene alle inclinazioni) è anche sentimento. Quindi possiamo vedere a priori che la legge morale, come motivo determinante della volontà, perché reca danno a tutte le nostre inclinazioni, deve produrre un sentimento che può essere chiamato dolore»20. Non basta, come si vede, ai fini della legge morale come movente della volontà libera, che siano messi da parte gli impulsi sensibili; è necessario che essi subiscano danno, cioè che il principio del piacere trovi la strada verso la propria realizzazione sbarrata dal dolore prodotto dalla legge morale. Se ciò avviene, è perché il desiderio, di cui il principio del piacere tenta d’essere la legge che lo regola, è in realtà eccessivo, sopravanza strutturalmente la sfera dell’amor proprio, coincide con un al di là del piacere e, dunque, col dolore. Si potrebbe dire allora che la distinzione gerarchica che Kant opera fra una facoltà inferiore del desiderare ed una superiore sia il tentativo di sistematizzazione del desiderio (Wunsch) che, essendo di per sé senza oggetto, cioè vano, non può accontentarsi di quegli oggetti, transitori e mutevoli, che il principio del piacere si affanna a trovargli traendoli dal campo rappresentativo, e che mira, invece, ad un quasioggetto, un oggetto ideale, che si situa fuori della rappresentazione e che non può fare da soggetto in una frase descrittiva. Ma l’aspetto decisivo del procedere kantiano consiste nel fatto che tale desertificazione del campo oggettuale risulta essere la condizione negativa, e solamente negativa, per l’emergere simultaneo della legge morale e della volontà libera. Se, infatti, la legge ordinasse in positivo – un’azione determinata riferita ad una situazione data e ad un oggetto specifico – allora il piacere non ne riceverebbe alcun danno né la coscienza proverebbe il sentimento del dolore. Ciò sarebbe soltanto la prova che la volontà è eteronoma sia rispetto all’oggetto sensibile che alla situazione: dipenderebbe da entrambi. Ordinando solo negativamente, ossia escludendo in via preliminare qualunque riferimento alla sensibilità ed alle circostanze, la legge è conosciuta a priori: di essa è possibile una conoscenza universale e necessaria. Ancora una volta il formalismo rende conto della possibilità della libertà: come forma pura e vuota, la legge apre il territorio della libertà, cioè della non dipendenza da contenuti estranei. D’altronde un conoscere a priori in generale è possibile solo quando la ragione, e in questo caso la legge morale come legge della ragio20

KW, V, 72-73 (92).

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ne, mostri di non dipendere da nessun contenuto particolare; anzi nel caso della legge morale, la sua stessa possibilità d’emergenza coincide con la negazione della sfera dei contenuti e con il sentimento del dolore. Non molto diverso era, dal suo canto, il procedimento della Critica della ragione pura: il di più o il meno rispetto alla sfera pratica stava nel fatto che nella sede conoscitiva in cui il contenuto è essenziale, ma non può essere dedotto dai concetti puri della ragione, si dovevano individuare anche riguardo alla sensibilità le sue forme a priori. E la strategia per enuclearle dal groviglio della sensazione empirica era anche qui di tipo negativo. Si trattava, infatti, di negare progressivamente tutti i contenuti dell’esperienza per vedere quali fossero in realtà insopprimibili, quelli, cioè, la cui assenza vanificava ogni esperienza possibile in generale: azzerata la serie dei contenuti emergevano come forme a priori dell’esperienza lo spazio ed il tempo. Ora, se è vero che è possibile giungere a conoscenze universali e necessarie, cioè a priori, solo per via di togliere, cade in linea di diritto il primato degli enunciati descrittivi, giacché essi sono legati inevitabilmente a dei contenuti determinati e positivi di cui predicano una certa generalità logica. Ed infatti i giudizi sintetici a priori non sono degli enunciati scientifici nel senso ristretto delle scienze particolari, bensì solo le coordinate a partire dalle quali sono possibili enunciati scientifici in generale: essi dipendono non da questo o quel contenuto determinato, ma dalle forme in generale della sensibilità. Ma tale conseguenza in campo conoscitivo è stata resa possibile solo dall’aver preventivamente riconosciuto l’esistenza di enunciati universali e necessari nonostante il fatto che essi non fossero dei descrittivi: tale è lo statuto degli enunciati prescrittivi. L’universalità dei prescrittivi a sua volta fonda, non solo l’autonomia della morale in quanto tale, ma anche la traduzione critica della validità dei descrittivi. Nota Kant: «Qui ora abbiamo il primo, e forse anche l’unico caso nel quale, con i concetti a priori, possiamo determinare la relazione di una conoscenza (qui è conoscenza di una ragione pura pratica) col sentimento del piacere o del dispiacere»21; dire questo, e cioè che la conoscenza si relaziona col sentimento del piacere (o piuttosto con la sua negazione: il dispiacere), equivale a sostenere che l’ordine della legge morale è conoscitivo senza essere descrittivo. Non è vero che la legge 21

Ivi, 73 (92-93).

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non mi indichi cosa devo fare: non in questo senso essa è vuota o formale. Il sentimento del dispiacere che essa produce, ma dal quale, si potrebbe dire, è allo stesso tempo prodotta, e col quale, alla fine, s’identifica, mi dice di per sé come devo comportarmi in ogni caso e mi indica anche il criterio secondo il quale devo condurmi in ogni singola situazione, di fronte ad ogni oggetto determinato del mio desiderio; tale criterio, che è dunque universale perché si applica in ogni caso e necessario perché ha la forma del comando, è il seguente: devi fare ciò che contraddice il principio del piacere ed è per te ragione di dolore. È chiaro allora perché Kant irridesse quei critici che lo avevano accusato di non aver trovato nessun nuovo principio su cui basare il comportamento morale dell’uomo; Kant, per essi, non aveva individuato nessuna legge positiva e determinata e nessun principio dal quale far derivare per deduzione razionale tutti gli altri. A Kant, invece, interessava stabilire esattamente il contrario: sganciare la moralità da qualunque contenuto positivo, sensibile o intellegibile che fosse, ed offrire un criterio per la legittimazione degli enunciati prescrittivi che non fosse debitore del primato dei descrittivi. Kant voleva coniugare la ragione pratica e, dunque, il discorso morale con la natura eccessiva del desiderio: per farlo era necessario evitare la riduzione della prima a teoresi e del secondo alla legge del principio del piacere. Bisognava infine tentare una scienza del desiderio o, in altri termini, sovvertire il soggetto epistemico a partire dal desiderio. E la conseguenza è appunto questa: se il soggetto morale si costituisce per via negativa, a sua volta il soggetto epistemico si riconoscerà, non come contenuto degli enunciati descrittivi, ma come forma pura della possibilità dell’enunciazione in generale; cioè come quella rappresentazione particolare – io penso – che fa da condizione formale, negativa, degli enunciati e non è, dunque, il loro risultato. O, in altri termini, la determinazione della volontà libera in termini negativi delimita a sua volta l’estensione del campo rappresentativo: ed è per questo che una rettifica della posizione etica produce una modifica nello statuto della scienza. Tutto ciò è all’origine dell’impossibilità, secondo Kant, di una psicologia scientifica, impossibilità che è il corrispettivo della messa in crisi in sede pratica del principio del piacere. Una psicologia scientifica deriverebbe, infatti, il soggetto epistemico da quell’insieme di enunciati descrittivi in cui l’individualità empirica fa da soggetto dell’enunciato; l’io empirico, allora, conosciuto attraverso enunciati dotati soltanto di generalità varrebbe come genesi del soggetto epistemico o io

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trascendentale. Ma in tal caso da che cosa gli enunciati delle scienze particolari, il cui oggetto di conoscenza è l’uomo, sarebbero legittimati a loro volta? Solo attraverso il criterio di una metafisica dommatica. Ma che sia impossibile derivare il soggetto pratico-morale come soggetto di desiderio dalla legge empirica del piacere è propedeutico all’inderivabilità del soggetto epistemico dalle leggi della psicologia. Nel momento in cui il sentimento del dolore scinde il soggetto morale da quello dell’amor proprio è aperta la strada perché il soggetto della scienza sopporti la scissione dall’individualità empirica: la differenza e l’autonomia dei regimi di frasi (e, dunque, anche il loro possibile dissidio) sono resi possibili a partire dalla scissione del soggetto. E, tuttavia, proprio ora una differenza ancora più decisiva s’insinua fra la sfera teoretica e quella pratica. La sfera teoretica così come viene determinata da Kant corrisponde esattamente a quello che Lacan chiamava il discorso universitario. In questo senso la rettifica della posizione etica del soggetto ha prodotto la trasformazione del discorso della scienza – da Maître in Universitario. Il sapere, cioè l’intera architettonica della ragione pura, sta in posizione di Maître, ‘a’ in quella di servo e S1 occupa il posto della verità. Il discorso universitario ha di mira, come sappiamo, la valorizzazione dell’io come significante fondamentale del soggetto: vale a dire nessun enunciato descrittivo è possibile se non accompagnato dalla rappresentazione ‘io penso’. Tuttavia, il discorso universitario non è in grado di articolare al suo interno proprio S/, il soggetto di desiderio cui deve la sua stessa emergenza: era, infatti, perché ‘a’ faceva da resto in M, che il quarto di giro faceva spostare M in U. Se è vero che è stata la rettifica della posizione etica, cioè la separazione fra virtù e sapere, a produrre il nuovo discorso della scienza, tuttavia, che il godimento sia restituito ad un soggetto altrettanto privo di determinazioni quanto l’oggetto del suo desiderio, va egualmente incontro ad una impossibilità: proprio il soggetto del desiderio è ciò che sfugge al potere del discorso universitario dal momento che ‘a’ in esso incontra solo il suo rappresentante delegato, il significante io, che, come sappiamo, tende a presentarsi come quel significante dotato del potere dell’auto-referenzialità, cioè di poter significare se stesso e non più altro da sé e d’imporsi, di conseguenza, come origine e meta del discorso stesso. Così quanto più S1 si valorizza attraverso ‘a’, intrappolato nelle reti formali e categoriali, tanto più S/ si svalorizza fino ad essere espulso dal discorso universitario. Ma allora non basta più aver distinto gli enunciati descrittivi da quelli prescrittivi: a questo stadio dell’analisi, infatti, nulla vieterebbe

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che anche gli enunciati prescrittivi funzionassero da strategie di valorizzazione del significante ‘io’. La rettifica della posizione etica deve essere tale da sfuggire anche a tale pericolo; essa deve, dunque, riformulare la pensabilità del soggetto morale alla luce della individuazione del soggetto dell’enunciazione in sede conoscitiva. O, in altri termini, la frase della legge a partire da cui emerge qualcosa come il soggetto morale in quanto sentimento del dolore, deve escludere esattamente il soggetto dell’enunciazione: mentre il soggetto epistemico si dice sempre nella forma dell’io, l’unica possibile per la sua emergenza, quello morale non solo non può fare da soggetto dell’enunciato, ma neppure può reggere, come soggetto dell’enunciazione, gli enunciati prescrittivi. In entrambi i casi, un enunciato in cui comparisse a qualunque titolo l’io sarebbe patologico, empirico e non conforme alla legge morale. Certo, io posso comparire come soggetto dell’enunciato nella massima; posso dire: io mi comporterò in questo o quel modo in base a questo o quel criterio. Ma il problema è appunto: che cosa legittimerà la massima? Quale criterio esterno ad essa e, dunque, al soggetto dell’enunciato ed insieme a quello dell’enunciazione, dimostrerà che essa è conforme alla legge? Il criterio è la messa in crisi, attraverso la voce della legge, dell’io empirico non solo, bensì anche del soggetto della scienza. Allora mentre il soggetto epistemico dice ‘io’, quello morale si dà come un ‘tu’ nella voce dell’altro: esso non s’istituisce attraverso la valorizzazione del sapere, ma emerge in quanto chiamato ad essere dal comando di una voce altra. Né questa voce potrà a sua volta dirsi in quanto ‘io’: la voce della legge non potrà che essere impersonale: c’è là voce che dice: ‘Tu devi’. Impersonale, senza volto, la voce sopporta, appunto per questo, di poter essere rappresentata da un’immagine come quella della dea velata: parla da dietro un velo. E se d’altro canto noi volessimo trascrivere il suo discorso, ci troveremmo davanti ad un enunciato attraversato dalla scissione, in cui proprio il soggetto sarebbe irreperibile: quell’enunciato lacaniano intraducibile in cui la verità morale, prendendo la parola, dice: ‘Moi, la vérité, je parle’. Chi parla dunque? Giacché l’enunciato a sua volta non è retto da nessun soggetto dell’enunciazione e la frase, dunque, semplicemente si dà: quando la verità si dà, si dà solo in una frase che dice la scissione del soggetto. La voce dice, ‘Tu devi’, e sottintende, ‘dunque, non puoi’. Il sovvertimento in etica modifica allora anche il soggetto scientifico come soggetto dell’enunciazione; lo pone in crisi esattamente dissolvendo il nucleo della sua stessa possibilità: quella di dirsi nella forma dell’io. Il soggetto morale deve passare dalla prima persona alla

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IX. KANT III. LA DEA VELATA O LA VERITA’ CHE PARLA

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seconda: ma stavolta il tu non è l’interlocutore del soggetto scientifico, bensì il soggetto stesso. Egli è il tu del discorso dell’altro che né è un io, né potrà mai a sua volta essere interpellato come un tu: di fronte alla dea velata non dobbiamo semplicemente inginocchiarci? Potremmo mai appellarla dandole il tu? È evidente che se la legge ci chiama, non è vera la reciproca: noi siamo ‘soggetti’ alla/della voce. Allora di nuovo: cos’è la voce? Quale il suo statuto? Essa certo non è la legge, ma solo ciò attraverso cui la legge morale parla, si fa frase. La voce è, dunque, quel punto di tangenza fra il desiderio e la legge; con Lacan noi l’abbiamo determinata come appartenente alla sfera del fantasma. La voce è una delle possibili incarnazioni del petit objet a, in quanto resto del discorso e scrittura del plus-de-jouir. Ma se la voce è un fantasma, non vorrà dire allora che il soggetto sogna ed allucina?22 Che, dunque, il filosofo sta stonando di nuovo, parla da mistagogo? E, invece, la voce dell’altro, cui la voce filosofica risponde, risolve proprio in quanto fantasma il problema sollevato dalla sfera morale, quello cioè della sua autonomia. Se la legge morale è irrapresentabile, non si esibisce in nessuna esperienza sensibile, ma appare anzi solo portandole danno, noi saremo costretti, proprio al fine di evitare l’allucinazione e lo sfrenarsi di un immaginazione senza regole, ad individuare un evento, che appartenga all’esperienza senza essere empirico, che possa, dunque, valere da quasi-esibizione della legge morale. Tale è la voce: se essa ha un potere sul desiderio lo ha in nome del fatto di poter essere separabile dalla totalità immaginaria del corpo proprio, ossia da quella identità soggettiva la cui legge è il principio del piacere. La voce è un di più/di meno, un resto comunque, del corpo proprio come oggetto primario dell’amor di sé. La voce appartiene a quella serie di quasi-oggetti, quali il pene, lo sguardo, ed in generale tutti gli oggetti feticcio, la cui caratteristica è di essere per principio separabili, staccabili, dall’unità del corpo come apparato dei saperi, organizzazione empirica dei saperci fare e, dunque, simile a ciò che in Kant costituisce l’io empirico, ma anche il soggetto epistemico. Tali oggetti occupano uno spazio intermedio fra la serie empirica e quella ideale: e tale era, se si vuole, anche il carattere del segno storico quale lo tematizzava la seconda sezione del Dissidio delle facoltà; 22

Ancora sul tema del fantasma e soprattutto sulla corrispondenza, nonostante tutto, fra ‘gli spiriti’ di Swedenborg ed ‘il regno dei fini’ kantiano, ha scritto pagine significative Guido Morpurgo-Tagliabue nella sua introduzione alla traduzione italiana di Die Träume eines Geisterseher erläutert durch die Träume der Metaphysik, Milano 1982.

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segno che produceva sul lato soggettivo l’entusiasmo come modulazione del sentimento del sublime e che innescava, in nome del dispiacere che provocava nel soggetto epistemico e nella facoltà dell’immaginazione, l’accelerazione dello sviluppo morale. Ma torniamo alla voce: se essa è un fantasma, ciò cui si àncora il desiderio che sopravanza la totalità degli oggetti sensibili, cosa evita la sua resa allucinativa e sognante? Lo abbiamo anticipato: il fatto stesso che come esperienza non sensibile, la voce è ciò attraverso cui la legge può esibirsi e, incrociando il desiderio, istituirsi come la sua forma, la regola cui esso deve conformarsi ed il luogo dove può infine acquietarsi. È a questa condizione, ci sembra, che Kant può rimuovere il Wunsch, ossia quel desiderio per cui il soggetto fa voto di sé, dell’intero campo oggettuale e dell’amor proprio in nome del riconoscimento dell’altro, e iscriverlo nella marginalità di una nota. E può farlo perché in fondo lo coglie come già sottoposto alla legge proprio attraverso l’esperienza della voce della ragione. La rimozione del Wunsch a favore della Begierde impedisce soprattutto di vedere che nessuna legge morale in generale sarebbe possibile se essa non fosse in primo luogo un oggetto di desiderio – oggetto e causa ad un tempo –, se essa cioè non rispondesse in via preliminare all’esigenza eccessiva del desiderio. Il quale, infatti, si appaga, se così si può dire, solo iscrivendosi nella forma pura e vuota, senza oggetti, della legge, il cui oggetto è appunto quel quasi-oggetto che è la voce. In altri ‘termini, non c’è legge se non in quanto un soggetto fa di essa l’oggetto del proprio desiderio; ed era appunto quanto s’iscriveva nel testo kantiano là dove la ragione pura pratica chiamava in causa la facoltà del desiderare e legava una conoscenza a priori con un sentimento, fosse anche quello del dolore. Che, infine, la legge morale sia conosciuta a priori attraverso un sentimento, quello del rispetto, è la prova che essa è il desiderio del soggetto, divenuto qui da soggetto epistemico soggetto pratico-morale. Ma nonostante la rimozione, il Wunsch lascia una traccia incancellabile; ed è su tale resto del discorso che si appunta la lettura lacaniana. Il soggetto morale è scisso: la sua stessa possibilità di costituzione coincide con la spaccatura fra l’altro, la voce dell’altro, e l’io. Il soggetto non è altro che questa forbice, né sussiste al di fuori di essa. La barra che separa il soggetto da se stesso, che lo divide in un ‘tu’ della voce dell’altro ed in un ‘io’ del piacere, è l’iscrizione di quel dolore che per Kant si traduce in rispetto della legge. Detto altrimenti: il dolore come esperienza pratica dello squilibrio del soggetto con se stesso, cioè del

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IX. KANT III. LA DEA VELATA O LA VERITA’ CHE PARLA

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desiderio in quanto tale, in una parola il dolore come avvertimento soggettivo della silenziosa pulsione di morte, è il luogo dell’apertura della soggettività, quel luogo (non luogo) da cui parla il soggetto del giudizio pratico. Ma questo iato che strutturalmente si apre fra il soggetto e se stesso, questo differimento del desiderio, è quel v(u)oto o ‘mancanza ad essere’, in cui può inserirsi la legge che strappa il desiderio alla sua vanità, alla fuga in linea di diritto interminabile nella serie metonimica dei quasi-oggetti, per metaforizzarlo nella forma pura del dovere – in termini lacaniani, ‘Il nome del padre’. La legge come ordine simbolico, ossia l’ordine linguistico in cui il significante sta al posto di un significato assente, concede al desiderio il suo statuto: lo riconosce, nel senso forte di questa parola, come desiderio senza oggetto che solo una forma pura può governare. In A, simbolo per Lacan dell’ordine simbolico-linguistico come ordine sempre altro rispetto al soggetto, s’iscrive, infine, che S/ è desiderio di ‘a’. Ed, infatti, l’istanza del Super-io – ché tale è la legge morale in Kant – nulla ha a che vedere con i genitori reali – la virtù, come il vizio, non si trasmettono attraverso l’istituzione familiare –, né d’altronde vieta o permette alcunché di determinato. Come Dio subito dopo la creazione, la legge si limita ad enunciare il divieto come forma pura, vuota d’ogni contenuto particolare (e da qui l’inevitabile casistica d’ogni diritto positivo e d’ogni morale determinata che smussano la rigidità formale della legge: ‘Non uccidere’, e tuttavia in certi casi e a certe condizioni si può. No. Nessuno dirà: ‘Devi uccidere’, ma soltanto: ‘In tal caso potrai essere giustificato’). La legge, dunque, s’istituisce come quel terzo che viene a spezzare la relazione speculare-narcisistica dell’io con gli oggetti del suo piacere; oggetti che, come è ovvio, sono in primo luogo gli stessi altri soggetti, quegli alter-ego che per il desiderio sono null’altro che dei fantasmi. Ora, di ciò Kant era ben consapevole: «Tutte le inclinazioni insieme (che possono anche venir ridotte in un sistema tollerabile, e la soddisfazione delle quali si chiama in questo caso felicità) costituiscono l’egoismo (solipsismus)»23. Il solipsismo, allora, ha poco a che vedere con l’idea di un io isolato da tutto e da tutti; al contrario esso designa un io ben sistemato nel mondo, che ha alla mano l’intero sistema degli oggetti e degli altri soggetti e che da nulla viene disturbato in tale sereno ed equilibrato godimento di sé ottenuto attraverso lo sfruttamento dell’al23

KW, V, 73 (93).

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terità in generale. Giacché anche Robinson, emblema del solus ipse, non potrebbe farcela senza un Venerdì: se gli mancasse, come si sa, delirerebbe; dunque, nessun Maître si è mai sognato di poter fare a meno dell’altro. La verità è un’altra: ciò che il Maître non vorrebbe che esistesse è piuttosto quel S/, che egli stesso è, da sempre alle prese con ‘a’: soggetto del desiderio che disturba sempre la sua felicità e lo rimanda all’amara consapevolezza che essere Maître vuol dire dipendere dall’altro. Giacché essere desiderio dell’altro non può andar disgiunto dall’essere l’oggetto del desiderio dell’altro e, dunque, dall’impossibilità di decidere chi, in questo groviglio di identificazioni immaginarie, possa, senza essere immediatamente smentito, dire ‘io’. Nient’altro che questo articola l’adagio lacaniano: ‘il desiderio è il desiderio dell’altro’; formula che s’intende nel doppio senso del genitivo: non solo e non tanto, dunque, in quello secondo il quale io desidero l’altro, bensì soprattutto ed in primo luogo nel senso per cui è a partire dal desiderio che l’altro ha di me che io emergo come soggetto di desiderio. Colui che dice io, da questo punto di vista, è solo un derivato, un effetto del desiderio dell’altro; la sua enunciazione avviene in seconda battuta, già come risposta ad una vocazione la cui provenienza è insondabile. Tale alterità si può definire anche come l’altro dell’altro, l’altro d’ogni alter-ego che entri nella rappresentazione come oggetto del piacere. Da qui l’inganno costitutivo dell’enunciato del desiderio (di cui vedremo fra poco tutta la problematicità) quale: ‘Io ti desidero’; la sua antinomicità non sta tanto nella confusione che in esso si produce fra l’io dell’enunciazione e l’io dell’enunciato, quanto nella rimozione dell’alterità radicale che sola dà senso a me ed all’altro, oggetto del mio desiderio, e che separandoci, fosse anche di un niente, di una differenza pura, ci permette di sostenerci in una relazione inter-soggettiva che altrimenti scadrebbe al rango di un mero bramarsi animale cui non è per nulla estranea la parade, umana troppo umana, della seduzione e dell’innamoramento. Che la verità parli è la nostra fortuna, l’evento felice che ci ha resi uomini; poiché è per il fatto di mettere in frase il desiderio, fosse anche in una frase impossibile o, che è lo stesso, per il fatto che la verità si dice, anche se in un semi-dire, che ci è possibile evitare ad un tempo di saltare al di qua della specie nell’animalità o al di là nel delirio della ragione. Che la verità parli è ciò che ci pone in relazione con la voce della legge, con la voce dell’altro d’ogni altro e ci consegna a quella finitezza per cui noi siamo discorso e nel discorso; ed essere discorso vuol dire che la presunzione d’essere i destinatori della parola viene spezzata dal fatto d’essere sempre già i destinatari di una

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vocazione alla quale, aprendo la bocca per incominciare a parlare, ma anche restando in silenzio, noi corrispondiamo, diciamo di sì, prima ancora di comprenderne il significato. Appunto quel ‘si deve’ anteriore a qualunque teoresi ed insieme a qualunque morale codificata. Non c’è dubbio, tuttavia, che Kant per primo sia costretto a smussare la sua tesi di una legge morale radicalmente altra rispetto al soggetto in vista di una sua possibile applicazione concreta, per esempio affinché sia legittimato un giudizio etico-teleologico. Ora, è proprio percorrendo tale itinerario che noi vorremmo mostrare la necessità di un rapporto ‘Kant avec Sade’ che dovrà condurci ad una tematizzazione ulteriore dello statuto del desiderio. Per Kant, infatti, l’imperativo del dovere, la necessità morale devono aprirsi un passaggio, stretto finché si vuole, verso la possibilità; debbono essere dotati, in altri termini, di un potere attraverso il quale si possa applicare la forma pura della legge alle azioni concrete che, in quanto tali, appartengono al dominio del mondo sensibile e sono, dunque, semplicemente possibili; non dotate, insomma, di quella necessità che pertiene alla legge. Si tratta infine di trovare una mediazione fra la sfera della necessità della legge morale che in quanto tale è legge razionale e quella della possibilità che attiene all’agire contingente. Ora, specifica Kant, in sede pratica non è in gioco «la possibilità dell’azione come di un evento nel mondo sensibile»24, giacché in tal caso sarebbe legittimato ad intervenire solamente l’uso teoretico della ragione, il quale, affinché fosse possibile applicare la necessità propria della categoria di causa all’evento sensibile, avrebbe bisogno di uno schema dell’immaginazione. Lo schema, infatti, producendo una sintesi temporalizzante dei dati offerti dalla spazio-temporalità, inaugurerebbe una prima dimensione di senso, una configurazione stabile della mera contingenza empirica cui sarebbe possibile applicare il significato logico-categoriale. La legge di causalità, della causalità efficiente e non di quella secondo fini, ha, dunque, a disposizione «uno schema nell’intuizione sensibile»25. Ma, appunto, in sede pratica, dove è in gioco la causalità della libertà, è proprio lo schema dell’immaginazione ad essere manchevole dal momento che, come sappiamo, è l’intero campo della sensibilità ad essere messo fuori gioco. Che cosa, allora, si potrà sottoporre alla legge 24 25

Ivi, 68 (86). Ivi.

