I precetti di Parnaso. Metrica e generi poetici nel Rinascimento italiano

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PREMESSA

Nel primo capitolo di Qu’est-ce-que la litterature? Jean Paul Sartre si compiaceva di raffigurare i critici letterari come custodi di quegli speciali cimiteri che sono le biblioteche. Secondo Sartre costoro, per solito incapaci di vivere in prima persona, si fabbricano un surrogato di vita che chiamano lettura e che equivale ad affidare, di volta in volta, il proprio animo ad uno scrittore del passato per appropriarsi così, un po’ vampirescamente, delle sue esperienze. L’ironico brano sartriano evoca lo spettro di una lettura emozionale e parassitaria, legittima se privata, ma che spesso viene spacciata per raffinata auscultazione. Non è questo, anche a mio parere, il modo migliore di leggere, sebbene per motivi in parte diversi da quelli di Sartre. Più che attualizzarlo prestandogli la propria voce, un lettore cui interessi comprendere davvero il testo che ha davanti dovrebbe mirare a calarsi (per quanto possibile) in quel microcosmo, sì da percepirne la speciale aura. Quella che si desidererebbe, in altre parole, è una lettura che si proponga di rigenerare il testo – specie se appartenente ad epoche più o meno lontane – mediante il recupero del suo sostrato culturale e la ben fondata ricostruzione del suo significato globale. Evitare il rischio di ridurre tutto ciò ad un mero esercizio di pedanteria è compito, poi, dell’intelligenza e dell’equilibrio di chi vi si cimenta. Parte integrante di questa opera di rigenerazione del testo è lo studio della tecnica poetica che ha contribuito alla sua formazione. I gentiluomini che Shakespeare collocò sulla scena di varie città italiane sapevano benissimo che per corteggiare una avvenente donzella occorreva scrivere un sonetto o un madrigale e per comporre un epitaffio era consigliabile scegliere un tono elegiaco ed un metro breve, di respiro epigrammatico. Figli del Rinascimento, avevano piena consapevolezza delle convenzioni legate all’im-

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Premessa

piego di un certo genere poetico piuttosto che di un altro, con le relative implicazioni metriche. Fra Quattrocento e Cinquecento si verificò difatti, com’è noto, una vera e propria riorganizzazione del repertorio dei generi e dei metri cui il poeta poteva accedere. Del partrimonio ereditato dal Medioevo si selezionarono quelli che ancora avevano vitalità, soprattutto quelli lirici, veicolati dal canzoniere petrarchesco, mentre altri si recuperarono dalla tradizione antica, sia nella lingua di Roma sia trasponendoli in volgare. Tant’è che presto affiorò l’esigenza di una sistemazione anche teorica, affidata ai vari trattati sull’arte poetica. Gli studi qui raccolti sono accomunati dalla forte, sebbene non esclusiva, attenzione prestata alla specificità del testo poetico sotto il profilo, appunto, del genere o del metro o di entrambi, lungo un arco cronologico non a caso aperto dal primo e maggiore rinnovatore del canone poetico rinascimentale – vale a dire Leon Battista Alberti – e chiuso dall’estremo utente, il giovane Marino, ormai proiettato verso l’irrigidimento del secentismo. Trattandosi di ricerche nate sulla base di problemi precisi e circoscritti, il libro non viene (né mira) a dare un quadro esaustivo, né tanto meno una trattazione manualistica delle forme poetiche rinascimentali. Esso intende illustrare semmai le profonde trasformazioni allora in atto nell’arte poetica attraverso la specola di alcuni casi particolari, a volte anche marginali e ciò non di meno significativi, che coinvolgono generi di ascendenza medievale (come la tenzone o certe rime per musica ovvero il canzoniere stesso) oppure classica (come la bucolica) o anche legati alla società del tempo (come la favola teatrale). Dei generi più importanti della produzione poetica rinascimentale l’unico rimasto fuori dal discorso complessivamente svolto dal volume è quello cavalleresco, sulle cui caratteristiche si è del resto accumulata ormai una vasta bibliografia specifica. Inedito era finora il capitolo III, pensato, ma non scritto in tempo, per il colloque «Métriques du Moyen Âge et de la Renaissance: Traditions Métriques», svoltosi a Nantes nel maggio 1996. I e X sono usciti in «Interpres», V (1984) e VI (1986), ove anche, VIII (1988), è apparso il breve articolo collocato qui in appendice; II in L’«antiquario» Felice Feliciano veronese tra epigrafia antica, letteratura e arti del libro, a c. di A. Contò e L. Quaquarelli, Padova, Antenore, 1995; IV in «Antologia Vieusseux», n. s., 5 (1996); V in «Rivista di letteratura italiana», VIII (1990); VI in La musica a Firenze al tempo di Lorenzo il Magnifico, a c. di P. Gargiulo, Firenze, Olschki, 1993; VII in Lorenzo de’ Medici. New perspectives, edited by B. Toscani, New York – San Francisco – Bern – Baltimore – Frankfurt am Mein – Berlin – Wien – Paris, Peter Lang, 1993; VIII in Boiardo e il mondo estense nel Quattrocento, a c. di G. Anceschi e T. Matarrese, Padova, Antenore, 1998; IX in La poesia

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pastorale nel Rinascimento, a c. di S. Carrai, Padova, Antenore, 1998; XI in Il libro di poesia dal copista al tipografo, a c. di A. Quondam e M. Santagata, Modena, Panini, 1989; XII in «Italiques», 1 (1998). Fermo restando l’impianto originario dei singoli studi, alcuni sono stati parzialmente riscritti; altri hanno assunto titoli diversi, più adatti a figurare entro la compagine del volume; tutti sono stati rivisti e aggiornati.

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Lirica cortigiana

I UN ESPERIMENTO METRICO QUATTROCENTESCO (LA TERZINA LIRICA) E UNA POESIA DELL’ALBERTI

1. Spetta a Francesco Flamini il merito di aver richiamato l’attenzione per primo su alcuni componimenti di Antonio da Montalcino, della misura di dieci endecasillabi, «che l’autore battezza terzine, e non impropriamente, poi che nel fatto adattano alla strofa ternaria l’artificio della sestina»1. Nella raccolta di Sonetti versi ritimi e morali del Montalcino, conservata nel quattrocentesco codice Marciano It. IX 241, se ne incontrano tre, a cominciare fin da c. 1r, dove il poeta tesse l’elogio dell’amata: Quando quella lizadra mia madonna con un soave portamento altero benignamente volge i suo begli ochi, io, che non vidi mai sì lucente ochi, dicendo: «e’ non fu mai simil madonna!», rimango vinto da quel viso altero. E benedico il mio pensiero altero, che dipinse nel cor que’ duo begli ochi che mi fan servo de la mia madonna. Luce madonna, – gli ochi – e ’l viso altero. 1 F. Flamini, Ballate e terzine di Antonio da Montalcino rimatore del sec. XV, in AA. VV., Miscellanea nuziale Rossi-Teiss, Trento (ma Bergamo, Istituto Italiano di Arti Grafiche), 1897, p. 393. Ivi, pp. 399-400, il testo delle tre poesie che riproduco qui intervenendo liberamente riguardo all’interpunzione. Da notare nella prima, Quando quella lizadra mia madonna, il reimpiego di una peraltro non peregrina parola-rima (occhi) della petrarchesca Giovane donna sotto un verde lauro. E quanto alla denominazione di «terzine», si avverta che Flamini dava per scontato, visto forse il carattere pregiato del manufatto contenente le rime del Montalcino, che le rubriche risalissero all’autore stesso.

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Lo stesso Flamini, nel suo manuale di metrica, insisteva sul paragone con la sestina, detta così – scriveva – «perché le stanze eran sei (oltre la tornata) e di sei versi ciascuna; come si dirà più tardi terzina un componimento congegnato in modo analogo, dove le stanze e i versi di ciascuna stanza sono tre»2. Si noterà difatti che, dal punto di vista metrico, il dato costitutivo della lirica è proprio la retrogradatio cruciata delle parole-rima, riprese tutte (due all’interno, una in clausola) nel verso di commiato; sul modello di quanto accade appunto nella sestina di conio arnaldiano-dantesco, e con la differenza, ovviamente, della diversa entità del congedo stesso. Incrociandosi le rime identiche, nella tornata, in ordine speculare rispetto a quelle dell’ultima stanza, si ha dunque lo schema ABC CAB BCA (ac)B, che ritorna in tutti i componimenti di questo tipo; come risulta anche dalla succinta descrizione redatta da Raffaele Spongano: CANZONE TERZINA o anche semplicemente TERZINA. È congegnata come la canzone sestina, ma le stanze sono solo tre e di tre versi l’una: con tre parole rima, che si susseguono anch’esse nell’ordine della retrogradazione a croce (ABC/CAB/BCA), e devono ritornare tutte e tre, con ordine diretto e a croce (lA, 3A, 2A), nel verso di chiusa, che è il decimo. Se ne hanno esempi di Antonio da Montalcino e di Gianotto Calogrosso di Salerno nel sec. XV3.

Prima di passare a discutere gli ulteriori esempi e ad aggiornarne il regesto, si vedano le altre due poesie del Montalcino, scritte entrambe sulle medesime parole-rima e copiate, rispettivamente, alle cc. 17r e 20r del manoscritto Marciano: Io sento rinfrescar l’antiche piaghe, lamenti e doglie, lacrime e sospiri, per far l’usata guerra al miser core. Lasso, di colpi tutto è pieno el core, né salde sono ancor quell’altre piaghe

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F. Flamini, Notizia storica dei Versi e Metri italiani dal medioevo ai tempi nostri, Livorno, Giusti, 1918, p. 88; e cfr. ivi p. 4: «Ce ne offre esempi, nel secolo XV, Antonio da Montalcino». 3 R. Spongano, Nozioni ed esempi di metrica italiana, Bologna, Patron, 19742, p. 40. Dipendono da Spongano i fugaci accenni a tale riguardo di F. P. Memmo, Dizionario di metrica italiana, Roma, Edizioni dell’Ateneo, 1983, p. 36, e di M. Ramous, La metrica, Milano, Garzanti, 1984, p. 104. Vedi in seguito P. G. Beltrami, La metrica italiana, Bologna, Il Mulino, 19942, p. 237, e G. Lavezzi, Manuale di metrica italiana, Roma, La Nuova Italia Scientifica, 1996, pp. 147-48.

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che cinqu’anni soffersi con sospiri. Non più, per Dio, Amor, non più sospiri! Bastiti el foco c’arse già el mie core; di sangue tinte ancor vedi le piaghe. Troppo son piaghe – al core., – troppi sospiri. Fu forse tempo che d’amor le piaghe, negli anni verdi, e quei primi sospiri pascevan con dolcezza già el mio core. Ma poi ch’io vidi che ’l mio lasso core non ebbe altro che pianto di suo piaghe, in odio si voltàr tutti i sospiri. Altro vorei che lacrime o sospiri Amor porgesse all’assetato core, non sempre colpi o despietate piaghe. Non vo’ più piaghe – al core., – non vo’ sospiri.

Non si è colto il filo che, al di là del metro in comune, lega queste liriche all’analoga coppia composta sulle medesime parole-rima da Gianotto Calogrosso da Salerno, e inserita nel prosimetro di ambientazione bolognese (scritto all’incirca tra il 1453 ed il 1459, ma utilizzando dichiaratamente anche materiale di epoca anteriore «per ordine raccolto») in cui celebrava l’amore di Sante Bentivoglio con Nicolosa Sanuti4. Si legga intanto il primo componimento: Perché d’amor nel petto dolce piaghe mi sento, ardendo sempre nei suspiri, dal dì ch’io nacqui fisse nel mio core, ognora piu me incende e brusa il core quella fiamma gentil che le sue piaghe acresce cun la forza de’ suspiri. Né viver più saprei senza suspiri, in cui se pasce cum dolcezza il core sol per virtù de l’amorose piaghe: 4 Cfr. G. Calogrosso, Nicolosa bella. Prose e versi d’amore del sec. XV, inediti a cura di F. Gaeta e R. Spongano, Bologna, Commissione per i testi di lingua, 1959, pp. 56-57; i testi, che riproduco qui rivedendone l’interpunzione, sono stati poi accolti e corredati di un essenziale commento in Spongano, Nozioni ed esempi..., pp. 126-27. Sul poeta si veda la voce compilata da G. Parenti per il Dizionario Biografico degli Italiani, XVI, Roma, Istituto della Enciclopedia Treccani, 1973, pp. 795-96. E sulla Bologna dei Bentivoglio, si veda Bentivolorum magnificentia. Principe e cultura a Bologna nel Rinascimento, a cura di B. Basile, Roma, Bulzoni, 1984.

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però vuo’ piaghe – al cor, – vuo’ più suspiri.

Si noteranno i punti di contatto con l’ultimo componimento di quelli del Montalcino sopra riprodotti, Fu forse tempo che d’amor le piaghe; di cui riecheggia, al v. 8, l’espressione del v. 3 «pascevan di dolcezza già el mio core», e di cui sembra antiteticamente citare per giunta, nella propria, la chiusa «non vo’ più piaghe al cor, non vo’ sospiri». A parte questo, non è condivisibile il giudizio di Spongano che la lirica seguente «si finge di lei [scil. Nicolosa] a Sante, come la precedente si finge di Sante a Nicolosa»5, dal momento che tra le due non si scorge la benché minima parvenza dialogica: Mentr’io sento d’amor le vive piaghe, da cui procede i dolci mei suspiri che porgen vita a l’amoroso core, alor prende conforto il debol core, che ’l cibo aspetta da le SANTE piaghe in cui se pasce ardendo nei suspiri. Und’io te priego, Amor, che i miei suspiri renfrescon spesso l’assetato core, tanto che senta rinovar le piaghe, né manchi piaghe – al cor, – né mai suspiri.

Il fatto che nell’opera del Calogrosso – tramandataci dal solo Parigino It. 1036 – entrambe le liriche, trascritte alle cc. 39r-v, cadano sotto la didascalia «canta madonna» basta a dimostrare che esse figurano invece attribuite l’una e l’altra a Nicolosa; come conferma la presenza al v. 5 del senhal «sante», analogo a quello inscritto nell’ incipit del sonetto Santo è il pensier che Amor governa e regge, cantato anch’esso da «madonna»6. Da questo stesso secondo pezzo del dittico composto dal rimatore salernitano si ricavano inoltre ulteriori contatti con quello del collega: specie con Io sento rinfrescar l’antiche piaghe, cui rinviano la concordanza degli inizi («sento»); il vocativo «Amor» collocato in ambedue i casi al v. 7, in posizione ritmicamente identica; l’impiego, al v. 8, del verbo renfrescare («renfrescon spesso l’assetato core»), variato nell’accezione rispetto all’incipit del Montalcino, e in opposizione semantica con «arse», al medesimo verso nella poesia dell’interlocutore; nonché il tono velatamente responsivo, a fronte del corrispettivo montalcinia-

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Spongano, Nozioni ed esempi..., p. 127. Cfr. Calogrosso, Nicolosa bella..., pp. 111-12.

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no («troppo son piaghe al cor, troppi sospiri»), affidato all’ explicit («né manchi piaghe al cor, né mai suspiri»). È chiaro perciò che la coppia del Calogrosso dovette esser concepita, originariamente, quale risposta per le rime al Montalcino; trattando così il metro – relativamente all’uso quattrocentesco – alla stregua del sonetto e dando vita entrambi ad una breve tenzone di cui non è agevole stabilire con esattezza l’ordinamento. Certo è che a Io sento rinfrescar l’antiche piaghe, in cui il Montalcino, muovendo da una precisa reminiscenza petrarchesca (cfr. RVF C 11), lamentava il rinfocolarsi dell’oppressione amorosa, il Calogrosso rispondeva con Mentr’io sento d’amor le vive piaghe, nel quale sviluppava il tema della vitalità che è propria della condizione amorosa, segnato dall’adnominatio dei vv. 1-3, vive-vita, con richiamo al v. 7, vivei, dell’altro suo componimento; e con altrettanta sicurezza si può affermare che a Fu forse tempo che d’amor le piaghe, in cui l’uno dichiarava la propria insofferenza per gli inganni erotici degli «anni verdi», auspicando di non sottostarvi più a lungo («non vo’ più piaghe al cor, non vo’ sospiri»), l’interlocutore ribatteva magnificando, in Perché d’amor nel petto dolce piaghe, la dolcezza intrinseca al tormento dell’innamorato – da cui l’adnominatio dei vv. 1-8, dolce-dolcezza, richiamata da dolci al v. 2 dell’altro suo componimento – e con tipico argomentare sillogizzante giungeva alla conclusione che senza non gli sarebbe stato possibile vivere («però vuo’ piaghe al cor, vuo’ più suspiri»). È difficile appurare tuttavia se i poeti si scambiassero le liriche ad una ad una oppure a coppie, nonché, nel primo caso, quale fosse esattamente, fermi restando gli abbinamenti or ora visti, la successione tra i due scambi di botta e risposta. Non meraviglia, giacché altri indizi inducono a collocarli entrambi nell’ambiente delle corti centrosettentrionali, che i due rimatori fossero in corrispondenza poetica l’uno con l’altro; sebbene l’accertamento, data la scarsità di dati biografici ad essi relativi, non sia privo di un certo interesse proprio a questo proposito. Non è escluso peraltro che almeno il Calogrosso, se l’allusione implicita nel citato senhal non è da considerarsi come un adattamento posteriore, avesse in mente fin d’allora la vicenda dei due amanti bolognesi; e nell’ipotesi che anche la duplice proposta del Montalcino facesse riferimento, in persona di Sante, a tale episodio, la stesura di tutti e quattro i componimenti dovrebbe situarsi allora intorno al 1452, ossia cinque anni dopo (secondo che si ricava da Io sento rinfrescar 5-6: «né salde sono ancor quell’altre piaghe /

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Cfr. Gaeta, intr. a Calogrosso, Nicolosa bella..., p. XXIV; e Parenti, voce cit., p. 795b. Si osservi che l’accenno al tempo trascorso dall’innamoramento sarebbe del tutto analogo a quelli, relativi al «duodecimo anno», pronunciati da Filoteo – alias Sante – in

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che cinqu’anni soffersi con sospiri») la data del 1447, cui si fa risalire con fondate ragioni l’innamoramento del Bentivoglio per Nicolosa7. 2. Un altro esempio del nostro genere metrico – non segnalato, questo, da Spongano – si legge nel canzoniere di Alessandro Sforza (1409-1473), signore di Pesaro e corrispondente anch’egli del Montalcino: S’io chiedo, amando, giorno e notte pace, se a futuri martiri hor mercè chiamo, solo è che l’alma troppo brama e pensa. Pur vegio e so come altrui more e pensa morte fugir ne l’amorosa pace, come io già fei, che hor per men mal la chiamo. Quanto io men parlo, più madonna chiamo, come chi, ardendo, sempre teme e pensa al cor per lontananza dar mai pace. L’alma di pace – pensa, – io morte chiamo8.

Indipendentemente da Flamini e da Spongano, l’editrice dello Sforza ha rilevato che la poesia è composta «sul modello di una sestina a rotazione». In seguito, Guglielmo Gorni ha osservato che essa risente di un «tono madrigalesco» affine a quello dell’«analogo esperimento albertiano» imperniato sul senhal di Lauromina9, che allo scopo di circoscrivere le effettive aderenze col metro in questione converrà soffermarsi qui a riesaminare: – Le chiome che io adorai nel sancto LAURO MI NAscondi in bel velo, candida mia angioletta in veste bruna. – Poi che le chiome mi coperse il velo,

altre rime comprese nell’opera del Calogrosso: per cui vedi ancora Gaeta, intr., pp. XXIV-XXV. 8 Cfr. A. Sforza, Il Canzoniere, edizione critica e introduzione a cura di L. Cocito, Milano, Marzorati, 1973, p. 165; ivi, a p. 32, le parole della curatrice citate qui sotto. La compresenza del metro nella produzione dello Sforza e del Montalcino è notata da M. Santagata, Fra Rimini e Urbino: i prodromi del petrarchismo cortigiano (1984), in M. Santagata – S. Carrai, La lirica di corte nell’Italia del Quattrocento, Milano, Francoangeli, 1993, p. 68. Per la corrispondenza in sonetti tra i due poeti vedi Flamini, Ballate e terzine di Antonio da Montalcino..., pp. 392-93. 9 G. Gorni, Appunti metrici e testuali sulle rime di Alessandro Sforza, «Giornale storico della letteratura italiana», CLII (1975), p. 229.

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sempre fu l’aër bruna, e scolorito chi ancor ama il lauro. – In veste ALBA TI STAvi, non in bruna, quando adorai il lauro e scorsi el sol, che spiande or sotto il velo. – Le chiome e.LAURO – MI NAsconde il velo, che stringe a dolorarmi in veste bruna10.

Non c’è dubbio che lo schema AbC BcA CaB (a)BC della lirica albertiana si avvicini – come hanno sottolineato Tanturli e Capovilla11 – al modello della sestina e di conseguenza, si aggiunga, a quello dei componimenti del Montalcino, del Calogrosso e dello Sforza; anche se occorre rilevare lo scarto non indifferente determinato dall’impiego di un settenario nella sede mediana dei terzetti, dal commiato affidato a un distico anziché a un solo endecasillabo e, soprattutto, dal fatto che nella poesia dell’Alberti la retrogradatio è, per l’esattezza, di tipo diretto, in quanto si attua «passando in coda» ad ogni strofa la parola-rima iniziale della strofa precedente e scalando semplicemente indietro di un posto le altre due12. Concordo poi con lo stesso Capovilla sul fatto che «il recupero conclusivo, ad anello, del senhal e dell’emistichio “in veste bruna”, la concatenatio verbale tra i vv. 9 e 10, la possibilità di ravvisare nei quattro membri una sequenza ripresa-piede-piede-volta, lasciano credere che l’Alberti abbia giocato anche sul modulo ballatistico»13; tenendo contemporaneamente l’occhio, insomma, ai modelli del madrigale, della sestina e della ballata14.

10 Cfr. L. B. Alberti, Rime e versioni poetiche, edizione critica e commento a cura di G. Gorni, Milano-Napoli, Ricciardi, 1975, p. 20. 11 G. Tanturli, Note alle rime dell’Alberti, «Metrica», II (1981), p. 116; G. Capovilla, Materiali per la morfologia e la storia del madrigale ‘antico’, dal ms. Vaticano Rossi 215 al Novecento, «Metrica», III (1982), pp. 176-77. Ma già G. Folena, nella nota posposta a L. B. Alberti, Rime amorose e morali, Verona, Officina Bodoni, 1971, p. 74, accennava, a proposito di questo testo, all’inserzione albertiana del meccanismo della sestina entro la struttura del madrigale. 12 Cfr. D. De Robertis, Leon Battista Alberti poeta «a sorpresa», «Il Tempo», 5 giugno 1976. Sull’artificio della retrogradatio diretta e per il raffronto con quella incrociata, basti qui il rinvio a W. Th. Elwerth, Versificazione italiana dalle origini ai giorni nostri, Firenze, Le Monnier, 1973, pp. 121-22 e 124-25. 13 Capovilla, Materiali..., p. 177. 14 In nessun modo si potrà dunque omologare il metro albertiano a quello di una vera e propria terzina lirica, a differenza di quanto risulta in F. Bausi-M. Martelli, La metrica italiana. Teoria e storia, Firenze, Le Lettere, 1992, p. 126.

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Ad acuire il divario viene, oltre tutto, la struttura a due voci, sfuggita finora ai lettori albertiani, che si dovrà invece riconoscere nel testo. L’inserzione dei trattini qui attuata a segnare le battute del dialogo elimina, infatti, difficoltà ermeneutiche che paiono altrimenti insormontabili. Anzitutto, nella chiusa, non può essere l’amante a dolersi «in veste bruna», ma la donna, secondo che si legge anche al v. 3; da cui deriva la necessità di attribuire a quest’ultima il verbo «dolorarmi» e, con esso, l’intero distico finale. D’altronde, il parallelo tra il sintagma «le chiome [...] mi nasconde il velo» (v. 10) e l’analogo «le chiome mi coperse il velo» (v. 4) rivela il legame fra il congedo ed il secondo terzetto, ma non fa serie con l’enunciato del distico iniziale, dove la seconda persona («mi nascondi in bel velo») si accorda con quella del v. 7 («ti stavi») e dunque col vocativo del v. 3 («candida mia angioletta in veste bruna»), rendendo evidente, al pari della replicatio in cesura di «adorai» ai vv. 1 e 8, che le parole della prima e della terza strofa si fingono pronunciate dall’innamorato. Se ciò è vero, al lamento iniziale dell’amante – cui il velo preclude la vista delle desiate chiome – replica nel secondo terzetto il rammarico dell’amata per le gramaglie entro le quali è costretta e per il dolore che con ciò provoca all’innamorato stesso; talché questi risponde a sua volta lodando lo splendore di lei quale appariva prima che vestisse a lutto, mentre alla donna spetta la conclusione, con la constatazione che il proprio stato le impone di dolersi vestendo di bruno15. Nel suo ardire sperimentale, l’Alberti potrebbe aver inteso combinare quindi con i suddetti modelli romanzi la formula del canto amebeo – sia pur in versione cortese – fatta propria nelle egloghe Tirsi e Corimbo. 3. Sta di fatto, comunque, che la prova albertiana si mostra in qualche misura affine al genere adottato dal Montalcino, dallo Sforza e dal Calogrosso; sicché, constatata la rarità del genere stesso, non è da escludere – secondo l’ipotesi avanzata da Marco Santagata – che nelle loro liriche resti 15

Altra l’interpretazione di G. Ponte, Il petrarchismo di Leon Battista Alberti, «La rassegna della letteratura italiana», s. III, LXII (1958), pp. 219-20, secondo il quale «i primi versi della lirica albertiana hanno valore di premessa (la donna nasconde le chiome con il velo), la stanza centrale svolge il tema della malinconia dell’innamorato afflitto, il terzetto finale lo conclude con studiata eleganza richiamando le parole-rime (lauro, velo, bruna)». Di particolare interesse, inoltre, l’accostamento con il madrigale Sotto candidi veli in bruna vesta di Giovanni de’ Pigli (datato 1437): cfr. G. Gorni, Tre schede per l’Alberti volgare, «Interpres», I (1978), pp. 45-53. 16 Santagata, Fra Rimini e Urbino..., p. 68. Non tocca il tema di una eventuale fortuna albertiana in area marchigiana S. Niccoli, Le ‘Rime’ albertiane nella prospettiva poetica quattrocentesca, «Interpres», III (1980), pp. 7-29.

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«la traccia di un influsso diretto dell’Alberti, di cui è quasi certa la presenza a Urbino nei primi anni Sessanta»16. Non mi sembra improbabile però che l’invito ad effettuare l’esperimento messo in atto dai tre poeti possa esser venuto piuttosto – vista la scarsa diffusione della lirica albertiana in questione, conservataci dal solo Casanatense 601 – da una forma di madrigale della misura di dieci endecasillabi, magari sul tipo del seguente, adespoto nel noto Vaticano Rossi 215, cui la terzina incatenata conferisce l’aspetto di un microcapitolo ternario: Chiamando un’astorella ch’era posa su l’arbor novo, che d’Amor è nido, mi fu, come oselleto, in aer ascosa. I’ pur l’andai seguendo al dolce crido per foreste, campagne, strade e porti, sì che lei cercar ancor m’ancide. Ma spero di mercé mille conforti, ch’io l’ho veduta in altrui gabiola cum gli ati primi zentili e acorti: nel cor doneza e per la gabia vola17.

Lo schema ABA BCB CDC D è altro, s’intende, da quello che costituisce il principale oggetto del presente studio. Eppure, se è vero che la differenza sta essenzialmente nella presenza o meno di un sistema di rime identiche governato dalla retrogradatio, questo madrigale consente forse di intravedere come e in quale ambito stilistico dovette maturare l’idea di una sestina dimidiata con congedo monostico. Del madrigale il metro aveva se non al17

Cfr. Poesie musicali del Trecento, a cura di G. Corsi, Bologna, Commissione per i testi di lingua, 1970, pp. 328-29. Si osservi che al contrario di altri, nei quali giusta l’ipotesi di Capovilla, Materiali..., p. 168, il fenomeno potrebbe esser dovuto ad «una forma di lacunosità, indotta dalla struttura replicativa dell’intonazione», in questo caso che il ritornello sia per natura monostico è reso certo dallo schema incatenato. Una menzione speciale spetta ovviamente fra i madrigali di questa misura al petrarchesco Perch’al viso d’Amor, da scomporsi però secondo lo schema ABA CBC DE DE come ha dimostrato lo stesso Capovilla nella sua Lectura Petrarce su I madrigali, «Memorie della Accademia Patavina di Scienze Lettere ed Arti», Classe di Scienze Morali, Lettere ed Arti, XCV (1982- 83), pp 460-62. Si aggiunga che il v. 6 di Chiamando un’astorella andrà probabilmente corretto, onde restaurare la rima, in «sì che lei cercar ancor m’ancido». 18 Così, è noto, si esprimeva intorno al madrigale oltre un secolo fa G. Carducci, Musica e poesia nel mondo elegante italiano del secolo XIV, ora in Opere, IX, Bologna, Zanichelli, 1936, p. 346.

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tro il tipico respiro, e il ricorrere ossessivo delle parole-rima non oscurava il carattere di idillio lavorato a piccole immagini»18, sì da lasciare l’impressione di una sorta di madrigale con retrogradatio cruciata, ottenuto mediante il trasferimento alla terzina delle proprietà della sestina lirica e con la riduzione ad uno dei tre versi della tornata. Ciò detto, resta tuttavia che la varietà metrica serbataci, salvo ulteriori acquisizioni, dai tre poeti quattrocenteschi si configura propriamente nei termini di una canzone terzina o, meglio, di una terzina lirica; come occorrerà chiamarla – tenuto conto dell’analogia con l’opposizione tra sestina lirica e sestina narrativa – per distinguerla dal capitolo in terzine incatenate o dantesche, integrando cosi la rubrica («terzina») che precede ciascuna delle tre poesie del Montalcino nell’elegante esemplare Marciano fatto copiare probabilmente, se non dal poeta medesimo, da persona a lui vicina. I tratti peculiari – rime identiche e retrogradazione incrociata – erano gli stessi della sestina, ma l’adozione del numero perfetto evidenziava ancora di più, riducendone l’escursione, quell’insistenza delle parole-rima che, «non solo traduce il coagularsi dell’intuizione intorno a nuclei dotati di forza prepotente, ma anche provoca a identificarli selettivamente nel magma dell’esperienza, a esplorarne sistematicamente i caratteri essenziali e i rapporti reciproci»19. In virtù di tale miniaturizzazione la lirica veniva ad esser meglio marcata dai nodi fonico-emotivi che ne stringevano, per cosi dire, le singole maglie; oltre a fruire di una gabbia rimica più rigorosamente fissata, per effetto della crucifixio speculare, nella tornata, rispetto a quella dell’ultima stanza. Arduo sarebbe stabilire infine, con i pochi documenti di cui disponiamo, se l’invenzione vada accreditata sul conto del Montalcino, dello Sforza, del Calogrosso (ma potrebbe non essere un caso che il primo fosse in contatto, oltre che con il signore di Pesaro, anche col Salernitano) o di altri ancora. Solo si può affermare, per ora, che lo sbocciare di un tal genere metrico ben si spiegherebbe in effetti in seno a quel comprensorio geoculturale – tra Domizio Brocardo e Giusto de’ Conti, Lorenzo Spirito e Angelo Galli – nel quale «troviamo la più elevata concentrazione di sestine che si sia verificata nella lirica italiana prima della grande esplosione cortigiana degli anni Settanta e Ottanta del Quattrocento»20.

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Cfr. A. Roncaglia, L’invenzione della sestina, «Metrica», Il (1981), p. 13. Santagata, Fra Rimini e Urbino..., p. 81.

II UNA CORRISPONDENZA IN SONETTI: FELICE FELICIANO E GIOVANNI TESTA CILLENIO

1. Tra i personaggi con cui Feliciano entrò in contatto durante il periodo trascorso a Bologna nella prima metà degli anni Settanta1 spicca la figura, poco nota, di Giovanni Testa Cillenio. Il carteggio in sonetti intercorso fra i due ci è conservato parzialmente nel manoscritto Italiano 1029 della Bibliothèque Nationale di Parigi e, con l’aggiunta di qualche unità, nell’attuale manoscritto Hofer 157 della Biblioteca dell’Università di Harvard, codice fatto conoscere e sommariamente illustrato – quando ancora era di proprietà Olschki – da Curzio Mazzi2. Sulla base di tale segnalazione, e della tavola dei capoversi ivi acclusa, Aldo Francesco Massèra mostrò di dubitare che il corrispondente di Feliciano fosse tutt’uno col poeta di tale nome cui il codice Isoldiano assegna un manipolo di rime, per più motivi degne di interesse3. Converrà dunque, anzitutto, chiarire questo punto, onde ottenere di lui una più sicura fisionomia, specie dal punto di vista poetico. 1

R. Avesani, Verona nel Quattrocento. La civiltà delle lettere, in AA. VV., Verona e il suo territorio, IV, 2, Verona, Istituto per gli Studi Storici Veronesi, 1984, pp. 129-30, assegna tale soggiorno approssimativamente agli anni 1970-73; L. Quaquarelli, «Intendendo di poeticamente parlare»: la ‘Bella mano’ di Giusto de’ Conti tra i libri di Feliciano, «La Bibliofilia», XCIII (1991), p. 188, ricorda però che «non siamo in grado di fissare con esattezza il momento di arrivo a Bologna» e che la prima traccia concreta della sua presenza è in una lettera datata «penultimo octobris 1471». 2 C. Mazzi, Sonetti di Felice Feliciano, «La Bibliofilia», III (1901-2), pp. 55-68. Cfr. S. Spanò Martinelli, Note intorno a Felice Feliciano, «Rinascimento», n. s., XXV (1985), p. 232. 3 A. F. Massèra, Un rimatore poco noto del secolo XV: Giovanni Del Testa da Pisa, «Rassegna bibliografica della letteratura italiana», XI (1903), p. 44 n. 3.

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L’Isoldiano riunisce ventidue componimenti sotto la comune rubrica «Domini Johannis Cyllenij viri eloquentissimi quedam fragmenta incipiunt» e li chiude con l’altra «Finiunt fragmenta d(omini) Johannis Cyllenij pro Viride» (cc. 193r-198v). Si tratta di una raccoltina organica di ventuno sonetti più una sestina proemiale, in cui si celebra l’amore per una dama celata sotto il senhal di Verde. La breve silloge lascia intravedere una struttura che mira alla conversione della follia amorosa, secondo consuetudine, in remissione dell’animo a Dio 4. Tale sensibilità del Cillenio per il macrotesto dovrebbe essere maturata lontano dalla Toscana, come anche induce a credere il titolo di Fragmenta assegnato al canzonierino dalle menzionate rubriche, che richiama alla memoria, dopo Petrarca, i paralleli tutti settentrionali dei Fragmenta vulgaria di Giovan Francesco Suardi e dei Rerum vulgarium fragmenta di Niccolò Lelio Cosmico. Per giunta, altra sezione dell’Isoldiano (cc. 303r-305v) accoglie tre nuove sestine e altrettanti sonetti, due dei quali rivolti ad Ercole d’Este dietro le rubriche «Ad Illustrissimum ducem Herculem extensem carmina eiusdem domini Cyllenij poetae» e «Ad eundem Dominum eiusdem carmina». Entrambi suonano quale elogio del signore di Ferrara e il secondo (Qual altro al mondo pien de maraviglia) rende esplicito nella sirma l’evento che dette occasione alla composizione del dittico, ovvero la proclamazione di Ercole a duca nel 14715: Sì che godi, Ferrara, e gente amiche, che tanto ben per voi dal ciel soggiorna per darve pace in vostre valle apriche; e voi, ben nate, sacre Muse antiche, un nuovo Duce al vostro onor s’adorna per farve donne già cotante Piche.

Un epigramma in cui si esaltavano le sue facoltà poetiche fu indirizzato del resto «Ad Cyllenium», in data ignota, da uno dei più prestigiosi intellettuali ferraresi, ossia da Battista Guarini: Cylleni haud frustra dedit omine parca benigno ingenio nomen Mercuriale tuo. Tu summis imisque viris tu regibus atque pauperibus dulci gratus es eloquio. 4 Cfr. S. Carrai, La lirica toscana nell’età di Lorenzo, in M. Santagata – S. Carrai, La lirica di corte nell’Italia del Quattrocento, Milano, Franco Angeli, 1993, pp. 100-3. 5 Cfr. B. Bentivogli, La poesia in volgare. Appunti sulla tradizione manoscritta, in Bentivolorum magnificentia. Principe e cultura a Bologna nel Rinascimento, a cura di B. Basile, Roma, Bulzoni, 1984, p. 186 n. 19.

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II Una corrispondenza in sonetti: Felice Feliciano e Giovanni Testa Cillenio

Tu mulcere feras et sistere sidera cantu, tu potes Aonia saxa movere lyra, tu diros homines Stygium detrudis ad amnem, tu facis aeterna vivere laude pios. Et mihi carmen erit laudati testis amoris quo facis ut vita posteriore fruar; nam quis erit celebri quod me haud dignetur honore cum sciet ingenio me placuisse tuo? Non omnis magno laudatio pondere digna est quae venit a docto laus ea certa viro6.

Tali circostanze confermano l’identificazione di questo rimatore col corrispondente di Feliciano, dal momento che poco dopo – nella primavera del 1472, come si vedrà – Feliciano gli indirizzava il sonetto Per quanto volge il mare e cielo e terra in morte di un non meglio noto Niccolò da Pisa, spedendoglielo da Bologna, dove si trovava, proprio a Ferrara, secondo che informa la rubrica anteposta al medesimo sonetto nel manoscritto ora Parigino, c. 17v: “Felitiano sendo a Bologna a Cyllenio genio Mercurio ch’era a Ferrara de la morte de misier Nicolò Pisano”. L’ubicazione dei due corrispondenti risulta peraltro confermata dal controllo incrociato dei testimoni, dal momento che il componimento col quale il Cillenio replicava, Non già per rinfrescar l’antiqua guerra, venne composto appunto – secondo che avverte la rubrica del codice Hofer – “essendo a Ferrara” (c. 38r). Ci si potrebbe semmai chiedere perché Feliciano lo apostrofi semplicemente Cillenio o Cillenio Mercurio (o anche Cillenio Genio Mercurio) e mai Giovanni Testa Cillenio, come nell’Isoldiano. L’opzione in favore dello pseudonimo si dovrà, facilmente, al gusto antiquario, che anche avrà indotto l’abbinamento del nome proprio del dio – Mercurio appunto – all’aggettivo che tradizionalmente gli spettava essendo nato sul monte Cillene. E quanto di lusinghiero fosse implicito in tale designazione basta a confermare il sonetto intestato proprio a Mercurio nel canzoniere per Pellegrina Campo, ove Feliciano, nell’incipit, faceva dire al dio stesso: «Di elloquentia son signo e vero padre» (Marciano it. IX 257, c. 26v). 2. Una ulteriore verifica si mostra necessaria circa la patria del Cillenio. Nel codice Isoldiano, a c. 303r, la sestina O acque fresche de fontane vive è sormontata dalla rubrica: «Domini Johannis Teste Cyllenij de Pisis cantilena sextina et moralis». Fondandosi su questa sola fonte, Crescimbeni – seguito 6 Baptistae Guarini poema divo Herculi Ferrariensium duci dicatum, Modena, Domenico Rocociolo, 1496, c. l1v.

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dai pochi studiosi che se ne occuparono – fece senz’altro del Cillenio un poeta «di patria pisano»7. Nonostante in Pisa esistesse effettivamente una famiglia Testa, nessun Giovanni è stato però rintracciato in documenti pisani dell’epoca8. Si avverta qui che tale origine è contraddetta da due epigrammi latini autografi del Cillenio, legati nell’attuale codice II. II. 62 della Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze. In calce ad uno dei due componimenti, rivolto a Niccolò Michelozzi, egli si firmava «Servitor Jo(hannes) Testa piscien(sis)», cioè di Pescia (c. 115r). Proprio da qui («Piscie») spediva a Lorenzo de’ Medici l’altro epigramma, col quale accompagnava il dono di alcuni uccelli detti «Piscei gloria montis» (c. 114r), catturati evidentemente sulle colline pesciane. Nella rubrica dell’Isoldiano si dovrà emendare insomma l’erroneo «de Pisis» (banalizzazione o ipercorrettismo dello scriba emiliano) in «de Piscis»9. La precisazione è coerente, del resto, col fatto che nel duplice scambio di sonetti con Feliciano nato dal compianto per la morte di Niccolò da Pisa non è il benché minimo accenno ad una condivisione di cittadinanza fra il Cillenio e il defunto. 3. Non sarà inutile mettere in evidenza inoltre che la comunanza di interessi fra i due corrispondenti non si limitava, evidentemente, alla poesia, ma investiva altresì le arti plastiche e figurative. L’omaggio petrarchesco a Simone Martini avrà incoraggiato l’inserzione e l’abbinamento, entro i Fragmenta isoldiani del Cillenio, di due sonetti in lode di Ludovico Corradini, autore, a quel che pare, di un busto in creta di Verde (sonn. Rengratia el fattor tuo, creta formata e Io sarò sempre amico a’ dipintori). L’apoteosi dello scultore modenese, di stanza a Ferrara, è preparata nel secondo sonetto da un elenco di artisti (identificati da Massèra e da Frati) interamente orientato verso tale ambito geografico: Io sarò sempre amico a’ dipinctori, a Forte e el Marco e el Borgo mio divino, ma ’l gran Giovanni e ’l buon Gentil Bellino fian sempre digni di celesti honori:

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G. M. Crescimbeni, Dell’istoria della volgar poesia, Venezia, Basegio, 1730, III, p. 300; Massèra, Un rimatore poco noto ..., pp. 44-47; e Le rime del Codice Isoldiano (Bologn. Univ. 1739), pubblicate per cura di L. Frati, Bologna, Romagnoli-Dall’Acqua, 1913, II, pp. IX-X. 8 Cfr. Massèra, Un rimatore poco noto ..., p. 44. 9 Ho comunicato già tale rettifica in La lirica toscana nell’età di Lorenzo ..., p. 100.

