Ignoto a se stesso. Saggi su Fernando Pessoa e Luis Cernuda 8870180875, 9788870180879

395 37 853KB

Italian Pages 88 [90] Year 1988

Report DMCA / Copyright

DOWNLOAD FILE

Polecaj historie

Ignoto a se stesso. Saggi su Fernando Pessoa e Luis Cernuda
 8870180875, 9788870180879

  • Commentary
  • Versione migliorata
Citation preview

Octavio Paz

Ignoto

a

se stesso

Saggi su Fernando Pessoa e Luis Cernuda

il melangolo .

.

opuscula /24

Titolo originale El

desconocido de si mismo; La pa/abra edificante

Traduzione di Ernesto Franco

Copyright © Octavio Paz

Copyright © 1988 il melangolo s.r.l.

Genova- via di Porta Soprana, ISBN 88-7018-087-5

3-1

Octavio Paz

Ignoto

a

se stesso

Saggi su Fernando Pessoa e Luis Cernuda

A cura di Ernesto Franco

Con un saggio di Antonio Tabucchi

ii melangolo

PESSOA: IL RUMORE DI FONDO di Antonio Tabucchi

Nel 1962, quando la critica su Fernando Pessoa non de­ notava certo le ipertrofie odierne; anzi, quando Pessoa era in qualche modo un "poeta segreto" che circolava presso un cenacolo di devoti quasi clandestini, questa smagliante perla saggistica di Octavio Paz, prefazione all'edizione messicana di un'essenziale antologia pessoana della quale Paz era an­ che il traduttore in castigliano, additava, come per ispirazio­ ne, delle cifre di lettura alle quali poi il poeta degli eteronimi sarebbe stato diligentemente sottoposto. Ho detto "ispira­ zione' ' perché sotto questi quadrupli profili tracciati con fi­ nissimo senso critico, pulsa quell'intelligenza di lettura, fra l 'intuitivo e l'ispirato, che spesso felicemente posseggono, pro­ babilmente per affinità elettive, certe interpretazioni di poe­ sia fatte da poeti. Letture che prescindono da metodologie, beninteso, che all'analisi preferiscono la sintesi, la definizione, il lampo di cortocircuito e che si costituiscono, proprio per questo, co­ me discorsi paralleli che non vivono all'interno del testo pre­ so in esame, ma che di esso si alimentano per poi alimentarlo a loro volta, per caricarlo, per individuare, restando su un'al­ tra imbarcazione, la rotta che quel testo ha percorso, per mi­ surarne col loro sestante la posizione, per dirci su quali stelle e su quali punti cardinali il comandante dell'altro vascello tracciò la trigonometria del suo viaggio. 9

" I poeti non hanno biografia. La loro opera è la loro bio­ grafia" . Con questa affermazione che apre il suo saggio e che è quasi diventata un motto per i pessoani, Paz si avven­ tura nel "caso " Pessoa attraverso l 'opera: con rigorosa fe­ deltà al programma del poeta portoghese che si costruì le sue biografie plurali attraverso un'opera plurale. Per Octavio Paz il tramite a Pessoa era stato il Surrealismo, movimento ma soprattutto dimensione mentale per i quali, come è noto, il poeta messicano ha sempre nutrito una speciale simpatia. Non mi pare ozioso, per il pessoano di casa nostra, ripercorrere la petite histoire di questo incontro, che da una parte ci rag­ guaglia sulle prime accoglienze internazionali ricevute da Pes­ soa e dall'altra è esplicita sulla sensibilità e sulla vivacità di un'avanguardia come il Surrealismo che alla fine degli anni Cinquanta è un movimento che ormai ha ampiamente detto quanto aveva da dire ma che nonostante tutto è ancora così vitale da poter cogliere con prontezza fermenti e suggestioni che la cultura europea meno "ufficializzata" e direi, nel ca­ so di Pessoa, stravagante, può suggerire. "La primera vez que oi hablar de Fernando Pessoa fue en Paris , una noche de otoiio de 1 95 8 . Habia cenado con unos amigos, en una casa del Marais; uno de los presentes, Nora Mitrani, me pregunt6 mi opini6n sobre el «caso» de Pessoa; no sin confusi6n, tuve que decirle que apenas si sabia algo de la literatura moderna portuguesa. Unos dias después No­ ra me envi6 un numero de «Le Surréalisme, méme», en el que aparecian algunos poemas de Pessoa-Caeiro traducidos por ella [ .. . ] . Hace unos meses muri6 Nora Mitrani; creo que le habria alegrado saber que aquella conversaci6n de 1 958 despert6 una pasi6n" (in F. Pessoa, Antologfa, Pr6logo, se­ lecci6n y traducci6n de Octavio Paz, Editoria! Laia, Barce­ lona 1 95 8 , p. 5). È evidente che il Surrealismo legge Pessoa alla luce dei suoi canoni e lo filtra con il mezzo della psicoanalisi , della scrit­ tura automatica, dello hazard objectif che la dimensione eso10

terica di Pessoa consente (ricordo di passaggio il testo am­ mirevole di Octavio Paz, El Mono Gramdtico, dove hazard objectif, dimensione estetica, reverie e avventura mentale si mescolano) . E proprio di Maestro Caeiro, il misterioso e im­ passibile "oracolo" che con voce monotona parla dalla sua casetta imbiancata a calce nel Ribatejo, Nora Mitrani aveva colto la dimensione inquietante, esoterica, direi metafisica più che surreale, e che Octavio Paz immediatamente recepisce e scandaglia in questo suo saggio. Ma il mistero-Caeiro, che è poi il mistero-Pessoa e sul quale si affaccia tutto il saggio, è per Octavio Paz il mistero della poesia. Pessoa diventa co­ sì non tanto un poeta, ma una figura allegorica, una perso­ nificazione (o personificazione senza persona) dell'assenza, o meglio, come dice Paz, della coscienza dell'assenza. Rinunciando a ricercare il "vero" Pessoa (o l'Altro, o con psicoanalisi banalizzanti il Doppio), Octavio Paz scavalca il problema di una riduttiva e circoscritta interpretazione di Pes­ soa e lo radicalizza. Nella sua lettura ciò che è in gioco è il problema della poesia e, direi, della scrittura. La scrittura che resta e che consola dell'irrealtà che siamo: un qualcosa, un rumore.

Il

IGNOTO A SE STESSO (Fernando Pessoa)

I poeti non hanno biografia. La loro opera è la loro bio­ grafia. Pessoa, che sempre dubitò della realtà di questo mon­ do, approverebbe senza esitare che mi volgessi direttamente alle sue poesie, dimenticando gli incidenti e gli accidenti del­ la sua esistenza terrena. Nulla nella sua vita è sorprendente - nulla, eccetto le poesie. Non credo che il suo "caso" , bi­ sogna rassegnarsi ad utilizzare questa antipatica parola, possa esserne spiegazione; credo che, alla luce delle poesie, il suo "caso" cessi di essere tale. Il suo segreto, d'altronde, sta scrit­ to nel suo nome: Pessoa significa, in portoghese, persona e deriva dal latino di persona, la maschera degli attori roma­ ni . Maschera, personaggio di finzione, nessuno: Pessoa. La sua storia potrebbe ridursi al transito fra l'irrealtà della sua vita quotidiana e la realtà delle sue finzioni . Queste finzioni sono i poeti Alberto Caeiro, Alvaro de Campos, Ricardo Reis e, soprattutto, lo stesso Fernando Pessoa. Così, non sembra inutile ricordare i fatti salienti della sua vita, a condizione di aver coscienza che si tratta delle tracce di un'ombra. Il ve­ ro Pessoa è un altro. Nasce a Lisbona, nel 1888 . Bambino, rimane orfano del padre. La madre torna a sposarsi e, nel 1 896, si trasferisce con i figli a Durban, Africa del Sud, dove il suo secondo ma­ rito era stato inviato come console del Portogallo. Educa­ zione inglese. Poeta bilingue, nel pensiero e nell'opera 15

l' influenza anglosassone sarà costante. Nel1 905 , in procin­ to di entrare all'Università del Capo, deve tornare in Porto­ gallo . Nel1 907 abbandona la Facoltà di Lettere di Lisbona e impianta una tipografia. Fallimento, parola che si ripeterà con frequenza nel corso della sua vita. Lavora poi come "cor­ respondente estrangeiro" , e cioè come redattore ambulante di lettere commerciali in lingua inglese e francese, impiego modesto che gli darà di che sopravvivere per tutta la vita. Certo, in qualche occasione gli si schiudono , con discrezio­ ne, le porte della carriera universitaria. Con l 'orgoglio dei timidi, rifiuta l'offerta. Ho scritto discrezione e orgoglio; forse avrei dovuto dire svogliatezza e realismo: nel 1 932 aspira al posto di archivista in una biblioteca, ma viene scartato. Non c'è ribellione nella sua vita: una modestia, appena, vicina al­ la negligenza. Dal suo ritorno dall'Africa non lascia più Lisbona. Prima vive in una vecchia casa, con una zia zitellona e una nonna pazza. Poi con un'altra zia. Per un certo periodo con sua ma­ dre, vedova di nuovo. Per il resto, in domicili incerti. Vede gli amici in strada e al caffè. Bevitore solitario di taverne e cantine della città vecchia. Altri dettagli? Nel1 91 6 progetta di trovarsi una sistemazione come astrologo. L 'occultismo ha i suoi rischi e un bel giorno Pessoa si vede coinvolto in un imbroglio, ordito dalla polizia contro il mago e "satani­ sta" inglese E .A . Crowley-Aleister, di passaggio a Lisbona in cerca di adepti per il suo ordine mistico-erotico. Ne11 920 si innamora, o crede di innamorarsi, di una commessa. La relazione non dura molto: "il mio destino" - dice nella let­ tera di rottura - "appartiene ad altra Legge, della cui esi­ stenza lei è all' oscuro . . . ". Non si sa di altri amori. C'è una corrente di dolorosa omosessualità nella Ode marttima e in Saudaçiio a Watt Whitman, grandi componimenti che fan­ no pensare a quelli che, quindici anni più tardi, avrebbe scritto il Garda Lorca di Poeta en Nueva York. Ma Alvaro de Cam­ pos, professionista della provocazione, non è tutto Pessoa. 16

Ci sono altri poeti in Pessoa. Casto, tutte le sue passioni so­ no immaginarie. Meglio: il suo gran vizio è l'immaginazio­ ne. Per questo non si muove dalla sedia. E c'è un altro Pessoa, che non appartiene alla vita di tutti i giorni né alla letteratu­ ra: l'adepto, l 'iniziato. Su questo Pessoa non si può né si de­ ve dir nulla. Rivelazione, inganno, autoinganno? Tutto insieme, forse. Come il maestro di uno dei suoi sonetti er­ metici , Pessoa conosce e tace. Anglomane, miope, cortese, sfuggente, vestito di scuro, re­ ticente e familiare, cosmopolita che predica il nazionalismo, investigatore solenne di cose futili, umorista che non sorride mai e che ci gela il sangue, inventore di altri poeti e sabota­ tore di sé stesso, autore di paradossi trasparenti come l'ac­ qua e, come questa, vertiginosi: fingere è conoscersi, misterioso che non coltiva il mistero, misterioso come la lu­ na di mezzogiorno, taciturno fantasma del mezzogiorno por­ toghese, chi è Pessoa? Pierre Hourcade, che lo conobbe verso la fine della sua vita, scrive: "Mai, dopo averlo salutato, osai voltarmi; avevo paura di vederlo svanire, dissolto nell' aria" . Dimentico qualcosa? Morì nel1 93 5 , a Lisbona, di crisi epa­ tica. Lasciò due p/aquettes di poesie in inglese, un delicato libro di versi portoghesi e un baule pieno di manoscritti. Non si sono ancora pubblicate tutte le sue opere.

La sua vita pubblica, in qualche modo bisogna pur chia­ marla, trascorre nella penombra. Letteratura del margine, zo­ na male illuminata in cui si muovono - cospiratrici o lunatiche? - le ombre indecise di Alvaro de Campos, Ri­ cardo Reis e Fernando Pessoa. Per lo spazio di un istante, i brutali riflettori dello scandalo e della polemica le illumi­ nano. Poi, l'oscurità di nuovo. Il quasi-anonimato e la quasi­ celebrità. Nessuno ignora il nome di Fernando Pessoa ma po­ chi sanno chi sia e che cosa faccia. Reputazioni portoghesi , spagnole e ispanoamericane: " Devo aver già sentito il suo 17

nome lei è giornalista o regista cinematografico?". Mi im­ magino che a Pessoa non dispiacesse l'equivoco. Che piut­ tosto lo coltivasse . Stagioni di agitazione letteraria seguite da periodi di abulia. Se le sue apparizioni sono isolate e spasmo­ diche, colpi di mano per terrorizzare i quattro gatti della let­ teratura ufficiale, il suo lavoro solitario è costante. Come tutti i grandi pigri, passa la vita facendo cataloghi di opere che non scriverà mai . E come pure accade agli abulici, quando sono appassionati e immaginosi, per non scoppiare, per non diventare folle, quasi di soppiatto, in margine ai grandi pro­ getti , tutti i giorni , scrive una poesia, un articolo, una rifles­ sione. Dispersione e tensione. Tutto marcato da uno stesso segno: quei testi sono stati scritti per necessità. E questo, la fatalità, è ciò che distingue uno scrittore autentico da chi sem­ plicemente ha del talento. Scrive in inglese le sue prime poesie, fra il 1 905 e il 1 908. A quell'epoca leggeva Milton, Shelley, Keats, Poe . Più tardi scopre Baudelaire e frequenta vari "subpoeti portoghesi " . Insensibilmente torna alla lingua materna, anche se non ces­ serà mai di scrivere in inglese. Fino al 1 9 1 2 l'influenza della poesia simbolista e del "saudosismo" è dominante. In quell'anno pubblica le prime cose, sulla rivista A Aguia, organo del "rinascimento portoghese" . La sua collaborazione consistette in una serie di articoli sulla poesia portoghese . È molto da Pessoa questo iniziare la vita di scrittore come cri­ tico letterario . Non meno significativo è il titolo di uno dei testi : Na Floresta do Alheamento. Il tema dell'alienazione e della ricerca di sé, nel bosco incantato o nella città astrat­ ta, è qualcosa di più di un tema: è la sostanza della sua ope­ ra. In quegli anni si cerca. Non tarderà ad inventarsi . Nel 1 9 1 3 conosce due giovani che saranno i compagni più fidati della breve avventura futurista: il pittore Almada Ne­ greiros e il poeta Mario de Sa-Carneiro. Altre amicizie: Ar­ mando Còrtes-Rodrigues, Luis de Montalvor, José Pacheco. Prigionieri ancora nella malìa della poesia "decadente" , quei 18

ragazzi tentavano vanamente di rinnovare la corrente sim­ bolista. Pessoa inventa il " paulismo" . E ad un tratto, attra­ verso Sa-Carneiro, che vive a Parigi e con cui intrattiene una febbrile corrispondenza, la rivelazione della grande insurre­ zione moderna: Marinetti . La fecondità del futurismo è in­ negabile, anche se il suo splendore si è poi offuscato per le abdicazioni del fondatore. La ripercussione del movimento fu istantanea, forse perché, più che una rivoluzione, fu una rivolta. Fu la prima scintilla, la scintilla che fa brillare la pol­ veriera. Il fuoco si propagò da un estremo all'altro, da Mo­ sca a Lisbona. Tre grandi poeti: Apollinaire, Majakovskij e Pessoa. L 'anno seguente, 1 91 4, sarebbe stato per il porto­ ghese l'anno della scoperta o, più esattamente, della nascita: appaiono Alberto Caeiro e i suoi discepoli , il futurista Alva­ ro de Campos e il neoclassico Ricardo Reis. L 'irruzione degli eteronimi, evento interiore, prepara l 'a­ zione pubblica: l 'esplosione di Orpheu. Nell'aprile del 1 91 5 esce il primo numero della rivista. In luglio, il secondo ed ultimo. Poco? Troppo, piuttosto. Il gruppo non era omoge­ neo. Lo stesso nome, Orpheu, ostenta l'impronta simboli­ sta. Perfino in Sa-Carneiro, nonostante la violenza, i critici portoghesi avvertono la persistenza del "decadentismo" . In Pessoa la divisione è netta: Alvaro de Campos è un futurista integrale ma Fernando Pessoa continua ad essere un poeta "paulista" . Il pubblico accolse la rivista con indignazione. I testi di Sa-Carneiro e di Campos provocarono la furia con­ sueta dei giornalisti . Agli insulti seguirono le irrisioni . AJle irrisioni, il silenzio. Il ciclo si concluse. Rimase qualcosa? Sul primo numero ap­ parve la Ode triunfal; sul secondo, la Ode marftima. La pri­ ma è una poesia che, a dispetto dei tic e delle affettazioni , possiede già il tono diretto di Tabacaria, la visione del poco peso dell'uomo di fronte al peso bruto della vita sociale. La seconda è qualcosa di più dei fuochi d'artificio della poesia futurista: un grande spirito delira a voce alta e il suo grido 19

non è mai ferino né superumano. Il poeta non è un "piccolo Dio" ma un essere caduto. Le due poesie ricordano più Whit­ man che Marinetti, un Whitman introverso e negatore. Ma non è tutto . La contraddizione è il sistema, la forma della sua coerenza vitale: contemporaneamente alle due odi, scri­ ve O Guardador de Rebanhos, libro postumo di Alberto Caei­ ro, le poesie latinizzanti di Reis e Epithalamium e Antinous, ''dois poemas ingleses meus, muito indecentes, e portanto instabile, impublicaveis em Inglaterra" . � el bruscamente. Alcuentativ L'avventura di Orpheu si interrompe ni, di fronte agli attacchi dei giornalisti e spaventati forse dalle intemperanze di Alvaro de Campos, scappano. Sa-Carneiro, sempre torna a Parigi . Un anno do­ po si suicida. uovo 1 9 1 7 : l'unico numero di Portugal Futurista, diretto da Almada Negreiros, in cui ap­ pare l'Ultimatum di Alvaro de Campos. Oggi è difficile leg­ gere con interesse quel diluvio di diatribe , anche se alcune conservano ancora la loro salutare virulenza: "D'Annunzio, Don Juan a Patmos; Shaw, tumore freddo dell'ibsenismo; Kipling, imperialista dei ferrivecchi . . . " L'episodio di Orpheu termina con la dispersione del gruppo e con la morte di una delle sue figure guida. Sarà necessario aspettare quindici an­ ni e una nuova generazione. Niente di tutto ciò è insolito . Ciò che stupisce è l 'apparire del gruppo, in anticipo sui tem­ pi e sulla società. Che cosa si stava scrivendo in Spagna e in America Latina in quegli anni? Il periodo seguente è di relativa oscurità. Pessoa pubblica due quaderni di poesia in inglese, 35 Sonnets e Antinous, che il Times di Londra e il Glasgow Hera/d recensiscono con molta cortesia e poco entusiasmo. Nel 1 922 appare la prima colla­ borazione di Pessoa su Contempor{mea, una nuova rivista letteraria: O Banqueiro Anarquista. Pure di quegli anni so­ no le sue velleità politiche: elogi del 20 nazionalismo e del regi­ me autoritario. La realtà lo disillude e lo obbliga a smentirsi : in due occasioni si oppone al pubblico potere, alla Chiesa e al-

la morale sociale. La prima per difendere Antonio Botto, au­ tore di Cançoes, poesie d'amore omosessuale. La seconda, contro la "Lega d'azione degli studenti" , che perseguitava il libero pensiero con il pretesto di finirla con la cosiddetta "letteratura di Sodoma" . Cesare è sempre moralista. Alva­ ro de Campos distribuisce un foglio: Aviso por causa da mo­ ra/; Pessoa pubblica un manifesto; e l'aggredito, Raul Leal, scrive P opuscolo: Uma liçiìo de mora/ aos estudantes de Li­ sboa e o descaramento da lgreja Cat6/ica. Il centro di gravità si è spostato dall'arte libera alla libertà dell'arte. L 'indole della nostra società è tale che il creatore è condannato all'eterodossia e all'opposizione. L 'artista lu­ cido non si sottrae a questo rischio morale. Nel 1 924, una nuova rivista: Athena. Dura solo per cin­ que numeri. Le "riprese" non sono mai state buone. In realtà Athena è un ponte tra Orpheu e i giovani di Presença (1 927). Ogni generazione sceglie, a quanto sembra, la propria tradi­ zione. Il nuovo gruppo scopre Pessoa, che finalmente trova possibili interlocutori. Troppo tardi, come sempre. Poco tem­ po dopo, un anno prima della morte, avviene il grottesco in­ cidente del certame poetico della Segreteria di Propaganda Nazionale. Il tema, naturalmente, era un canto in gloria del­ la nazione e dell'impero. Pessoa invia Mensagem, versi che· sono un'interpretazione "occultista" e simbolica della sto­ ria portoghese. Il libro deve aver lasciato perplessi i funzio­ nari incaricati della giuria del concorso. Gli assegnarono un premio di " seconda categoria" . Fu la sua ultima esperienza letteraria.