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morale affinché essa sia applicabile alle azioni? Nient’altro che un’altra forma, ma tale che essa si manifesti in concreto negli oggetti dei sensi; il che significa: la forma di una legge naturale. Come si vede, ciò che funge da medio in sede pratica non è più la facoltà trascendentale dell’immaginazione, ma l’intelletto: l’universalità della legge si apre una strada verso la sua applicabilità alle azioni, non attraverso la configurazione prodotta dallo schema, ma attraverso una generalità logica propria di una legge di natura, ossia di una forma logica di relazione, indipendente dagli oggetti determinati. Vediamo in concreto l’argomentazione kantiana: si tratta di applicare un’analogia secondo il tipo; e cioè domandarsi quale modello di costruzione logica riguardante le relazioni dei fenomeni fra di loro, è tale da assomigliare di più alla forma pura della legge morale. Per Kant è il tipo della legge naturale, cioè di quel tipo di enunciati che organizzano le differenze empiriche in generale secondo delle forme relazionali: esse sono l’inerenza, la causalità e la reciprocità o comunanza26. Si tratta, come si vede, non di leggi empiriche determinate, riguardanti specifiche regioni del sapere, bensì di concetti puri ed a priori dell’intelletto, tipologie possibili dell’organizzazione fenomenica. Ora, dei tre modelli relazionali, Kant trasferisce nella sfera pratica l’ultimo, cioè quello della reciprocità, dal momento che esso sembra essere l’unico in grado di rispettare, anche se solo analogicamente, la forma della legge morale. Se ora dall’enunciazione in generale della regola del giudizio sotto le leggi della ragione pura pratica si passa agli esempi portati da Kant il discorso apparirà subito chiaro. La regola del giudizio è la seguente: «Domanda a te stesso se l’azione che tu hai in mente, la potresti considerare come possibile mediante la tua volontà, se essa dovesse accadere secondo una legge di natura, della quale tu stesso fossi una parte»27; e gli esempi la illustrano senza possibilità di equivoco. Si domanda Kant: se ciascuno pensasse di poter truffare gli altri, per trarne vantaggio, o di suicidarsi perché preso da disgusto della vita o ancora si mostrasse indifferente nei confronti della miseria altrui, allora tu, soggetto del giudizio puro pratico, «appartenendo a tal ordine di cose, ti troveresti bene in esso, col consenso della tua volontà»28? Enunciare una massima è l’equivalente dell’enunciazione di una 26

Cfr. KW, 111, 93 (133). KW, V, 69 (87). 28 Ivi (88). 27

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IX. KANT III. LA DEA VELATA O LA VERITA’ CHE PARLA

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legge universale; e tale è la legge morale. Ma essendo la legge morale vuota, non indicando cioè nessun agire determinato, il soggetto del giudizio ricorrerà all’analogia con la legge di natura ed in particolare con quella che lo ingloba, quale soggetto dell’enunciazione, nella massima stessa come soggetto dell’enunciato. Solo adottando la relazione di reciprocità sarà possibile rispettare quell’aspetto della legge morale per cui non si dà soggetto dell’enunciazione; in altri termini, di fronte alla legge vige un’assoluta eguaglianza, tutti siamo suoi sudditi, nessuno può dire io. E ciò si traduce nella relazione di reciprocità come intercambiabilità assoluta delle posizioni e dei ruoli. Torniamo agli esempi: certamente io non voglio essere truffato, né suicidarmi, né, caduto in miseria, gradirei vedere intorno a me l’indifferenza; e allora come posso enunciare una massima che legittimi come legge la truffa, il suicidio o l’indifferenza? Qui Kant sembra prelevare dalla tradizione una regola morale ben nota, quella del quod tibi non vis fieri.., ed elevarla attraverso il marchio logico della relazione di reciprocità ad un analogon della legge naturale in sede pratica. È vero: la stessa regola era stata bandita dalla Fondazione della metafisica dei costumi29, tanto essa assomigliava ad un imperativo ipotetico. Ma la differenza ci sembra consistere in ciò: nella Fondazione si negava che il criterio del non fare agli altri ciò che non vorremmo fosse fatto a noi potesse essere innalzato tout court al rango di legge morale; qui, invece, esso è, in base all’analogia secondo il tipo, solo una forma logica che funge da surrogato della legge in vista della sua applicabilità alle azioni. Alle azioni appunto: cioè a qualcosa che già di per sé implica relazione; non è più in gioco allora il calcolo di un io empirico che ritiene preferibile non avventurarsi in un’azione da cui potrebbe subire conseguenze né volute né desiderate, ma la forza di una legge per la quale gli individui in questione sono già delle pure funzioni logiche, già insomma depurati d’ogni contenuto sensibile. Ed, infatti, già in sede teoretica la relazione di reciprocità è un concetto i cui contenuti potrebbero provenire solo dagli schemi della facoltà dell’immaginazione. A maggior ragione, allora, una volta che essa venga trasferita per analogia nella sfera pratica, la relazione di reciprocità vale indipendentemente dagli individui e dalle circostanze: essa esclude che nella considerazione della massima che deve essere conforme alla legge abbiano alcun posto la specificità delle situazioni ed i calcoli che sog29

Cfr. KW, 1V, 430 (tr. it. di P. Carabellese, Firenze 1942, p. 69).

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getti patologici possono fare in vista della massimizzazione della loro felicità; lo statuto del soggetto è qui solo quello di far da termine di una relazione logica. Analizziamo per maggior chiarezza l’esempio classico del deposito: cosa potrebbe concretamente impedirmi di appropriarmi di un deposito che mi fosse stato lasciato in custodia, se nel frattempo il depositante fosse morto, se nessun testimone avesse assistito al nostro patto e se il depositante non avesse lasciato nulla di scritto attestante il nostro accordo? A ben vedere nulla. Io posso certamente far mio il deposito; quel che non posso fare è tradurre questo mio gesto empirico in legge naturale e, dunque, legittimarlo come conforme alla legge morale. Tuttavia, io potrei costruirmi una massima in cui venisse asserito che in questo caso – si noti: in questo singolo caso, in cui non c’è attestazione di alcun genere, se non quella della mia coscienza – è giustificato appropriarsi del deposito. Ma è tale massima soggettiva conforme alla legge morale? No. E non lo è perché non rispetta il criterio della relazione di reciprocità. Da cosa lo si può evincere? Ma proprio dall’aver io invocato la singolarità della circostanza. Ossia, la massima che, per esser tale deve avere valore di legge, asserisce contemporaneamente che in un caso – il caso a partire da cui la massima è costruita – la legge che essa enuncia non avrebbe valore. Se ciò avviene è perché dal suo canto la massima continua ad asserire come suo presupposto che i depositi in generale si devono restituire: e ciò nel momento stesso in cui si fa scudo di quell’unico caso in cui è giustificato fare il contrario. Il paradosso della massima è che essa enuncia la legge, ma la convalida a partire da quell’unica eccezione in cui la sua validità è esclusa. In altri termini, in questo caso io posso appropriarmi del deposito, fermo restando che in tutti gli altri casi essi vanno restituiti: c’è dunque un caso in cui il soggetto della massima sfugge alla legge di reciprocità, è l’eccezione che conferma la regola. La conseguenza di tutto ciò è che se è vero che l’eccezione da me invocata non è tale da annullare la generalità della massima – in media e per lo più i depositi si restituiscono – in realtà ne distrugge totalmente l’universalità30: sfuggendo alla legge della reciprocità il soggetto è come se dichiarasse che esiste un caso in cui egli sarebbe libero di non rispettare la legge morale, che dal suo canto gli ordina di restituire il deposito in ogni caso. Ora, noi sappiamo che tale libertà è al contrario per 30

KW, V, 27-28 (33-34).

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Kant il massimo dell’eteronomia: il soggetto in tal caso soggiacerebbe, infatti, al criterio della propria felicità, dunque, al proprio io patologico. È che la differenza fra la generalità e l’universalità31, cui abbiamo già fatto cenno, raggiunge in sede pratica la sua portata più decisiva. Si definisce generale un enunciato che vale in tutti i casi; ora, è facile vedere che proprio perché i casi sono l’aspetto contingente cui l’enunciato si riferisce, essi non possono che essere differenti fra di loro, ciascuno avente una propria configurazione che lo distingue da tutti gli altri. Come è possibile allora attribuire un predicato generale, che valga per tutti, a ciò che è per definizione differente? È esattamente il problema di una logica della scienza: se si vuole evitare che l’enunciato si trasformi in una vuota tautologia, sarà necessario allora modulare la generalità secondo il declinarsi della differenza, occorrerà cioè presupporre l’eccezione come parte integrante della generalità: i giudizi delle scienze empiriche, ad esempio, anche quando sono fondati su giudizi sintetici a priori, restano degli enunciati dotati solamente di generalità. È vero: in sede scientifica si assiste ad una riduzione la più estesa possibile della complessità, ad una codificazione che tende ad uniformare le circostanze in cui la legge empirica è valida, ma è altrettanto vero che la validità della legge stessa è legittimata, per il principio di falsificazione, dalla possibilità in quanto tale dell’eccezione: ossia è valida fin quando un nuovo caso singolo non la smentisca. Quando il criterio della generalità viene trasferito in sede pratica, la contraddizione esplode: qui infatti è letteralmente impossibile una codificazione delle circostanze, dal momento che il concetto di situazione o di caso non è spurio come in sede scientifica, ma parte integrante della riflessione etica. È possibile pensare un’etica se non in situazione? Ossia astrarla dalla concretezza della circostanza, dall’ambito della scelta determinata? Ad esempio dalla domanda: debbo o non debbo, in questo caso, appropriarmi del deposito? Cosa è in gioco qui? Da un lato l’universalità della voce della coscienza morale che mi dice che in ogni caso i depositi si restituiscono; dall’altro la singolarità della situazione che mi fa dire che forse, in questo caso, solo in questo caso, io potrei... Ora, il fatto è che se io trasformo l’enunciato, ‘I depositi si restituiscono in ogni caso’, in quello ‘I depositi si restituiscono in tutti i casi’, se cioè lo faccio divenire da universale generale, avrò come risultato che l’eccezione rappresentata da questo singolo caso non infirmerà 31

Ivi, 36(46).

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la generalità dell’enunciato. Cioè l’eccezione qui non varrà come falsificazione dell’enunciato, ma come conferma, dal momento che l’impossibilità di costruire una tipologia concreta delle circostanze (che è altra cosa da una tipologia formale) rende ogni situazione allo stesso tempo unica e, tuttavia, passibile di generalizzazione. La cosa resta vera anche in casi ben più gravi di quello del deposito: nell’esempio già fatto dell’enunciato prescrittivo: ‘Non uccidere’, la sua torsione al livello di una generalità logica, comporta la possibilità, non di infrangerlo, ché ciò appartiene all’empiria, ma di trovare delle giustificazioni alla sua trasgressione; se è in gioco la mia vita, se lo ordina il mio paese etc., uccidere è legittimo. Forse che tutto ciò infirma la validità generale dell’enunciato, falsificandolo a tal punto che divenga legge, ‘Tu ucciderai’? Certo che no. La validità generale resta intatta; essa è anzi confermata proprio dall’eccezione, poiché appunto è solo in un caso eccezionale che la legge potrà essere trasgredita senza danno. E proprio l’eccezionalità dimostra d’altro canto che la legge è valida per tutti gli altri casi, cioè per i casi normali. Accade che, quando io confondo un enunciato prescrittivo con una generalità, mi comporto più o meno in questo modo: confronto la situazione in cui mi trovo con tutti gli altri casi simili, quelli cioè cui è applicabile il predicato generale – ad esempio, che i depositi si restituiscono – e attraverso tale comparazione verifico se nel caso in questione non si presentino differenze tali da rendere giustificabile, solo in questo caso, la non restituzione. In effetti, per giungere alla conclusione che in questo caso io sono dispensato dalla restituzione, io ho dovuto preventivamente generalizzarlo, ossia ricondurlo alla classe di quegli eventi pratici cui si applica il predicato generale della restituibilità; solo a questo punto posso individuare all’interno di quella classe, una sottoclasse (che può essere formata anche da un solo individuo logico) che fa da eccezione e conferma alla regola. È solo perché ho equiparato i casi fra di loro, ho esteso, anche a questo caso, l’applicazione del predicato generale, che mi è possibile pervenire alla conclusione che questo è un caso eccezionale. Il valore della generalità è, come si vede, qualcosa che attiene alla sua estendibilità a tutti i casi; ma proprio perché sia estendibile in linea di diritto a tutti i casi, essa deve presupporre per la propria legittimità l’eccezione. Si potrebbe dire che la generalità implica una gerarchia nell’essere: vale a dire che una proposizione valida in generale in tutti casi, è meno valida se applicata ad un grado inferiore della scala degli eventi: come l’essere, presso come una categoria logica, ha un massi-

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mo di generalità, si estende a tutto, ma si dice in molti modi, così un enunciato prescrittivo valido in tutti i casi, può non esserlo in certi casi molto speciali, come per esempio, ‘Non uccidere’. Si sarà compreso, al contrario, come l’universalità sia tutt’altra cosa: dire, infatti, che un enunciato prescrittivo è valido in ogni caso significa dire che non c’è eccezione o caso speciale che tengano. E ciò non perché ci si dimentichi che l’etica è sempre in situazione, ma al contrario perché è proprio nella situazione che l’universalità della legge va messa alla prova. Quando io assumo l’enunciato nella sua universalità non confronto il caso singolo con tutti gli altri casi della stessa classe, per verificare se il predicato generale è estendibile anche in questo caso, non prendo la situazione come una particolarità che riceve una sua prima significazione dalla messa in relazione, attraverso l’individuazione dei tratti comuni, con altre particolarità, bensì relaziono il caso singolo, nella sua estrema differenza, direttamente con la legge universale. Il caso singolo ed eccezionale (ed infine tutti lo sono in linea di principio: unici ed irripetibili) è, se così ci si potesse esprimere a proposito di Kant, un universale singolare. Di che cosa altrimenti la legge sarebbe legge se non appunto di questa situazione determinata? Quale valore avrebbe se non valesse anche, soprattutto, qui ed ora? La legge universale, dunque, pur se vuota, priva cioè di prescrizioni determinate, cioè di generalità, è proprio per questo letteralmente incarnata nella singolarità. Se prescrivesse alcunché di determinato, come sarebbe allora applicabile anche in questo caso? Anche in quello che, dal punto di vista del contenuto, contraddicesse l’ingiunzione della legge? Giacché la questione per Kant sta nel fatto che la legge non ordina per nulla la restituzione dei depositi: questo è un contenuto determinato dell’azione e di esso la legge non sa nulla. La legge si manifesta soltanto attraverso una voce che dice ‘Tu devi’. Che cosa? Rispettare la legge in ogni caso che ti si possa presentare e nel quale tu sia coinvolto. Ciò che fa da medio fra la legge nella sua universalità e la situazione non è una generalità, ma una legge naturale: una forma relazionale, quella della reciprocità, il cui ufficio è semplicemente quello di ricordare al soggetto che egli non può far leva sulla circostanza perché in tal caso non applicherebbe la legge e la sua massima non le sarebbe conforme. Che sia questione di un deposito o della sua stessa vita, la legge vale in ogni caso: egli non può trarsene fuori. Ma prima di affrontare compiutamente la questione della relazione di reciprocità, vorremmo soffermarci ancora sul problema dell’uni-

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versalità perché esso presenta aspetti che potrebbero apparire paradossali e perché proprio per questa sua paradossalità apre il territorio della moralità e della responsabilità filosofica. Valga ancora una volta l’esempio: e stavolta non tanto quello del deposito, quanto quello del giudizio etico-teleologico sul progresso morale del genere umano. Avevamo detto che la legge del genere, quale legge morale dell’umanità, si applicava anche nel caso estremo dell’estinzione della specie o in quello in cui la specie fosse ridotta all’animalità. Ebbene, sembra che di fronte a situazioni simili l’obiezione sia legittima: a che pro, infatti, predicare il progresso morale del genere umano se scompare il soggetto stesso del giudizio? Ora, il paradosso (che è d’altronde un modo d’incontrare la verità andando contro l’opinione) resiste solo se si continua a pretendere che le serie, empirica ed ideale, si situino sullo stesso piano temporale o siano unificate da un meta-discorso. Se, al contrario, esse vengono mantenute nella loro divergenza (che pone dei problemi, ma, come già abbiamo visto, d’altro genere) la contraddizione cade. L’estinzione della specie o la sua riduzione all’animalità appartengono alla serie empirica, la destinazione morale a quella ideale; e come potrebbe allora la prima invalidare la seconda se nessuna generalità le accomuna? Se qualcosa le relaziona è un segno storico da un lato e la pratica del giudizio dall’altra o, come accade nella Critica della ragione pratica, una pura forma relazionale. Niente di più. Certo, senza l’esistenza materiale della specie, nessuna destinazione morale; ma anche nessuna apertura della differenza tra empirico e ideale: il problema cioè non si porrebbe neppure. Ma finquando c’è della specie umana, come alterità radicale e differenza ultima, c’è differenza fra serie empirica e serie ideale e si dà il problema del giudizio. È che l’orizzonte in cui ci si situa è un orizzonte d’immanenza: le domande si pongono a partire dal fatto che c’è della specie umana e c’è del discorso inter-soggettivo. Chiedersi se esse varrebbero in assenza della specie è impossibile oltre che privo di senso: non ci sarebbe infatti nessuno a porle. Il fatto è che anche quando io faccio l’ipotesi estrema dell’estinzione della specie, la faccio a partire dall’esistenza della specie (e come potrei non farlo se sono qui a formulare un giudizio e a chiedermi se è legittimo). Invece, la proposizione secondo la quale, una volta scomparsa la specie, non avrebbe più senso porre la questione della destinazione morale del genere, è falsa, dal momento che, una volta veramente scomparsa, non ci sarebbe nessuno a chiedersi se la legge sarebbe ancora valida nonostante la scomparsa della specie. Ma la

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vera questione è un’altra ed è eminentemente etica: di fronte al caso eccezionale, al caso estremo, la legge è delegittimata o proprio qui essa è più obbligante che mai? Ossia, in quel punto in cui il genere umano stesso appare in pericolo, al culmine della sua degenerazione; in cui la tentazione di cedere alla forza del mero accadere empirico è più acuta e più facili ed anche più consoni al criterio della massimizzazione del piacere sembrano la rinuncia al giudizio e l’abbandono all’indifferenza dei discorsi e delle forme di vita; ebbene non è in quel punto che risuona la voce della legge, quel ‘si deve’ che implica il massimo dolore? Ora, è proprio perché nella sua universalità la legge è vuota, che essa sopporta anche l’estremo della sua negazione: per essa il caso estremo è ancora e sempre una contingenza empirica ed essa si applica in ogni caso. E, d’altronde, non è la struttura della legge quella per cui mentre dice, ‘Tu devi’, aggiunge, ‘dunque, non puoi’? Cioè non è la legge nella sua universalità anche la legge dell’impossibilità o della degenerazione? E si noti: impossibilità, scacco e degenerazione non sono parti della legge alla stregua di sottoclassi che permetterebbero al soggetto di poterla infrangere in questi casi speciali. Essi sono l’altro lato della legge, si potrebbe dire, il suo volto nascosto, quello che si mostra solo in assenza, celato dietro un velo e che noi non vedremo mai. Ma che ascoltiamo: la legge, la verità morale del genere umano, parla; con una voce inflessibile che dice, ‘Anche là dove ti sembrerà impossibile, tu giudica’. E a questa voce fantasma risponde il desiderio che in essa riconosce quel tono di dolore e di morte attraverso il quale esso emerge e va incontro al godimento. Torniamo, ora, all’esempio del deposito e alla relazione di reciprocità. Abbiamo, dunque, da un lato la legge che nella sua universalità ordina il rispetto di se stessa in ogni caso senza alcun riguardo per le particolarità che affettano e la situazione concreta ed il soggetto agente, dall’altro la singolarità del caso concreto. Ciò che deve mediare fra serie ideale della legge e serie empirica dei casi è qualcosa che in primo luogo faccia astrazione dal livello della particolarità, che, dal suo canto, come sappiamo, è in stretta relazione con la generalità. Di conseguenza se l’atto del deposito viene spogliato della sua particolarità, esso si mostrerà semplicemente come una struttura relazionale: perché vi sia deposito, è necessaria la presenza di almeno due funzioni, quella del depositante e quella del depositario. Ed è evidente allora che, se dal punto di vista empirico un individuo determinato è il depositante ed un altro individuo il depositario, da quello della legge formale di

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reciprocità le funzioni sono equivalenti: in quanto pure funzioni logiche, termini che ricevono senso solo a partire dalla relazione stessa, esse sono intercambiabili32. Il soggetto del giudizio puro pratico subisce, così, attraverso la relazione di reciprocità, una prima scissione dall’io empirico che allo stesso tempo è: che egli sia il depositario di un deposito senza attestazione diviene irrilevante. Egli non può far leva sull’eccezionalità del caso, dal momento che in tal modo si porrebbe fuori dalla relazione di reciprocità: se egli fosse stato il depositante invece del depositario, la massima che ha elaborato non varrebbe più nemmeno per lui stesso. Egli ne elaborerebbe un’altra; ma in tal modo la massima si contraddirebbe, non avrebbe il valore di legge che d’altronde egli stesso le attribuisce. La massima resterebbe meramente soggettiva; di più, implicherebbe la diseguaglianza degli individui di fronte alla legge morale ben prima che a quella semplicemente giuridica. Ed, infatti, quella prima scissione del soggetto pratico introdotta dall’applicazione della relazione formale di reciprocità, prepara (ma d’altro canto ne è anche l’effetto) la scissione, invece, prodotta dalla voce della legge: quella cioè fra il soggetto del giudizio che presume di dire ‘io’ ed il fatto che egli è sempre e solo un ‘tu’ nella voce dell’altro. La relazione di reciprocità permette, infine, che tutti i soggetti s’istituiscano come soggetti morali a partire dalla comune asimmetria rispetto alla legge: reciprocamente uguali in quanto tutti ‘soggetti’ della/alla voce della legge. La questione che emerge ora dall’analisi dell’argomentazione kantiana non è tanto quella della legittimità in sé dell’assunzione della relazione di reciprocità quale analogon in sede pratica della forma della legge naturale affinché la legge morale sia applicabile alle azioni, quanto quella dell’apertura di un dissidio fra la reciprocità da un lato e l’asimmetria costitutiva della legge dall’altro33. Se è vero per un verso 32 Cfr J. Lacan, Kant avec Sade, cit., pp. 767-768 (tr. it., pp. 766-767). Sul tema della legge del genere come degenerazione si veda J. Derrida, La loi du genre, cit. 33 Sul problema della tipologia della ragione pratica e sulle questioni che solleva, si veda J.F. Lyotard, Le différend, cit., pp. 181-184 (tr. it., pp. 159-162). Sulla morale kantiana come momento decisivo del processo di interiorizzazione del potere connesso con il passaggio da una morale cetuale ad una morale borghese, si veda N. Pirillo, L’uomo di mondo fra morale e ceto. Kant e le trasformazioni del moderno, Bologna 1987. Ma sul processo della civilizzazione in generale si veda quell’autentico esempio di ‘genealogia della morale’ rappresentato dal libro di N. Elias, Über den Prozess der zivilisation, tr. it. di G. Panzieri, Bologna 1982.