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II Una corrispondenza in sonetti: Felice Feliciano e Giovanni Testa Cillenio

costor son quei, d’ogni altra gente fori, c’han tracto l’arte e preso suo camino di due bei fratelli e ’l patre lor più fino mastro, da farne in versi già romori. Ma, lasso, el mio Francesco da l’un lato, ch’a l’uno e l’altro stile ha messo il segno per farse al mondo un bel cavallo alato, Antonio Riccio è ben de laude degno e Gian Boldù, che Scopa ha pareggiato: ma Coradino in creta el primo tegno.

A parte la menzione del «Borgo», ovvero di Piero della Francesca (come noto, attivo soprattutto in area romagnola e marchigiana), gli altri sono emiliani (Giacomo Forti, Marco Zoppo, Francesco del Cossa) o veneti: i tre Bellini (padre e figli), Antonio Bregno e Giovanni Boldù. Come si noterà, si tratta in parte degli stessi pittori di cui era intrinseco Feliciano, amico, oltre che di Mantegna, anche di Giovanni Bellini e di Marco Zoppo, e in contatto – a nome del cardinale Filiaso Roverella – con un «Francesco phetunteo» che è forse il Cossa10. 4. Sgombrato il campo dai preliminari, è giunto allora il momento di affrontare i componimenti in morte del non meglio noto pisano. Si tratta di un duplice scambio di sonetti avviato, in ambedue le occasioni, da una proposta di Feliciano cui il Cillenio risponde per le rime. Si aggiunga che tutti e quattro i pezzi sono accomunati dalla rima in –ondo. I due testimoni, entrambi di mano di Feliciano, divergono nella successione delle coppie di sonetti, che il Parigino dispone nel seguente ordine: Feliciano, Per quanto volge il mar e cielo e terra Cillenio, Non già per rinfrescar l’antiqua guerra Feliciano, Ogni beltà e virtù fue spinta al fondo Cillenio, O Dio, che per gran doglia io mi confondo.

Il carattere privato della silloge del manoscritto Hofer e, per contro, la maggior coesione strutturale di quella del Parigino, compilata per Daniele

10 Cfr. G. Fiocco, Felice Feliciano amico degli artisti, «Archivio veneto-tridentino», 9 (1926), pp. 188-99. Più prudentemente la Gianella osserva che era «probabilmente un incisore di gemme» (cfr. G. Pozzi - G. Gianella, Scienza antiquaria e letteratura. Il Feliciano, il Colonna, in Storia della cultura veneta, III, 1, Vicenza, Neri Pozza, 1980, p. 466 n. 30).

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Argentario, inducono a supporre che Feliciano invertisse qui l’ordinamento sì da ottenere una chiusa assai efficace con la lapidaria esortazione del Cillenio: «dobbian, Felice mio (non più parole!), / che lui ne vada in ciel far festa e risa, / di noi doler, che in questo fondo lassi». Versi, questi di Oi Dio, che per gran doglia, che a Feliciano dovevano esser piaciuti in modo particolare, come farebbe pensare la postilla vergata in calce al sonetto nel codice Hofer: «Vere et recte loqutus est». La successione del codice Hofer ha maggiori probabilità di rispecchiare l’andamento effettivo del breve carteggio, anche perché nel sonetto che esso presenta al primo posto (l’unico preceduto dall’interiezione in capitali «proh dolor») Feliciano sembrerebbe avere appena appreso la notizia del decesso, stando all’esordio: «Ogni beltà e virtù fue spinta al fondo / quel dì, Cyllenio mio, s’io ben comprendo, / né fu sì oscuro caso o sì tremendo / doppoi che ’l primo padre venne al mondo». L’inciso «s’io ben comprendo» del v. 2 varrà difatti ‘se ho sentito bene’ o, parafrasando più liberamente, ‘se è vero ciò che ho udito’, ove è una parvenza di dubbio che le consuetudini della retorica vorrebbero in inizio del compianto a due voci. Più coerente è peraltro nel codice Hofer la seriazione delle rubriche, che recitano: 36v Felice per la morte de l’ynclito Miser Nicolò da Pisa a Cyllenio Mercurio 37r Risposta de Cyllenio Mercurio 37v Felice antedicto per la morte del suo pisano 38r Risponde Cyllenio essendo a Ferrara.

Nel Parigino si ha invece: 17v Felitiano sendo a Bologna a Cyllenio Genio Mercurio ch’era a Ferrara de la morte de misier Nicolò pisano 18r Risponde Cyllenio G. M. 18v Jdem ad eumdem 19r Responsio C.

In particolare la rubrica «Jdem ad eumdem» del terzo pezzo, facendo seguito a «Risponde Cyllenio G. M.», era divenuta tanto ambigua da costringere lo stesso Feliciano ad aggiungere, a fianco del componimento, la chiosa chiarificatrice: «Felicianus Antiquarius moestus Cyllenio Mercurio tristi lachrimas multas dicit». A parte questo, nel codice Hofer la proposta di Feliciano Ogni beltà e virtù fue spinta al fondo è datata, come si diceva, «Bononie xiiijo thaurj

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II Una corrispondenza in sonetti: Felice Feliciano e Giovanni Testa Cillenio

mcccclxxij» (c. 36v), che nel calendario equivale al 4 maggio 1472. Ciò dimostra che i due poeti si erano conosciuti alcuni anni prima che Feliciano avviasse la sua collaborazione con il tipografo ferrarese Severino11. Interessante inoltre l’explicit dell’altro componimento felicianeo, «a dar le fighe al mondo incominciai», che richiama alla memoria la terza novella delle Porrettane, ambientate proprio in quest’epoca. Sabadino degli Arienti vi rappresentava Feliciano incline appunto a reiterare il gesto osceno, come recita l’argomento: «Feliciano da Verona, uomo virtuoso, per fare una fica è constrecto a la rasone pagare la pena; e per non avere moneta fa un’altra fica al judice e pagando uno ducato è liberato». D’altro canto, che lo stesso Cillenio gravitasse allora sporadicamente su Bologna dimostra la circostanza che Feliciano gli inviasse proprio là, dal castello di San Giorgio di Piano, il sonetto Casto Unicornio che ripossi el fronte, giusta ancora la rubrica del codice Hofer: «Felice essendo a san Çorço scrive a Cyllenio Mercurio che era a Bologna» (c. 9v). E la sua vicinanza all’ambiente bolognese, in quegli anni, è testimoniata dal fatto che nell’Isoldiano tutte le rime del Cillenio – caso unico entro tale codice – sono trascritte pur a distanza di parecchie carte dalla medesima mano, la quale, oltre ad esse, copiò soltanto la dedicatoria e l’indice dei capoversi. Segno, questo, che uno degli scribi meno operosi, ma attivo in luoghi chiave del manoscritto e forse compartecipe della concezione stessa della silloge, dovette essergli in certa misura intrinseco, ovvero – con le parole di Bruno Bentivogli – «legato, piuttosto che da una personale predilezione, dalla possibilità di fruire di un esemplare inattingibile ai colleghi»12. Si spiega bene allora che l’inizio del sonetto del Cillenio «Non già per rinfrescar l’antiqua guerra / né le piaghe mortal» risentisse di quello di una terzina lirica rivolta da Antonio da Montalcino a Gianotto Calogrosso e verosimilmente legata alla vicenda bolognese dell’amore di Sante Bentivoglio per Nicolosa Sanuti: «Io sento rinfrescar l’antiche piaghe, / lamenti e doglie, lacrime e sospiri, / per far l’usata guerra al miser core». Benché entrambi costituiscano una variazione dell’immagine petrarchesca di RVF C 11 («mi rinfresca in quel dì l’antiche piaghe»), l’affinità dell’esordio del Cillenio con quello di Antonio sembra piuttosto notevole.

11 Sulla collaborazione con Severino vedi Pozzi-Gianella, Scienza antiquaria e letteratura..., p. 466; e Quaquarelli, «Intendendo di poeticamente parlare» ..., pp. 196-98. L’ipotesi di una sua collaborazione con Agostino Carnerio è stata avanzata da D. Fattori, Spigolature su Felice Feliciano da Verona, «La Bibliofilia», XCIV (1992), pp. 265-66. 12 Bentivogli, La poesia in volgare ..., p. 183 n. 10.

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Ecco il testo integrale dei quattro sonetti fondato sul manoscritto Hofer, allegando in apparato le varianti anche grafiche del Parigino, presumibilmente estranee al contesto originario della corrispondenza. FELICIANO Ogni beltà e virtù fue spinta al fondo quel dì, Cyllenio mio, s’io ben comprendo, né fu sì oscuro caso o sì tremendo doppoi che ’l primo padre venne al mondo: il bel spirto sereno, almo e facundo del mio Pisan gentil sin va gaudendo, gli sette cieli ad uno ad un salendo, e ’l trono con le stelle gira in tondo; né so perché non perse i raggi il sole nel suo passar dal mondo al paradiso, tenendo gli occhi chiusi humili e bassi: vermiglie rose e pallide vïole consperse da sudore il suo bel viso, da far, per la pietà, romper i sassi. 4 Dopoi 7 septe ... adun adun 11 humidi 13 di 14 rumper CILLENIO O Dio, che per gran doglia io mi confondo dopoi che io ho inteso il grave caso horrendo del mio chiaro Pisano, unde io mi arendo e in tutto rompo di forteza il pondo, e maledico i cieli a tondo a tondo che più iustitia in essi non comprendo, di forma e di virtù tal morto havendo che pur veder non fu mai digno el mondo. Ma se la fede e Dio non son giù fole, poi che dal corpo l’alma fa diviso, come a fruire eterna pace vassi; dobbian, Felice mio (non più parole!), che lui ne vada in ciel far festa e risa, di noi doler, che in questo fondo lassi. 2 Doppoi 3 Caro 4 rumpo 12 Debbian 13 vadi FELICIANO Per quanto volge il mare e cielo e terra, stabil non vidi cosa in questo mondo,

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II Una corrispondenza in sonetti: Felice Feliciano e Giovanni Testa Cillenio

perché Morte riversa e manda a fondo e la falce ver noi sempre disserra: vedi se ’l ciel e ’l mondo ci fa guerra che ’l mio Pisan magnanimo e facundo heri vedemo sano e star iocundo et hoggi morto corricar soterra. Non ti fidar adunque, fratel mio, di ’sta caduca e momentanea vita, piena d’inganni, di tormenti e guai: veduto questo, volsi al signor Dio la mia speranza e, con la mente ardita, a dar le fighe al mondo incominciai. 1 mare cielo 5 cielo 8 corrichar CILLENIO Non già per rinfrescar l’antiqua guerra, né le piaghe mortal né ’l grave pondo da Morte sostenuti, poi ch’al fondo misse chi digno haver non fu la terra. O caro mio Pisan, che ancor mi sferra il cuor per tua memoria e duol profondo, sia maledecto questo nostro mondo dopoi che ’l ben ci mostra e presto il serra. Ma perché credo humane cose Idio curi per certo e sua pietà infinita, quantunche contro al nostro voler pai, tolta ha questa alma e facto un astro pio a sé d’intorno, ch’è bontà gradita mostrarci il ciel con sue virtù che sai. 3 sostenute 9 cosse

5. L’amicizia col Cillenio dovette essere venata da affetto profondo. Nel seguente sonetto Feliciano lo apostrofava col senhal di Unicorno (Hofer c. 9v, Parigi c. 11v): Casto Unicornio che ripossi el fronte in grembo a Cynthia, gellido [P gelido] e candente, e che discazi ogni venen serpente col corno penetrante nella fonte, veggioti passeggiar ne l’alto monte, là dove è l’aqua lucida e splendente che si ravolge intorno a la tua mente da l’unde di Helicona insieme agionte.

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Ecco che Calliopè tutta s’infiamma sentir de l’altiloquio tua hermonia, e Daphne nel tuo fronte ognor si specchia, Bellorophonte par che si apparechia portarti in cielo a l’alta monarchia per far al mondo eterna la tua phama.

L’attacco faceva aggio sulla tradizionale interpretazione dell’unicorno quale emblema di pudicizia e sulla rappresentazione del fantastico animale – diffusa dai bestiari medievali – che si adagia in seno ad una vergine (qui a Cinzia, forse per il carattere lunare del Cillenio?)13. Ai vv. 3-4, l’accenno alla tradizionale virtù dell’unicorno contro il veleno del serpente si fondava su una leggenda accolta nella farmacopea medievale a partire almeno dal Tractatus de venenis di Pietro d’Abano e che proprio nel Quattrocento stava conoscendo una certa fortuna, tanto che Jacopo da Sanseverino, ad esempio, nel capitolo XIV del suo Libro piccolo di meraviglie, parlando delle distese d’acqua nelle terre del Gran Can asseriva: «nessuna bestia usa mai bere a questi stagnoni per insino a tanto che li alicorni non vengono a mettere il corno nelle dette acque»14. Borso d’Este, a seguito delle opere di bonifica da lui promosse nel delta del Po, l’aveva persino assunta per emblema15. Nel sonetto di Feliciano il ricorso a tale immagine sembra servire per alludere alla bonifica di una fonte, che trova riscontro nei vv. 9-11 del sonetto Non è minor l’amor, bench’io nol mostri, trascritto nel Parigino it. 1029, c. 13r: «Ringratio ben l’honesta gientileza / e la casta sembianza e ’l cuor pudico / ch’al fonte mi mostrò cortese effecto». La postilla che Feliciano segnò a margine – «in Bononia ad fontem calentis aquae» – conforta la supposizione che si trattasse di un evento reale, difficilmente precisabile però allo stato delle

13 Pressapoco in quegli stessi anni l’immagine veniva fatta propria anche da Boiardo, Amorum libri III 132 18-23: «Così par che non senta morte o doglia / tra gli Indi più deserti uno animale, / che un corno ha in fronte e tien nome da quello. / Forzia né inzegno a sua presa non vale, / fuor che da il grembo virginile accolto, / ove ogni ardir, ogni poter gli è tolto, / e lui si sta, né di morir gli ’n cale» (M. M. Boiardo, Opere volgari. Amorum libri – Pastorale – Lettere, a cura di P. V. Mengaldo, Bari, Laterza, 1962, p. 95). 14 Cfr. M. Restelli, Il ciclo dell’unicorno, Venezia, Marsilio, 1992, p. 38; e più in generale si veda O. Shepard, La leggenda dell’unicorno, Firenze, Sansoni, 1984, pp. 5759 e 137-42. La più antica attestazione del motivo leggendario è nelle aggiunte al Phisiologus del Parigino greco 1140 (ed. F. Sbordone, rist. anast. dell’ed. Napoli 1936, Hildesheim-New York, Olms, 1976, p. 321). 15 Cfr. L. Chiappini, Gli Estensi, Milano, Dall’Oglio, 1967, p. 142.

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mie conoscenze, e invita a domandarsi se anche questo componimento non sia stato scritto per il Cillenio. Che proprio costui fosse il destinatario di Casto Unicornio che ripossi el fronte indica esplicitamente la già menzionata rubrica («Felice essendo a San Çorço scrive a Cyllenio Mercurio che era a Bologna») e conferma la risposta per le rime serbataci dal solo codice Hofer (c. 10r), in cui quest’ultimo prendeva le mosse dal richiamo a Dafne dislocato da Feliciano verso la fine della proposta: Chi sia costui che merita sua fronte ornar di Daphne et edera virente io nol so già, ma il suo pedal valente dimostra ben bagnarsi al sacro fonte: ingegno svelto à le ragion raconte, chi non ha il ciel al nascer suo clemente invan si affanna e in çiò che pon la mente mai trova le sue voglie in terra agionte. Egli è ben ver che l’anima s’infiamma, anzi si sforza (e questo è fantasia), ma intendessi più dentro chi si specchia; se ’l ver ti dico, presto ti apparechia seguir le muse e nostra poesia: non dico sol, pha, mi, re, ut o gamma.

Come si noterà, il Cillenio ricambiava i complimenti che l’interlocutore gli aveva rivolto nella proposta, pronosticando il rapido incedere di Feliciano sui sentieri della poesia. L’appellativo di Unicorno mediante il quale Feliciano si rivolgeva nella fattispecie al Cillenio induce a porre una questione di identità relativa al destinatario di altri sonetti, prudentemente nominato in rubrica col medesimo senhal. Sia nel codice Hofer (c. 107v «Felice a l’Unicornio suo gentile») che nel Parigino (c. 13v, in capitali, «Pro Divo Unicornio») e nel Marciano it. IX 257 (c. 88r «Feliciano per lo Unicornio»)16, si legge infatti il seguente componimento: 16 In merito al Marciano giova precisare che la datatio di c. 60v, «Verone opus absolutum post festum sancti Joannis baptistae XXVI [junij] MCDLXIX», va riferita al canzoniere per Pellegrina Campo, che precede, non all’intero codice (per tutti cfr. il catalogo di Spanò Martinelli, Note..., p. 237), come conferma la presenza, nel prosieguo, di rime inquadrabili nel soggiorno bolognese dei primi anni Settanta perché scambiate col felsineo Giacomo da Monte Cenere o scritte in nome del conte Floriano Malvezzi (cc. 70r-71v).

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Il nardo e cynamomo di [P de] levante, el [P il] balsamo e le rose e’ fiori e’ zigli nascon da quei bei labri tuo vermigli e dal süave riso e bel sembiante; non è sì saldo scudo di adamante che non si spezzi al guardo di duo cigli ed agli aurati biondi e bei capigli che vince ogni voler firmo e constante. Vie per minor beltate e manco ardore divenne aquila Iove e, di amor pieno, guardian di capre Apollo e peccorelle: vivo de maraviglia [HP miraviglia] e di stupore, ché, aquiperata [HPM aquiperare] al tuo fronte sereno, tanta belleza non dipinse Apelle.

Il linguaggio, tipico della lirica amorosa, fa pensare a qualcosa di più di una vera e propria amicizia virile. Non sarà dunque casuale l’accenno a due celebri amori efebici del repertorio mitologico, come quelli di Giove per Ganimede e di Apollo per Ameto (vv. 9-11), tanto più che scopertamente omosessuale è altro messaggio, trascritto solo nel codice Hofer, composto per accompagnare il dono all’Unicorno di una ampolla di acqua profumata (c. 109r, «Manda Feliciano una ampolina di aqua odorifera al suo inclyto Unicornio che se ne lavj el volto»): Vane, süave e precïoso odore, a l’anzolo disseso in corpo humano, mantieni il spirto suo iocondo e sano da lui cazando ogni mortal fetore, vane via presto e fa’ che a tutte l’hore li bagni il viso e la sua bianca mano, e a le orechie dil cuor li di’ pian piano che se ricordi del suo servitore. Dè fuss’io te!, che quando mi toccasse süavemente me vindicarei di quella faza dilicata e sancta, o, quando a la sua boca mi appressasse, senza ristare sempre basarei le labre colme di dolzeza tanta.

L’inclinazione di Feliciano a pratiche omosessuali si desume, come noto, anche dal codice Ambrosiano Z 100 sup. ove, a c. 5r, il cenno ad un «Lovise nominato da cha’ Zerbi» fu chiosato: «erat cynaedus Feliciani»17. 17

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Cfr. Pozzi-Gianella, Scienza antiquaria e letteratura..., p. 464 n. 23.

II Una corrispondenza in sonetti: Felice Feliciano e Giovanni Testa Cillenio

Meno evidente tale componente si rivela in un terzo sonetto, trascritto nel solo Marciano it. IX 257, c. 87r, dietro la rubrica «Feliciano al suo Unicornio»: Questi legami ch’io ti mando in dono son destinati a tal conditïone, inclito, caro e novo Endimïone, che tu li adopri come io ti ragiono: Apollo a tua gran laude move un sono, Mercurio la sampogna e Amfïone tocca la nota de la sua cantione che con l’orechia mai non abandono. O vinculi felici e fortunati più che a le drïade i boschi mai non calse o a Cinthia casta una fontana fresca e a le napee gli fioriti prati et a Nettuno il mare e l’unde salse, al mio signor servir non ve rincresca.

In altra occasione del resto, se non si tratta di dissimulazione, Feliciano parrebbe aver blandito l’Unicorno per parte di una innominata dama (Marciano it. IX 257, c. 88v «Feliciano per l’Unicornio in nome di quella dona»): Veggio per mia fortuna acerba e dura signor per ben servir gionger a morte e gli inimici armati in su le porte farne et assedio pormi oltre mesura, poi bricolar la roca e l’alte mura de la speranza mia constante e forte e romper con disprecio e iniqua sorte qualunque al suo contrasto si assicura. Somi sufficienti e gran guireri belleza e crudeltate in questo loco e gli occhi e i labri che ’l mio cuor afferra, che stanno armati in campo acerbi e fieri, con tormenti, saete e ferro e foco, ogni giorno pagati in farmi guerra.

Se veramente i quattro sonetti rivolti al non meglio specificato Unicorno siano da riferirsi al Cillenio non è facile accertare, tanto più che – occorre avvertire – di lì a poco Feliciano avrebbe assegnato identico soprannome ad altri corrispondenti accomunati, a quanto sembra, dal senso della pudicizia. Nel codice 3039 della Comunale di Verona la lettera al giovane patrizio veneziano Luca Marin, datata «Verone xxix Aquarij 1475», è intitolata:

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«Jnnocentissimo et pudico Unicornio Juveni Luce Marino de Venetijs musarum alumno» (cc. 4r-8v). E alcuni mesi più tardi l’epistola sarebbe stata riciclata, con qualche minimo aggiustamento, per il bolognese Alberto Canonici, come prova la nuova stesura datata «Verone Sexto Kalendis Scorpionis 1475» e consegnata al manoscritto Harley 5271 della British Library: «Innocentissimo et pudico Unicornio Juveni Alberto Canonico nuncupato de Bononia Musarum Alumno» (cc. 130r-134v). Il fatto che in alchimia – e non è il caso qui di soffermarsi sui noti interessi di Feliciano in questo campo – l’unicorno fosse proprio il simbolo di Mercurio18 lascerebbe adito all’ipotesi che egli coniasse il soprannome inizialmente per il Cillenio, prendendo spunto dal nome umanistico del poeta, e lo riutilizzasse in seguito per altri. 6. La documentazione disponibile suggerisce che il rapporto tra Cillenio e Feliciano si sia sviluppato durante il secondo soggiorno in Bologna di quest’ultimo, all’inizio degli anni Settanta. Per il semplice fatto che è contenuto nel codice Hofer, apprestato per l’amico bolognese Giacomo Vitali, sarà da ascrivere a tale periodo anche il pezzo più interessante del breve carteggio poetico, introdotto dalla rubrica: «Felice a Cyllenio non havendo carta per scrivere ha ritrovato un peço de peliça rognosa e tignosa e su quella li scrive e prega li mandj de la carta» (c. 10v). Eccone il testo: El gran strapaço ognor ch’io fo di carte in consumar quaderni e antiqui strazzi mi tiene tutto il giorno in tanti impazzi che mi fa di Cereto imparar l’arte; unde, volendo pur risposta farte, ho ritrovato in casa alcun cartazzi, d’una peliça antiqua i suo bistrazzi ch’è lerza e scuncagata in ogni parte; nido de bigatelli e di pedocchi, di toppi, di scorpioni e di formiche, di vermini, de tarli e scaravaggi [inter linea z]. Scarpellati la vista e sguerza gli occhi, e legi come io vivo in gran fatiche dormendo sopra sacchi e matarazi: Dio voglia che ’l ti piazi che qualche foglio e carta tu me mandi, e al caro amico mio mi raccomandi.

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Cfr. Restelli, Il ciclo..., p. 43.

II Una corrispondenza in sonetti: Felice Feliciano e Giovanni Testa Cillenio

Il componimento – come si arguisce dal v. 5 – costituisce una risposta o l’accompagnamento di una risposta ad uno scritto del Cillenio che non ci è pervenuto. Il tema della richiesta di carta per poter scrivere è tipico di Feliciano. Anche nel 1479, trovandosi in campagna alle «silve della Storta» presso Roma, scriverà all’amico Francesco Porcari chiedendogli «papero et atramento» per completare la raccolta epistolografica a lui dedicata19. Da notare è semmai che viene qui ribaltata, in certo modo, la situazione prospettata in calce al sonetto di dedica a Iohannes Hinderbach, vescovo di Trento, dell’operetta di Giovanni da Lubecca sull’avvento dell’Anticristo: «Papireis cartis paupertas scribere iussit»20. Un’indigenza non dichiarata s’intravede dietro la mancanza di carta per scrivere, cui supplisce un brandello di vecchia pergamena: invenzione, questa, che giova all’adozione del registro comico, evidente nella stessa scelta del sonetto caudato e di alcune rime con consonante geminata (-azzi, -occhi). Coerente perciò la selezione lessicale, orientata verso voci del parlato come «bistrazzi» (non altrimenti attestato) per ‘brandelli’ e locuzioni espressive quali «Scarpellati la vista» (‘aguzza la vista’) e «sguerza gli occhi» (‘strabuzza gli occhi’), oppure aggettivi di basso profilo come quelli della dittologia «lerza e scuncagata» (‘sporca e scacazzata’). Perfettamente in taglio cadono dunque l’accenno all’arte dei cerretani (v. 4) o la rassegna di animali e insetti, accomunati dall’effetto repellente, che hanno fatto il proprio nido nel frammento membranaceo, ove i settentrionali «bigatelli» (‘bruchi’) spiccano accanto a «pedocchi», «toppi», «scorpioni», «formiche», «vermini», «tarli» e «scaravaggi». Degno suggello viene posto dal finale, in cui Feliciano sembra chiedere al Cillenio che lo raccomandi presso un terzo, non precedentemente evocato amico21. E l’inopinata formula epistolografica potrebbe anche avere valore di zeppa, constatata la versificazione approssimativa già svelata al v. 14 dalla collocazione in clausola di «matara-

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Cfr. Pozzi-Gianella, Scienza antiquaria e letteratura..., p. 468. Nell’attuale codice 1659 del Museo Provinciale d’Arte di Trento: cfr. «Pro bibliotheca erigenda». Mostra di manoscritti ed incunaboli del vescovo di Trento Iohannes Hinderbach (1465-1486), Trento, Provincia autonoma e Comune, 1989, p. 151. 21 Non più che una ipotesi, riguardo all’identità di costui, si potrebbe avanzare sulla base del sonetto Più sereno che Iove in segno obliquo (Hofer 157, c. 108v; Parigi it. 1029, c. 11v; Marciano it. IX 257, c. 87v), assegnabile pressapoco ai medesimi anni. Esso si chiude facendo menzione dell’affetto dell’Unicorno («Hor dunque [M donque] sol di pecto ognor mi sgumbra [PM sgombra] / ogni mesto pensier e nube [H nubbe] oscura / l’innocente Unicornio puro e mondo») e dalla rubrica del codice Parigino risulta diretto ad un non meglio noto Battista da Napoli, detto per l’appunto amico primario dell’autore («Felicianus domino Baptiste parthenopeo Amicorum principi»). 20

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zi», che obbliga alla correzione di «scaravaggi» in «scaravazi» (v. 11) e provoca eccezionalmente identità di rima nelle sedi B ed E. 7. Non saprei dire se e quando il Cillenio abbandonasse i domini estensi, anche se è certo che più tardi dovette stringere rapporti con Lorenzo de’ Medici, talché, indirizzandogli l’epigramma già ricordato, lo chiamava nella soprascritta «praesidio meo immortalj» (BNCF, ms. II. II. 62, c. 114v). Con l’ambiente fiorentino del resto egli dovette mantenere contatti anche all’epoca del suo stabile soggiorno ferrarese, dal momento che proprio a Firenze lo raggiungeva la lettera di Feliciano, stavolta in prosa, conservata nell’Harleyano 5271 (cc. 61r-62v): Caduta in tutto la speranza di Caio Gracco et messo da la sinistra fortuna in fuga, abandonato da tutti gli falsi amici e tolto dal populo in grandissimo odio e dispretio, non ritrovò di tanti amici quanti già nella prospera fortuna si vide abundare altro che dui veri et indubitati, Pomponio e Lectorio, li quali con robusto pecto et firmo animo, pieni di molte piaghe, el trassero salvo da’ suoi nimici; et Blosio cumano, conducto nel conspecto di Rutilio e Lenate consuli, adimandato poi da Lelio: – «Se per comandamento di Gracco ti fusse imposta opera di poner le fiamme del foco nel tempio di Iove optimo maximo, l’averesti ubidito?» – «Questo non mai Gracco haveria comandato» – Blosio rispose. Et oltre seguendo Lelio nella dimanda: – «Et se Gracco finalmente questo ti havesse commesso, qual seria stata la tua risposta?» – A cui Blosio haverlo facto afirmava, mostrando il caldo amore verso di Gracco non esser extincto, quantunche Gracco fusse fugato dal populo e riputato de la patria inimico; che meglio poteva Blosio rispondere di quel che rispose? E qual più scelerato si può riputar a l’oficio de la amicicia che quello che per un poco di sinistra fortuna l’amico habandona? Justamente haver risposto Blosio a Lelio è iudicato per ciascheduno, non mutando l’animo del vero amore per mutamento contraro de fortuna. Jo t’ho detto queste poche parole per rifermarti con più saldo chiodo a la amicicia antiqua, benché mi persuade non esser a te necessario questo ricordo: el nostro amore è antiquo e già ha sparte le sue longhe barbe nella solida e firma terra con cossì strecto legame che niuno vento, quanto esser possi impetuoso, non lo deradica mai. Jo anchora mi sto qui a Bologna e trovomi carico de amorosi legami e già ha presa Cupidine di me cossì intiera possessione che io mi conosco non essere più mio, e tutto el pecto sento combusto da le sue fiamme; ma e’ l’è solazo haver compagni ne le miserie. Altro non dico, vivi felice. Materni eloqui Feliciani Vinse Cupido el Sol col suo stral d’oro e fece Iove ancor per Ganymede come aquila volar, unde si vede che per Europa è trasmutato in thoro; e s’io per bramma al mio fatal thesoro vengo, per ritrovar qualche mercede seguendo l’orme di quel santo piede, non fu l’auriga mio Tiphi, a Pelloro,

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II Una corrispondenza in sonetti: Felice Feliciano e Giovanni Testa Cillenio

ma fu un fanciul protervo, senza briglia: qual per Deianira amor vinse colui, lassando di Athalante il gran soccorso! A questa fiama antiqua ognuno è corso, non è dunque d’averne miraviglia s’io, mortal terra, son vinto da lui.

La missiva non è datata, ma risulta spedita da Bologna e copiata in mezzo a un gruppo di lettere tutte del 1472. Partendo da un esempio antico (la fedeltà di Caio Blosio Cumano a Caio Gracco anche nel momento della sventura), Feliciano lodava la saldezza della loro amicizia e chiudeva con un sonetto già trascritto nel medesimo codice a c. 26r e presente anche nel Parigino it. 1029, a c. 15v, nonché nello Hofer, a c. 112r. Notevole soprattutto l’intestazione dell’epistola: «Clarissimo viro domino Cyllenio Genio Mercurio Sacrorum Canonum auditor et latine lingue tam equestris quam pedestris veterano doctissimo. Florentie». La qualifica di uditore di diritto canonico chiude il cerchio e consente di riconoscere lo stesso corrispondente di Feliciano in quel personaggio che nel marzo del 1479 si troverà a Sanguineto Veronese, in casa della famiglia Sanudo. Da qui («Ex Sanguineto nono idus martij MoCCCCLXXVIIIJ») proviene infatti la lettera che il giovane Marin Sanudo copiava nel suo zibaldone oggi Marciano lat. XIV 267, cc. 62r-63v, con salutatio «Joannes Testa legum doctor salutem dicit Marino Sanuto uti filio dilecto». Il poeta e giurista era entrato evidentemente nel novero dei familiari di quell’Alessandro Sanudo, nonno di Marin, che nell’epistola è detto «domino meo» (c. 63v)22. Non è da escludere allora che il suo inserimento nell’ambiente veneto fosse stato favorito, in qualche misura, proprio dalla vecchia amicizia con un personaggio come Feliciano.

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Poiché Feliciano nell’intestazione della propria lettera lo aveva detto «latine lingue tam equestris quam pedestris veterano doctissimo», in chiave prevalentemente retorica andrà intesa l’esigenza di scusare, agli occhi di Marin Sanudo, la sua scarsa abilità di prosatore latino mediante l’antica consuetudine col diritto: «In hac arte dicendi minime mihi data est facultas, nam ab ineunte etate et a teneris annis senper ad sanctissimas leges deditus fui» (cc. 62r-v).

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III CONFIGURAZIONE METRICA DEI MADRIGALI BOIARDESCHI

I generi metrici che avevano caratterizzato la poesia per musica del Trecento e l’intrattenimento musicale della società elegante del secolo XIV – vale a dire ballata e madrigale – e che avevano trovato posto nella vera e propria summa delle esperienze liriche trecentesche costituita dal canzoniere petrarchesco andarono rarefacendosi, com’è noto, nel secolo successivo. La ballata di tradizione aulica, in endecasillabi e settenari, dovette affrontare la concorrenza della più cantabile ballatetta di ottonari e finì ben presto col perdere terreno, sopravvivendo grazie all’esempio di Petrarca. Ancor meno felice fu la sorte quattrocentesca del madrigale, affidata ad un manipolo di rimatori tra i quali spiccano Brocardo, Cornazzano, Sannazaro, Cariteo, Cosmico, Augurelli1. A questi sembrerebbe aggiungersi Boiardo, i cui Amorum libri accolgono due componimenti ciascuno dei quali è detto in rubrica, appunto, «mandrialis». Tuttavia quello collocato nel secondo libro (44) è metricamente una canzone, come è stato riconosciuto da tempo, sicché, stando alla consueta classificazione metrica, uno solo ne resterebbe da accreditare sul conto di Boiardo, quello inserito nel primo libro (8): Cantati meco, inamorati augelli, poiché vosco a cantar Amor me invita; e voi, bei rivi e snelli, per la piagia fiorita teneti a le mie rime el tuon süave. La beltà de che io canto è sì infinita che il cor ardir non have pigliar lo incarco solo, ché egli è debole e stanco, e il peso è grave. 1

Cfr. A Balduino, Appunti sul petrarchismo metrico nella lirica del Quattrocento e

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Vagi augelleti, voi ne giti a volo perché forsi credeti che il mio cor senta dolo, e la zoglia che io sento non sapeti. Vagi augeleti, odeti: che quanto gira in tondo il mare e quanto spira zascun vento, non è piacer nel mondo che aguagliar se potesse a quel che io sento.

Anche in questo caso però sorge qualche dubbio circa il fatto che davvero si tratti di un testo concepito dal poeta nella forma di un madrigale. Per affrontare da capo il problema converrà anzi tutto passare in rassegna le varie rappresentazioni date fin qui della sua conformazione metrica. Mengaldo, tenendo conto principalmente della struttura sintattica, ha interpretato il componimento come madrigale di schema2: ABabC BcDC DedE efGfG.

Una diversa interpretazione dello schema ha dato più di recente Roberta Conti, che ne ha individuato l’iniziale base ternaria incatenata3: ABa bCB cdC DedE efGfG.

Si può intanto osservare che, stando alla consueta combinazione madrigalesca di terzetti con ritornello formato da uno o più distici4, più consona sarebbe forse la seguente scansione: ABa bCB cdC Ded Ee fG fG.

primo Cinquecento, «Musica e storia», III (1995), p. 256.

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III Configurazione metrica dei madrigali boiardeschi

Occorre avvertire inoltre che la qualifica di «mandrialis» – in accordo con l’invalsa etimologia «a mandra pecudum et pastrorum»5 – più che alla configurazione metrica del componimento potrebbe essere pertinente qui alla ambientazione campestre e al tema di origine pastorale: l’allocuzione agli uccellini perché partecipino del sentimento del poeta. Che nella fattispecie tale designazione nascesse «dall’impiego di terzetti seguiti, a mo’ di ‘ritornello’, dalle quartine»6 è ipotesi che non convince, in ragione dell’affievolirsi della nozione di madrigale in senso tecnico durante il secolo7 e anche di quanto fra poco si osserverà in merito allo schema della canzone-mandrialis o madrigale pluristrofico in forma di canzone 104 (componimento 44 del libro II). Viste le analogie dell’ambientazione esistenti fra i due testi, risulta più plausibile pensare che la denominazione derivi in entrambi i casi da fatti contenutistici e tematici. È perciò persuasiva la lettura dello schema fornita di recente da Zanato8: ABa bCB cdC Ded E, efGfG.

Secondo questa ipotesi il componimento sarebbe assimilabile ad una stanza di canzone la cui fronte è composta da un breve capitolo ternario, con relativo verso di chiusa (E), e la cui sirma è inaugurata dal canonico verso di diesi (e)9. Zanato parla, in effetti, di «sviluppo, su una linea di commistione con la stanza di canzone, del madrigale “antico”» e di «ampliamento anche quantitativo (risultando superata la misura dei quattordici versi), del madrigale “antico”, che tende ad assumere figura di una stanza (isolata) di canzone, per quanto sui generis» (ed e loc. citt.). Né le partizioni interstrofiche sono, in questa ipotesi, in contrasto con quelle sintattiche. Ecco infatti come si pre-

2

Cfr. M. M. Boiardo, Opere volgari. Amorum libri – Pastorale – Lettere, a c. di P. V. Mengaldo, Bari, Laterza, 1962, p. 486. Nel testo ho uniformato «Vag[h]i», v. 14, alla voce identica, ma priva di integrazione, del v. 10. Tale analisi dello schema metrico è accolta in G. Capovilla, Materiali per la morfologia e la storia del madrigale ‘antico’, dal ms. Vaticano Rossi 215 al Novecento, «Metrica», III (1982), p. 178, e riproposta in M. M. Boiardo, Canzoniere (Amorum libri), introduzione e note di C. Micocci, Milano, Garzanti, 1990, p. 11. Sostanzialmente concorde quella di G. Contini, Letteratura italiana del Quattrocento, Firenze, Sansoni, 1976, p. 223. 3 R. Conti, Strutture metriche del canzoniere boiardesco, «Metrica», V (1990), p. 194. 4 Cfr. Capovilla, Materiali ..., cit., p. 165.

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senta il componimento secondo la nuova scansione, con minimi ritocchi nell’interpunzione rispetto all’edizione Mengaldo e anche all’edizione Zanato: Cantati meco, inamorati augelli, poiché vosco a cantar Amor me invita; e voi, bei rivi e snelli, per la piagia fiorita teneti a le mie rime el tuon süave: la beltà de che io canto è sì infinita che il cor ardir non have pigliar lo incarco solo, ché egli è debole e stanco, e il peso è grave. Vagi augelleti, voi ne giti a volo perché forsi credeti che il mio cor senta dolo, e la zoglia che io sento non sapeti. Vagi augeleti, odeti: che quanto gira in tondo il mare e quanto spira zascun vento, non è piacer nel mondo che aguagliar se potesse a quel che io sento.

Si tratterebbe in effetti di uno schema affine, salvo la maggiore o minore concentrazione di settenari, a quello della stanza del mandrialis 104 (componimento 44 del libro II), generalmente letto così10: AbA BCB CDC DED EFE, FGFG GHHI KIKA.

Anche nella fattispecie sembra preferibile tuttavia la disposizione proposta da Zanato11: AbA BCB CDC DED EFE FGF G, GHHIKIKA.

Si noterà che la nuova interpretazione dello schema individua una stanza congegnata analogamente a quella che sembra costituire il componimento numero 8: un breve capitolo ternario (con regolare verso di chiusa) in luogo della fronte, più una sirma aperta dal consueto verso di diesi. La lieve divergenza, oltre che nella preponderanza dell’endecasillabo, sta nel fatto che qui

5 Cfr. A. Da Tempo, Summa artis rithmici vulgaris dictaminis, ed. critica a c. di R. Andrews, Bologna, Commissione per i testi di lingua, 1977, p. 70.

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III Configurazione metrica dei madrigali boiardeschi

Boiardo ha voluto complicare ulteriormente la testura ripetendo in clausola della sirma, per un sovrappiù di simmetria, la rima iniziale della fronte (A). Coerentemente peraltro lo schema del congedo – ove pure ritorna verso la fine la rima iniziale – appare formalizzabile anch’esso come quello di un breve capitolo ternario: AuA UVU VWV WXW XYX YAY AzA Z.

Tale morfologia rivela allora in entrambi i componimenti predicati quali ‘mandriales’ il risultato dell’innesto del genere ternario sul meccanismo della stanza di canzone, mantenendo dell’uno e dell’altra caratteristiche tecniche specifiche quali, rispettivamente, il verso di chiusa e quello di diesi. L’idea di comporre una stanza isolata ovvero una canzone monostrofica – peregrina nel Quattrocento ma comune nella antica lirica occitanica e italiana – rientra peraltro a buon diritto nel quadro della nota propensione boiardesca per le forme gotiche e avvicina l’autore del maggiore canzoniere quattrocentesco al gusto che di lì a poco, nella sua Ferrara, sarà anche del Bembo dei primi Asolani, ove pure compaiono stanze di canzone isolate12.

6 Cfr. F. Bausi-M. Martelli, La metrica italiana. Teoria e storia, Firenze, Le Lettere, 1992, p. 120.

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Poesia d’intrattenimento

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IV BALLATA DI PRIMAVERA (BEN VENGA MAGGIO)

1. Riflettendo sulla propria lettura di Rimbaud, un grande poeta italiano del Novecento ha scritto: «Filologia, lavoro pulito. Come quello del radiologo in medicina. Capire questo a diciotto, vent’anni può salvare dall’estetismo inconsapevole e da varie altre forme di vaghezza». Non saprei trovare parole migliori di queste di Vittorio Sereni, consegnate ad una pagina degli Immediati dintorni (1962), per mettere in guardia da un approccio ingenuo ai testi; perché, in fondo, proprio questo è o dovrebbe essere, anzi tutto, la filologia: l’attitudine mentale di chi, sempre incline a diffidare di una consolidata tradizione testuale o esegetica, non rinuncia al controllo diretto e alla verifica di prima mano dei dati su cui fondare il proprio ragionamento. Con tale atteggiamento critico occorre avviare i preliminari di lettura di un testo come Ben venga Maggio. Le rime di Poliziano non furono mai riunite dal loro autore in una silloge organica. Esse ci sono state tramandate in raccolte miscellanee, manoscritte o a stampa, compilate da altri e perlopiù postume. Ben venga Maggio, in particolare, oltre che da alcune edizioni della fine del secolo XV e dei primi del XVI, è tràdita da un solo codice quattrocentesco (il 1383 della Biblioteca Oliveriana di Pesaro) e da altri più tardi. L’edizione critica procurata da Daniela Delcorno Branca1 (1986 e 1990) ce la ripropone in un testo giustamente fondato sulla testimonianza del menzionato Oliveriano 1383 e delle stampe che con esso concordano. Prima di 1

Cfr. A. Poliziano, Rime, edizione critica a c. di D. Delcorno Branca, Firenze, Accademia della Crusca, 1986; e A. Poliziano, Rime, a c. di D. Delcorno Branca, Venezia, Marsilio, 1990.