Tutto inizia 1'8 marzo 1 91 4. Ma. è meglio trascrivere un frammento da una lettera di Pessoa a uno dei ragazzi di Pre­ sença, Adolfo Casais Monteiro: "Verso il1 91 2, salvo errori (che comunque sarebbero minimi), mi venne l ' idea di scrive­ re qualche poesia di indole pagana. Abbozzai qualcosa in versi 21

irregolari (non nello stile di A lvaro de Campos, ma in uno stile di media regolarità), e lasciai perdere. Si era abbozzato in me, tuttavia, in una maltessuta_penombra, un vago ritrat­ to della persona che stavascrivendo quei versi . (Era nato, senza che io lo sapessi, Ricardo Reis). Un anno e mezzo, o due anni dopo, un giorno mi venne in mente di fare uno scherzo a Sa-Carneiro : di inventare un poeta bucolico, abbastanza sofisticato, e di presentarglielo, non mi ricordo più in quale modo, come se fosse reale. Pas­ sai qualche giorno ad elaborare il poeta ma non me ne venne niente. Alla fine, un giorno in cui avevo desistito - era 1' 8 marzo 1 9 1 4 - mi avvicinai a un alto comò e, preso un fo­ glio di carta, cominciai a scrivere, in piedi, come scrivo ogni volta che posso. E scrissi trenta e passa poesie, di seguito, in una specie di estasi di cui non riuscirei a definire la natu­ ra. Fu il giorno trionfale della mia vita, e non potrò più averne un altro simile. Cominciai con un titolo, O Guardador de Re­ banhos. E quanto seguì fu la comparsa in me di qualcuno a cui subito diedi il nome di Alberto Caeiro. Mi scusi l'as­ surdità della frase: era apparso in me il mio Maestro. Fu que­ sta la mia immediata sensazione. Tanto che, non appena scritte le trenta e passa poesie, afferrai un altro foglio di car­ ta e scrissi , di seguito, le sei poesie che costituiscono Chuva Oblfqua di Fernando Pessoa. Immediatamente e totalmen­ te . . . Fu il ritorno di Fernando Pessoa - Alberto Caeiro al Fer­ nando Pessoa - lui solo. O meglio , fu la reazione di Fernando Pessoa alla propria inesistenza come Alberto Caeiro. Apparso Alberto Caeiro, mi misi subito a scoprirgli, istin­ tivamente e subcoscientemente, dei discepoli. Estrassi dal suo falso paganesimo il Ricardo Reis latente, gli scoprii il nome e glielo adattai, perché allora lo vedevo già. E, all'improvvi­ so e da derivazione opposta a quella di Ricardo Reis, mi venne a galla impetuosamente un nuovo individuo. Di getto, e alla macchina da scrivere, senza interruzioni né correzioni, sorse l'Ode Triunfal di Alvaro de Campos: l'Ode con questo no22

me e l'uomo con il nome che ha" l. Non so che cosa potrebbe aggiungersi a questa confessione. La psicologia ci offre diverse spiegazioni . Lo stesso Pes­ soa, che si interessò al proprio caso, ne propone due o tre. Una crudamen�e patologica: "probabilmente sono un istero­ nevrastenico [ . . . ] e questo spiega, bene o male, l'origine or­ ganica degli eteronimi" . Io non direi "bene o male " , ma po­ co. Il difetto di queste ipotesi non è che siano false: sono incomplete. Un nevrotico è un posseduto; chi domina i pro­ pri perturbamenti : è un malato? Il nevrotico soffre le sue os­ sessioni; il creatore è loro padrone e le trasforma. Pessoa racconta che da bambino viveva tra personaggi immaginari . ("Non so, beninteso, se realmente non siano esistiti o se so­ no io che non esisto. In queste cose, come del resto in ogni cosa, non dobbiamo essere dogmatici" .) Gli eteronimi sono circondati da una massa fluida di semi-esseri: il Barone di Teive; Jean Seui, pubblicista satirico francese; Bernardo Soa­ res, fantasma del fantasmatico Vicente Guedes; Pacheco, brutta copia di Campos . . . Non tutti sono scrittori: c'è un Mr. Crasse, infaticabile partecipante ai concorsi delle sciarade e dei cruciverba delle riviste inglesi (mezzo infallibile, credeva Pessoa, per diventar ricco), Alexander Search e altri . Tutto ciò - come la sua solitudine, il suo alcolismo discreto e tan­ te altre cose - ci fornisce lumi sul suo carattere ma non ci spiega le sue poesie, che sono l'unica cosa che importi davvero. Lo stesso vale per l'ipotesi "occultista" , a cui Pessoa, trop­ po analitico, non fa appello apertamente ma che non cessa di evocare. È risaputo che gli spiriti che guidano la penna dei medium, anche quelli di Euripide e di Vietar Hugo, rive­ lano una sconcertante goffaggine letteraria. Altri azzardano che si tratti di una "mistificazione" . L'errore è doppiamen­ te grossolano: Pessoa non mente e la sua opera non è una soperchieria. C'è qualcosa di terribilmente volgare nella men­ talità moderna; la gente, che tollera ogni sorta di inde23

gne menzogne nella vita reale, non sopporta l'esistenza del­ l'affabulazione. E proprio questo è l'opera di Pessoa: un'af­ fabulazione, una finzione. Dimenticare che Caeiro, Reis e Campos sono creazioni poetiche, è dimenticare troppo . Co­ me ogni creazione, quei poeti nacquero da un gioco. L'arte è gioco - e anche altro . Ma senza gioco non si dà arte. L'autenticità degli eteronimi dipende dalla loro coerenza poetica, dalla loro verosimiglianza. Furono creazioni neces­ sarie, poiché altrimenti Pessoa non avrebbe consacrato la sua vita a viverli e crearli. Ciò che importa ora non è che siano stati necessari per il loro autore, ma se lo siano anche per noi. Pessoa, il loro primo lettore, non dubitò della loro real­ tà. Reis e Campos dissero ciò che forse egli non avrebbe mai detto. Contraddicendolo, lo espressero; esprimendolo, Io ob­ bligarono a inventarsi . Scriviamo per essere ciò che siamo e per essere ciò che non siamo. Nell'uno e nell'altro caso, cer­ chiamo noi stessi. E se abbiamo la fortuna di trovarci - se­ gno di grazia - scopriamo che siamo uno sconosciuto . Sempre l'altro, sempre lui, inseparabile, alieno, con il tuo vol­ to ed il mio, tu sempre con me e sempre solo. Gli eteronimi non sono maschere letterarie: ''Ciò che scrive Fernando Pes­ soa appartiene a due categorie d 'opere, che potremmo defi­ nire ortonime ed eteronime. Non si può dire che siano anonime o pseudonime poiché davvero non Io sono. L'ope­ ra pseudonima è dell'autore nella sua persona; l'eteronima è dell'autore fuori della sua persona . . . " . Gérard de Nerval è lo pseudonimo di Gérard Labrunie: la stessa persona e la stessa opera; Caeiro è un eteronimo di Pessoa: impossibile confonderli. Più prossimo, il caso di Antonio Machado è an­ cora differente. Abel Martin e Juan de Mairena non sono completamente il poeta Antonio Machado. Sono maschere, ma maschere trasparenti: un testo di Machado non è diverso da un testo di Mairena. Inoltre, Machado non è posseduto dalle sue finzioni, esse non sono creature che lo abitino, lo contraddicano o lo neghino. Al contrario, Caeiro, Reis e Cam24

pos sono gli eroi di un romanzo che Pessoa non scrisse mai . " Sono un poeta drammatico " , confida in una lettera a J . G . Simoes. Tuttavia l a relazione tra Pessoa e i suoi eteronimi non è identica a quella del drammaturgo o del romanziere con i suoi personaggi. Non è un inventore di personaggi-poeti ma un creatore di opere-di-poeti. La differenza è capitale. Come dice Casais Monteiro: "Inventò le biografie per le opere e non le opere per le biografie' ' . Quelle opere - e le poesie di Pessoa, scritte a fronte, per e contro di esse - sono la sua opera poetica. Egli stesso si trasforma in una delle opere della sua opera. E non ha neppure il privilegio di essere il critico di quella coterie: Reis e Campos lo trattano con una certa condiscendenza; il Barone di Teive non sempre Io saluta; Vi­ cente Guedes, l'archivista, gli assomiglia tanto che quando lo incontra, in una cantina del quartiere, sente un po' di pie­ tà per se stesso. È l'incantatore stregato, tanto totalmente pos­ seduto dalle sue fantasmagorie che si sente osservato da esse, forse disprezzato, forse compatito. Le nostre creazioni ci giu­ dicano .

Alberto Caeiro è il mio maestro. Questa affermazione è la pietra di volta di tutta la sua opera. E si potrebbe aggiun­ gere che l'opera di Caeiro è l ' unica affermazione che mai fe­ ce Pessoa. Caeiro è il sole e intorno a lui orbitano Reis, Campos e lo stesso Pessoa. In ognuno di essi convivono par­ ticelle di negazione e di irrealtà: Reis crede nella forma, Cam­ pos nella sensazione, Pessoa nei simboli. Caeiro non crede in nulla: esiste. Il sole è la vita colma di sé; il sole non guar­ da poiché tutti i suoi raggi sono sguardi convertiti in calore e luce; il sole non ha coscienza di sé poiché in esso pensare ed essere sono una e la stessa cosa. Caeiro è tutto ciò che non è Pessoa e, inoltre, tutto ciò che non può essere alcun poeta moderno: l ' uomo riconciliato con la natura. Prima del cri­ stianesimo, certo, ma anche prima del lavoro e della storia.

25

/

l

Prima della coscienza. Caeiro nega, per il solo fatto di esi­ stere, non solo l'estetica simbolista di Pessoa ma tutte le este­ tiche, tutti i valori, tutte le idee. Non rimane nulla? Rimane tutto, senza più i fantasmi e le ragnatele della cultura. Il mon­ do esiste perché me lo dicono i miei sensi; e, dicendomelo, mi dicono che anch 'io esisto. Sì, morirò e morirà il mondo, ma morire è vivere. L'affermazione di Caeiro annulla la mor­ te; sopprimendo la coscienza, sopprime il nulla. Non affer­ ma che tutto è, poiché questo sarebbe affermare un'idea; dice che tutto esiste. Di più : dice che solo è ciò che esiste. Il resto è illusione. Campos si incarica di precisare: "Il mio maestro Caeiro non era pagano; era il paganesimo" . Io direi : un'i­ dea del paganesimo . Caeiro frequentò appena le scuole2. Saputo che lo chiamavano "poeta materialista" volle sapere in che cosa consistesse quella dottrina. Sentendo la spiega­ zione di Campos, non nascose la sua meraviglia: "È un' idea da preti senza religione! Lei dice che dicono che lo spazio è infinito? In quale spazio hanno visto questo? " . Di fronte al discepolo stupefatto, Caeiro sostenne che lo spazio è fini­ to: "Ciò che non ha limiti non esiste . . . " . L ' altro replicò: "E i numeri? Dopo il 34 viene il 35 e poi il 36 e così di segui­ to . . . " . Caeiro lo guardò impietosito: "Ma quelli sono solo numeri!" e continuò, com uma formiddvel infancia: "Forse ·esiste un numero 34 nella realtà? " . Un altro aneddoto : gli domandarono : "È contento di se stesso? " . Rispose: "No, sono contento" . Caeiro non è un filosofo: è un saggio. I pen­ satori hanno idee; per il saggio vivere e pensare non sono azio­ ni separate. Per questo è impossibile esporre le idee di Socrate o di Lao Tsé. Non hanno lasciato dottrine, ma un pugno di aneddoti , enigmi e poemi . Chuang Tsé, più fedele di Plato­ ne, non pretende di trasmetterei una filosofia ma di raccon­ tarci piccole storie : la filosofia è inseparabile dal racconto, 26 è il racconto . La dottrina del filosofo invita alla confutazio­ ne; la vita del saggio è inconfutabile. Nessun saggio ha pro­ clamato che la verità si apprende; ciò che hanno detto tutti ,

o quasi tutti, è che l'unica cosa che vale la pena di essere vis­ suta è l'esperienza della verità. La debolezza di Caeiro non risiede nelle sue idee (esse sono piuttosto la sua forza); con­ siste nell'irrealtà dell' esperienza che dice di incarnare. Ada­ mo in una casa rurale della provincia portoghese, senza donna, senza figli e senza creatore: senza coscienza, senza lavoro e senza religione. Una sensazione fra le sensazioni, un esistere fra le esistenze. La pietra è pietra e Caeiro è Caeiro, in questo istante. Poi, ciascuno sarà altro. O lo stesso. È iden­ tico o è diverso: tutto è identico poiché tutto è differente. Nominare è essere. La parola che nomina la pietra non è la pietra ma ha la stessa rea ta elena pietra. Caeiro IìOn si pro­ pone-dinominare g 1 esseri e per questo non ci dice mai se la pietra è un'àgata o un ciottolo, se l'albero è un pino o una quercia. Non pretende neppure di stabilire relazioni fra le cose; la parola come non figura nel suo vocabolario; ogni cosa è immersa nella propria realtà. Se Caeiro parla è perché l'uo­ mo è un animale di parole, come l'uccello è un animale ala­ to. L 'uomo parla come il fiume scorre o la pioggia cade. Il poeta innocente non ha bisogno di nominare le cose; le sue parole sono alberi, nubi, ragni, lucertole. Non quei ragni che vedo, ma questi che dico . Caeiro si stupisce all'idea che la realtà sia inafferrabile: è lì , di fronte a noi, basta toccarla. Basta parlare. Non sarebbe difficile dimostrare a Caeiro che la realtà non è mai a portata di mano e che dobbiamo conquistarla (anche a rischio che, nell'atto della conquista, ci svanisca fra le ma­ ni e ci si converta in altra cosa: idea, utensile). Il poeta inno­ cente è un mito, ma un mito che fonda la poesia. Il poeta reale sa che le parole e le cose sono differenti e per questo, per ristabilire una precaria unità fra l ' uomo e il mondo, no­ mina le cose con immagini , ritmi, simboli e comparazioni. Le parole non sono le cose: sono i ponti che tendiamo fra esse e noi . Il poeta è la coscienza delle parole, cioè la nostal­ gia della realtà reale delle cose. Certo, le parole furono an27

che cose prima di essere nomi di cose. Lo furono nel mito del poeta innocente, sì, prima del linguaggio. Le opache pa­ role del poeta reale evocano la parola di prima del linguag­ gio, l'intravisto accordo paradisiaco . P arola innocente: silenzio in cui nulla si dice poiché tutto è già detto, tutto sta dicendosi. Il linguaggio del poeta si alimenta di quel silenzio che è parola innocente. Pessoa, poeta reale e uomo scettico, aveva bisogno di inventare un poeta innocente per giustifi­ care la propria poesia. Reis, Campos e Pessoa dicono parole mortali e datate, parole di perdizione e dispersione: sono il presentimento e la nostalgia dell'unità. Le udiamo sullo sfon­ do del silenzio di quella unità. Non è un caso che Caeiro muoia giovane, prima che i suoi discepoli inizino la loro opera. È il loro fondamento, il silenzio che li sostiene. Il più naturale e semplice degli eteronimi è il meno reale. Lo è per eccesso di realtà. L 'uomo, soprattutto l 'uomo mo­ derno, non è del tutto reale. Non è un ente compatto come la natura o le cose; la coscienza di sé è la sua realtà insostan­ ziale. Caeiro è un'affermazione assoluta dell'esistere e da qui che le sue parole ci sembrino verità di altri tempi, quei tempi in cui tutto era uno e lo stesso. Presente sensibile e intocca­ bile: appena lo nominiamo svanisce! La maschera di inno­ cenza che ci mostra Caeiro non è la saggezza: essere saggio è rassegnarsi a sapere che non siamo innocenti. Pessoa, che lo sapeva, era più vicino alla saggezza.