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che la reciprocità permette il passaggio all’asimmetria, da un altro punto di vista esse restano logicamente differenti e possono, di conseguenza, divenire incompatibili. E ciò perché resta sempre uno iato, che l’analogia non è in grado di coprire, fra l’ambito pratico e quello teoretico da cui è tratta la relazione di reciprocità. In sede pratica l’emergenza del soggetto morale era dovuta alla vocazione proveniente dalla voce dell’altro d’ogni altro. Ciò impediva che il soggetto morale potesse valere come soggetto dell’enunciato e tantomeno come soggetto dell’enunciazione: egli era solo un ‘tu’ nella voce dell’altro, era detto in una frase a sua volta impossibile. La conseguenza era che il rapporto fra il soggetto e la legge non poteva in nessun caso essere pensato nella forma della reciprocità: semmai in quella di un avvolgimento chiastico o in quella della dialettica del desiderio, ma non secondo quella della intercambiabilità delle funzioni logiche. E ciò perché la frase della legge non è un enunciato constativo, bensì prescrittivo, ed il soggetto morale non è un soggetto logico, bensì patico. Ora, se la voce della legge non è riducibile ad una funzione logica, la relazione fra il soggetto e la legge non può avere la forma della reciprocità. Io non posso prendere il posto dell’altro come se noi fossimo i termini di una relazione logica: l’altro qui conserva in ogni caso la sua alterità radicale di fronte a me. La relazione che ci unisce non è d’ordine causale ne d’inerenza e tantomeno di reciprocità: è una relazione pratica, fondata sul sentimento del dolore che si trasforma in rispetto; ciò che ci unisce, lasciandoci tuttavia nella nostra radicale differenza, è la condivisione di un’assenza: assenza per me della possibilità di dire ‘io’, ma assenza anche per l’altro di potersi autoidentificare. L’altro è impersonale, è l’esser là di una voce che mi chiama. In altri termini, ciò che relaziona il soggetto e la legge è il desiderio che eccede da ogni lato l’economia ristretta dell’io: la legge non è altro che il precipitato del desiderio come desiderio dell’altro. La relazione di reciprocità è, al contrario, anti-asimmetrica per principio: l’altro mi è in linea di diritto uguale, simile perché ridotto come me alla pura funzionalità logica. Come termini della relazione noi siamo intercambiabili, proprio perché spogliati di ogni differenza empirica. Siamo soltanto i soggetti dell’enunciato logico di reciprocità che però a sua volta è legittimato dal soggetto trascendentale come soggetto dell’enunciazione: in altri termini, la validità della legge di reciprocità come legge naturale riguarda il soggetto epistemico. Ora, il rischio cui Kant va incontro è che la relazione di reciprocità non si limiti a neutralizzare soltanto le differenze empiriche, ma quale

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analogon di una legge naturale in sede pratica, neutralizzi anche quella differenza non empirica fra il soggetto del giudizio puro pratico e la legge. Essa, infine, rischia di emergere come la forma stessa della legge in quanto tale, riducendo l’asimmetria all’eguaglianza astratta propria del diritto naturale. La relazione di reciprocità può imporsi a detrimento dell’asimmetria della legge morale. È come se la neutralizzazione delle differenze empiriche operata dalla relazione di reciprocità facesse perdere di vista quell’asimmetria che, essendo propria della legge morale, affetta in realtà anche le relazioni inter-soggettive concrete: in altri termini, è la relazione di reciprocità l’unico modo per sfuggire alla logica patologica del caso singolo, o essa piuttosto non rende alla lunga difficile, se non impossibile, in contrasto col suo intento, proprio l’applicazione della legge all’azione determinata? Se, infatti, l’agire determinato vale solo in quanto esempio possibile di una relazione formale d’eguaglianza, non rischia d’essere preventivamente sottratto all’operare della legge? In altri termini, non sono le stesse relazioni concrete sempre asimmetriche, non tanto in nome delle differenze empiriche, quanto in nome della dialettica del desiderio? Quest’ultima presenta sempre un’asimmetria signore-servo, Maître-altro e noi sappiamo che tale asimmetria non riguarda la contingenza empirica, bensì la legge di struttura propria del discorso: qui l’asimmetria è la legge stessa incarnata in ogni caso. È anche vero che Kant sembra muoversi come se anticipasse la possibilità di un meta-racconto razionale del soggetto della scienza e ciò al solo fine di negarne la validità; meta-racconto secondo il quale la relazione asimmetrica, in base al lavoro dello spirito, potrebbe invertirsi e disporsi nella prospettiva dell’eguaglianza pienamente realizzata. Ciò abolirebbe l’anacronia fra l’emissione della voce della legge e la decisione del soggetto in favore di una diacronia orientata: negherebbe, in una parola, l’universalità della legge che vale in ogni caso. Ma non c’è dubbio che lo slittamento dall’asimmetria alla reciprocità ha come effetto quello di trasformare la legge da oggetto impossibile del desiderio in un’istanza autoritaria, in una forma mascherata di maîtrise: in una parola nella figura del Super-io sadico. Quanto più la massima assomiglierà alla legge della reciprocità formale, tanto più la voce della legge cesserà d’essere la vocazione alla responsabilità morale in ogni caso, per assumere le sembianze della radice della colpevolezza: prima d’ogni agire effettuale, il soggetto è già colpevole di fronte alla legge. Colpevole, non perché si appropri del deposito o per qualunque altra azione determinata, ma perché nel

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chiamare in causa la legge o nell’essersi sentito chiamato in causa da essa, si è manifestato come soggetto di desiderio: desiderio dell’altro in quanto tale. Il desiderio, allora, da luogo d’apertura della sfera della legge in generale, diviene ciò che essa deve costitutivamente rimuovere. La legge divenuta diritto punisce in linea di principio non l’eccezione, ma il carattere eccedente del desiderio; l’eguaglianza astratta identifica l’eccezione del caso singolo con il carattere eccedente del desiderio, il quale, in quanto privo di oggetto, si appoggia sulla differenza empirica, ma solo per sopravanzarla in vista del plus-de-jouir. Ora è proprio il plus-de-jouir come resto del desiderio che ripugna al criterio dell’eguaglianza nella reciprocità caro al diritto naturale borghese: tutti eguali di fronte alla legge. Ma quale legge? Quella morale o quella dello stato? È vero: Kant vorrebbe fondare la seconda sulla prima, legittimare il potere dello stato sul primato della legge morale. Ma se per far questo è costretto a ricorrere all’eguaglianza astratta non rischia di invertire la relazione di fondazione? La legge morale è pensata sul conio di quella naturale e la rimozione del plus-de-jouir rivaluta surrettiziamente le differenze empiriche; lo sguardo della legge non si appunterà di nuovo su queste ultime per neutralizzarle, proprio perché in esse avverte l’inquietante presenza del desiderio? La legge non è più il luogo della sospensione del desiderio, ma quello della sua abolizione: se il desiderio è sempre desiderio di riconoscimento, cioè di soggettivazione; se la legge morale come voce dell’altro è ciò a partire da cui la soggettività morale può emergere, allora la sua riduzione a Super-io sadico comporterà che ciò che sarà punito sarà proprio tale desiderio d’essere soggetto: libero perché corrisponde alla voce. Di fronte al Super-io sadico che predica adesso l’eguaglianza astratta, nessun soggetto, ma solo individui legati alla loro minorità morale, costretti in essa. Il progetto del rischiaramento, se evita l’illuminazione mistica, decade però, in base ad una dialettica dell’illuminismo, che è nel suo fondo dialettica del desiderio, ad origine di un universo della sudditanza generale e della manipolazione. Tutti sudditi e nessun soggetto: nemmeno quello paziente della moralità, soggetto perché soggetto alla voce o soggettivizzato dall’ascolto della voce dell’altro. Super-io sadico, dunque: ed ecco allora Sade. La voce libertina ha, come si è detto, un tono di ragione: la stessa dell’Aufklärer. Forse dall’aristocratico ci si sarebbe attesi un tono distinto, elegante, pretenzioso e perché no profetico o visionario. Nulla di tutto questo: nel momen-

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to in cui la voce sadiana si fa profetica, essa assomiglia esattamente a quella che legittimava il giudizio sul progresso morale del genere umano. Riapriamo La philosophie dans le boudoir: scritta in pieno clima rivoluzionario, contemporanea ai testi kantiani che stiamo analizzando, l’operetta pedagogica parte dalle stesse premesse dell’Aufklärer. Anche per essa la rivoluzione apre la via alla realizzazione effettuale del diritto naturale: decapitando, alla lettera, la fonte dell’autorità eteronoma rispetto alla libertà degli individui, rende possibile l’affermazione di una costituzione civile fondata sulla libertà e sull’eguaglianza. Eppure essa non perde mai di vista che, al fondo del diritto all’eguaglianza, corre la corrente del desiderio: è, cioè, a partire dall’istanza del plus-de-jouir che lo stesso concetto d’eguaglianza acquista tutto il suo valore e la sua portata rivoluzionaria. Quasi a metà dell’itinerario educativo, in mezzo fra un’evoluzione corporea ed un’altra, maestri e discepola si concedono un breack un po’ più lungo del solito. Non tanto per stanchezza, quanto perché, come si è detto, un discorso, tanto più se razionalmente fondato e lucido fino al cinismo, è ciò che meglio eccita di qualunque altra cosa il desiderio e porta al godimento. Un libello gira per Parigi, dice uno degli educatori; lo ha letto e lo ha trovato tanto istruttivo ed esemplare da proporlo ora alla lettura comune: ché se ne tragga tutti, ed in particolar modo la fanciulla affidata alle loro cure, chiarezza e decisione. Il titolo del libello? Francesi, ancora uno sforzo per essere repubblicani34. Qual è lo sforzo ancora da farsi per divenire compiutamente repubblicani, per portare a compimento l’opera della rivoluzione? Abbiamo decapitato il re-padre-logos, ma ce ne siamo liberati veramente e fino in fondo? Coloro che, al posto della vecchia autorità, elevano statue alla dea della ragione, che parlano in nome della virtù, di una virtù che, non solo va a volto scoperto, ma che guarda e scruta ogni nostro comportamento per bollarlo come immorale e quando ci scopre ci fa fare la stessa fine del re, ebbene costoro che si sono proclamati gli eredi ed i difensori della rivoluzione, non sono in realtà le ultime propaggini del vecchio regime? Di quel regime morale e civile che si fonda sul primato della virtù? Ora, la morale della virtù è in netto contrasto con i principi rivoluzionari della libertà e dell’eguaglianza: essa non soltanto ostacola la 34 Cfr. D.A.F. De Sade, La philosophie dans le boudoir, cit., pp. 193 sg. (tr. it., pp. 155 sg.).

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felicità individuale e collettiva, ma nega il diritto fondamentale d’ogni essere umano: il diritto al godimento. Se il diritto di cui si parla, di cui parla anche il difensore della virtù, è il diritto naturale, non è la natura stessa che, con voce inflessibile, si potrebbe dire, ordina il godimento? Perché la virtù si oppone all’esercizio dei più disparati gusti sessuali, anche se sono perversi, se è la natura ad averli inculcati negli individui? E perché, infine, la virtù nega il godimento particolare del delitto, se la natura non fa altro che creare e distruggere, se anzi crea a partire dalla, ed in vista della, distruzione? Domande legittime, conseguenti con le tesi del diritto naturale e che conducono ad una sola soluzione: bisogna intraprendere la via dei vizio se si vuole essere rivoluzionari e repubblicani fino in fondo. La virtù conduce alla sventura solo perché essa è lo strumento intimidatorio di un’istanza di dominio che solo surrettiziamente porta il nome di rivoluzione; il vizio, al contrario, rispettando l’ordine della natura, rende gli individui liberi di provare quel di più di felicità che è il godimento. Ma non ci si inganni: l’ordine della natura non ha nulla a che vedere con un enunciato constativo, non è un enunciato scientifico che si limita a descrivere la legge della natura ed a trascriverla come legge generale dell’agire individuale. Come Kant, anche Sade, che pure è riconducibile alla tradizione del materialismo tardo settecentesco, sa che in sede pratica non c’è posto per i constativi, bensì autonomia radicale degli enunciati prescrittivi. L’enunciato del godimento, dunque, ha una forma simile a quella che presenta in Kant: esso non dice, ‘Io ho diritto al godimento’, perché un soggetto epistemico ha legittimato, come vero scientificamente, un enunciato del tipo, ‘L’individuo umano, in quanto sottoposto alle leggi di natura, ha diritto al godimento’. Niente di tutto questo: per l’enunciato dei godimento, l’individuo non è il soggetto dell’enunciato né quello dell’enunciazione: anche qui egli è un ‘tu’ nella voce di in altro. La massima sadiana non è, dunque, né una massima che si fonda sul discorso scientifico, né una massima di tipo patologico: essa non riguarda a nessun titolo l’io empirico, né tantomeno la felicità che promette è quella del principio del piacere. Come quella di Kant, la massima sadiana parte dalla tesi che il desiderio è tale da emergere soltanto a partire dall’esperienza del dolore, dalla messa in crisi del principio del piacere: non c’è soggetto del desiderio se non a partire dallo squilibrio che deve colpire l’io empirico del piacere. Qual è, dunque, la massima sadiana? Eccola nella versione che ne dà Lacan, traendola dai vari luoghi testuali in cui è disseminata: «Ho il

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diritto a godere del tuo corpo, può dirmi chiunque, e questo diritto lo eserciterò, senza che nessun limite possa arrestarmi nei capriccio delle esazioni ch’io possa avere il gusto di appagare»35. La massima presenta tutte le caratteristiche della legge morale ed ha, dunque, valore di legge. Analizziamole nel dettaglio: in primo luogo che cosa mi fa emergere come soggetto di desiderio? Il venire a me di una voce che dice, ‘Io ho diritto a godere del tuo corpo’. Prima dell’esser là della voce, era forse il mio corpo oggetto per me di desiderio e di godimento? No! Forse oggetto di piacere, ma non di godimento. Perché lo fosse anche per me, era necessario che una voce me lo facesse cogliere come oggetto di godimento altrui, e solo dopo, in base ad un processo che si potrebbe definire di transfert, esso diviene oggetto di godimento anche per me. Ma perché tale passaggio avvenga, non è necessario che il mio corpo cessi appunto d’essere il mio corpo, cioè il corpo proprio come luogo dell’apertura della mia identità, della mia stessa possibilità di dire ‘io’? L’enunciato del godimento mi fa emergere, come si vede, come soggetto di desiderio proprio a partire dall’esperienza del dolore, cioè della messa in crisi del principio del piacere, della spaccatura che viene ad attraversare l’io-piacere. Tale dolore, tuttavia, non ha nulla della crudeltà che normalmente si associa alla perversione sadica: è sufficiente a produrlo, secondo il suo concetto, la semplice manipolazione, anche la più affettuosa, cui sia sottoposto il mio corpo, perché con essa avviene la scoperta, non necessariamente cosciente, che la manipolazione del mio corpo è fonte del godimento altrui. Si potrebbe dire così che si dà soggettività in generale a partire da un certo sadismo dell’altro, anche quando abbia assunto le sembianze del più puro amore materno, e da un certo masochismo dell’io. Se il sadismo è una perversione esso indica soltanto che il soggetto di desiderio è per-verso: sottratto all’identità del corpo proprio e rivolto a soddisfare d’ora in poi il desiderio dell’altro: era la formula lacaniana del desiderio. Esattamente come in Kant, quindi, dove la voce della legge spaccava, costituendolo, il soggetto nell’io empirico-patologico e nel ‘tu’ della soggettività morale, così in Sade la voce di un altro lo spacca nell’io-piacere, da un lato, e nel ‘tu’ soggetto del godimento altrui, dall’altro. Certo, quest’ultima voce è molto meno austera, meno divina; e

35

J. Lacan, Kant avec Sade, cit., pp. 768-769 (tr. it., p. 768).

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tuttavia non meno inflessibile e soprattutto non meno dolorosa. Non rivolgendosi all’io-piacere, essa, come quella kantiana, va contro l’istanza del benessere, contro l’economia ristretta; scrive ed enuncia, al contrario, l’economia generale del desiderio come plus-de-jouir. Ma a differenza della voce della legge kantiana, la voce che dice il diritto al godimento non ha bisogno di nessuna immagine divina per raffigurarsi; la sua impersonalità, che Kant indicava attraverso il ricorso al registro dell’extra-umano, è da Sade ricondotta alla sua fonte: per il luogo in cui la massima si enuncia, la voce non può essere altro che quella anonima ed impersonale, non del popolo, ma delle masse liberate attraverso la rivoluzione dal giogo della virtù. Quell’io che ancora vi compare per esigenze semplicemente grammaticali, è in realtà quanto di più non identitatario possa esservi: è chiunque: chiunque può dirmi, ‘Io ho diritto a godere del tuo corpo’. E a tale diritto io non posso rifiutarmi, non posso non corrispondere, pena l’inesistenza di me come soggetto di desiderio e la conseguente impossibilità a valermi a mia volta del diritto che la legge sancisce. Se io non fossi dapprima oggetto del godimento dell’altro come potrei dire a mia volta, ‘Io ho diritto a godere del tuo corpo’? Come potrei avere cioè una conoscenza a priori del fatto che il corpo è tale perché oggetto del godimento dell’altro e che il desiderio è sempre desiderio dell’altro? Come si vede, non è soltanto l’asimmetria fra la legge del godimento ed il soggetto ciò che la massima sadiana conserva quando la si confronti con la posizione kantiana, ma anche il principio della reciprocità. Se per un lato io sono soggetto di desiderio solo a partire dall’asimmetria costitutiva rispetto alla voce dell’altro, per un altro la voce è la voce di chiunque: il suo essere senza identità e priva di nome proprio permette a chiunque, che abbia rispettato l’asimmetria della legge, di poterla incarnare. E, tuttavia, vedremo che tale reciprocità non è formale come quella di Kant. Ora, che le posizioni, nel godimento, siano intercambiabili e, quindi, reciproche, è dimostrato (e mostrato) in abbondanza dagli educatori della piccola Eugenie, e da lei stessa, che non esitano a trovare il loro godimento nell’esser attivi come passivi, nel sottoporre il corpo altrui come il proprio alle stesse sevizie e che tentano forse l’impossibile di una combinatoria completa del godimento: operazione ossessiva quasi quanto il procedere kantiano. Ma quel che conta qui è che, comunque, la reciprocità non toglie che durante il corso della figurazione erotica, la relazione fra di loro resti asimmetrica. Nessuna idealizzazione formal-giuridica è in grado di ridurre la

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differenza fra colui che gode e colui di cui si gode, fra, come li chiameremo d’ora in poi per comodità (ma non solo per questo), l’aguzzino e la vittima. È vero che anch’essi sono i termini di una relazione, la relazione del godimento, senza la quale non sussisterebbero nemmeno, ma allo stesso tempo non sono tanto formalmente uguali da poter essere intercambiabili. La relazione fra l’aguzzino e la vittima deve definirsi di tipo dialettico e non formalistico: vale a dire che là dove c’è un aguzzino deve esserci sì necessariamente anche la sua vittima, ma non come altro speculare, secondo la relazione logico-formale di reciprocità, bensì appunto come sua negazione dialettica. Ora, si può notare come la posizione sadiana realizzi ciò che era al fondo della tesi kantiana, e cioè che la legge si applica al caso singolo, o si applica in ogni caso. L’eliminazione della relazione formale di reciprocità permette di riconoscere l’analogia di struttura fra il rapporto che lega il soggetto alla legge e quello che lo unisce dialetticamente all’altro soggetto. E ciò perché la differenza fra aguzzino e vittima non è d’ordine empirico e, dunque, non è necessario che sia tolta attraverso un processo di formalizzazione, bensì è strutturale, inerente al discorso del godimento. In altri termini, l’unica forma che essa sopporta è esattamente quella della relazione asimmetrica. Si potrà chiarire ulteriormente la differenza fra la relazione formale di reciprocità e quella dialettica, se chiameremo in causa la dimensione del tempo come dimensione costitutiva dell’inter-soggettività in generale. È abbastanza evidente che la relazione formale di reciprocità implica la sottrazione dell’esperienza della differenza temporale: l’eguaglianza e l’intercambiabilità dei termini della relazione derivano appunto dal fatto che essi sono enucleati dalla concreta differenza temporale e proiettati in una regione logica la cui cifra temporale potrebbe essere indicata come metacronica. Dire che la relazione è reversibile – che, cioè, il depositario occupa sempre anche il posto del depositante, che egli può scambiare di posto, pensarsi contemporaneamente dall’altra parte della relazione –, significa che qualunque differenza di tempo, qualunque resto, sono qui fuori gioco. Come scrive Lacan: «La reciprocità, relazione reversibile in quanto si stabilisce su una linea che unisce in modo semplice due soggetti che per la loro posizione ‘reciproca’ considerano equivalente la relazione, difficilmente trova modo di porsi come tempo logico di un superamento del soggetto nel suo rapporto col significante, e meno ancora come tappa

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di uno sviluppo (...) Comunque sia, già un punto a favore della nostra massima è di poter servire come paradigma di un enunciato che esclude la reciprocità come tale (e non il render la pariglia)»36. Come si costituisce allora la reciprocità formale? A partire dal fatto che, poiché i soggetti della relazione si trovano in una posizione ‘reciproca’ – nessun aguzzino senza la sua vittima –, essi, per sfuggire al dolore prodotto dall’asimmetria, ritengono la relazione stessa reversibile. Ora, la reciprocità delle posizioni non implica per nulla la reversibilità della relazione o la sua atemporalità. Se ciò avviene è ancora una volta in nome dell’economia ristretta e della conseguente rimozione del desiderio. Una reciprocità sottratta alla reversibilità formale, che lasci cioè al desiderio il suo carattere di relazione asimmetrica, è piuttosto, dice Lacan, vicina al concetto del ‘render la pariglia’ (la change de revanche): il soggetto emerso come soggetto di desiderio attraverso la posizione di vittima, può in seconda battuta, in un secondo tempo, farsi voce di chiunque e dire, ‘Io ho diritto a godere del tuo corpo’. In seconda battuta, cioè in un tempo che è strutturalmente differito rispetto a quello della sua costituzione come soggetto di desiderio. Un primo tratto della temporalità è questo: il soggetto non è mai sincronico alla sua formazione: è, si potrebbe dire, strutturalmente in ritardo – zoppica. Ma perché questo? Perché dal suo canto l’ordine simbolico-linguistico è sempre da pensarsi come antecedente – un’antecedenza logica e non semplicemente genetico-empirica – rispetto alla formazione del soggetto. Ma in quanto antecedente esso è sempre un passo avanti al soggetto; il quale fatica appunto a tenergli dietro: è null’altro che la tesi lacaniana dell’immaturità del piccolo uomo, della sua minorità strutturale, del suo aver bisogno, per divenire veramente umano, dell’amore dell’altro. Ed è appunto questo il problema. Noi sappiamo che il soggetto è tale solo quando agganci un significante attraverso il quale possa rappresentarsi presso tutti gli altri significanti. Ma dal momento che il sistema dei significanti, il sistema simbolico-linguistico, fa blocco davanti al soggetto e non sembra disposto a rallentare la sua corsa per permettere a quest’ultimo di trovare il suo posto all’interno della struttura, ecco che il soggetto dovrà come affrettare il passo e prendere al volo quel significante che, se gli è messo a disposizione per la sua autoi36

Ivi (tr. it., p. 769). Sul tema del tempo in etica si veda J.F. Lyotard, Le différend, cit., pp. 184-186 (tr. it, pp. 162-163).