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affrontare la lettura bisognerà prendere atto, tuttavia, di un punto debole di tale sistemazione testuale. A parte la inopportuna separazione determinata dall’inserzione della virgola fra «Qual dura a lor si mostra» e «farà sfiorire il maggio» dei vv. 25-26 e quella analoga fra «Chi è giovane e bella» e «deh non sie punto acerba» dei vv. 15-16 (semmai sarà da mettere tra virgole l’interiezione), il vero e proprio locus minoris resistentiae sembra da individuare, infatti, nella stanza conclusiva della ballata, ove non convincono l’interpunzione e l’interpretazione che le è sottesa. A cominciare dalla prima edizione delle rime di Poliziano approntata con intenti critici, quella di Luigi Ciampolini (1814), e poi dall’edizione di Carducci (1863) fino a quella della Delcorno Branca, appunto, e all’altra più recente commentata da Davide Puccini2, tale stanza è stata generalmente interpretata come un dialogo tra le donzelle e Cupido: “Ben venga il peregrino! Amor, che ne comandi?” “Ch’al suo amante il crino ogni bella ingrillandi, ché li zitelli e grandi s’innamoran di maggio”.

In versione lievemente ritoccata, ma immutata nella sostanza, l’ha riproposta ancor più recentemente Francesco Bausi3: «Ben venga il peregrino Amor: che ne comandi?» «Ch’al suo amante il crino ogni bella ingrillandi, ché li zitelli e grandi s’innamoran di maggio».

Neppure mutava i termini della questione, del resto, l’edizione di Natalino Sapegno4, seguita da altri (Orlando, Marconi), che ulteriormente frazionava il dialogo:

2 A. Poliziano, Stanze-Orfeo-Rime, introduzione, note e indici di D. Puccini, Milano, Garzanti, 1992. 3 A. Poliziano, Poesie volgari, a c. di F. Bausi, Roma, Vecchiarelli, 1997. 4 A. Poliziano, Rime, testo e note di N. Sapegno, Roma, Ed. dell’Ateneo, 1965, riveduta e corretta ivi, 1967.

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IV Ballata di primavera (Ben venga maggio)

– Ben venga il peregrino. – Amor, che ne comandi? – Che al suo amante il crino ogni bella ingrillandi, ché li zitelli e grandi s’innamoran di maggio. –

La battuta assegnata alle donne è suddivisa qui in maniera poco perspicua, come a distinguere chi saluta l’arrivo di Amore da chi gli chiede quali siano i suoi dettami. Per inciso, l’organizzazzione sintattica originariamente conferita al brano dagli editori ottocenteschi ha influenzato, com’è logico, chi vi si è ispirato: in primo luogo D’Annunzio, grande conoscitore e ammiratore di Poliziano, letto certo nell’edizione di Carducci. Nella Cantata di Calen d’Aprile dell’Isotteo (1886) s’incontra una stanza (vv. 41-46) fatta ad imitazione di quella polizianesca: Udite. Il banditore gitta suoi lieti bandi. O messaggio d’Amore, April, che ne comandi? – Ogni bella inghirlandi un amador novello. –

Oltre all’idea del bando, è l’articolarsi stesso del dialogo fra il cantore Salabaetto ed Aprile, messaggero d’Amore, che rinvia all’ultima stanza di Ben venga Maggio. Nei versi di Poliziano, tuttavia, la scansione a due voci desta, di per sé, più di qualche perplessità. Essa sembra scarsamente economica anzitutto perché introduce un inatteso scambio di botta e risposta entro un testo non impostato su schema dialogico e privo di qualsiasi altro elemento di questo tipo. Vero è che il finale lascia intuire facilmente l’entrata in scena di un amorino, ma niente autorizza a credere che – contro la normale dinamica del genere ballata – le cantanti gli lasciassero improvvisamente la parola. Non mi risulta sia stato mai proposto di intendere invece la stanza come un unico periodo, tutto pronunciato dalle festose giovani che intonano l’intero componimento: Ben venga il peregrino Amor, che ne comandi che al suo amante il crino ogni bella ingrillandi, ché li zitelli e’ grandi s’innamoran di maggio.

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Grazie alla ricongiunzione di «peregrino» ad «Amor» ed alla interpretazione di «comandi» quale congiuntivo esortativo, il senso diviene più liquido. Le cantanti chiudono infatti dicendo: ‘Sia benvenuto l’erratico Amore, il quale ci ordini che ogni amata ponga una corona floreale sui capelli del proprio amante, poiché piccoli e grandi si innamorano in maggio’. A fronte di questa soluzione, quella tradizionale sembra, francamente, una banalizzazione originata dal fraintendimento della costruzione sintattica. Si noterà inoltre che il periodo, così ristrutturato, dichiara esplicitamente la volontaria soggezione delle donzelle all’imposizione di Cupido. L’invito da loro rivolto al dio, affinché eserciti il proprio imperio, si accorda alla perfezione con le indicazioni di regia ricavabili dalla rubrica premessa al componimento nello stesso codice Oliveriano, da cui si apprende che esse dovevano inghirlandare la testa dei giostranti come innesco del meccanismo del torneo: Canzona d’Ang[elo] Politiano di maggio, la quale s’aveva a chantare per donne nell’entrare de’ giostranti in campo, et, coronandogli, per loro amore giostravono.

Ecco allora il testo dell’intera ballata polizianea nella versione ottenuta apportando, su quello edito dalla Delcorno Branca, i correttivi qui argomentati. Ad esso si riferisce l’esercizio di lettura che segue. Ben venga Maggio e ’l gonfalon selvaggio!

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Ben venga primavera, che vuol ch’uom s’inamori; e voi, donzelle, a schiera colli vostri amadori, che di rose e di fiori vi fate belle il maggio, venite alla frescura delli verdi arbuscelli. Ogni bella è sicura fra tanti damigelli: ché le fiere e gli uccelli ardon d’amore il maggio. Chi è giovane e bella, deh, non sie punto acerba, ché non si rinnovella l’età come fa l’erba; nessuna stia superba all’amadore il maggio.

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Ciascuna balli e canti di questa schiera nostra: ecco che i dolci amanti van per voi, belle, in giostra. Qual dura a lor si mostra farà sfiorire il maggio. Per prender le donzelle si son gli amanti armati: arendetevi, belle, a’ vostri innamorati! Rendete e cuor furati, non fate guerra il maggio. Chi l’altrui core invola ad altrui doni el core. Ma chi è quel che vola? È l’angiolel d’Amore che viene a fare onore con voi, donzelle, al maggio. Amor ne vien ridendo, con rose e gigli in testa, e vien di voi caendo: fategli, o belle, festa. Qual sarà la più presta a darli e fior del maggio? Ben venga il peregrino Amor, che ne comandi che al suo amante il crino ogni bella ingrillandi, ché li zitelli e’ grandi s’innamoran di maggio.

2. Dal punto di vista metrico, Ben venga Maggio è una ballata o, come spesso si diceva al tempo di Poliziano, una canzone a ballo: cioè una poesia scritta per essere cantata e per fare da supporto, eventualmente, ad una danza. Secondo la definizione di un ignoto grammatico del secolo XIV, infatti, ‘le ballate sono parole apposte a note musicali, e si chiamano ballate perché vengono danzate’ («Ballade sunt verba applicata sonis, et dicuntur ballade quia ballantur»)5. Lanciato dai cosiddetti stilnovisti, il metro era cresciuto con la domanda di rime per musica determinata dal successo della trecentesca Ars 5 Cfr. N. Pirrotta, Ballate e «soni» secondo un grammatico del Trecento, (1962), in Id., Musica tra Medioevo e Rinascimento, Torino, Einaudi, 1984, p. 91.

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nova musicae e nel Quattrocento rappresentava, specie nella versione isometrica in ottonari, una delle forme più diffuse di poesia musicale. Nella Firenze laurenziana il legame con la danza ancora sussisteva, come esplicita Ballerò con voi cantando, attribuita a Bernardo Giambullari, e conferma il frontespizio della stampa fiorentina, impressa ai primi del Cinquecento, delle Ballatette di Lorenzo de’ Medici, Poliziano e Giambullari medesimo6. La xilografia in questione ci mostra in primo piano due fanciulle – una delle quali reca in mano una ghirlanda e l’altra, a quel che sembra, proprio il bastone simbolo del maggio – che rendono ossequio al Magnifico, mentre sullo sfondo del palazzo di via Larga, contrassegnato con lo stemma mediceo, dodici ragazze danzano appunto un ballo tondo. In ragione della sua destinazione la ballata è congegnata, si sa, come una serie di strofe (o stanze) più una ripresa che apre il componimento e viene poi eseguita, a mo’ di ritornello, alla fine di ogni strofa. Nella struttura della singola stanza si distinguono due piedi fra loro simmetrici (detti anche mutazioni) e una volta. Solitamente la danza consisteva in una serie di figurazioni coreutiche distinte – al pari delle frasi musicali – in base a queste varie sezioni e sottosezioni metriche. I cantori e danzatori, tenendosi per mano in cerchio, compivano durante la ripresa un primo giro completo verso destra; mezzo giro verso sinistra e mezzo giro verso destra in corrispondenza dei due piedi; e ancora un giro completo a sinistra durante la volta, in modo da ritrovarsi esattamente nella posizione di partenza e dunque pronti per la nuova esecuzione della ripresa. Quest’ultima veniva cantata in coro, mentre al solista spettava il canto della stanza, la cui ultima rima è uguale a quella finale della ripresa (detta chiave), e dà quindi il segnale della ripetizione della ripresa stessa. In Ben venga Maggio le stanze sono otto, ognuna di sei versi, tutti settenari, divisibili in due piedi di due versi ciascuno e una volta pure di due versi. Anche la ripresa consta di due versi (un quinario e un settenario): ciò che conferisce alla ballata, secondo la terminologia degli antichi trattatisti, la specificazione di minore, per contrapposizione, da un lato, alla minima (un solo settenario) e alla piccola (un solo endecasillabo), dall’altro alla mezzana (tre versi) e alla grande (quattro). A rigore, si potrebbe anche vedere la ripresa stessa come un unico verso endecasillabo con rima al mezzo (che configurerebbe la ballata come piccola), secondo la proposta avanzata, sulla soglia del

6 Una scheda in Mostra del Poliziano nella Biblioteca Medicea Laurenziana, a cura di A. Perosa, Firenze, Sansoni, 1954, p. 127.

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Xilografia delle Ballatette.

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nostro secolo, da Guglielmo Volpi7 e precorsa nella prassi poetica di un lettore alieno da scrupoli di ordine filologico, ma dotato di indiscutibile sensibilità prosodica. Alludo ancora a D’Annunzio, che in una poesia della Chimera intitolata Due Beatrici, ove evocava la figura, in atteggiamento tra botticelliano e polizianesco, di una giovane donna celata sotto il senhal di Verdespina, accolse un adattamento endecasillabico della ripresa in questione (vv. 41-48): Ben m’udì Verdespina. Ella venìa, alta e sottile quanto li arboscelli, a me da presso; e viva m’apparìa tutta pinta di foglie e di fiorelli come la donna de l’Allegoria che apparve in sogno a Sandro Botticelli. Portava in bocca un assai pio messaggio: – Ben venga maggio e ’l gonfalon selvaggio. –

Ciò che trattiene dall’aderire all’ipotesi di Volpi non è, naturalmente, il fatto che essa non sia mai stata recepita sul piano editoriale. Se nella fattispecie quinario e settenario ricompongono un perfetto endecasillabo, in alcune delle numerose imitazioni a carattere religioso della ballata di Poliziano la ripresa non è passibile di una interpretazione di questa sorta. Mi riferisco a due laude di autore anonimo, le cui riprese suonano rispettivamente: O Iesù buono, per servirti ci sono. Cantiam di core, quest’è ’l dì del Signore8.

In entrambi i casi, se volessimo ridurre la ripresa ad un solo verso otterremmo un endecasillabo ipermetro, né la sillaba crescente potrebbe essere eliminata col troncamento della parola in rima interna (buon, cor), tanto più trattandosi di testi scritti in vista di una esecuzione musicale e dunque normalmente refrattari a rime cosiddette per l’occhio. Ciò dimostra che i primi

7 Cfr. la sua prefazione a Le laudi di Lucrezia de’ Medici, Pistoia, Flori, 1900. Per una scansione endecasillabica della ripresa sembra propendere anche G. Gorni, Le forme primarie del testo poetico (1984), in Id., Metrica e analisi letteraria, Bologna, Il Mulino, 1993, p. 91. 8 Cfr. Laude spirituali di Feo Belcari, di Lorenzo de’ Medici, di Francesco d’Albizzo, di Castellano Castellani e di altri, [a cura di G. C. Galletti], Firenze, Molini e Cecchi, 1863-64, pp. 240 e 281.

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lettori e uditori del testo polizianeo sentivano la ripresa appunto come un distico formato da un quinario più un settenario. Come tale quindi, giustamente, fu organizzata sulla pagina dai primi copisti e tipografi, e da allora sempre. Lo schema metrico della ballata, che si è cercato di illustrare nelle sue articolazioni, è formalizzabile allora, per maggior chiarezza, come segue: x5x7, a7b7a7b7b7x7.

Si noti che tale schema contravviene, in qualche misura, al precetto della corrispondenza fra ripresa e volta, qui imperfetta poiché un quinario più un settenario (xx) non equivalgono, sul piano sillabico, a una coppia di settenari (bx). La norma, inviolabile nella ballata due e trecentesca, non lo era però nel Quattrocento. Nel secolo di Poliziano difatti il metro aveva acquisito una malleabilità che si spiega in buona parte con lo scadimento a genere popolareggiante: basti pensare alle licenze, anche di diverso tipo, che caratterizzano la metrica di tante canzoni a ballo quattrocentesche. Altre ballate polizianee del resto infrangono più gravemente la regola di tale equipollenza, presentando una ripresa di due versi a fronte dei quattro della volta (Io vi vo’, donne, insegnare; Canti ognun, ch’i’ canterò; Donne mie, voi non sapete); e neppure sono di eguale entità ripresa e volta di Questo mostrarsi adirata di fore. Le stanze di Ben venga Maggio sono caratterizzate, inoltre, dalla presenza di un rimante fisso in sede di chiave («maggio»). A tale proposito va detto che quello del mot refrain è uso antico, che all’epoca di Poliziano rispondeva ad un gusto qualificabile – mutuando la definizione dalla storia dell’arte – come tardogotico. Assunto in forma sistematica già, oltre che nel repertorio laudistico, nella prima ballata del Decameron e in alcune di Franco Sacchetti, l’artificio si trova di frequente nelle canzoni a ballo di Lorenzo, ove costituisce una cifra stilistica, se non peculiare, quanto meno prediletta. L’espediente metrico-retorico ha, come s’intende, il compito di far rimarcare in maniera ossessiva e martellante il motivo principale del componimento: qui il malaugurato sentimento della gelosia, nel testo di Poliziano l’arrivo del mese che si vuol festeggiare. Si aggiunga però che tale artificio non era scevro da implicazioni pratiche, dal momento che serviva altresì a segnalare in maniera più evidente la fine della stanza e il conseguente richiamo all’esecuzione della ripresa. Poliziano lo impiega con analoghe modalità anche in Donne mie, voi non sapete e Dolorosa e meschinella, nonché, in maniera più complessa, in altre ballate. Tornando a quella in oggetto, la ripresa espone un tema («Ben venga Maggio ...») che, come di consueto, la prima stanza si incarica di sviluppare («Ben venga primavera ...»). La nuova interpretazione della stanza finale,

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avanzata nel paragrafo precedente, consente peraltro di restaurare il parallelismo sintattico tra l’inizio della prima stanza («Ben venga primavera, / che vuol ch’uom s’inamori») e quello dell’ultima («Ben venga il peregrino / Amor, che ne comandi ...»), congruente con la ricerca della circolarità propria del genere ballatistico e intrinseca alle caratteristiche coreutiche del metro. Tale intento, di per sé evidente, si inserisce in un tessuto di particolare intensità ritmica e insieme di notevole ricercatezza, come lascia subito intuire l’insolita frequenza di rime ricche: frescura:sicura, innamorati:furati, invola:vola, peregrino:crino. Il movimento ciclico del testo viene sottolineato, inoltre, dal ritorno periodico di lessico e costrutti. In ragione del pressante invito all’amore rivolto dalle cantanti all’indirizzo di ogni donna, alla parolachiave «maggio» si affianca la voce «bella», ripetuta anch’essa in ogni stanza (vv. 11, 15, 48, e «belle» vv. 8, 24, 28, 42) tranne che nella sesta, ove è degnamente surrogata da «donzelle» (v. 38 e già al v. 27). Analoga serie replicativa interessa l’altra voce tematica «amanti» (vv. 23, 28 e «amante» v. 47), anche nelle varianti sinonimiche «amadori» (v. 6 e «amadore» v. 20) e «innamorati» (v. 30). Ad enfatizzare questa costellazione semantica si aggiungono le voci del verbo innamorarsi (vv. 4 e 50) e l’insistenza, meno sistematica, su «amore/Amore» (vv. 14, 36, 39, 46). Si avverta poi del particolare risalto accordato al verbo venire. Oltre che nella ricorrente formula di benvenuto cristallizzatasi nell’uso dell’epoca («Ben venga» vv. 1, 3 e 45), lo si ritrova in funzione esortativa (v. 9 «venite», messo in rilievo dall’allitterazione con «verdi» del v. 10) e di constatazione dell’arrivo di Amore («vien» vv. 37, 39 e 41). Anch’esso mirerà, dunque, ad una sottolineatura di carattere tematico; tant’è vero che i travestimenti spirituali cui mise mano Lucrezia Tornabuoni recepirono specialmente questo aspetto, applicandosi ad occasioni come la venuta del Messia o quella dello Spirito santo e dando luogo così a laude spesso inclini all’anafora su «venga», «venite», «viene», ecc. L’andamento è scandito inoltre dal ritorno di certe immagini, che in qualche caso mirano a stabilire connessioni precise tra una stanza e la successiva, quasi alla maniera delle provenzali coblas capfinidas. Si veda, difatti, come il motivo dei «cuor furati» (vale a dire ‘rubati’) si travasi dal finale della quinta stanza (v. 31) nell’inizio della successiva «Chi l’altrui core invola» (v. 33), ove a metterlo in rilievo contribuisce, peraltro, la replicazione del v. 34: «ad altrui doni el core» (complicata dal chiasmo sintattico: oggetto + verbo / verbo + oggetto). Oppure si constati come l’accenno all’incombente amorino faccia da cerniera fra la sesta stanza (vv. 36-38 «È l’angiolel d’Amore / che viene a fare onore / con voi, donzelle, al maggio») e l’inizio della

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seguente (v. 39 «Amor ne vien ridendo ...»). Né può essere fortuito che certi inizi di stanza si implichino a vicenda, segnatamente quello della terza («Chi è giovane e bella, / deh, non sie punto acerba») e della sesta («Chi l’altrui core invola / ad altrui doni el core»). Tale effetto di echi plurimi interni sembra intensificarsi, in conseguenza forse dell’ingresso in scena della personificazione di Amore, in alcuni snodi delle ultime stanze; talché nel giro di appena tre versi si ha la ripetizione a breve distanza di ben tre lemmi: «chi», «altrui» e «core» (vv. 33-35 «Chi l’ALTRUI c o r e invola / ad ALTRUI doni el c o r e. / Ma chi è quel che vola?»). Ma già nella quinta stanza la paronomasia «amanti armati» (v. 28) e il rapporto inclusivo che si istituisce fra «arendetevi» (v. 29) e «rendete» (v. 31) tradiscono l’innegabile ricerca del preziosismo sul piano della retorica fonica. Tutto ciò consente di rilevare l’impegno formale profuso da Poliziano nel concepire e scrivere la ballata, con lo scopo di conferire al componimento una cantabilità intrinseca tale da prevenire e guidare il rivestimento musicale. 3. Ben venga Maggio rappresenta una specie particolare di ballata. Essa costituisce un canto di Calendimaggio, concepito cioè per essere intonato durante i festeggiamenti del primo di maggio, giorno in cui si celebravano l’avvento di un mese per più aspetti fausto e la pienezza della primavera. Un esempio tipico di questo microgenere, relativamente alla Toscana quattrocentesca, è la Canzona del signor della Cavallina, ballata anonima, in ottonari, di cui basti riportare le prime due stanze9: Gli è venuto quel bel mese che rallegra tutti e cori e riveste ogni paese d’erbe, frutte, fronde e fiori: maggio, pien di dolci odori pe’ giardini e pe’ boschetti, dove canton gli uccelletti notte e dì, sera e mattina.

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Per l’attribuzione vedi Rime inedite o rare di Bernardo Giambullari, con introduzione, note e indice generale di tutti i componimenti editi e inediti per cura di I. Marchetti, Firenze, Sansoni Antiquariato, 1955, pp. 205-6. Per il testo utilizzo direttamente l’unico testimone noto, ora in edizione anastatica: Lorenzo de’ Medici [e altri], Canzone per andare in maschera per carnesciale, a cura di S. Carrai, Firenze, Fos, 1992.

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Vuolsi far festa di maggio, perché gli è degno d’onore; non è loco sì selvaggio che non sia pien di splendore: escon de’ boschetti fore gli animali alla foresta; per amor faccendo festa, l’un con l’altro si avicina.

Il signore della Cavallina cui il canto è dedicato non è, al momento, identificabile con sicurezza. Potrebbe trattarsi sia di Bernardo Giambullari sia del più noto Luigi Pulci, poeti entrambi ed entrambi proprietari, in tempi diversi, della villa situata nella località del Mugello ancor oggi detta, appunto, la Cavallina. Con l’uno e con l’altro, ad ogni modo, Poliziano ebbe una certa familiarità, sicché non stupisce ritrovare qui proprio la coppia di rimanti maggio:selvaggio (peraltro già petrarchesca) presente nella ripresa della ballata polizianea. Alla comprensione delle scelte attuate da Poliziano, comunque, giova rilevare soprattutto lo scarto rispetto a questo filone municipale. Il testo dell’anonimo è difatti tutto centrato sul doppio senso erotico evidente nell’accezione ambigua dell’immagine degli uccelletti, la quale perde la sua apparente innocenza allorché i cantori affermano «no’ vogliàn mutar paese»: ovvero – decrittando un gergo sodomitico adottato di sovente all’epoca, anche per sottrarsi alle conseguenze penali che tale vizio comportava – ‘desideriamo abbandonare il luogo deputato all’amore eterosessuale per recarci in quello dell’amore omosessuale’10. Poliziano anche avrà conosciuto il filone propriamente popolare del maggio lirico di cui, forse, si avvalse. Ad avvalorare tale ipotesi vengono – pur con tutte le cautele del caso – incipit come quello del canto di maggio diffuso ancora ai primi dell’Ottocento presso i contadini romagnoli, in una regione cioè geograficamente e culturalmente contigua alla Toscana: Ben vegna Maz Che l’ha purtéa i bei fiur, [...] Ben vegna e vegna Maz, Che Maz i l’è arrivéa11.

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Si veda in proposito, sebbene con cautela, il repertorio di J. Toscan, Le carnaval du langage. Le lexique érotique de Burchiello à Marino, Lille, Université de Lille, 1981. 11 La tesi dell’influsso dei canti popolari è stata sostenuta da F. Luisi, Ben venga maggio. Dalla canzone a ballo alla commedia di maggio, in La musica a Firenze al tem-

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In Ben venga Maggio, ad ogni modo, il tono prevalente non è quello popolareggiante. Lo stesso slittamento verso i modi del canto carnascialesco si rivela episodico. I punti di tangenza veri e propri si limitano, in pratica, all’esortazione «Ciascuna balli e canti / di questa schiera nostra» (vv. 21-22), che riecheggerà al v. 55 del celeberrimo Trionfo di Bacco e Arianna di Lorenzo («Ciascun suoni balli e canti»). Né poteva essere altrimenti, dal momento che gli spunti derivati dal contesto festivo e dalle aspettative del pubblico risultano coniugati e, di conseguenza, temperati con una più alta linea di poesia. Lettore onnivoro quanto raffinato, cultore – oltre che dei classici – di antica lirica volgare, Poliziano sapeva bene che la tradizione del canto di Calendimaggio rimontava ad una delle più illustri ballate duecentesche, la cavalcantiana Fresca rosa novella. Di quel componimento, cui pure faceva da sfondo il mese delle rose, affiora in effetti – come segnalano i migliori commenti – più di un ricordo. Specie la prima stanza sembra esser rimasta vivida nel ricordo di Poliziano, se la clausola «verdi arbuscelli» del v. 13 torna identica al v. 10 di quest’ultimo e tanto più che essa è in entrambi i testi in rima con «uccelli» (in Cavalcanti «auselli»). E dal v. 8 di Cavalcanti («da grandi e da zitelli») discende direttamente, con la semplice inversione della dittologia, il v. 49 di Poliziano: «ché li zitelli e’ grandi ...». Non si trattava, si badi, di semplice recupero programmatico o, per così dire, di imitazione a freddo. Nel quadro di Ben venga Maggio le reminiscenze cavalcantiane hanno tutta l’aria di essere affiorate alla memoria dell’autore sì consapevolmente, ma come trascinate dalla scelta di un genere poetico e per la speciale sintonia di ispirazione e di stile instauratasi, a distanza, fra i due testi. L’evidente impronta cavalcantiana spiega del resto, con ogni probabilità, anche la scelta del verso breve nelle stanze: di tutti settenari – ricordo – come di soli settenari è intessuta Fresca rosa novella. Il consapevole incontro tra genere d’intrattenimento e raffinato arcaismo sembra essersi attuato attingendo anche ad altra celebre ballata della Firenze d’un tempo, l’adespota Ecco la primavera, musicata sulla fine del Trecento dal famoso organista Francesco Landini: Ecco la primavera che ’l cor fa rallegrare: temp’è da ’nnamorare e star con lieta cera.

po di Lorenzo il Magnifico, a cura di P. Gargiulo, Firenze, Olschki, 1993, pp. 195-218. Il canto Ben vegna Maz è citato in P. Toschi, Le origini del teatro italiano, Torino,

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No’ vegiam l’aria e ’l tempo che pur chiam’allegreza; in questo vago tempo ogni cosa ha vagheza: l’erbe con gran frescheza e’ fiori copron prati e gli alberi adornati sono in simil manera12.

Non meraviglierebbe che Poliziano avesse sentito eseguire tale ballata in analoghe occasioni festive; e certo la conosceva bene l’amico organista Antonio Squarcialupi, che ne serbava copia nel sontuoso codice musicale arsnovistico di sua proprietà (attuale Laurenziano Mediceo Palatino 87)13. Comunque sia, ai vv. 3-4 del testo polizianeo («Ben venga primavera, / che vuol ch’uom s’inamori») sembra di scorgere l’eco della ripresa: «Ecco la primavera / che ’l cor fa rallegrare: / temp’è da ’nnamorare / e star con lieta cera». L’agnizione è tanto più plausibile in quanto l’elaborazione polizianea risulta prevalentemente interna a questo filone e poco disponibile, nel complesso, a recepire apporti di altra provenienza. Penso, ad esempio, ad un precedente illustre come il sonetto scritto da Petrarca per rievocare le «due rose fresche e colte in paradiso» offerte in dono agli innamorati «nascendo il dì primo di maggio» (RVF 245). Per suggestivo che fosse, l’estraneità del componimento al genere ballatistico – o, meglio, alla peculiare tonalità festevole che esso comportava – avrà precluso automaticamente al testo petrarchesco la possibilità di entrare nel gioco delle reminiscenze. Per contro, e non a caso, la ballatina dantesca Per una ghirlandetta, pur priva di specifici agganci di carattere tematico, ha ceduto l’immagine dei vv. 6-7 («e sovr’a lei vidi volare / un angiolel d’amore umile») ai vv. 35-36 di Poliziano («Ma chi è quel che vola? / È l’angiolel d’Amore ...»). Il rammemorare di Poliziano prediligeva in effetti, nell’occasione, generi comunque legati ad una esecuzione musicale e perciò imparentati con quello ballatistico. Nel paragrafo successivo verificheremo l’incidenza della frottola di Leon Battista Alberti; qui basti fare l’esempio dell’azione scenica conclu-

Boringhieri, 1976, p. 503.

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siva, in cui le donne salutano l’arrivo di Amore e lo esortano ad imporre loro di inghirlandare i propri campioni. Essa rispecchia il gusto per il gioco cortese e cortigiano dell’imperioso editto di Amore, già presente nella tradizione delle rime per musica ed in particolare in un madrigale trecentesco intonato ancora dal Landini: Fa metter bando e comandar Amore a ciaschedun’amanza over amante celato ’l tenga in fatti e in sembiante; e che niun si rimanga d’amare perch’a lui non ne paia esser cambiato, ch’Amor vuol che chi ama sia amato; e che niun amante si disperi per lung’amar, ché, giugnendo a l’effetto, ogni suo pena tornerà in diletto, sappiendo chi farà contra la legge sarà privato, se non si corregge14.

Poliziano ricorreva a questo motivo anche in uno dei suoi rispetti che sembra tradire il ricordo, non solo incipitario, proprio del madrigale or ora visto (vv. 1-5): Amor bandire e comandar vi fa, donne belle e gentil che siete qui, che qualunque di voi un cor preso ha lo renda o dia lo scambio in questo dì: se non, ch’una scumunica farà.

Versi, questi, che rivelano a loro volta più di un punto di contatto con la nostra ballata, se è vero che anche in essa si prescrive analogo scambio di cuori quando le donne cantano: «Chi l’altrui core invola / ad altrui doni el core» (vv. 33-34). Il cerchio si chiude, allora, con il legittimo sospetto che i versi dell’anonimo trecentesco e soprattutto l’iniziale «comandar» risuonassero all’orecchio di Poliziano anche all’atto di comporre la stanza finale di Ben venga Maggio: «Ben venga il peregrino / Amor, che ne comandi ...». Tale costellazione di echi era consona al gusto del pubblico colto o appassionato, né poteva dispiacere a quello meno avveduto poiché il lavoro di Poliziano approdava ad un risultato assolutamente nuovo, in cui ogni tes-

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Rimatori del Trecento, a cura di G. Corsi, Torino, UTET, 19802, pp. 1063-4.

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sera del mosaico si era amalgamata perfettamente con le altre, tanto che solo un occhio esercitato era in grado di distinguerle. Riguardo a questa fusione di materiali disparati in forme di larga ricezione resta ancora valida, io credo, la vecchia osservazione formulata in margine a Ben venga Maggio da De Sanctis: «Vi si nota la fina eleganza di un uomo che fa oro ciò che tocca, congiunta con una perspicuità che la rende accessibile anche alle classi inculte» (Storia della letteratura italiana XI). La semplicità con la quale Poliziano seppe calarsi nel genere della ballata di maggio, mimetizzandovi le varie ascendenze poetiche che gli affioravano alla memoria, ne fece in effetti un gioiello d’arte poetica e al tempo stesso un prodotto di facile consumo. 4. Per chi, come noi, è abituato a identificare il primo maggio con la festa dei lavoratori è difficile immaginare oggi l’importanza che i festeggiamenti di Calendimaggio rivestirono almeno fino al tempo di Leopardi, che nelle Ricordanze vi accennava scrivendo: «Se torna maggio, e ramoscelli e suoni / van gli amanti recando alle fanciulle ...». Il socialismo ottocentesco, innestandosi su questa preesistente tradizione, finì per affidare alle note del verdiano Va’ pensiero il canto corale Vieni, o maggio, t’attendon le genti, quale auspicio dell’avvenire rivoluzionario; e l’allievo prediletto di Carducci, Severino Ferrari, memore certo dell’amato Poliziano, per il primo maggio del 1902 compose un sonetto che esordiva: «Oh ben venuto colle rose in testa, / mese di maggio, mese degli amori! / oh ben venuto primo maggio, festa / della natura e dei lavoratori!». Negli stessi anni un altro carducciano, il livornese Giovanni Marradi, rivisitava esplicitamente il testo polizianesco sul metro della ballata (sia pure tutta di endecasillabi) per esprimere però, a differenza di Ferrari, l’attesa di un Primo di maggio divenuto terribile perché insanguinato dalle conseguenze della lotta di classe («– Ben venga Maggio – cantava il toscano / popolo un dì nell’agile ballata...»). Fino al sopraggiungere di connotati legati ad una presa di coscienza da parte della classe operaia, il primo di maggio coincideva però anzi tutto, nel ciclo annuale, col senso della palingenesi. Prodotto, in parte, del retaggio pagano dei riti propiziatori e dei sacrifici alla dea Maja, i festeggiamenti di quel giorno costituivano, durante il Medioevo e il Rinascimento, un evento preparato e atteso a lungo, di grande rilievo nella vita economica e sociale. Si celebrava il rinnovarsi della natura e l’auspicata fecondità tanto della terra quanto degli esseri viventi, identificando in maggio il culmine della primavera, mese deputato alla raccolta delle messi e all’amore. Nelle città come nelle campagne, per l’occasione, i giovani intonavano canzoni ed intrecciavano danze, che spesso preludevano a vere e proprie azioni sceniche in onore della personificazione di Maggio incoronata dei fiori di stagione.

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IV Ballata di primavera (Ben venga maggio)

Dobbiamo sforzarci di ricollocare in tale cornice anche la ballata polizianesca, scritta appositamente per salutare l’arrivo di questo mese: non a caso la ripresa dice «Ben venga Maggio» e la prima stanza aggiunge «Ben venga primavera». Conservatosi nell’uso odierno con valore ottativo, il sintagma «ben venga» si era fossilizzato in una semplice formula di saluto già all’altezza di Boccaccio, se nell’ultima novella del Decameron si legge: «Griselda, così come era, le si fece incontro dicendo: – Ben venga la mia donna». Tale sorta di benvenuto era consueta nel fiorentino quattrocentesco: basti in proposito ricordare che nel Morgante pulciano, quando Ulivieri rivede Chiariella dopo una lunga lontananza, vorrebbe salutarla appassionatamente dicendole «Ben venga quella / che sola agli occhi miei fia sempre stella» (IX 65, 7-8); e allorché Antea si ripresenta a Rinaldo fuori delle mura di Babilonia, questi la accoglie dicendole appunto «Ben ne venga il mio bel sole!» (XVII 12, 6). Parte integrante della festa era una forma di corteggiamento e di buon auspicio, assai diffusa nella cultura medievale e rinascimentale, messa in atto dai giovani col rito simbolico così descritto da Paolo Toschi: Anche in Italia, come in gran parte dell’Europa, l’atto più significativo e importante dei riti primaverili consisteva nel “piantar maggio” o anche “appiccare il maggio”: la notte del 30 aprile gruppi di giovani si recavano nei boschi e ne asportavano o interi alberi, o rami verzicanti e fioriti, e attaccavano questi alle porte o alle finestre delle ragazze come dichiarazione d’amore, o piantavano quelli davanti alla casa delle maggiori autorità del paese, o anche nelle piazze o nelle aie. Con ciò esplicitamente intendevano recare il segno della rinnovata fecondità della Natura, che avrebbe a sua volta procurato ai singoli e alla comunità l’abbondanza e la fortuna15.

Negli stessi anni in cui Poliziano scriveva Ben venga Maggio, Luigi Pulci faceva dire al contadino che corteggia la Beca da Dicomano: «Io t’arrecai stanotte, Beca, un maio / e appicca’tel dinanzi al balcone»16. A questa stessa usanza si allude esplicitamente nella ripresa della ballata, poiché il «gonfalon selvaggio» altro non è che il rustico stendardo costituito, appunto, dal ramo fronzuto o alberello o cima d’albero mediante la cui offerta si dichiarava il proprio amore alla fanciulla del cuore oppure si rendeva onore ad una persona illustre addobbandone il palazzo. Ma anche le giovani che partecipavano alla festa – e specie quella che veniva eletta regina o contessa 13

Quanto ai rapporti di Poliziano con Antonio Squarcialupi, si ricordi almeno che in morte del musico Angelo scrisse il lusinghiero epitafio Jure novas talem, Florentia, marmore civem (cfr. Prose volgari inedite e poesie latine e greche edite e inedite di

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ovvero sposa di maggio – potevano recare in mano tale arboreo emblema, come ben sapeva ancora D’Annunzio, che nella già ricordata Cantata di Calen d’Aprile faceva elogiare al giovane Vannozzo l’amata Altea con accenti ostentatamente polizianeschi (vv. 269-74): Bevean l’onda inchinati i lauri a ’l suo passaggio. – Rendete e’ cuor furati – ella cantava a Maggio. E il gonfalon selvaggio fiorìa ne la sua mano.

Nel testo polizianeo, peraltro, gli aspetti folclorici legati al Calendimaggio sembrano costituire poco più di un pretesto per dar voce al tema vero e proprio, che è quello dell’invito all’amore. Giacché il risveglio della natura coincide con quello dell’inclinazione erotica, le cantanti chiamano ogni altra giovane donna ad aggiungersi a loro in compagnia dei propri innamorati (vv. 5-10 «a schiera / colli vostri amadori ... venite alla frescura / delli verdi arbuscelli»). Tale esortazione, diretta dapprima alle donne che le ascoltano, si ripete poi all’indirizzo di tutte quelle presenti entro il corteggio formatosi nel frattempo, per invitarle ad imitare le protagoniste sia nel canto che nel ballo, sicché anche il lemma «schiera» rimbalza, a sua volta, dal v. 5 fino al v. 22: «Ciascuna balli e canti / di questa schiera nostra». L’intento era quello di far sì che, mentre l’intera comunità celebrava la pienezza della vita, tutte le giovani donne si sentissero autorizzate e addirittura invogliate a ricambiare i sentimenti dei loro amanti. Nelle Stanze, si ricordi, la primavera è la stagione perenne del regno di Venere (I 72, 6). Si era ormai compiuto, peraltro, il processo di divulgazione di una concezione dell’amore quale esperienza nobilitante, di matrice stilnovistica, per cui anche Lorenzo avviava la ripresa di una sua ballata scrivendo «Chi non è innamorato / esca di questo ballo», e aggiungeva nella prima stanza: «Se alcuno è qui che non conosca Amore, / parta di questo loco / perch’esser non potria mai gentil core / chi non sente quel foco». L’invito alla danza e al canto non era certo nuovo al filone delle poesie per feste. In campo religioso esso rimonta al Duecento. Si pensi almeno ad alcune laude-ballate di Guittone d’Arezzo, frate godente, che esortano i devoti a danzare e a cantare per Cristo («Vegna, vegna chi vole giocundare, / e a la danza se tegna ... Profet’e santi invitan noi, Amore, / che ’n allegranza Te dovemo amare, / e cantar canti e inni in Tuo lausore ... Or venite, venite e giocundate, / sponse del mio Signore e donne mie, / e de tutt’allegrezza v’allegrate») o per la Vergine («Ora vegna a la danza, / e con baldanza danzi a

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tutte l’ore / chi spera in voi, Amore, / e di cui lo cor meo disia amanza. / O quanto è dilettoso esto danzare, / in voi laudare, beata Maria!»). Se l’invito a ballare e a cantare equivale, in tale ambito, ad un invito all’amore divino, a maggior ragione esso veniva interpretato in chiave erotica sul versante delle feste e delle rime profane. Sarà opportuno, in proposito, ridiscendere al secolo XV, per constatare come Poliziano potesse fruire di esempi a lui vicini per gusto e per cultura. Uno degli intellettuali che più contarono per i giovani della generazione di Poliziano fu Leon Battista Alberti. Di sicuro Poliziano avrà conosciuto un suo componimento poetico assai noto all’epoca. Intendo dire della frottola incentrata sul tema in questione, di cui si legga almeno il brano di avvio17: Venite in danza, o gente amorosa, non tenete ascosa la dolze fiammetta, che sì ben s’asetta in alma gentile; né sia uom tanto vile che se gli accade amare stia a sognare, e aspetti «ben faremo», che per venire a lo stremo, quale si stima o brama, convien che amor di dama s’acquisti per grande uso. Sai chi rimane escluso? el troppo savio e il troppo bello, il superbo, l’inerte e fello, e chi non sa profferire. Però pigliate ardire, sù, avanti, avanti, suoni, danze, canti e triumphi d’Amore, e così tale onore, cenni, atti e risi, sguardi non molto fisi, ma con arte e lieti, parlar’ mozzi, quieti, o strani e intesi; gli occhi, gli orecchi tesi a usar mille pruove,

Angelo Ambrogini Poliziano, raccolte e illustrate da I. Del Lungo, Firenze, Barbèra, 1867, pp. 155-6).

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palpeg[g]iar dita e altrove coperto e bellamente. Così chi d’amor sente or usi leg[g]iadria.

La poesia – in tutto 595 versi – insiste anche nel prosieguo nell’invitare ogni persona in età da amare ad approfittare, a tal fine, dell’occasione festiva. Il componimento ebbe vasto successo soprattutto a Firenze ove, non a caso, un oscuro verseggiatore di nome Tommaso Ceffi ne fece una propria imitazione che inizia Venite a ballo, giovinetti e donne18. In altre rime di Poliziano si scorgono echi piò o meno vistosi della frottola albertiana; non meraviglierebbe perciò che anche in Ben venga Maggio agisse, almeno sul piano tematico, la medesima suggestione19. Tornando alla ballata polizianesca, cade in taglio qui la discussione di un passo che non vedo spiegato dai commentatori. Mi riferisco ai vv. 11-14: Ogni bella è sicura fra tanti damigelli: ché le fiere e gli uccelli ardon d’amore il maggio.