L'altro estremo è Alvaro de Campos3. Caeiro vive nel pre­ sente atemporale dei bambini e degli animali; il futurista Cam­ pos nell'istante. Per il primo, il villaggio natale è il centro del mondo; l ' altro , cosmopolita, non ha centro, esiliato in quel nessun luogo che è ognidove. Tuttavia, si assomiglia­ no: entrambi coltivano il verso libero; entrambi violentano il portoghese; entrambi non eludono i prosaismi. Non cre­ dono se non in ciò che toccano, sono pessimisti , amano la 28

j

realtà concreta, non amano i loro simili, disprezzano le idee e vivono fuoJLdalla storia, uno nella pienezza d�ere, l'al­ tro nella sua più asSò1uta privazione. Caeiro, il poeta inno-1 cente, è ciò che non poteva essere Pessoa; Campos, il dandy vagabondo, è ciò che avrebbe potuto essere e non è stat9. Sono le impossibili possibilità vitali di Pessoa. 1 La prima poesia di Campos possiede un'ingannevole ori­ ginalità. La Ode Triunfal è in apparenza un'eco brillante di Whitman e dei futuristi. Non appena si confronta questa poe­ sia con quelle che, negli stessi anni, si venivano scrivendo in Francia, Russia e in altri paesi, si avverte la differenza4. Whitman credeva veramente nell'uomo e nelle macchine; me­ glio: credeva che l'uomo naturale non fosse incompatibile con le macchine. Il suo panteismo comprende anche l 'industria. La maggior parte dei suoi discepoli non incorre in queste il­ lusioni. Alcuni vedono nelle macchine giocattoli meraviglio­ si . Penso a Valery Larbaud e al suo Barnabooth, che ha più di un\ tratto di somiglianza con Alvaro de Campos5. L ' atti­ tudine di Larbaud di fronte alla macchina è epicurea; quella dei futuristi, visionaria. La vedono come l'agente distrutto­ re del falso urnanesimo e, ovviamente, dell'uomo naturale. Non si propongono di umanizzare la macchina ma di costruire una nuova specie umana che sia ad essa simile. Un'eccezio­ ne sarà Majakovskij e anch'egli . . . La Ode Triunfal non è né epicurea né romantica né trionfale: è un canto di rabbia e di sconfitta. E in ciò si fonda la sua originalità. Una fabbrica è "un paesaggio tropicale" popolato di be­ stie gigantesche e lascive. Fornicazione infinita di ruote, pi­ stoni e pulegge. A misura che il ritmo mecc�nico raddoppia, il paradiso di ferro e di elettricità si trasforma in una camera di tortura. Le macchine sono organi sessuali di distruzione: Campos vorrebbe essere triturato da quelle eliche furiose. Questa strana visione è meno fantastica di quanto sembri e non è soltanto un'ossessione di Campos. Le macchine so­ no riproduzione, semplificazione e moltiplicazione dei pro29

f

cessi vitali. Ci seducono e ci fanno orrore perché ci dànno la sensazione simultanea dell'intelligenza e dell'incoscienza: tutto ciò che fanno lo fanno bene ma non sanno quello che fanno. Non è questa un'immagine dell'uomo moderno? Ma le macchine sono una faccia soltanto della civiltà contempo­ ranea. L'altra è la promiscuità sociale. La Ode Triunjal ter­ mina con un grido; trasformato in massa, scatola, pacco, ruota, Alvaro de Campos perde l'uso della parola: sibila, stri­ de, rulla, martella, crepita, esplode. La parola di Caeiro evoca l'unità dell'uomo, della pietra e dell 'insetto; quella di Cam­ pos, il rumore incoerente della storia. Panteismo e panmac­ chinismo, due modi di abolire la coscienza. Tabacaria è la poesia della coscienza recuperata. Caeiro si domanda: che cosa sono? Campos, chi sono? Dalla sua stanza contempla la strada: automobili, passanti, cani , tutto reale e tutto vuoto, tutto vicino e tutto lontano . Di fronte, sicuro di se stesso come un dio, enigmatico e sorridente co­ me un dio, fregandosi le mani come Dio Padre dopo la sua orribile creazione, appare e scompare il Padrone della Ta­ baccheria. Arriva alla sua caverna-tempio-baracca, Esteves lo spensierato , sem metafisica, che parla e mangia, ha emo­ zioni e opinioni politiche e rispetta le feste comandate. Dalla sua finestra, dalla sua coscienza, Campos guarda i due bu­ rattini e, vedendoli, vede se stesso . Dov'è la realtà: in me o in Esteves? Il Padrone della Tabaccheria sorride e non rispon­ de. Poeta futurista, Campos esordisce affermando che l'u­ nica realtà è la sensazione; alcuni anni più tardi si domanda se egli stesso possieda qualche briciola di realtà. Abolendo la coscienza di sé, Caeiro abolisce la storia; ora è la storia che sopprime Campos. Vita marginale: suoi fra­ telli , se qualcuno ne ha, sono le prostitute, i vagabondi, il dandy, il mendicante, la piccola umanità dell'emarginazio­ ne. La sua ribellione non ha niente a che vedere con le idee di redenzione e di giustizia: Néìo: tudo menos ter razéìo!/Tu­ do menos importar-me com a humanidade!/Tudo menos ce30

der ao humanitarismo! Campos si ribella anche contro l'i­ dea di ribellione. Non si tratta di una virtù morale, di uno stato di coscienza - è la coscienza di una sensazione: "Ri­ cardo Reis è pagano per convinzione; Antonio Mora per ra­ gionamento; io lo sono per ribellione, proprio così, per temperamento" . La sua simpatia per i malviventi è tinta di disprezzo , ma quel disprezzo lo sente innanzitutto per se stesso: Sinto urna simpatia por essa gente toda, Sobretudo quando nào merece simpatia. Si m, eu sou tambén vadio e pedinte [... ] Ser vadio e pedinte nào é ser vadio e pedinte: É estar ao Iado da escala social [... ] Nào ser Juiz do Supremo, empregado certo, prostituta, Nào ser pobre a valer, openirio explorado, Nào ser doente de urna doença incunivel, No ser sedento da justiça ou capitào de cavalaria, Nào ser, enfim, aquelas pessoas sociais dos novelistas Que se fartam de letras porque tem razao para chorar higrimas, E se revoltam contra a vida social porque tem razào para isso su por [... ] *

Il suo vagabondare e la sua mendicità non dipendono da nessuna circostanza: sono irrimediabili e senza redenzione. In questo senso, essere vagabondo è ser iso/ado na alma. E più oltre, con quella brutalità che scandalizzava Pessoa: Nem tenho a defensa de poder ter opi6es sociais [. . .] Sou lucido. l Nada de estéticas com coraçao: sou lucido. l Merda! Sou lucido. La coscienza dell'esilio è una nota costante della poesia mo­ derna, da oltre un secolo e mezzo. Gérard de Nerval si finge

l

• [Provo simpatia per tutta questa gente, l Soprattutto quando non merita simpa­ tia. l Sì, anch'io sono vagabondo e mendicante [ ... ) 1 Essere vagabondo e mendi­ cante non è essere vagabondo e mendicante: l È essere fuori dalla gerarchia sociale [ . . ]1 È non essere Giudice della Corte Suprema, impiegato fisso, prostituta, l Non essere sordidamente povero, operaio sfruttato, l Non essere malato di un male in­ curabile, l Non essere assetato di giustizia o capitano di cavalleria, l Non essere, infine, quelle figure sociali dei romanzieri l Che si saziano di lettere perché hanno ragione di piangere le loro lacrime l E si ribellano contro la vita sociale perché han­ no ragioni d'avanzo per farlo [ ]]. .

. . .

31

l

principe di Aquitania; A lvaro de Campos sceglie la masche­ ra del vagabondo. Il transito è rivelatore. Trovatore o men­ dicante, che cosa nasconde quella maschera? Nulla, forse. Il poeta è la coscienza della propria irrealtà storica. Solo che, se quella coscienza si ritira dalla storia, la società si inabissa nella propria opacità, diventa Esteves o il Padrone della Ta­ baccheria. Non mancherà chi dica che l'attitudine di Cam­ pos non è "positiva" . Di fronte a critiche simili , Casais Monteiro rispondeva: "L'opera di Pessoa è realmente un' o­ pera negativa. Non serve da modello, non insegna né a go­ vernare né ad essere governato. Serve esattamente per il contrario : per indisciplinare gli spiriti " . Campos non si lan­ cia, come Caeiro, ad essere tutto, ma ad essere tutti e a tro­ varsi in ognidove. La caduta nella molteplicità si paga con la perdita di identità. Ricardo Reis sceglie l'altra possibilità latente nella poesia del suo maestro6. Reis è un eremita co­ me Campos è un vagabondo . Il suo eremo sono una filoso­ fia e una forma. La filosofia è una miscela di stoicismo ed epicureismo. La forma: l'epigramma, l'ode e l'elegia dei poeti neoclassici . Solo che il neoclassicismo è una nostalgia, cioè, è un romanticismo che si ignora o che si maschera. Mentre Campos scrive i suoi lunghi monologhi, ogni volta più vicini all'introspezione che all'inno, il suo amico Reis lima piccole odi sul piacere, la fuga dal tempo, le rose di Lidia, la libertà illusoria dell'uomo, la vanità degli dei . Educato in un colle­ gio di gesuiti, medico di professione, monarchico, esiliato in Brasile dal 1 9 1 9, pagano e scettico per convenzione, latini­ sta per educazione, Reis vive fuori dal tempo. Sembra, ma non è, un uomo del passato : ha scelto di vivere nell'alveo di una sagesse atemporale. Cioran segnalava recentemente che il nostro secolo, che ha inventato tante cose, non ha creato ciò di cui più abbiamo bisogno. Non è strano quindi che al­ cuni cerchino risposta nella tradizione orientale: taoismo, bud­ dismo zen; in realtà quelle dottrine adempiono alla stessa funzione delle filosofie morali della fine del mondo anti32

co. Lo stoicismo di Reis è un modo di non essere nel mondo - senza cessare di aggirarvisi . Le sue idee politiche hanno un significato equivalente: non sono un programma ma la negazione dello stato di cose attuale. Non odia Cristo e nep­ pure lo ama; aborrisce il cristianesimo anche se, in fin dei conti puro esteta, quando pensa a Gesù ammette che "la sua tenebrosa forma dolente ci ha portato qualcosa che manca­ va' ' . Il vero dio di Reis è il Fato e tutti , uomini e miti, siamo sottomessi al suo dominio. La forma di Reis è ammirabile e monotona, come tutto ciò che è perfezione artificiale. In quelle piccole poesie si per­ cepisce, più che la familiarità con le fonti latine e greche, una sapiente e distillata mistura di neoclassicismo lusitano e di Antologia greca tradotta in inglese. La correttezza della sua lingua inquietava Pessoa: "Caeiro scriveva male il portoghese, Campos ragionevolmente, ma con lapsus come dire "io pro­ prio" invece di "io stesso " , ecc . , Reis meglio di me, ma con un purismo che considero esagerato" . L'esagerazione son­ nambula di Campos si converte, per un movimento di con­ traddizione molto naturale, nella precisione esagerata di Reis. Né la forma né la filosofia difendono Reis: difendono un fan­ tasma. La verità è che neppure Reis esiste ed è lui il primo a saperlo . Lucido, di una lucidità più penetrante di quella esasperata di Campos, si contempla: Nao sei de quem recordo meu passado Que outrem fui quando o fui, nem me conheço Como sentindo com minha alma aquela Alma que a sentir lembro. De dia a outro nos desamparamos. Nada de verdadeiro a n6s nos une Somos quem somos, e quem fomos foi Coisa vista por dentro. * [Non so di chi ricordo il mio passato l Che altro fui quando lo fui, né mi conosco/ Sentendo con la mia anima quell' l Anima che sentendo ricordo. l Da un giorno all'altro ci abbandoniamo. l Nulla di certo ci unisce a noi l Siamo chi siamo e chi fummo fu l Cosa vista dall'interno.] •

-

33

Il labirinto in cui si perde Reis è quello di se stesso. Lo sguardo interiore del poeta, qualcosa di molto diverso dal­ l'introspezione, lo avvicina a Pessoa. Anche se entrambi usano metri e forme fissi, il tradizionalismo non li avvicina perché appartengono a tradizioni di fferenti. Li unisce il sentimento del tempo - non come qualcosa che passa di fronte a noi , ma come qualcosa che diventa noi stessi. Catturati nell'istante, Caeiro e Campos affermano recisamente l' essere e l'assenza d'essere. Reis e Pessoa si perdono negli abissi del loro pen­ siero , si raggiungono ad una vetta e, fondendosi l'uno nel­ l'altro, abbracciano un'ombra. La poesia non è l'espressione dell'essere, ma la commemorazione di quel momento di fu­ sione. Monumento vuoto: Pessoa edifica un tempio all'ignoto; Reis, più tenebroso, scrive un epigramma che è anche un epi­ taffio:

l

Negue-me tudo a sorte, menos ve-la, Que eu , 'stoico sem dureza, Na sentença gravada do Destino Quero gozar as letras. *

Alvaro de Campos citava una frase di Ricardo Reis: Odio la menzogna perché è un 'inesattezza. Queste parole potreb­ bero attribuirsi anche a Pessoa, a condizione di non confon­ dere menzogna con immaginazione o esattezza con rigidità . La poesia di Reis è precisa e semplice come un disegno linea­ re; quella di Pessoa esatta e complessa come la musica. Com­ plesso e vario, si muove in diverse direzioni: la prosa, la poesia in portoghese e la poesia in inglese (sono da trascurare, per­ ché insignificanti , le poesie francesi) . Gli scritti in prosa, non ancora pubblicati per intero , possono dividersi in tre grandi categorie: quelli firmati con il suo nome e quelli dei suoi pseu­ donimi, principalmente il Barone di Teive, aristocratico de­ 34 caduto, e Bernardo Soares, "empregado de comercio" . In • [Mi neghi tutto la sorte, meno il vederla l Che io, stoico senza durezza, l La sentenza incisa del Destino l Voglio godere lettera per lettera . )

vari passi Pessoa precisa che non si tratta di eteronimi: "en­ trambi scrivono con uno stile che, buono o cattivo, è il mio [ . . . ] " . Non è indispensabile soffermarsi sulle poesie inglesi, il loro interesse è letterario e psicologico, ma non aggiungo­ no molto, mi pare, alla poesia anglosassone. L ' opera poeti­ ca in portoghese, dal 1 902 al 1 93 5 , comprende Mensagem , la poesia lirica e i poemi drammatici . Questi ultimi, a mio giudizio, hanno un valore marginale. Anche se essi vengono esclusi, rimane un'estesa opera poetica. Prima differenza: gli eteronimi scrivono in una sola dire­ zione e in una sola corrente temporale; Pessoa si biforca co­ me un delta e ciascuno dei suoi bracci ci offre l 'immagine, le immagini, di un momento . La poesia lirica si ramifica in Mensagem, il Cancioneiro (con le poesie inedite e disperse) e le poesie ermetiche. Come sempre, la classificazione non corrisponde alla realtà. Cancioneiro è un libro simbolista ed è impregnato di ermetismo, anche se il poeta non ricorre espressamente alle immagini della tradizione esoterica. Men­ sagem è, soprattutto, un libro di araldica - e l ' araldica è una parte dell' alchimia. Infine, le poesie ermetiche sono, per forma e spirito , simboliste; non è necessario essere un " ini­ ziato" per penetrare in esse e la loro comprensione poetica non esige conoscenze speciali. Quelle poesie, come il resto della sua opera, richiedono, piuttosto, una comprensione spi­ rituale, la più alta e difficile. Sapere che Rimbaud si interes­ sò alla cabbala e che identificò poesia e alchimia, è utile e ci avvicina alla sua opera; per penetrarla veramente, tuttavia, ci è necessario qualcosa di più e qualcosa di meno. Pessoa definiva quel qualcosa in questo modo: simpatia, intuizio­ ne, intelligenza, comprensione; e, ciò che è più difficile, gra­ zia. Forse questa enumerazione può sembrare eccessiva. Non vedo come, senza queste cinque condizioni, possano leggersi veramente Baudelaire, Coleridge o Yeats. In ogni caso, le dif­ ficoltà della poesia di Pessoa sono minori di quelle della poesia di Holderlin, Nerval, Mallarmé . . . In tutti i poeti della tradì35

zione moderna la poesia è un sistema di simboli e analogie parallelo a quello delle scienze ermetiche. Parallelo ma non identico: la poesia è una costellazione di segni che brillano di luce propria. Pessoa concepì Mensagem come un rituale; ossia: come un libro esoterico . Se si bada alla perfezione esteriore, questa è la sua opera più completa. Ma è un libro costruito; con la qual cosa non intendo dire che non sia sincero ma che nac­ que dalle speculazioni e non dalle intuizioni del poeta. A prima vista è un inno alle glorie del Portogallo e una profezia di un nuovo impero (il Quinto), che non sarà materiale, ma spi­ rituale; i suoi domini si estenderanno oltre lo spazio e il tem­ po storici (a un lettore messicano viene in mente subito la "razza cosmica" di Vasconcelos). Il libro è una galleria di personaggi storici e leggendari, estraniati dalla loro realtà tra­ dizionale e trasformati in allegorie di un'altra tradizione e di un'altra realtà. Forse senza piena coscienza di ciò che fa, Pessoa polverizza la storia del Portogallo e, al suo posto, ne propone un'altra, puramente spirituale, che è la sua nega­ zione. Il carattere esoterico di Mensagem ci impedisce di leg­ gerlo come un semplice poema p atriottico, come desidererebbero alcuni critici ufficiali. È necessario aggiun­ gere che il suo simbolismo non lo redime. Affinché i simboli siano effettivamente tali è necessario che cessino di simbo­ lizzare, che diventino sensibili, creature vive e non emblemi da museo . Come in ogni opera in cui intervenga più la vo­ lontà che l'ispirazione, sono poche le poesie di Mensagem che raggiungono quello stato di grazia che distingue la poesia dalle belle lettere. Ma quelle poche vivono nello stesso spazio ma­ gico delle migliori poesie del Cancioneiro, insieme ad alcuni dei sonetti ermetici . È impossibile definire in che cosa consi­ sta questo spazio; per me è quello della poesia propriamente 36 detta, territorio reale, tangibile e illuminato da un'altra lu­ ce. Non importa che le poesie siano poche. Benn diceva: "Nes­ suno, neppure i più grandi poeti del nostro tempo, ha lasciato

più di otto o dieci poesie perfette [ . . . ] Per sei poesie, trenta o cinquant 'anni di ascetismo, di sofferenze, di lotte!" . Il Cancioneiro: mondo di pochi esseri e molte ombre. Man­ ca la donna, l ' astro centrale . Senza la donna, l'universo sen­ sibile svanisce, non c'è né terra ferma né acqua né incarnazione dell'impalpabile. Mancano i piaceri terribili . Manca la passione, quell'amore che è desiderio di un essere unico, qualunque esso sia. C'è un vago sentimento di fratel­ lanza con la natura: alberi, nubi, pietre, tutto fuggevole, tutto sospeso in un vuoto temporale. Irrealtà delle cose, riflesso della nostra irrealtà. C'è negazione, stanchezza e sconforto. Nel Livro do Desassossego, del quale si conoscono solo fram­ menti, Pessoa descrive il suo paesaggio morale: appartengo a una generazione che nacque priva di fede nel cristianesimo e priva di fede in ogni altra credenza; non fummo entusiasti dell'uguaglianza sociale, della bellezza e del progresso; non cercammo in Orienti ed Occidenti altre forme religiose (" ogni civiltà intrattiene un rapporto di filiazione con la religione che la rappresenta: perduta la nostra, le abbiamo perdute tut­ te"); alcuni di noi si dedicarono alla conquista del quotidia­ no; con altri, di razza migliore, ci astenemmo dalla cosa pubblica, nulla volendo e nulla desiderando; altri si conse­ gnarono al culto della confusione e del rumore: credevano di vivere quando solo ascoltavano se stessi, credevano di ama­ re quando incappavano nell'esteriorità dell'amore; e con al­ tri, Razza della Fine, limite spirituale dell'Ora Morta, siamo vissuti di negazione, scontento e sconforto. Questo non è il ritratto di Pessoa, ma lo sfondo su cui prende rilievo la sua figura e con cui a volte si confonde. Limite spirituale dell'O­ ra Morta: il poeta è un uomo vuoto che, nel suo abbandono, crea un mondo per scoprire la sua vera identità. Tutta l 'ope­ ra di Pessoa è ricerca dell'identità perduta. In una delle sue poesie più citate dice che il poeta è un fin­ gitore che finge in modo tanto assoluto da arrivare a fingere che sia dolore il dolore che veramente prova. Dicendo la ·

37

l

verità, mente; mentendo, dice la verità. Non siamo di fronte a un'estetica ma a un atto di fede . La poesia è rivelazione della sua irrealtà: Entre o luar e a folhagem, Entre o sossego e o arvoredo, Entre o ser noite e haver aragem Passa um segredo. Segue-o minha alma na passagem.