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dentificazione, lo è solo in quanto attraverso esso si realizza il desiderio dell’altro. In altri termini, la condizione a partire da cui un soggetto sarà riconosciuto come tale e significato presso il sistema della significazione in generale, sarà quella di essere sempre e soltanto il significante del desiderio dell’altro; tale, dunque, è la sua identità: essere ciò attraverso cui il desiderio dell’altro giunge alla significazione. Ma se tale è anche la sua emergenza come soggetto di desiderio e, dunque, come soggetto tout court, il suo desiderio consisterà nell’essere oggetto del desiderio dell’altro, oggetto del suo godimento. Ora, come si può vedere, la situazione del soggetto è quella della mancanza di tempo: c’è solo un residuo di tempo per pervenire alla significazione soggettiva: se il soggetto perde l’incontro col significante del desiderio dell’altro, egli è destinato a rimanere al di qua della specie o ad andare al di là del genere. Legare la logica al tempo (giacché è pur sempre della formazione del soggetto logico-epistemico che si tratta) attraverso la dialettica del desiderio, non significa né situare il soggetto in una regione trascendentale separata dalla temporalità empiricamente considerata, né interpretare il tempo come il tempo del racconto del soggetto della scienza; significa piuttosto fondare il livello propriamente logico su di una sintesi temporalizzante i cui poli dialettici sono l’anticipazione ed il ritardo. Se una discordia temporale affetta il soggetto questa è fra la fretta di concludere e la lentezza di un passo zoppicante ed ogni soggetto paga lo scotto per aver avuto fretta con un ritardo strutturale rispetto alla propria significazione, ritardo che altro non è che la cifra temporale della sua scissione. Infatti, al ritardo strutturale del soggetto rispetto al tempo della propria formazione, corrisponde l’anticipazione della certezza soggettiva; termine, quello di certezza, che qui va preso nel senso forte cartesiano: certezza dell’indubitabilità dell’io penso. Ossia, la certezza di essere nel gioco della significazione in generale ben prima che ciò sia convalidato dal registro della verità. Che è esattamente quanto Lacan articola attraverso l’apologo dei prigionieri37: conquista la libertà, cioè la soggettivazione, colui che sull’attesa altrui, dunque, sul suo ritardo, può anticipare di portare sulle spalle il significante adatto, quello che significa il desiderio dell’altro. Ora, questa deduzione – ché tale è infatti: un calcolo logico che potrebbe andare all’infinito se non fosse interrotto da una 37 Cfr. J. Lacan, Le temps logique et l’assertion de certitude anticipée, in Écrits, cit., pp. 207-211 (tr. it., pp. 201-205).

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decisione dovuta appunto alla fretta di concludere –, la cui cifra è la rapidità, il battere sul tempo gli altri compagni di sventura, e che assomiglia ad una forma di auto-legittimazione a dirsi soggetto, avviene, tuttavia, sulla base di una cecità essenziale: il soggetto, che non può, come tutti, vedere dietro le proprie spalle (nell’apologo: che non può vedere quale segno stia sulla sua schiena), accede alla significazione soggettiva senza nessun sapere di sé preventivo: nessuna visione preliminare, se non quella dell’altro, illumina il processo della sua costituzione. La béance che così si viene ad aprire nella struttura del soggetto è in quanto tale ineliminabile: fra il soggetto ed il suo significante, cioè il significante del desiderio dell’altro, vi sarà sempre uno iato o un resto di tempo: in una parola un plus-de-jouir. Tale béance, tuttavia, che sembrerebbe l’indice di una impossibilità, è, al contrario, ciò che salva il soggetto dall’insignificanza, dal balbettio pre-umano, ma insieme dal delirio della ragione. Non è forse attraverso tale breccia che infine passa la voce della verità, la voce della dea velata o la voce di chiunque, voci che riconducono il soggetto alla sua finitezza discorsiva, al suo esser soggetto del desiderio – dell’altro? Ebbene, sono le vicissitudini di questa béance, da cui proviene la voce del desiderio, che noi abbiamo tentato di ricostruire nel mettere insieme Kant avec Sade; la sua emergenza nel testo kantiano ed il suo rapido scomparire dalla superficie del discorso, senza che ciò, tuttavia, evitasse che lasciasse dei resti. L’analisi della posizione sadiana ha permesso di smontare – vera isterizzazione, perlomeno per un lato, del discorso filosofico – il dispositivo attraverso il quale Kant rimuoveva nel formalismo giuridico l’istanza del desiderio e trasformava la voce della legge nella figura super-egoica. Alla relazione formale di reciprocità Sade ha permesso di contrapporre, individuandola allo stesso tempo come la verità del rapporto del soggetto alla legge, quella reciprocità che implica l’asimmetria, che conserva nella figura del godimento la differenza temporale. Nella relazione formale di reciprocità i soggetti sono sì presi come dei significanti, ma solo nel senso di simboli logici sottoponibili ad una manipolazione calcolatoria. Nell’asimmetria, invece, il significante vale come significante del soggetto di desiderio, separato da una differenza di tempo irriducibile dal sapere di sé e, dunque, dall’altro soggetto. Ma, d’altro canto, noi abbiamo sempre ripetuto con Lacan che, se l’accostamento fra Kant e Sade era possibile e significativo, ciò era dovuto al fatto che la voce libertina aveva in fondo un tono di ragione. In altri termini, anche Sade rimuove infine la béance e la sua incar-

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nazione terrestre: il sesso femminile: velato là e, come si vedrà, cucito nell’ultima scena della Philosophie dans le boudoir. Ma prima di giungere a questo, vorremmo mostrare un luogo in cui la voce libertina s’insinua nel testo dell’Aufklärer a riprova che ‘Kant avec Sade’ non è un accostamento prodotto da una immaginazione senza regole, ma una costellazione ideale della riflessione filosofica. Tale luogo è quello in cui Kant, dovendo mostrare come anche l’esperienza confermi il nostro essere coscienti della legge morale come di ciò che rende una volontà libera, si volge ai seguente apologo: «Supponete – scrive – che qualcuno asserisca della sua inclinazione lussuriosa, che essa gli è affatto invincibile quando gli si presentano l’oggetto amato e l’occasione propizia; e domandategli se, qualora fosse rizzata una forca davanti alla casa dove egli trova questa occasione, per impiccarvelo non appena avesse goduto il piacere, in tal caso egli non vincerebbe la sua inclinazione. Non ci vuol molto a indovinare ciò che risponderebbe»38. E continua: domandategli, adesso, cosa farebbe se il suo principe sotto la minaccia della stessa morte gli ordinasse di fare falsa testimonianza contro un uomo onesto: si vedrebbe allora che in questo caso, per quanto grande fosse il suo amore per la vita, egli sarebbe conscio di poterlo vincere. La morale dell’apologo è chiara: mentre la lussuria, posta di fronte al pericolo della morte, rinuncerebbe al suo godimento, la moralità affronterebbe la morte a testa alta; anzi il poter rinunciare alla vita sarebbe la prova che la volontà è libera solo quando si conforma alla legge morale. E fin qui nulla di nuovo. Ciò che fa problema è quel ‘non ci vuol molto ad indovinare ciò che egli risponderebbe’, giacché, al contrario, ci vuole molto più tempo di quanto immaginasse Kant a capire che egli intende qui che il lussurioso, vista la forca, scapperebbe via a gambe levate. Non c’è lettore – perverso come tutti – che non sia stato sfiorato dal pensiero: si precipiterebbe dall’oggetto amato. Quale godimento più estremo, infatti, di quello il cui culmine fa tutt’uno con la morte? Se il godimento è possibile a condizione di portare scacco al principio del piacere e si fonda sul sentimento del dolore, allora quello provato sotto la minaccia della morte costituisce la vera gioia del libertino39. È che qui Kant gioca d’anticipo, anche lui preso dalla fretta di 38

KW, V, 30 (37). Si veda l’osservazione di Lacan a questo riguardo: J. Lacan, Kant avec Sade, cit., pp. 781-782 (tr. it., p. 782). 39

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concludere o di concatenare troppo presto: vuole evitare una conclusione che forse presentiva, ma che gli risultava inaccettabile; si affida allora, più che al desiderio, al buon senso borghese; la domanda è retorica: di certo fuggirebbe. La fretta è per non vedere quel che egli stesso iscrive: il desiderio, come desiderio dell’altro, è desiderio della legge stessa, dell’alterità radicale, della dea velata o della voce di chiunque. E la legge riconosce il soggetto solo in quanto scisso, lungo il solco della sua béance: che è come dire: morto. E, d’altronde, come altrimenti avrebbe potuto raffigurarla Kant la legge se non in quell’unico modo – una forca – che in base all’esito del suo discorso corrisponde al suo statuto più vero? Come cioè l’istanza che punisce il desiderio? Non è un caso allora che, nel momento stesso in cui la figura libertina entra nel testo kantiano, immediatamente la legge si mostra come un Super-io sadico. C’era bisogno della voce del desiderio perché quella filosofico-razionale prendesse la stecca del dominio. Se ciò mostra quanto Sade metta a nudo Kant, indica, per converso, che, in fondo, la forca s’addice al libertino. Come ha dimostrato Pierre Klossowski40, l’atteggiamento blasfemo è la cifra del desiderio della legge: quanto più il libertino irride dio, tanto più si aspetta di vederlo fuoriuscire dall’assenza in cui lo ha relegato la Neuezeit: vuole che si manifesti, infine, fosse anche come un dio della collera. La ricerca del godimento, così razionalizzata ed ossessiva come è in Sade, ha di mira, in realtà, che la ripetizione abbia fine: fra il soggetto ed il desiderio la differenza deve essere abolita. Là dove a questo scopo non soccorre più la virtù, responsabile d’altronde, nell’epoca rivoluzionaria, dell’assentarsi di dio, ecco che il libertino affida al vizio il compito (tal quale un terrorista morale smaliziato o, come sostiene Klossowski, secondo il procedimento dell’eterodossia gnostica41), di provocare l’emergenza di una legge, che come un Super-io sadico, si erga a far da sbarramento al ritorno del plus-de-jouir. In opere precedenti e successive alla Philosophie dans le boudoir (scritta dopo il 1791 ed edita nel 1795, dunque in piena epoca rivoluzionaria; ma non si dimentichi che il governo della virtù getta il repubblicano Sade in carcere esattamente come quello dell’ancien régime) questo operare del pensiero libertino è reso esplicito. Testi come Les 120 40 Cfr. P. Klossowski, Sade mon prochain. Le philosophe scélerat, Paris 1967, tr. it. di A. Valesi, Milano 1970, soprattutto pp. 101 sg. 41 Cfr. ivi, pp. 189-190.

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Journées de Sodome, ou l’Ecole du Libertinage (scritto alla Bastiglia nel 1785) o come l’intera storia di Juliette, mettono in scena la ripetizione ossessiva del tentativo del Maitre o dell’aguzzino di abolire l’altro – vittima o servo. Il Maître tenta di sfuggire alla dipendenza dall’altro che mette in scacco il suo desiderio di sovranità assoluta; egli si erge contro il desiderio che è sempre e soltanto desiderio dell’altro. Lucidamente Lacan ha colto, come culmine dell’esperienza sadiana, la rivolta del libertino contro quella stessa natura che invocava come giustificazione del suo abbandono al vizio. Essere iscritti nell’ordine della natura che, se prescrive la distruzione, è solo per creare, è per il libertino una dipendenza insopportabile; a che serve uccidere se una vittima – l’altro – risorgerà dalle sue ceneri? A che pro vivere se per essere Maître, sovrani, c’è bisogno del servo? È questa ripetizione che il libertino abborre. Il libertino sogna, come scrive Lacan, la doppia morte: non solo, dunque, la morte che coglie ogni essere finito, ma anche quella che mi sottrae all’ordine della natura: ritornare allo stato della materia inanimata non mi salva dal rinascere anche se sotto un’altra forma, non mi libera dal processo della materia universale scandito dai battiti della distruzione e della creazione. Il sogno del libertino, il suo delirio – che è un delirio della ragione – è che non resti nulla, nemmeno un pugno di cenere. Quella differenza, quel resto di tempo, quel più-di-godimento, per i quali è soggetto, devono scomparire: è la natura intera che deve sprofondare. Non scade, allora, anche la voce libertina nel tono apocalittico? Non coincidono alla fine, anche per essa, la fine ed il fine della ripetizione? Scopo del godimento è che non vi sia più godimento, per nessuno. Certo, la voce libertina come quella dell’Aufklärer si oppongono insieme al tono pretenzioso ed aristocratico del mistagogo: sono voci rivoluzionarie, sebbene la prima abbia un tono sicuramente più plebeo. Ma entrambe, infine, trapassano nel tono apocalittico: profetizzano la costituzione finalmente civile, la repubblica veramente tale. Ed insieme, sospese nell’impasse del desiderio, rischiano la cantilena della demenza. Quando? Quando, in nome della ragione, pretendono la chiusura del discorso, l’eliminazione del resto, l’abolizione del plusde-jouir. Che cosa separa, alla fine, la voce kantiana della legge che «pare quella di un giudice»42, e alla quale l’uomo deve render ragione di sé, da quella dei quattro libertini che, chiusi in un castello, separati da tutto e da tutti, tentano, non solo di distruggere le loro vittime, ma di non lasciare alcuna traccia della loro scelleratezza? Quasi nulla. 42

KW, V, 445 (325).

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Non si potrebbe dire che il libertino, come l’Aufklärer, combatte contro il silenzioso lavoro della pulsione di morte, ossia contro la ripetizione? Ma se questo è vero per i testi succitati, non sembra valere per La philosophie dans le boudoir, tanto il trattatello pedagogico ha un tono libertario – da liberazione sessuale, per intenderci –, allegro, quasi solare. Ma è solo perché qui Sade, da buon rivoluzionario repubblicano, profetizza (come ha fatto anche in Aline et Valcour, scritta qualche anno prima) quel piccolo sforzo che ci farà entrare nel paradiso del godimento. Parallela all’eguaglianza astratta dell’Aufklärer – quell’eguaglianza che si trasforma nella sudditanza di tutti –, corre nel testo libertino l’utopia della condivisione del godimento: da quale tratto la riconosceremo? Alla fine d’ogni figurazione erotica, in modo spontaneo o voluto, gli educatori e la loro discepola, raggiungono simultaneamente l’acme del godimento. Tutti allo stesso tempo gridano, ripetono quel balbettio già conosciuto: ‘Vengo’, ‘Non resisto’, ‘Quanto mi piace’. Questo è il loro sogno. Lungo la via del vizio, il libertino riproduce la stessa utopia aristofanesca del Simposio: il godimento è al di là della differenza sessuale. Ed, infatti, ecco uomini che si lasciano sodomizzare e donne che si procurano un finto fallo perché la legge della differenza sessuale non abbia più corso. Ma se i sessi sono aboliti, anche il soggetto sarà finalmente coincidente con il suo godimento; ed allora nessuna differenza di tempo s’interporrà più fra il desiderio ed il suo oggetto, fra il desiderio e l’altro. Battere insieme il tempo del godimento è il delirio degli esseri umani finiti: vivere fuori della differenza del tempo e dell’asimmetria del godimento. Non c’è qui perfino un certo tono mistico? Il tono dell’estasi erotica? Il deliquio che, strappandoci illusoriamente alla finitezza, dovrebbe renderci uguali, in-differenti in nome della reciprocità del godimento? Si comprende allora perché quando la differenza sessuale si presenta sulla scena dei libertinaggio sotto le spoglie della madre di Eugenie, l’orrore colga sia i pedagoghi che la fanciulla ormai sufficientemente educata: la materialità della riproduzione, quella provenienza insondabile della vita, vengono a disturbare la loro utopia43. E che non sia questione di virtù, lo dimostra il fatto che la loro attenzione corra subito al sesso: il libertino vuole tagliare il filo dell’unica filiazione che 43

Sul ruolo della madre cfr. P. Klossowski, Sade mon prochain. Le philosophe scélerat, cit., pp. 179 188.

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lo lega alla materia, all’aborrita natura: la filiazione materna. Un padre, infatti, ci si può sempre illudere che si sia fatto da sé, come quel dio che il libertino invoca attraverso la bestemmia: egli non vuol vederne la deriva. Ed è per questo che di fronte ad un sesso che non si lascia governare da un Super-io sadico, egli ricorre all’unico gesto che gli resta. Non basta più velarlo; bisogna chiuderlo, cicatrizzare la ferita orribile, riempire il buco (non è la sua ossessione? Occupare tutti i buchi del corpo in vista del sogno di un corpo glorioso, levigato e puro?). Via allora al lavoro: immobilizzata la donna, le si cucirà il sesso (ago e filo non sono gli emblemi dei lavori domestici?), non prima di avervi iniettato lo sperma venefico di un servitore pronto all’uso. Il femminile resta il fuori-scena, anche della scena del libertinaggio. Ma una volta chiusa la béance, nessuna voce è più possibile: solo un rumore di fondo incomprensibile. La perversione sadiana (la père-version, come legge Lacan: la riconversione al mito di una paternità viva, non scalfita dalla morte; anche se tale vita coincidesse con la nostra distruzione) illumina quella che si celava nel testo kantiano: la voce della ragione ha un tono di dominio. Essa combatteva il mistagogo, lottava contro la castrazione della filosofia, per l’eredità e per il diritto a portare il nome di filosofo. Contro il mistagogo innamorato della sua visione allucinata, l’Aufklärer come il libertino hanno affermato che la verità parla. Era questa voce che ci salvava dal tono pretenzioso ed aristocratico che nei tempi recenti veniva adottato in filosofia. Anche quando si faceva profetica ed apocalittica, la voce filosofica non perdeva il suo tono di ragione. Che cosa dice allora questa voce, la voce della legge e del desiderio, la voce della dea velata, la voce di chiunque, di tanto orribile che entrambi si tappano le orecchie ed invocano infine la voce di pietra di un padre che li riduca in cenere? Dice, ‘Ancora’, dice che c’è sempre un resto, un più-di-tempo, un plus-de-jouir. Ordina l’attesa che non ha nulla da attendere. Dice che proprio perché la filosofia è desiderio della verità e dal momento che la verità parla, la filosofia non può eludere la sua costitutiva finitezza. Essa è un discorso inconcluso, che corrisponde ad un’altra voce e desidera il radicalmente altro. Le modulazioni della voce filosofica – tono razionale, libertino, profetico, apocalittico e perché no anche la stonatura mistica –, modulazioni che costituiscono la partitura del testo filosofico, la sua cadenza, il suo passo musicale e di danza, sono l’iscrizione del desiderio e delle sue vicissitudini. E il desiderio, anche quello della verità, è desiderio dell’altro. Colui che porta il nome di filosofo,

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che si legittima ad essere filosofo, risponde alla voce. Essa dice: ‘Attendi, sospeso sul tuo passo, attendi’.

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Capitolo decimo La legge del dialogo. Maurice Blanchot e il disastro del pensiero

Nous recevons notre Moi connaissable et reconaissable de la bouche d'autrui. Autrui est source, et demeure si substantiel dans une vie psychique qu'il exige dans toute pensée la forme dialoguée. P. Valery, Cahiers

Delle voci dialogano. Scambiano parole e frasi; domandano, rispondono. Nessun tratto biografico-psicologico le identifica; solo una certa vecchiezza, il tono stanco della voce, la cortesia dei modi, un’amicizia discreta, un accordo così intimo da non aver bisogno di dichiararsi. Dal loro dialogare nessuna verità emerge, giunge all’espressione; il loro dire resta opaco, in penombra. Tantomeno nelle voci noi saremmo in grado di riconoscere figure già note del dialogo inter-soggettivo: un Maître ed un servo, un maestro ed un discepolo, un padre ed un figlio, un boia ed una vittima. Il dialogo somiglia piuttosto ad una spirale senza origine né fine; mette in scena – sembra – soltanto l’insistenza di una ripetizione. È quanto ci viene incontro ad apertura de L’entretien infini di Maurice Blanchot. Dopo gli eserghi – una citazione di Mallarmè, ‘Ce insensé jeu d’écrire’, ed una di Nietzsche che scrive che parlare è follia –, dopo una nota d’avvertenze, ma prima del testo vero e proprio (se mai esiste), compare, stampato in corsivo e con numerazione romana, un dialogo fra due (o, forse, più di due) voci anonime. Solo un segno – ± – separa una voce dall’altra (ma potrebbe essere anche una sola voce dai molteplici toni); una voce diegetica, autoritaria e passiva come sempre, s’interpone, infine, a scandire il ritmo del dialogo. Se noi, ora, ci chiedessimo a cosa corrisponde tale strano dialogo nell’economia complessiva del testo – ad una prefazione, ad una introduzione, ad una nota preliminare o ad altro ancora –, ci troveremmo certamente in imbarazzo. Il nome d’autore cerca di solito attraverso le

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IL DISCORSO E LA CENERE

prefazioni o le introduzioni di aggirare la difficoltà del cominciamento: prendere la parola, istituirsi cioè come il destinatore del discorso, è un gesto né semplice né ovvio. Anzi è impossibile: il discorso ci precede infinitamente. Il dialogo, allora, sembra essere la parodia e l’usura, non solo d’ogni possibile inizio, ma anche d’ogni domanda sul problema stesso del ‘cominciamento’. Definiremo, dunque, tale dialogo come l’iscrizione dell’hors-texte in generale, di quella funzione della scrittura, cioè, che ci permette di inserirci nel flusso del discorso che ci precede nello stesso tempo in cui ne riconosciamo il carattere strutturalmente discreto. Non c’è dubbio, infatti, che, prendendo la parola, se da un lato continuiamo un dialogo infinito, dall’altro lo sospendiamo. Ma come potremmo interrompere il discorso se esso non fosse già da sempre spezzato? Di più: la voce che parla è sempre una voce scritta; ma noi sappiamo che una voce scritta è un ‘fra’, è una voce sospesa, in bilico, fra una voce anteriore ed una avvenire. La voce scritta è la ripetizione di una voce che non si darà mai in presenza, in carne ed ossa; ed è per questo che la scrittura è la modalità della sua sopravvivenza. L’hors-texte è, allora, la soglia o la cornice del testo, è ciò che permette appunto il passaggio dall’a-voce alla voce scritta. Ma se la voce è già risposta ad un’altra voce, essa, allora, è strutturalmente dialogica; non sarà in nessun caso pensabile al di fuori della forma del dialogo. Ci avviciniamo, in tal modo, al senso dell’hors-texte blanchottiano: come pre-testo di un infinito intrattenimento, esso è il (non) luogo dell’apertura del dialogo in generale, vale a dire della modalità propria delle relazioni inter-soggettive. Ripetizione di un dialogo avvenuto nell’immemoriale, fondamento inabissato del nostro comune discorrere, esso ripete l’irripetibile, trasmette il non trasmissibile: l’evento stesso della parola dialogica, l’emergere della specie umana. Tali sono le domande che ci sembrano scaturire dal testo di Blanchot; ora, a tali questioni noi non tenteremo di offrire una risposta. Ci proveremo soltanto a ripeterle, soprattutto a rispettare il loro statuto più proprio: essere delle domande fondamentali (che come tali non hanno mai una risposta) che investono l’operare filosofico quando esso, fedele alla sua ‘vocazione’, interroga sulla verità della specie, sulla differenza della specie umana. Esse, dunque, ci serviranno da pre-testo per ripetere – ripetendole qui a nostra volta – le considerazioni che siamo venuti facendo lungo il corso del nostro lavoro. Le voci attendono: attendono una parola avvenire che, essendo finalmente la verità, le sottragga alla necessità stessa del dialogo, alla legge della ripetizione. La loro attesa è l’attesa di un ritorno impossibi-

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X. LA LEGGE DEL DIALOGO. MAURICE BLANCHOT E IL DISASTRO DEL PENSIERO

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le; è l’impossibile stesso. Scrive Blanchot: «Nell’attesa non poteva far domande sull’attesa. Che cosa attendeva, perché attendeva, che cos’è atteso nell’attesa? La caratteristica dell’attesa era di sfuggire ad ogni forma di domanda, che rendeva possibile e da cui escludeva. Attraverso l’attesa, ogni affermazione si apriva su un vuoto, e ogni domanda si raddoppiava con un’altra domanda, più silenziosa, che avrebbe potuto sorprendere. Il pensiero dell’attesa, il pensiero che è l’attesa di ciò che non si lascia pensare, pensiero portato dall’attesa e rimandato a quest’attesa»1. L’essere scritte è per le voci l’equivalente dell’essere in attesa: un’attesa senza oggetto e senza soggetto; un’attesa pura. Ma il tratto decisivo del passo blanchottiano risiede nell’aver istituito lo spaziotempo dell’attesa come l’orizzonte del pensiero. Pensare è attesa di ciò che non si lascia pensare: ma non come l’altro dal pensiero, bensì come ciò che appartiene al pensiero nella forma dell’impensabile. Quel fuoripensiero che, tuttavia, si mantiene nella relazione più stretta col pensiero, che ne costituisce l’esperienza più propria. Pensare è attendere il ritorno dell’impensabile, ma appunto per questo ciò che ritorna è l’attesa stessa: l’attesa ripresentifica, dissolvendo in tal modo lo spazio della rappresentazione, il suo stesso attendere. Ora, se le voci del dialogo continuano ad incontrarsi e a parlarsi è perché esse sono in attesa, sono l’iscrizione dell’attesa. Ed è per questo che il tratto patico che più di tutti le identifica, nel momento stesso in cui le rende anonime, il tono più proprio del loro dialogare, è la stanchezza. Esse sono stanche di attendere, stanche di questo dialogo infinito che non è altro che la ripetizione dell’attesa. Certo la stanchezza, come d’altronde l’attesa, non è un’esperienza psicologica, non è attribuibile ad un io; semmai essa è ciò che soggettivizza le voci. La stanchezza come il neutro (parola chiave della riflessione blanchottiana, su cui noi non indagheremo ulteriormente2), è quell’esperienza pura a partire dalla quale emerge una soggettività senza soggetto, vale a dire una soggettività sottratta a qualunque forma d’identità. La stanchezza è neutra: neutralizza l’io ed il tu, impedisce l’oggettivazione della terza persona. Le voci parlano in nome della stanchezza, s’incontrano per metter fine alla stanchezza, ogni volta più 1 M. Blanchot, L’attente L’oubli, Paris 1962, p. 101 (tr. it. di M. De Angelis, Milano 1978, p. 80). 2 Sulla questione del neutro si veda J. Rolland, Pour une approche de la question du neutre, «Exercises de la patience», n. 2, 1981, tr. it. di F. Polidori, « Aut-Aut», n. 209210, settembre-dicembre 1985.