Non è ben chiaro, a prima vista, di cosa debba sentirsi tranquilla o garantita («sicura») ogni bella. Ritengo che non si tratti, come modernamente si potrebbe pensare, del rispetto della sua virtù assicurato dal gran concorso di popolo. Coerentemente con l’esortazione che costituisce il Leitmotiv della ballata, ciò conferisce anzi la certezza che ognuna troverà, fra i tanti convenuti, il proprio corteggiatore, e ben disposto ad amarla se è vero che persino gli animali s’innamorano con l’arrivo di maggio. Ed ecco, nella terza stanza, l’invito topico, presente in tante canzoni a ballo di Lorenzo e di Poliziano stesso, rivolto verso coloro che possono godere dei vantaggi della gioventù e della venustà affinché colgano il momento propizio prima che l’età sfiorisca:

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Rimatori del Trecento..., p. 1041.

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Chi è giovane e bella, deh, non sie punto acerba, ché non si rinnovella l’età come fa l’erba; nessuna stia superba all’amadore il maggio.

L’esortazione affinché nessuna sia «acerba» (cioè ‘crudele’) verso l’innamorato si sviluppa nella stanza successiva, la quarta, in direzione del monito racchiuso nel distico finale: «Qual dura a lor si mostra / farà sfiorire il maggio» (vv. 25-26). Il quale non può non richiamare alla memoria la chiusa di altra ballata polizianesca, I’ mi trovai, fanciulle, un bel mattino, ambientata a metà maggio in un fiorito giardino (vv. 21-26): Quando la rosa ogni suo foglia spande, quando è più bella, quando è più gradita, allora è buona a mettere in ghirlande, prima che suo bellezza sia fuggita. Sì che, fanciulle, mentre è più fiorita, cogliàn la bella rosa del giardino.

Qui Poliziano dava voce ad analogo carpe diem giocando però sull’allusiva immagine della rosa, per la suggestione di un testo tardo antico – l’elegia De rosis nascentibus allora attribuita ad Ausonio – che egli conosceva bene e che commentò attentamente nel suo corso universitario del 148520. Nel finale di quel carme si leggeva: ‘cogli le rose, o vergine, ora che il fiore è giovane e appena fiorito’ (v. 49 «Collige, virgo, rosas, dum flos novus et nova pubes»), invito, questo, puntualmente riecheggiato anche nel finale dell’egloga di Lorenzo intitolata Corinto («Cogli la rosa, o ninfa, or ch’è ’l bel tempo!»). Sullo stesso motivo Poliziano fondava il settimo di una serie di sedici rispetti (inaugurata da O trïonfante sopra ogni altra bella) che formano una lunga richiesta d’amore ambientata, almeno nella fictio poetica, proprio in maggio: El tempo fugge e tu fuggir lo lassi, che non ha el mondo la più cara cosa; e se tu aspetti che ’l maggio trapassi, invan cercherai poi di côr la rosa.

15 16

Toschi, Le origini del teatro italiano..., pp. 453-54. Cfr. L. Pulci, Morgante e opere minori, a c. di A. Greco, Torino, UTET, 1997, p.

1375.

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Quel che non si fa presto mai poi fassi: or che tu puoi, non istar più pensosa. Piglia el tempo, che fugge, pel ciuffetto, prima che nasca qualche stran sospetto.

L’esortazione a coglier la rosa si lega qui, con classica iunctura, all’immagine allora diffusissima del tempus – ovvero del caso, della fortuna, dell’occasione – raffigurato con la nuca calva e con un gran ciuffo sulla fronte, a significare che bisognava afferrarlo tempestivamente perché, una volta passato, non lo si sarebbe potuto più acciuffare. In Ben venga Maggio, un po’ sorprendentemente, l’invito a non lasciar sfuggire l’attimo propizio non risulta intrinseco a questi motivi e sembrerebbe, quindi, precedere l’interesse per i versi dello pseudo-Ausonio, avvicinandosi piuttosto alla già menzionata frottola albertiana. Basterà a dimostrarlo, credo, un altro lungo brano rivolto alle donne (vv. 380-411)21: Né può chi tempo perde, o nol sa adoperare, mai più racquistare tesoro sì caro, perché gli è troppo avaro a’ dolci spassi. E poi che ’l tempo en vassi, donne, e non torna mai, oimè, che doglie e guai, e quanto stracca, oimè, anzi fiacca el ricordarsi, l’incolparsi “i’ dovea”, “i’ potea”, e gastigarsi dapoi, e gustar gli errori suoi, e darsi el torto, essere ardito e acorto ove non giova né forza né prova di sapere, d’arte o d’inganno. Oimè, oimè, che affanno! oimè, che doglia! Ove cresce voglia el sperar scema. 17

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Cfr. L. B. Alberti, Rime e versioni poetiche, edizione critica e commento a c. di

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Non abiate unque tema, donne, non vi sfidate. Che pur pensate, che vi tenete a.bbade, ora che ’l tempo accade a triumphar d’Amore?

Nei versi dell’Alberti il monito a non sprecare il tempo trae origine dalla considerazione che le giovani devono approfittare del momento favorevole per sconfiggere il tirannico Amore, ovvero per soddisfare le proprie brame erotiche, giacché altrimenti, sfuggita l’occasione, quelle stesse velleità daranno luogo ad aspri tormenti. Anche qui, come in Ben venga Maggio, il fuggevole momento da carpire sembra da identificare insieme nella giovinezza e nella festa stessa. Coerentemente con questa tematica, il testo di Poliziano si chiude con l’inesorabile avvento di Cupido. Sesta e settima stanza registrano, in effetti, l’apparire di un amorino alato: Chi l’altrui core invola ad altrui doni el core. Ma chi è quel che vola? È l’angiolel d’Amore che viene a fare onore con voi, donzelle, al maggio. Amor ne vien ridendo, con rose e gigli in testa, e vien di voi caendo: fategli, o belle, festa. Qual sarà la più presta a darli e fior del maggio?

Cupido, che inghirlandato di rose e gigli sbatte le ali, va cercando («caendo») ogni bella giovinetta per indurla a festeggiare debitamente. Con squisita circolarità segue, nell’ultima stanza, il benvenuto finale indirizzato ad Amore stesso (ancora «Ben venga»), che segna, evidentemente, il culmine dell’evento scenico. Pressapoco in quegli anni anche il greco Michele Marullo Tarcaniota, descrivendo in un’ode latina una festa di Calendimaggio verosimilmente fiorentina (Epigrammata LXIII), tra fiori e canti faceva agire un Cupido svolazzante («circumvolitans») intento a stringere i giovani in piacevoli danze. E un secolo più tardi l’imitazione della ballata polizianesca ristretta da Giovan Battista Strozzi in un breve madrigale avrebbe salutato subito l’avvento concomitante di Maggio e Amore, detti addirittura fratelli:

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Ben venga Maggio e suo gentil fratello Amor, ben venga Amore con quante figlie e suore ha questi e quello, ben venga Maggio e Amor con suo drappello angelico, divino: e venga o mai non parta ogni mattino!22

L’abbinamento è in pratica lo stesso che, al femminile, si ritrova nell’accostamento botticelliano di Venere e Flora. Esso era ed è, di per sé, scontato poiché i tepori primaverili ed il rinverdirsi della natura invitano da sempre ad amare. «Maggio risveglia i nidi, / Maggio risveglia i cuori ... Canta germoglia ed ama / L’acqua la terra il ciel» avrebbe scritto Carducci nella sua Maggiolata (Rime nuove L). 5. Il significato di Ben venga Maggio travalica i confini del testo. Il lettore che voglia comprenderne appieno il senso deve compiere un percorso che va oltre quello di una normale esegesi. Non è questione di addentrarsi nei meandri misterici e allegorici di altri scritti dell’epoca. Si tratta invece di lasciarsi guidare da pochi elementi coreografici e scenici a ricostruire mentalmente i caratteri dell’esecuzione per cui il testo è nato e senza la quale esso vive ineluttabilmente di una vita tutta cartacea, dunque non autentica. Da questo punto di vista, restano ancora validi i suggerimenti forniti da un maestro della scuola storica, Guido Mazzoni, che per primo cercò di contestualizzare la ballata: La brigata che noi dobbiamo immaginarci, per capire davvero la canzone del Poliziano, procede innanzi per le vie agitando i rami primaverili, i “gonfaloni selvaggi”; e ha in mezzo alle sue schiere un bel carro addobbato, con sopravi un personaggio divino, il Sir d’Amore, come nella famosa festa descritta da Giovanni Villani, con la data del 1283, cui presero parte mille o più, tutti vestiti di robe bianche, con un signore detto dell’Amore. Il coro, intorno al carro di quel trionfo, sosta sulle piazze minori e canta Ben venga maggio con una parte di ciò che segue; ed è composto di donne, che, al solito, incoraggiano sé medesime, e le compagne e tutte le donne giovani, ad amare. Ma perché han seco, nel corteggio, i bei giovani che stanno per giostrare, e sono pomposamente armati e a cavallo, motteggiano gentilmente: Per prender le donzelle Si son gli amanti armati. Arrendetevi, belle, A’ vostri innamorati!

G. Gorni, Milano-Napoli, Ricciardi, 1975, pp. 77-78.

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Di sosta in sosta, a quel punto del coro, il Sire d’Amore, in figura (come allora le arti figurative si piacevano di tratteggiarlo) tra il nume e l’Angelo, batteva le ali richiamando le sue fedeli ad ascoltarlo23.

Il testo acquista, in effetti, tutta la sua forza evocativa solo se riusciamo ad ‘ascoltarlo’, almeno mentalmente, nell’aura che gli è propria: quella di una sfarzosa e briosa festa rinascimentale, animata da balli, canti e cortei trionfali. Tenuto conto di tutto ciò, la migliore lettura che si potrebbe dare di questa ballata sarebbe una esecuzione canora e coreutica, resa purtroppo impossibile dall’assenza di una documentazione adeguata. La notazione musicale che accompagnava i versi di Poliziano, difatti, non ci è pervenuta. I musicologi l’hanno ricostruita sulla base di altri componimenti che le fonti dicono essersi cantati «come» (cioè sull’aria di) Ben venga Maggio24. Si tratta tuttavia di un restauro approssimativo limitandosi le fonti quattrocentesche a dare solo tale informazione, che all’epoca rendeva superfluo allegare la musica: per quest’ultima ci si vede costretti, dunque, a fidarsi della testimonianza fornita dalla tarda raccolta laudistica di Serafino Razzi (1563). In accordo col genere poetico, inoltre, le cantanti stesse avranno svolto alcune figure di danza difficili da precisare, ma certo a ruota o a girotondo. Su un ballo tondo si chiude del resto una Commedia di Maggio senese, stampata nel 1526, in cui l’esordio della ballata polizianesca riecheggia più volte mediante il ritornello: «Ben venga Maggio, ben venga Maggio / ch’ognun oggi s’innamora»25. Nel finale – si è visto – un amorino sopraggiunge, forse su un carro, e si accompagna alla festante comitiva nella celebrazione del nuovo mese. Un’idea della scena qui evocata si può avere leggendo come Folengo nel Baldus (III 179-96), pochi decenni più tardi, descriveva appunto una festa di maggio: Lux venit interea, qua Mantua tota bagordat: prima dies maii nitido sub Apolline ridet. Gentilhomo suum quisquam iubet ante palazzum plantari arboreis antennam frondibus altam,

18 G. Gorni, Un centone albertiano di Tommaso Ceffi, «Studi e problemi di critica testuale», 12 (1976), pp. 67-68. 19 Sull’incidenza della frottola albertiana in altre rime di Poliziano vedi D. Delcorno Branca, Il laboratorio del Poliziano. Per una lettura delle «Rime», «Lettere italiane», 39 (1987), p. 195 n. 112. Un accenno alla presenza in Ben venga Maggio di «alcuni motivi che paiono staccati dal gran fregio» della frottola stessa è rimasto consegnato ad una pagina di D. De Robertis, L’esperienza poetica del Quattrocento, in Storia della

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quam populus chiamat de mensis nomine ‘maium’. Turba triumphales seguitat plebaea carettas, quas huc quas illuc seu bos seu vacca per urbem grassa tirat variisque rosis ornata caminat. Stat super alta strues foliis tessuta naranci, et myrthi, et lauri, mazuranae, rosque marini. Omne piopparum genus hic omnisque virentum ulmorum speties, querzarum hederaeque sequaces sparpagnant capitum crines decorantque quadrigas. De pasta nevolas, de orbello mille papyros fila tenent, quos aura movens strepitescere cogit. Istius in cima momariae astare Cupido cernitur alatus, puer orbus et absque mudanda, diversosque strales duri scocat ille balestri26.

Anche qui si registra, come si noterà, l’usanza di ornare la facciata delle case con un’asta coronata di frasche, simbolo del maggio; e anche qui si ha una sorta di festoso triumphus Cupidinis da considerarsi affine a quello che s’intravede nel finale della ballata polizianesca. Insieme con momenti musicali, scenici e coreutici, la festa di Calendimaggio accoglieva peraltro giochi di vario genere, e proprio una gara risulta intrinseca alla composizione della ballata di Poliziano. Oltre che essere il mese delle messi, delle rose e dell’amore, maggio era anche il mese più consono all’armeggeria, come risulta già dal sonetto relativo entro la corona di Folgóre da San Gimignano Di maggio vi do di molti cavagli. Anche i vv. 2324 della ballata polizianea («ecco che i dolci amanti / van per voi, belle, in giostra») lasciano scorgere un contesto festivo incentrato, appunto, su un torneo equestre, e la rubrica preposta al componimento nel codice Oliveriano 1383, su cui tornerò fra un momento, conferma che non si tratta di una semplice metafora galante, ma di allusione ad una giostra vera e propria. Nella mentalità cortese, la gara marziale si lega quasi di necessità alla celebrazione degli amori. Era uso infatti che i cavalieri giostrassero in nome delle rispettive dame, né ostava – trattandosi di un onore in genere scevro da effettive implicazioni sentimentali – che queste fossero maritate. Come ben sappiamo anche dalle Stanze, nella giostra del 1475 Giuliano de’ Medici, ad esempio, combatté in nome della sua ideale dama Simonetta Cattaneo, moglie di Marco Vespucci. E sei anni prima il fratello maggiore Lorenzo – in omaggio a questo rito galante – aveva anch’egli gareggiato e vinto in nome della bella e vagheggiata Lucrezia Donati, sposa di Niccolò Ardinghelli. In

Letteratura Italiana, dir. da E. Cecchi e N. Sapegno, Milano, Garzanti, 1966, III, p. 527.

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questo senso va inteso l’avvertimento dei vv. 27-28 («Per prender le donzelle / si son gli amanti armati»): in palio era insomma l’amore delle donne che inghirlandavano il capo ai cavalieri, i quali gareggiavano per conquistarle sul campo («prender»), sia pure idealmente. Che la ballata fungesse d’innesco per il meccanismo di una giostra si evince del resto con esattezza – come dicevo – dalla rubrica del codice Oliveriano 1383. Vale la pena di rileggerla: Canzona d’Ang[elo] Politiano di maggio, la quale s’aveva a chantare per donne nell’entrare de’ giostranti in campo, et, coronandogli, per loro amore giostravono.

Nella sua concisione, la didascalia c’informa su due aspetti entrambi di grande interesse: 1) l’esecuzione era prevista al momento dell’ingresso sul campo di gara da parte dei cavalieri che avrebbero corso la giostra; 2) ciascuna donna, alla fine del canto, poneva la propria ghirlanda sulla testa di uno di essi, investendolo così della responsabilità e dell’onore di combattere – secondo il rituale cortese e cavalleresco – per amor suo. Non c’è motivo di dubitare dell’autenticità di tali indicazioni, tanto più che quella relativa al coronamento degli armigeri collima con l’auspicio formulato dalle cantanti stesse nell’ultima stanza: Ben venga il peregrino Amor, che ne comandi che al suo amante il crino ogni bella ingrillandi, ché li zitelli e’ grandi s’innamoran di maggio.

Commentando questi versi, Daniela Delcorno Branca ha scritto: «La donna donava la ghirlanda come premio al vincitore del torneo»27. In realtà, il confronto con la citata rubrica dell’Oliveriano toglie ogni dubbio circa il fatto che l’ingiunzione di Amore riguardasse ogni singola donna e che esse non dovevano inghirlandare il vincitore – a rigore ancora ignoto – bensì ciascuna il proprio campione prima che costui entrasse nell’agone. Della breve rappresentazione era partecipe, evidentemente, un fanciullo in costume da Cupido – che entra in scena, ricordo, all’altezza della sesta stanza – cui toccava il compito di dare, col proprio ordine, l’avvio vero e proprio al meccanismo del torneo. Il parallelo fra i giostranti con la corona flo-

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Cfr. M. Pastore Stocchi, Il commento del Poliziano al carme «De rosis», in

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reale e Amore che «ne vien ridendo, / con rose e gigli in testa» (vv. 39-40) spiega anche il valore simbolico dell’azione delle donne stesse. Ogni armigero riceveva una investitura di carattere erotico che lo assimilava, in qualche misura, a Cupido e insieme lo autorizzava a combattere per acquistarsi la benevolenza della propria dama. Tutto ciò lascia intendere che le cantanti prescelte appartenevano a quella gioventù dorata che nella situazione galante così prospettata doveva riconoscersi appieno: non cantatrici e danzatrici di professione quindi – si arguisce – ma giovinette delle famiglie più in vista, che si dilettavano nel canto e nella danza. La pratica di tali arti era del resto requisito quasi indispensabile, a Firenze come altrove, per le fanciulle del ceto più eminente, e non avrebbe mancato di ricordarlo l’ultimogenito di Lorenzo, Giuliano, chiamato dal Castiglione, nel terzo libro del Cortegiano, a delineare la figura della perfetta dama di corte. 6. Raggiunta una certa confidenza col testo e col suo imprescindibile contesto, il lettore si sente ora nell’empasse in cui si troverebbe un detective che avesse compreso la dinamica di un crimine senza però arrivare a scoprirne il movente. Piacerebbe a questo punto, in altre parole, sapere con esattezza per quale festa fu scritta Ben venga Maggio e magari poter dare un nome a chi – accanto a Poliziano e forse a Lorenzo de’ Medici – vi prese parte. Ce lo impediscono, ovviamente, la rovina dei secoli trascorsi e ancor di più il fatto che la cronologia della ballata non ci è chiara. Nino Pirrotta, constatato che la musica di Ben venga Maggio servì di accompagnamento a laudi ad essa metricamente identiche composte da Lucrezia Tornabuoni, madre del Magnifico, deceduta il 25 marzo 1482, ne dedusse che il testo deve essere anteriore a tale data28. Le sue conclusioni sono state accolte in seguito da don Giulio Cattin29. Daniela Delcorno Branca ha preferito invece attestarsi sulla prudenziale datazione a prima del marzo 1485 (ma in realtà, riportando la data dal calendario fiorentino di allora al nostro, 1486) quando fu stampata dai torchi di Francesco Buonaccorsi la raccolta di laudi inclusiva di alcune, della Tornabuoni e di altri, precedute dall’avvertenza «Cantasi come Ben venga maggio»; e anche ha messo in guardia dal considerare la musica in questione come nata ad un parto con la ballata, perché potrebbe essersi trattato di un accompagnamento di epoca anteriore rimasto magari legato, per il pubblico, ad un testo di particolare effetto come quello di Poliziano («poteva

Miscellanea di studi in onore di Vittore Branca. III. Umanesimo e Rinascimento a Firenze e Venezia, Firenze, Olschki, 1983, pp. 397-422.

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trattarsi di una melodia preesistente corrispondente a questo schema metrico e definita in base a un testo particolarmente noto come poteva essere Ben venga Maggio»)30. Francesco Luisi, inoltre, ha richiamato l’attenzione sull’incertezza del luogo in cui il testo fu scritto, affacciando l’ipotesi di una composizione non fiorentina, ma risalente ad un non meglio precisabile soggiorno pratese dell’autore31. A differenza di quanto si verifica per altri testi polizianei dedicati alla cantante pratese Ippolita Leoncini, nessun indizio fa pensare, tuttavia, che la ballata sia stata composta a Prato. In definitiva, stando a tali pronunciamenti, l’unica cosa certa è che Poliziano scrisse Ben venga Maggio diversi anni prima della lettera a Lorenzo da Acquapendente, del 2 maggio 1488, in cui gli raccontava, fra l’altro, di essersi deliziato il giorno precedente ascoltando non meglio specificate «Canzone di Calendimaggio». Per fare qualche passo in avanti sulla difficile strada dell’accertamento cronologico occorre ripartire, a mio avviso, dalla più che ragionevole deduzione di Pirrotta che lo ha indotto a datare la ballata ante 1482. Il fatto che le fonti musicali facciano esplicito riferimento a Ben venga Maggio per indicare la melodia di alcune laudi della Tornabuoni significa, di per sé, che la ballata era universalmente nota allorché costei compose i propri testi. Inoltre, lo stesso elevato numero di laudi che si cantavano come Ben venga Maggio (oltre alle quattro della Lucrezia, due di Feo Belcari, una di Francesco d’Albizzo e altre adespote) presuppone il vasto successo dei versi di Poliziano. Ma anche a prescindere dalla musica, sono gli stessi testi poetici della Tornabuoni che si dimostrano inequivocabilmente derivati dalla suggestione della ballata mediante il procedimento, allora consueto, del cosiddetto contrafactum. A chi abbia la pazienza di fare un confronto tra le quattro laudi e il testo di Poliziano apparirà chiaro che il tema dell’arrivo di Maggio ha subìto altrettanti travestimenti spirituali. Lo schema metrico e il gioioso incedere della ballata sono stati piegati a celebrare episodi biblici analogamente fondati su un moto in direzione di chi parla: l’avvento di Cristo (Ecco el Messia), la sua nascita e l’ascesa al Calvario (Ben vegna osanna), la sua venuta nel limbo a liberare i patriarchi (Ecco el re forte), la discesa dello Spirito santo sugli apostoli nel giorno della Pentecoste (Viene ’l messaggio). La pia Lucrezia coglieva dunque, nel suo modello, l’aspetto che meglio poteva servirle di supporto ad una tematica religiosa, ma che in qualche caso finiva per condizionare in maniera evidente il rifacimento. In Ecco el re forte, ad esempio, si assume la prospettiva delle anime del limbo, che

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Alberti, Rime e versioni poetiche..., pp. 91-93.

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possono salutare la venuta di Cristo insistendo sulla replicazione di voci del verbo venire, salvo mutare bruscamente punto di vista e ambientazione nella stanza finale assegnata a Cristo stesso, che chiude dando loro il benvenuto in paradiso. Il termine ultimo per la composizione di Ben venga Maggio può essere spostato, del resto, ancora più indietro rispetto alla data di morte della Tornabuoni, e non solo perché per poter assurgere al rango di paradigma musicale la ballata doveva essere conosciuta, si suppone, da qualche tempo. Esiste infatti un manoscritto della Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze, il Magliabechiano XXXV 119, in cui due delle laudi in questione (Ben vegna osanna, Ecco el Messia) furono trascritte dalla mano di un certo Bruno Lachi nell’ottobre del 148132. Non c’è dubbio perciò, dopo quanto si è detto, che Ben venga Maggio a quel punto doveva essere già stata scritta, e forse non da poco. Qualche ulteriore spiraglio di luce può illuminarci qualora si tenga presente un dato finora indebitamente trascurato: cioè che la ballata fu composta in occasione di una festa di Calendimaggio in cui era prevista, tra i vari momenti di divertimento, anche una giostra. Ora, tra la fine degli anni Settanta e l’inizio degli anni Ottanta Firenze visse – com’è noto – un periodo difficilissimo. Il 26 aprile del 1478 la congiura ordita dai Pazzi – che portò alla morte di Giuliano de’ Medici, fratello di Lorenzo, e al ferimento del Magnifico stesso – aprì una gravissima crisi all’interno dell’oligarchia fiorentina, e insieme dette il via all’ostilità di Sisto IV, che scomunicò Lorenzo e lanciò l’interdetto contro la città. Con la minaccia dell’esercito napoletano che si profilava oltre i confini e Lorenzo impegnato, da un lato, a puntellare la propria autorità all’interno dello stato, dall’altro a ricucire i rapporti col papato e con gli Aragonesi che ne erano i potenti alleati, i fiorentini avevano poco da rallegrarsi e ancor meno da festeggiare. Per certo il primo maggio del ‘78 non si corse alcuna giostra, né risulta che nei giorni precedenti la tragedia se ne preparasse una. In ogni caso, è poco verosimile che un familiaris di Lorenzo come Poliziano, istitutore dei suoi figli, collaborasse ad una festa di maggio con un proprio componimento profano durante tempi sì neri per la famiglia Medici. La morte di Giuliano, cui Poliziano era legatissimo, provocò addirittura l’abbandono dell’ambizioso progetto delle Stanze, che rimasero perciò incompiute. Figuriamoci se egli avrebbe pensato a scrivere ballate per un’occasione ufficiale in una situazione tanto penosa e con una tale

22 Trascrivo il testo dal ms. II. IV. 16, cc. 95v-96r, della Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze.

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IV Ballata di primavera (Ben venga maggio)

disposizione d’animo: non prima, quanto meno, che la strenua opera diplomatica del Magnifico, grazie al viaggio a Napoli del marzo del 1480, ottenesse quella pace separata con Ferdinando d’Aragona che rese ai fiorentini la speranza. Nel lasso di tempo intercorso fra il ritorno di Lorenzo dal napoletano e la menzionata trascrizione, nell’ottobre del 1481, delle laudi della sua pia madre da parte di Bruno Lachi si danno solo due circostanze in cui la ballata potrebbe aver visto la luce: cioè il primo maggio del 1480 e quello del 1481. La forbice sembra piuttosto stretta. Anche ammettendo che l’intervallo fosse sufficiente perché il testo avesse modo di acquisire la notorietà sufficiente a proporsi quale paradigma musicale per i componimenti della Tornabuoni, per accedere all’ipotesi che Ben venga Maggio risalga ad una di queste due date occorrerebbe superare un’altra difficoltà. Se così fosse, dovremmo supporre infatti che la Lucrezia abbia composto in limine vitae ben quattro delle otto laudi che in tutto di lei ci rimangono: cosa possibile, evidentemente, ma non verosimile. Senza escluderlo del tutto, dunque, converrà orientarsi piuttosto verso l’ipotesi che la ballata risalga a prima del maggio 1477. D’altro canto, verso la fine del 1473 Poliziano, giovinetto non ancora ventenne, veniva accolto in casa Medici con la fama non di poeta in volgare, che acquistò più tardi, ma di elegante traduttore in latino di alcuni libri dell’Iliade. Nessuna delle sue rime è riconducibile a data anteriore e sembra poco probabile, in effetti, che egli avesse composto prima poesie destinate all’intrattenimento, per loro stessa costituzione legate a quella cerchia dominante che organizzava le feste pubbliche e private. Il periodo da prendere seriamente in esame per la stesura della ballata viene ad essere, di conseguenza, quello compreso fra il primo maggio del 1474 e il primo maggio del 1477. Poiché le fonti documentarie relativamente a tale arco di tempo ci hanno conservato notizia di alcune giostre di carnevale tenutesi a Firenze, ma non parlano di nessuna giostra di maggio, le congetture plausibili sono – credo – soltanto due: 1) la ballata fu scritta per una giostra che si fece effettivamente, ma della quale non è rimasta traccia; 2) la ballata fu scritta in vista di una giostra progettata che poi, come a volte accadeva, non venne corsa33. Più difficile, anche in considerazione della posizione di Poliziano, è che la giostra in questione fosse stata organizzata non a Firenze, bensì in un centro più o meno periferico della Toscana medicea.

23 G. Mazzoni, Un capolavoro del Poliziano tra la canzon di maggio, il canto carnascialesco e la festa mitologica, «Lares», 1 (1930), pp. 9-12.

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A tale proposito giova ricordare che la nostra conoscenza di tali tornei è legata perlopiù all’eventuale registrazione di cronisti come Giusto d’Anghiari, Luca Landucci o Benedetto Dei, i quali però scrivevano anzi tutto per fermare sulla carta memorie familiari o personali e tra gli eventi pubblici annotavano quelli di maggior rilievo o fasto. Molte giostre, dunque, saranno sfuggite alle maglie della loro rete. Se davvero Ben venga Maggio risalisse al periodo così isolato, si capirebbe che lo schema metrico sia avvicinabile, fra quelli degli altri componimenti polizianei, solo al coro finale delle ebbre Baccanti nella Fabula di Orfeo: anch’essa d’incerta datazione ma sempre più chiaramente situabile intorno alla metà degli anni Settanta34. E le concordanze si estendono al piano tematico, trattandosi anche qui di un invito o richiamo, sia pure svolto in chiave manifestamente carnevalesca e orgiastica. Sebbene l’occasione specifica e la data precisa continuino a sfuggirci, insomma, entro il termine cronologico fissato con certezza dalle imitazioni e dal decesso di Lucrezia Tornabuoni sono questi gli anni più fortemente indiziati di aver visto nascere Ben venga Maggio. Salvo contraria prova, dunque, si potrà assumere che il gaudeamus igitur delle cantanti rifletteva, nella fattispecie, lo slancio vitale della Firenze degli anni d’oro di Lorenzo, tra la guerra di Volterra del 1472 e la congiura dei Pazzi. Proprio in quel periodo, del resto, il Magnifico ebbe più vivo l’interesse per la danza, come dimostra il fatto che a tale altezza di tempo risalgono i contatti col famoso maestro di ballo Guglielmo da Pesaro e che in quegli stessi anni Lorenzo abbia composto in prima persona due basse danze intitolate Venus e Lauro35. Tutto lascia pensare allora che la ballata sia un parto del Poliziano ventenne o poco più, entrato di recente nel giro mediceo, e che il giovane umanista si affrettasse così a fiancheggiare le tendenze del prestigioso mecenate, tanto che anche l’adozione del mot refrain sembrerebbe rendere un garbato omaggio (si è visto nel secondo paragrafo) al suo gusto poetico.

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Per due diverse ipotesi di ricostruzione della musica di Ben venga Maggio si vedano rispettivamente W. Osthoff, Theatergesang und darstellende Musik in der italienischen Renaissance, Tutzing, Schneider, 1969, II, pp. 153-54; e N. Pirrotta, Li due Orfei. Da Poliziano a Monteverdi, Torino, Einaudi, 1975, pp. 28-29. 25 Cfr. Luisi, Ben venga maggio ..., pp. 212-13.

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V IMPLICAZIONI CORTIGIANE NELLA FAVOLA TEATRALE: IL CASO DELL’ORFEO

Il problema della cronologia della Fabula polizianesca è stato avviato a soluzione diversi anni or sono da un intervento di Antonia Tissoni Benvenuti, che sulla base di nuovi documenti ha persuasivamente dimostrato l’inaccettabilità della proposta avanzata a suo tempo dal Picotti – e di lì in poi generalmente accolta – di ritenerla composta a Mantova nel 1480, osservando peraltro che il termine ante quem dovrebbe coincidere con la data della congiura dei Pazzi (26 aprile 1478), dopo la quale anche il cardinal Gonzaga passò a far parte, per i fiorentini, delle file dei nemici1. Se non è possibile formulare per ora una più precisa ipotesi di datazione, occorre almeno richiamare l’attenzione degli studiosi su alcuni aspetti della rappresentazione che inducono a collocarla nell’ambito dei festeggiamenti per il carnevale. Al chiasso dei giorni che precedono il martedì grasso parrebbero alludere, com’è noto, i «continui tumulti» che avevano fatto corona – per esplicita dichiarazione dell’autore – alla fulminea stesura dell’operetta2. Ma ciò che rivela la destinazio1 Cfr. A. Tissoni Benvenuti, Il viaggio di Isabella d’Este a Mantova nel giugno del 1480 e la datazione dell’«Orfeo» del Poliziano, «Giornale storico della letteratura italiana», CLVIII (1981), pp. 368-82; e Ead, L’Orfeo del Poliziano, con il testo critico dell’originale e delle successive forme teatrali, Padova, Antenore, 1986, pp. 58-70. Per il quadro dei più recenti interventi in merito alla questione della datazione, A. Bettinzoli, Rassegna di studi sul Poliziano (1972-1986), «Lettere italiane», XXXIX (1987), pp. 110-13; da integrare con P. Ventrone, «Philosophia. Involucra fabularum»: la ‘Fabula di Orpheo’ di Angelo Poliziano, «Comunicazioni sociali», XIX (1997), pp. 137-79. 2 Sulla probabile occasione carnevalesca della rappresentazione si sono soffermati M. Vitalini, A proposito della datazione dell’«Orfeo» del Poliziano, «Giornale storico

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ne carnascialesca è soprattutto il fatto che il martedì grasso era, con accostamento nient’affatto peregrino, il giorno del baccanale per antonomasia. Non a caso per il carnevale del 1490 il Magnifico stesso avrebbe scelto questo tema affidandolo alla celebre Canzona di Bacco, in cui il dio invitava tutti alla danza orgiastica (v. 55 «Ciascun suoni, balli e canti») in termini non dissimili dalle esortazioni della corifea nel finale polizianesco, ammiccante, più che alle altre Baccanti, agli spettatori (vv. 323-37 «Ognun corra ’n zà e in là / come vede fare a me [...] Ognun gridi: Bacco, Bacco! [...] Po’ co’ suoni faren fiacco»). E anche per Poliziano tale equivalenza era scontata. Lo prova la nota parzialmente autografa vergata in calce al testo di Columella – nella raccolta incunabula di Scriptores rei rusticae ora presso la Bibliothèque Nationale di Parigi, Rés. S. 439, c. 239v – ove la collazione effettuata con l’aiuto di Niccolò Baldelli, di Roberto Minuzio e del nipote Lattanzio è datata «III id. Februarias, ipso bacchanaliorum die, 1493» (m. f.): ovvero 11 febbraio 1494, martedì di carnevale appunto3. Il baccanale del coro finale doveva essere dunque, per il poeta e per il suo pubblico, scena pertinente agli eccessi del martedì grasso, meglio di ogni altra in grado di esprimere l’intrinseco carattere della festa. Si spiega così che il coro stesso sia modulato su una ballata di ottonari che ha tutte le caratteristiche del canto carnascialesco, a cominciare dall’ambiguo invito iniziale «Chi vuol bevere, chi vuol bevere / venga a bevere, venga qui»4. Si tenga

della letteratura italiana», CXLVI (1969), pp. 249-50; N. Pirrotta, Li due Orfei. Da Poliziano a Monteverdi, con un saggio critico sulla scenografia di E. Povoledo, Torino, Einaudi, 1975, pp. 8-13; E. Travi, L’esperienza mantovana del Poliziano e l’«Orfeo», in Studi in onore di Alberto Chiari, Brescia, Morcelliana, 1972, II, p. 1299; E. FerrariBarassi, Le origini del melodramma, in AA. VV., Storia dell’opera, I, 1, Torino, UTET, 1977, p. 32; C. Munro Pyle, Il tema di Orfeo, la musica e le favole mitologiche del tardo Quattrocento, in Ecumenismo della cultura, a cura di G. Tarugi, Firenze, Olschki, 1981, II, pp. 129-33. 3 Cfr. Mostra del Poliziano nella Biblioteca Medicea Laurenziana, a cura di A. Perosa, Firenze, Sansoni, 1955, pp. 26-27; e I. Maïer, Les manuscrits d’Ange Politien, Genève, Droz, 1965, p. 355. Il carnevale aveva di fatto inglobato parecchi motivi dei Baccanali, rafforzando un’analogia che era di per sé evidente, al punto che un secolo più tardi si sarebbe consigliato al popolo fiorentino di riservare al gioco del calcio, «fra gli altri giorni, quelli delle feste di Bacco, cioè Carnovale» (G. M. Bardi, Discorso sopra il giuoco del calcio fiorentino [1580], in Sport e giuochi. Trattati e scritti dal XV al XVIII secolo, a c. di C. Bascetta, Milano, Il Polifilo, 1978, I, p. 140). 4 L’incidenza di questa formula iniziale nel repertorio carnascialesco («Chi vuol di voi giucare agli aliossi / venga, che noi siàno parati e mossi», «Chi vuol udir bugie o novellacce / venga ascoltar costoro», ecc.) si può valutare in base alla tavola dei canti

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conto poi che nell’antica tradizione, in Toscana come altrove, i festeggiamenti del martedì grasso prevedevano la drammatizzazione del rito mediante l’uccisione di un pupazzo che rappresentava la personificazione del carnevale, stracciato e bruciato dal gruppo dei festanti spesso mascherati da donne; sicché – con le parole di un illustre storico di questi fenomeni – «il lugubre e il gioioso si fondono in un unico spettacolo, come in un unico significato: muore il male, per mano del coro, che canta e danza e si esalta. [...] La morte si risolve in un’orgia»5. E se non erro – per quanto si tratti di aspetti che sfuggono in parte ad un confronto – la procedura è prossima al finale dell’Orfeo, in cui le seguaci di Dioniso, in preda all’ebbrezza, fanno in brani il corpo del protagonista ballando e cantando a ritmo frenetico. Il gesto del mitico cantore si identificava del resto per ormai lunga tradizione con il cedimento nei confronti dei «saeculi desideria», tanto che Dante, giunto sulla soglia del Purgatorio, aveva mirato a distinguersi proprio da tale precedente astenendosi dal voltarsi verso l’Inferno6. E un uomo come Poliziano non poteva ignorare

editi e inediti in calce a Ch. Singleton, Nuovi Canti Carnascialeschi del Rinascimento, Modena, S.T.M., 1940, pp. 159-70. Per il doppio senso osceno di ascendenza boccaccesca su cui la ballata è strutturata rinvio a S. Carrai, intr. ad A. Poliziano, Stanze – Fabula di Orfeo, Milano, Mursia, 1988, pp. 13-15, e al commento, pp. 158-60. E sul ruolo centrale che l’equivoco osceno riveste nei canti si ricordi almeno G. Ferroni, Il doppio senso erotico nei canti carnascialeschi fiorentini, «Sigma», n. s., XI (1978), pp. 233-50. 5 P. Toschi, Le origini del teatro italiano, Torino, Boringhieri, 19793, pp. 159-60 e 308-26 (da quest’ultima pagina la citazione). Lo strazio di Carnevale era evento consueto nella Firenze rinascimentale, se è vero che un gruppo di cantori ne assunse le difese intonando l’adespota Canzona degli studianti e di Carnovale (Canti carnascialeschi del Rinascimento, a c. di Ch. Singleton, Bari, Laterza, 1936, pp. 168-69: «Questo che innanzi viene è Carnovale, / e noi studianti di Parigi siàno / ch’a pietà mossi del suo grave male, / perché ragion pur vale, / la sua giusta difesa preso abbiàno»). Dal paragone pulciano con Zoe Paleologa, nella lettera a Lorenzo del 20 maggio 1472, si deduce che il fantoccio rappresentava una figura untuosa: «Io non so s’io mi vidi mai Carnesciale o cosa tanto unta» (L. Pulci, Morgante e lettere, a cura di D. De Robertis, Firenze, Sansoni, 1962, p. 980), come conferma un accenno del Simposio laurenziano, IV 38 «unto e bisunto come un Carnesciale»; dal quale sembra potersi dedurre anche che esso recava una corona: VI 90 «ch’e non sia coronato Carnasciale» (L. De Medici il Magnifico, Simposio, ed. critica a c. di M. Martelli, Firenze, Olschki, 1966, pp. 124 e 137). 6 Cfr. A. Limentani, Casella, Palinuro e Orfeo. ‘Modelli narrativi’ e ‘rimozione della fonte’, in La parola ritrovata, a c. di C. Segre, Palermo, Sellerio, 1982, pp. 82-98. Per la tradizione esegetica del mito si vedano J. B. Friedman, Orpheus in the Middle Ages, Cambridge (Mass.), Harvard University Press, 1970, pp. 106-45, e P. Vicari, Sparagmos: Orpheus among the Christians, in Orpheus. The metamorphoses of a mith, edited by J. Warden, Toronto-Buffalo-London, University of Toronto Press, 1982, pp.