*

Quel passante è Pessoa o è un altro? La domanda si ripete nel corso degli anni e delle poesie. Non sa neppure se ciò che scrive è suo. Meglio: sa che, anche se lo fosse, non lo è: "per­ ché, ingannato, credo sia mio ciò che è mio? " . La ricerca dell' io - perduto e trovato e tornato a perdere - termina nella ripugnanza: "Nausea, volontà del nulla: esistere per non morire'' . Solo da questa prospettiva si può comprendere il signifi­ cato esatto degli eteronimi . Sono un'invenzione letteraria e una necessità psicologica, ma sono anche qualcosa di più . In un certo senso sono ciò che avrebbe potuto o voluto essere Pessoa; in un altro, più profondo, ciò che non volle essere: una personalità. Nel primo movimento, fanno tabula rasa dell'idealismo e delle convinzioni intellettuali del loro auto­ re; nel secondo, mostrano che la sagesse innocente, la pub­ blica piazza e l'eremo filosofico sono illusioni. L 'istante è ina­ bitabile come il futuro; e lo stoicismo è un rimedio che ucci­ de. E, tuttavia, la distruzione dell'io, poiché questo sono gli eteronimi, provoca una fertilità segreta. Il vero deserto è l ' io e non solo perché ci rinchiude in noi stessi e ci condanna così a vivere con un fantasma, ma perché ammorba tutto ciò che tocca. L'esperienza di Pessoa, forse senza che egli stesso se lo proponesse, si inserisce nella tradizione dei grandi poeti 38 dell'epoca moderna, a partire da Nerval e dai romantici te• [Tra i l chiar di luna e il fogliame, l Tra la quiete e gli alberi, l Tra l'essere notte e l'esserci la brezza l Passa un segreto. l Lo segue la mia anima nel passaggio] .

deschi . L'io è un ostacolo, è /'ostacolo. Perciò è insufficien­ te qualsiasi giudizio meramente estetico sulla sua opera. Se è vero che non tutto ciò che scrisse è dello stesso valore, tut­ to, o quasi tutto, è segnato dall'impronta della sua ricerca. La sua opera è un passo verso l'ignoto. Una passione. Il mondo di Pessoa non è né questo mondo né l'altro. La parola assenza potrebbe definirlo, se per assenza si intende uno stato fluido, in cui la presenza svanisce e l'assenza è an­ nuncio di , che cosa? - momento in cui ciò che è presente non è più e appena si scorge ciò che, forse, sarà. Il deserto urbano si copre di segni: le pietre dicono qualcosa, il vento dice, la finestra illuminata e l'albero solitario dell'angolo di­ cono, tutto sta dicendo qualcosa, non questo che dico ma un'altra cosa, sempre un'altra cosa, la stessa cosa che non si dice mai . L ' assenza non è soltanto privazione ma presen­ timento di una presenza che mai si mostra interamente. Poe­ sie ermetiche e canzoni sono affini: nell'assenza, nell'irrealtà che siamo , qualcosa è presente. Attonito, fra persone e co­ se, il poeta cammina per una strada del quartiere vecchio. Entra in un parco e le foglie si muovono. Stanno per dire . . . No, non hanno detto nulla. I rrealtà del mondo, nell'ultima voce della sera. Ogni cosa è immobile, in attesa. Il poeta sa ormai che non possiede identità. Come quelle case, quasi do­ rate, quasi reali, come quegli alberi so � esi nell'ora, anch'e­ gli salpa da se stesso . E non appare l'altro, il doppio, il vero Pessoa. Non apparirà mai: non c'è altro. Appare, si insinua, ciò che è altro, ciò che non ha nome, ciò che non si dice e che le nostre povere parole invocano. È la poesia? No: poe­ sia è ciò che rimane e ci consola, la coscienza dell'assenza. E ancora, quasi impercettibile, un rumore di qualcosa: Pes­ soa o l 'imminenza dell'ignoto . Parigi, 1 96 1 .

39

NOTE

l ) Qui, come altrove, quando si è potuto, per le citazioni dai testi di Pessoa, si è ricorsi all'opera: F.Pessoa, Una sola moltitudine, Adelphi, Milano, 2 voli . , 1979-1984, a cura di Antonio Tabucchi. (N.d.T.) 2) Nacque a Lisbona, nel 1 889; morì nella stessa città nel 1 9 1 5 . Passò quasi tutta la sua vita i n un villaggio del Ribatejo. Opere: O Guardador de Rebanhos ( 1 9 1 1 - 1 9 1 2) ; O Pastor A moroso; Poemas Inconjuntos ( 1 91 3 - 1 9 1 5 ) . 3) Nasce a Tavira, i l 1 5 ottobre 1 890. L a data coincide c o n il suo oroscopo, dice Pessoa. Studi liceali ; poi, a Glasgow, di ingegneria navale. Ascendenze ebrai­ che. Viaggi in Oriente. Paradisi artificiali e altri . Partigiano di un'estetica an­ tiaristotelica, che vede realizzata in tre poeti: Whitman, Caeiro e se stesso. Usava il monocolo. I rascibile impassibile. 4 ) In spagnolo non ci fu niente di simile fino alla generazione di Garcia Lorca e Neruda. C'era, sì, la prosa del grande Ram6n G6mez de la Serna. In Messico si ebbe un timido inizio, ma solo un inizio: Tablada. La poesia moderna in lin­ gua spagnola nasce davvero nel 1 9 1 8 . Ma il suo iniziatore, Vicente Huidobro, è un poeta di tono molto diverso. 5) Mi pare quasi impossibile che Pessoa non abbia conosciuto il libro di Larbaud. L'edizione definitiva del Barnabooth è del 1 9 1 3 , anno di intensa corrisponden­ za con Sa-Carneiro. Dettaglio curioso: Larbaud visitò Lisbona nel 1926; 06mez de la Serna, che viveva allora nella capitale, lo presentò ai giovani scrittori, che gli offrirono un banchetto. Nella cronaca che celebra l'episodio (Lettre de Lisbonne, in Jaune, Bleu, Bione) Larbaud parla con grandi elogi di Almada Negreiros ma non cita Pessoa. Si conobbero? 6) Nacque a Oporto, nel 1 887. Il più mediterraneo degli eteronimi: Caeiro era biondo e con gli occhi azzurri; Campos "fra il bianco e il bruno", alto, magro con un 'aria internazionale; Reis "bruno scuro"40 , più vicino allo spagnolo e al por­ toghese meridionali. Le Odes non sono la sua unica opera. Si sa che scrisse un Contrasto estetico fra Ricordo Reis e Alvaro de Campos. Le sue note critiche su Caeiro e Campos sono un modello di precisione verbale e di incomprensione estetica.

LA PAROLA EDIFICANTE (Luis Cernuda)

Nel 1 96 1 il Mercure de France dedicò un numero d'omag­ gio a Pierre Reverdy, morto da poco. Luis Cernuda scrisse alcune pagine, preziose non tanto per ciò che dicono su Re­ verdy quanto per ciò che, indirettamente, rivelano dello stesso Cernuda: la sua identificazione di coscienza poetica e purez­ za etica, il suo gusto per la parola essenziale che contrappo­ neva, non sempre a ragione, a ciò che egli definiva come la suntuosità delle tradizioni spagnola e francese. Non ricor­ do, però, ora, quell'articolo per sottolineare le affinità del poe­ ta francese con lo spagnolo - anche se l'influenza del pri­ mo sul secondo meriterebbe un'attenta riflessione - ma per­ ché ciò che tre anni fa Cernuda scrisse a proposito della morte dei poeti sembra oggi pensato e detto per la sua stessa mor­ te: "Quale paese sopporta con piacere i propri poeti? I pro­ pri poeti vivi, voglio dire, poiché, quanto ai morti, è noto come non esista paese che non adori i suoi" . La Spagna non fa eccezione. Niente di più naturale che le riviste letterarie della penisola pubblichino omaggi al poeta: ' 'Cernuda è mor­ to, viva, allora, Cernuda" ; niente di più naturale, anche, che poeti e critici , ad una voce, coprano con una stessa gri­ gia cappa d'elogi l'opera di uno spirito che con ammirabile e inflessibile ostinazione non cessò mai di affermare la sua dissidenza. Sepolto il poeta, possiamo discorrere senza rischio della sua opera e farle dire ciò che a noi sembra che avrebbe 43

dovuto dire: là dove egli scrisse separazione, leggeremo unio­ ne; Dio, dove disse demonio; patria, e non terra inospitale; anima, e non corpo. E se ! ' "interpretazione" risulta impos­ sibile, cancelleremo le parole proibite - rabbia, piacere, nau­ sea, .fanciullo , incubo, solitudine . . . Non voglio dire che tutti i suoi panegiristi cerchino di volgere in bianco ciò che fu nero né che lo facciano interamente in malafede. Non si tratta di una deliberata menzogna ma di una pietosa sostituzione. Forse senza rendersene conto, mossi da un sincero desiderio di giu­ stificare la loro ammirazione per un'opera che la loro coscien­ za rifiuta, trasformano una verità particolare ed unica - a volte insopportabile e repellente, come tutto ciò che è vera­ mente affascinante - in una verità generica e inoffensiva, accettabile da tutti. Gran parte di ciò che si è scritto su Cer­ nuda in questi ultimi mesi avrebbe potuto esser scritto su qual­ siasi altro poeta. Non è mancato chi ha potuto affermare che la morte lo hà restituito alla patria (' 'tolto il dente, tolto il pensiero" ) . Un critico, che afferma di conoscere bene la sua opera e di ammirarla, non ha paura di scrivere che: "il poe­ ta aveva un difetto tragico: l'incapacità di riconoscere un amo­ re diverso da quello romantico; pertanto l'amore coniugale, il paterno, il filiale, tutti erano per Cernuda come porte chiu­ se" . Un altro si augura che il poeta "abbia trovato un mon­ do dove realtà e desideri siano in armonia" . Si è domandato, questo scrittore, come dovrebbe essere quel paradiso e quali i suoi angeli e gli dèi? L'opera di Cernuda è un'esplorazione interiore; un'orgo­ gliosa affermazione, in fin dei conti non sprovvista di umil­ tà, della sua irriducibile differenza. Lo affermò egli stesso: "Io ho soltanto tentato, come ogni uomo , di trovare la mia verità, la mia, che non sarà né migliore né peggiore di quella altrui, ma soltanto differente" . Rendere omaggio alla sua me­ moria non può voler dire innalzargli monumenti che, come tutti i monumenti , nascondono il morto, ma affondare in quella verità differente e confrontarla con la nostra. Solo così, 44

la sua verità, proprio perché diversa e inconciliabile, può av­ vicinarci alla nostra verità, né migliore e né peggiore della sua, soltanto nostra. L'opera di Cernuda è un itinerario ver­ so noi stessi . In ciò si fonda il suo valore morale. Poiché, oltre ad essere un grande poeta - o meglio: essendo un grande poeta - , Cernuda è uno dei pochissimi moralisti che la Spa­ gna abbia prodotto, moralista nel senso in cui Nietzsche è il gran moralista dell'Europa moderna e, come egli diceva, "il suo primo psicologo" . La poesia di Cernuda è una criti­ ca dei nostri valori e delle nostre credenze; in essa distruzio­ ne e creazione sono inseparabili, poiché ciò che essa afferma implica la dissoluzione di ciò che la società considera giusto, sacro e immutabile. Come quella di Pessoa, la sua opera è sovversione e la sua fecondità spirituale risiede, precisamen­ te, nel costante mettere alla prova i sistemi della morale col­ lettiva, tanto· quelli fondati sull'autorità della tradizione come quelli che ci propongono i riformatori sociali. La sua ostilità al cristianesimo non è inferiore alla sua ripugnanza per le uto­ pie politiche. Non dico che sia necessario concordare con lui; dico che, se si ama realmente la sua poesia, bisogna ascolta­ re ciò che realmente essa ci dice. Non ci chiede una pietosa riconcilìazione; attende da noi ciò che è ben più difficile: il riconoscimento .

45

I

Non mi propongo, nelle note che seguono, di esaminare l' opera di Cernuda nella sua totalità. Scrivo senza avere a portata di mano i suoi libri più importanti e, al di fuori di ciò che ha lasciato nella mia memoria una frequentazione plu­ riennale dei suoi scritti, non possiedo che alcune poesie rac­ colte in un'antologia, la terza edizione di Ocnos e Desolaci6n de la Quimera. Una volta scrissi che il suo creare era simile alla crescita di un albero, in opposizione alle costruzioni ver­ bali di altri poeti . L 'immagine è giusta solo a metà: gli alberi crescono spontaneamente e fatalmente, ma mancano di co­ scienza. Poeta è chi ha coscienza della propria fatalità . Vo­ glio dire: poeta è chi scrive perché non ha altra scelta - e lo sa. Chi è complice della propria fatalità - e il suo giudi­ ce. In Cernuda, spontaneità e riflessione sono inseparabili; ogni tappa della sua opera è un nuovo tentativo di espressio­ ne e una meditazione su ciò che esprime. Non cessa di avan­ zare verso l'interno di se stesso e non cessa di domandarsi se avanzi realmente. Così, La realidad y el deseo può legger­ si come biografia spirituale, successione di momenti vissuti e riflessione su quelle esperienze vitali . Di qui, il suo caratte­ re morale. Può essere poetica una biografia? Solo a condizione che gli aneddoti si trasformino in poesie, cioè solo se i fatti e le date cessano di essere cronaca e diventano esemplari. Esem­ plari non nel senso didattico della parola, ma in quello di "azione eccellente" , come quando si dice: esemplare unico. Ossia: mito, argomento ideale e affabulazione reale. I poeti 46 si servono delle leggende per raccontarci la realtà; con gli av­ venimenti reali creano favole, esempi . Il pericolo di una bio­ grafia poetica è duplice: la confessione non richiesta e il con-

siglio gratuito. Cernuda non sempre evita questi estremi e non è raro che incorra nella confidenza e nel moraleggiare. Non importa: il meglio della sua opera vive nello spazio, reale e immaginario, del mito. Uno spazio ambiguo come la figura che in esso trova fondamento. Affabulazione reale e storia ideale, La realidad y el deseo è il mito del poeta moderno. Un essere diverso dal poeta maledetto , anche se suo discen­ dente. Si sono chiuse le porte dell'inferno e al poeta non ri­ mane neppure più il ricorso ad Aden o all ' Etiopia; errante per i cinque continenti, vive sempre nella stessa stanza, par­ la con le stesse persone e il suo esilio è quello di ognu­ no. Questo, Cernuda non lo seppe - era troppo ripiegato su se stesso, troppo astratto nella propria singolarità - , ma la sua opera è una delle testimonianze più impressionanti di questa situazione, veramente unica, dell'uomo moderno: sia­ mo condannati a una solitudine promiscua e la nostra pri­ gione è grande quanto il pianeta. Non c'è uscita né entrata. Andiamo dal medesimo al medesimo. Siviglia, Madrid, To­ losa, Glasgow, Londra, New York, Città del Messico, San Francisco : Cernuda fu veramente in quelle città? Ma dove si trovano davvero quei luoghi? Tutte le età dell'uomo appaiono in La realidad y el deseo . Tutte, tranne l ' infanzia, che viene soltanto evocata come un mondo perduto e di cui si sia dimenticato il segreto. (Quale poeta ci darà, non la visione o la nostalgia della fanciullez­ za, ma la fanciullezza medesima, chi avrà l ' ardire e il genio di parlare come i bambini?). Il libro di poesie di Cernuda po­ trebbe dividersi in quattro parti: l'adolescenza, gli anni di ap­ prendistato, in cui ci sorprende per la sua squisita maestria; la gioventù, il gran momento in cui scopre la passione e sco­ pre se stesso, periodo a cui dobbiamo le sue imprecazioni più belle e le sue migliori poesie d'amore - amore dell' amore; la maturità, che inizia come contemplazione dei poteri mon­ dani e finisce in una meditazione sulle opere degli uomini; e il finale, ormai al limite della vecchiaia, lo sguardo più pre47