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IL DISCORSO E LA CENERE

stanche, più appesantite dalla stanchezza. È la stanchezza che ad ogni loro nuovo incontro si accresce, che sempre di più si stanca della propria stanchezza. Come si vede è la stanchezza il vero soggetto del dialogo: soggetto senza soggetto e che tuttavia permette l’iscrizione delle voci, il loro dialogo, la loro umana parola. «La stanchezza – scrive Blanchot – cresce insensibilmente; è insensibile; non c’è nessuna prova, nessun segno veramente certo; ad ogni istante sembra che abbia raggiunto il culmine – ma naturalmente si tratta di una trappola; di una promessa non mantenuta, come se la stanchezza lo mantenesse in vita. Quanto tempo ancora? Senza fine. La stanchezza infatti è diventata il suo unico mezzo di vita, con la differenza che più è stanco, meno vive, eppure vive solo per la stanchezza. Quando si riposa, è perché già da prima la stanchezza ha preso possesso del riposo»3. Il dialogo non ammette riposo, stasi. Non concede pause: l’interruzione è a sua volta, come vedremo, ripetizione della sua natura discreta. Il dialogo non è altro che l’incessante, e forse risibile, ricerca di una parola definitiva, apocalittica; di una parola che, ripetendo l’origine, sia la fine e lo scopo del dialogo stesso. «Non parlo realmente ma ripeto, e la stanchezza è ripetizione, usura di ogni inizio; e non solo cancello ma accresco, mi sfinisco a fingere di avere ancora la forza di parlare della loro assenza»4: l’assenza dell’origine e della fine. Avevamo detto che il dialogo era la parodia e l’usura d’ogni inizio, d’ogni cominciamento; vorremmo mostrare ora come la stanchezza corrisponda a questa strana legge del dialogo che ordina di parlare, di dire attraverso la parola l’origine e lo scopo del dialogo stesso, nel momento stesso in cui interdice tale possibilità e che proprio in nome di tale impossibilità realizza la trasmissione dell’intrasmissibile, la ripetizione dell’irripetibile. «L’impressione che ha ogni volta che entra – dice una delle voci – e nota l’uomo già anziano, vigoroso e cortese, che alzandosi ed aprendogli la porta lo invita ad entrare, è che la conversazione sia già cominciata da tempo, dopo un po’ si rende conto che sarà l’ultima»5. ‘Ogni volta che entra’ – dove? In quale luogo? Ma questo dia-logo è tale da raccogliersi in un luogo? –: il dialogo che noi leggiamo è, dun3

M. Blanchot, L’entretien infini, cit., p. XX (tr. it. cit., p. XX). Ivi, p. XXII (tr. it., p. XXII). 5 Ivi, p. IX (tr. it., p. XI). Sul tema del dialogo si veda F. Collin, Maurice Blanchot et la question de l’écriture, Paris 1982, soprattutto il capitolo Le sujet et l’autre ed in particolare le pagine 98-100. 4

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X. LA LEGGE DEL DIALOGO. MAURICE BLANCHOT E IL DISASTRO DEL PENSIERO

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que, già la ripetizione di infiniti altri dialoghi, di infinite altre volte in cui le voci si sono incontrate ed hanno incominciato a parlare. Per questo la voce ha l’impressione che la loro conversazione di adesso sia cominciata da tempo: da un tempo forse immemoriale che sfugge ormai sia al ricordo che all’oblio. Tuttavia, dopo un po’, essa pensa che sarà l’ultima. Ma come è pensabile questa compresenza, nell’‘ogni volta’ del loro dialogo, della ripetizione di una prima volta e della consapevolezza di un’ultima volta? Come poter ripetere nell’ogni volta del loro incontarsi un inizio ed una fine? È che nell’essere ‘una prima volta’ è presente perlomeno un aspetto per cui essa è irripetibile: essere una prima volta significa anche essere l’ultima volta in cui si è una prima volta. Se, dunque, è vero per un lato che la prima volta si offre come inizio della ripetibilità dell’ogni volta, per un altro essa si sottrae alla possibilità della ripetizione: mai più una prima volta sarà di nuovo prima. E allora come trasmetterla? Come conservarla nella sua unicità? È evidente che tentare di rispondere ad una tale domanda obbliga a ripensare lo statuto dell’origine: alla ‘prima volta’ noi non dovremo più attribuire il carattere della presenza a sé, dell’identità, bensì quello della differenza. Essere una volta prima ed ultima è una differenza irriducibile, non mediatizzabile: una differenza pura. Ma alla differenza appunto pertiene strutturalmente il movimento del differire: cancellandosi la differenza si apre alla ripetizione. Ma allora ciò che la ripetizione ripete non è altro che l’impossibilità stessa della ripetizione; e, tuttavia, ripetendo la sua impossibilità, la ripetizione trasmette esattamente l’irripetibile: l’impossibilità e l’indecidibilità dell’origine. Non è forse questa la strana cadenza del dialogo, la sua legge sconfortante e risibile? Ripeti ogni volta nel dialogo l’origine e la fine del dialogo stesso; l’ogni volta sia per te la ripetizione di una prima ed ultima volta. Ora è proprio la stanchezza a rappresentare la cifra di tale ripetizione impossibile (e dell’impossibile): «Come se la stanchezza dovesse proporci la forma di verità per eccellenza, quella che abbiamo cercato senza soste per tutta la vita e che, il giorno in cui ci si offre, ci lasciamo inevitabilmente sfuggire proprio perché siamo troppo stanchi»6. Tuttavia, la stanchezza è generosa: non si è mai così stanchi da non poter ricominciare. Se per eccesso di stanchezza ci lasciamo sfuggire la verità così a lungo cercata, la stanchezza, tuttavia, non è ancora 6

Ivi, p. X (tr.it., p. XI).

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giunta al suo culmine. Il riposo che ci concede non è altro che una sua astuzia: «Rinvigorito da questa certezza – dice la voce diegetica – uno dei due si alza; si volta quasi bruscamente, in un modo che turba la piccola stanza: ecco, si dirige agli scaffali dove – ce ne accorgiamo adesso – sono allineati moltissimi libri; il loro ordine, forse più apparente che rigoroso, spiega però come mai, anche conoscendo il posto, non li si scorga a prima vista. Non tocca nessuno dei volumi, resta là di spalle e articola a voce bassa ma chiara: – Come faremo a sparire?»7. Come sparire? È questa la domanda delle voci. A che serve il dialogo se tutto è già nel libro? Se l’essere è tutto risolto nel detto? Il loro dire è inutile: appena pronunciato è archiviato, mnemonizzato, trasformato in traccia. E, tuttavia, una parola si è insinuata fra loro; una parola che li separa nello stesso momento in cui li unisce. Questa parola supplementare segna un intervallo fra la scrittura e la voce: certo essa è già quasi traccia, pronta ad iscriversi nel libro, a subire l’archiviazione. Nonostante ciò essa incide una spaziatura fra il libro ed il dialogo, sospende il potere dell’essere insieme a quello del detto. «C’è nella vita di un uomo – e quindi degli uomini – un momento in cui tutto è compiuto, i libri sono scritti, silenzioso l’universo, gli esseri in riposo. Non resta che il compito di annunciarlo: è facile. Ma poiché questa parola supplementare rischia di turbare l’equilibrio – e dove trovare la forza di dirla, dove trovarle ancora un posto? –, non la si pronuncia, e l’opera rimane incompiuta»8. Come pronunciarla quella parola il cui statuto è di essere l’ultima? Quella parola che dice la fine, la compiutezza di ciò che è compiuto? È qui che la stanchezza ci coglie: non ne avremo la forza. D’altronde come trovarle un posto nella spessa distesa del detto? Come approntare un luogo in cui possa accadere? L’unico luogo è questo dialogo privo di luogo. Ora è a causa della stanchezza che, quando tutto è compiuto, tutto comincia: «Tutto cominciò, proprio quando sembrava che tutto fosse finito, con un avvenimento di cui non poteva liberarsi, non perché fosse costretto a pensarci continuamente o a ricordarsene, ma perché non lo riguardava. Anzi, solo molto tempo dopo che fu accaduto – un tempo così lungo che preferiva, forse a ragione, situarlo nel presente – si rese 7

Ivi, p. XI (tr. it., p. XIII). Ivi, p. XII (tr. it., pp. XIII-XIV). Questa compiutezza sempre incompiuta dovrebbe essere posta in relazione con l’hegeliano ritorno a sé dello spirito; il dialogo della stanchezza è, forse, ciò che resta da dire dopo l’avvento dello spirito assoluto. Sul rapporto Blanchot-Hegel si veda W. Tommasi, Maurice Blanchot: la parola errante, Verona 1984. 8

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X. LA LEGGE DEL DIALOGO. MAURICE BLANCHOT E IL DISASTRO DEL PENSIERO

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conto che qualcosa era accaduto – un qualcosa separato dalla storia fiammeggiante, ricca di senso eppure immobile alla quale tutti partecipavano –, constatando la possibilità che tra gli innumerevoli fatti e i grandi pensieri che lo sollecitavano, si fosse verificato questo fatto, non a sua insaputa – sapeva necessariamente tutto ma senza che vi fosse interessato»9. Quando tutto è accaduto, resta ancora qualcosa; resta l’avvenimento dell’aver luogo, l’accadere del luogo a partire da cui tutto accade e si compie: «Un avvenimento: quello che tuttavia non avviene, il regno del non accadere e nello stesso tempo ciò che, accadendo, accade senza radunarsi in un punto definito o determinabile – il sopravvenire di ciò che non ha luogo come possibilità una o d’insieme»10. Come dirlo tale avvenire? C’è la parola capace di comprenderlo, di circoscriverlo? Questa parola che, tuttavia, accade fra loro, benché silenziosa, non li riguarda, non concerne il loro interesse. Non la potranno manipolare, non farà segno, non entrerà come moneta di scambio nel loro commercio quotidiano. Questa parola non fa opera di senso: perché, dunque, si sentono obbligati a dirla? La situazione è questa, commenta la voce diegetica: «Ha perso la capacità di esprimersi in modo continuo, come bisogna fare sia per garantire la coerenza di un discorso logico attraverso la concatenazione del tempo intemporale che è quello di una ragione occupata a cercare l’identità e l’unità sia per obbedire al fluire interrotto della scrittura. La cosa non gli fa piacere, eppure certe volte gli sembra di aver acquistato in compenso il potere di esprimersi per intermittenza o addirittura quello di far parlare l’intermittenza. Nemmeno questo gli fa piacere»11. No, le voci che la stanchezza costringe alla ripetizione del dialogo non sono più dei soggetti che possano subire la felicità o l’infelicità; la stanchezza ha neutralizzato l’economia ristretta del piacere. Ora, le voci partecipano del dolore puro del pensiero, dell’attesa impossibile della parola. La parola che non le riguarda e che, tuttavia, esse non possono non tentare di dire, è intermittente: forse, l’intermittenza stessa. Tale parola si invia e si sospende nel suo invio; come una lettera può non giungere a destinazione, restare en souffrance. Ma potremmo anche dire: non è questa la sua destinazione – non giungere a destinazione? Perdersi, esser là. Parola pluralizzata e dispersa, mai presente a se stessa, 9

Ivi, p. XVIII (tr. it., p. XIX). Ivi, p. XIX (tr. it., p. XIX). 11 Ivi, pp. XXII-XXIII (tr. it., p. XXII). 10

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dislocata rispetto al suo dire, parola del fuori. È qui che il dialogo trova la sua frase, ‘Vivere con qualcosa che non lo concerne’, ma nessuna ermeneutica, ancora una volta, la ridurrà ad un senso compiuto. E forse in gioco la vita? Ma se noi abbiamo escluso la felicità e l’infelicita, allora la vita è fuori causa. E quel ‘con’ non introduce forse un rapporto? Ma la parola non permette nessuna articolazione, nessuna messa in relazione: la parola non li riguarda. Ed infine il ‘qualcosa’: ma cosa accade se nulla accade al di fuori di un accadere che non li concerne, di un accadere senza luogo? La frase resta là, immobile, ripete la propria impossibilità. La frase sospende il senso, lo interrompe, lo dice, forse, in un interdire. Perché accade la frase? Ecco, la frase «esiste solo per provocare l’intermittenza o per farsi significare da essa o per darle qualche contenuto, in modo che la frase – è poi una frase? – abbia, oltre al suo senso proprio (giacché deve pure averne uno), un secondo significato costituito da questa interruzione intermittente a cui lo invita»12. Ora la stanchezza raggiunge il suo senso più proprio: «L’interruzione: un dolore, una stanchezza»13; cogliendoci proprio sul punto di dire la parola, la stanchezza ci obbliga a, e obbligandoci ci concede di, dire la parola come intermittenza e sospensione del senso. Senza la stanchezza, senza il dolore della stanchezza, come potremmo dire quella parola a partire dalla quale parliamo, a partire dalla quale l’essere ci diviene dicibile, memorizzabile e per ciò stesso tale da essere dimenticato? La stanchezza ci ha condotti, infine, al cuore del dialogo; solo perché la stanchezza permette l’emergere della parola intermittente, noi siamo in grado di tematizzare la legge del dialogo, di dire il decreto cui essa ci sottomette e ci obbliga, il destino cui ci invia. Giacché non è forse vero che proprio l’intermittenza della parola ci rimanda inevitabilmente alla continuità del dialogo? «Sai bene – dice una delle voci – che la sola legge, e non ne esistono altre, consiste in questo discorso unico continuo universale che ognuno, che sia separato dagli altri o unito a loro, che parli o taccia, riceve, conserva e porta avanti in nome di un intimo accordo preesistente ad ogni decisione, accordo tale che ogni tentativo di ripudiarlo, sempre promosso e voluto dal volere stesso del discorso, ne è la conferma, come ogni attacco lo rende più sicuro e ogni arresto lo fa durare»14. 12

Ivi, p. XXIV (tr. it., p. XXIV). Ivi. 14 Ivi, pp. XXIV-XXV (tr. it., p. XXIV). 13

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X. LA LEGGE DEL DIALOGO. MAURICE BLANCHOT E IL DISASTRO DEL PENSIERO

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Prima d’ogni decisione, antecedente ad ogni volere, c’è il discorso: unico continuo universale. Come poterlo interrompere se per dirne la fine c’è bisogno di un’altra parola? Se anche il silenzio ha bisogno di una parola per dirsi come silenzio? Il discorso dice: ancora. Il suo più proprio voler dire è: continua a parlare. Ma allora come è possibile che nel discorso, e come vedremo per suo stesso decreto, si dia la parola intermittente? L’intermittenza non è la pausa, il silenzio che scandisce il dialogo; se solo per un attimo tacessimo non potremmo più parlarne. La legge del dialogo è dire il silenzio mentre si parla. L’interruzione, dunque, presuppone il discorso, la sua coerenza, le sue regole15. È necessario, tuttavia, che la regola e la coerenza del discorso subiscano un quasi inavvertibile slittamento, una silenziosa trasgressione, ed è in questo insensibile spostamento che il senso si sospende e l’intermittenza ha luogo. Così avviene il silenzio, occupando, senza strepito, il flusso del dialogo, invadendo dolcemente il darsi della parola. Viene come un lamento, è il lamento della parola: «Di che ti lamenti, silenzio senza origine? Perché vieni a infestare un linguaggio che non può riconoscerti? Che cosa ti attira in mezzo a noi, in questo spazio dove vige la regola ferrea? È tuo questo lamento che non si sente ancora?»16. Nella parola risuona senza suono il lamento del silenzio: forse il lamento delle vittime per le quali la parola è interdetta. Quando il dialogo si interrompe, allora esso riprende in modo più risoluto, più decisivo e più rischioso. Ora le voci sanno qual è il decreto della legge del dialogo: dire il silenzio. La sua stessa irruzione spinge a ricominciare, ad incontrarsi di nuovo, a riprendere il dialogo. Se la legge obbliga alla parola dialogica, allo stesso tempo ne decreta la sospensione; l’interruzione non è un accidente del dialogo, bensì la sua legge stessa. Come sempre la struttura della legge è il double bind: perciò essa getta nello sconforto le voci. Sospendere la parola è un obbligo: un obbligo discreto e che non si impone, ma che per questa sua stessa discrezione chiede di essere rispettato. E non potrebbe essere altrimenti che discreto dal momento che non obbliga a null’altro che a rendere discreta la parola, a spaccarla, senza alcuna violenza, affinché nella béance da cui ora è colpita divenga ascoltabile l’inaudito lamento. Ma lo sconforto delle voci, la loro terribile e tuttavia così dolce stanchezza, provengono dall’acquisizione che è proprio questa interruzio15 Grammaticali e sintattiche: questa osservazione aprirebbe una riflessione sulla scrittura bianchottiana che non possiamo articolare in questa sede. 16 M. Blanchot, L’entretien infini, cit., p. XXV (tr. II., p. XXV).

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ne, che non è un accidente, bensì un decreto del dialogo, ad essere interdetta. Non potranno produrla né dirla. Essa avviene – esse attendono. «Quest’interruzione – dice la voce diegetica – che forse è solo un antico accidente e tuttavia ha un certo carattere obbligatorio e che enigmaticamente porta l’interdetto, si presenta essa stessa come interdetta, una deplorevole eccezione, una breccia aperta nel cerchio, e senza dubbio appartiene ancora e necessariamente alla regola, sia pure a titolo di anomalia, un’anomalia ipocrita (come esprimersi altrimenti senza colpire se stessi con l’interdetto?), ma ad onta della legittimazione egli si rende conto che continua a cadere, ed ogni volta da sempre, fuori della regola che pure la tiene all’interno del suo campo d’azione»17. Per quanto siano legittimate dalla legge del dialogo, le voci cadono da sempre, slittano, volendolo e senza volerlo, dalla coerenza del discorso, eccedono la regola su cui si fonda. Vertiginosamente precipitano da sempre verso il fondo del non senso, verso quella parola che mai potrà essere detta, giacché il suo solo modo di dirsi è l’interdizione. Ecco, infine, la legge: «Il decreto puro e semplice, il decreto che interdice, in modo tale che intervenga, per una decisione non decretata, il tempo dell’intra-dire»18. Il dialogo è l’interdizione stessa, è l’intradire; il dialogo è sospeso, è il dire ‘fra’ una parola anteriore ed una parola avvenire. La parola dialogica è in se stessa la parola che dice la verità, la verità della specie. Anzi non è altro che questa verità dispiegata, distesa e sospesa nella continuità del dire. Si dice nell’unico modo che le è concesso: dirsi come l’impossibile a dirsi; e così si trasmette. Evento unico ed irripetibile, differenza prima ed ultima che s’iscrive nella sospensione del senso, che inappariscente appare nel divieto di dirla. Le voci dialogano. Scambiano parole e frasi; domandano, rispondono. Torneranno certo ad incontrarsi, riprenderanno il dialogo interrotto; sempre più stanche, sempre meno stanche di quanto avrebbero creduto. Sempre in attesa – stanche di attendere. Fra di loro si scambierà di nuovo la parola quotidiana, quella «grave, leggera, che dice tutto e ad ognuno propone proprio quello che avrebbe voluto dire, parola unica, lontana e sempre vicina, parola di tutti, sempre già espressa 17

Ivi, pp. XXV-XXVI (tr. II., p. XXV). Ivi, p. XXVI (tr. it., p. XXV). Si ricordi che il termine arrêt che il traduttore rende con l’italiano decreto significa sì sentenza ma anche sosta; il che equivale in qualche modo all’italiano ‘arresto’ od ancora al ‘fermo’ (di polizia). Blanchot ha d’altronde intitolato uno dei suoi più bei (non) racconti L’arrêt de mort – sentenza di morte e sua sospensione insieme. 18

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X. LA LEGGE DEL DIALOGO. MAURICE BLANCHOT E IL DISASTRO DEL PENSIERO

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eppure infinitamente dolce a dirsi, infinitamente preziosa a sentirsi, parola dell’eternità temporale che dice: adesso, adesso, adesso»19. Ma insieme ed inevitabilmente s’interporrà fra di loro l’altra parola, la parola risibile, l’inutile supplemento che vuole dire la compiutezza del tutto. Verrà di nuovo e sempre la parola interdetta. Le voci l’attendono, la desiderano; ma come è stato possibile? Non lo ricordano: la parola è accaduta e le obbliga, a partire dal suo accadimento, a desiderarla. La voce si chiede: «Come era arrivato a volere l’interruzione del discorso? Non la pausa legittima, quella che rende possibile l’alternarsi delle conversazioni, la pausa benevola, intelligente, oppure la bella attesa con cui, da una sponda all’altra, due interlocutori misurano il loro diritto a comunicare. No, non questo, né tanto meno il silenzio austero, la tacita parola delle cose visibili, il ritegno di quelle invisibili»20. Come era giunta a trovarsi al di là della parola e del silenzio quotidiani? Al di là della parola vuota per eccesso di voler dire ed al silenzio pieno di intenzioni nascoste? Come era accaduto che si fosse trovata a volere tutt’altro, a pensare ciò che non la concerneva e, tuttavia, era là? L’impossibile là? Quello che aveva voluto, senza volerlo, era stato tutt’altro dal discorso continuo: «Un’interruzione fredda, la rottura del cerchio. E subito era accaduto: il cuore che smette di battere, l’eterna pulsione parlante che si arresta»21. Il cuore sospeso, la parola spezzata: l’eterna pulsione parlante lavorata – lavoro senza opera, pura dépense improduttiva – dall’eterna pulsione del silenzio.