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che nel quarto libro del De laboribus Herculis Coluccio Salutati si era indugiato a dimostrare che i poeti avevano raffigurato in Orfeo la setta degli epicurei e che pertanto costui andava considerato come il simbolo dell’abbandono al piacere dei sensi («homo voluptati sensuum deditus»)7. Da questo punto di vista il pastore – exemplum negativo in quanto non sapeva dire alla carne l’estremo vale che gli avrebbe schiuso le porte della vera vita – era agevolmente assimilabile al gaudente Carnevale; e anche la simbologia di morte e di cosmogonica rigenerazione insita nell’immagine misterica dello smembramento doveva riuscire adatta, in un ambiente saturo di neoplatonismo, a segnare il passaggio dal vecchio al nuovo ciclo annuale8. La fine di Orfeo potrebbe evocare insomma il rito dell’uccisione di Carnevale, come se Poliziano avesse voluto far calzare i coturni ad una personificazione familiare, all’epoca, a chiunque. Entro tale cornice sarà da inscrivere la stessa convenzione del travestimento pastorale – di per sé non necessariamente legata al carnevale – che alcune allusioni nascoste nelle pieghe del testo rivelano in atto nell’Orfeo. Nell’egloga quattrocentesca, umanistica e volgare, l’impiego dei nomi dei pastori teocritei e virgiliani per adulare illustri contemporanei era prassi consueta, e il codice bucolico prevedeva che l’autore comparisse generalmente tra i collocutores di almeno una delle sue composizioni, aprendo così all’autorappresentazione di Sincero nell’Arcadia9. A Firenze in particolare lo 61-83. 7

Cfr. Colucii Salutati De laboribus Herculis, edidit B. L. Ullman, Turici, in aedibus Thesauri Mundi, MCMLI, II, pp. 493-508. Per la lettura del mito di Orfeo agli inferi nella Firenze quattrocentesca si vedano A. Buck, Der Orpheus-Mythos in der italienischen Renaissance, Krefeld, Scherpe Verlag, 1961, e M. Martelli, Il mito d’Orfeo nell’età laurenziana, «Interpres», VIII (1988), pp. 7-40. 8 Sulla simbologia di tale atto in quegli anni ed in quel clima spirituale basti il rinvio a E. Wind, Misteri pagani nel Rinascimento, Milano, Adelphi, 1971, p. 165; e per il significato della sua applicazione alla festa del carnevale vedi M. Bachtin, L’opera di Rabelais e la cultura popolare. Riso, carnevale e festa nella tradizione medievale e rinascimentale, Torino, Einaudi, 1979, pp. 381-90. Lo stesso Poliziano accoglie più di una volta nelle sue opere filologiche la figura dello stracciamento, della dispersione e della morte per significare il degrado dei testi antichi che prelude alla resurrezione nelle mani dello studioso. 9 Su questo aspetto dell’Arcadia sannazariana si ricordino le osservazioni di M. Corti, Il codice bucolico e l’«Arcadia» di Jacobo Sannazaro (1968), in Ead., Metodi e fantasmi, Milano, Feltrinelli, 19772, pp. 283-304; e di M. Santagata, L’alternativa ‘arcadica’ del Sannazaro, in La lirica aragonese. Studi sulla poesia napoletana del secondo Quattrocento, Padova, Antenore, 1979, pp. 342-74. Per la consuetudine di adombrare personaggi reali nei pastori delle egloghe umanistiche cfr. in particolare W. L. Grant,

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sperimentalismo albertiano aveva posto le basi per una precoce fioritura dello stile bucolico verificatasi – sia in latino che nell’idioma tosco – a partire dagli anni Sessanta, tanto che nel Driadeo d’amore di Luca Pulci, vantando le bellezze della città alla ninfa Estura, Lorenzo stesso identificava nella produzione pastorale l’aspetto tipizzante della poesia fiorentina (III 84 1-3: «Un’accademia, un studio di buccoici, / scandendo versi scritti da ortografi, / vedrai»)10. E i cortigiani medicei – soliti ritrarsi, adattando l’immagine del Titiro virgiliano, sub tegmine Lauri – non mancarono di adoperare il genere a fini encomiastici11. In questo ambito va inquadrato anche l’episodio dell’Orfeo, marcato dal polimetro e dal frequente ricorso allo sdrucciolo, in cui Poliziano mette in scena l’amore di Aristeo per Euridice (vv. 17-140). «Significativamente – ha osservato Domenico De Robertis – la tradizione immediata, sulla scorta forse dell’episodio iniziale, riconoscerà nella testura della Favola il tipo dell’ecloga dialogata»12. Aggregata in altri codici a testi di questo tipo, nel Vaticano Capponiano 193 – compilato da un Nicolò Bozano nel 1504 – essa fu trascritta addirittura sotto il titolo di Egloga Orphei13. Non si è ancora pensato tuttavia, a quanto mi risulta, alla possibilità di identificare i pastori polizianeschi.

Neo-latin literature and the pastoral, Chapell Hill, The University of North Carolina Press, 1965, pp. 331-32 e 350-56, e A. Tissoni Benvenuti, Schede per una storia della poesia pastorale nel Secolo XV: la scuola Guariniana a Ferrara, in In ricordo di Cesare Angelini. Studi di letteratura e filologia, a c. di F. Alessio e A. Stella, Milano, Il Saggiatore, 1979, 96-131. 10 Cfr. L. Pulci, Il Driadeo d’amore, a cura e con pref. di P. E. Giudici, Lanciano, Carabba, 1916, p. 97. Su questa stagione della bucolica fiorentina si veda qui il cap. VII. 11 Sistematico tale uso dell’egloga nel Naldi, che introdusse a parlare sotto pseudonimo pastorale Cosimo il Vecchio, il figlio Piero e i giovanissimi nipoti: cfr. Naldi Naldii Florentini Bucolica, Volaterrais, Hastiludium, Carmina varia, edidit W. L. Grant, Florentiae, Olschki, 1974, pp. 12-13. 12 Cfr. D. De Robertis, L’esperienza poetica del Quattrocento, in Storia della letteratura italiana, dir. da E. Cecchi e N. Sapegno, III, Milano, Garzanti, 1966, p. 548; e Id., L’ecloga volgare come segno di contraddizione, «Metrica», III (1980), p. 79. Che «in sostanza i versi dal 17 al 137 sono un’egloga» ha sostenuto Pirrotta, Li due Orfei ..., pp. 16-17; osservazione accolta poi da E. Bigi, Umanità e letterarietà nell’«Orfeo» del Poliziano (1982), in Id., Poesia latina e volgare nel Rinascimento italiano, Napoli, Morano, 1989, pp. 115-51. 13 Cfr. V. Pernicone, La tradizione manoscritta dell’«Orfeo» del Poliziano, in AA. VV., Studi di varia umanità in onore di Francesco Flora, Milano, Mondadori, 1963, pp. 362-63; e Maïer, Les Manuscrits ..., pp. 261-62.

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Già Benvenuto da Imola, sviluppando un’indicazione di Petrarca, Fam. X 4 12, avvertiva: «est impossibile quod aliquis intelligat bucolica nisi habeat aliquid ab illo qui composuit»14. Eppure, nonostante Poliziano non abbia lasciato nessun autocommento che ci guidi verso lo scioglimento di tali enigmi, un tentativo in tal senso risulta non solo lecito, ma anche proficuo. I vv. 120-27 offrono la chiave per penetrare almeno in parte i segreti di queste figure e dimostrare che, coerentemente con il genere cui afferisce, tale brano cela riferimenti cortigiani più o meno velati. Dopo che – sulla scorta della terza egloga di Calpurnio – Aristeo ha incaricato Tirsi di cercare il vitellino di Mopso, il servo rientra in scena avvisando i pastori di aver ricondotto l’animale nella mandria ed aver visto Euridice che coglie fiori alle pendici del monte; al che Aristeo, in preda al desiderio, esce a sua volta di scena per raggiungere la fanciulla. È a questo punto che Mopso e Tirsi si scambiano le seguenti battute: O Tirsi, che ti par del tuo car sire? Vedi tu quanto d’ogni senso è fore! Tu gli dovresti pur tal volta dire quanta vergogna gli fa questo amore. O Mopso, al servo sta bene ubidire, e matto è chi comanda al suo signore. Io so che gli è più saggio assai che noi: a me basta guardar le vacche e’ buoi.

L’ottava si divide equamente fra l’invito del saggio Mopso affinché il servo intervenga per indurre il padrone a ravvedersi e la ferma risposta di Tirsi, il quale replica facendo osservare che la sua condizione di subordinato non gli consente alcuna ingerenza e che egli si limita perciò a svolgere il proprio compito di guardiano di armenti. Ora, il dialogo, non strettamente necessario ai fini dell’azione, è tale da metterci sull’avviso. Dato il contesto, non c’è dubbio che le parole di Tirsi riecheggiassero Virgilio, Buc. V 4 «Tu maior, tibi me est aecum parere, Menalca», con andamento che ricorda da vicino la versione resa da Bernardo Pulci: «Tu, Menalca, maggiore, dèi comandare, / a me solo ubbidire dipoi s’aspecta»15. La reverenza mostrata nei 14 Cfr. F. Ghisalberti, Le chiose virgiliane di Benvenuto da Imola, in AA. VV., Studi virgiliani pubblicati in occasione delle celebrazioni bimillenarie dalla Reale Accademia Virgiliana, Mantova, Reale Accademia Virgiliana, 1930, p. 117 n. 1. 15 Cito dall’edizione (senza titolo) delle Bucoliche elegantissimamente composte, Firenze, Miscomini, 1482 (m. f. 1481), c. c 3r.

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confronti di Menalca dal Mopso virgiliano dipendeva dall’età e dal valore, ma nella lettura che all’epoca se ne faceva l’atto celava un altro significato, ben illustrato nel commento di Cristoforo Landino per cui il verso: ostendit qualiter oporteat esse inferiorem erga superiorem. Nam, si iusta causa dissentiendi est, modestissime dissentiet neque discedet a veneratione quam illi prestare debet, ut hic qui nunc Menalce omnia concessurus polliceat16.

La chiosa, opera di uno dei suoi maestri riconosciuti, lascia intuire quale significato ciò dovesse avere per lo stesso Poliziano. La professione di modestia di Tirsi, modellata su quella virgiliana, allude al rispetto – per dirlo in termini dellacasiani – del tenuior verso il potentior amicus. E difatti l’atteggiamento del servo di Aristeo risulta perfettamente aderente allo spirito del brano landiniano, ché anch’egli non dimentica il dovere dell’ossequio e rifiuta di associarsi al biasimo di Mopso. Il verso conclusivo della battuta a lui assegnata, per giunta, rappresenta la spia evidente del travestimento pastorale di un personaggio preciso. Nel codice bucolico l’immagine di colui che attende a pascolare la mandria può alludere all’ufficio del pedagogo oppure all’attività del poeta. Ad esempio, nell’esordio della risposta Forte sub inriguos colles, ubi Sarpina Rheno Giovanni del Virgilio distingueva gli scolari in maiores, minores e mediocres mediante le diverse specie di armenti (iuvenci, agne, capelle); e per contro la «ovis gratissima» menzionata al v. 58 della dantesca Vidimus in nigris albo patiente lituris, sia che si voglia accettare la glossa del codice Laurenziano 29. 8 («buccolicum carmen») sia che si pensi alla stessa Commedia, adombra manifestamente il riferimento ad un’opera di poesia. Tirsi, perciò, oltre il velame pastorale dovrebbe essere egualmente sottoposto al suo «sire», che gli ha affidato l’incombenza di «guardar le vacche e i buoi»: ovvero il «cornuto armento» di Aristeo che darà luogo alla bugonia. E direi che, fuor di metafora, l’incarico indica non l’educazione dei figli del signore – ché non si tratta di capretti o di agnelli – bensì la cura degli studi e della poesia. A riprova di ciò, oltre al testo di Dante – che manteneva intatto il suo fascino, tanto che il giovane Ficino lo copiò in un proprio codice17 – mi limiterò a ricordare solo un altro esempio, particolarmente significativo perché attinto all’am-

16 Mi servo dell’editio princeps fiorentina del 1488 (senza nome dello stampatore), c. b 3v. Per gli scambi fra Landino e Poliziano in materia di esegesi virgiliana basti rinviare a R. Cardini, La critica del Landino, Firenze, Sansoni, 1973, p. 171 n. 50. 17 Studiato da A. Rossi, Un autografo ficiniano delle Egloghe alla Nazionale di Parigi, «Studi danteschi», XXXVII (1960), pp. 291-98.

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biente stesso del Poliziano: vale a dire l’argomento premesso da Girolamo Benivieni alla prima delle sue egloghe, ove le greggi del protagonista Fileno – alter ego dell’autore – sono per ben due volte interpretate come figura dei suoi componimenti pastorali («le sue greggie, cioè le sue egloge [...] et esse sue greggi, cioè esse sue egloge»)18. Ma se tutto lascia pensare che il rapporto di Tirsi verso Aristeo sia quello del poeta cortigiano nei confronti del proprio signore, viene da chiedersi chi mai Poliziano avrebbe potuto raffigurare nei panni del servo pastore se non se stesso. Chi, se non lui, poteva trarre profitto dall’omaggio implicito nella rappresentazione? È possibile trovare una conferma a tale sospetto nella seconda egloga del Benivieni, ove Tirsi lamenta la lontananza di Dafni, esplicitamente identificato – nella dedicatoria dell’intera Buccolica a Giulio Cesare da Varano – con Giovanni Pico della Mirandola. Spetta alla stessa Tissoni Benvenuti il merito di aver messo in rilievo l’insistita imitazione dell’Orfeo in questa egloga, che risale evidentemente al 1479, dopo il primo soggiorno di Pico a Firenze e la sua partenza dalla città19. Si direbbe che a tratti Tirsi parli quasi con le parole dell’autore della Fabula. Si prendano i vv. 37-39 dell’egloga: Udite almen voi, selve, il mio lamento: poi che Dafni non m’ode, a’ miei sospiri risponda Ecco pietosa al mio tormento.

Si tratta di una palese citazione, nonostante il modulo topico (Giusto de’ Conti, Alberti), della «canzona» di Aristeo, vv. 54-56: Udite, selve, mie dolce parole, poi che la ninfa mia udir non vuole. La bella ninfa è sorda al mio lamento.

O si vedano, ancora, i vv. 154-9: Noi ci staren fra l’erba al suon cantando dell’acque che dagli alti sassi piombano, poi corron dolcemente murmurando giù per l’umbrose valle, onde rimbombano 18

Cito dalla prima ristampa delle Opere di Girolamo Benivieni fiorentino, Venezia, Nicolò Zopino e Vincenzio compagno, 1522, c. 79r. Cfr. E. Giorgi, Le più antiche bucoliche volgari, «Giornale storico della letteratura italiana», LXVI (1915), p. 147 n. 1. 19 Cfr. C. Re, Girolamo Benivieni fiorentino, Città di Castello, Lapi, pp. 75-77.

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l’acque percosse e gli amorosi versi degli augelletti che per l’aire rombano.

Essi evocano analogamente i vv. 88-93 della Fabula: El non è tanto el mormorio piacevole delle fresche acque che d’un sasso piombano, né quando soffia un ventolino agevole fra le cime de’ pini e quelle trombano, quanto le rime tue son sollazzevole, le rime tue che per tutto rimbombano.

Di conseguenza anche l’impiego di alcune immagini vulgate sarà indotto dal ricordo polizianesco: come quella del v. 69 («e ’l vento se ne porta le parole»), ove il calco su Petrarca, RVF CCLXVII 14 («ma ’l vento ne portava le parole») sembra muovere dai vv. 45-46 della Fabula («sì che non spender meco tal’ parole, / acciò che ’l vento via non se le porti»); oppure quella del v. 82 («ogni cosa mortal corre al suo fine»), in cui agisce altra eco petrarchesca (RVF CCCXXIII 55 «ogni cosa al fin vola») verosimilmente richiamata dai vv. 205-6 («Ogni cosa nel fine a voi ritorna, / ogni cosa mortale a voi ricade»). La fitta trama di riscontri ha consentito alla stessa Tissoni Benvenuti di affermare che la lirica del Benivieni «costituisce un omaggio insieme al Poliziano e al Pico che negli anni giovanili mostrava una sincera ammirazione per la poesia volgare del Poliziano»20. È noto d’altronde che quest’ultimo ricambiava la stima e l’affetto del giovanissimo conte della Mirandola, sicché non sarebbe inverosimile che Benivieni avesse introdotto qui la controfigura pastorale dell’amico Angelo. Echi così cospicui e precisi fanno sistema, lasciando pensare ad un consapevole intento di mimesi stilistica. Dopo aver preso atto degl’indizi che siamo andati raccogliendo, non si può non prestare la dovuta attenzione, inoltre, al vanto pronunciato da Tirsi ai vv. 106-8 dell’egloga: «Del canto taccio, ma già mille onori, / mille corone ha la mia cetra, e ’l primo, / come Pan fra gli dèi, son fra’ pastori» 21. Particolare – sia pur frequente nel filone bucolico – certo non privo di agganci con la realtà e che Benivieni per più motivi non poteva riferire a se stesso, mentre si adatta assai bene alla posizione di prestigio che allo scadere degli anni Settanta l’autore dell’Orfeo aveva ormai saldamente acquisito come 20 21

Cfr. Tissoni Benvenuti, L’Orfeo del Poliziano ..., pp. 66-68. Il brano è nelle Bucoliche elegantissimamente composte ..., c. i 4r.

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poeta latino e volgare. Basti qui ricordare che anche il più celebre dei fratelli Pulci, nel finale del Morgante, si proporrà ormai di seguire «la sua famosa lira» e lo paragonerà ad Alceo, Anfione, Museo, Orfeo stesso (XXVIII 14648). Tutto induce a credere allora che Benivieni, introducendo nella propria lirica la figura di Poliziano, non solo riprendesse alcuni spunti dalla Fabula – come se, ripeto, avesse voluto far parlare Poliziano personaggio con i versi stessi del poeta – ma anche gli mantenesse il nome di Tirsi sotto il quale egli si era autorappresentato in analogo contesto22. Né sembra illegittimo, a questo punto, sospettare che in quella occasione egli avesse addirittura calcato la scena, come accadrà poco più tardi a Baldassarre Taccone, il quale nella sua Danae – secondo che testimoniano gli appunti di Leonardo nello schizzo per la scenografia – avrebbe recitato la parte del servo Siro23. I nomi pastorali, si sa, non erano come quelli accademici, variavano a seconda del bisogno; ma nella fattispecie la continuità sottintende forse una scelta personalizzata da parte di Poliziano, spiegabile tenendo conto che nella memoria del raffinato grecista, come già per l’Alberti24, la ben più rilevata figura del Tirsi teocriteo doveva imporsi su quella dell’omonimo pastore virgiliano. E, nel primo idillio di Teocrito, Tirsi è colui che canta la storia infelice dello scomparso Dafni, il quale aveva osato presumere di vincere Eros e da lui era stato inevitabilmente soggiogato. Non è da escludere quindi che Poliziano optasse per tale nome in quanto anch’egli aveva da poco celebrato (o stava celebrando) in versi l’analoga esperienza di Iulio, prima restio all’amore e poi divenuto sua vittima. Un eventuale aggancio col poemetto sulla giostra del 1475 non sarebbe inconsueto, poiché egli lo considerava in quegli anni come la sua opera di maggior impegno dopo la traduzione omerica, secondo che dimostra l’esplicito accenno di Sylva in scabiem 245-6125. Se tutto ciò è vero, anche negli altri pastori saranno da ravvisare personaggi appartenuti all’ambiente laurenziano, ove lo stesso simbolismo del

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Cfr. Poliziano, Stanze – Fabula di Orfeo ..., p. 147. Cfr. Teatro del Quattrocento. Le corti padane, a c. di A. Tissoni Benvenuti e M. P. Mussini Sacchi, Torino, UTET, 1983, p. 295. Lo stesso Taccone recitò la parte di Fileno nell’egloga Che fai, Fileno, fra gente magnifica: per questo testo vedi R. Castagnola, Milano ai tempi di Ludovico il Moro. Cultura lombarda nel codice italiano 1543 della Nazionale di Parigi, «Schifanoia», 5 (1988), pp. 156-58. 24 Lo ha osservato, nell’egloga albertiana, G. Tanturli, La cultura fiorentina volgare del Quattrocento davanti ai nuovi testi greci, «Medioevo e Rinascimento», II (1988), p. 232. 25 Cfr. A. Poliziano, Sylva in scabiem, a c. di P. Orvieto, Roma, Salerno Ed., 1989, pp. 92-94. 23

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vitellino pezzato di rosso e di nero, smarrito e ravviato nella mandria da Tirsi, sarà stato più facilmente percepibile di quanto purtroppo risulti oggi. In Aristeo, di conseguenza, trattandosi del «sire» di Poliziano, alias Tirsi, si celerà con ogni verosimiglianza uno dei due giovani Medici alla cui mensa il poeta sedeva fin dal 147326. Sebbene la pièce fosse stata commissionata dal cardinale Francesco Gonzaga, riesce difficile, in effetti, ammettere che egli si rivolgesse ad altri come al proprio «signore». Il nome, raramente usato nel filone bucolico, alludeva di per sé ad un personaggio di rango non comune. Attraverso la chiosa di Valerio Probo ad Geor. I 14 – che trascrisse nel margine inferiore dell’incunabulo virgiliano di Pannartz e Schweynheym da lui posseduto – Poliziano conosceva la leggenda tramandata da Varrone Atacino nel rifacimento degli Argonautica di Apollonio Rodio, secondo cui Aristeo, avendo liberato l’isola di Cea dall’epidemia che affliggeva il bestiame, era divenuto, dopo la morte, una sorta di nume tutelare della pastorizia 27. Quand’anche la notizia fosse rimasta estranea alla scelta di tale nome, comunque, bastavano l’episodio del quarto libro delle Georgiche e la discendenza divina di Aristeo – «figliuol d’Apollo», come si ricordava fin dal v. 2 – per far intendere che la sua fisionomia non era quella di un pastore qualsiasi. E le parole di Tirsi «io so ch’egli è più saggio assai che noi» sembrano fronteggiare, per giunta, la disapprovazione di Mopso nei confronti del suo «car

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Già al Del Lungo i vv. 120-27 sembravano una «delicata e finissima satira della vita cortigiana», e aveva intuito in parte il risvolto autobiografico se lo meravigliava «l’ardire del poeta, che li desse a recitare innanzi a duchi e a marchesi, e da leggersi poi dal suo Aristeo fiorentino, egli non il più cortigiano forse fra i tanti Tirsi che avrà lì avuti uditori e plaudenti» (I. Del Lungo, Florentia. Uomini e cose del Quattrocento, Firenze, Barbèra, 1897, pp. 329-30). 27 Parigi, Bibliothèque Nationale, Rés. g.Yc. 236: «Cea in Aegeo mari insula est in qua sunt urbes quattuor: Pylis, Carthea, Loessa, Coressos. Ibi existimatur pestilentia fuisse pecorum et armentorum maxime gravis propter interitum Acteonis. Aristaeus monstrante Apolline patre profectus est in insulam Ceam et ibi sacrificio facto ante aram Iovi Isthmio constituit qui placatis flatibus et aestu qui necabant pecora et armenta liberavit ea. Ipse autem post excessum vitae imperante oraculo Apollinis ab immorantibus ei insulae relatus est in numerum deorum. Appellatusque est Nomius et Egaros quod et agresti studio et cura pecorum armentorumque non mediocriter profuerat hominibus. Traditur haec historia a Varrone Atacino» (cfr. A. Poliziano, Commento inedito alle «Georgiche» di Virgilio, a c. di L. Castano Musicò, Firenze, Olschki, 1990, pp. 9-10). La chiosa riproduce alla lettera lo scolio di Probo (cfr. Marci Valeri Probi in Vergilii Bucolica et Georgica Commentarius [...], edidit H. Keil, Halis, Sumptibus Eduardi Anton, MDCCCXLVIII, pp. 28-29).

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sire» con implicito riecheggiamento dell’etimologia del nome diffusa da Fulgenzio (‘il migliore’)28. Il genere della favola teatrale di soggetto mitologico trovava la sua ragion d’essere, oltre che nel divertimento della corte, proprio nelle lusinghe velatamente rivolte ai principi, mediante «l’evasione in un mondo superumano svincolato dalle regole morali e sociali quotidiane, al quale i signori di diritto erano assunti attraverso continui paragoni o addirittura identificazioni con gli dei»29. Non meraviglierebbe dunque scorgere in Aristeo i tratti del brillante autore del Corinto (che proprio in quegli anni riceveva, da parte di Benivieni, il pastorale omaggio dell’egloga Lauro)30, né quelli di Giuliano, come il fratello solito «rusticari» sui monti di Cafaggiolo. Quest’ultimo anzi, in quanto innamorato della bella moglie di Marco Vespucci, al pari di Euridice restata strenuamente «soggiogata alla teda legittima» (St. I 51 4) e destinata a sua volta a morte prematura, ha forse qualche probabilità in più di specchiarsi nella figura di Aristeo; tanto più che – lo ha suggerito di recente Mario Martelli – non sembra da «escludere che alla morte di Simonetta (o di altra giovine donna) si collegasse, in qualche modo, anche la Fabula d’Orfeo»31. Ricevuta dal Gonzaga la commissione di scrivere una rappresentazione di Orfeo agli inferi, il tema stesso della giovane sposa defunta potreb-

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Cfr. Friedman, Orpheus ..., p. 89, e Vicari, Sparagmos ..., p. 66. A. Tissoni Benvenuti, intr. a Teatro del Quattrocento ..., p. 23. Il carattere di intrattenimento cortigiano della Fabula è riconosciuto anche da B. Guthmüller, Di nuovo sull’Orfeo del Poliziano, in Poliziano nel suo tempo, a c. di L. Secchi Tarugi, Firenze, Cesati, 1996, pp. 201-16. Più in generale si veda G. Ferroni, La scena, l’autore, il signore nel teatro delle corti padane, in Il teatro italiano del Rinascimento, a c. di M. De Panizza Lorch, Milano, Ed. di Comunità, 1980, pp. 537-70. 30 Cfr. F. Battera, Per l’esegesi della III egloga di Gerolamo Benivieni, «Studi e problemi di critica testuale», 38 (1989), pp. 45-69. 31 Martelli, Il mito d’Orfeo ..., p. 34. Alcune somiglianze dell’immagine di Euridice con quella di Simonetta, in effetti, vanno oltre la comune ascendenza di modelli come la Matelda dantesca o l’Emilia del Teseida boccacciano, sì da sembrare forgiate quasi nella medesima circostanza. Quand’anche si voglia considerare indotto dalla comune ambientazione bucolica l’atto di cogliere fiori in cui sono ritratte (St. I 47 2-3 – Orf. 104-5), si pensi almeno all’inclinazione verso la solitudine (St. I 52 3 «qui vengo a soggiornar tutta soletta» – Orf. 110-11 «di neve e rose ha ‘l volto e d’or la testa, / tutta soletta»); all’abito bianco (Orf. 111 «sotto bianca vesta» – St. I 43 1 «Candida è ella e candida la vesta»); o ancora all’aspetto altero di entrambe, che causa l’impiego di identica iunctura relativa alla descrizione della fronte (St. I 43 3-4 «lo inanellato crin dell’aurea testa / scende in la fronte umilmente superba» – Orf. 106-7 «I’ non credo che Vener sia più bella, / più dolce in acto o più superba in fronte»). 29

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be aver richiamato alla mente del poeta il lutto generale seguito alla scomparsa di Simonetta (26 aprile 1476); e Poliziano, superata dagli eventi la celebrazione poetica dell’onore riportato in giostra dal giovane Medici, potrebbe aver colto così l’occasione di fargli altro omaggio sub specie bubulci, evocando un episodio chiave della sua educazione sentimentale e raffigurando se stesso quale suo fedele servitore nelle vesti di Tirsi. Anche mi chiedo, allora, se quando Poliziano scriveva, nella lettera al Canale, che la Fabula era «più tosto atta a dargli maninconia che allegrezza» non pensasse proprio alla nota lugubre che il ricordo di Simonetta vi aveva introdotto. In assenza di argomenti più stringenti, tuttavia, conviene non addentrarsi in decrittazioni tanto particolareggiate. «Per troppa sottiglianza il fil si rompe», ammoniva l’onesto fabbro Guido Orlandi. Basti, per il momento, avere avvertito la presenza di questa trama cortigiana nella prima parte della Fabula, e colto l’autore nel ruolo di personaggio, auspicando che ulteriori agnizioni in merito all’identità degli altri pastori gettino luce in futuro sull’occasione e sulla cronologia della rappresentazione. Tali considerazioni impongono semmai di sollevare, da ultimo, il problema del luogo in cui la Fabula fu scritta. La notizia della sua composizione «a Mantoa quasi all’improvviso» risale, com’è noto, alla prefazione di Alessandro Sarti alle Cose vulgare del Poliziano (che lo aveva conosciuto solo nel 1491), ove l’allievo si fondava presumibilmente sull’epistola prefatoria a Carlo Canale, forzando il senso del brano in cui l’autore ricordava l’urgenza della richiesta giuntagli dal «Cardinale Mantuano»32. Una volta messa in dubbio questa testimonianza, la rete di allusioni legata all’ambiente laurenziano fa ragionevolmente supporre che esso fosse destinato, in qualche misura, ad un pubblico fiorentino. Vero è che i fiorentini al seguito del cardinal Gonzaga potevano forse svelargli ogni retroscena, solo a Firenze però sarebbe concretamente giunto ad effetto l’intento encomiastico e celebrativo che aveva ispirato il prologo pastorale. Sembra da escludere che in quella circostanza il committente si trovasse a soggiornare in riva all’Arno33; ma è logico che, sebbene la scrivesse in prima istanza per la familia del prelato, ideando la Fabula Poliziano pensasse anche o soprattutto agli amici e mecenati che presto avrebbero assistito alla rappresentazione. Proprio a Firenze del resto,

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Cfr. Tissoni Benvenuti, L’Orfeo del Poliziano ..., pp. 58-59. Per un quadro dei soggiorni fiorentini del Gonzaga si veda D. S. Chambers, Cardinal Francesco Gonzaga in Florence, in Florence and Italy. Renaissance Studies in Honour of Nicolai Rubinstein, edited by P. Denley and C. Elam, London, Westfield College, 1988, pp. 241-61. 33

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dopo il caso di Simonetta, il tema della sposa defunta era particolarmente sentito, e nuova fortuna di conseguenza era toccata anche al mito di Orfeo agl’inferi. Lorenzo stesso vi si richiamava – nel proemio del Comento – filosofeggiando sull’ascesa al cielo della giovane moglie del Vespucci34. Nasce perciò il sospetto che il testo – pur composto su richiesta del Gonzaga e recitato verosimilmente nel suo palazzo romano – fosse concepito per essere rappresentato contemporaneamente anche nell’ambito del carnevale mediceo. Un riflesso di questa duplice divulgazione dell’Orfeo potrebbe cogliersi nella stessa tradizione manoscritta. Fu in occasione dell’allestimento per l’entourage del cardinale che si interpolarono i brani confluiti nella redazione diffusa poi dalla stampa nelle Cose vulgare del 1494: l’ode saffica, la stanza assegnata a Minosse e i due distici ovidiani fatti cantare ad Orfeo – impersonato da Baccio Ugolini – mentre si allontana dall’inferno insieme con la moglie.35 Sebbene il testo originario avesse modo di circolare anche altrove (come provano le trascrizioni di area settentrionale del Parigino It. 1047 e del Parmense 3071 della Biblioteca Palatina di Parma) entrambi i codici confezionati a Firenze (Riccardiano 2723 e Additional 16439 della British Library), ancorché tardi, lo recano infatti nella redazione priva di aggiunte.

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Scritti scelti di Lorenzo de’ Medici, a c. di E. Bigi, Torino, UTET, 19652, p. 315. Cfr. Tissoni Benvenuti, L’Orfeo del Poliziano ..., pp. 41-57.

VI MOMENTI E PROBLEMI DEL CANTO CARNASCIALESCO FIORENTINO

1. Fonte di capitale importanza per la storia della poesia carnascialesca restano a tutt’oggi le notizie fornite da Antonfrancesco Grazzini detto il Lasca, in un brano, notissimo, della prefazione alla sua raccolta di Trionfi, Carri, Mascherate o Canti carnascialeschi: Et questo modo di festeggiare fu trovato dal Magnifico Lorenzo Vecchio de’ Medici, percciochene prima gli huomini di quei tempi usavano il Carnevale, immascherandosi, contraffare le Madonne, solite andar per lo Calendimaggio: e così travestiti a uso di donne e di fanciulle cantavano canzoni a ballo: la qual maniera di cantare, considerato il Magnifico esser sempre la medesima, pensò di variare, e non solamente il canto, ma le invenzioni e il modo di comporre le parole, faccendo canzoni con altri piedi vari e la musica suvi comporre con nuove e diverse arie; e il primo canto o mascherata che si cantasse in questa guisa d’huomini che vendevano berriquocoli e confortini, composta a tre voci da un certo Arrigo Tedesco, maestro all’hora della Cappella di San Giovanni e musico in quei tempi riputatissimo1.

Il Lasca avvertiva qui del cospicuo rinnovamento introdotto nel genere per volontà di Lorenzo. Oltre a far comporre melodie diverse dal consueto («la musica suvi comporre con nuove e diverse arie»), il Magnifico avrebbe svecchiato il tipo della canzone carnevalesca sia sul piano tematico («le

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Tutti i Trionfi, Carri, Mascherate o canti Carnascialeschi andati per Firenze, dal tempo del Magnifico Lorenzo vecchio de’ Medici, quando egli hebbono prima cominciamento, per infino a questo anno presente 1559, in Fiorenza, MCLVIII [ma 1559], cc. a2v-3r.

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invenzioni») che formale («il modo di comporre le parole»), agendo in particolare sul metro («faccendo canzoni con altri piedi vari»). La natura di tali scarti si chiarisce per effetto del richiamo alla tradizione precedente, tutta ristretta nella parodia delle canzoni a ballo solitamente intonate dalle fanciulle per il Calendimaggio («travestiti a uso di donne e di fanciulle cantavano canzoni a ballo»). Nonostante le perplessità sollevate di recente da Paolo Orvieto, propenso a ridurre la portata di tali innovazioni2, in assenza di documentazione contraria sembra difficile smentire le parole del Lasca. Che egli, a distanza di tre quarti di secolo, accogliesse entro la sua silloge qualche attribuzione errata o che riferisse dati imprecisi si giustifica con le fonti cui faceva ricorso, ed è possibile che esagerasse facendo coincidere tale svolta con l’arrivo a Firenze di Heinrich Isaac; ma ciò non significa che ogni altra sua affermazione sia inaffidabile. Membro fondatore dell’Accademia Fiorentina, il Lasca era un profondo conoscitore ed un cultore di tradizioni patrie. L’intento suo, di per sé innegabile, di compiacere il potere del granduca Cosimo I non basta ad inficiare la rivendicazione a Lorenzo del merito di aver riformato il genere carnascialesco. E del resto non c’è bisogno di attendere detta prefazione per trovare un riconoscimento della priorità del Magnifico in questo campo. Occorre accordare infatti il dovuto rilievo alla testimonianza ricavabile dalla xilografia presente nel frontespizio dell’editio princeps delle Canzone per andare in maschera per carnesciale, assegnata dai bibliologi a poco prima del 15153. L’elegante incisione ritrae Lorenzo, sulla sinistra, mentre ascolta un gruppo di cantori in maschera turchesca (tre adulti e due fanciulli) che cantano la sua canzone dei confortini e mostrano alle donzelle affacciate alle finestre le ciambelle (confortini o berricuocoli appunto) di cui fanno mercato. Nel clima della restaurazione medicea, ciò bastava a dare la chiave di lettura dei canti contenuti nel libretto, alludendo ad un primato da parte di Lorenzo che non era, evidentemente, in discussione. Purtroppo la cronologia del canto laurenziano dei confortini non è certa4. La sua portata innovatrice sembra riscontrabile, comunque, sul piano metri-

2 L. De Medici, Canti carnascialeschi, a c. di P. Orvieto, Roma, Salerno Ed., 1991, pp. 14-5. 3 D. E. Rhodes, Notes on early Florentine printings, «La Bibliofilia», LXXXIV (1982), pp. 157-9; Id., Gli annali tipografici fiorentini del XV secolo, Firenze, Olschki, 1988, p. 131. La stampa è ora in edizione anastatica: L. de’ Medici [e altri], Canzone per andare in maschera per carnesciale, a c. di S. Carrai, Firenze, FOS, 1992. 4 Degli anni 1474-78 lo ritiene, sulla base di indizi interni al testo, Orvieto (L. De Medici, Canti carnascialeschi..., p. 87), seguito da Zanato (L. De’ Medici, Opere, a c. di

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Xilografia della Canzone per andare in maschera.

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co. L’allusione del Lasca ai «piedi vari» introdotti nei testi stessi si riferirà allo sporadico ingresso di versi di altra misura – quinari, settenari, endecasillabi – entro lo schema fondato sull’ottonario, tipico della canzone a ballo o barzelletta con ripresa e strofa isometriche. Manca, purtroppo, un repertorio metrico dei canti, ma la stessa, sia pur esigua, produzione personale del Magnifico sembra confermare le asserzioni del Lasca. Degli undici testi attribuiti a Lorenzo, cinque sono ballate di tutti ottonari, di cui tre grandi e due minori, secondo i seguenti schemi: xyyx ababbccx

Canzona de’ profumi (Siam galanti di Valenza) Canzona delle forese (Lasse, in questo carnasciale) Canzona di Bacco (Quant’è bella giovinezza)

xx ababbx

Canzona delle cicale (Donne, siam, come vedete) Canzona de’ visi addrieto (Le cose al contradio vanno).

Gli altri sei canti sono tutti ballate minori con ripresa e strofe isometriche di endecasillabi, su schema XX AAAX: Canzona de’ confortini (Berricuocoli, donne, e confortini) Canzona de’ cialdoni (Giovani siam, maestri molto buoni) Canzona degli innestatori (Donne, noi siam maestri d’innestare) Canzona dello zibetto (Donne, quest’è un animal perfetto) Canzona de’ fornai (O donne, noi siam giovani fornai) Canzona de’ sette pianeti (Sette pianeti siam, che l’alte sede).

La preponderanza dei testi endecasillabici – a cominciare proprio dalla canzone dei confortini – rende ragione della predilezione di Lorenzo, rispetto al tipo consueto, per un nuovo modulo carnascialesco. Si trattava in effetti di adibire versi di tradizione illustre ad un metro di carattere popolareggiante, e non soltanto in canzoni impostate su temi eruditi – come quella dei sette pianeti, che fiancheggiava la Elegia in septem stellas errantes di Naldo Naldi5 – ma in quelle centrate sul doppio senso osceno e sui mestieri. T. Zanato, Torino, Einaudi, 1992, p. 358). Ciò parrebbe a prima vista inconciliabile col fatto che non ci sia traccia prima del 1484 della presenza a Firenze di Isaac, che musicò il canto: cfr. F. A. D’Accone, Heinrich Isaac in Florence: New and Unpublished Documents, «The musical quarterly», XLIX (1963), pp. 464-83. Lo stesso Zanato ha persuasivamente proposto di superare il problema pensando che sia intercorso «un intervallo di parecchi anni tra la redazione dei versi e il loro rivestimento musicale» (L. De’ Medici, Opere..., p. 359). 5 P. Ventrone, Note sul carnevale fiorentino di età laurenziana, in Il carnevale dalla tradizione arcaica alla traduzione colta del Rinascimento, a c. di M. Chiabò e F. Doglio, Roma, Centro di Studi sul Teatro Medievale e Rinascimentale, 1989, pp. 356 sgg.

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VI Momenti e problemi del canto carnascialesco fiorentino

L’assenza di coordinate cronologiche sicure dei singoli canti e, spesso, di una loro attribuzione esplicita rende arduo estendere l’indagine a tutto il corpus. Per contro, solo l’accertata presenza di versi non ottonari entro il genere carnascialesco, in età prelaurenziana, verrebbe a sminuire il valore della testimonianza del Lasca. 2. Non è difficile immaginare che Lorenzo invitasse anche poeti a lui vicini a comporre testi siffatti da affidare agli intonatori. Verosimile è, in altre parole, che tra i tanti anonimi autori di lirica carnevalesca si celino alcuni personaggi della sua cerchia. In proposito, mi limiterò qui ad illustrare i sospetti che nascono ad una attenta lettura della adespota canzone delle Amazzoni6: Donne siàno, use in battaglia, che vestiàn di piastra e maglia. Sian l’amazzone chiamate, gran maestre d’ogni guerra, di più regni incoronate, vincian sempre in mare e ’n terra; tristo l’uom che l’arme afferra per voler con no’ far pruova: ognun po’ vinto si truova, contra noi non è chi vaglia. Quante volte abbiàn la pancia fatta lor del sangue rossa! Nostro scudo a ogni lancia regge forte ogni percossa; reston gli uomin’ vinti e stanchi: in noi par che si rinfranchi, con furor che gli sbaraglia. Non ci piace il fuso o l’ago, ma d’aver il caval sotto, che, se fussi com’un drago, lo facciàn latin di botto: galoppare e ir di trotto, saltar e correre e ir piano, drieto e ’nnanzi a ogni mano; pur è me’ quando si scaglia.

6 Cfr. Trionfi e canti carnascialeschi del Rinascimento, a c. di R. Bruscagli, Roma, Salerno Ed., 1986, pp. 420-21.

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La disinibita ostentazione di valentìa sessuale richiama alla memoria un episodio del Morgante in cui Pulci aveva fatto affrontare dai suoi paladini le donne guerriere dell’Arpalista, versione moderna delle Amazzoni. Esiti analogamente allusivi si riscontrano nella descrizione di duelli corpo a corpo (XXII 167): Arcalida s’appicca con Guicciardo e finalmente sotto se lo caccia: volle veder come egli era gagliardo, quantunque poco mal costei gli faccia; subito addosso a lei correva Alardo, tanto ch’alfin questa donzella spaccia, però che la passò nel pettignone, ch’arme ch’avessi non valse un mellone.

Come si noterà, la scena dell’armigera fanciulla che afferra Guicciardo e «sotto se lo caccia» o quella di Alardo che poi la trafigge nel pube («pettignone») sembrano quasi prevenire, e sul medesimo terreno stilistico, il sistematico doppio senso erotico su cui fa perno il canto carnascialesco. Il brano pulciano (Morg. XXII 156-70) rivela la propria matrice nell’episodio del Teseida boccacciano (I 40-78) in cui il protagonista e i suoi compagni sbarcano, appunto, nella terra delle Amazzoni. Né Boccaccio né l’adespoto poema in cui si è soliti indicare il modello immediato di Pulci accolgono, però, l’impostazione tutta equivoca del combattimento 7 , che nel Morgante fa aggio, comprensibilmente, sul verbo infilzare (XXII 165 5-8 «Aspetta ch’io t’infilzo: tu se’ morta. – / Alardo intanto spronava il destriere / e ’nfilza presto un’altra damigella / e posela a giacer giù della sella»), e per cui la definitiva vittoria dei paladini sulle guerriere diviene palese metafora del coito: «e tutte le donzelle hanno spacciate, / ch’a una a una in terra le ponevano, / e le porte hanno rotte e sgangherate, / e ’l borgo a saccomanno poi correvano» (XXII 168 3-6). Oltre a questo aspetto, altri e più concreti elementi accomunano il canto al brano pulciano. L’immagine quanto mai carnascialesca al v. 8 del canto stesso («per voler con no’ far pruova») ricorre, ad esempio, anche in Morgante XXII 170 5-8: «Tu porteresti, s’ tu provassi un poco, / le lance alle bandiere poi più basse: / una di lor ti parrebbe bastante, / non ch’aversi a pro-

7

Cfr. M. Martelli, Presenza di Boccaccio nell’Orlando laurenziano, in Il Boccaccio nelle cultura e letterature nazionali, a c. di F. Mazzoni, Firenze, Olschki, 1978, pp. 512-17.

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var con tutte quante» (e già XXII 159 4 «parmi mill’anni d’essere alla pruova»). Così, se le Amazzoni vengono dette, con espressione ancora una volta tipica del gergo carnevalesco, «gran maestre d’ogni guerra» (v. 4), anche le donne dell’Arpalista «son tutte ammaestrate al giuoco» (XXII 170 1). Ma le affinità più cospicue riguardano, nel canto, la ripresa: Donne siàno, use in battaglia, che vestian di piastra e maglia.