eisa e riflessivo, la voce più reale e amara. Momenti diversi di una stessa parola. In ciascuno si trovano poesie ammire­ voli, ma io preferisco la poesia della gioventù (Las placeres prohibidos, Un rfo un amor, Donde habite el olvido, Invo­ caciones) , non perché in quei libri il poeta sia interamente padrone di sé ma proprio perché ancora non lo è: istante in cui la profezia non è ancora certezza, né la certezza formu­ la. Le sue prime poesie mi sembrano un esercizio la cui per­ fezione non esclude l' affettazione, certo manierismo da cui mai si liberò del tutto. I libri della maturità arrivano a un classicismo di gesso , e cioè a un neoclassicismo: ci sono troppi dèi e troppi giardini: c'è una tendenza a confondere l'eloquen­ za con la dizione e non manca di meravigliare che Cernuda, critico costante di quella nostra tendenza al "tono alto" , non l'abbia avvertita in se stesso. Infine, nelle ultime poesie, la riflessione, la spiegazione e perfino l ' improperio occupano troppo spazio e scacciano il canto; il linguaggio non ha la fluidità del parlato ma l'asprezza del discorso scritto. E tut­ tavia, in ogni periodo, ci sono poesie che mi hanno illumina­ to e guidato , poesie a cui torno sempre e che sempre mi rivelano qualcosa di essenziale. Il segreto di questa fascina­ zione è duplice. Siamo di fronte a un uomo che in ogni paro­ la che scrive si consegna per intero e la cui voce è inseparabile dalla sua vita e dalla sua morte; allo stesso tempo, quella pa­ rola non ci si consegna mai direttamente: fra essa e noi, sta lo sguardo del poeta, la riflessione che crea la distanza e per­ mette così la vera comunicazione. La coscienza dà profondi­ tà, risonanza spirituale a ciò che dice; il pensiero spiega uno spazio mentale che dà gravità alla parola. La coscienza dà unità a quest'opera tanto vasta e varia. Poeta fatale, è con­ dannato a dire e a pensare ciò che dice. Perciò, almeno per me, le sue poesie migliori sono quelle degli anni in cui dizio­ 48 o quelle dei momenti ne spontanea e pensiero si fondono; della maturità, in cui la passione, la collera o l'amore gli re­ stituiscono l' antico entusiasmo, ora in un linguaggio più du-

ro e lucido . Biografia di un poeta moderno spagnolo, La realidad y el deseo è anche biografia di una coscienza poetica europea. Per­ ché Cernuda è un poeta europeo, nel senso in cui non sono europei Lorca o Machado, Neruda o Borges . (L'europeismo di quest'ultimo è molto americano: è una delle maniere che noi ispanoamericani abbiamo di essere noi stessi , o, piutto­ sto, di inventarci . Il nostro europeismo non è sradicamento né ritorno al passato: è un tentativo di creare uno spazio tem­ porale di contro a uno spazio senza tempo per , così , poterei incarnare) . Naturalmente, gli spagnoli sono europei , ma il genio della Spagna è polemico: combatte con se stesso e ogni volta che si lancia contro una parte di sé, si lancia contro una parte d'Europa. Forse l'unico poeta spagnolo che si senta eu­ ropeo con naturalezza è Jorge Guillén; perciò, sempre con naturalezza, si sente ben radicato in Spagna. Al contrario, Cernuda scelse di essere europeo con la stessa furia con cui altri suoi contemporanei decisero di essere andalusi, madri­ legni o catalani . Il suo europeismo è polemico ed è intessuto di antiispanismo. Il ripudio della terra natale non è esclusiva degli spagnoli ; è una costante della poesia moderna d'Euro­ pa e d 'America. (Penso a Pound e a Michaux, a Joyce e a Breton, a Cummings . . . L'elenco sarebbe interminabile). Così, Cernuda è antispagnolo per due motivi: per ispanismo pole­ mico e per modernità. Per quanto si riferisce al primo, ap­ partiene alla famiglia degli eterodossi spagnoli; quanto alla seconda, la sua opera è una lenta riconquista dell' eredità eu­ ropea, una ricerca di quella corrente centrale da cui la Spa­ gna si è appartata da molto tempo. Non si tratta di influenze - anche se, come ogni poeta, ne ha avute diverse, quasi tut­ te benefiche - ma di un 'esplorazione di se stesso, non già in senso psicologico, ma storico. Cernuda scopre lo spirito moderno attraverso il surreali­ smo. Lo stesso Cernuda si è riferito in diverse occasioni alla seduzione esercitata sulla sua sensibilità dalla poesia di Re49

verdy, maestro dei surrealisti e anche suo. Ammira in Re­ verdy l " 'ascetismo poetico" - equivalente, dice, a quello di Braque - che gli fa costruire una poesia con il minimo di materia verbale; ma, più dell'economia di mezzi, ammira la sua reticen za . Questa parola è una delle chiavi dello stile di Cernuda. Rare volte un pensiero più arrischiato e una pas­ sione più violenta si sono serviti di espressioni più pudiche. Non fu Reverdy l ' unico francese a conquistarlo. In una let­ tera del 1 929, scritta da Madrid, chiede ad un amico di Sivi­ glia di restituirgli diversi libri (Les pas perdu di André Breton, Le libertinage e Le paysan de Paris di Louis Aragon) e ag­ giunge: "Azorfn, Valle-Inclan, Baroja: che me ne importa di tutta questa stupida, disumana, putrida letteratura spa­ gnola? " . Non si scandalizzino i puristi . In quegli stessi anni Breton e Aragon trovavano che la letteratura francese era ugualmente disumana e stupida. Abbiamo perduto quella bel­ la disinvoltura; come è difficile, ora, essere insolente, ingiu­ stamente giusto, come nel 1 920. Quanto deve Cernuda ai surrealisti? Il ponte fra l'avan­ guardia francese e la poesia nella nostra lingua fu , come è noto, Vicente Huidobro . Dopo il poeta cileno i contatti si moltiplicarono e Cernuda non fu né il primo né l'unico che abbia subito la fascinazione surrealista. Non sarebbe diffici­ le trovare nella sua poesia e anche nella sua prosa le impron­ te di certi surrealisti come Eluard, Crevel e, anche se si tratta di uno scrittore che si trova ai suoi antipodi, del folgorante Louis Aragon (prima maniera). Ma a differenza di Neruda, Lorca o Villarutia, per Cernuda il surrealismo fu qualcosa di più di una lezione di stile, di una poetica o di una palestra di associazioni e immagini verbali: fu un tentativo di incar­ nazione della poesia nella vita, una sovversione che compren­ deva tanto il linguaggio quanto le istituzioni . Un'etica e una passione. Cernuda fu il primo, e quasi l'unico, che comprese e fece suo il vero significato del surrealismo come movimento di li50

berazione - non del verso ma della coscienza: l'ultima grande scossa spirituale dell'Occidente. Alla commozione psichica del surrealismo bisogna aggiungere la rivelazione di André Gide. Grazie al moralista francese, accetta se stesso; da allo­ ra la sua omosessualità non sarà più né malattia né peccato, ma destino liberamente accettato e vissuto. Se Gide lo ricon­ cilia con se stesso, il surrealismo gli servirà per inserire la sua ribellione psichica e vitale in una sovversione più vasta e to­ tale. I "piaceri proibiti " gettano un ponte fra questo mondo di "codici e percentuali" e il mondo sotterraneo del sogno e dell'ispirazione: sono la vita terrena in tutto il suo tacitur­ no splendore ( ' 'membra di marmo" , " fiori di ferro" , "pia­ neti terrestri") e sono anche la vita spirituale più alta ("solitudini altere" , "libertà memorabili " ) . Il frutto che ci offrono queste dure libertà è quello del mistero, il cui "sa­ pore nessuna amarezza corrompe " . La poesia diventa atti­ va; il sogno e la parola abbattono le "statue anonime" : nella grande "ora della vendetta, il suo fulgore può distruggere il vostro mondo " . Più tardi Cernuda abbandonò le maniere e i tic surrealisti, ma la sua visione essenziale, anche se diver­ sa era la sua estetica, continuò ad essere quella della gioventù. Il surrealismo è una tradizione. Con quell'istinto critico che distingue i grandi poeti, Cernuda risale la corrente: Mal­ larmé, Baudelaire, Nerval. Anche se fu sempre fedele a que­ sti tre poeti, Cernuda non si fermò ad essi . Andò alla fonte, all' origine della poesia moderna dell'Occidente: il romanti­ cismo tedesco . Uno dei temi di Cernuda è quello del poeta di fronte al mondo ostile o indifferente degli uomini . Pre­ sente fin dalle sue prime poesie, a partire da Invocaciones, si dispiega con intensità ogni volta più tenebrosa. La figura di Holderlin e quelle delle sue creature sono il suo modello; presto quelle immagini si trasformano in un'altra, affasci­ nante e terribile: quella del demonio. Non un demonio cri­ 51 stiano, repellente e spaventoso, bensì un demonio pagano, quasi un ragazzo . È il suo doppio. Questa presenza sarà co-

stante nella sua opera, anche se essa cambierà con gli anni e la sua parola diventerà sempre più amara e senza speran­ za. Nell' immagine del doppio, riflesso sempre intoccabile, Cernuda cerca se stesso ma cerca anche il mondo: vuole sa­ pere che esiste e che gli altri esistono. Gli altri: una razza d'uo­ mini diversa dagli uomini . A fianco del diavolo, la compagnia dei poeti morti . La let­ tura di Holderlin e quella di Jean Paul e di Novalis, quella di Blake e di Coleridge sono qualcosa di più di una scoperta: un riconoscimento. Cernuda torna ai suoi . Quei grandi no­ mi sono per lui persone vive, invisibili ma sicuri intercessori . Parla con loro come se parlasse con se stesso . Sono la sua vera famiglia e le sue divinità segrete. La sua opera è scritta pensando a loro; sono qualcosa di più di un modello, un esem­ pio o una ispirazione: uno sguardo che lo giudica. Deve es­ sere degno di loro . E l 'unico modo per esserlo è affermare la propria verità, essere se stesso . Compare di nuovo il tema etico. Però non sarà Gide, con la sua morale psicologica, ma Goethe a guidarlo in questa nuova tappa. Non cerca una giu­ stificazione ma un equilibrio; ciò che il giovane Nietzsche chia­ mava "salute", il segreto perduto del paganesimo greco: il pessimismo eroico , creatore della tragedia e della commedia. Spesso parlò della Grecia, dei suoi poeti e dei suoi filosofi , dei suoi miti e, soprattutto, della sua visione della bellezza: qualcosa che non è né fisico né corporeo e che forse è solo un accordo, una misura. In Ocnos parlando della "conoscenza bella" - perché conosce la bellezza o perché ogni conoscere è bellezza? - dice che la bellezza è misura. E così, con un percorso che va dalla ribellione surrealista al romanticismo tedesco e inglese e da essi ai grandi miti dell' Occidente, Luis Cernuda recupera la sua doppia identità di poeta e spagno­ lo: la tradizione europea, il sapere e il sapore del mezzogior­ 52 no mediterraneo. Ciò che iniziò come passione polemica ed eccesso terminò come riconoscimento della misura. Una mi­ sura, certo, in cui non rientrano altre cose che pure sono

Occidente. Fra di esse, due delle più importanti : il cristiane­ simo e la donna. L ' " alterità" nelle sue manifestazioni più totali: l'altro mondo e l'altra metà di questo mondo . E tut­ tavia, Cernuda fa di necessità virtù e crea un universo in cui non mancano due elementi essenziali , uno del cristianesimo e l'altro della donna: l 'introspezione e il mistero amoroso . Non ho parlato di un'altra influenza che fu capitale, tan­ to nella sua poesia quanto nella sua critica, specialmente da Las nubes ( 1 940) : la poesia moderna in lingua inglese. In gio­ ventù amò Keats e più tardi si sentì attratto da Blake, ma questi nomi , specialmente il secondo, appartengono a ciò che potrebbe chiamarsi la sua metà demoniaca o sovversiva: ali­ mentarono la sua ribellione morale. Il suo interesse per Wordsworth, Browning, Yeats ed Eliot è di altra indole: non cerca in loro tanto una metafisica, quan­ to una coscienza estetica. Il mistero della creazione lettera­ ria e il tema del significato ultimo della poesia - il suo rap­ porto con la verità, con la storia e con la società - lo preoc­ cupano sempre. Nelle riflessioni dei poeti inglesi trovò, for­ mulata in maniera diversa o simile alla sua, risposte a queste domande. Una prova di tale interesse è il libro che dedicò al pensiero poetico dei lirici inglesi . Non credo di sbagliarmi se affermo che T.S. Eliot fu lo scrittore vivente che esercitò l ' influenza più profonda sul Cernuda della maturità. Ripe­ to: influenza estetica, non morale né metafisica: la lettura di Eliot non ebbe le conseguenze liberatrici che caratterizzaro­ no la sua scoperta di Gide. Il poeta inglese gli fa vedere con nuovi occhi la tradizione poetica e molti de� suoi studi su poeti spagnoli sono scritti con quella precisione e oggettività, non esente da capriccio, che sono uno degli incanti e dei pericoli dello stile critico di Eliot. L ' esempio di questo poeta non è visibile solo nelle sue opinioni critiche ma anche nella sua crea­ zione. L'incontro con Eliot coincide con un cambiamento del­ la sua estetica; consumata l 'esperienza del surrealismo , non lo preoccupa più cercare nuove forme, ma solo esprimersi . 53

Non una norma ma una misura, qualcosa che non potevano dargli né i moderni francesi né i romantici tedeschi. Eliot aveva provato una necessità simile e dopo The Waste Land la sua poesia verte su moduli sempre più tradizionali . Non saprei dire se questo atteggiamento di ritorno, in Cernuda ed Eliot, fu a beneficio o a danno della loro poesia; da una parte li impoverì, poiché sorpresa ed invenzione, ali della poesia, spa­ riscono parzialmente dalla loro opera della maturità; dall'al­ tra, forse, senza quel cambiamento sarebbero diventati muti o si sarebbero perduti in una sterile ricerca, come accadde anche a grandi creatori come Pound o Cummings. Giacché è noto come non esista niente di più monotono dell'innova­ tore di professione . Insomma, la poesia e la critica di Eliot gli servirono per moderare il romantico che sempre fu. Cernuda predilesse, fin da quando iniziò a scrivere, il com­ ponimento lungo . Per il gusto moderno, la poesia è, anzitut­ to concentrazione verbale e perciò il componimento lungo si scontra con una difficoltà quasi insormontabile: unire esten­ sione e concentrazione, sviluppo e intensità, unità e varietà, senza fare dell'opera una collezione di frammenti e senza nep­ pure incorrere nel volgare espediente dell'amplificazione. Un coup de dès, concentrazione verbale massima in poco più di duecento righe, alcune di una sola parola, è la dimostrazio­ ne, per me più alta, di ciò che voglio dire. Non è il componi­ mento breve ma quello lungo che esige l'uso delle forbici ; il poeta deve esercitare senza rimorsi il suo dono della selezio­ ne se vuole scrivere qualcosa che non sia prolisso, dispersivo o vago. La reticenza, l'arte di dire ciò che si tace, è il segreto del componimento breve; in quello lungo i silenzi non ope­ rano come suggestione, non dicono , ma sono come le divi­ sioni e le suddivisioni dello spazio musicale. Più che una scrittura sono un'architettura. Già Mallarmé aveva compa­ 54 rato Un coup de dès a una partitura ed Eliot ha chiamato una delle sue grandi composizioni : Four Quartets. A Cernu­ da quel poema sembrava il meglio che avesse scritto Eliot e

molte volte discutemmo le ragioni di questa sua preferenza, poiché io preferivo The Waste Land - che, d'altra parte, deve vedersi anch 'esso come una costruzione musicale. Anche se il nostro poeta non apprese l'arte del componi­ mento lungo da Eliot - ne aveva scritto prima e alcuni di essi sono tra le cose migliori che fece - le idee dello scrittore inglese chiarirono le sue e modificarono parzialmente le sue concezioni . Ma una cosa sono le idee e altra il temperamen­ to di ciascuno . Sarebbe inutile cercare nella sua opera i prin­ cipi di armonia, contrappunto, o polifonia che ispirano Eliot e Saint-John Perse; e niente di più lontano dal "simultanei­ smo" di Pound o di Apollinaire dello sviluppo lineare, simi­ le a quello della musica vocale, della poesia di Cernuda. La melodia è lirica e Cernuda è soltanto, ed è abbastanza, un poeta lirico. Così, la forma più affine alla sua natura fu il monologo . Ne scrisse sempre, e si potrebbe perfino dire che la sua opera è un lungo monologo. La poesia inglese gli inse­ gnò come la monodia può tornare su se stessa, sdoppiarsi e interrogarsi: gli insegnò che il monologo è sempre un dialo­ go. In alcuni dei suoi studi allude alla lezione di Robert Brow­ ning; io aggiungerei quella di Pound, che fu il primo a servirsi del monologo di Browning. (Si confronti, ad esempio, l'uso dell'interrogazione in Near Perigord e nei componimenti lun­ ghi dell'ultimo Cernuda) . E qui mi pare di dover dire qual­ cosa su un tema che lo occupò e su cui scrisse pagine di grande penetrazione: la relazione fra linguaggio parlato e poesia. Cernuda segnala che il primo a proclamare il diritto del poeta ad impiegare "the language really used by men" fu Wordsworth. Anche se non è del tutto esatto che questo an­ tecedente costituisca l'origine del cosiddetto "prosaismo" del­ la poesia contemporanea, è bene distinguere fra questa idea di Wordsworth e quella di Herder, che vedeva nella poesia il "canto del popolo" . Il linguaggio popolare, se esiste poi realmente e non è un'invenzione del romanticismo tedesco, è una sopravvivenza dell'epoca feudale. Il suo culto è una 55

nostalgia. Jiménez e Antonio Machado confusero sempre il "linguaggio popolare" con la lingua parlata e da qui che ab­ b iano identificato quest' ultima con il canto tradizionale. Ji­ ménez pensava che l' "arte popolare" non fosse altro che l'imitazione tradizionale dell'arte aristocratica; Machado cre­ deva che la vera aristocrazia risiedesse nel popolo e che il fol­ clore fosse l'arte più raffinata. Per quanto differenti ci possano sembrare questi punti di vista, entrambi rivelano una visione nostalgica del passato. Il linguaggio del nostro tem­ po è un altro: è il linguaggio parlato nelle grandi città e tutta la poesia moderna, da Baudelaire, ha fatto di questo linguag­ gio il punto di partenza di una nuova lirica. Reazione contro l'estetica dello squisito e dello strano che avevano reso di moda i poeti ispanoamericani, la semplicità della cosiddetta poesia popolare spagnola non è meno artificiale delle complicazio­ ni moderniste . Influenzati da Jiménez, i poeti della genera­ zione di Cernuda fecero del romance e della canzone i loro generi prediletti. Cernuda non cadde mai nell'affettazione del popolare (affettazione a cui dobbiamo, in ogni modo , alcu­ ne delle poesie più affascinanti della nostra lirica moderna) e cercò di scrivere come si parla; o meglio: si propose come materia prima della trasmutazione poetica non il linguaggio dei libri ma quello della conversazione. Non riuscì sempre. Frequentemente il suo verso è prosaico, nel senso che la pro­ sa scritta è prosaica, non la lingua viva: qualcosa di più pen­ sato e costruito che detto. Per le parole che impiega, quasi tutte colte, e per la sintassi artificiosa, più che " scrivere co­ me si parla" , a volte Cernuda "parla come un libro stampa­ to" . Il miracoloso è che questa scrittura si condensi all 'improvviso in espressioni scintillanti . Cernuda vide in Campoamor un precedente del prosaismo poetico; se lo fosse davvero, sarebbe uno sgradevole prece­ 56 dente. Non bisogna confondere la chiacchiera filosofica con la poesia. La verità è che l 'unico poeta spagnolo moderno che ha usato con naturalezza il linguaggio parlato è il dimen-