***

Come trasmetterla la parola intermittente? La parola discontinua? Come salvaguardare nel dialogo inter-soggettivo quell’impossibile di cui essa è la cifra? In una parola, come insegnare a parlare, ad essere i soggetti della parola dialogica? Domande difficili, se non impossibili. Esse rimandano, infatti, alla insostenibilità della posizione insegnante una volta che essa si debba coniugare con il double bind della legge del dialogo. È in tal modo che nella riflessione di Blanchot fa la sua comparsa la figura del maestro e s’impone come struttura originaria della 19

Ivi, p. XXVI (tr. it., pp. XXV-XXVI). Ivi, p. XXVI (tr. it., p. XXVI). 21 Ivi. 20

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parola dialogica la relazione maestro-discepolo. Che nel dialogo dell’attesa e della stanchezza le voci non fossero identificabili, che ad esse non fossero attribuibili delle posizioni soggettive quali quelle di un Maître e di un servo, non escludeva, anzi confermava, la tesi che il dialogo fosse la ripetizione, e dunque la trasmissione, della parola dialogica come origine e fine, sempre assenti, della specie umana; che fosse la verità della specie. Blanchot collega tale domanda sull’insegnamento al compito proprio del pensiero di pensare l’impensabile; ora, il pensiero non potrebbe addestrarsi a tale compito se, a sua volta, non acquisisse la forma della parola intermittente, se, in altre parole, non si educasse, per quanto ciò sia possibile, alla sospensione del discorso continuo, ad introdurre, cioè, nella parola dotata di senso, prodotta secondo le regole, quello slittamento che la fa scivolare nella frammentarietà del discontinuo. Le pagine dedicate ne L’entretien infini al tema del pensiero e della sua esigenza di discontinuità, e che seguono immediatamente il dialogo della stanchezza, tentano appunto di articolare il rapporto fra il pensiero e l’emergenza di una parola plurale attraverso la necessità di una curvatura dello spazio inter-soggettivo provocata dall’irruzione della figura del maestro. L’osservazione da cui Blanchot inizia il suo discorso è la seguente: mentre la poesia ed il romanzo possiedono una forma d’esposizione di cui sono consapevoli (un insieme più o meno codificato di tecniche, un sistema retorico, etc.), la ricerca filosofica procede, invece, come se ignorasse d’averne una, oppure, situazione ben più grave, si rifiuta d’interrogarsi su quella che ha ereditato dalla tradizione. Ora, tale forma d’esposizione divenuta talmente consustanziale alla ricerca filosofica da non richiedere un’interrogazione specifica sul suo statuto e sul suo significato, consiste, per Blanchot, nella dissertazione scolastica e universitaria. La Summa di san Tommaso, ad esempio, rappresenta il culmine di una ricerca filosofica che si presenti con i caratteri dell’istituzione e dell’insegnamento. Ora, il problema che Blanchot vuole sollevare attraverso questa ricognizione dal vago sapore storiografico (ma che, come vedremo, tenta di dissolvere una impostazione storico-filosofica), è che la dissertazione scolastica ed universitaria, ciò che chiamerà il modello dell’esposizione continua della ricerca filosofica, è uno dei poli necessari dell’interrogazione della verità; gli esempi che seguono subito dopo – gli Essais di Montaigne e il Discours de la Méthode di Cartesio – non debbono, infatti, essere visti come delle forme che si oppongono, immediatamente e semplicemente, al modello rappresentato dalla Summa

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tomista. Non si tratta, cioè, di porre, da un lato, l’istituzione con il suo tratto autoritario ed, alle volte, violento e, dall’altro, un atteggiamento trasgressivo ed arbitrario: una coerenza spinta al limite dell’ossessività contro una dispersione quasi schizoide. Sia gli Essais di Montaigne sia il testo cartesiano (e quest’ultimo con un andamento – è il caso di dirlo? – più metodico) sono significativi per il fatto di sdoppiare il movimento della ricerca; accanto all’esposizione oggettiva si fa luce il soggetto della ricerca: l’interrogante. Potremmo dire che in queste esperienze di pensiero emerge, stagliandosi sullo sfondo dell’oggettività, il soggetto dell’enunciazione. Ma ciò che conta soprattutto per Blanchot non è tanto la possibilità di cogliere al suo nascere la forma moderna del soggetto della scienza come fondamento inconcusso della verità, quanto la tematizzazione del fatto che sia l’esposizione continua sia quella che isola la funzione soggettiva dell’interrogazione, partecipano, sebbene ciò possa apparire paradossale, dello stesso carattere insegnante. La natura dell’insegnamento va ricondotta, secondo Blanchot, al significato originario della stessa parola ‘logos’, vale a dire ‘lezione’, parola detta a molti pensando a tutti, ‘conversazione intelligente’. Sarà questo, pertanto, il Leit-motiv del sondaggio storico che Blanchot tenterà nelle pagine seguenti: esso sarà rivolto a far emergere la coappartenenza della parola dialogica e della pratica dell’insegnamento; in breve, che parlare è insegnare. La speciale curvatura, perciò, impressa da Blanchot al suo discorso escluderà che la messa in rilievo della funzione soggettiva dell’interrogazione filosofica vada confusa senza residui con la valorizzazione del significante del soggetto epistemico; non sarà in causa, quindi, quell’aspetto del pensiero moderno – o del discorso universitario per richiamare una terminologia lacaniana – che tenta di fondare il quadro della verità sulle coordinate di un soggetto identitario ed auto-referenziale. È come se lo sguardo di Blanchot corresse immediatamente verso quella béance soggettiva che lavora in silenzio la costruzione del soggetto filosofico attestata proprio dalle pagine cartesiane. D’altronde, se il soggetto di cui Blanchot tenta di pensare lo statuto è quello in grado di accogliere la – farsi, appunto, soggetto della – parola discontinua ed intermittente, esso non potrà che presentarsi come scisso già nel suo stesso aurorale apparire. Non v’è dubbio, comunque, che la filosofia tenda strutturalmente ad istituzionalizzarsi e a darsi una forma che discende dal tipo di istituzione – religiosa o politica – all’interno della quale si costituisce; tale carattere istituzionale è, da questo punto di vista, inerente alla pratica filosofica. Ma altrettanto inevitabile è la messa in crisi del discorso isti-

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tuzionale, il suo rovesciamento dialettico (di una dialettica disgiuntiva del desiderio, come vedremo; non, dunque, di una dialettica dell’aufheben) nell’altra scena: la scena del frammento e della discrezione. Il Seicento ed il Settecento mostrano, quindi, secondo Blanchot, questo movimento d’incrinatura della forma dell’esposizione continua: lo stesso Cartesio, Spinoza e soprattutto Pascal sono, da questo punto di vista, dei dissidenti. Ed è a proposito di Pascal che Blanchot chiarisce il senso che deve essere attribuito alla parola frammentaria; a causa, scrive, del duplice dissidio del pensiero e della morte, Pascal ha mostrato come debba intendersi la natura del discorso – come «discursus, corso diviso ed interrotto che per la prima volta impone l’idea del frammento come coerenza»22. La natura del discorso, anche di quello continuo, sebbene in tal caso in modo silenzioso ed inappariscente, è di essere ‘dis-cursus’, discorso interdetto, discreto nel suo stesso esser continuo; di assomigliare, quindi, alla stessa legge del dialogo. Ma ciò su cui vorremmo che soprattutto si soffermasse l’attenzione è l’affermazione di Blanchot per la quale alla parola frammentaria deve essere riconosciuto il carattere della coerenza. Una riflessione sulla parola frammentaria non deve, quindi, confondersi con quel genere di ‘apologie’ del frammento con le quali si ribadisce soltanto l’esito nichilistico della metafisica e dell’ontoteologia occidentali. C’è una forma di ‘malinconia delle rovine’ che nulla ha a che vedere con quella ‘dignità’ del pensare cui si appellava Lyotard contro le letture deboli della post-modernità. La rovina, il frammento rovinoso, sono semmai il resto – cenere forse? – in cui, silenzioso, insiste, nel corso trionfale della storia, il lato rimosso del linguaggio: l’eco del lamento del silenzio. La coerenza del frammento, quindi, va ricondotta al problema dell’esposizione della ricerca: se il discorso continuo risponde ad una esigenza propria del pensiero: racchiudere nella circolarità del linguaggio la totalità dell’essere, alla parola frammentaria spetta il compito di ripetere l’irripetibile, di iscrivere nel dialogo inter-soggettivo quella béance da cui trae origine e senso. L’esito frammentario del pensiero moderno deve essere disgiunto, dunque, dalla modesta constatazione di una perdita irreversibile del senso (cui si contrappone, quasi legge di un pensiero acritico ed inavvertito, o il richiamo alla perennità dei valori o la profezia di un altro dal ‘logos’ dietro la cui maschera si nasconde nient’altro che il persistere di un dominio mitico pronto ad approfittare delle défaillances del 22

Ivi, pp. 2-3 (tr. it., p. 6).

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X. LA LEGGE DEL DIALOGO. MAURICE BLANCHOT E IL DISASTRO DEL PENSIERO

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pensiero); esso attesta, piuttosto, il sospendersi del senso quale necessità interna della ricerca filosofica, giacché è in questa interdizione che accade al pensiero che l’impensabile, come compito del pensiero, si mostri e s’iscriva nella spaziatura del discorso. Riprendiamo l’excursus storico di Blanchot: la cultura filosofica settecentesca sposta letteralmente la questione della forma dell’esposizione; il filosofo si fa scrittore ed i generi di cui si serve diventano la lettera, il libello, l’opuscolo. Con un’inversione, di cui ormai non ci si dovrebbe più stupire, l’Ottocento ripristina la figura del filosofo-professore: Kant, Hegel parlano dall’alto di una cattedra, piegano l’esposizione alle regole del corso di lezioni; la forma del loro pensiero si assoggetta a quest’esigenza magistrale e ci si dovrebbe chiedere quanto l’idea della filosofia come sistema debba all’istituzione universitaria. Ma ancora una volta l’intento di Blanchot non consiste nella volontà di sminuire una ricerca filosofica che si dia nella cornice universitaria; si tratta, piuttosto, di essere pienamente consapevoli che la scelta della forma dell’esposizione continua non è priva di conseguenze per la questione della verità: non è una scelta indolore. Essa elude o rimuove, infatti, la destinazione più propria del pensiero: pensare l’impensabile; il suo inevitabile rifuggire dall’obbligo discreto del silenzio la condanna, infine, all’afasia. È in nome, allora, della dialettica stessa della ricerca che la filosofia abbandona di nuovo le aule universitarie; anche a non considerare il caso di Sade in cui si passa direttamente dalla cattedra alla prigione, è sufficiente ripercorrere l’itinerario di Nietzsche per rendersi conto dello spostamento. Se Nietzsche iniziò come professore-filologo, ben presto però fu costretto dalla legge immanente del suo pensiero a rinunciare al ruolo ufficiale dell’insegnamento. Il suo pensiero vagante «che si realizza per frammenti – nota Blanchot –, cioè per affermazioni separate e che esigono la separazione, non poteva inserirsi nell’insegnamento né adattarsi alle esigenze della parola universitaria»23. La citazione di Nietzsche permette di chiarire ulteriormente il senso che Blanchot attribuisce alla parola frammentaria. Il pensiero vagante procede per affermazioni separate e che esigono la separazione; non è in gioco, dunque, né la banale riduzione della scrittura nietzscheana all’opera dissolutrice della follia, né una teoria debole dell’aforisma come ‘battuta tragica’, caduta improvvisa e vertiginosa del senso che attesta la sola ripetizione passiva del nichilismo. 23

Ivi, p. 3 (tr. it., p. 7). Su Nietzsche si veda ancora ivi, pp. 201 sg. (tr. it., pp. 184 sg.).

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La scrittura nietzscheana, al contrario, partecipa di quella coerenza del frammento di cui Blanchot ha parlato a proposito di Pascal; la separazione è la scansione che attesta il procedere interrotto e spezzato del pensiero: come avrebbe detto Benjamin, il suo ‘andar sempre da capo’. Ciò vuol dire che la scrittura nietzscheana è un discorso la cui continuità è attraversata repentinamente dalla pulsione silenziosa: la spaziatura non è, per usare un’espressione di Blanchot, la pausa benevola che rafforza la parola animata dall’intenzione del voler-dire, bensì è l’iscrizione della discrezione originaria del discorso, l’obbedienza discreta all’obbligo, appena sussurrato e tuttavia perentorio, del silenzio. Momenti di cecità e di buio attraversano il pensiero di Nietzsche (provocati dalla follia? Ma ciò richiederebbe allora tutta una reinterpretazione del rapporto ragione-follia) e provocano lo scivolamento del pensiero lucido e consapevole verso il proprio fondo insondabile, la propria impensabile origine. Come se il soggetto, giunto all’estremo della sua béance, tentasse d’indagarne la costituzione, di vedere, come si dice, dietro i propri occhi, e precipitasse, appunto per questo, nell’abisso della demenza. L’altalenarsi della forma dell’esposizione continua con quella frammentaria ed interrotta (che non necessariamente s’identifica in individui nettamente separati; non troveremo forse, finanche nell’hegeliano circolo dei circoli, la smagliatura del senso, l’oscillazione pericolosa del pensiero?) conduce infine ad una specie di tassonomia della ricerca: le possibilità formali, scrive Blanchot, che si offrono al ricercatore sono quattro: «1) egli insegna; 2) è uomo di scienza, e questa scienza è legata alle forme sempre collettive della ricerca specializzata (psicoanalisi – scienza della non scienza – , scienze umane, ricerche scientifiche fondamentali); 3) associa la sua ricerca all’affermazione di un’azione politica; 4) è uno scrittore. Professore, uomo di laboratorio, uomo della prassi, scrittore. Tali sono le sue metamorfosi. Hegel, Freud, Marx e Lenin, Nietzsche e Sade»24. Ma, aggiunge immediatamente, quasi a prevenire una interpretazione di cui, per quanto debole, avverte l’estrema pericolosità, che a poco servirebbe sostenere che le quattro possibilità formali or ora elencate si siano trovate in ogni tempo associate: una simile tesi liquiderebbe semplicemente la questione che, invece, si vuole sollevare. Essa equivarrebbe a ritenere che in fondo nulla cambia nel corso della storia: la dialettica continuo-discontinuo verrebbe ridotta o ad una ripe24

Ivi, p. 4 (tr. it., pp. 7-8).

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X. LA LEGGE DEL DIALOGO. MAURICE BLANCHOT E IL DISASTRO DEL PENSIERO

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tizione insensata o usata per ripristinare il primato dell’istituzione universitaria. Quello che deve essere colto, invece, e divenire oggetto di una riflessione da parte del pensiero filosofico, è, in questo palinsesto delle possibilità formali della ricerca, la coappartenenza di quest’ultima e dell’insegnamento; coappartenenza che, allora, non potremo negare a quelle modalità che, ad una prima lettura, sembrerebbero escluderla – come se (ma è esattamente la tesi di Blanchot) l’opera più deliberatamente frammentaria non potesse sfuggire ad una forma di coerenza: la coerenza dell’impensabile, e, di conseguenza, non si sottomettesse anch’essa all’istanza del ‘logos’ (ma senza alcun raccoglimento: un ‘logos’ senza luogo): alla parola, appunto, detta a molti pensando a tutti, alla ‘lezione’. Ricerca ed insegnamento sono, quindi, inseparabili – non è questo il tratto che abbiamo individuato nell’atto di nascita del discorso della scienza, della pratica discorsiva del sapere vero? La tesi di Blanchot è, dunque, la seguente: il rapporto ricerca-insegnamento ha per propria originale struttura la relazione maestrodiscepolo. Per comprenderla nel suo senso più proprio dovremo prima di tutto escludere tre possibili interpretazioni: che il filosofo sia colui che insegna un sapere già posseduto; che al maestro vada attribuito un ruolo esemplare; che la relazione maestro-discepolo si debba pensare alla stregua di un legame esistenziale. Nulla di tutto questo: va ricordato, infatti, che il problema affrontato da Blanchot attraverso la tematizzazione del rapporto magistrale è quello della forma della ricerca, vale a dire della formazione del soggetto della ricerca come soggetto scisso fra la necessità del continuo e l’esigenza della discontinuità; in altri termini, ciò che è in gioco nella relazione maestro-discepolo è la costituzione del soggetto del dialogo, del soggetto della legge del dialogo. Comprenderemo, allora, in tutta la sua portata, l’affermazione, fatta quasi in apertura, secondo la quale parlare è insegnare e viceversa: essa, forse, sarà potuta apparire generica o, peggio, tautologica. Ma se parlare è rispondere alla vocazione dell’altro, dunque già dia-logo, allora la parola patisce il dolore della distanza, abissale ed invalicabile, che la separa dalla sua origine. Ora, la passività della parola coincide con la formazione del soggetto del dialogo: si potrebbe dire, con la sua educazione. Parlare, quindi, è trovarsi da sempre afferrati in una relazione magistrale, presi in un certo regime di trasmissione: soggetti a e soggetti di una forma discorsiva in cui si tramanda la legge del dialogo: pensare l’impensabile o, in altri termini, dire il silenzio.

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Il maestro, allora, è il nome che noi diamo a quella funzione del discorso attraverso la quale noi stessi emergiamo come soggetti della parola dialogica o, che è lo stesso, come soggetti del pensiero. Ma si sarà compreso anche che il maestro, nella riflessione di Blanchot, più che indicare una delle posizioni standard del discorso della scienza, fa cenno al carattere discreto del discorso, funge allo stesso tempo da inaugurazione e da limite; il maestro è un parergon, una soglia o una cornice; è il dentro/fuori del discorso, ne abita il bordo. Per questo l’apparizione del maestro curva lo spazio comunicazionale; ma, più propriamente, si dovrebbe dire che lo origina a partire da questa curvatura: si può pensare, in altri termini, una comunicazione inter-soggettiva (la comunità umana in generale) al di fuori di una dissimetria dei soggetti della comunicazione? Al di fuori della differenza e del suo differirsi? Il maestro, quindi, «rappresenta una regione assolutamente estranea dello spazio e del tempo; ciò significa che il fatto stesso della sua presenza crea una dissimetria nel rapporti di comunicazione; in altre parole dove egli si trova il campo dei rapporti cessa d’essere uniforme e presenta una distorsione tale da escludere ogni relazione diretta e persino la reversibilità delle relazioni»25. La presenza del maestro attesta, dunque, l’impossibilità della riduzione del rapporto intersoggettivo alla povertà di una relazione di reciprocità, alla reversibilità formale (riduzione, certo, costantemente tentata in nome di un’economia ristretta del desiderio: ma, appunto, mai definitiva, mai totale). Il passo di Blanchot ci costringe, ora, a pensare in maniera più radicale e decisiva la distorsione introdotta dalla figura del maestro nello spazio comunicazionale. Se è vero che egli occupa il bordo del discorso, che rappresenta, cioè, nel discorso, una regione estranea dello spazio e del tempo, una regione assolutamente altra, tuttavia non è ‘l’altro’, la sua presenza non indica il darsi in carne ed ossa dell’alterità radicale ed assoluta. Certo la sua apparizione funge da origine del discorso, ma, appunto, come un origine che, insieme, fa cenno della sua non originarietà, del suo rimandare sempre ad altro ancora: all’altro dell’altro. E, d’altronde, se il maestro fosse l’alterità assoluta ed irrelata, come potrebbe essere il termine di una relazione? Lo statuto del maestro è, piuttosto, quello di essere insieme uno dei poli del rapporto e l’origine del rapporto stesso. Allora, la curvatura che egli introduce nello spazio comunicazionale è la ripetizione della flessione che affetta struttural25

Ivi, p. 5 (tr. it., p. 8).

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mente l’alterità come differenza; in altri termini, se la differenza è insieme sempre il suo differimento, allora è l’alterità come differenza assoluta ed irrelata che differendo se stessa s’istituisce come relazione e termine di una relazione: il maestro è la traccia della cancellazione della differenza. Il maestro, quindi, è un tramite, un ‘fra’, è il (non) luogo di una trasmissione che, si potrebbe dire, passa dall”altro’ all’altro e che in tal modo li lega, li unisce in una relazione che conserverà il carattere dell’asimmetria e della discontinuità. Siamo in grado, a questo punto, di porre la domanda fondamentale: che cosa insegna il maestro? E, soprattutto, come insegna? Cioè, qual è la forma di questo insegnamento e, quindi, per l’equivalenza fra la ricerca e l’insegnamento, la forma della ricerca? «L’esistenza del maestro – risponde Blanchot – rivela una struttura singolare dello spazio interrelazionale, da cui risulta che la distanza fra l’allievo e il maestro non è uguale a quella fra il maestro e l’allievo – e non basta: fra il punto A occupato dal maestro e il punto B occupato dal discepolo c’è una separazione, una sorta d’abisso, separazione destinata ad essere la misura di tutte le altre distanze e di tutti gli altri tempi»26. Il maestro insegna la distanza e la insegna attraverso la distanza, mantenendo la dissimetria della relazione. Si vede subito che, insegnando la distanza attraverso la distanza, il maestro insegna a pensare secondo la forma della separazione – quella separazione che costituiva, secondo Blanchot, il carattere del pensiero di Nietzsche e che l’aveva costretto, d’altronde, ad abbandonare l’insegnamento universitario. Ma non era stato proprio Nietzsche ad insegnare che la verità è a distanza, fa distanza, è la distanza stessa? Allora, l’insegnamento della distanza attraverso la distanza non è altro che l’insegnamento della distanza della verità, la forma della trasmissione e della ricerca di una verità che è sempre là. È esattamente quanto sostiene Blanchot: «Diciamo più precisamente che la presenza di A introduce rispetto a B e di conseguenza anche rispetto ad A un rapporto d’infinità tra tutte le cose e prima di tutto nella parola che assume questo rapporto»27. Dunque, non solo fra il maestro e l’allievo il rapporto si definisce come un rapporto d’infinità, ma è lo stesso rapporto del maestro con se stesso ad essere siglato dalla distanza infinita. La sua stessa parola dice questa distanza. Il maestro è separato da se stesso, la sua parola è la parola separata e che dice la separazione. 26 27

Ivi. Ivi.

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Ora, se il maestro insegna la distanza, egli renderà l’avvicinamento alla ricerca da parte del discepolo difficile se non impossibile. Piuttosto che facilitare la via d’accesso al sapere, la renderà impraticabile; ciò che trasmetterà sarà meno un insieme di conoscenze determinate che l’alone di indeterminabilità da cui sono accompagnate. Ogni determinato sapere verrà posto dalla parola del maestro in bilico, si troverà relazionato col fondo d’ignoto che lo borda. È che il maestro, nota Blanchot, «non offre nulla da conoscere che non resti determinato dall”ignoto’ indeterminabile che egli stesso rappresenta, ignoto che non si afferma attraverso il mistero, il prestigio, l’erudizione di chi insegna, ma attraverso la distanza infinita tra A e B»28. È la distanza, come si vede, che salvaguarda e trasmette l’ignoto; ma l’ignoto, vale a dire l’indeterminabile, l’indecidibile di cui il maestro stesso è il rappresentante o, per meglio dire, il luogo-tenente nel dialogo inter-soggettivo, non è il semplice, l’immediato, il non ancora conosciuto, bensì la misura, a sua volta non misurabile, a partire dalla quale si rende possibile qualunque conoscenza. Conoscere a partire dall’ignoto significa, dunque, introdurre nel conosciuto l’impensabile, nel familiarmente noto l’estraneo. Ed infatti: «Conoscere mediante la misura dell’ignoto – scrive Blanchot –, tendere alla familiarità delle cose senza intaccarne l’estraneità, riferirsi a tutto mediante l’esperienza stessa dell’interruzione dei rapporti, significa semplicemente sentir parlar e imparare a parlare. Il rapporto tra maestro e discepolo è il rapporto stesso della parola in cui l’incommensurabile si fa misura e l’assenza di relazione rapporto»29. Strano potere questo della parola del maestro che come parola dialogica istituisce la relazione a partire dall’assenza di relazione, educa al pensiero mediante l’impensabile, rende le cose misurabili e, di conseguenza, conoscibili attraverso l’incommensurabile. È che tutti i termini cui Blanchot affida il compito di esprimere nel linguaggio l’inesprimibile, d’introdurre nel continuo del discorso la presenza del discontinuo, si mostrano governati da un doppio regime, dalla legge del double bind; più che rimandare alla tesi di una insopprimibile equivocità del linguaggio, la loro duplicità indica quel movimento di sospensione della significazione proprio della legge del dialogo. Non solo: essi debbono significare insieme la differenza interna alle relazioni, umane o conoscitive che siano, e il differimento di ciò a partire da cui le rela28 29

Ivi, p. 5 (tr. it., p. 9). Ivi.