Quasi con le medesime parole, e con minime aggiunte necessarie alla differente misura dei versi, vengono presentate le guerriere di Pulci a XXII 158 3 e 5: donne che son tutte use ire in battaglia, [...] come quelle Amazzóne veston maglia.

La similitudine esplicita con le Amazzoni, in quest’ultimo verso, rende legittima la convinzione che il rapporto andasse ben oltre una serie di echi più o meno fortuiti. Corrispondenze così precise, che coinvolgono il sistema rimico di entrambi i testi, fanno pensare ad un contatto diretto. Di conseguenza, si può supporre che Pulci riecheggiasse un canto che aveva goduto di particolare successo, ovvero che l’anonimo autore mettesse a frutto le suggestioni ricavate dal brillante episodio pulciano. Non vedo tuttavia motivi sufficienti ad escludere una terza possibilità: che – per così dire – i due pezzi nascessero dalla medesima mano. Dal momento che alla straripante ondata di canti carnascialeschi contribuì a pieno titolo Bernardo Giambullari, come risulta dalla princeps delle Canzone per andare in maschera8, perlomeno strano sarebbe che uno spirito per tanti aspetti carnevalesco come Pulci non prendesse interesse a questa produzione. Lo stesso Poliziano, indiziato (in concorrenza con Angelo Dovizi) di essere l’autore della canzone Dalla più alta stella, per il trionfo di Minerva del 1492, chiudeva l’Orfeo con un coro che ricalca alla perfezione il canone del canto carnascialesco9. 8

Cfr. Rime inedite o rare di Bernardo Giambullari, con introduzione, note e indice generale di tutti i componimenti editi e inediti per cura di I. Marchetti, Firenze, Sansoni Antiquariato, 1955, pp. 43-47; e la mia postfazione alla citata ristampa anastatica delle Canzone per andare in maschera, p. 60. 9 Cfr. S. Carrai, intr. ad A. Poliziano, Stanze – Fabula di Orfeo, Milano, Mursia, 1988, pp. 13-15.

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Non intendo proporre senz’altro l’attribuzione a Pulci della canzone delle Amazzoni. Se non fu lui, tuttavia, l’autore fu persona vicina ai suoi gusti e che ben conosceva la sua opera. Ad ogni modo, il caso or ora illustrato è sufficiente di per sé a indurci a riflettere sulla scarsa presenza di clienti e amici di Lorenzo nelle sillogi carnascialesche, troppo vistosa per non essere sospetta. La cronologia generalmente tarda dei testimoni manoscritti e a stampa, il carattere di intrattenimento e di consumo di tale poesia, d’altronde, spiegherebbero facilmente che i canti quattrocenteschi sopravvissuti ai roghi delle vanità e all’incuria del tempo restassero poi relegati nell’anonimato. Degna di ogni considerazione si mostra perciò l’ipotesi che la collaborazione dei poeti della cerchia laurenziana al progetto di rivitalizzazione del carnevale sia stata maggiore di quanto le fonti abbiano fatto credere. 3. Quanto agli anni successivi alla morte di Lorenzo ancora vige, a quel che pare10, la periodizzazione proposta da uno dei padri degli studi musicologici rinascimentali, vale a dire Federico Ghisi. Secondo questa ipotesi, alla maniera laurenziana avrebbe fatto seguito una interpretazione savonaroliana del carnevale e dunque del filone poetico che lo accompagnava: All’orgia spettacolosa era subentrato il mormorìo della preghiera dei penitenti che, nell’esaltazione religiosa, andavano per la città battendosi il petto. Un suono cupo, lento e sinistro rimbombava terribile, quale minaccia allegorica della «democrazia monastica» contro la corruzione di Firenze e s’avanzava al grido: Al vaglio, al vaglio calate tutti quanti e con amari pianti11.

La prosa di Ghisi tradisce la presenza di una matrice rintracciabile in un brano di Carducci, che nella introduzione alla sua edizione delle opere volgari di Poliziano (1867) aveva citato per intero la canzone del vaglio, appena richiamata dal musicologo, facendola precedere dall’immaginaria allocuzione a Poliziano stesso nel giorno della sua morte:

10 Cfr. F. Testi, La musica italiana nel Medioevo e nel Rinascimento, Milano, Bramante, 1969, pp. 263 e 270; C. Gallico, L’età dell’Umanesimo e del Rinascimento, Torino, EDT, 1978, p. 29 («Storia della Musica», III); Id., La vita e la cultura della musica nell’età di Federico e di Guidobaldo, in Federico di Montefeltro. Le arti, a c. di G. Cerboni Baiardi, G. Chittolini, P. Floriani, Roma, Bulzoni, 1986, p. 364. 11 F. Ghisi, I canti carnascialeschi nelle fonti musicali del XV e del XVI secolo, Firenze, Olschki, 1937, p. 61.

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Oh, se ti fosse dato sentire, un suono cupo lento sinistro ti percuoterebbe l’orecchio, il canto oscuramente e minacciosamente allegorico della democrazia monastica: Al vaglio, al vaglio ...12

In realtà tale canto mal si prestava a documentare il momento savonaroliano del genere carnascialesco. Ghisi non ebbe tempo o modo di tenere conto, evidentemente, della raccolta di canti edita da Charles Singleton nel 1936, appena un anno prima della pubblicazione del suo libro. In caso contrario egli si sarebbe accorto che in uno dei codici principali, Magliabechiano VII 735, il testo soggiace alla rubrica: «Canzona del vaglio composta da maestro Fruosino medico andata in maschera addì 3 di Febbraio 1505» (secondo il computo del calendario fiorentino)13. Da qui non solo si evince la paternità della poesia – da Ghisi ripetutamente considerata adespota, mentre spetta a Eufrosino Bonini, medico e letterato ben noto, già allievo di Poliziano allo Studio fiorentino – ma anche che essa fu cantata per la prima volta, riportando la data in stile moderno, durante il carnevale del 1506, quando Savonarola cioè era morto da circa otto anni. A parte questo, solo una lettura superficiale o parziale poteva giustificare l’equivoco in cui cadde Ghisi, fuorviato dalla lettura di Carducci, prendendo per un componimento spirituale quello che si dimostra invece, in linea con la tradizione carnascialesca, testo incentrato sul doppio senso osceno. Dopo la nota apparentemente lugubre dell’inizio, infatti, il discorso delle cantanti vira decisamente, talché l’immagine del vaglio assume – come ha riconosciuto il recente chiosatore, Riccardo Bruscagli – valore di «metafora sessuale», ovvero «sta per l’organo femminile, da cui esce gente infinita»14. La stessa analogia tra «vagliare» e «macinare» stabilita nella prima stanza è assai eloquente in proposito, dal momento che l’accezione equivoca di quest’ultimo verbo, codificata dalla tradizione novellistica (Boccaccio, Sacchetti), ricorre in altri canti: valga per tutti l’esempio incipitario di L’arte nostra è macinare. Vale la pena allora di rileggere il testo per intero:

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Cfr. G. Carducci, Opere, Bologna, Zanichelli, 1936, XII, p. 363. Canti carnascialeschi del Rinascimento, a c. di Ch. Singleton, Bari, Laterza, 1936, p. 478. 14 Trionfi e canti carnascialeschi del Rinascimento..., p. 42, da cui riproduco il testo (pp. 42-43) introducendo però al v. 5 «confusïone» dieretico. 13

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Al vaglio, al vaglio, al vaglio calate tutti quanti e con amari pianti vedrete in questo vaglio sdegno, confusïon, noia e travaglio. No’ sian tutte maestre di vagliare e macinar la gente: se c’è gnun discredente, vengasi a cimentare, e faréngli gustare come si tratta chi entra nel vaglio. Non ci mandate segala né vena: qui entron biade grosse che reggono alle scosse e son di miglior mena; e anche a mala pena si truova chi rimanga drento al vaglio. Chi entra in questo vaglio e chi se n’esce, chi piange e chi sospira, e ’l vaglio sempre gira e la forza ci cresce: chi del suo mal gl’incresce, fugga la furia e ’l pericol del vaglio. Se mille volte ’l dì il vaglio empiàno, mille volte si vòta: purché ’l vaglio si scuota, si vede a mano a mano coperto tutto il piano di gente che escon de’ buchi del vaglio. Chi non si sente ben granito e forte, non facci di sé pruova; e ’l pentir poi non giova o cercar miglior sorte: me’ sarebbe la morte che sopportar i tormenti del vaglio.

L’apparente frattura fra la ripresa e le stanze, segnata dal tipico incipit carnascialesco della prima stanza («No’ siàn tutte maestre di vagliare»), si spiegherà con l’intento da parte di Bonini di evocare subito, adattandolo al prosieguo, altro ritornello. Ciò presuppone difatti che già fosse nota al pubblico la lauda del vaglio composta su identico metro dal savonaroliano Castellano Castellani, ove l’opera di setaccio era svolta – in certo senso più coerentemente – dalla Morte:

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Al vaglio, al vaglio, al vaglio di questa orrenda morte lo inferno apre le porte, per mostrarvi quel vaglio dove è cunfusïon, noia e travaglio. Ognun che nasce a questo vaglio viene, qui arriva ogni gente: chi dello error si pente questo vaglio el mantiene, ma l’uom che sprezza il bene entra nel fuoco e sempre sta nel vaglio. Morte con questo vaglio intorno mena e spezza polpe e ossa, non è nessun che possa romper la sua catena: e però zappa in rena chi cerca el mondo e vuol fuggir el vaglio. Questo vaglio mortal ne vaglia tanti che tutto el mondo strugge; nessuno el vaglio fugge se non e giusti e’ santi: e però tutti quanti cercate Dio e fuggirete el vaglio. Chi non si sente ben gagliardo e forte ad far contro a .llui pruova, al pentir poi non giova, perché e’ ne vien la morte; pietà serra le porte: così morendo ognuno arriva al vaglio. O felici color che al ciel saranno per questo vaglio oscuro, che, benché e’ paia duro, pur, quando Dio vedranno, con letizia diranno: – Rimanti in pace, o glorïoso vaglio. Dunque, se il vaglio trapassar vogliàno della volubil ruota, questo bel verso nota, pensa che un’ombra siàno: chi perde il tempo invano è sempre macinato in questo vaglio15.

15

Cfr. la stampa E. 6. 5. 2. 29 (c. 1r-v) della Biblioteca Nazionale Centrale di

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Visti l’alto grado di allusività e il carattere di autentico vanto erotico che ne deriva, il contrafactum del Bonini si rivela addirittura dissacrante e, quindi, affatto inadeguato allo scopo di dimostrare una presunta inclinazione del canto carnascialesco verso forme di cupo misticismo. Significativo, a tale riguardo, è che Ghisi non seppe allegare altri esempi a supporto della propria tesi. Più congruo sarà ricordare che fin dagli anni di Lorenzo lauda spirituale e ballata carnascialesca correvano paralleli nelle strade di Firenze. E quanto a Carducci, è chiaro, direi, che pensava non al testo di Bonini, ma a quello di Castellani. L’ipotesi più economica, in definitiva, è che i modi della produzione lirica carnascialesca abbiano conosciuto, pur nella loro intrinseca eterogeneità, una sostanziale continuità fino a quando – tra l’età di Jacopo dell’Ottonaio e quella di Benedetto Varchi – si irrigidirono nella forma che Ghisi stesso definì cortigiana. Savonarola, anziché pilotare un inesistente stravolgimento del filone, cercò semmai di sopprimerlo facendo dare alle fiamme i manoscritti che assemblavano testi di questo tipo, tanto che solo dopo la parentesi monastica fu possibile riorganizzarne un corpus16.

Firenze. Che i due testi sono in rapporto l’un con l’altro ha segnalato G. Ponte, Attorno al Savonarola. Castellano Castellani e la sacra rappresentazione in Firenze tra ‘400 e ‘500, Genova, Pagano, 1969, p. 18. 16 Su questo punto ha opportunamente insistito F. Luisi, La musica vocale nel Rinascimento. Studi sulla musica vocale profana in Italia nei secoli XV e XVI, Torino,

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Poesia pastorale

VII ALLE ORIGINI DELLA BUCOLICA RINASCIMENTALE: LORENZO E L’UMANESIMO DEI FRATELLI PULCI

1. È un luogo comune dei biografi del Magnifico che Luigi Pulci sia stato uomo di fiducia e compagno di baldorie dell’adolescenza di Lorenzo; qualcuno ha persino scorto in lui la personalità che ne avrebbe plasmato «in più aspetti la fanciullezza e la prima giovinezza»1. In effetti il ritratto della brigata laurenziana serbatoci nell’Uccellagione di starne consente di affermare almeno che egli fu uno dei personaggi di maggior spicco entro il corteggio del delfino mediceo2, e la grande confidenza stabilitasi per un certo periodo tra i due risulta nitida dall’epistolario pulciano. Sarebbe tuttavia ingenuità oggi non più perdonabile interrogare quelle lettere senza tener conto del divario incolmabile che li separava e che pose Pulci, fin da subito, nella posizione del cliente più che dell’amico. Che poi nella cerchia dei cortigiani egli avesse, durante gli anni Sessanta, rango piuttosto elevato si può arguire da certi incarichi di fiducia e di rappresentanza che il Magnifico gli affidò – come quando, nella primavera del 1468, accompagnò in visita a Pisa e nel contado pisano Alfonso duca di Calabria – e per il fatto che a lui spettò l’onore di celebrare in versi la vittoria di Lorenzo nella giostra dell’anno successivo: ma è bene ricordare che anche in quel caso si trattava di omaggio dovuto del tenuior verso il potentior amicus.

1 P. Orvieto, Lorenzo de’ Medici, Firenze, La Nuova Italia, 1976, p. 4. Più in generale, sui rapporti di Lorenzo con i tre fratelli, si vedano i cenni di A. Rochon, La jeunesse de Laurent de Médicis (1449-1478), Paris, Les Belles Lettres, 1963, pp. 88-89. 2 Per la figura di Pulci nel poemetto si veda M. Martelli, La tradizione manoscritta dell’«Uccellagione di starne», «Rinascimento», n. s., V (1965), pp. 51-85.

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Quanto al reale o presunto influsso esercitato sulla formazione di Lorenzo, pochi sono i dati sicuri che a tutt’oggi potrebbero farsi valere. È un fatto che nella sua vasta sperimentazione poetica Lorenzo non toccò mai i generi preferiti da Luigi – vale a dire il cantare cavalleresco, la frottola, il rispetto spicciolato, il sonetto burchiellesco – salvo avvicinarsi al suo gusto, come è noto, nelle ottave dell’Uccellagione e nel Simposio. La lirica giovanile del Magnifico non reca, né potrebbe recare, tracce di un eventuale magistero pulciano ma, com’è logico, quelle della lezione petrarchesca aggiornata sulla scorta delle esperienze della generazione di lirici che aveva partecipato al Certame coronario. E in ambito rusticale, non occorre nemmeno avvertire che l’autore della Beca replica a quello della Nencia, non viceversa. Neppure si deve dimenticare che la sua opera di maggior impegno, il Morgante, fu richiesta al Pulci dalla madre del Magnifico, Lucrezia Tornabuoni: Lorenzo vi si affaccia alla ribalta soltanto nel congedo, ove viene celebrato insieme con la sua progenie, sicché anche sul piano della committenza i rapporti tra i due ci appaiono sfumati. Non sembra inutile allora chiedersi – a parte i già menzionati Simposio e Uccellagione – cosa la frequentazione giovanile con Luigi e con i suoi fratelli Luca e Bernardo abbia prodotto in Lorenzo. Per affrontare correttamente la questione occorrerà però anzitutto ampliare lo sguardo e allargare il discorso al significato che ebbe nella Firenze di medio Quattrocento la vicenda poetica dei Pulci. 2. Conviene partire da un brano del Driadeo d’amore, composto alla metà degli anni Sessanta dal maggiore dei tre, Luca, e dedicato a Lorenzo stesso. Nel terzo canto il poeta chiama sulla scena dei colli mugellani proprio il suo giovane mecenate, il quale s’impegna in una gara canora con il pastore Tavaiano per la conquista della bella Estura, «e nell’ultimo – secondo che recita la rubrica – vanta Lauro alla ninfa Estura una città perfetta, e ’l pastore vita solitaria e filosofica». In altre parole ha luogo qui una disputatio analoga a quella che nelle landiniane Camaldulenses – svoltesi secondo la fictio, ricordo, nel 1468 – avrebbe visto protagonisti l’Alberti e Lorenzo: ciò che non basta per proporre di scorgere in Tavaiano l’alter ego pastorale dell’Alberti stesso, ma è certo sufficiente a farci pensare che il giovane Medici fosse allora realmente affezionato alle posizioni dell’umanesimo civile, dissociandosi peraltro da quelle degli stoici. E riguardo al fatto che all’altezza del De summo bono egli risulta essere passato sull’altro fronte, tanto da costringere il pastore Alfeo a controbattere l’entusiasmo del signore per la vita bucolica, si dovrà star attenti a non sottovalutare le esigenze retoriche dell’argomentazione e del genere dell’altercatio. L’omaggio rivolto a Lorenzo nel Driadeo dal più anziano dei Pulci non consiste solo nell’averlo accolto tra i personaggi del poema. La nobiltà e la

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VII Alle origini della bucolica rinascimentale: Lorenzo e l’umanesimo dei fratelli Pulci

finezza di carattere che l’autore gli attribuisce sono espresse dalla conclusione del canto: dopo che Tavaiano ha declamato una lunga egloga monodica sul modello del lamento di Polifemo a Galatea, Lauro abbandona il terreno lasciando magnanimamente la ninfa al rivale. Ma quel che ci interessa è soprattutto un brano della laudatio urbis Florentiae incastonata da Pulci nel suo testo e fatta pronunciare a Lauro. Sebbene il nome non sia esplicitato, è scontato che la «città regina / d’altre città, c’ha contado e castella / e studio e porto e libertà divina» (III 79 3-4) è quella appunto in cui Luca, all’epoca bandito da Firenze e rifugiato in Mugello in seguito al fallimento del proprio banco, vorrebbe poter ritornare col favore di Lorenzo. Occorre allora riflettere sulla seguente ottava, intesa a magnificare i vantaggi culturali della vita cittadina (III 84): Un’accademia, un studio di buccoici, scandendo versi scritti da ortografi, vedrai, e sette di morali e stoici, disegnar l’universo ivi cosmografi, geometri riquadrar a dopp’i’ loici, grammatici, oratori e storïografi, chi le stelle misura in cielo e musici, per sanar corpi fisici e cerusici3.

Si ha qui la raffigurazione di una vita intellettuale attiva in ogni campo del sapere umanistico – poeti, scribi, filosofi, geografi, architetti, retori, astronomi, musicisti, medici – che molto doveva lusingare i lettori intra moenia e Lorenzo stesso. Va messo in rilievo però che la poesia vi è rappresentata da un filone preciso, il quale evidentemente doveva proporsi agli occhi – o nei voti – di Luca Pulci come genere in cui i fiorentini eccellevano. Lauro vanta difatti alla ninfa la presenza in città di una «accademia di buccoici», ovvero di un gruppo di poeti dediti alla poesia pastorale. A tale proposito, Pulci poteva forse avere in mente le coeve bucoliche latine di Naldo Naldi, ma in primo luogo avrà pensato a quella autentica fioritura volgare del genere promossa appunto da lui e dai suoi fratelli. Per valutare con esattezza l’allusione bisognerà in effetti tenere presente un elemento generalmente trascurato, e cioè che i fratelli Pulci non furono soltanto i poeti del Morgante e del Ciriffo: prima di specializzarsi nella produzione cavalleresca essi furono anzitutto i fautori di altro genere destinato 3 Luca Pulci, Il Driadeo d’amore, a cura e con prefazione di P. E. Giudici, Lanciano, Carabba, 1916, p. 97.

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ad una vasta fortuna. In età precoce il minore dei tre, Bernardo, aveva portato a compimento il primo volgarizzamento poetico oggi noto delle egloghe virgiliane e lo aveva dedicato allo stesso Lorenzo con una epistola degna del massimo interesse. Ne stralcio un significativo passo: Da un tempo in qua, avendo dato, quando per ozio m’è suto concesso, alquanto d’opera alle latine lettere e il preterito anno la Bucolica di Virgilio assai acuratamente udita, mosso dalla dolceza de’ pastorali canti e d’altri sensi che assai maravigliosi in essa si legono, feci pensiero, per mio exercizio, quella di latini versi in vulgari traducere, de’ quali insino dalla prima puerizia sommamente mi sono dilectato, per fare experienzia se l’artificiosa eleganzia del rusticano metro in materno idioma per modo alcuno si potessi exprimere; e visto da principio che l’opera assai prosperamente succedea, facto dipoi al seguire più ardito, col divino favore quella finalmente al fine ho riducta e, con trita examinazione, fermo proposito a te mandarla al tuo nome ornatissimo dicata, non perché io speri per vulgari versi alcuno intellecto a te dichiarare – el quale, oltre agli anni de’ latini peritissimo, veramente cognosco il virgiliano senso a perfezione intendere – ma perché dal tuo medesimo florentissimo nome a essa operetta non mediocre auctorità ne venga a resultare e io, per tal mezzo a te notissimo, tra’ tuoi singularissimi amici, come disopra precipuamente desiderare affirmai, meritamente sia adnumerato, e tra quegli maxime che della tua gloria con vero animo sono observantissimi4.

Si tratta di un documento, come dicevo, per più aspetti notevole, intanto perché consente di affacciare in via ipotetica una datazione piuttosto alta dell’episodio. Padre Verde, di recente, ha dato per scontato che la versione fosse degli stessi anni in cui fu stampata, quando Bernardo era «occupato e affaticato per incombenze attinenti al suo ufficio di Provveditore dello Studio Fiorentino»5; ma basta constatare che Lorenzo viene detto nella dedicatoria «giovane prestantissimo» per accorgersi che il volgarizzamento risale ad un’epoca assai anteriore, come conferma il fatto che l’operetta venga presentata esplicitamente quale fatica giovanile («sarai censore delle mie scolastiche e umilissime primizie»)6. Del resto il sonetto di Jacopo da Pilaia che ini4

Cito dall’edizione Miscomini dei bucolici (Firenze, 1482, senza titolo), cc. a3v-a4v. A. F. Verde O. P., Lo Studio Fiorentino. 1473-1503. Ricerche e Documenti, IV, 1, Firenze, Olschki, 1985, pp. 458-9. 6 Cfr. F. Flamini, La vita e le liriche di Bernardo Pulci, «Propugnatore», N. S., I (1888), 1, pp. 247-8; E. Giorgi, Le più antiche bucoliche volgari, «Giornale storico della letteratura italiana», LXVI (1915), p. 140 n. 3; e S. Villari, Una bucolica «elegantissimamente composta»: il volgarizzamento delle eglogle virgiliane di Bernardo Pulci, in Filologia umanistica. Per Gianvito Resta, a c. di V. Fera e G. Ferraú, Padova, Antenore, 1997, pp. 1873-1937. Che «Bernardo Pulci aveva cominciato a tradurre Virgilio fin dal ‘70» asserisce, senza argomentarlo, M. Pieri, La scena boschereccia nel Rinascimento italiano, Padova, Liviana, 1983, p. 32. 5

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VII Alle origini della bucolica rinascimentale: Lorenzo e l’umanesimo dei fratelli Pulci

zia «Pensando, rimirando e contemplando / tanto elegante tuo gentil libretto, / che sì ben hai tradutto a detto a detto, / mi par fra i pastor’ già ir cantando» fu indirizzato a Bernardo certo prima del 14667. L’accenno all’esposizione delle egloghe virgiliane cui Bernardo diceva di aver assistito l’anno precedente («il preterito anno la Bucolica di Virgilio assai acuratamente udita»), lungi da far supporre, come è accaduto al medesimo Verde, che uno dei docenti dello Studio avesse tenuto tale corso durante l’anno accademico 1480-81, potrebbe richiamarsi alle letture tenute da Bartolomeo Scala nel 1460, in casa di Pierfrancesco de’ Medici – ove certo si recava il fratello Luigi8 – oppure ai primi corsi virgiliani di Cristoforo Landino9. Il sapore in certa misura umanistico dell’operetta era evidente soprattutto negli argomenti premessi ai singoli pezzi, nel primo dei quali risuona nitida l’eco della prefazione di Servio al proprio commento. Scriveva Bernardo: Questa prima egloga è decta Tytiro, nella quale si contiene publico conquesto et privata gratulatione delle recuperate possessioni. Introduconsi in essa dua pastori: Melybeo, che in greca lingua significa quello che ha cura de’ buoi, et Tytiro, che in lingua laconica è decto proprio il montone magiore il quale va inanzi alla greggie per guida10.

Parole, queste, in cui si riprendeva quasi verbum de verbo il brano col quale Servio si avviava a concludere, appunto, il suo proemio: Etiam hoc sciendum est: personas huius operis ex maiori parte nomina de rebus rusticis habere conficta; ut Meliboeus ‘´oti mélei autø tøu boøu, id est qui curam gerit boum, et Tityrus dicitur aries maior, nam Laconum lingua tityrus dicitur aries maior qui gregem anteire consueverit.

Così proviene dal divulgatissimo corredo esegetico fornito da Servio la successiva avvertenza che «intendesi Tytiro in persona di Virgilio»; mentre altrove, come già rilevato da Zabughin, Bernardo si allontanava dall’ermeneutica serviana11.

7 Cfr. F. Battera, L’edizione Miscomini (1482) delle Bucoliche elegantissimamente composte, «Studi e Problemi di Critica Testuale», 40 (1990), p. 184. 8 Cfr. C. Carnesecchi, Per la biografia di Luigi Pulci, «Archivio storico italiano», XVII (1896), p. 378. 9 Cfr. F. Battera, Le egloghe di Girolamo Benivieni, «Interpres», X (1990), pp. 137-38. 10 Ed. Miscomini cit., c. a5v. 11 Cfr. V. Zabughin, Vergilio nel Rinascimento italiano da Dante a Torquato Tasso, II, Bologna, Zanichelli, 1923, p 357 e pp. 402-3 n. 14.

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Merita una riflessione, inoltre, il fatto che Pulci offrisse in dono all’imberbe Lorenzo la sua traduzione come pegno di amicizia o banco di prova per l’ammissione nel novero dei suoi fedeli: segno, questo, che in quel medesimo entourage Bernardo si aspettava che l’esperimento avrebbe riscosso un certo interesse, ovvero che Lorenzo condividesse il suo gusto nel verificare «se l’artificiosa eleganzia del rusticano metro in materno idioma per modo alcuno si potessi exprimere». E osservo, per inciso, che non essendo netta in quell’ambiente – come le parole del minore dei Pulci confermano – la percezione del divario fra stile bucolico e stile rusticale12, lo sforzo di trasferire il «rusticano metro» nel «materno idioma» non può non farci pensare anche alla Nencia e alla Beca. È lecito immaginare, ovviamente, che dell’impresa di Bernardo partecipassero in qualche misura i due fratelli maggiori. Luca del resto va considerato uno dei principali rappresentanti di questo umanesimo tutto volgare, che mirava a rivitalizzare la poesia in lingua materna appropriandosi di alcuni dei generi poetici più consueti della classicità. Nella sua raccolta di epistole in terzine va riconosciuto un cospicuo tentativo di tradurre in volgare i modi e il respiro dell’elegia sotto la specie dell’epistola eroide. Si aggiunga però che quella di Polifemo a Galatea (VIII), desunta dall’imitazione quasi centonaria che dell’idillio teocriteo aveva dato Ovidio nel XIII delle Metamorfosi13, risulta comprensibilmente contaminata con il genere dell’egloga. A parte gli inserti bucolici del Driadeo, peraltro, anche nella prima epistola, di Lucrezia a Lauro, egli trovava il modo di accogliere una breve egloga amebea recitata dai pastori Anibeo e Sibulo14. Erano non a caso, egloga ed elegia, i due generi sui quali aveva puntato l’Alberti poeta15, nel cui repertorio andrà perciò indi12 Cfr. D. De Robertis, Due altri testi della tradizione nenciale (1967), in Id., Editi e rari. Studi sulla tradizione letteraria tra Tre e Cinquecento, Milano, Feltrinelli, 1978, pp. 149-52. 13 Cfr. S. Carrai, Le muse dei Pulci. Studi su Luca e Luigi Pulci, Napoli, Guida, 1985, p. 29; e F. Battera, Sulla ‘Pìstola’ di Polifemo a Galatea: primi appunti, «Comparaison», II (1993), pp. 35-64. Il testo delle Pìstole si cita secondo l’edizione di Firenze, Miscomini, 1482, corretta talvolta mediante il ricorso ai testimoni manoscritti (per cui vedi ivi, p. 15 n. 1). 14 Sulla datazione dell’epistola, pressapoco coeva alla dedicatoria del Driadeo, cfr. Carrai, Le muse dei Pulci..., pp. 15-23. 15 Per l’elegia volgare indispensabile il rinvio a G. Gorni, Atto di nascita d’un genere letterario: l’autografo dell’elegia ‘Mirzia’, «Studi di filologia italiana», XXX (1972), pp. 251-73; e più in generale si vedano le riflessioni di P. Floriani, Il classicismo primocinquecentesco e il modello ‘augusteo’, in AA. VV., L’età augustea vista dai contemporanei e nel giudizio dei posteri, Mantova, Accademia Nazionale Virgiliana, 1988,

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viduata – secondo un’indicazione di Dionisotti16 – una significativa fonte di ispirazione dell’attività di Luca Pulci. Si spiega certo in quest’aura che lo stesso Luigi, in data imprecisata, copiasse di suo pugno in un codice di proprietà dei Medici (attuale Palatino Parmense 2508), con i Trionfi petrarcheschi, le bucoliche del senese Francesco Arzocchi17. L’attenzione di Luca verso il modello di egloga volgare elaborato dall’Arzocchi è rivelata, nell’epistola di Polifemo e negli inserti bucolici di quella di Lucrezia e del Driadeo, dall’impiego sistematico dell’endecasillabo sdrucciolo, frequente nel senese, assente invece nel Tirsi albertiano come nel volgarizzamento virgiliano del fratello Bernardo; sicché il fatto stesso che la trascrizione arzocchiana di Luigi sia alla base del testo incluso nella raccolta di bucoliche volgari edita da Antonio Miscomini ai primi del 1482 parrebbe confermare una pulciana patente di autorità nell’introduzione in Firenze del culto per l’egloga volgare18. A proposito di Luigi, inoltre, appena occorrerà ricordare l’alternativa rusticale cui egli, replicando all’autore della Nencia, dava voce con il lamento del contadino mugellano innamorato della Beca. Abbiamo quindi elementi sufficienti per sostenere che l’«accademia di buccoici» della quale, per bocca di Lauro, Luca faceva menzione nel Driadeo non era affatto – come opinò Enrico Carrara – quella platonica riunita attorno a Ficino19, ma alludeva ad un gruppo di poeti affascinati dalla scoperta della bucolica volgare. Non è facile, per la penuria di documenti, dire se altri ne facesse parte, ma tutto lascia intuire che a tale altezza di tempo i principali esponenti di questa avanguardia fossero appunto i Pulci. A loro di certo, e sul versante propriamente umanistico al Naldi, spetta il merito di aver rivitalizzato in Toscana il mito pp. 249-52. Sull’eroide, in particolare, S. Longhi, Lettere a Ippolito e a Teseo: la voce femminile nell’elegia, in Veronica Gambara e la poesia del suo tempo nell’Italia settentrionale, a c. di C. Bozzetti, P. Gibellini, E. Sandal, Firenze, Olschki, 1989, pp. 385-98. 16 Cfr. Dionisotti, Leonardo uomo di lettere, «Italia medioevale e umanistica», V (1962), p. 204, e Id., Tradizione classica e volgarizzamenti, in Id., Geografia e storia della letteratura italiana, Torino, Einaudi, 1967, p. 157. 17 Cfr. De Robertis, Due altri testi..., p. 149 n. 6. 18 Per la tradizione del testo arzocchiano compreso nell’incunabolo miscominiano (e anche per l’ipotesi dei Pulci intrinseci del senese) vedi S. Fornasiero, Sul nome di Francesco Arzocchi, «Studi mediolatini e volgari», XXIII (1975), p. 108; e F. Arzocchi, Egloghe, edizione critica e commento a c. di S. Fornasiero, Bologna, Commissione per i testi di lingua, 1995. 19 E. Carrara, La poesia pastorale, Milano, Vallardi, s. d. [ma 1909], p. 168. Vedi però D. De Robertis, L’ecloga volgare come segno di contraddizione, «Metrica», III (1980), pp. 72-73.

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della vita pastorale trasfigurando in una sorta di Arcadia le colline del Mugello, secondo un suggerimento ricavabile dall’esordio del Tirsi albertiano («Tyrsis e Floro, gioveneti amanti, / richi pastori, l’uno e l’altro bello, / usi fra loro racontar suoi canti, / infra quel’Alpe, su, cerca ’l Mugello, / givan cacciando le lor tormiciole»). Il problema che si impone in questa sede tuttavia è se anche Lorenzo risentisse allora di questa stagione della bucolica fiorentina. Prima di entrare nel vivo della questione, sarà opportuno ragionare ancora sui testi di Luca Pulci che adottano questo scenario di un Mugello abitato da pastori e da ninfe: vale a dire epistola prima (Lucrezia a Lauro) e Driadeo, il quale, nella dedicatoria rivolta a Lorenzo, veniva spacciato per «istoria ovvero favola recitata favolosamente per tragedia dai nostri pastori». Non sembra coincidenza fortuita che entrambi siano, non soltanto rivolti a Lorenzo, ma facciano aggio sulla sua inclinazione per quel luogo. Della sua apparizione nel poemetto già si è detto; quanto all’eroide, essa s’immagina scritta da Lucrezia Donati, salita sui colli della Calvana a cercare l’amato Lauro. L’omaggio cortigiano, com’era logico, si fondava su una propensione reale di Lorenzo per la terra ove sorgeva la villa di Cafaggiolo e che in effetti egli amava visitare sovente. Il Magnifico perciò doveva riconoscersi nell’immagine poetica che di lui, perso sulla Calvana, davano i versi pulciani. Ciò non equivaleva ovviamente, da parte sua, ad abbracciare l’ideologia stoica per identificarsi con l’attitudine contemplativa del pastore, talché anzi, nella disputa con Tavaiano, lo stesso Luca lo faceva optare per il coté cittadino; ma neanche poteva impedire, sul piano della poesia, l’eventuale apoggio all’«accademia di buccoici», espressione di un divertissement intellettuale tipicamente urbano e cortigiano. Luca, coinvolgendolo nella celebrazione di quel gruppo, doveva pensare di non fargli cosa sgradita e anzi ha tutta l’aria di alludere, se non ad una vera e propria adesione, alla simpatia che Lorenzo doveva mostrare per tale iniziativa. Ma è tempo ormai di estendere l’indagine al Corinto. 3. Com’è noto, sulla cronologia dell’egloga laurenziana gli studiosi non sono tutti concordi. Emilio Bigi – la cui proposta è stata ripresa di recente da altri – la ritiene di poco anteriore al 1486, quando Poliziano citò il testo di Lorenzo nei suoi Nutricia20. Prodotto degli anni giovanili pare invece a Mario

20

E. Bigi, Sulla cronologia dell’attività letteraria di Lorenzo il Magnifico, «Atti dell’Accademia delle Scienze di Torino», LXXXVII (1952-53), pp. 154-69. Cfr. M. Pastore Stocchi, Il commento del Poliziano al carme ‘De rosis, in Miscellanea di studi in

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Martelli, che propende per il biennio 1465-66 sulla base, fra l’altro, dell’accenno all’età trilustre di Galatea-Lucrezia21. Non è questa la sede per entrare nel merito di tale problema: ciò che qui importa è che, in ogni caso, il Corinto deve considerarsi posteriore alla versione virgiliana di Bernardo Pulci, il quale altrimenti non avrebbe mancato – toccando, nella dedicatoria, il problema della resa in volgare di tale genere poetico – di menzionare la prova di Lorenzo. E poiché l’impulso dato al diffondersi della bucolica volgare sarà da attribuire, si è visto, all’iniziativa concertata dei tre fratelli, il capitolo laurenziano dovrebbe ragionevolmente fiancheggiare la fioritura di egloghe da essi promossa. Qualora la sua composizione risalisse effettivamente alla metà degli anni Sessanta, la scena del Driadeo in cui Lorenzo alias Lauro identifica la poesia fiorentina con il filone pastorale dichiarerebbe in maniera inequivocabile la sua stessa affiliazione, in virtù del Corinto, a quella «accademia di buccoici». L’epistola di Polifemo a Galatea – come avvertì Dionisotti22 – è testo di notevole importanza e che, aggiungo, ha lasciato qualche traccia anche nei bassorilievi pastorali delle Stanze polizianee23. Avendo Luca, tra il ’65 e l’anno successivo, dedicato esplicitamente a Lorenzo le sue Pìstole, la loro lettura da parte del giovane Medici non può revocarsi in dubbio. Le spie di un contatto diretto tra la raccolta pulciana e l’egloga laurenziana sono per la verità piuttosto tenui, come la rima muovere-rovere-piovere dei vv. 65-69 del Corinto (nell’epistola di Polifemo, vv. 164-68, piovere-muovere-smuovere) o la clausola «sotto un rovere» («poi stanca giaceresti sotto un rovere»), che compare all’inizio dell’inserto bucolico dell’epistola I di Luca (vv. 67-69): «Ché in versi alterni zufoli? / Or che gl’è caldo, all’ombra sotto un rovero / perché non meni gl’affannati bufoli?». Ma non è tanto la dipendenza dell’un testo dall’altro che interessa stabilire24. Quel che conta è evidenziare, anche onore di Vittore Branca. III. Umanesimo e Rinascimento a Firenze e Venezia, Firenze, Olschki, 1983, pp. 400-401. 21 M. Martelli, Preistoria (medicea) di Machiavelli, «Studi di filologia italiana», XXIX (1971), p. 395 n. 1, e Id., Per la storia redazionale del ‘Corinto’, ivi, XXXIII (1975), pp. 221-40. 22 Dionisotti, Leonardo omo di lettere..., pp. 203-4. 23 Cfr. A. Poliziano, Stanze – Fabula di Orfeo, a cura di S. Carrai, Milano, Mursia, 1988, pp. 11-12 e 105. 24 Nessuno studioso laurenziano pare comunque aver preso in considerazione il problema di un eventuale rapporto fra l’egloga e le pistole pulciane: valga per tutti l’esempio di B. Maier, Lettura critica del ‘Corinto’ di Lorenzo de’ Medici, Trieste, Zigliotti, 1949.

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mediante l’impiego del reagente pulciano, una precisa distinzione all’interno della produzione bucolica del Magnifico. L’altercazione o, meglio, il De summo bono di pastorale ha soltanto la cornice, in cui si svolge una disputa teologica che chiama in causa Ficino in persona, e il cui autore si indugia a versificare la Oratio de felicitate del grande neoplatonico: poco ha a che vedere con la tradizionale allegoria delle egloghe, poniamo, dell’Arzocchi. Lo stesso incompiuto poemetto in terzine sul certame pastorale di Apollo e Pan – le due divinità tutelari di Lorenzo – travalica la tradizione bucolica, se anche non partecipa dei sovrasensi che saranno alla base del Trionfo di Pan dipinto per lui, fra il ‘90 e il ‘92, da Luca Signorelli, ove il regno di Pan simboleggia probabilmente il dominio laurenziano25. Il Corinto si pone invece palesemente sulla linea albertiana e arzocchiana propugnata dai fratelli Pulci. Potrebbe non essere casuale allora che l’egloga di Lorenzo prendesse a modello il medesimo brano ovidiano su Polifemo e Galatea imitato, e frequentemente riecheggiato, da Luca Pulci nella sua epistola ottava. Se di accademia o di atelier davvero si trattava, la variazione sul tema sarebbe caduta perfettamente in taglio, configurando così un rapporto di emulazione che andava al di là dell’adozione di una fonte comune e che richiama, in qualche misura, il dittico costituito da Nencia e Beca. Del lamento pastorale il Corinto e l’epistola pulciana danno peraltro un’interpretazione stilisticamente divergente, specie per l’impiego sporadico dello sdrucciolo da parte di Lorenzo, a fronte dell’impegno di Luca a farne invece segno distintivo e autentico marchio stilistico del genere bucolico. Per questo specifico aspetto i due poeti guardavano evidentemente a precedenti diversi: mentre Pulci portava a conseguenze estreme i risultati raggiunti dall’Arzocchi, Lorenzo sembra essersi rifatto piuttosto all’Alberti del Tirsi e aver perseguito una più raffinata combinazione di tessere, fin dall’avvio «La luna in mezzo alle minori stelle» ricalcato su quello del quintodecimo epodo oraziano («Nox erat et caelo fulgebat luna sereno / inter minora sidera»). Albertiano parrebbe d’altronde il nome stesso del protagonista, così vicino a quello di Corimbo26. A parte queste divergenze, il Corinto insieme con le sestine giovanili rappresenta il momento di maggiore vicinanza di Lorenzo alla poetica in cui i Pulci, negli anni Sessanta, si erano pienamente riconosciuti. Perciò la datazione dell’egloga alla prima metà degli anni Ottanta lascia anche me abba-

25

Cfr. A. Chastel, Arte e umanesimo a Firenze al tempo di Lorenzo il Magnifico. Studi sul Rinascimento e sull’umanesimo platonico, Torino, Einaudi, 1964, pp. 232-38. 26 Cfr. Carrara, La poesia pastorale..., p. 169.