ticato José Moreno Villa . (L'unico e il primo: Jacinta la pe­ lirroja si pubblicò nel 1 929). I n realtà, i primi a s fruttare le possibilità poetiche del linguaggio in prosa furono, per quanto possa sembrare strano, i modernisti ispanoamericani : Dario e, soprattutto, Leopoldo Lugones. Nella poesia di Campoa­ mor la retorica di fine secolo degrada in espressioni che so­ no luoghi comuni pseudofilosofici e così viene a costituire un esempio di ciò che Breton chiama ' 'immagine discenden­ te' ' . I modernisti mettono a confronto il linguaggio colloquiale e quello artistico per produrre un contrasto all 'interno della poesia, come si può vedere in Augurios di Rubén Dario, o fanno della parlata metropolitana la materia prima della poe­ sia. Quest'ultimo procedimento è quello del Lugones di L u ­ nario sentimental. Verso il 1 9 1 5 , il messicano L6pez Velarde mise a frutto la lezione del poeta argentino e realizzò la fu­ sione fra linguaggio letterario e linguaggio parlato . Sarebbe noioso menzionare tutti i poeti ispanoamericani che, dopo L6pez Velarde, fanno del prosaismo un linguaggio poetico; sarà sufficiente fare sei nomi: Borges, Vallejo, Pellicer, No­ vo, Lezama Lima, Sabines . . . La cosa più strana è che tutto questo non deriva dalla poesia inglese, ma dal maestro di Eliot e Pound: il simbolista Jules Laforgue. L'autore di Complain­ tes e non Wordsworth, sta all'origine di questa tendenza, tanto per gli inglesi che per gli ispanoamericani . Con frequenza si ripete che Cernuda e, in generale, i poeti della sua generazione, "chiudono" un periodo della poesia spagnola. Confesso di non capire ciò che con questo si vuol dire. Perché qualcosa si chiuda - se non si tratta di un' e­ stinzione definitiva - è necessario che qualcosa o qualcuno apra una nuova tappa. I poeti spagnoli attuali, al di là di ogni antipatico confronto, non mi sembrano aver iniziato un nuovo movimento; direi perfino che, almeno in materia di linguag­ gio e visione - ed è ciò che conta in poesia - si mostrino singolarmente timidi . Non è un rimprovero : la seconda ge­ nerazione romantica non fu meno importante della prima e 57

diede un nome centrale: Baudelaire. La novità non è l'unico criterio poetico . In Spagna c'è stato un cambiamento di to­ no, non una rottura. Questo cambiamento è naturale, ma non bisogna confon­ derlo con una nuova era. Cernuda non chiude né apre un'e­ poca. La sua poesia, inconfondibile e diversa, forma parte di una tendenza universale che in lingua spagnola inizia, con un certo ritardo, alla fine del secolo scorso e che non è anco­ ra terminata. All'interno di quel periodo storico, la sua ge­ nerazione, in lspanoamerica e in Spagna, occupa un posto centrale. E uno dei poeti centrali di quella generazione è lui , Luis Cernuda. Non fu il creatore di un linguaggio comune né di uno stile, come lo furono al loro tempo Rubén Dario e Juan Ram6n Jiménez o, più recentemente , Vicente Huido­ bro, Pablo Neruda e Federico Garda Lorca . E forse proprio in ciò risiede il suo valore e ciò che gli darà importanza per il futuro: Cernuda è un poeta solitario e per solitari. In una tradizione che ha usato e abusato delle parole, ma che raramente ha riflettuto su di esse , Cernuda rappresenta la coscienza del linguaggio. Un caso simile è quello di Jorge Guillén , con la sola differenza che mentre la poesia di que­ st' ultimo vive, per usare il gergo dei filosofi , Q.ell'ambito del­ l'essere, quella di Cernuda è temporale: l'esistenza umana è il suo regno. In entrambi , più che riflessione, c'è meditazio­ ne poetica. La prima è un'operazione estrema e totale: la pa­ rola si volge su se stessa e si nega come significato del mondo per significare solo la sua stessa significazione e, così, annul­ larsi . Alla riflessione poetica dobbiamo alcuni dei testi car­ dinali della poesia moderna dell'Occidente, poesie in cui la nostra storia simultaneamente si assume e si consuma: nega­ zione di se stessa e dei significati tradizionali, tentativo di fon­ dare un altro significato. Gli spagnoli hanno provato raramente sfiducia di fronte alla parola, raramente hanno pro­ vato quella vertigine che consiste nel vedere il linguaggio co­ me il segno del nulla. Per Cernuda, la meditazione - nel 58

senso quasi medico: curare - consiste nell 'inclinarsi su un altro mistero: quello del nostro trascorrere. La vita, non il linguaggio . Fra vivere e pensare, la parola non è abisso ma ponte. Meditazione: mediazione. La parola esprime la distan­ za fra ciò che sono e ciò che sto essendo; parimenti, è l'uni­ co modo di trascendere quella distanza. Attraverso la parola la mia vita si trattiene senza intrattenersi e guarda se stessa guardarsi : attraverso di essa mi raggiungo e mi supero, mi un altro me stesso che contemplo e mi trasformo in altro si burla della mia miseria e la cui burla cifra tutta la mia re­ denzione. La tensione fra vita inconsapevole di sé e coscienza di sé si risolve in parola trasparente. Non in un aldilà impossibile, ma qui, nell' istante della poesia, realtà e desiderio vengono a patti. E quest'abbraccio è così intenso che non solo evoca l 'immagine dell'amore, ma anche della morte: nel petto del poeta "identico a un liuto, la morte, solo la morte, può far risuonare la melodia promessa" . Pochi poeti moderni, in qualsiasi lingua, ci dànno questa sensazione da brivido di saperci di fronte a un uomo che parla veramente, effettivamente posseduto dalla fatalità e dalla lu­ cidità della passione. Se si potesse definire con una frase il posto occupato da Cernuda nella poesia moderna in lingua spagnola, direi che è il poeta che parla non per tutti, ma per il ciascuno che siamo tutti. E ci ferisce nel centro di quel cia­ scuno che siamo, "che non si chiama gloria, fortuna o am­ bizione" , ma la verità di noi stessi. Per Cernuda la poesia aveva per oggetto la conoscenza del sé, ma, con la stessa in­ tensità, fu un tentativo di creare la propria immagine. Bio­ grafia poetica, La realidad y el deseo è qualcosa di più : la storia di uno spirito che, conoscendosi, si trasfigura. -

59

II

È ormai consuetudine dire che Cernuda è un poeta d'a­ more. È vero e da questo tema sgorgano tutti gli altri : solitu­ dine, noia, esaltazione del mondo naturale, contemplazione delle opere dell'uomo . . . Ma è necessario iniziare dicendo qual­ cosa che egli non occultò mai : il suo amore è omosessuale: non conobbe né parlò di altro . In ciò non esiste equivoco pos­ sibile; con ammirabile coraggio , se si pensa a ciò che sono il pubblico e gli ambienti letterari ispanoamericani, scrisse ragazzo lì dove altri preferiscono usare sostantivi più incer­ ti . " La verità di me stesso" , disse in una poesia della giovi­ nezza, "è la verità del mio vero amore" . La sua sincerità non è gusto dello scandalo né sfida alla società (altra è la sua sfi­ da): è un punto d'onore intellettuale e morale. Inoltre, si corre il rischio di non comprendere il significato della sua opera se si tace o si attenua la sua omosessualità, non perché la sua poesia possa ridursi a quella passione - ciò sarebbe falso tanto quanto ignorarla - ma perché essa è il punto di par­ tenza della sua creazione poetica. Le sue tendenze erotiche non spiegano la sua poesia ma senza di esse la sua opera sa­ rebbe diversa. La sua "verità differente" lo separa dal mon­ do; e quella stessa verità, in un secondo movimento, lo porta a scoprire un'altra verità, sua e di tutti . Gide gli diede il coraggio di chiamare le cose con il loro nome; il secondo dei libri del suo periodo surrealista ha per titolo Los placeres prohibidos. Non li chiama, come ci si sa­ rebbe potuti aspettare, piaceri maledetti. Se si necessita di una certa tempra per pubblicare un libro così nella Spagna del 1 930, maggior lucidità è necessaria per resistere alla tenta­ zione di assumere il ruolo del ribelle-dannato. Questo tipo di ribellione è ambiguo; chi si giudica " maledetto" consacra 60

l'autorità divina o sociale che lo condanna: la maledizione lo include, negativamente, nell'ordine che vìola. Cernuda non si sente maledetto: si sente escluso. E non se ne dispiace: re­ stituisce colpo su colpo. La differenza con uno scrittore co­ me Genet è rivelatrice. La s fida di Genet al mondo sociale è più simbolica che reale e da qui che per rendere sempre più pericoloso il suo gesto abbia dovuto andare oltre: elogio del furto e del tradimento, culto dei criminali. In cambio, di fron­ te a una società dove l'onore dei mariti risiede ancora tra le gambe delle mogli e in cui il "machismo" è un'infermità con­ tinentale, la franchezza di Cernuda lo esponeva ad ogni sor­ ta di rischi reali, fisici e morali. D'altra parte, Genet è marcato dal cristianesimo - un cristianesimo negativo; l'impronta del peccato originale è la sua omosessualità o, più esattamente, attraverso di essa e in essa si rivela la macchia originale: tut­ te le sue azioni e le sue opere sono una sfida e un omaggio del nulla all'essere. In Cernuda la coscienza della colpa com­ pare appena e ai valori del cristianesimo egli ne oppone al­ tri, i suoi , che gli sembrano gli unici veri . Sarebbe difficile trovare, in lingua spagnola, uno scrittore meno cristiano. Ge­ net arriva alla negazione della negazione: i negri che sono bianchi che sono negri che sono bianchi del suo bel testo tea­ trale. È ciò che Nietzsche chiamava " nichilismo incomple­ to" , che non si trascende né si assume e si accontenta di soffrire se stesso. Un cristianesimo senza Cristo. La sovver­ sione di Cernuda è più semplice, radicale e sana. Riconoscersi omosessuale è accettarsi differente dagli al­ tri . Ma chi sono gli altri? Gli altri sono il mondo - e il mon­ do è proprietà degli altri . In quel mondo si perseguitano con la stessa ferocia gli amanti eterosessuali , il rivoluzionario, il negro, il proletario, il borghese espropriato, il poeta solita­ rio, il mendicante, l'eccentrico e il santo. Gli altri persegui­ tano tutti e nessuno. Sono tutti6 1e nessuno . La salute pubblica è la malattia collettiva santificata dalla forza. Sono reali gli altri?

Maggioranza senza volto o minoranza onnipotente, sono un ' assemblea di spettri . Il mio corpo è reale, è reale il pecca­ to? Le carceri sono reali , lo sono anche le leggi? Fra l'uomo e ciò che egli tocca c'è una zona di irrealtà : il male. Il mondo è costruito su una negazione e le istituzioni - religione, fa­ miglia, proprietà, Stato , patria - sono feroci incarnazioni di quella negazione universale . Distruggere questo mondo ir­ reale perché appaia finalmente la vera realtà . . . Qualsiasi gio­ vane - e non solo un poeta omosessuale - può (e deve) im­ porsi queste riflessioni . Cernuda si accetta differente; il pen­ siero moderno, specialmente il surrealismo, gli mostra come tutti siano differenti. Omosessualità diventa sinonimo di li­ bertà; l'istinto non è un impulso cieco : è la critica fatta atto . Tutto, il corpo stesso, acquisisce una colorazione morale. In questi anni aderisce al comunismo ( 1 930) . Adesione fugace perché in questa materia, come in tante altre, i troiani non sono meno ottusi dei tiri. L ' affermazione della propria veri­ tà gli fa riconoscere quella degli altri: "attraverso il mio do­ lore comprendo che altri innumerevoli soffrono. . . ", dirà anni dopo . Quantunque condivida il nostro comune destino non ci propone una panacea. È un poeta, non un riformatore. Ci offre la sua " verità vera " , quell'amore che è l'unica li­ bertà che lo esalti, l'unica libertà per cui muore. La verità vera, la sua e di tutti, si chiama desiderio . In una tradizione che con pochissime eccezioni - si possono conta­ re sulle dita, da La Celestina e da La lozana andalusa a Ru­ bén Dario, Valle Incléin e Garda Lorca - identifica "piace­ re" con "sensazione gradevole, contentezza d'animo o di­ versione' ' , la poesia di Cernuda afferma con violenza il pri­ mato dell'erotismo. Quella violenza si placa con gli anni ma il piacere occuperà sempre un posto centrale nella sua ope­ ra, a fianco del suo opposto-complemento: la solitudine. È la coppia che regge il suo mondo, quel "paesaggio di ceneri assorte" che il desiderio popola di corpi raggianti, fiere bel­ le e lucenti. Il destino della parola desiderio, da Baudelaire 62

a Breton , si confonde con quello della poesia. Il suo signifi­ cato non è psicologico. Mutevole e identico, è energia, vo­ lontà di incarnazione del tempo, appetito vitale o pulsione di morte: non ha nome e li possiede tutti . Che cosa o chi è colui che desidera ciò che desideriamo? Anche se assume la forma della fatalità, non si compie senza la nostra libertà e in esso si cifra ogni nostro arbitrio. Non sappiamo nulla del desiderio, eccetto che si cristallizza in immagini e che quelle immagini non cessano di incitarci per poter diventare realtà. Appena le tocchiamo, svaniscono . O siamo noi che ci dissol­ viamo? L'immaginazione è il desiderio in movimento. È l'im­ minente, ciò che suscita l'epifania; ed è la lontananza che la cancella. Con una certa indolenza si tende a vedere nelle poesie di Cernuda mere variazioni di un vecchio luogo comune: la realtà finisce per uccidere il desiderio, la nostra vita è una continua oscillazione fra privazione e sazietà. A me sembra che, oltre a ciò, dicano un' altra cosa, più certa e terribile: se il desiderio è reale, la realtà è irreale. Il desiderio trasfor­ ma in reale l'immaginario, in irreale la realtà. L' essere com­ pleto dell'uomo è il teatro di questa continua metamorfosi; nel suo corpo e nella sua anima desiderio e realtà si compe­ netrano e si trasformano, si congiungono e si separano. Il desiderio popola il mondo di immagini e, simultaneamente, evacua la realtà. Nulla lo soddis fa poiché trasforma in fan­ tasmi gli esseri viventi . Si alimenta di ombre o , piuttosto: la nostra realtà umana, la nostra sostanza, il nostro sangue e il nostro tempo, alimentano le sue ombre. Fra desiderio e real­ tà esiste un punto di intersezione: l'amore. Il desiderio è più vasto dell'amore ma il desiderio d'amore è il più poderoso dei desideri . Soltanto in quel desiderare un essere fra tutti gli esseri il desiderio si dispiega appieno . Chi conosce l'amo­ re non vuole più nient 'altro . L'amore rivela la realtà al desi­ derio: quell'immagine desiderata è qualcosa di più di un corpo che svanisce: è un'anima, una coscienza. Passaggio dall'og­ getto erotico alla persona amata. Attraverso l'amore, il de63

siderio tocca finalmente la realtà: l ' altro esiste. Questa rive­ lazione è quasi sempre dolorosa perché l'esistenza dell'altro ci si presenta simultaneamente come un corpo che si penetra e come una coscienza impenetrabile. L 'amore è rivelazione della libertà altrui e nulla è più difficile che riconoscere la libertà degli altri , soprattutto quella di una persona che si ama e che si desidera. E in ciò si fonda la contraddizione dell'a­ more: il desiderio aspira a consumarsi nella distruzione del­ l'oggetto desiderato; l'amore scopre che quell' oggetto è indistruttibile . . . e insostituibile. Rimane il desiderio senza amore o l'amore senza desiderio . Il primo ci condanna alla solitudine: quei corpi intercambiabili sono irreali; il secondo è inumano: può amarsi ciò che non si desidera? Cernuda fu molto sensibile a questa condizione veramen­ te tragica dell ' amore, di ogni amore. Nelle sue poesie della giovinezza la violenza della passione si scontra ciecamente contro l'esistenza inaspettata di una coscienza irrimediabil­ mente aliena e questa scoperta lo riempie di collera e di pe­ ' na. (Più tardi, in un testo in prosa, allude all"'egoismo" degli amori giovanili). Nei libri della maturità il tema della poesia amorosa e mistica dell'Occidente - "l'amata nell'amato tra­ sformata" - appare frequentemente. Ma l'unione, fine ul­ timo dell'amore, si può ottenere soltanto se si riconosce che l'altro è un essere differente e libero: se il nostro amore, in­ vece di tentare di abolire quella differenza, si converte nello spazio in cui essa possa dispiegarsi . L'unione amorosa non è identità (se lo fosse saremmo più che uomini) ma uno stato di perpetuo movimento come il gioco o, come la musica, di perpetuo accordarsi . Cernuda affermò sempre la sua verità differente: vide e riconobbe quella degli altri? La sua opera offre una duplice risposta. Come quasi tutti gli esseri umani - almeno, come tutti quelli che amano veramente, che non sono poi molti - nel momento della passione è alternativa­ mente idolatra e avversario del suo amore; poi , al momento della riflessione, comprende con amarezza che se non venne 64

amato come desiderava fu forse poiché egli stesso non seppe amare con totale abbandono. Per amare dovremmo vincere noi stessi , sopprimere il conflitto fra desiderio e amore senza sopprimere né l'uno né l'altro. Difficile unione fra amo­ re contemplativo e amore attivo. Non senza lotte e vacilla­ zioni Cernuda aspirò a questa unione, la più alta; e quell'aspirazione indica il senso dell'evoluzione della sua poe­ sia: la violenza del desiderio, senza cessare mai di essere de­ siderio, tende a trasformarsi in contemplazione della persona amata. Scrivendo questa frase mi coglie un dubbio: si può parlare di persona amata nel caso di Cernuda? Penso non soltanto all'indole della passione omosessuale - con il suo fondo di narcisismo e la sua dipendenza dal mondo infanti­ le, che la rende capricciosa, tirannica e vulnerabile al morbo della gelosia - ma alla perturbante insistenza del poeta nel considerare l' amore come una fatalità quasi impersonale. In una poesia di Como quien espera el alba ( 1 947) dice: " L'amore è l'eterno e il non amato" . Quindici o vent'anni prima aveva detto la stessa cosa, con maggiore esasperazio­ ne: "Non è l'amore a morire, siamo noi stessi" . Nell' uno e nell'altro caso afferma il primato dell'amore sugli amanti ma nella poesia della giovinezza l'accento sta sul morire degli uo­ mini e non sull'immortalità dell'amore. La differenza di to­ no mostra il senso della sua evoluzione spirituale: nel secondo testo l'amore non è più immortale ma eterno e il "noi" si converte nell ' " amato " . Il poeta non partecipa: vede. Pas­ saggio dall'amore attivo al contemplativo. Notevole è che que­ sto cambiamento non altera la visione centrale: non sono gli uomini che si realizzano nell' amore ma è l'amore che si ser­ ve degli uomini per realizzarsi. L 'idea dell'essere umano co­ me "ninnolo della passione" è un tema costante della sua poesia. Esaltazione dell'amore e ridimensionamento degli uo­ mini. Il nostro scarso valore deriva dalla nostra condizione di mortali : siamo cambiamento e non resistiamo ai cambia­ menti della passione; aspiriamo all 'eternità e un istante d'a65