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zioni stesse si originano. Come il maestro, i termini distanza, interruzione, assenza di misura, alludono ad un al di là del discorso (ed insieme ad un al di qua) che esso non può non tentare di ripetere. Per tale motivo diviene pensabile quel movimento chiastico per cui la parola del maestro, proprio perché parola separata e che dice la separazione, trasforma l’assenza di relazione in rapporto inter-soggettivo; diviene comprensibile in che modo l’incommensurabile si faccia misura di conoscenza e la distanza abissale ed invalicabile luogo d’apertura delle distanze spazio-temporali. Ma se questo è nella riflessione di Blanchot lo statuto dei termini di cui stiamo parlando – distanza, interruzione, etc. –, non si riveleranno essi, alla fine, delle semplici metonimie di quella natura della verità come differenza ideale non ulteriormente dicotomizzabile, numero irrazionale, misura non misurabile che, nel discorso della scienza, occupava la posizione di resto, causa ed oggetto del desiderio? E, d’altra parte, il metodo della scienza, la forma della ricerca, non è anche per Blanchot, il dialogo inter-soggettivo? Allora, la relazione maestro-discepolo quale Blanchot l’ha tematizzata nelle pagine che abbiamo ripercorso, non è che una ripresa su di un’altra scena del discorso del Maître, più propriamente del discorso Maître-universitario. Ma è appunto il rovesciamento sull’altra scena, quella del frammento e dell’interruzione, che ce lo restituisce stravolto, vale a dire attraversato dall’esigenza del discontinuo; la sua ripetizione a partire dalla legge del dialogo lo pone in bilico, lo riconduce dalla sua pretesa di esaustività, dal suo sogno di chiusura, all’interminabilità della spirale discorsiva. Con questa osservazione siamo in grado, ora, di porre un’ultima questione: cosa rende possibile il doppio movimento per cui da un lato il rapporto magistrale si trasforma nel discorso Maître-universitario e dall’altro quest’ultimo può rovesciarsi nel primo? Blanchot stesso è consapevole perlomeno della prima possibilità, vale a dire che essa viene esplicitamente tematizzata, dal momento che l’altra è già data come il risultato dell’irruzione del discontinuo. Il rapporto magistrale, scrive infatti, è esposto ad una duplice alterazione: l’ignoto di cui il maestro è il luogo-tenente nella relazione può trovarsi ridotto al non ancora conosciuto, ossia all’oggetto proprio della scienza, oppure essere confuso con la figura stessa del maestro; in entrambi i casi «l’insegnamento cessa di rispondere alle esigenze della ricerca»30. Il principio di pensabilità di tali alterazioni noi lo individueremo in una dialettica disgiuntiva del desiderio; ciò è reso possibile dal fatto che 30

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IL DISCORSO E LA CENERE

per Blanchot il rapporto magistrale come struttura originale della forma della ricerca è esattamente la relazione a partire dalla quale si costituisce o, piuttosto, viene in primo piano, il soggetto dell’esposizione filosofica, la voce dell’interrogazione della verità. Ed esso emerge come soggettività scissa, tale dunque da sostenere la parola intermittente, il pensiero della separazione e la distanza abissale. La parola magistrale è, allora, ciò che viene a spezzare l’equilibrio del piacere, ciò che costantemente lo eccede: identificare la verità con il maestro stesso o con l’oggetto determinabile dal sapere, renderla, dunque, manipolabile, produce – lo abbiamo visto – un allegerimento della tensione del desiderio. Ma se il maestro insegna la distanza della verità attraverso la distanza che interpone fra se stesso e l’allievo, allora la sua parola è portatrice di dolore: del dolore puro del pensiero, dell’infelicità della ragione. Nessuna meraviglia, quindi, se il discepolo, ma anche il maestro, tentino continuamente di rimuovere la distanza che li separa e con essa quella che patiscono rispetto alla verità; che si provino ad abolirla o perlomeno a mediatizzarla, a governarla attraverso una misura assoluta. È allora che il maestro scade a Maître del sapere dell’altro ed il discepolo assume la posizione di servo, dimentico che, come la vera vita, il maestro è sempre assente, è l’iscrizione dell’assenza della verità. E tuttavia la legge del dialogo, mentre ordina il discorso unico, continuo ed universale, obbliga, allo stesso tempo e sempre, alla sua sospensione, all’arresto della parola nella parola stessa. È là, allora, sul bordo del discorso, sul limite del dire, che, attraversato dalla spaccatura della parola, emerge il soggetto della ricerca, la voce interrogante dell’esposizione filosofica. Ma come potrebbe aver luogo, essere là, se un’altra voce non ve la chiamasse, se da un’altra voce non venisse educata al compito del pensiero? È per questo che dall’altra bordatura del discorso risuona la voce del maestro che educa al pensiero educando al dolore, che trasmette nella forma della distanza la parola intermittente – la distanza della verità. Se il compito del pensiero è pensare l’impensabile, allora il soggetto dell’impensabile è il soggetto del dolore del pensiero ed il compito del maestro è condurre il soggetto al suo disastro.

***

Che cos’è il disastro? Quell’avvenimento – abbiamo detto – a partire dal quale ha luogo qualcosa come il soggetto di desiderio. Ora, la

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‘scrittura del disastro’ di cui Blanchot si fa portavoce dovrà condurci ad una sua tematizzazione più radicale e decisiva; in primo luogo, noi dovremo pensare il disastro secondo la natura dell’avvenimento, secondo, cioè, il carattere eventuale che concerne l’accadere in quanto tale; in secondo luogo, saremo condotti ad interrogarci sullo statuto del soggetto del pensiero come soggetto del disastro, sottomesso ad una legge nella sua stessa essenza disastrosa; ed infine dovremo scoprire l’inaudita connessione fra il regno del disastro e quello del pensiero. Non v’è dubbio, innanzitutto, che una riflessione sul disastro mostra, ad una prima lettura, un carattere, per così dire, epocale: l’attualità storica si è incaricata di rendere effettuale la possibilità, finora relegata nel registro immaginario, di un’estinzione quasi-volontaria della specie umana. È per questa ragione che il disastro diviene l’oggetto precipuo di una interrogazione di ordine etico: come opporsi all’imminenza del disastro, come educare la volontà morale affinché essa inverta la direzione catastrofica dell’accadere storico? Ed insieme: come parlare ancora, di fronte alla possibilità dell’estinzione, di uno scopo, di una destinazione morale della specie? Domande – come si ricorderà – cui Kant aveva tentato di dare una risposta il cui limite noi avevamo indicato in un certo primato accordato, nonostante tutto, al modello rappresentativo. Se l’auto-interpretazione dell’epoca si esprime, quindi, nella convinzione di trovarsi di fronte alla prossimità del disastro, è da questa consapevolezza, allora, che noi prenderemo le mosse. In primo luogo, tale situazione di vicinanza del disastro viene avvertita come una condizione di passività: la volontà si percepisce debole davanti a forze – scientifiche, tecnologiche e politiche – che appaiano ingovernabili e si sottraggono al potere di decisione della coscienza morale; ancora una volta, si potrebbe dire, lo sviluppo della cultura sembra correre – e questa volta apertamente verso la catastrofe –, mentre il progresso morale zoppica vistosamente e sta al passo. Partiremo, dunque, proprio da qui, da questa passività della volontà morale nei confronti dell’imminenza del disastro per vedere se essa non ci conduca ad un pensiero del disastro che, mentre rende conto dell’auto-interpretazione dell’epoca, non accenni ad una diversa natura dell’evento disastroso. Valga da introduzione questa osservazione di Blanchot: «Noi siamo passivi di fronte al disastro, ma il disastro è forse la passività, e perciò passato e sempre passato»31. Si noterà subito quell’ennesimo 31

M. Blanchot, L’écriture du désastre, cit., p. 9.

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slittamento di senso che la scrittura di Blanchot opera e che non risparmia nemmeno quei termini che l’esigenza dell’univocità linguistica finisce per far apparire ovvi: essere e sentirsi passivi di fronte ad un evento significa, in realtà, essere stati passivizzati da esso; la passività è, allora, un effetto prodotto dall’evento che, di conseguenza, deve essere pensato logicalmente anteriore all’incidenza che esso può avere sul soggetto. Il disastro, dunque, in quanto passivizza, in quanto estranea il soggetto da quella spontaneità che una tradizione di pensiero trascendentalista tende ad attribuirgli, appartiene al passato, è un evento passato. Tuttavia non è il disastro un evento che si situa nel futuro? Non è l’oggetto di un’attesa angosciosa (o, forse, interessata, se siamo dei terroristi morali)? Cosa vuol dire attendere il disastro? È il disastro un evento che può essere atteso? «Noi – scrive Blanchot – siamo sul bordo del disastro, senza poterlo situare nell’avvenire: esso è piuttosto sempre già passato, e tuttavia noi siamo sul bordo o sotto la minaccia, tutte formulazioni che implicherebbero l’avvenire se il disastro non fosse quel che non viene, ciò che arresta ogni venuta»32. È vero, dunque, che noi ci sentiamo sul bordo del disastro, che ne avvertiamo la minaccia e, tuttavia, questo non vuol dire che il disastro si situi in un tempo avvenire, sia, in altre parole, un evento della serie del futuro. Se mai lo fosse, infatti, esso implicherebbe una prosecuzione del tempo e, quindi, altri accadimenti successivi al disastro stesso. Ma se noi vogliamo pensare il disastro fino in fondo, allora esso rappresenta la sospensione stessa di qualunque accadere futuro: il disastro non può, dunque, implicare l’avvenire perché esso, come scrive Blanchot, è pensato appunto come quell’evento che toglie la possibilità dell’accadere – in altri termini, come la fine di ogni possibile accadere. Il disastro nucleare – giacché è di questo che si tratta – rappresenta, infatti, nella realtà e nel nostro immaginario, l’estinzione della specie umana e, quindi, la scomparsa di un qualunque accadere che ci concerna; da questo punto di vista il giorno del disastro presenta esattamente lo stesso statuto dell’ultimo giorno e, di conseguenza, tutti i paradossi temporali che abbiamo visto a proposito di Kant33. Ora, se è 32

Ivi, p. 7. È, infatti, un giorno ultimo e primo: perché, altrimenti, avremmo immaginato il day-after? Occorre pensare il registro immaginario nella sua estrema complessità; da un lato, l’immaginario fonda una continuità temporale: su di un’unica linea temporale pone, infatti, la vita, la morte e la sopravvivenza – una volta il fantasma, il revenant, oggi gli scampati al disastro. In tal modo l’immaginario rimuove la morte sebbene ne registri il ritorno fantasmatico. Dall’altro, quell’impossibilità di farsi un’immagine alcuna della 33

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vero che il disastro esclude l’avvenire, quale senso daremo a quelle espressioni secondo le quali noi ci sentiamo sul suo bordo, sotto la sua minaccia? Esse non saranno annoverate semplicemente fra le ambiguità dei linguaggi naturali che un’analitica s’incarica di ridurre, né ricomprese nel territorio della falsa coscienza: che il disastro non possa essere pensato che come evento del futuro, nonostante sia di questo la più completa abolizione, significa che la sua declinazione temporale più propria è quella di un futuro anteriore. Come si vede il tempo del disastro è il tempo dell’evento in generale: accadimento che accade senza avere luogo, ciò che non avviene, ciò che nel suo avvenire si cancella; quel che avrà avuto luogo o sarà stato là, passato puro mai appartenuto ad un qui, sottratto al dominio della presenza. Se all’evento, quindi, noi non daremo il carattere dell’identità, bensì piuttosto quello della differenza, allora dovremo attribuirgli anche, quale modo della sua temporalizzazione, lo statuto della ripetizione. Un evento, infatti, che non si articola secondo una relazione causale né si struttura in un flusso coscienziale, è un evento che insiste nel tempo: sempre già dato e sempre adveniente. Se lo si attende, è perché è da sempre là, sperduto in un passato immemoriale ed insieme disseminato nelle ‘epoche’ del tempo. È semmai il tempo – la serie irreversibile degli eventi empirici, dei fatti – che si distende a partire dall’evento del disastro: ciò che attendiamo, quindi, sul bordo o sotto la minaccia, non è altro che il ritorno impossibile di un evento che mai potremo anticipare e di cui non avremo mai un ricordo, un evento che, come la nascita e la morte per la nostra vita individuale, è il dentro/fuori, la cornice e la soglia della nostra esistenza storica. Si potrebbe dire, infatti, che, se noi collochiamo il disastro nel futuro, è perché, in qualche modo, ne anticipiamo la venuta (sebbene una tale anticipazione non coincida per nulla con una sua pensabilità, ma semmai con un’immagine che, tuttavia, come si è visto, non immagina nulla: non è il disastro un esempio del sublime e, di conseguenza, al di là del potere trascendentale dell’immaginazione?); e se possiamo anticiparla ciò dimostra che il disastro è un evento passato. D’altro canto, però, la sua non pensabilità, che poggia sulla sua inimmaginabilità, esclude che di esso si possa avere un ricordo (l’immaginazione temporalizza, infatti, soltanto dati già elaborati dalla spazio-temporalità). distruzione totale (non appartiene, forse, alla sfera del sublime?), se non come buco nero, pura spaziatura del tempo storico, dimostra che esso è attraversato dal lavoro silenzioso della pulsione di morte.

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IL DISCORSO E LA CENERE

Dobbiamo concluderne, allora, che il disastro sia un evento che ci concerne (ne parliamo, lo temiamo, lo attendiamo con angoscia, ci battiamo contro di esso) senza, tuttavia, averne alcuna esperienza né, d’altronde, poter sperare di averla mai – se il disastro avvenisse, chi, infatti, resterebbe a testimoniare della sua venuta? I tratti del disastro sono, come si vede, gli stessi della parola intermittente: parola – lo si ricorderà – che non ci concerne, ma che, tuttavia, ci obbliga. Ma non vogliamo già da adesso affrontare questo punto che implica il rapporto del disastro con la legge del dialogo ed in ultima analisi la corrispondenza del pensiero al disastro. Ci interessa per ora far vedere come il disastro, non essendo un’esperienza possibile e tuttavia concernendoci, implichi un certo statuto della soggettività: un soggetto passivo ed esposto, ferito e privo d’identità. Col che noi ci troviamo ricondotti a quel senso del disastro come evento del soggetto di desiderio di cui parlavamo in apertura. Ora, quando noi ci interroghiamo sul disastro – per costruire strategie che ne allontanino l’effettualità o per elaborare progetti morali e politici che ne escludano per sempre la possibilità –, su che cosa effettivamente domandiamo? In altri termini, chi è l’interrogante del disastro? Da dove parla? Se il disastro non appartiene al territorio dell’esperienza possibile, come può divenire oggetto del discorso del soggetto? E infatti, come scrive Blanchot, «il disastro non mette in questione, ma toglie la questione, come se con essa ‘io’ scomparissi nel disastro senza apparenza. Il fatto di scomparire non è precisamente un fatto, un avvenimento, non avviene, non solamente perché – e ne va della supposizione stessa – non vi è ‘io’ per subirne l’esperienza, ma perché non se ne potrebbe avere un’esperienza, se il disastro ha sempre luogo dopo aver avuto luogo»34. Riflettiamo su queste parole: non c’è domanda sul disastro, non c’è domanda sulla sua essenza, dal momento che esse presupporrebbero un ‘io’, un soggetto dell’enunciazione ed insieme un testimone, un soggetto, cioè, di un’esperienza possibile. Ora, non è solamente in gioco il fatto che il disastro manca del carattere dell’esperienza, ma che nel disastro scompare anche l’io, cioè il soggetto della domanda; e la scomparsa dell’io non è a sua volta un fatto – un evento empirico che si può protocollare in un enunciato e che, quindi, presuppone di nuovo un soggetto dell’enunciazione –, bensì il disastro stesso. Cosicché una 34

M. Blanchot, L’écriture du désastre, cit., p. 50.

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domanda sul disastro incorrerà, alla fine, nella critica negativistica di un’argomentazione sofistica: il disastro non esiste; se esiste non c’è io che lo possa conoscere; se c’è, non lo potrà comunicare. E allora chi domanda sul disastro? E da dove? È certo che fin quando resteremo legati ad un concetto di soggettività come soggetto logico dell’enunciazione, come soggetto epistemico, tale questione non avrà risposta. Dovremo pensare una soggettività patica; ma appunto una soggettività patica non è altro che una soggettività che ha patito il disastro, che è stata passivizzata dal disastro. Che l’io sprofondi nel disastro non significa, allora, la scomparsa in generale del soggetto, ma soltanto la sovversione ad opera del disastro del soggetto della scienza. Dal disastro emerge, al contrario, il soggetto morale che, unico, può sostenere la domanda sul disastro. È che se noi possiamo interrogarci sulla provenienza del disastro – domanda genealogica di cui già conosciamo il carattere indecidibile –, è perché il disastro è la provenienza del soggetto della domanda; se è vero che il disastro è quell’evento che ha luogo sempre dopo aver avuto luogo e, quindi, non è un’esperienza, allora il soggetto può parlarne solo in quanto effetto del disastro. L’aver luogo, nella voce che interroga, dell’evento del disastro è già una ripetizione di un passato immemoriale e, dunque, la voce parla a partire dall’aver avuto luogo del disastro o da un disastro che avrà avuto luogo: parla come un sopravvissuto, parla dallo spazio della morte. Torniamo alla passività: per Blanchot «passività non è ricettività, come se fosse l’informe e l’inerte materia pronta ad ogni forma – passivi gli attacchi del morire (il morire, silenziosa intensità: ciò che non si lascia accogliere; ciò che s’iscrive senza parola, il corpo al passato, corpo di nessuno, il corpo dell’intervallo: la sospensione dell’essere (suspens de l’être), sincope come frattura del tempo e che noi possiamo evocare solo come la storia selvaggia, inenarrabile, che non ha senso presente); passivo: il non racconto; ciò che sfugge alla citazione e che il ricordo non richiamerebbe – l’oblio come pensiero, cioè a dire che non potrebbe essere dimenticato perché sempre già caduto fuori memoria»35. In primo luogo, Blanchot distingue il concetto della passività da quello della ricettività; quest’ultimo presenta, come si vede, un aspetto paradossale: mentre rimanda, da un lato, ad una specie di docilità quasi assoluta – ‘l’informe ed inerte materia’ –, implica, dall’altro, una sorta di attesa febbrile – ‘pronta ad ogni forma’. L’esser ricettivi accenna, in 35

Ivi, pp. 48-49.

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realtà, ad una attività del soggetto che accoglie, è vero, il dato sensibile nella sua atomicità, ma per lavorarlo immediatamente attraverso le proprie strutture percettive o conoscitive. La passività, al contrario, significa uno stato di passivizzazione del soggetto che esclude proprio l’esercizio di un’attività ricettiva; quando il soggetto accoglie l’evento – del disastro ad esempio – è il suo potere di messa in forma, cioè di significazione, che viene meno. Egli, piuttosto, si fa tramite e spazio dell’avvenire dell’evento nel suo carattere di sospensione del senso; se può parlare dell’evento, è perché egli lo lascia essere come limite del senso, come soglia della significazione in generale. Il rapporto che Blanchot istituisce fra la passività e la morte deve essere compreso in questa direzione; vi accenneremo soltanto per mostrare che la morte, in quanto evento di cui non è possibile esperienza36, come sospensione, dunque, della pensabilità/dicibilità dell’essere, può inerire, tuttavia, al soggetto soltanto nella forma della passivizzazione: posso parlare della morte solo perché, patendola, io divengo il luogo in cui essa continua a morire, muore interminabilmente. È la morte ad essere la passività, vale a dire quella intensità silenziosa che insiste nella vita – gli attacchi del morire – e che, ripetendosi, passivizza il soggetto. Ma ciò che qui ci riguarda in modo precipuo è l’altra osservazione di Blanchot: passività è il non raccontabile. L’impossibilità di una messa in forma non solo esclude una pensabilità dell’evento a partire dalle coordinate di un’esperienza possibile, ma soprattutto elimina in modo radicale la forma racconto, impedisce la citazione, annulla la memoria. Rende impossibile, cioè, che sia tramandabile attraverso il discorso della scienza, divenga l’oggetto di un sapere; d’altronde esso, tradotto in dicibilità e misurabilità, perderebbe esattamente il carattere di evento. Ma non per questo, tuttavia, l’evento non si trasmette: passivo, l’evento si tramanda passivizzando il soggetto, vale a dire fa cenno proprio attraverso la passività del soggetto. Ciò che è in gioco nel discorso di Blanchot è una soggettività scissa, spezzata dall’evento del disastro e che proprio per questo diviene il 36 In un senso distante dalla tesi heideggeriana secondo la quale la morte è sempre la mia morte. Per Blanchot, la morte, in quanto esperienza della passività, spossessa, non può mai essere mia. Se la morte è sempre la morte dell’altro è perché nel suo sguardo io posso vedere la morte all’opera: l’opera, senza opera, della morte che è l’alterità e che, quindi, altera e passivizza il soggetto. Su questo punto si veda, ad esempio, M. Blanchot, La communauté inavouable, Paris 1983, in particolare pp. 21-23 (tr. it. di M. Antomelli, Milano 1984, pp. 19-22).