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stanza perplesso: plausibile e coerente con le abitudini di Lorenzo sarebbe eventualmente che egli rimettesse le mani su un testo giovanile per innestare, nel finale, l’eco dell’elegia pseudovirgiliana (oggi attribuita ad Ausonio) De rosis nascentibus: eco indotta forse dal corso di Poliziano su detto carme, del gennaio–febbraio 148527. Del resto, a Firenze, la cospicua silloge bucolica impressa dai torchi del Miscomini, anziché aprire una stagione, l’aveva chiusa, favorendo per contro il lancio su vasta scala del capitolo pastorale a Ferrara (Boiardo, Correggio, Tebaldeo) e a Napoli (De Jennaro, Sannazaro), mentre a Milano l’egloga rappresentativa trovava cittadinanza grazie ad un esule fiorentino, grande amico dei Pulci, come Bernardo Bellincioni28. 4. Verso la fine del Morgante – morto ormai da tempo Luca e integratosi Bernardo nel nuovo milieu – Luigi riaffermava la propria fedeltà a quell’umanesimo volgare di cui la bucolica aveva costituito il genere di punta, dichiarando di essere pronto a farsi da parte per rifugiarsi «tra faggi e tra bifulci / che non disprezzin le muse de’ Pulci», raffigurandosi altresì, con ostentata umiltà, in atteggiamento appartato e pago del dialogo con alcuni pastori virgiliani: «io me ne vo pe’ boschi puro e soro / con la mia zampognetta che pur suona, / e basta a me trovar Tirsi e Dameta, / ch’io non son buon pastor, non che poeta» (XXVIII 139 7-8 e 138 5-8). Egli dimostrava così, se ce n’era bisogno, di essere un attardato. Non erano più i tempi in cui il fratello maggiore poteva perorare la propria causa e, in definitiva, ottenere la revoca del bando da Firenze dedicando a Lorenzo un poemetto eziologico ambientato in Mugello – il Driadeo – ovvero scrivendogli, nel congedare l’opera: sobrio di tante passioni urbane, vieni a vedere le tue dilettissime ombre e udirai di questi antichi coloro che non solamente dicono aver veduto ninfe e questi semidei, ma eziandio aver parlato con le lamie e veduto per l’aria volare serpenti ed altri animali mostruosi, che in Libia non se ne vide mai tali29.

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Che «Lorenzo avesse raccolto, oltre alla presenza atmosferica del De rosis, proprio la suggestione delle lezioni che il Poliziano vi aveva dedicato» ha congetturato Pastore Stocchi, Il commento ..., p. 401. L’ipotesi del rimaneggiamento del finale è ancora di Martelli, Per la storia redazionale ..., pp. 236-40; e si veda ora D. Del Corno Branca, Il laboratorio del Poliziano. Per una lettura delle ‘Rime’, «Lettere italiane», XXIX (1987), p. 189. 28 Sul retroterra toscano del polimetro bellincioniano vedi Teatro del Quattrocento. Le corti padane, a cura di A. Tissoni Benvenuti e M. P. Mussini Sacchi, Torino, UTET, 1983, p. 261.

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Questa passione antiquaria un po’ alla buona, non scissa da pratiche magiche e spiritiche, avrebbe fatto una ben magra figura a fronte dell’erudizione di Poliziano o del giovane Pico. E per Luigi c’erano stati nel frattempo gli aspri diverbi con Matteo Franco e con Ficino stesso, che di certo non avevano giovato al suo prestigio30. Pienamente conscio della propria inattualità, egli polemizzava proprio con tale coté nel Morgante, rintuzzando preventivamente le mordaci critiche dei detrattori e caratterizzando il proprio isolamento appunto mediante il contesto boschereccio (XXV 117): La mia accademia un tempo o mia ginnasia è stata volentier ne’ miei boschetti, e puossi ben veder l’Affrica e l’Asia: vengon le ninfe con lor canestretti e portanmi o narciso o colocasia; e così fuggo mille urban dispetti, sì ch’io non torno a’ vostri arïopaghi, gente pur sempre di mal dicer vaghi.

Luigi si contrapponeva così agli uomini di cui il Magnifico ormai si circondava, sicché questi non poteva certo essere dalla sua parte; né era più il giovinetto dedito alle cacce e ai divertimenti del novembre 1466, quando dal podere della Cavallina Luigi stesso gli aveva scritto: Io t’aspettavo con gran festa. Hieri fui in Cafagiuolo, et mena’vi il conpagno rispetto se vi fussi Piero Allamanni. Tu se’ un buon garzone, et se’ pure il mio Lauro, o vogli tu o no; pare che sia tra noi cierta conformità che viene dalle stelle, et fa ch’io t’ami tanto et ch’io mi confidi ancora tu ami me molto. Non posso ad altro pensare che a tte e a Salay: da un tempo in qua, queste sono le mie tarantole. Staròmi qualche dì ancora con teco tra questi boschi, et ragioneromi con le mie più domestiche muse di te; et se tu ci verrai a vedere, farò che tu m’abbi a scacciare per non sapere la bassadanza31.

Nelle lettere, sempre più rare, successive alla metà degli anni Settanta non c’è spazio per confidenze di questo tipo, né tantomeno per la moda dell’occultismo cui rinvia, nel brano or ora citato, la menzione del demone Salay, e su cui anche Luca aveva posto enfasi facendo dire ad Anibeo, nella prima epistola (vv. 91-93): «Ma che di’ tu de’ tuo maghi che ’ncantano / ora

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Luca Pulci, Driadeo d’amore..., p. 19.

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in su l’Arno, e dicon che gli spirti / nelle camere odono e cantano?»32. La stessa copertura un tempo assicurata da Lorenzo ai Pulci, su questo come su altri piani, sarebbe venuta meno se Luigi, tra l’82 e l’83, fu in qualche modo costretto, per il tramite di Mariano da Gennazano, a quella palinodia religiosa che portò alla stesura della Confessione33. In campo, per così dire, diplomatico l’ultima missione di qualche rilievo, per lui, era stata quella del ’71 a Napoli, ove, sul pretesto della crociata, ci si adoperava a trasformare in una lega nazionale il patto di alleanza stretto dagli Aragonesi con Milano e con Firenze34. Dopo di allora gli sarebbe toccata tutt’al più una funzione di raccordo col condottiero Roberto da Sanseverino, che lo avrebbe portato a soggiornare a lungo lontano dalla sua città e da Lorenzo. E del suo disagio per il mutato ambiente fiorentino danno prova le parole che nell’estate dell’81 scriveva all’amico Benedetto Dei, a Milano, durante un breve ritorno in patria: «mi pare mill’anni esser di costà, ché di qua non so più vivere», e aggiungeva: «Sono fatto lombardo da un tempo in qua»35. Diversamente da Luigi, Bernardo seppe adeguarsi per tempo al nuovo corso. Alla metà degli anni Settanta, mentre ferveva la polemica tra Luigi stesso e Ficino, il filosofo gli scriveva: Ais fratrem tuum maximo tibi dedecori esse, quod mendax et instabilis ab omnibus habeatur. Negare non possum eum esse mendacem, qui contra maiestatem divinam, que infinita veritas est, venenosam linguam calamumque tam impie tamque insolenter exercet36.

Emerge con chiarezza da queste righe che quanto meno Bernardo non si era schierato dalla parte del fratello. Gli incarichi che Lorenzo gli affidò – fino a farlo nominare, nell’84, provveditore degli ufficiali degli Studi di Firenze e di Pisa – provano del resto che egli conservò un certo prestigio nell’ambiente mediceo. Si spiega perciò che rime in linea col petrarchismo laurenziano entrassero presto nella sua raccolta, e che anche si volgesse alla pro-

30 Per tali controversie vedi rispettivamente Carrai, Le muse dei Pulci..., pp. 75-84, e P. Orvieto, Pulci medievale. Studio sulla poesia volgare fiorentina del Quattrocento, Roma, Salerno Ed., 1978, pp. 213-43. 31 Luigi Pulci, Morgante e lettere, a cura di D. De Robertis, Firenze, Sansoni, 1962, p. 952.

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duzione sacra nella quale affiancò la moglie Antonia, nata Giannotti. Le ottave della Passione di Cristo e la Rappresentazione di Barlaam e Josaphat mostrano l’omologazione alla poetica di cui era stato alfiere Feo Belcari e, insomma, al clima letterario della Firenze degli anni Ottanta37. Ma allora già aveva composto un sonetto come il seguente: Qual felice, celeste e verde pianta formò sì fresche, purpuree viuole? Qual leggier pioggia o qual benigno sole produssono al suo fine opera tanta? Qual lunga e schietta man, pudica e santa, la porse a me con accoglienze sole, né mai più viste, e tal’ dolci parole ch’appena di ridille il cor si vanta? Così potessi come gemma in oro serbar te sempre per più caro pegno o trapiantarti qual viva radice, o tu conversa in piccioletto alloro, per mirar te, qual Febo il sacro legno, in rimembranza della mia fenice38.

Si noterà la vicinanza, non solo tematica, al sonetto XVI del Comento laurenziano: Belle, fresche e purpurëe viole che quella candidissima man colse, qual pioggia o qual puro aër produr volse tanti più vaghi fior’ che far non suole? Qual rugiada, qual terra o ver qual sole tante vaghe bellezze in voi raccolse? Onde il süave odor Natura tolse, o il ciel, che a tanto ben degnar ne vuole? Care mie vïolette, quella mano che v’elesse, ove eri, in sorte, vi ha di tante excellenzie e pregio ornate!

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Non si hanno notizie precise sulle pratiche spiritiche e magiche nella Firenze del tempo; per Luigi in particolare si veda comunque il vecchio articolo di P. Rajna, Nei paraggi della Sibilla di Norcia, in Studi dedicati a Francesco Torraca, Napoli, Perrella, 1912, pp. 233-53.

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Quella che il cor mi tolse, e di villano lo fe’ gentile, a cui siate consorte: quella adunque, e non altri, ringraziate!39

Che i due testi siano da mettere reciprocamente in rapporto provano, a parte la riprese della rima in -ole, la comune adozione dell’anafora su qual interrogativo o del verbo produrre (Lorenzo v. 3 «o qual puro aere produr volse», Pulci v. 4 «produssono al suo fine opera tanta») e il raffronto fra l’incipit laurenziano («Belle, fresche e purpuree viole») e il v. 2 pulciano («formò sì fresche, purpuree viuole»). In effetti – lo ha segnalato Domenico De Robertis – il sonetto pulciano si inscrive nella celebrazione a più voci di un gesto attribuito a Lucrezia Donati, che vede al centro Lorenzo, ma coinvolge anche Poliziano (con l’elegia In violas), Girolamo Benivieni (col sonetto Qual felice terren, qual vive fronde) e, nel campo delle arti plastiche, il Verrocchio della Dama del mazzolino40. Basta l’esempio del componimento sulle violette colte dalla mano dell’amata per rendere l’idea della sintonia raggiunta da Bernardo con la lirica del Lorenzo maturo, su un registro diverso da quello che aveva caratterizzato la corona di sonetti indirizzatagli a Cafaggiolo fra la fine degli anni Cinquanta ed i primi anni Sessanta41. La compagnia di Poliziano e di Benivieni nel far coro al Magnifico, poi, è assai eloquente circa il mutato stile e le diverse relazioni letterarie intraprese da Bernardo. Quando egli, nel 1488, venne a morte, la linea albertiana di poesia classicheggiante cui i Pulci avevano dato impulso era oramai esaurita: un tributo pressoché definitivo le aveva versato il polimetro pastorale che apre la polizianesca Fabula di Orfeo42. Sul versante cavalleresco, il Morgante continuava

33

Per tale episodio cfr. Carrai, Le muse dei Pulci..., pp. 173-87. Sul ruolo svolto da Luigi in quel frangente cfr. ivi, pp. 57-63. 35 Pulci, Morgante e lettere..., p. 1003. 36 M. Ficino, Lettere. I. Epistolarum familiarum liber I, a cura di S. Gentile, Firenze, Olschki, 1990, p. 198. Cfr. A. Della Torre, Storia dell’Accademia Platonica di Firenze, Firenze, Carnesecchi, 1902, pp. 823-24. 34

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ad essere richiesto e a dare lustro, fuori le mura, alla poesia fiorentina, ma per molti fra i clienti medicei era espressione di una età pregressa, talché toccò ad un rimatore di secondo piano come Bernardo Giambullari completare il Ciriffo calvaneo, lasciato interrotto prima da Luca e poi da Luigi43. Nella sua facies letteraria, Lorenzo era ormai il poeta-filosofo del Comento. La stessa conquista al volgare, con le Selve, di un genere argenteo caro al gusto di Poliziano va intesa nell’ambito di un classicismo nuovo, che si giovava di una erudizione affinata con gli anni e mirava alle acquisizioni più recenti dell’umanesimo44.

37

Per uno studio sull’attività di Bernardo bisogna ricorrere ancora a quello di F. Flamini, La vita e le liriche..., pp. 217-48. 38 Lirici toscani del ‘400, a cura di A. Lanza, II, Roma, Bulzoni, 1975, p. 357. Cito con qualche modifica nell’interpunzione.

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VIII BOIARDO DAI PASTORALIA ALLE PASTORALE

Esordendo alle lettere poco più che ventenne, Boiardo non scelse di cimentarsi con un genere poetico qualsiasi. Non si dice, naturalmente, del giovanile quaderno di esercizi e di veri e propri esperimenti metrici rimasto, non a caso, privo di qualsiasi eco finché Angelo Solerti, in occasione del centenario del 1894, lo pubblicò intitolandolo Carmina de laudibus Estensium1. Per presentarsi ai lettori della corte modenese di Ercole e, in subordine, a quelli della corte ferrarese di Borso, Boiardo puntò su un genere in gran voga presso quegli umanisti che – avendo vissuto nell’era di Leonello – mettevano ad effetto l’insegnamento guariniano. Proprio in ambito estense difatti, a metà del secolo, la bucolica aveva conosciuto un rilancio alimentato da due poeti cui Boiardo doveva guardare come ad altrettanti maestri: vale a dire lo zio Tito Vespasiano Strozzi e Battista Guarini. E poco prima che Matteo Maria mettesse in cantiere la sua, ad una raccolta di bucoliche in onore di Borso lavorava Gaspare Tribraco, coetaneo del conte di Scandiano e con lui in rapporto di amichevole concorrenza, come nella settima egloga boiardesca esplicitamente dichiara il pastore Coridone sfidando Poeman, alter ego dell’autore, e dicendogli: «licet et Tribracho certes vel doctior illo, / non tamen effugiam» (vv. 29-30)2. Dedicando verso la metà degli anni Sessanta all’allora signore di Modena dieci Pastoralia, il suo giovane feudatario avrà inteso dunque rendergli un omaggio tale da guadagnarsi un indiscusso prestigio agli

1

Cfr. M. M. Boiardo, Le poesie volgari e latine, riscontrate sui codici e su le prime stampe da A. Solerti, Bologna, Zanichelli, 1894. 2 Cfr. G. Venturini, Gaspare Tribraco e la rinascita dell’egloga in Italia, «Giornale filologico ferrarese», I (1978), pp. 19-20.

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occhi dei maggiori intellettuali di quella cerchia e, quanto meno di riflesso, agli occhi dello stesso illetterato Ercole. L’incidenza dell’esempio di Tito Vespasiano Strozzi nei Pastoralia è cospicua e tale da lasciare intuire tutta l’importanza che esso ebbe per la prima formazione di Boiardo. Allestendo un commento alle egloghe latine, mi sono accorto che le reminiscenze dei carmi bucolici di Tito Vespasiano non sono numerose, ma frequenti sono quelle dei suoi Erotica, le quali interagiscono con echi di Virgilio e di altri poeti antichi, al punto da far pensare che Boiardo trattasse il liber strozziano alla stregua di un classico3. La considerazione in cui il nipote teneva, come poeta, l’illustre zio è esplicitata del resto nel ruolo affidatogli, sotto la maschera di Titiro, tra i collocutori della seconda e della nona egloga, e soprattutto dall’omaggio fattogli nella prima per bocca di Pan, che asserisce di consegnare la zampogna pastorale a Poeman, alias Boiardo, avendo Titiro stesso abbandonato la poesia bucolica per quella epica (vv. 12-20). Ciò che equivale, nella fictio, all’intento programmatico di ripercorrere l’itinerario di Tito Vespasiano, se non addirittura di proseguire l’opera da lui lasciata interrotta. E anche nella quinta egloga Titiro viene ricordato – abbinato a Bargo, che parrebbe celare i connotati di Battista Guarini4 – proprio come esperto di poesia bucolica (vv. 10-15). Emulando tali maestri, peraltro, Boiardo mirava, come accade, a superarli. Non può essere casuale che non si avvalesse granché, a quanto risulta, delle egloghe del figlio del grande Guarino, e che quanto a Tito Vespasiano – come detto – attingesse a piene mani agli Erotica, ma poco utilizzasse dei componimenti pastorali. Tale atteggiamento sembra connesso, anzi, con l’ostentato classicismo della raccolta boiardesca. In altri termini, sul terreno specifico della bucolica Boiardo – dichiarato il proprio debito – sembra aver inteso saltare le esperienze recenziori per rifarsi direttamente a quello che considerava l’archetipo del genere. Sebbene, trattandosi di una raccolta di dieci egloghe, l’ispirazione virgiliana sia scontata, occorre sottolineare che, sotto questo profilo, egli andava al di là di quanto ci si aspetterebbe da un poeta della sua epoca. L’ambizione di ricalcare passo per passo le orme di 3 Cfr. M. M. Boiardo, Pastoralia, testo critico, commento e traduzione di S. Carrai, Padova, Antenore, 1996. E vedi già G. Ponte, Imitazione e originalità nei versi latini (1961), in Id., La personalità e l’opera del Boiardo, Genova, Tilgher, 1972, p. 37 n. 11 e 43-44; e E. Bigi, La poesia latina del Boiardo (1969), in Id., Poesia latina e volgare nel Rinascimento italiano, Napoli, Morano, 1989, pp. 92-95. 4 Cfr. A. Tissoni Benvenuti, Schede per una storia della poesia pastorale nel Secolo XV, in In ricordo di Cesare Angelini. Studi di letteratura e filologia, a c. di F. Alessio e A. Stella, Milano, Il saggiatore, 1979, p. 102.

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Virgilio ha indotto nei Pastoralia un fenomeno paragonabile a quello che si sarebbe verificato, sul versante della lirica volgare, per effetto dell’immedesimazione col modello di Petrarca. Da tempo Giuseppe Velli, in uno studio sulla memoria poetica di quest’ultimo, ci ha insegnato a diffidare di certe clausole esametriche che non presuppongono necessariamente la reminiscenza precisa di un passo virgiliano, perché divenute parte integrante del codice linguistico legato ad un genere poetico5. Non è questo il caso dei riscontri con i Pastoralia. Boiardo, difatti, non solo ha desunto dal modello spunti tematici e stilemi precisi: egli si è impossessato di un linguaggio inconfondibilmente virgiliano, interiorizzandolo al punto di reimpiegare parecchie iuncturae in contesti a volte diversi, ma spesso in posizione prosodicamente identica. Non sembra opportuno perciò parlare – come si è fatto – di «pedissequa imitazione virgiliana»6, tanto più che nella tavolozza dei Pastoralia confluiscono colori diversi. Impiegando la tecnica a mosaico tipica degli umanisti, Boiardo si giovava a più riprese di tessere prelevate dagli elegiaci, da Orazio, da Catullo, da Ovidio, qualcosa – s’intende – anche da bucolici minori come Calpurnio e Nemesiano. È significativo, comunque, che tali reminiscenze venissero generalmente mimetizzate mediante l’intarsio con materiali, per così dire, ortodossi, e asservite ad una più compiuta caratterizzazzione del testo in senso virgiliano. L’intento di superare le esperienze pregresse della bucolica umanistica è palese, nei Pastoralia, specie sul piano strutturale. Sebbene nell’unico testimone superstite, Estense lat. 1460 (y. A. 6. 16), una delle tre egloghe strozziane oggi note rechi l’indicazione «sexta», e non si deve dunque escludere che qualche altra manchi all’appello, non risulta che Tito Vespasiano abbia concepito mai il progetto di ricalcare la struttura complessiva dei Bucolica virgiliani. Tanto meno ciò risulta per Battista Guarini, del quale pure ci restano tre egloghe. Quanto a Tribraco, poi, i tre manoscritti che ci hanno conservato la sua produzione bucolica contengono ciascuno sette egloghe, anche se la scelta tràdita dall’Estense latino 771 (a. G. 7. 31) e dal codice 416 della Nazionale di Budapest è lievemente diversa da quella del codice latino 1097 della Biblioteca Universitaria di Bologna, ove il testo di encomio per Borso ha lasciato il posto ad un altro che tesse l’elogio di Ercole7. Per contro, lo 5 Cfr. G. Velli, La memoria poetica del Petrarca (1976), in Id., Petrarca e Boccaccio. Tradizione, memoria e scrittura, Padova, Antenore, 1979, pp. 4-6. 6 E. Carrara, La poesia pastorale, Milano, Vallardi, s. d. [ma 1909], p. 255. 7 Cfr. G. Venturini, Il ‘Bucolicon carmen’ di G. Tribraco. Egloga I, «Giornale filologico ferrarese», I (1978), 95-97.

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stringente parallelismo instauratosi nelle egloghe di Boiardo in confronto alla struttura dell’opera virgiliana faceva sì che egli si presentasse agli occhi dei contemporanei quasi come un nuovo Virgilio, e configurava nei Pastoralia il punto di arrivo della rinascita dello stile bucolico. Da questo punto di vista il progetto, difatti, procedeva ben oltre i risultati conseguiti – per non dire di Petrarca o di Boccaccio – dall’aretino Giovanni de Bonis e dal forlivese Iacopo Allegretti, autori, nella Milano del tardo Trecento, di due raccolte di bucoliche analogamente impostate sul numero dieci, delle quali Boiardo, con ogni probabilità, non ebbe neppure notizia. Nei Pastoralia la sistematica emulazione implica che ogni egloga risponda in tutto o in parte alla corrispettiva virgiliana; e mentre i precedenti, Virgilio compreso, non avevano nutrito alcuna pretesa di isometria, Boiardo introduceva nella silloge il principio di gusto goticheggiante che vincola ciascuna egloga alla durata dei cento versi. Licenziato il libello dopo una faticosa gestazione che lo impegnò durante il biennio 1463-64, egli vi tornò in seguito solo per introdurre qualche rara e circoscritta variante8. Di fatto, chiudeva così i conti con la tradizione guariniana in seno alla quale i Pastoralia erano nati. Poco conta il manipolo di epigrammi latini scritti nel 1471 per sostenere e festeggiare la successione di Ercole a Borso9. La sua strada era diversa da quella che, in altri tempi, gli avevano prospettato il nonno Feltrino e lo zio Tito Vespasiano, e lo portava, si sa, verso le rime volgari. L’abbandono del latino si capisce facilmente nel quadro dell’ascesa della poesia in lingua materna verificatasi, nei domini estensi, a partire proprio dalla seconda metà degli anni Sessanta, grazie anche al transito e al soggiorno di personaggi come Giovan Francesco Suardi, Bernardo Ilicino, Filippo Nuvolone, Giovanni Testa Cillenio e anche Bartolomeo Fonzio, Antonio Cornazano, Pandolfo Collenuccio. Tale crescita, oltre che negli Amorum libri, si espresse nel robusto canzoniere attribuibile ad un non meglio noto membro della famiglia Costabili, e poi nelle rime di Niccolò da Correggio, di Ludovico Sandeo, nonché di poeti bilingui come Timoteo Bendedei e Antonio Tebaldeo10. 8 Cfr. S. Carrai, La tradizione manoscritta e a stampa dei ‘Pastoralia’, «Italia medioevale e umanistica», XXXV (1992), pp. 179-213. 9 La cronologia è stata fissata da D. De Robertis, Iohannes Carpensis / Giovanni da Carpi, in Tradizione classica e letteratura umanistica. Per Alessandro Perosa, a c. di R. Cardini, E. Garin, L. Cesarini Martinelli, G. Pascucci, Roma, Bulzoni, 1985, I, pp. 281-82. 10 Uno sguardo d’insieme al panorama della lirica volgare estense è in A. Tissoni Benvenuti, Rimatori estensi di epoca boiardesca, in Il Boiardo e la critica contempora-

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Ciò basta e avanza a spiegare la decisione da parte di Boiardo di allestire un proprio canzoniere. Meno bene serve a rendersi conto del perché – conclusa la vicenda degli Amorum libri – egli mettesse nuovamente mano ad una raccolta di egloghe Pastorale ancorché volgari. Sarà mio difetto, ma non conosco altri poeti che abbiano scritto due serie di dieci bucoliche ciascuna. Posto che ne esistano, si tratta comunque di un fatto anomalo, anche riguardo al canone virgiliano che, come noto, prevedeva il passaggio irreversibile dalla poesia pastorale e agreste a quella epica. Lo stesso Tito Vespasiano Strozzi, stando ai già menzionati accenni dei Pastoralia, una volta intrapresa la stesura del Borsias aveva trascurato la poesia bucolica. L’indagine su questo punto specifico non può essere impostata seriamente, però, se non si affronta la questione della datazione della raccolta volgare, tuttora incerta. Tra gli studiosi che si sono occupati del problema pochi si sono mostrati convinti che le Pastorale abbiano avuto una genesi unitaria11; i più inclinano a ritenere che esse siano state composte alla spicciolata, durante un arco di anni non tanto breve, e riunite in un secondo momento. Le cinque che alludono esplicitamente alla guerra con Venezia e all’invasione del Polesine come a cosa recente sono, evidentemente, di non molto successive a quei fatti, verificatisi tra la primavera e l’estate del 1482: si tratta della I, della II, della IV, della VIII e della X. Le altre, di soggetto prevalentemente amoroso, sono state in genere ritenute anteriori, ma argomenti su cui riflettere furono allegati per le sole egloghe V e VI da Michele Catalano12. Nell’una

nea, a c. di G. Anceschi, Firenze, Olschki, 1970, pp. 503-10; e in B. Bentivogli, La poesia in volgare, in Storia di Ferrara, VII, Il Rinascimento. La letteratura, a c. di W. Moretti, Ferrara, Corbo, 1994, pp. 174-213. Per l’anonimo Costabili cfr. G. Dilemmi, «L’amico del Boiardo» e il canzoniere per la Fenice, in Per Cesare Bozzetti. Studi di letteratura e filologia italiana, a c. di S. Albonico, A. Comboni, G. Panizza, C. Vela, Milano, Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori, 1996, pp. 55-68. Sul soggiorno ferrarese del Cillenio cfr. S. Carrai, La lirica toscana nell’età di Lorenzo, in M. Santagata – S. Carrai, La lirica di corte nell’Italia del Quattrocento, Milano, Francoangeli, 1993, pp. 100-102. 11 Cfr. Carrara, La poesia pastorale ..., pp. 180-81; G. Ponte, Esigenze politiche e aspirazioni poetiche nelle egloghe volgari del Boiardo (1962), in Id., La personalità..., pp. 103-4; D. De Robertis, L’esperienza poetica del Quattrocento, in Storia della Letteratura italiana, dir. da E. Cecchi e N. Sapegno, Milano, Garzanti, 1966, III, p. 611. Nuovi e importanti argomenti in favore dell’unitarietà della composizione sono stati addotti da A. Tissoni Benvenuti, Alfonso Duca di Calabria e le «Pastorale» di Boiardo, in Studi in memoria di Paola Medioli Masotti, a c. di F. Magnani, Napoli, Loffredo, 1995, pp. 47-55.. 12 Cfr. M. Catalano, Il matrimonio del Boiardo e la cronologia delle sue ecloghe volgari, «Archivum romanicum», V (1921), pp. 80-88.

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l’allegoria pastorale sembrerebbe rinviare all’imminente matrimonio di Boiardo con Taddea Gonzaga, del gennaio 1479; nell’altra si racconta un innamoramento che potrebbe adombrare quello per la medesima Taddea. Pare persino superfluo, tuttavia, mettere in guardia verso l’ingenuità di una datazione dei due testi al biennio 1478-79 fondata su queste basi. Lo stesso tono manifestamente rievocativo delle due egloghe suggerisce semmai che il poeta sia tornato a distanza di qualche tempo a celebrare quelle vicende felici, trasfigurandole nella scena pastorale e collocandole in posizione di rilievo entro la raccolta, in omaggio a colei che era divenuta sua consorte. Ora, in assenza di documenti esterni utili all’accertamento della cronologia o, comunque, della unitarietà dell’operetta, occorre ragionare sulla sua struttura e valutarla tenendo conto del precedente costituito dai Pastoralia. La raccolta volgare presenta una organizzazione diversa ma ancora una volta palesemente virgiliana, con il perfetto equilibrio – ricalcato su quello dei Bucolica – fra cinque egloghe militari e altrettante di soggetto erotico. Inoltre, come i Pastoralia si chiudono con l’egloga intitolata Orpheus, anche le Pastorale terminano con quella intitolata Orfeo, e se nell’ultima egloga latina si introduceva la figura del mitico cantore per fargli pronunciare le lodi di Ercole d’Este, qui identico artificio è adibito a celebrare – secondo che recita la rubrica – «el panegirico de lo incomparabile Signor Duca de Calabria». Se le cinque bucoliche non collegate direttamente alla guerra scoppiata nell’82 fossero state composte in epoca anteriore e a seguito di occasioni disparate, bisognerebbe pensare quindi che quel luttuoso frangente inducesse Boiardo a scrivere di colpo l’altra metà del libello per colmare la misura delle dieci. Una tale ipotesi sembra contrastare, intanto, col fatto che fino all’inizio della guerra egli era tutto impegnato nella composizione dei primi due libri dell’Innamorato, temporaneamente abbandonato, ricordo, proprio col sopraggiungere dell’evento bellico13. Anche a prescindere da questo, comunque, più economico sembra accedere all’ipotesi che in tale circostanza, mutati i tempi e i gusti, egli abbia voluto scrivere una nuova raccolta di stampo virgiliano, ma in volgare. Una conferma viene dall’esame delle egloghe sotto la specie del macrotesto. Non si è notato che Boiardo, almeno fino a un certo punto, ha collegato i pezzi della raccolta giovandosi di connessioni intertestuali tipiche del genere canzoniere e da lui, in effetti, impiegate negli Amorum libri14. Si prenda ad 13

Cfr. N. Harris, Bibliografia dell’«Orlando innamorato», II, Modena, Panini, 1991, pp. 20-28. 14 Cfr. R. Conti, Strutture metriche del canzoniere boiardesco, «Metrica», V (1990), 197-99.

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esempio la ballata XXV, che inizia con la stessa parola, «terra», su cui finisce il sonetto precedente (XXIV); o si veda la liaison tra l’explicit della ballata XCVIII («né lui fu mai contento de una sola») e l’incipit del sonetto XCIX («Misero quivi e sconsolato e solo»). E si badi che l’intenzionalità dell’espediente non è in dubbio neppure qualora il rapporto di contiguità – evidente sul piano del contenuto – non venga marcato dalla ripresa di una parola o di un sintagma: è il caso dei sonetti LXXX-LXXXI, il primo dei quali si chiude sull’immagine del pianto («a la cagion che a lacrimar mi mena?») che riapre l’altro («Solea spesso pietà bagnarmi il viso»). Analogo artificio lega anche le prime cinque egloghe delle Pastorale. Si veda intanto la battuta finale di Mopso nella prima: Come tu dici, è già gionta la sera, e se a te non dispiace la mia stanza, posar potremo in su questa rivera, cantando insieme il giorno che ne avanza.

L’incipit della seconda egloga nasce da qui: «Posto me era a posare in su la riva». La seconda, poi, si chiude sull’immagine del «dipartir» di Galatea, mentre la terza si apre su quella della partenza di Aristeo dalla Tessaglia («Abandonata il pastore Aristeo / avia Tesaglia»); così questa termina con l’immagine del cielo stellato («e fo dipinto il cel tutto di stelle») e la quarta riprende in avvio proprio la parola celo («Dimmi Dameta, poiché il Celo e Jove / ce hano conduti alla fresca rivera ...»). La quarta stessa finisce esprimendo il penser del locutore sul rinverdirsi del prato («di certo il mio penser presagio dice / che a nui ritornerà più che mai bello») e la successiva focalizza l’esordio, per l’appunto, sulla voce pensier («Quanto pensier de amor il cor me ingombra!»). A metà della catena macrotestuale tali raccordi sembrano perdersi, ma quanto si è visto è sufficiente ad avvalorare il sospetto di una concezione sostanzialmente unitaria delle Pastorale, come lo era stata quella dei Pastoralia. I raccordi stessi non possono esser stati inseriti in un secondo momento, né la tradizione manoscritta, compatta, giustificherebbe l’ipotesi di una stratificazione redazionale15, né si capirebbe, in questa eventualità, perché le connessioni si arrestino a metà della serie. Esse dovrebbero appartenere al progetto originario della raccolta, quale elemento coercitivo e strutturante ve-

15 Si veda da ultimo L. Pedroia e G. Pozzi, Le egloghe volgari del Boiardo: un manoscritto ritrovato, «Italia medioevale e umanistica», XXXVI (1993), pp. 265-73.

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nuto meno nel procedere. Se ciò è vero, allora l’intera silloge bucolica in volgare dovrebbe collocarsi quanto meno dopo l’estate del 1482, se al 12 luglio risale la devastazione del palazzo di Ostellato da parte degli invasori, lamentata nella prima egloga da Tito Vespasiano Strozzi, tornato ad assumere, nella circostanza, l’identità di Titiro. Il termine potrebbe spostarsi ancora più avanti considerando che la medesima egloga s’incentra su un pronostico di salvezza che ha tutta l’aria di essere stato scritto, in realtà, a salvezza raggiunta. In particolare, gli esiti della controffensiva di Alfonso d’Aragona – giunto alla testa del proprio esercito a risollevare le sorti del cognato Ercole impossibilitato, perché gravemente malato, a condurre in prima persona le ostilità – vengono prefigurati con una sicurezza tale da lasciar intuire che il pericolo della capitolazione era ormai scongiurato: «Lui sol di tuta Esperia fia salute, / e saran l’opre sue maravigliose, / non da veder più mai né mai vedute. / Per lui l’arme dolente fieno ascose / e sotto il suo pacifico vexillo / la terra fiorirà viole e rose» (vv. 151-56). Specie i vv. 145-47 («Dalmati e Slavi e’ soi signor più lurchi / vedo or fugir avanti a la sua facia, / e lasseranno in Po gondolle e burchi») fanno emergere una scoperta e precisa allusione alla sconfitta delle truppe veneziane nella battaglia sul Po, vicino a Ficarolo, ai primi di settembre del 1483, che un anonimo cronista descriveva così: A dì X, li Venetiani mandorno Tomaxo da Imola, contestabile sopra tute le sue fantarie con tutti li suoi caporali et contestabili, et pasòrno de notte Po a Figarolo et vèneno a la forteza de Rocha Possente et stracorseno infina al Bondeno et tolse de molte artelarie et portòle via et ne butonno asai in Po; et se dise che dicto Tomaxo volea tuore dicta forteza per forza et che havea messo fuogo alla Porta et in questo tempo fu advixato il duca Hercole, il quale subito vene zozo con le fanterie, balestrieri et tucta la gente de arme, et li rupe et amazòne asai et asai se ne anegò, et fu preso il dicto Tomaxo con XI contestabili, et s’el fusse stato preso Carlino et Piedro Schiano, seriano stati presi tuti li contestabili; et quilli, che furno presi, furno menati in Castello Vechio. Dicto Tomaso era ferito da doe ferite, le quale ge furono date in Po, che lui nodava, per le qualle morite in Ferrara16.

In ogni caso, nell’encomio consegnato all’ultima egloga Orfeo dice, fra l’altro, che «già il Mencio, lo Oglio, Pado, Ada e Tesino ... fan riverenza» all’Aragonese (vv. 148-49): allusione questa – secondo che per primo spiegò Guido Mazzoni – alle «vittorie conseguite da Alfonso, varcando l’Adda a Cassano, e quindi l’Oglio, per passare, come fece, in quel di Brescia, e pren-

16 Cfr. Diario ferrarese dall’anno 1409 sino al 1502 di autori incerti, a c. di G. Pardi, Bologna, Zanichelli, 1933 (RIS XXIV), p. 114.

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dervi tutte le castella tra il Mella e Orzinovi»17, ciò che ci porta all’agostosettembre del 1483. Tutto ciò induce a pensare che la raccolta delle Pastorale sia stata concepita non solo dopo l’arrivo dei soccorsi napoletani a Ferrara nel gennaio del 1483, ma in seguito ai primi consistenti successi della lega antiveneziana fra il luglio e il novembre di quell’anno. Non sarebbe logico, in effetti, che Boiardo si affrettasse a cantare il provvidenziale aiuto recato dal duca di Calabria prima che il suo intervento avesse prodotto l’auspicata riscossa. Si aggiunga che nel settembre del 1483 Niccolò da Correggio stentava ancora nelle prigioni veneziane e Boiardo poteva ben compiangere, dunque, l’infelice sorte del cugino rievocandone, nella quarta egloga, la cattura avvenuta il 6 novembre 1482, dopo aver rievocato altre tappe dolorose dei primi mesi di guerra come l’invasione del Polesine, nella prima egloga, o, nella seconda, l’ansiosa attesa dell’intervento di Alfonso trattenuto a sud dall’ostacolo frappostogli dall’esercito pontificio. Acquisito un certo distacco per il tempo trascorso, Boiardo poteva riproporre quei fatti, ammantandoli del velo bucolico, come episodi di una vicenda tragica ma conclusasi nel modo migliore. Difficilmente, d’altronde, la confezione dell’omaggio rivolto all’Aragonese si sarà protratta oltre l’8 agosto 1484, giorno in cui fu stipulata la pace di Bagnolo. Le condizioni del trattato, infatti, fecero sì che nell’animo dei sudditi estensi alla gratitudine si sostituisse il risentimento nei confronti dell’Aragonese, reo, ai loro occhi, di aver concesso a Venezia l’usurpato Polesine: e certo fra gli scontenti saranno stati molti amici e parenti di Boiardo, primo fra tutti Tito Vespasiano Strozzi, che perdeva così la villa e i poderi di Ostellato. Le conseguenze di tali deduzioni ai fini ermeneutici non sono trascurabili. Se l’intera raccolta fu ideata, approssimativamente, tra la fine del 1483 e l’inizio dell’anno successivo, come sottovalutare la vicinanza ad un evento editoriale di grande rilievo per la storia dell’egloga volgare? Mi riferisco alla pubblicazione della nota silloge di bucolici senesi e fiorentini impressa a Firenze, dai torchi di Antonio Miscomini, nel febbraio del 1482, aperta dal volgarizzamento virgiliano di Bernardo Pulci, seguito dalle egloghe di Francesco Arzocchi, Girolamo Benivieni e Iacopo Fiorino de’ Buoninsegni18.

17 G. Mazzoni, Le ecloghe volgari e il Timone, in Studi su Matteo Maria Boiardo, Bologna, Zanichelli, 1894, p. 334. 18 Su questa stampa cfr. F. Battera, L’edizione Miscomini (1482) delle ‘Bucoliche elegantissimamente composte’, «Studi e problemi di critica testuale», 40 (1990), pp. 150-85.

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Si è dubitato che Boiardo abbia tratto spunto da tale antologia, destando sospetto il fatto che, avendo accesso all’intero corpus, egli incanalasse l’imitazione unicamente verso le egloghe di Arzocchi, messe a frutto in più luoghi19. In effetti Boiardo avrebbe potuto conoscere le bucoliche arzocchiane anche attraverso la tradizione manoscritta a sé stante, esigua, ma esistente alla metà del secolo20. La coincidenza cronologica, però, è troppo vistosa perché si possa ammettere che la stampa miscominiana non influisse affatto sulla stesura delle Pastorale; e qualche eco, sia pure rara, delle egloghe dell’altro senese Iacopo Fiorino de’ Buoninsegni21 fa propendere per l’ipotesi che proprio quello fosse il vettore comune delle bucoliche sue e di Arzocchi. Come minimo bisognerà ammettere che, se davvero Boiardo già aveva letto manoscritte le egloghe arzocchiane, una rilettura condotta sulla stampa dovette innescare il meccanismo della emulazione e, con esso, la stesura delle Pastorale. Né può meravigliare che nella memoria di Boiardo più e meglio rimanessero impresse le accattivanti bucoliche di Arzocchi, forti di una oltranza espressiva cui le altre non arrivano. Aggiungerei un particolare su cui ha richiamato la mia attenzione – con la cortesia e la generosità che la distinguono – Antonia Tissoni Benvenuti: e cioè che dall’opuscolo miscominiano Boiardo avrebbe potuto mutuare l’idea stessa di indirizzare una raccolta bucolica ad Alfonso d’Aragona, dal momento che le prime quattro egloghe di Buoninsegni vi comparivano con dedica proprio al duca di Calabria e che nella quarta gli si pronosticava un grande avvenire di condottiero. L’episodio costituito dalle Pastorale boiardesche, del resto, non era isolato. Esso va inquadrato nell’ambito del più generale impatto della poesia ferrarese con la diffusione a mezzo stampa, nei primi anni Ottanta, dei generi di punta dell’umanesimo volgare toscano: oltre alla bucolica, anche l’elegia, sotto la specie dell’epistola eroide. Correggio e Tebaldeo composero entram-

19

Cfr. F. Battera, La bucolica volgare del Boiardo, «Interpres», VII (1987), pp. 17-

18. 20 Ricordo che il medico urbinate Battista Felici trascrisse le prime due egloghe nell’odierno codice 393 della Biblioteca di Carpentras e a Firenze Luigi Pulci copiò le quattro egloghe, in calce ai Trionfi petrarcheschi, entro l’attuale manoscritto 2508 della Biblioteca Palatina di Parma (cfr. F. Arzocchi, Egloghe, edizione critica e commento a c. di S. Fornasiero, Bologna, Commissione per i testi di lingua, 1995, pp. LV-LXX). Suardi, inoltre, imitò da vicino la prima in un suo capitolo ternario: cfr. F. Brambilla Ageno, La prima egloga di Francesco Arsochi e un’imitazione di Giovan Francesco Suardi, «Giornale storico della letteratura italiana», CLIII (1976), 523-48. 21 Segnalata da M. Bregoli Russo, La Pastorale del Boiardo tra le egloghe del Quattrocento, «Studi e problemi di critica testuale», 22 (1980), p. 170 n. 24.