more ci distrugge. Privata del suo sostegno spirituale - l'a­ nima che le diedero platonici e cristiani - la creatura non è una persona ma una momentanea condensazione dei pote­ ri inumani: gioventù, bellezza e altre forme magnetiche in cui il tempo o l'energia si manifestano . La creatura è un 'epifa­ nia e non c'è nulla dietro di essa. Cernuda impiega poche volte le parole anima e coscienza per parlare dei suoi amori ; non allude neppure ai loro tratti particolari , né a quegli attributi che, come si dice volgarmente, dànno personalità alla gente. Nel suo mondo non regna il volto, specchio dell'anima, ma il corpo. Non si intenderà il significato di questa parola per il poeta spagnolo se non si tiene presente che egli vede nel corpo umano la cifra dell'universo. Un corpo giovane è un sistema solare, un nucleo di irradiazioni fisiche e psichi­ che. Il corpo genera energia, è una fonte di "materia psichi­ ca" o mana, sostanza che non è spirituale né fisica, secondo i primitivi : la forza che muove il mondo . Amando un corpo, non adoriamo una persona, ma un'incarnazione di quella for­ za cosmica. La poesia amorosa di Cernuda va dall'idolatria alla venerazione, dal sadismo al masochismo; soffre e gode con quella volontà di preservare e di distruggere ciò che amia­ mo in cui consiste il conflitto fra desiderio e amore - ma non ignora l'altro . È una contemplazione dell'amato, non dell'amante. Così nella coscienza altrui non vede se non il suo stesso volto interrogante. Quella fu la sua ' 'verità vera, la verità di se stesso" . C'è un'altra verità; ogni volta che amia­ mo, ci perdiamo: siamo altri. L'amore non realizza l'io: apre una possibilità all'io affinché cambi e si trasformi. Nell'a­ more non si compie l'io ma la persona: il desiderio di essere un altro. Il desiderio dell'essere. Se l'amare è desiderio, nes­ suna legge che non sia quella del desiderio può assoggettar­ lo. Per Cernuda l'amore è rottura con l'ordine sociale e unione con il mondo naturale. E non è rottura solo perché il suo arno­ re è differente da quello della maggioranza, ma perché ogni amore infrange le leggi degli uomini. L'omosessualità non 66

è eccezionale; la vera eccezione è l'amore. La passione di Cer­ nuda - e anche la sua ira, le sue imprecazioni e il suo sarca­ smo - sgorga da un ceppo comune: dalla sua nascita la poesia occidentale non ha cessato di proclamare che la passione d'a­ more, l'esperienza più alta per la nostra civiltà, è una tra­ sgressione, un crimine sociale. Le parole di Melibea, un istante prima di precipitare dalla torre, parole di caduta e di perdi­ zione ma anche di accusa al padre, possono essere ripetute da tutti gli amanti . Anche in una società come l ' hindù , che non ha fatto dell' amore la passione per eccellenza, quando il dio Krishna si incarna e si fa uomo , si innamora; e i suoi amori sono adulteri. Bisogna ripeterlo : l'amore, ogni amo­ re, è immorale. Immaginiamo una società diversa dalla no­ stra e da tutte quelle conosciute dalla storia, una società in cui regni l'assoluta libertà erotica, il mondo infernale di Sa­ de o quello paradisiaco che ci propongono i sessuologi mo­ derni: lì l'amore sarebbe uno scandalo maggiore che fra noi. Passione naturale, rivelazione dell'essere nella persona, ponte fra questo mondo e l ' altro, contemplazione della vita o della morte: l'amore ci apre le porte di uno stato che sfugge alle leggi della ragione comune e della morale corrente. No, Cer­ nuda non difese il diritto degli omosessuali a vivere la loro vita (questo è un problema di legislazione sociale) ma esaltò come esperienza suprema dell'uomo la passione d'amore. Una passione che assume questa o quella forma, sempre differente e, ciò nonostante, sempre la stessa. Amore unico per una per­ sona unica - anche se soggetta al cambiamento, alla malat­ tia, al tradimento e alla morte. Questa fu l ' unica eternità che desiderò e l' unica verità che considerò certa. Non la verità dell'uomo : la verità dell'amore. In un mondo spianato dalla critica della ragione e dal ven­ to della passione, i cosiddetti valori diventano un disperder­ si di ceneri . Che cosa sopravvive? Cernuda ritorna all' antica natura e in essa scopre non Dio ma la divinità stessa, la ma­ dre degli dèi e dei miti . Il potere dell'amore non proviene dagli 67

uomini, esseri deboli , ma dall'energia che muove ogni cosa. La natura non è né materia né spirito per Cernuda: è movi­ mento e forma, è apparenza e soffio invisibile, parola e si­ lenzio. È un linguaggio e di più : una musica. I suoi cambiamenti non hanno finalità alcuna; ignora l'etica, il pro­ gresso e la storia: come Dio, le basta essere . È per questo che, come Dio non può andare oltre se stesso perché non ha con­ fini e contemplarsi e riflettersi interminabilmente è tutta la sua trascendenza, così la natura è un'incessante mutazione di esperienze e un essere sempre identica a se stessa. Un gio­ co senza fine, che nulla significa e in cui non possiamo tro­ vare salvezza o condanna alcuna. Guardarla giocare con noi , giocare con essa, cadere con essa e in essa - questo è il no­ stro destino . In questa visione del mondo c'è più di una trac­ cia di La gaia scienza e, soprattutto, del pessimismo di Leopardi . Mondo senza creatore anche se percorso da un sof­ fio poetico, qualcosa che non so se potrebbe chiamarsi atei­ smo religioso . Certo, a volte Dio appare: è l'essere con cui parla Cernuda quando non parla con nessuno e che scompa­ re silenziosamente come una nube momentanea. Si direbbe un'incarnazione del nulla - e ad esso ritorna. Al contrario, la venerazione, nell'accezione di rispetto per il santo e il di­ vino, che gli ispirano cieli e montagne, un albero, un uccello o il mare, il mare sempre, sono costanti dal primo libro al­ l'ultimo. È un poeta dell'amore ma anche del mondo della natura. Il suo mistero lo affascinò. Va dalla fusione con gli elementi alla sua contemplazione, evoluzione parallela a quella della sua poesia amorosa. A volte i suoi paesaggi sono tem­ po trattenuto e in essi la luce pensa, come in alcuni quadri di Turner; altri sono costruiti con la geometria di Poussin, pittore che fu uno dei primi a riscoprire. Neppure di fronte alla natura l'uomo fa buona figura: gio­ ventù e bellezza non lo salvano dalla sua insignificanza. Cer­ nuda non vede nel nostro scarso valore un segno della caduta e meno ancora l'indizio di una salvezza futura. La nullità del68

l'uomo è senza remissione. È una bolla d'aria dell'essere. La negazione di Cernuda si risolve in esaltazione di realtà e valori che il nostro mondo umilia. La sua distruzione è crea­ zione o, più esattamente, resurrezione di poteri occulti. Di fronte alla religione e alla morale tradizionali e ai succeda­ nei che ci offre la società industriale, afferma la coppia con­ traddittoria desiderio-amore; di fronte alla solitudine promiscua delle città, la natura solitaria. Qual è il posto del­ l'uomo? È troppo debole per resistere alla tensione fra amo­ re e desiderio; non è neppure albero, nube o fiume. Fra la natura e la passione, entrambe inumane, c'è la nostra coscien­ za. La nostra miseria consiste nell'essere tempo; e tempo che si esaurisce. Questa carenza è ricchezza: essendo tempo fini­ to siamo memoria, intelletto , volontà. L'uomo ricorda, co­ nosce e oper-a: penetra nel passato, nel presente e nel futuro . Nelle sue mani il tempo è una sostanza malleabile; conver­ tendolo in materia prima delle sue azioni , dei suoi pensieri e delle sue opere, l'uomo si vendica del tempo. Nella poesia di Cernuda ci sono tre tipi di accesso al tem­ po . Il primo è ciò che egli chiama l'accordo, improvvisa sco­ perta (attraverso un paesaggio, un corpo o una musica) di quel paradosso che consiste nel vedere il tempo trattenersi senza cessare di fluire: "istante senza tempo [ . . . ] pienezza che, ripetuta nel corso della vita, è sempre la stessa [ . . . ] ciò che è più simile a questo è l'addentrarsi in un altro corpo nel mo­ mento dell'estasi" . Tutti, bambini o innamorati, abbiamo provato qualcosa di simile; ciò che distingue il poeta dagli altri è la frequenza e, più di ogni cosa, la coscienza di quegli stati e la necessità di esprimerli . Un altro cammino, diverso da quello della fusione con l'istante, è quello della contem­ plazione. Osserviamo una realtà qualsiasi - un gruppo d'al­ beri, l'ombra che invade una stanza al tramonto, un ammasso di pietre al lato della strada - guardiamo senza osservare niente in particolare, finché lentamente ciò che vediamo ci si rivela come il mai visto e, simultaneamente , come il visto 69

sempre: "guardare, guardare [ . . . ] alla natura piace nascon­ dersi e bisogna sorprenderla guardandola a lungo, appassio­ natamente [ . . ] sguardo e parola fanno il poeta" . Guardiamo le cose o le cose guardano noi? E ciò che vediamo sono le cose o è il tempo che si condensa in una apparenza e subito la dissolve? In questa esperienza interviene la distanza; l'uo­ mo non si fonde con la realtà esteriore ma il suo sguardo crea fra essa e la sua coscienza uno spazio , propizio alla rivela­ zione. Ciò che Pierre Schneider chiama meditazione. La ter­ za via è la visione delle opere umane e dell'opera propria. A partire da Las nubes è questo uno dei suoi temi centrali e si esprime in due direzioni principalmente: il doppio (per­ sonaggi del mito, della poesia o della storia) e la meditazio­ ne sulle creazioni dell'arte. Attraverso di essa accede al tempo storico, umano. In una nota che precede la selezione delle sue poesie nella Antologla di Gerardo Diego ( 1 930), afferma che l'unica vita che gli pare degna di essere vissuta è quella degli esseri del mito e della poesia, come l' lperione di Holderlin . Ciò non deve intendersi come una sfida o una stonatura; pensò sem­ pre che la realtà quotidiana soffre di irrealtà e che la vera realtà è quella dell'immaginazione. Ciò che rende irreale la vita quotidiana è il carattere ingannevole della comunicazio­ ne fra gli uomini. La consuetudine umana è una frode o, al­ m e n o , una m enzogna i n v o l on t ar i a . N e l m o n d o dell'immaginario l e cose e gli esseri sono p i ù integri e interi; la parola non occulta ma rivela. I n Dlstico espafiol, una del­ le ultime poesie, la realtà reale della Spagna diventa per lui "incubo pertinace: è la terra dei morti e in essa tutto nasce morto" ; a quella Spagna ne oppone un'altra, immaginaria e tuttavia reale, popolata di "eroi amati in modo eroico" , n é chiusa n é rancorosa ma ' 'tollerante della lealtà contraria, secondo la generosa tradizione di Cervantes ' ' . La Spagna dei romanzi di Gald6s gli mostra che il vivere quotidiano è drammatico e che nell'esistenza più oscura palpita "il para.

70

dosso di essere vivo" . Fra tutti quei personaggi romanzeschi non è strano che si riconosca in Salvador Monsalud, il rivo­ luzionario "afrancesado , e l'innamorato di chimere, che mai si arrende alla sragione che chiamiamo realtà. E quale ragazzo ispanoamericano non ha voluto essere Salvador Monsalud? Innamorarsi di Genara e di Adriana; combattere contro gli "ultras" e anche contro il " ciarlatano che inganna il popolo con la sua bava argentina' ' ; sentirsi lacerato fra orrore e pie­ tà di fronte al fratello folle e innamorato della stessa donna, il sonnambulo guerrigliero carlista, il fratricida Carlos Gar­ rote; chi non ha desiderato, alla fine, incontrare Soledad, quel­ la realtà più reale e forte di ogni passione? Con chi parla il poeta quando conversa con un eroe del mito o della letteratura? Ciascuno di noi porta dentro un in­ terlocutore segreto . È il nostro doppio e qualcosa di più : il nostro contraddittore, il nostro confidente, nostro giudice e unico amico . Chi non parla da solo con se stesso sarà inca­ pace di parlare veramente con gli altri . Parlando con creatu­ re del mito, Cernuda parla per sé ma in questo modo parla con noi. È un dialogo destinato a provocare indirettamente la nostra risposta. L 'istante della lettura è un ora in cui, co­ me in uno specchio, il dialogo fra il poeta e il suo visitatore immaginario si sdoppia in quello del lettore con il poeta. Il lettore si vede in Cernuda che si vede in un fantasma. E cia­ scuno cerca nel personaggio immaginario la propria realtà, la propria verità. A fianco dei personaggi del mito e della poesia, le persone storiche: Gongora, Larra, Tiberio. Ribel­ li, esseri del margine, esiliati dalla stupidità dei contempora­ nei o dalla fatalità delle loro passioni, sono anche maschere, personae. Cernuda non si nasconde dietro di esse; al contra­ rio, attraverso di esse si conosce e affonda in se stesso. Il vec­ chio artificio letterario cessa di essere tale quando si trasforma in esercizio di introspezione. Nella poesia dedicata a Luigi di Baviera, un altro dei suoi ultimi componimenti, il re è so­ lo nel teatro e ascolta la musica " fuso con il mito nel con71

templarlo: la melodia lo aiuta a con oscersi, a innamorarsi di ciò che egli stesso è" . Parlando del re, Cernuda parla di sé ma non per sé; ci invita a contemplare il suo mito e a ripete­ re il suo gesto: l 'autoconoscenza attraverso l'opera altrui . Di fronte a El Escorial , a una tela di Tiziano o alla musica di Mozart percepisce una verità più vasta della sua, anche se non contraddittoria né alternativa. Nelle opere d'arte il tem­ po si serve degli uomini per compiersi . Solo che è un tempo concreto , umanizzato: un'epoca. La fusione con l'istante o la contemplazione del trascorrere sono esperienze nel tempo e del tempo , ma fuori, in certo modo, dalla storia; la visione dell'opera d'arte è esperienza del tempo storico. Da una parte, l'opera è ciò che si chiama comunemente un' espressione sto­ rica, una data; dall'altra, è un archetipo di ciò che l'uomo può fare con il suo tempo: trasformarlo in pietra, musica o parola, tramutarlo in forma e infondergli senso. Aprirlo al­ la comprensione degli altri : renderlo presente. La visione del­ l'opera implica un dialogo, il riconoscimento di una verità diversa dalla nostra e che, tuttavia, ci concerne direttamente. L'opera d'arte è una presenza del passato continuamente pre­ sente. Per quanto incompleta e ' povera sia la nostra esperienza, ripetiamo il gesto del creatore e ripercorriamo, in direzione inversa a quella dell'artista, il processo; andiamo dalla con­ templazione dell' opera alla comprensione di ciò che l ' ha ori­ ginata: una situazione, un tempo concreto. Il dialogo con le opere d'arte consiste non solo nell'ascoltare ciò che dicono, ma nel ricrearle, nel riviverle come presenze: risvegliare il lo­ ro presente. È una ripetizione creatrice . Nel caso di Cernuda l' esperienza gli serve, inoltre, per comprendere meglio quale sia la sua missione di poeta. Alla rottura iniziale con l'ordine sociale succede, senza rinnegare l'attitudine alla ribellione che sostanzialmente sarà la stessa fino alla morte, la partecipa­ zione alla storia. E così le creazioni altrui gli dànno coscien­ za del suo compito: la storia non è solo tempo che si vive e si muore, ma tempo che si trasforma in opera o in atto. 72

Contemplando questa o quella creazione, Cernuda intui­ sce quella fusione fra la volontà individuale dell'artista e la volontà, quasi sempre incosciente, del suo tempo e del suo mondo . Scopre che non scrive solo per dire la "verità di se stesso" ; la sua vera verità è anche quella della sua lingua e della sua gente. Il poeta dà voce "alle bocche mute dei suoi" e così li libera. Gli "altri" sono diventati i "suoi" . Ma dire quella verità non consiste nel ripetere i luoghi comuni del pul­ pito, della tribuna politica, del Consiglio dei Ministri o della radio. La verità di tutti non si oppone alla coscienza del soli­ tario né è meno sovversiva della verità individuale. Questa verità, che non può confondersi con le opinioni della mag­ gioranza o della minoranza, è occulta e tocca al poeta rive­ larla, liberarla. Il ciclo iniziato con le poesie della gioventù si chiude: negazione del mondo che chiamiamo reale e affer­ mazione di quella realtà reale che rivelano il desiderio e l'im­ maginazione creatrice; esaltazione dei poteri naturali e riconoscimento del compito dell'uomo sulla terra: creare ope­ re, fare vita del tempo morto, dare significato al cieco tra­ scorrere; rifiuto di una falsa tradizione e scoperta di una storia che ancora non cessa e nella quale la sua vita e la sua opera si inseriscono come un nuovo accordo. Alla fine dei suoi gior­ ni, Cernuda dubita, sospeso fra la realtà della sua opera e l'irrealtà della sua vita. Il libro fu la sua vera vita e fu co­ struito ora per ora, come fa chi innalza un'architettura. Edi­ ficò con tempo vivo e la sua parola fu pietra dello scandalo. Ci ha lasciato, in tutti i sensi, un'opera edificante.