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segno attraverso cui esso può significarsi. «La soggettività – scrive, infatti, Blanchot – in quanto esposizione ferita, accusata e perseguitata, in quanto sensibilità abbandonata alla differenza, cade a sua volta fuori dall’essere, significa al di là dell’essere, nel dono stesso – la donazione del segno che il suo sacrificio smisurato consegna ad altri (autrui): essa è, allo stesso titolo di altri (autrui) e del volto, l’enigma che sconvolge l’ordine e risalta sull’essere: l’eccezione dello straordinario, la messa fuori fenomeno, fuori esperienza»37. Tralasceremo quell’accenno ad autrui ed al volto che implicherebbe la tematizzazione del rapporto fra Blanchot ed il pensiero di Lévinas38; vogliamo porre in rilievo, invece, quel tratto per cui una soggettività passivizzata – ferita, accusata e perseguitata: un soggetto, appunto, che si fa vittima –, cadendo fuori dall’essere, fuori, dunque, dall’esperienza e dal fenomeno, diviene il luogo della donazione (l’Il y a, l’Es gibt, l’aver luogo di un dono che fa dono dell’essere) ad altri di quel segno che significa l’al di là dell’essere. Per effetto del disastro, dunque, la soggettività diviene segno (più ancora che significante, dovremmo dire lettera disseminata, destinata all’assenza di destinazione); insistenza nell’essere e nel detto di ciò che cade fuori dall’essere e dal detto: segno dell’origine e della fine. Ma soprattutto dono: se essa è donazione del segno, è perché a sua volta la soggettività è il dono del disastro. Siamo giunti così a quel terzo punto 37

M. Blanchot, L’écriture du désastre, cit., p. 43. Non è possibile in questa sede analizzare in dettaglio i debiti reciproci fra Blanchot e Lévinas così come le profonde differenze che li separano. Ci sembra di poter sostenere, tuttavia, che il carattere impersonale e neutro attribuito da Blanchot all’alterità ecceda la nozione levinasiana di autrui. Di Blanchot su Lévinas si veda L’écriture du désastre, cit., pp. 36-58 (si tratta di una serie di frammenti riguardanti la passività del soggetto di fronte ad altri). Di Lévinas su Blanchot si veda, invece, Sur Maurice Bianchot, Paris 1975. In generale Lévinas riconduce il tema del neutro a quello dell’il y a (Es gibt) che costituisce la cifra del dominio dell’ontologia e della rimozione dell’alterità: si veda a tal proposito De l’existence a l’existant (1947), Paris 1984, soprattutto pp. 93 sg. Ma si confronti quanto Lévinas dice a proposito di Blanchot in Ethique et infini, Paris 1984: dopo aver ribadito la distanza del suo pensiero dall’impersonalità dell’il y a e rispondendo ad una domanda dell’interlocutore sulla posizione ontologica della riflessione di Blanchot, Lévinas aggiunge: «In Blanchot non si tratta più dell’essere, né di un ‘qualcosa’, e bisogna sempre disdire ciò che si dice – è un avvenimento che non è né essere né niente. Nel suo ultimo libro (L’écriture du désastre), Blanchot lo chiama ‘disastro’, ciò che non significa né morte né disgrazia, ma come dell’essere che si sarebbe staccato dalla sua fissità d’essere, dalla sua referenza ad una stella, da ogni esistenza cosmologica, un dis-astro. Egli dà al sostantivo disastro un senso quasi verbale (pp. 40-41). Ma immediatamente dopo ribadisce le tesi di De l’existence a l’existant. Sul rapporto fra Blanchot, Lévinas (e Bataille) si veda, infine, R. Ronchi, Bataille Lévinas Blanchot, Milano 1985. 38

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di cui abbiamo parlato in apertura: il rapporto del pensiero e del disastro. Ripartiamo dalla soggettività: abbiamo detto che essa è un tramite; ci sembra, ora, di poter chiarire meglio questa affermazione: la soggettività è un ‘fra’, un intervallo fra il disastro e il segno, fra il dolore del disastro e la donazione del segno. Proviamoci, adesso, a far interagire su questa definizione del soggetto un altro frammento blanchottiano in cui il disastro si svela come il dono del pensiero. Leggiamo: «Pensare sarebbe nominare il disastro come retro-pensiero. Non so come sono avvenuto là, ma è possibile che io avvenga al pensiero che conduce a tenersi a distanza dal pensiero; giacché è questo che dona il pensiero: la distanza. Ma andare al limite del pensiero (sotto la specie di questo pensiero del limite, del bordo) non è possibile solamente cambiando pensiero? Da qui questa ingiunzione: non cambiare pensiero, ripetilo se puoi»39. Frammento veramente vertiginoso come si vede: Blanchot vi istituisce infatti un rapporto fra il disastro, il pensiero e la distanza. In primo luogo pensare consisterebbe nel nominare il disastro, ma nel nominarlo come il retro-pensiero, vale a dire come l’altro dal pensiero che, tuttavia, è ancora in relazione col pensiero: potremmo dire il lato impensabile del pensiero. Ma, in secondo luogo, ciò che rende possibile questa nominazione è ancora una volta nient’altro che il pensiero: il dono del pensiero, infatti, è la possibilità di mettere distanza nel pensiero, più propriamente di introdurre la distanza fra il pensiero e se stesso. E solo un pensiero della distanza e messo a distanza da se stesso permette di entrare in una relazione di pensiero con l’altro dal pensiero. C’è da chiedersi: la distanza è il pensiero? Ma è chiaro che non ci riuscirà di ricondurre il pensiero frammentario di Blanchot nei limiti di una logica della definizione. Dovremo lasciare, al contrario, tutti questi enunciati alla loro indecidibilità; essi formano piuttosto una costellazione la cui legge è lo slittamento o l’arresto del processo di significazione affinché sul limite del senso emerga il segno dell’al di là dell’essere. Possiamo dire, dunque, sia che il disastro come l’impensabile è il dono del pensiero, sia che il pensiero della distanza è il dono del disastro. Saremo costretti a passare da un enunciato all’altro senza poter individuare la linea di confine; faremo sempre un passo al di là che si rivelerà sempre un passo indietro. E, tuttavia, è anche vero che in questa apparente circolarità da circolo vizioso noi abbiamo fatto un passo 39

M. Blanchot, L’écriture du désastre, cit., p. 13.

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avanti, piccolo forse, ma tale da permetterci di prendere lo slancio ed impedire che il soggetto morale sia travolto dallo sviluppo della cultura. ‘Noi siamo sul bordo del disastro, sotto la sua minaccia’: era da qui che eravamo partiti; e ci eravamo chiesti: chi pone la domanda sul disastro? E da dove? Ma pensare il disastro come quell’imminenza che ci sovrasta non è pensare al limite, non significa predisporsi ad un pensiero del limite? In altri termini, pensare sul bordo del disastro vuol dire pensare il disastro come bordo, come limite della nostra esistenza storica. Ed ancora pensare il limite non è forse andare al limite del pensiero, vale a dire pensare l’impensabile? Andiamo più a fondo: come potremmo pensare il disastro come limite se non fossimo già avvenuti al pensiero come a ciò che dona la distanza e, quindi, la possibilità di relazionarsi all’altro dal pensiero? Ma, infine, come saremmo avvenuti al dono del pensiero se non attraverso il dono del disastro? Il disastro, non dimentichiamolo, è il già da sempre passato o, piuttosto, ciò che da sempre avrà avuto luogo; l’avvenire del disastro è, dunque, la condizione di pensabilità del disastro. È perché il pensiero, come dono del disastro, è già pensiero del limite, che a noi è dato di pensare il disastro. Possiamo, ora, tentare una conclusione: se il disastro non è un evento delle serie del futuro, è perché esso, in quanto passato immemoriale, è l’origine della specie umana. La specie è effetto e dono del disastro; e se l’attende – con paura, con rabbia – è perché da sempre ne è la ripetizione interminabile. Pensare il disastro è pensare il limite, la differenza: la differenza specifica. Si potrebbe dire, in altri termini, che la specie è da sempre ciò che sopravvive al disastro: la sua essenza: ciò che resta di un disastro, ciò che fa segno dell’al di là dell’essere. Vogliamo dire che la condizione per lottare contro la possibilità del disastro risiede nell’essenza disastrosa della specie: fin quando il disastro verrà pensato come il senza relazione con la specie, nemmeno secondo quel legame che il pensiero intrattiene con il non pensabile, evento che semplicemente ci sovrasta e non evento cui da sempre apparteniamo e che da sempre ci concerne; fin quando, insomma, il disastro non sarà compreso come ciò che ha già da sempre avuto luogo (dopo aver avuto luogo) e che, ritornando nella vita della specie, sembra attenderci dall’imminenza dell’avvenire, fino ad allora il soggetto morale si rivelerà impotente a contrastarlo. Occorre, dunque, liberarsi da ogni forma di rassicurazione che, negando l’essenza disastrosa della specie – umanesimo, richiamo alla perennità dei valori, fede nella storia: tutte le forme, quindi, di meta-racconto –, consolida, in realtà, il

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prepotere empirico dello ‘sviluppo della cultura’ ed impedisce il balzo del soggetto morale. Bisogna sapere che star sul bordo significa essere il bordo, incarnare il limite, coincidere col disastro: solo così il soggetto diviene il luogo della donazione del segno che fa cenno del disastro come dell’impossibile e, quindi, dell’impossibilità del disastro. Posizione difficile, insostenibile. La tentazione della distrazione ci prende al di là della nostra intenzione; il dolore insopportabile cui ci costringe la tensione cui sottoponiamo il desiderio impone una catarsi, un allegerimento: il tempo fantasmatico di un lutto. Cerchiamo scappatoie: non potremmo andare al limite del pensiero così semplicemente cambiando pensiero? Disfacendoci di questo pensiero del limite? Non c’è un altro modo? Blanchot ha risposto con un’ingiunzione: non cambiare pensiero, ripetilo se puoi. No! Andare al limite è ripetere il pensiero del limite, il pensiero come limite. Esegesi interminabile, forse ironica e che non fa opera di senso; parola frammentaria, tuttavia, che ripete la distanza in nome dell’ingiunzione discreta della legge. Legge del dialogo o legge del disastro? Ancora una volta una domanda indecidibile: «La legge sarebbe essa il disastro, la legge suprema ed estrema, l’eccessivo della legge non codificabile: ciò cui noi saremmo destinati senza che ci concerna»40. Solo divenendo i soggetti di questa legge suprema ed estrema, di questa legge che ci obbliga ad andare al limite, all’estremo limite di ciò che noi siamo – destinazione cui ci destina la legge senza codice, la legge al di là del senso –, si realizza l’essenza della specie: l’indivisibile appartenenza al disastro che ci rende uomini.

***

E se Auschwitz rappresentasse, nella nostra attualità storica, l’aver luogo di una tale donazione del segno? Si badi: non di un segno storico che, alla maniera kantiana, mette in moto quell’entusiasmo da cui emerge il soggetto morale come soggetto dell’interpretazione; ma come donazione di quel segno che, testimoniando del limite del senso e, quindi, dell’impossibilità dell’interpretazione, accenna al disastro come all’essenza della specie umana. D’altronde dove trovare più che ad Auschwitz una soggettività ferita, accusata, perseguitata, una soggetti40

Ivi, p. 7.

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vità passivizzata dalla morte, esposta all’abiezione, fatta cenere? È la cenere un segno? Finora noi l’abbiamo escluso: se la cenere non è un significato, tanto meno è un indice; ma qui il segno è il segno della specie andata al limite, condotta sul bordo del disastro, portata nell’imminenza di una minaccia di distruzione radicale, senza resto o residuo. Ad Auschwitz la specie ha pensato se stessa come l’impensabile, indivisibile disastro che si erge alla fine contro la volontà perversa di estinzione, contro il desiderio paranoico dell’eliminazione totale dell’altro. Come non si può nominare il disastro se non come retro-pensiero, così non c’è parola per nominare l’olocausto se non di cenere: come dare un nome al senza nome, come pensare ciò che sospende il senso? Scrive Blanchot: «Il nome sconosciuto, fuori nominazione: l’olocausto, avvenimento assoluto della storia, storicamente databile, questo bruciatutto (toute-brûlure) in cui tutta la storia si è incendiata, dove il movimento del Senso si è inabissato, dove il dono, senza perdono, senza consenso, è andato in rovina senza dar (donner) luogo a nulla che potesse affermarsi, né negarsi, dono della passività stessa, dono di ciò che non può darsi (donner). Come conservarlo (garder), fosse anche nel pensiero, come fare del pensiero ciò che custodirebbe l’olocausto dove tutto si è perduto, compreso il pensiero vigile (gardienne)? Nell’intensità mortale, il silenzio sfuggente del grido innumerevole»41. Come potremo nominarlo l’olocausto che ha bruciato la storia e fatto sprofondare il senso? Come conservare il qui ed ora, la data determinata, l’istante del tempo in cui si è data la sofferenza inaudita ed indicibile senza che si vanifichi nell’universalità astratta dell”io=io’, senza che divenga un presente storico? Come pensare l’evento che non avviene quando in esso si è inabissato anche il pensiero vigile, il pensiero legislatore di un soggetto logico? Ancora una volta domande difficili, forse impossibili; domande che vanno sostenute come domande senza nessuna illusione sulla possibilità di una risposta. Auschwitz è un evento assoluto nella storia: ciò vuol dire sciolto non solo da qualunque concatenazione empirica, ma anche sottratto alla possibilità dell’enunciazione in generale. Evento passivo, dono della passività, Auschwitz esclude la messa in forma, il concatenamento delle frasi, la forma-racconto, la citazione come condizione preliminare di un sapere vero. Auschwitz è il fuori-tradizione; se si trasmette ciò è possibile alla condizione di sospendere l’invio ed il 41

Ivi, p. 80.

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IL DISCORSO E LA CENERE

tramandamento storico. Se qualcosa proviene da Auschwitz è la ripetizione dell’impossibilità di qualunque provenienza, dell’assenza d’origine, dell’oscillazione impazzita di una genealogia. E non basta: come abbiamo visto, commentando Antelme, Auschwitz non costituisce una comunità: nemmeno quella delle vittime. Non c’è consenso ad Auschwitz, né tra le vittime che si strappano il poco cibo concesso, che si vendono reciprocamente alle SS per procurarsi un sovrappiù di fittizia sopravvivenza, che per dilazionare il momento della morte accettano di far da squadra di pulizia delle camere a gas; ma nemmeno tra coloro che, coscienze vigili ed indignate, vogliono ricordare, pretendono che tutti sappiano. Che cosa? Quel che non si può sapere. Vi sarà sempre qualcuno che dirà, parlando sul silenzio delle vittime, calpestando una ghiaia fatta di cenere: l’olocausto? Impossibile, inimmaginabile. E dirà il vero: l’olocausto è l’impossibile. E, tuttavia, la voce deve dirlo: «Che il fatto concentrazionario, lo sterminio degli ebrei e i campi della morte dove la morte continua la sua opera, siano un assoluto che ha interrotto la storia, si deve dirlo senza tuttavia poter nulla dire d’altro. Il discorso non può svilupparsi a partire da lì. Coloro che avranno bisogno di prove, non ne riceveranno. Anche nell’assenso e nell’amicizia di quelli che portano lo stesso pensiero, non c’è quasi affermazione possibile, perché ogni affermazione si è già infranta e l’amicizia vi si sostiene difficilmente. Tutto è andato a fondo, tutto va a fondo, nessun presente vi resiste»42. Non riconosceremo, forse, in quel si deve il tono di sconforto della voce filosofica? L’effetto di détresse di una legge priva di codice e che eccede il senso? Di una legge che ordina: ‘Devi, dunque non puoi’? Se Auschwitz riguarda la ‘vocazione’ filosofica, ciò non andrà inteso nel senso di costituire un pretesto per una messa in crisi della tradizione ontologica o per una rinnovata fiducia nel senso della storia. La filosofia è chiamata da Auschwitz a sprofondare come pensiero vigile, vale a dire a passivizzarsi ed a trasformarsi in parola e scrittura frammentarie. La filosofia dovrà dire, senza poterlo, il segno che non fa opera di senso: aprire la distanza nel pensiero, divenire disastro – e la sua voce farsi voce di cenere. È, infine, il problema della scrittura filosofica: se Auschwitz si tramanda solamente nell’intensità del morire, in un morire, cioè, che continua la sua opera, in un morire che arresta il compimento della morte, in un morire che non sopporta il lutto; se tra42

M. Blanchot, Le pas au-delà, cit., p. 156.

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smette il silenzio del grido innumerevole, il puro non poter parlare della çreatura-vittima; se, dunque, insegna la distanza del pensiero e, quindi, richiede come forma della ricerca il frammento e la separazione; se, infine, ripete il disastro, il brucia-tutto, l’olocausto come origine e fine della specie umana e se attizza il fuoco sotto la cenere, se continua a bruciare la storia; se tutto questo è vero, allora solo la scrittura, l’opacità del dire, il muto segno scritto, quest’eco mortale di una voce immemoriale, sosterranno la domanda del pensiero, l’attesa del desiderio, il passo abissale del soggetto filosofico. «Scrivere – osserva Blanchot – non è porre al futuro la morte già da sempre passata, ma accettare di subirla senza renderla presente e senza rendersi presente ad essa, sapere che ha avuto luogo, benché non sia stata provata, e riconoscerla nell’oblio che lascia e le cui tracce che si cancellano, chiamano a trarsi fuori (s’excepter) dall’ordine cosmico, là dove il disastro rende il reale impossibile e il desiderio indesiderabile»43. Come il disastro che trasforma il reale in impossibile, anche la morte ha già da sempre avuto luogo: quella morte gasata che ci inorridisce è già ripetizione di un lavoro silenzioso e notturno che disfa la trama luminosa e loquace dell’ordine del senso. Morte che lascia tracce che scompaiono – tracce di cenere – e che obbligano il soggetto a cader via dall’universo ordinato e chiuso, dal discorso che si pretende compiuto, dalla parola totalizzante e falsa. Da Auschwitz nessun discorso prende origine, nessuna concatenazione di frasi – forse solo una frase che, detta, scritta, già s’incenerisce. Allora, se la scrittura è la modalità della sopravvivenza di una parola intermittente, essa non sarà destinata «a lasciare tracce, ma a cancellare, attraverso le tracce, tutte le tracce, a scomparire nello spazio frammentario della scrittura, più definitivamente di quanto non si scompaia nella tomba, o ancora a distruggere, distruggere invisibilmente, senza lo strepito della distruzione»44. Già lo abbiamo detto: una semplice cancellazione non sottrae la traccia al dominio della presenza; per questo scrivere mira a cancellare, attraverso le tracce, tutte le tracce, anche le tracce di una cancellatura. È che Blanchot quando pensa la scrittura, pensa, più che ad una pratica monumentale o investigativa, ad uno spazio, vale a dire ad una spaziatura della parola che faccia sprofondare il senso stesso della traccia: d’essere comunque lavorabile, sottoponibile alla pratica dell’interpretazione, in una parola valorizzabile. 43 44

M. Blanchot, L’écriture du désastre, cit., pp. 108-109. M. Blanchot, Le pas au-delà, cit., p. 72.

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IL DISCORSO E LA CENERE

Questa traccia non resta, non si raccoglie, è il non appartenente; piuttosto si dissemina, si sfoglia e si disperde: «Frammenti – insiste Bianchot –, marche del frammentario, rinvianti al frammentario che non rinvia a nulla e non ha referenza propria, tuttavia attestandolo, brandelli che non si compongono, non fanno parte di nessun insieme, salvo che per renderlo parcellare, non separati o isolati, sempre al contrario multipli senza moltiplicare, effetti di scarto, scarto sempre scartato, la passione del frammentario, effetti d’effetti»45. I frammenti, come si vede, non sono degli indici, non rinviano né a se stessi né ad un senso che attraverso di essi si metaforizzerebbe. Essi sono marche dello spazio del frammentario; e quest’ultimo non è uno spazio unitario, non è un insieme da ricostituire; semmai i frammenti dissolvono gli insiemi già dati, li riducono a brandelli. Ma ancora una volta ciò non andrà inteso nel senso di una ideologia nichilista del frammento isolato ed irrelato. Nella perdita di unità si fa luce un’altra coerenza: senza crescita alcuna, sottoposti anzi al silenzioso lavoro della distruzione, i frammenti obbediscono all’obbligo discreto della legge: mostrare la differenza come legame originario e perduto che lega l’altro all’altro e li fa parlare la loro umana parola. I tratti del frammento sono, infine, quelli della cenere; ed allora la voce filosofica come voce di cenere risponde alla voce della legge: discorrere per sospendere il discorso, incenerirlo affinché si mostri, senza alcuna pretesa di testimonianza, il brucia-tutto, il disastro come destinazione della specia umana. La filosofia sarà, dunque, la pratica dell’interruzione; più che istituirsi in discorso (esito, per un verso, inevitabile), occuperà l’interstizio, l’intervallo fra i discorsi, i regimi di frasi, le forme di vita e di sapere, dirà la verità in un semi-dire, per enigmi e per cenni. ‘Nostra compagna clandestina’ – così l’aveva chiamata Blanchot –, la filosofia è una pratica quasi settaria, ma non per questo meno pubblica; anzi è interamente e totalmente pubblica, esposta e passiva molto più di un qualunque sapere. Essa si fa carico nel tempo della sua fine e dell’indifferenza dei regimi di frasi e delle forme di vita della vocazione radicale dell’altro. «La filosofia – scrive, infine, Blanchot –, per conservare questo nome, così scioccamente screditato –, richiede più studio, più pazienza e più ricerca, in una parola un’esigenza più seria di qualunque altra attività di sapere. È necessario alzarsi presto per questo, bisogna vegliare con una vigilanza che sorveglia la 45

Ivi, p. 71.

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X. LA LEGGE DEL DIALOGO. MAURICE BLANCHOT E IL DISASTRO DEL PENSIERO

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notte e inoltre non si lascia affascinare dall’altra notte. Bisogna infine parlare pericolosamente e pericolosamente conservare il silenzio, proprio mentre lo si rompe»46. Si deve: è legge – morale – per noi sorvegliare la notte senza sprofondarvi, guardare senza restare sedotti, fare il passo senza cadere, dire il silenzio dentro la parola: noi siamo una voce che oscilla fra il discorso e la cenere.

46

M. Blanchot, estratto di una lettera datata 11 febbraio 1980 riportato in Exercises de la patience infine, tutti i saggi di J. Derrida raccolti ora in Parages, cit.

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Ripetendo qui ciò che, là, in un altro luogo era scritto, appropriandosene mentre ne è espropriato, colui che firma come nome d’autore paga di nuovo il debito della riconoscenza: Rossella Bonito-Oliva, Fabio Ciaramelli, Teresa Catena, Cesare Colletta, Dario Minutolo, Felice Ciro Papparo, Lucio Pepe, Rosanna Petrillo, Flavia Rebuffat, Elena Romito: tutti si riconosceranno nella voce di cenere. Cui spetta, infine, il ‘si deve’ di una controfirma – nome divenuto anonimo – che s’iscrive dove sempre appare: in basso, a destra – detto altrimenti, là:

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Quodlibet Studio

ANALISI FILOSOFICHE

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DISCIPLINE FILOSOFICHE

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Stefano Besoli, Massimo Ferrari e Luca Guidetti (a cura di), Neokantismo e fenomenologia. Logica, psicologia, cultura e teoria della conoscenza Stefano Besoli, Esistenza, verità e giudizio. Percorsi di critica e fenomenologia della conoscenza Barnaba Maj, Idea del tragico e coscienza storica nelle “fratture” del Moderno Tamara Tagliacozzo, Esperienza e compito infinito nella filosofia del primo Benjamin Paolo Di Lucia, Ontologia sociale. Potere deontico e regole costitutive Michele Gardini e Giovanni Matteucci (a cura di), Gadamer: bilanci e prospettive Luca Guidetti, L’ontologia del pensiero. Il “nuovo neokantismo” di Richard Hönigswald e Wolfgang Cramer Michele Gardini, Filosofia dell’enunciazione. Studio su Martin Heidegger Giulio Raio, L’io, il tu e l’Es. Saggio sulla Metafisica delle forme simboliche di Ernst Cassirer Marco Mazzeo, Storia naturale della sinestesia. Dal caso Molyneux a Jakobson Lorenzo Passerini Glazel, La forza normativa del tipo. Pragmatica dell’atto giuridico e teoria della catogorizzazione Felice Ciro Papparo, Per più farvi amici. Di alcuni motivi in Georges Bataille Marina Manotta, La fondazione dell’oggettività. Studio su Alexius Meinong Silvia Rodeschini, Costituzione e popolo. Lo Stato moderno nella filosofia della storia di Hegel (1818-1831) Bruno Moroncini, Il discorso e la cenere. Il compito della filosofia dopo Auschwitz

ESTETICA E CRITICA

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Vittorio Stella, Il giudizio dell’arte. La critica storico-estetica in Croce e nei crociani Giovanni Lombardo, La pietra di Eraclea. Tre saggi sulla poetica antica Giovanni Gurisatti, Dizionario fisiognomico. Il volto, le forme, l’espressione Paolo D’Angelo, Cesare Brandi. Critica d’arte e filosofia Pietro D’Oriano (a cura di), Per una fenomenologia del melodramma

LETTERATURE OMEOGLOTTE

Silvia Albertazzi e Roberto Vecchi (a cura di), Abbecedario postcoloniale I-II. Venti voci per un lessico della postcolonialità Matteo Baraldi e Maria Chiara Gnocchi (a cura di), Scrivere=Incontrare. Migrazione, multiculturalità, scrittura Silvia Albertazzi, Barnaba Maj e Roberto Vecchi (a cura di), Periferie della storia. Il passato come rappresentazione nelle culture omeoglotte Beatriz Sarlo, Una modernità periferica. Buenos Aires 1920-1930 François Paré, Letterature dell’esiguità

LETTERE

Andrea Landolfi (a cura di), Memoria e disincanto. Attraverso la vita e l’opera di Gregor von Rezzori

SCIENZE DEL LINGUAGGIO

John R. Taylor, La categorizzazione linguistica. I prototipi nella teoria del linguaggio

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