Delh i , 24 maggio 1 964

73

Postfazione

Saggi di circostanza

di Ernesto Franco

"La dottrina del filosofo invita alla confutazione; la vita del saggio è inconfutabile. Nessun saggio ha proclamato che la verità si apprende; ciò che hanno detto tutti o quasi tutti, è che l' unica cosa che vale la pena di essere vissuta è l'espe­ rienza della verità" . I saggi di Octavio P az sono racconto di un'esperienza di verità e, in questo senso, possono dirsi in­ confutabili . In essi tutto ciò che fa parte dell'universo della dottrina è assai meno importante di ciò che mostra l' espe­ rienza della lettura, la lettura raccontata come un'esperien­ za. Sono queste alcune delle caratteristiche di fondo che permettono di considerare Ignoto a se stesso e La parola edi­ ficante come un insieme omogeneo, addirittura indipenden­ temente e al di là dei temi diversi che i due saggi hanno per oggetto immediato e dichiarato. Tuttavia, prima di accen­ narne un'interpretazione, è necessario fornire qualche infor­ mazione sulla loro storia editoriale. El desconocido de si mism o (pubblicato per la prima volta in Messico, nel 1 962, come prologo ad un ' antologia pessoa­ na) e La palabra edificante (pubblicata in Papeles de San Ar­ madans, Madrid-Palma de Mallorca, 1 964) venivano raccolti dallo stesso Octavio Paz, insieme ad altri due saggi su Ru­ bén Dario (El caracol y la sirena, pubblicato nel 1 964, a Cit­ tà del :1essico, in Revista de la Universidad) e su Ram6n L6pez Velarde (El camino de la pasi6n , pubblicato, nel 1 963 , 77

in Revista Mexicana de Literatura) , in un unico volume, pub­ blicato a Città del Messico nel 1 965 con il titolo di Cuadri­ vio. Nel brevissimo prologo a quest 'ultima edizione, Octavio Paz fornisce al lettore alcuni chiarimenti sui motivi che lo hanno spinto a raccogliere materiali diversi, pensati in occa­ sioni e tempi differenti. Paz afferma di non voler suggerì� alcuna "illusoria affinità" fra i quattro poeti , ma piuttosto di volerne sottolineare le differenze: le loro opere furono di­ verse ed uniche e, come tutte quelle che "contano veramen­ te" , lo furono con piena coscienza. I saggi, tuttavia, possono essere concepiti come un insieme per ragioni di metodo e di prospettiva. Da una parte, tutti e quattro i poeti presi in con­ siderazione concepirono la loro opera anche in funzione cri­ tica, del "linguaggio, dell'estetica o della morale della loro epoca" . Dall'altra, tutti e quattro rientrano in quella "tra­ dizione della rottura" che, secondo Octavio Paz, "è la tra­ dizione della nostra poesia moderna " , dalla fine del secolo scorso fino ai giorni nostri . Insomma, i l libro funziona, appunto, come un quadrivio: punto d ' incrocio di itinerari differenti e, per molti aspetti , divergenti. Il tema della tradizione della poesia moderna, cen­ tralissimo in Paz, ci porterebbe, ora, troppo lontano. Ci si accontenterà, dunque, di indicare brevemente come il senso di una particolare concezione dell'esperienza poetica si rifletta sul movimento e sui risultati del saggio di Paz. A ben vedere, d'altra parte, le considerazioni del prologo a Cuadrivio pongono al centro del libro, come suo fattore unitario, proprio l'istanza di scrittura, il punto di vista e il modo di procedere dell'autore. Se, infatti, la coscienza criti­ ca può essere caratteristica intrinseca dell'opera di Pessoa, Cernuda, Dario, e L6pez Velarde, il loro appartenere ad una tradizione qualsiasi non può che essere attributo conferito da uno sguardo posteriore e, almeno storicamente, esterno . Al centro del quadrivio, insomma, sta, essenzialmente, lo sguardo del lettore-saggista, che inventa, in quanto poeta in 78

prima persona, una tradizione in cui potersi riconoscere: an­ che per Paz, per restare soltanto a ciò che abbiamo sotto ma­ no, il momento creativo è indissolubilmente legato a quello critico, ed è, anzi, proprio il poeta a fornire alcune delle chiavi di interpretazione per il saggista. In una recente intervista, apparsa sulla rivista messicana Vuelta ( 1 38 , maggio 1 988), Paz ha occasione e modo di pre­ cisare una volta di più la sua poetica: ' ' Le mie poesie sono sempre state risposte a stimoli esterni ed interni" , risposta alla "provocazione" di una città, di un paesaggio, dell'amore, della morte, di "quel complesso insieme di circostanze [ . . . ] che fanno ogni vita umana e il cui antico nome era destino " . L a poesia è risposta, condizionata dalla storia e dal linguag­ gio, a un'esperienza essenziale, ne è racconto e interpreta­ zione. Paz conclude, con Goethe, dicendo che, in questo senso, ogni poesia è "poesia di circostanza" . La dichiara­ zione di poetica vale, con precisione, anche come dichiara­ zione di metodo critico. La lettura delle opere altrui viene considerata non come esercizio di erudizione e tanto meno come lo strumento attraverso cui esaurire e delimitare ogget­ tivamente un campo di informazione, ma piuttosto come "sti­ molo" che, fra gli altri, va ad integrare la formazione di una coscienza individuale. La lettura fa la coscienza del soggetto e, da questo punto di vista, il destino del lettore-poeta-saggista è un itinerario fra le opere altru i . In quanto racconto e inter­ pretazione di un'esperienza intellettuale ed esistenziale, an­ che i saggi di Octavio Paz sono "saggi di circostanza" . L 'esperienza saggistica ha le stesse modalità e lo stesso valo­ re dell'esperienza poetica. Non è più soltanto il discorso che organizza una certa quantità di "dottrina " , ma l 'interpreta­ zione di una verità. L'oggetto del saggio diventa la "circo­ stanza" che provoca una risposta: a partire da dati (in questo caso da opere) storicamente definibili, li trascende, o meglio, li trasforma in figure interpretanti interrogativi più generali . Alla domanda di Octavio P az: " Può essere poetica una bio79

grafia? ' ' , possiamo allora sostituirne un'altra: può essere poe­ tica, e cioè essere risultato di una "provocazione" essenziale dell'esperienza, una monografia? La risposta è la medesima: "solo a condizione ch.e gli aneddoti si trasformino in poesie [in saggi] , cioè solo se i fatti e le date cessano di essere cro­ naca e diventano esemplari. Esemplari non nel senso didat­ tico della parola, ma in quello di "azione eccellente" , come quando si dice: esemplare unico. Ossia: mito, argomento idea­ le e affabulazione ideale. I poeti [i saggisti] si servono delle leggende [delle opere] per raccontarci la realtà; con gli avve­ nimenti reali creano favole [saggi], esempi" . Radicato in even­ ti storici precisi, Octavio Paz sa estrarne il profilo meno contingente, definendo un vero e proprio modello di lettura per strutture transtoriche. In questo senso i suoi saggi sono inconfutabili: come in una poesia, ogni loro parte è necessa­ ria a definirne l'insieme. Li si può certamente rifiutare o ri­ conoscere, ma non li si può articolare o sezionare criticamente se non rinunciando a priori alla loro caratteristica più sedu­ cente: la totalità. Nell' universo del "saggio totale" il lettore viene introdotto secondo un itinerario che, nel caso dei due saggi qui raccolti, si ripete con una certa precisione e merita qualche parola. La prima tappa consiste nel portare il discorso al di là dei termini di ciò che si è definito come l 'universo della dottrina e, nel contempo, nello scongiurare il pericolo insito nelle pre­ messe del genere letterario della monografia: il monumento, il monolito critico sepolcrale. "Rendere omaggio alla sua me­ moria - dice Octavio Paz a proposito di Cernuda - non può voler dire innalzargli monumenti che, come tutti i mo­ numenti, nascondono il morto" . Per esplicitare questo mo­ vimento preliminare, Paz ricorre allora ad una sorta di underplaying filologico. Nel caso di Pessoa, dopo aver mo­ strato di fornire al lettore una serie abbastanza completa di informazioni biografiche, l ' autore si ferma con un interro­ gativo: "Dimentico qualcosa? Morì nel 1 93 5 , a Lisbona, di 80

crisi epatica" . Paz avrebbe dimenticato un dato banale, ma importantissimo : la data che, ufficialmente, chiude un'espe­ rienza poetica, rende completa un'opera e apre la strada, ol­ tre che al rigore della morte, anche a quello della critica. Con questo segnale l'autore avverte il lettore che l'orizzonte d'at­ tese, generalmente predisposto per affrontare il discorso cri­ tico, andrà modificato. Certo, nel caso specifico di Pessoa, l'interrogativo retorico potrebbe essere anche inteso come ul­ teriore conferma di ciò che vien detto fin dalla prima riga: importante non è la vita del poeta, ma la sua opera. Si passi allora al saggio su Cernuda. Dopo aver evocato e condannato la stupidità dell'interpre­ tazione critica sepolcrale, Octavio Paz dichiara: ' 'Scrivo senza avere a portata di mano i suoi libri più importanti e, al di fuori di ciò che ha lasciato nella mia memoria una frequen­ tazione pluriennale dei suoi scritti, non possiedo che alcune poesie raccolte in un'antologia, la terza edizione . . . " , ecc . . Le fonti, l'opera completa, gli originali, le prime edizioni: tutto l'armamentario della filologia è dato come prescindi­ bile. Materiali del discorso saranno soltanto quelli selezio­ nati dalla memoria del saggista che, in quanto tali, sono indissolubilmente legati al suo destino. L'istanza di scrittura si pone al centro del discorso e l'oggetto della meditazione critica è pretesto per l'interrogazione più ampia sul signifi­ cato stesso della poesia e sul poeta come figura archetipica. Attraverso Pessoa e Cernuda, Paz vuole interrogarsi sulla pos­ sibilità della comprensione autentica della poesia e sullo sta­ tuto del poeta. Ma, anche qui, il lettore che volesse procedere in maniera meramente strumentale rimarrebbe assai deluso. All'interno dei due saggi si possono isolare, in effetti, alcune afferma­ zioni di carattere generale: per comprendere la poesia è ne­ cessaria l'informazione storico-filologica, "per penetrarla veramente, tuttavia, ci è necessario qualcosa di più e qualco­ sa di meno", un qualcosa che Pessoa indicava come "sim·

81

patia, intuizione, intelligenza, comprensione; e, ciò che è più difficile, grazia" . Per comprendere Cernuda - dice Paz ­ è necessario saper ascoltare ciò che la sua poesia ci dice; non occorre concordare o comprendere, "riconoscere" è il com­ pito " più difficile" . Tali considerazioni, tuttavia, estrapola­ te dal loro contesto, intese come positive indicazioni di lettura, non mancheranno di sembrare troppo generiche e impreci­ se, troppo genericamente scontate. Parte non piccola del lo­ ro significato è legata al rapporto che intrattengono con il discorso che le porge. Dopo aver collocato i termini della propria meditazione critica al di fuori di quelli canonici della scienza letteraria, Octavio Paz attiva un meccanismo discorsivo basato essen­ zialmente su un contrappunto dialogico che si esprime, al­ l 'interno del testo, a più livelli, come ha mostrato tempo fa un'eccellente analisi di Marta Rodriguez su Ignoto a se stes­ so (El arte de la combinatoria en "El desconocido de sf mi­ smo ", in Cuadernos Hispan oamericanos, 3 4 3 - 3 4 5 , gennaio-marzo 1 979, pp.664-680). Marta Rodriguez enuncia alcuni principi che hanno valore generale. In prima istanza quello secondo cui il saggio di Paz va inteso come "combi­ natoria di opposizioni discorsive' ' che dialogano al suo in­ terno e che trovano nello stesso titolo la formulazione ad un tempo più sintetica e più completa. Il saggio muove dall'e­ nunciato del titolo e, come accade nei cerchi (Emerson) del­ la conversazione, lo amplia, lo conferma, lo ragiona, lo mostra per ad esso ritornare nelle conclusioni. Il titolo, in­ somma, funziona come anticipazione concettuale e sintesi strutturale dell'intero saggio . Per Pessoa la combinatoria op­ posizionale che governa tutto il discorso è quella molto espli­ cita che rende complementari finzione della realtà e realtà della finzione ("l poeti non hanno biografia. La loro opera è la loro biografia"). Per Cernuda potrebbe essere identificata nell'opposizione: etica dello scandalo - scandalo dell'etica, in quella parola che sappiamo " pietra dello scandalo" , ma 82

che come ogni pietra è essenzialmente "edificante" . Il livel­ lo di dialogismo individuato da Marta Rodriguez che ci inte­ ressa sottolineare ora, perché legato più esplicitamente alle modalità di lettura, è, però, quello che definisce il saggio di Paz come esempio di " lettura e scrittura insieme " . Non nel senso che esista un dialogo fra soggetto e destinatario, fra scrittore e lettore, ma nel senso che chi scrive è la stessa per­ sona che legge. La scrittura come messa in scena della lettu­ ra e della sua esperienza. Si faccia caso alle modalità di citazione che Octavio Paz addotta. Nel saggio su Pessoa ven­ gono riportati alcuni versi e alcuni brani della lettera famosa sugli eteronimi. Siamo ancora ad una maniera citazionale ab­ bastanza tradizionale, anche se i brani riportati non valgono tanto come sostegno documentario a quanto detto in altri ter­ mini, ma piuttosto come parte integrante del discorso criti­ co: "Non so che cosa potrebbe aggiungersi - dice Paz a questa confessione" . In altri punti il rapporto intertestua­ le si fa sempre più fitto. Paz riporta le parole di Pessoa per contraddirle, completarle, specificarle, per opporre tesi a te­ si. "Probabilmente sono un isteronevrastenico" , dice Pes­ soa. E Paz ribatte: "Un nevrotico è un posseduto; chi domina i propri perturbamenti: è un malato? Il nevrotico soffre le sue ossessioni; il creatore è loro padrone e le trasforma" . An­ che la punteggiatura mima il contrasto dialogico. Dopo un discorso su Pessoa e l'autenticità degli eteronimi, Paz addotta addirittura la prima persona: "Scriviamo per essere ciò che siamo e per essere ciò che non siamo. Nell'uno e nell'altro caso, cerchiamo noi stessi. E se abbiamo la fortuna di tro­ varci - segno di grazia - scopriamo che siamo uno scono­ sciuto" . Il discorso critico trascende la propria referenza immediata e si cala all'interno dell'analisi, che non concerne più soltanto l 'opera di Pessoa, ma il rapporto che si stabili­ sce fra essa e un'istanza di lettura privilegiata. Ancora, nel­ l' ultima parte del saggio, la transitività del discorso critico si dissolve in racconto di un'esperienza spirituale: "Attoni83

to, fra persone e cose, il poeta cammina per una strada del quartiere vecchio. Entra in un parco e le foglie si muovono. Stanno per dire . . . No, non hanno detto nulla. Irrealtà del mondo, nell'ultima voce della sera. Ogni cosa è immobile, in attesa. Il poeta sa ormai che non possiede identità" . Non sappiamo più con certezza chi stia parlando in questo bra­ no, se Octavio Paz o Fernando Pessoa: il discorso del critico e quello del poeta, il discorso di chi tenta di interpretare un'o­ pera e quello di chi tenta di interpretare la vita, si sovrap­ pongono e si integrano. Tale dialogismo è, nel saggio su Cernuda, forse meno espli­ cito, ma ugualmente fondamentale. In un punto, che baste­ rà qui come esempio, se ne può trovare addirittura la teorizzazione. Basta sostituire ai termini "poeta" e "eroe del mito" del discorso di Paz i corrispondenti "saggista" e "au­ tore " : "Con chi parla il poeta quando conversa con un eroe del mito o della letteratura? Ciascuno di noi porta dentro un interlocutore segreto. É il nostro doppio e qualcosa di più : il nostro contraddittore, il nostro confidente, nostro giudice e unico amico . Chi non parla da solo con se stesso sarà inca­ pace di parlare veramente con gli altri. Parlando con creatu­ re del mito, Cernuda parla per sé ma in questo modo parla con noi . É un dialogo destinato a provocare indirettamente la nostra risposta. L'istante della lettura è un' ora in cui , co­ me in uno specchio, il dialogo fra il poeta e il suo visitatore immaginario si sdoppia in quello del lettore con il poeta" . Come nello stile indiretto libero della narrativa la diffe­ renza fra il punto di vista del narratore e quello del perso­ naggio si attenua fino quasi a scomparire, così nello stile indiretto libero del saggismo di Octavio Paz il punto di vista del critico non è più privilegiato di quello dell' autore preso in esame. Il saggio perderà forse in rigore scientifico, quan­ to il saggista in autorità rispetto all'oggetto della propria me­ ditazione. Il lettore, tuttavia, verrà posto, senza ulteriori mediazioni, a contatto con una concreta esperienza intellet84

tuale, che, in quanto tale, ha una sua autonomia e una sua "totalità" , riconoscibili o meno, ma che comunque stimola­ no una risposta ulteriore, una battuta sempre da aggiunge­ re. Anche ogni lettura è " lettura di circostanza " .

85

INDICE

Pessoa: il rumore di fondo

di Antonio Tabucchi

9

IGNOTO A SE STESSO (Fernando Pessoa)

13

LA PAROLA EDIFICANTE (Luis Cernuda)

41

Postjazione

77

Finito di stampare nel mese di novembre 1988 per i tipi de "il melangolo"

Ultimi volumi pubblicati:

4. s.

Martin Heidegger

L 'arte e lo spazio

Wilhelm Weischedel

Il problema di Dio nel pensiero scettico 6.

7. 8. 9.

Giacomo Leopardi

Diario del primo amore Aristotele

La •melanconia» dell'uomo di genio Martin Heidegger

Che cos'è la filosofia? Hans Georg Gadamer

La ragione nell'età della scienza

10.

Martin Heidegger

1 1.

Jean Starobinski

12. 13. 14. 15. 16.

L 'Abbandono

La scala delle temperature Hoseki Schinichi Hisamatsu

La pienezza del nulla. Sull'essenza del buddismo Zen Vladimir Jankélévitch

L 'ironia (Acta Thomae

108-113)

Il canto della perla

Emmanuel Levinas

Il Tempo e l'A ltro Franz Dirlmeier

Il mito di Edipo

17. 18. 19.

Eric A. Havelock

Dalla A alla Z Le origini della civiltà della scrittura in Occidente Ettore Sottsass

,C'est pas facile la vie (canzone africana) Martin Heidegger

L 'autoaffermazione dell 'università tedesca Il rettorato 1933/34

20.

Henry James

21.

Alessandro Baricco

22. 23.

Tre saggi su Balzac Il genio in fuga. Due saggi sul teatro musicale di G. Rossini Marcello Duarte Mathias

Ma è nel volto e nella sua posa altera Michail Bulgakov

Morfina

opuscula l 24

Due saggi in cui "pulsa quell'intelligenza di lettura, fra l'intuitivo e l'ispirato, che spesso felicemente posseggono, probabilmente per affi­ nità elettive, certe interpretazioni di poeti fatte da poeti ".

Antonio Tabucchi

ISBN 88-70 1 8-087-5

L. 1 �

'