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bi, in volgare, diverse egloghe ed eroidi, rigorosamente in terza rima22. Il fatto non può spiegarsi con l’emulazione nei confronti della bucolica umanistica o di prove sporadiche come l’eroide latina di Cloride a Filolao composta da Battista Guarini23, bensì con la forte impressione prodotta dai testi dei poeti toscani e dalla possibilità, che essi offrivano, di annettere alla poesia volgare generi classici e umanistici. La stessa adattabilità del tipo dell’eroide a scriventi maschili – cui Correggio e Tebaldeo fecero a volte ricorso – sembra nascere da alcune delle diciotto epistole amorose in terzine scritte da Luca Pulci intorno alla metà degli anni Sessanta24, ma divulgate su larga scala da un altro incunabolo impresso da Miscomini in quello stesso 1482. Anch’esse fecero presa, in effetti, sui poeti estensi. Mi limiterò qui a fare qualche esempio dalle rime del Correggio, ove lo scambio di lettere fra Silvia e Tirinzia presuppone l’epistola pulciana di Filomena a Progne, che ovviamente non ha riscontro nel modello ovidiano; e le epistole pastorali di Fauno a Florida rinviano all’incrocio fra genere elegiaco e genere bucolico già realizzato da Pulci in quella di Polifemo a Galatea25. Un punto di riferimento cronologico è offerto dall’altra epistola che il Correggio immagina scritta dalla propria sposa e indirizzata a lui stesso, in occasione della prigionia, tra l’autunno dell’82 e quello dell’83, e ci porta dunque ancora una volta in prossimità dell’operazione editoriale di Miscomini26. Se all’epoca dei Pastoralia la stesura di egloghe in volgare poteva sembrare non più che un brillante esperimento, sia pure propugnato da un intellettuale del prestigio di Leon Battista Alberti, l’antologia dei bucolici toscani guadagnava definitivamente a quella produzione la dignità di genere autonomo, espressione d’avanguardia dell’umanesimo volgare che stava divenendo, in molti centri, linea egemone della cultura cortigiana. L’esempio di quei quattro autori dovette risultare decisivo agli occhi di Boiardo – come ha visto Domenico De Robertis – «per l’ammissione di parole e modi della poesia

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Cfr. S. Longhi, Lettere a Ippolito e a Teseo: la voce femminile nell’elegia, in Veronica Gambara e la poesia del suo tempo nell’Italia settentrionale, a c. di C. Bozzetti, P. Gibellini, E. Sandal, Firenze, Olschki, 1989, pp. 385-98. 23 Cfr. Baptistae Guarini poema divo Herculi Ferrariensium duci dicatum, Modena, Domenico Rocociolo, 1496, cc. b4r-b6v. 24 Cfr. S. Carrai, Le muse dei Pulci. Studi su Luca e Luigi Pulci, Napoli, Guida, 1985, pp. 15-23. 25 Cfr. F. Battera, Sulla ‘Pìstola’ di Polifemo a Galatea: primi appunti, «Comparaison», II (1993), pp. 35-64. 26 Cfr. C. Dionisotti, Nuove rime di Niccolò da Correggio, «Studi di filologia italiana», XVII (1959), p.170n.

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toscana contemporanea accanto a quelli della tradizione letteraria e latina, fino al gusto dell’interpretazione comica e dell’espressione gustosa, e per il recupero, per questa via, di aspetti e forme della parlata settentrionale e insomma della stessa pratica narrativa dell’Orlando innamorato»27. È da credere, insomma, che il movente della raccolta non si esaurisse nell’aspetto encomiastico. Boiardo coglieva sì l’occasione di fare un gradito omaggio a colui che aveva salvato lo stato estense dalla disfatta, ma anche mirava ad aggiornare la propria fisionomia poetica. Il suo posto sul proscenio propriamente umanistico se lo era saldamente conquistato in gioventù, talché Ludovico Bigo Pittorio, in alcuni versi di una elegia indirizzata a Giovanni Pico della Mirandola, lo ritraeva in compagnia di Ludovico Carbone, Luca Ripa, Girolamo Castelli, Battista Guarini e altri maestri della scuola guariniana, assegnandogli la palma del poeta bucolico28. Ora, attento a recepire le novità maturate al di là dell’Appennino e le nuove possibilità che queste aprivano, Boiardo si inseriva autorevolmente nel filone dell’egloga volgare, riconfermandosi paladino di una regola di stretta osservanza virgiliana. Non che le Pastorale si negassero ad apporti puntuali di diversa origine, tant’è che numerosi sono i calchi da altri autori – specie volgari, ovviamente – da Dante e Petrarca al Saviozzo e ad Arzocchi. La forma libro si richiamava però scopertamente, attraverso i Pastoralia, all’esempio della silloge per eccellenza, come a riaffermare, più che una fedeltà, l’esigenza di superare l’empiria del testo bucolico nella classica architettura disegnata da Virgilio. Che la lezione strutturale attecchisse certo non si può dire, ma neppure è da ritenere che essa non costituisse – per chi si cimentava negli anni seguenti col genere pastorale – un precedente con cui fare i conti, e forse non solo nella Ferrara di Tebaldeo, che pure non giunse mai ad organizzare le proprie egloghe in una raccolta. Di lì a poco, com’è noto, una soluzione non classicheggiante ma moderna al problema del macrotesto bucolico avrebbe escogitato Sannazaro, nell’Arcadia29, il quale certo ebbe presenti gli autori della stampa miscominiana, ma anche dovette conoscere le Pastorale boiardesche avendo seguito Alfonso d’Aragona proprio nella campagna militare in appoggio a Ferrara, e non essendogli mancata occasione, probabilmente, di incontrare l’autore dell’operetta dedicata al suo signore. 27 Cfr. D. De Robertis, L’ecloga volgare come segno di contraddizione, «Metrica», II (1981), pp. 76-77. 28 Cfr. Ludovici Bigi Pictorii Ferrariensis poetae tumultuariorum carmina, Modena, Domenico Rocociolo, 1492, c. o3r-v. 29 Cfr. G. Velli, Sannazaro e le ‘Partheniae Myricae’: forma e significato dell’‘Arcadia’, in Id., Tra lettura e creazione. Sannazaro – Alfieri – Foscolo, Padova, Antenore, 1983, pp. 1-56.

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IX NICOLÒ D’ARCO PERSONAGGIO DI UN’EGLOGA ARIOSTESCA

La storia dell’egloga volgare nella prima metà del Cinquecento è anzitutto quella di una evoluzione del supporto metrico. L’abbinamento del genere pastorale all’endecasillabo sciolto risulta pienamente realizzato, com’è noto, nel trapasso dal terzo al quarto decennio del secolo, quando appaiono a stampa le due bucoliche incluse nelle rime di Trissino (1529) e le quattordici comprese nelle opere volgari di Luigi Alamanni (1532). Significativo è, a questo proposito, il caso di un allievo di Sannazaro come Antonio Minturno, che proprio in quegli anni scrisse tre egloghe, due in sciolti e una parte in sciolti parte sul metro della sestina, a segnare la sezione effettivamente cantata, secondo che l’autore stesso dichiarava per lettera alla dedicataria – Maria di Cardona marchesa della Padula – nel giugno del 1534: Piacquemi qui di servare quello che veggio ragionevolmente piacere a molti, cioè che le rime non abbiano consonanza se non là dove si canta, perciò ch’el consonare, sì come sta bene al canto, così per quel ch’i’ ne sento si disdice al parlare1.

La distinzione minturniana tra brani in endecasillabi sciolti, da recitarsi, e brano rimato, da cantarsi, niente aveva a che vedere col polimetro della tradizione bucolica quattrocentesca e preludeva a ciò che in breve giro d’anni sarebbe stato codificato nell’alternanza di recitativo e coro del dramma pastorale. Se il classicismo del pieno Cinquecento avvertì dunque l’inadeguatezza della terzina a rendere in volgare l’esametro della bucolica latina, Ariosto,

1

Lettere di Messer Antonio Minturno, Venezia, Scoto, 1549, c. 176v.

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come poeta pastorale, rimase a monte di questa nuova sensibilità. Le due egloghe che di lui oggi ci restano sono scritte entrambe in terza rima2. Ciò non può spiegarsi semplicemente col fatto che, mentre maturava la virata della bucolica verso lo sciolto, egli era impegnato nella revisione finale del Furioso. Piuttosto sarà da pensare ad un gusto e ad una cultura – in questo genere – sostanzialmente quattrocenteschi, ovvero alla fedeltà ad una stagione che in area estense aveva visto protagonisti sulla scena della poesia pastorale Boiardo e Tebaldeo. Non mancano del resto, pur nell’esiguità della produzione ariostesca, riscontri letterali che confermano quanto meno l’attenzione prestata al modello boiardesco. Si faccia ad esempio il caso dei vv. 229-31 dell’egloga Dove vai, Melibeo, dove sì ratto, in cui Melibeo medesimo dà voce al paragone tra la moglie di Alfenio e la tortora affranta per la morte del proprio compagno: Come tortora in ramo senza foglie, che, poi ch’è priva del fido consorte, sempre più cerca inasperar le doglie.

Nella memoria di Ariosto agiva qui certamente un brano delle Pastorale boiardesche: III 58-61 «La tortorella che si sta soletta, / cantando, anci piangendo il suo consorte, / per meggio al cor di doglia mi saetta, / e mi ramenta mia misera sorte». Una spia si scorge in quella voce «consorte» esposta in rima, che avrà trascinato con sé anche l’eco di «doglia», mutato in «doglie» probabilmente per esigenze ancora di rima. E non escluderei che anche un brano dei Pastoralia dello stesso Boiardo possa aver concorso alla genesi di questi versi ariosteschi. Mi riferisco alla seconda delle egloghe latine, vv. 911, ove già compariva la similitudine con la vedova tortorella: «Quale sonat dulci turtur viduata marito / carmen et aeriae celso de vertice quercus / argutos iterat questus et flebile cantat». L’egloga di Ariosto, in cui si adombrano le vicende della congiura di Giulio d’Este, risale all’agosto del 1506. Si potrebbe spiegare perciò con la data abbastanza alta tale propensione a guardare indietro. È un fatto però che neppure l’altro testo pastorale – Mentre che Dafni il grege errante serba – muta coordinate metriche e ascendenze poetiche. Contatti evidenti lo legano specie alla prima delle bucoliche volgari di Boiardo, dai cui vv. 11-15 discende la serie di rimanti spirto:irto:mirto, che Ariosto impiega ai vv. 41-45; e al 2

Più in generale, sulla produzione in terzine si veda A. Tissoni Benvenuti, La tradizione della terza rima e l’Ariosto, in Ludovico Ariosto: lingua, stile e tradizione, a c. di C. Segre, Milano, Feltrinelli, 1976, pp. 303-13.

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IX Nicolò D’Arco personaggio di un’egloga ariostesca

v. 94 di quell’illustre precedente («Alcia la mente e fa’ lo animo forte») rinvia il v. 48 ariostesco: «fa’ ch’a tuo essempio al ciel alzi la mente». Tanto basta a dimostrare che Ariosto come poeta pastorale rimase fedele agli autori in voga a Ferrara durante la sua giovinezza3. Tuttavia, almeno per il dato metrico, bisognerà tener conto del fatto che anche cronologicamente le bucoliche ariostesche risultano anteriori all’avvento dello sciolto. La datazione di questa seconda egloga è, in verità, ancora da accertare. Prima di affrontare il problema occorre, tuttavia, richiamare brevemente il contenuto e la natura del testo. Esso costituisce, in pratica, un lungo omaggio alla poesia funebre di un pastore di nome Sarchio. Dopo due terzine che fungono da introduzione, i restanti quarantanove versi sono difatti tutti affidati alla voce di costui, che piange la morte del fiorentino Dameta e ne celebra le virtù. L’identità dei pastori non è stata svelata finora, sebbene a Cesare Segre non sia sfuggito che Sarchio «è probabilmente un nome tratto da Sarca, affluente del Garda»4. Il travestimento bucolico è, com’è noto, generalmente assai difficile da smascherare qualora non soccorra una chiave d’autore. Nella fattispecie però l’allusione è scoperta e non c’è dubbio che a quel fiume voglia alludere, in effetti, lo pseudonimo pastorale. Meno convincente è invece quanto Segre aggiungeva, e cioè che esso «insieme con Manto (la nota indovina madre di Ocno, fondatore di Mantova) del v. 20, indica gli abitanti della regione mantovana». In realtà Sarchio, coerentemente con il codice bucolico, cela sotto il velame pastorale i connotati non di un popolo, ma di un personaggio preciso, il quale, per giunta, si configura evidentemente come un poeta. Ora, a chi conosca la valle del Sarca viene subito in mente che il suo centro principale era ed è tuttora Arco, e che toccando la cittadina il fiume scorre sotto la rupe su cui si erge la non tanto diruta mole del castello dei conti d’Arco, appartenuto a suo tempo ad uno dei maggiori poeti latini del primo Cinquecento, vale a dire Nicolò d’Arco. L’associazione d’idee sarebbe sufficiente di per sé a farci riconoscere facilmente in Sarchio la fisionomia di quest’ultimo. Una conferma decisiva si trova, ad ogni modo, tra i componimenti autografi di lui serbatici nel Laurenziano Ashburnham 266, ove a c. 176v si legge, appunto, un carme De Sarchio pastore, aperto dai versi: 3

Ciò concorda del resto con la fedeltà mostrata anche nel poema, per cui si veda G. Ponte, Boiardo e Ariosto, «La rassegna della letteratura italiana», s. VII, LXXIX (1975), pp. 169-82; e G. Sangirardi, Boiardismo ariostesco. Presenza e trattamento dell’«Orlando innamorato» nel «Furioso», Lucca, Pacini Fazzi, 1994. 4 Cfr. L. Ariosto, Opere minori, a c. di C. Segre, Milano-Napoli, Ricciardi, 1954, p. 236. Ivi anche le altre citazioni dal commento di Segre.

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Sarchae ad littora fluminis canebat Pastor Sarchius, adpetente vere5.

Il cerchio si chiude, dato che Sarchius è qui evidentemente la controfigura bucolica dell’autore. Non a caso, dunque, Jacopo Vargnano, auspicando in una elegia il ritorno dell’amico ad Arco, gli diceva che le «Sarciades ninphae» lo avrebbero salutato con gioia (ms. 1973 della Biblioteca Comunale di Trento, c. 17r)6. Altre indicazioni forniteci dal testo ariostesco contribuiscono, del resto, a delineare la figura di Nicolò. Il suo alter ego Sarchio si presenta manifestamente come cortigiano dei Gonzaga. A Mantova è ambientato il compianto funebre per Dameta, tant’è che a lamentarne la scomparsa egli chiama in scena Manto e il Mincio (vv. 20 e 34), e per il dolore impreca contro i cedri che crescono lungo le rive del Garda (vv. 25-27 «Moiano i cedri in ogni piaggia amena / che ’l chiar Benaco d’ogn’intorno cinge, / e disperga l’odor che l’aura mena»). Oltre ad essere signore di Arco, e perciò soggetto al principe vescovo di Trento, Nicolò era appunto, per diritto acquisito nel 1480 dal padre Odorico, cittadino di Mantova e divenne uno dei gentiluomini e dei letterati più in vista alla corte mantovana, tanto da prendere in moglie una Gonzaga, Giulia, del ramo dei conti di Novellara7. Accertata l’identità di Sarchio, la cronologia dell’egloga potrebbe precisarsi qualora fosse possibile identificare il pastore di cui si lamenta la scomparsa. A tale riguardo siamo finora fermi ad un’altra ipotesi di Segre: «Il pastore fiorentino di cui Mantova piange la morte è probabilmente Giovanni dalle Bande Nere, deceduto, appunto a Mantova, il 30 novembre del 1526».

5

Cfr. I Numeri di Nicolò d’Arco [...], trascritti e corredati di apparato critico da M. Welber, Trento, U. C. T., 1995, p. 125. 6 Per la proposta di attribuire a Nicolò il poemetto sul Sarca già attribuito a Bembo cfr. Sarca. Poema del XVI secolo, testo latino e traduzione italiana con saggio critico di G. B. Pighi, Arco, 1974, p. 64. 7 Sul ruolo di Nicolò nella cultura mantovana del primo Cinquecento cfr. Mantova. Le lettere, II, a c. di E. Faccioli, con pref. di L. Caretti, Mantova, Istituto Carlo D’Arco per la storia di Mantova, 1962, pp. 373-77. Per le questioni biografiche basti qui rinviare all’introduzione di Graziano Riccadonna alla ristampa anastatica dell’articolo di Pranzelores Niccolò d’Arco. Studio biografico con alcune note sulla scuola lirica latina del Trentino nel secolo XV e XVI, già uscito su «Annuario degli studenti trentini», VII (1901), pp. 1-119 (cfr. A. Pranzelores, Niccolò d’Arco. 1479-1546, a c. di G. Riccadonna, Trento, Amorth, 1992); e a quella di Mariano Welber all’ed. cit. dei Numeri di Nicolò d’Arco.

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La congettura non è sembrata persuasiva a Mario Santoro, mentre il più recente commentatore dell’egloga, Stefano Bianchi, si è limitato a riproporla in forma dubitativa8. Che proprio Nicolò d’Arco, nelle vesti di Sarchio, celebrasse la memoria di Giovanni dalle Bande Nere sembrerebbe quanto meno strano tenendo conto che questi era morto sì a Mantova, ma come nemico degli imperiali, per i quali i Gonzaga, feudatari di Carlo V, parteggiavano; e altrettanto curioso sarebbe che tale finzione poetica fosse scaturita dalla fantasia di Ariosto, dal momento che Giovanni era stato ferito a morte combattendo proprio contro il suo duca, Alfonso d’Este. L’ipotesi perde ogni credibilità una volta che si ricorra ancora ai carmi di Nicolò d’Arco raccolti nel citato codice Laurenziano. Mi riferisco ad un mordace distico latino, trascritto sotto il titolo In Jo[annem] Medicem (c. 102r), da lui effettivamente composto all’indomani della scomparsa del condottiero: Dicerem ego ingenue scelerum hic genus omne sepultum est Si pariter Clemens hoc iaceat tumulo9.

Nell’infamante epitaffio Nicolò prendeva spunto dalla morte di Giovanni per dichiarare la propria feroce avversione alla stirpe medicea, che avrebbe considerato estinta, diceva, sebbene ingenuamente (ma sopra «ingenue» l’autore appose la variante alternativa «audacter»), qualora anche papa Clemente fosse sceso con lui nella fossa. La violenza dell’invettiva si comprende alla luce della politica del pontefice, apertamente filofrancese, e rispecchia sentimenti diffusi a Mantova non meno che a Ferrara durante il papato di Clemente VII. Escluso quindi che Dameta possa identificarsi con Giovanni dalle Bande Nere, unico fiorentino illustre morto a Mantova ai primi del Cinquecento, si dovrà pensare ad un personaggio deceduto altrove ma caro all’ambiente man-

8 Cfr. rispettivamente Opere di Ludovico Ariosto, III, a c. di M. Santoro, Torino, UTET, 1989, p. 343: «L’ipotesi di una identificazione del pastore con Giovanni dalle Bande Nere (nato a Forlì nel 1498, morto a Mantova il 30 novembre 1526 in seguito a grave ferita riportata in combattimento inseguendo i Lanzichenecchi al Serraglio tra Mantova e il Po), anche se suggestiva (se si pensi alla commozione suscitata in Italia dalla morte del condottiero caduto alla testa di un esercito italiano) non è confortata da persuasive argomentazioni»; e L. Ariosto, Rime, intr. e note di S. Bianchi, Milano, Rizzoli, 1992, p. 294: «È pianta la morte del ‘fiorentin pastor’ Dameta, forse identificabile con il celebre capitano di ventura Giovanni dalle Bande Nere». 9 Cfr. I Numeri..., p. 77.

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tovano. La scelta dell’ipotesi su cui lavorare non può cadere allora che su Giuliano de’ Medici, venuto a morte a Firenze nel marzo del 1516, in un’epoca in cui i rapporti fra Gonzaga e Medici non si erano ancora guastati, anzi erano decisamente buoni per la presenza sul soglio pontificio di Leone X, già padrino di Ferrante Gonzaga e ora legato da un debito di riconoscenza al cardinale Sigismondo Gonzaga, che più di ogni altro si era adoperato per la sua elezione. Dalla dieta riunita a Mantova nell’agosto del 1512, ove Giuliano si recò in compagnia del fratello cardinale e del Bibbiena, ebbe inizio la riconquista medicea di Firenze; e anche in seguito egli mantenne rapporti di intensa amicizia con Isabella d’Este, marchesa di Mantova, col marito di lei Francesco e con altri dignitari, e vicinissimo fu a Elisabetta Gonzaga, duchessa di Urbino nonché sorella del marchese di Mantova. Poeta egli stesso, amico di letterati celebri, fra cui Bembo e Castiglione, che gli riservarono una parte tra i personaggi, rispettivamente, delle Prose e del Cortegiano, il Magnifico Giuliano fu in rapporti anche con Ariosto, che incontrò in varie occasioni a Urbino e a Firenze10. Dell’ospitalità cordiale offertagli nel 1513 fa fede una lettera che Mario Equicola scriveva da Firenze il 21 di marzo, in veste di ambasciatore, a Francesco Gonzaga, dicendogli tra l’altro: Arrivai il Marte in Fiorenza assai de dì, smontai al M. co con animo presto expedirmi per posser fare un’altra posta. Non potria dir como mi vide volentieri et con quanto romore mi abraciò et accarezzò, provando che più cara li era la gratulatione et visite de V. S. che qualunque Re. Comandò che fusse spogliato et ordinò che mi fosse data una camera, la quale parata, andai a cena. M. Ludovico de Ariostis cenò meco, il quale alloggia llì11.

Dalle parole di Equicola risulta dunque che nel marzo del 1513 Ariosto, di passaggio da Firenze, era alloggiato nel palazzo di Giuliano; né ci meraviglia dal momento che messer Ludovico faceva parte allora della familia del cardinale Ippolito d’Este, da sempre in rapporti di grande amicizia col cardinale Giovanni de’ Medici, ora divenuto appunto papa Leone X, e con Giuliano stesso. Soprattutto importante inoltre, nella fattispecie, è che proprio per quest’ultimo Ariosto compose il dittico funebre formato dalle canzoni Spirto gentil, che sei nel terzo giro e Anima eletta, che nel mondo folle: rispettivamente accorato lamento della consorte del defunto, Filiberta di Savoia, e 10

Cfr. M. Catalano, Vita di Ludovico Ariosto ricostruita con nuovi documenti, Genève, Olschki, 1931, I, pp. 353, 396 e 412-14. 11 Ivi, II, pp. 130-31.

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risposta dell’anima di lui che dal cielo la consolava. Che l’evento luttuoso sia lo stesso e che col nome di Dameta si alluda proprio a Giuliano conferma peraltro la situazione descritta nell’esordio dell’egloga: Mentre che Dafni il grege errante serba ove Rimaggio scorre e Filli a lato, scegliendo fior da fior, li sede in l’erba, Sarchio piangea il lacrimabil fato del fiorentin pastor, che dagli armenti, come candido cigno, è al ciel volato.

Coerentemente con la scena bucolica, non si parla qui di ciò che accade in riva all’Arno, che implicherebbe una ambientazione urbana, bensì in riva al torrente Rimaggio. Si tratti di quello che scorre in val di Sieve o, più probabilmente, dell’altro che si getta nel Bisenzio, ciò che interessa è che l’allusione va alla campagna circostante Firenze. Nella figura di Dafni, pastore che ha cura del «grege errante», Segre propose difatti di vedere la personificazione del governo mediceo, e l’ipotesi è stata accolta da Bianchi12. Più probabilmente però si tratterà del travestimento pastorale di un membro della famiglia Medici. Difatti – una volta intuito che il defunto Dameta è Giuliano – diviene agevole scorgere in Dafni i tratti di Lorenzo di Piero, nipote di Giuliano stesso, nelle cui mani la città era passata fin dal ’13. Più facile ancora è riconoscere poi in Filli – anche per la quasi completa omofonia delle due sillabe iniziali – la vedova Filiberta, ritratta mentre siede a fianco del nipote. E di conseguenza l’accenno alla «prole bella e rada» del v. 47 intendeva raggiungere il piccolo Ippolito, figlio naturale di Giuliano, discretamente auspicando che seguisse le orme paterne (v. 48 «fa’ ch’a tuo essempio al ciel alzi la mente»). Non si può capire niente di tutto ciò se non si fa riferimento precisamente allo scenario politico dei potentati italiani qual era durante la primavera del 1516, tanto più che l’affetto dell’ambiente gonzaghesco per Giuliano si spiega – se collocato in quel frangente – meglio che mai, poiché nei suoi ultimi mesi di vita egli fu il più strenuo oppositore del disegno del papa di togliere il ducato di Urbino a Francesco Maria Della Rovere per darlo al nipote Lorenzo, col che venivano ad esserne spodestate e cacciate anche Elisabetta ed Eleonora Gonzaga, rispettivamente vedova di Guidubaldo da Montefeltro e consorte del detto Francesco Maria. Aggiungo ancora che ben si adatta ad

12 Cfr. Ariosto, Opere minori..., p. 236 («Dafni è, forse, il governo mediceo»), e Ariosto, Rime..., p. 294 («Probabilmente sta qui ad indicare il governo mediceo»).

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un celebrato poeta, quale Giuliano era stato, l’immagine del cigno, che sarebbe piuttosto incongrua per un soldato. Qualche altra considerazione sollecita, a questo punto, il nome Dameta: virgiliano, come si sa, ma suggerito qui forse da un brano del Tirsi, testo di autore mantovano (ovvero di autori mantovani) e verosimilmente noto all’Ariosto. Potrebbe non essere un caso allora che nel Tirsi, alla stanza 43, Giuliano fosse stato celebrato in chiave bucolica da un pastore che risponde giustappunto al nome di Dameta: Venne d’Etruria un altro in questi monti saggio e dotto pastore in ciascun’arte. Non son piagge qui attorno o rivi o fonti che non intendan le sue lodi sparte, ma temo assai che prima il sol tramonti ch’io possa dir di lui pur una parte; questo cantò con amorosa voce: «Se fosse il passo mio così veloce».

La citazione letterale dell’incipit di un sonetto di Giuliano dichiarava qui immediatamente l’identità del «saggio e dotto pastore» venuto d’Etruria13; né stupirebbe che Ariosto, memore di tale precedente, gli avesse assegnato proprio quel nome, trasferendolo così dal celebrante al celebrato. A parte questo, le agnizioni operate inducono ad assegnare senz’altro l’egloga a poco dopo il 17 marzo del 1516, data della morte di Giuliano de’ Medici, anche perché nell’agosto di quell’anno Lorenzo alias Dafni avrebbe lasciato il governo di Firenze per divenire duca di Urbino; ma le deduzioni che esse consentono vanno al di là della individuazione dei personaggi e della precisazione cronologica. Intanto tale datazione ci porta indietro di una decina di anni abbondante rispetto all’affermarsi dell’endecasillabo sciolto nel genere pastorale e spiega quindi pienamente la fedeltà di Ariosto al canone della terza rima. Poi va messa in rilievo l’acquisizione relativa alla biografia di Nicolò d’Arco, perché non si sapeva con certezza che egli facesse parte dell’entourage gonzaghesco prima degli anni Venti. Per giunta l’egloga Mentre che Dafni il grege errante serba ci testimonia un rapporto tra lui e Ariosto finora ignoto e anche fa supporre che egli fosse tra gli «altri cento» scrittori non nominati cui si accenna nell’ultimo canto del Furioso (19, 2). Sul piano stilistico, infine, emerge con evidenza l’intento mimetico che anima l’egloga 13 Cfr. G. De’ Medici duca di Nemours, Poesie, a c. e con uno studio di G. Fatini, Firenze, Vallecchi, 1939, pp. XXVIII-XXIX.

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ariostesca. All’altezza del 1516 Nicolò d’Arco già si era guadagnato, tra Mantova e Verona14, la fama di poeta specialmente versato nella scrittura di carmi funebri: con la Naenia de morte matris, con l’elegia e con l’epitaffio in morte di Giovanni Cotta, nonché con gli epicedi per la scomparsa del medico veronese Marcantonio Dalla Torre, cui sarebbe seguita qualche anno dopo l’iscrizione per il monumento sepolcrale di Raffaello, riuscita seconda solo a quella di Bembo. Prestandogli, per così dire, la propria voce e nel genere che costituiva la sua specialità, Ariosto ebbe dunque cura di calarsi nel personaggio, facendolo parlare secondo il suo proprio stile e le sue consuetudini poetiche. Lo rivelano anzitutto alcune riprese e calchi letterali dai versi composti da Nicolò in morte del Dalla Torre, tra i suoi più noti, evidentmente, tanto che anche Bandello, nella dedica premessa alla novella trentaseiesima della seconda parte della sua raccolta, li citava esplicitamente («la selva che per la morte del nostro vertuosissimo Messer Marcantonio Torre con l’epitafio decantaste, o lagrimaste piuttosto») dicendo peraltro di aver contribuito a farli conoscere fuori dalla cerchia mantovana. Si veda come la mossa iniziale del compianto di Sarchio (vv. 7-8 «quai lamenti / per questi ombrosi faggi oditi fôrno») sembri memorizzare un verso del primo epicedio per il Dalla Torre («Quos ego tunc gemitus, quae non suspiria sensi?»)15 e soprattutto come i vv. 16-17 («Né più gustar le grege i chiari fonti, / né il citisco le capre o i salci amari») incrocino la reminiscenza di un brano virgiliano (Egl. I 7778 «non me pascente, capellae, / florentem cytisum et salices carpetis amaras») con quella di un’egloga dell’Arcadia sannazariana (V 48-49 «né greggi andar per monti, / né gustaro erbe o fonti»), ma anche vi innestino il preciso riecheggiamento di un verso del medesimo carme di Nicolò d’Arco nella redazione approdata alla stampa del 1546: «Vix cythisum carpunt pecudes, vix flumina libant»16. Così l’invocazione all’anima del defunto Giuliano de’ Medici affinché torni in vita sembra riutilizzare, nell’immagine dei vv. 43-44 («Vien’, godi l’ombre usate del bel mirto, / che sopra il tuo mortal stassi pendente»), la raffigurazione del tumulo nelle Lachrymae secundae in Marcum Antonium Turrium: «Stant myrti amplexae tumulum laurusque virentes, /

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Sui rapporti con la cerchia di Fracastoro si veda F. Cairns, The ‘Numeri’ of Niccolò d’Arco and the Veronese Circle of Fracastoro, «Studi umanistici piceni», XV (1995), pp. 19-29. 15 Cfr. Nicolai Archii Comitis Numeri [a c. di G. Fruticeno, Mantova, Rufinelli, 1546], c. 21v (ed. Welber p. 31). 16 Ibidem (cfr. apparato ed. Welber p. 176).

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quos memor assiduis Laura rigat lachrymis; / sponte sua insurgunt citri super impendentes»17. Ma anche a prescindere da vere e proprie reminiscenze, la raffinata mimesi stilistica di Ariosto si esplica qui nel ricorso stesso al bagaglio tipico del poeta umanista, chiamando in causa «sacri altari» (v. 21) e «templi pastoral» (v. 23) o la classicheggiante serie floreale gigli, amaranto, acanto, viole (vv. 28-33). E si veda anche l’adattamento del virgiliano «inducite fontibus umbras, / pastores» (Egl. V 40-41), che, per l’incrocio con l’altra formula anch’essa virgiliana «ite ... ite, capellae» (Egl. I 74), diventa: «Uscite ormai, uscite, pastorelle, / dal vostro albergo, ed ombra fate a’ fonti / che d’anno in anno ognor si rinovelle» (vv. 37-39)18, ove la scelta di un diverso soggetto, le pastorelle, risponderà almeno in parte all’esigenza di orientare l’azione in modo da esprimere carità e pietà per l’estinto. Tutto contribuisce insomma, nel testo ariostesco, alla ricerca di un dettato umanistico che configura nell’egloga un lamento funebre alla maniera di Nicolò d’Arco. Per contro, vale la pena di segnalare che l’omaggio rivoltogli da Ariosto sembrerebbe non esser rimasto privo di eco nella successiva poesia di Nicolò se, ripristinando il nome bucolico di Sarchius, egli tornava a cantare in un’egloga in distici elegiaci congegnata come una breve introduzione più l’invocazione a Caterina sposa del duca Francesco Gonzaga, pastoralmente Galatea, affinché venisse a ricrearsi nell’amena Cavriana, ove Nicolò possedeva una villa. Specie l’introduzione ricorda quella ariostesca: Dum vestit Phoebus redivivo gramine terram et Zephyrus pingit prata colore novo, Sarchius haec cecinit, viridanti innixus olivae, tollit ubi parvis se Capriana iugis19.

L’ambientazione non è quella dei paraggi di Firenze, ove si trovavano Dafni e Filli, bensì dei dintorni di Mantova; ma uguale è la mossa: si ricordi «Mentre che Dafni il grege errante serba ... Sarchio piangea il lacrimabil fato» («Dum vestit Phoebus redivivo gramine terram ... Sarchius haec ceci-

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Cfr. Nicolai Archii Comitis Numeri..., c. 52r (ed. Welber p. 108). Il medesimo motivo virgiliano tornerà peraltro nell’invito rivolto alle driadi in un epigramma pastorale di Nicolò per il principe vescovo Cristoforo Madruzzo: «vos illi gelidis inducite fontibus umbras» (ivi, c. 48v; ed. Welber p. 114). 19 Cfr. ed. Welber p. 119, ove è accolta la correzione «Archius» dell’Ashburnamiano alla scriptura prior «Sarchius»; e si veda la diversa redazione accolta nella cinquecentina (Nicolai Archii Comitis Numeri..., c. 95v). 18

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IX Nicolò D’Arco personaggio di un’egloga ariostesca

nit»). Dopo di che, il prosieguo di entrambi i testi consta, appunto, del canto di Sarchio/Sarchius. La corrispondenza strutturale, aggiunta alla consonanza del movimento iniziale, lascia supporre, in altre parole, che Nicolò si ricordasse dell’egloga ariostesca di cui alcuni anni prima era stato protagonista. Il rapporto fra i due poeti che così si intravede andrà inscritto nel quadro dei ben noti scambi tra ambiente gonzaghesco e ambiente estense, favoriti dalla straordinaria personalità di Isabella d’Este, sui quali non è il caso di fermarsi, bastando, nella fattispecie, il rinvio agli studi di Luzio e Renier20. Ariosto avrà inteso rendere omaggio insieme al defunto e ad un brillante esponente della corte mantovana, ma anche a Mantova stessa in quanto sede d’elezione della tradizione pastorale. Patria del suo capostipite latino, Virgilio, nonché di uno dei massimi bucolici moderni, il mantovano per antonomasia Battista Spagnoli, essa accoglieva – ora che già si affacciava sulla scena chi, con lo pseudonimo di Merlin Cocai, quel primato avrebbe trasferito nel dominio del maccheronico – un poeta come Nicolò d’Arco che rinverdiva i fasti dell’egloga non meno che della poesia funebre ed erotica in genere21.

20

A. Luzio – R. Renier, Mantova e Urbino. Isabella d’Este ed Elisabetta Gonzaga nelle relazioni famigliari e nelle vicende politiche, Torino-Roma, Roux e C., 1893 (rist. anast. Bologna, Forni, 1976); Eid., La coltura e le relazioni letterarie di Isabella d’Este Gonzaga, «Giornale storico della letteratura italiana», XXXIII (1899), pp. 1-62; XXXIV (1899), pp. 1-97; XXXV (1900), pp. 193-257; XXXVI (1900), pp. 325-49; XXXVII (1901), pp. 201-45; XXXVIII (1901), pp. 41-70; XXXIX (1902), pp. 193-251; XL (1902), pp. 289-334; XLII (1903), pp. 246-89. 21 Solo della più tarda egloga Galatea di Nicolò tratta W. L. Grant, The neolatin «Lusus Pastoralis» in Italy, «Medievalia et humanistica», XI (1957), p. 95; Id., NeoLatin Literature and the Pastoral, Chapel Hill, The University of Carolina Press, 1965, pp. 294-95.

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Esperienze del classicismo

X MACHIAVELLI E LA TRADIZIONE DELL’EPITAFFIO SATIRICO

1. Tramandatoci, a quanto risulta, da due soli testimoni, entrambi tardi, l’epitaffio scritto da Machiavelli per Pier Soderini ha dato luogo a non poche perplessità, vista la difficoltà di ammettere che l’ex segretario rimeritasse con l’empia quartina l’uomo che lo aveva a lungo favorito. Rileggiamone anzitutto il testo, secondo le redazioni lievemente discordanti dei suddetti codici: Magl. VII 271, c. 59r La notte che morì Pier Soderini l’anima andò dell’inferno alla bocca, gridò Pluton: «Ch’inferno, anima sciocca? Va’ su nel limbo fra gli altri bambini!»

Magl. VII 59, c. 74r La notte che morì Pier Soderini l’alma n’andò de l’inferno a la bocca e Pluto le gridò «Anima sciocca, che inferno? Va’ nel linbo tra’ bambini».

Per respingere i dubbi addensatisi in era positivistica sulla paternità machiavelliana dell’epigramma bastò a Pasquale Villari, senza neanche mettere in discussione l’attribuzione, avvertire che Giuliano de’ Ricci, nipote di Machiavelli, ricordava più volte nel suo Priorista la poesia come opera dello zio. Non sapendo tuttavia come ovviare altrimenti all’aporia, egli cercò di spiegarsi l’ironia di quei versi riducendoli ad «uno scherzo di cattivo genere», in cui restava «pure un fondo di verità», giacché messer Niccolò aveva «sempre biasimato la troppa mitezza del Gonfaloniere»1. La tesi, come si noterà, non era delle più cristalline, se da un lato tendeva a ridimensionare la portata della mordace critica e dall’altro non poteva fare a meno di riconoscerne la

1

Cfr. P. Villari, Niccolò Machiavelli e i suoi tempi, Milano, Hoepli, 18952, II,

p. 205.

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profonda aderenza al giudizio machiavelliano sull’ex gonfaloniere quale rampolla più volte nelle pagine dei Discorsi (cfr. almeno III 3 e 9). Per quanto viziata da questa ambiguità di fondo, l’opinione di Villari si affermò presso i biografi di Machiavelli. La fece propria, nella sostanza, Tommasini; e Roberto Ridolfi, riprendendola a sua volta, scriveva che l’epigramma altro non è «se non una di quelle salate facezie che nessun fiorentino ha mai risparmiato a nessuno in nessuna circostanza»2. La sua posizione si differenziava peraltro da quella dei predecessori in quanto sminuiva ulteriormente il significato dell’epitaffio («Io non ci vedo neppure il cattivo genere, ma soltanto lo scherzo»), presentandolo sotto la luce della canzonatura becera ma senza intenzione di ferire sul serio: lettura plausibile, questa, anche se difficilmente accettabile nel caso di una lirica in mortem. Ridolfi inoltre veniva implicitamente a contraddire l’opinione espressa a tal riguardo, fin dal 1925, da Federico Chabod, incline a riscontrare in quei versi il riflesso di una effettiva valutazione morale e politica dell’operato del Soderini3. A lungo andare, però, avrebbe avuto la meglio proprio questa interpretazione. Commentando la lirica poco più di venti anni or sono, seguiva analogo orientamento Luigi Blasucci, che impostava per primo e, a mio avviso, correttamente anche il rapporto con il testo del primo Decennale, dove il Soderini è raffigurato quale «nocchier accorto» dello stato fiorentino4. E sulla stessa linea si poneva di lì a poco anche Carlo Dionisotti, che riconnetteva opportunamente il graffiante epitaffio al rammarico di messer Niccolò per l’effimera istituzione della milizia cittadina: «il finale giudizio espresso da Machiavelli nel vituperoso epigramma per la morte di Pier 2 Cfr. rispettivamente O. Tommasini, La vita e gli scritti di Niccolò Machiavelli, Roma, Loescher, 1883-1911, I, p. 38 n.; e R. Ridolfi, Vita di Niccolò Machiavelli, Roma, Belardetti, 1954 2, pp. 306 e 456, n. 16. 3 Nel saggio Del Principe di Niccolò Machiavelli (1925), in F. Chabod, Scritti su Machiavelli, Torino, Einaudi, 1980, p. 71: « l’epigramma su Pier Soderini tanto discusso non è se non il concretarsi aperto di un atteggiamento spirituale, che, improntandosi per lo innanzi a sdegno e passione, si converte poi in ironia beffarda, ma non priva di dolorosa risonanza, allora quando abbia riconosciuta l’umanità del suo tormento». 4 Cfr. N. Machiavelli, Opere letterarie, prefazione, commento, nota al testo e appendici bio-bibliografiche di L. Blasucci, Milano, Adelphi, 1964, p. 363 (e vedi anche N. Machiavelli, Scritti letterari, a c. di L. Blasucci, con la collaborazione di A. Casadei, Torino, UTET, 1989, p. 438): «l’epigramma, nella sua forma radicale e impietosa, non è che la precipitazione di un giudizio politico espresso in maniera ancor cauta e riguardosa nei Discorsi: sicché il richiamo a versi del Decennale, largamente anteriori agli avvenimenti decisivi che portarono alla caduta della repubblica fiorentina guidata dal Soderini e al ritorno dei Medici (1512), appare del tutto anacronistico».

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X Machiavelli e la tradizione dell’epitaffio satirico

Soderini ancora fa prova della sua delusione, cocente dopo tanti anni e superiore al normale riguardo, non dirò della gratitudine e dell’amicizia, né della verità, ma della morte»5. 2. La tendenza che accomuna gli interventi or ora passati in rassegna è quella di un’attenzione esclusivamente e quasi ossessivamente rivolta all’esame del nucleo ideologico della poesia. Mi pare si sia trascurato, in altre parole, di analizzarne gli aspetti più specificamente letterari, non occultati, a ben guardare, da Giuliano de’ Ricci, che a c. 27 del citato Priorista annotava: «Parlò in questo epitaffio il Machiavelli come poeta, perché quando trattava da vero e non da gioco o per burla, lo lodava e lo ebbe sempre in gran concepto» (riferendosi ovviamente a Soderini). Ridolfi ha letto queste righe ponendo l’accento soprattutto sul tono burlesco rivendicato al componimento; ma varrà la pena di chiedersi, se non altro, cosa esattamente intendesse dire Ricci premettendo che lo zio aveva parlato nella fattispecie «come poeta». Occorre mettere intanto nel dovuto rilievo l’impiego di un metro – il tetrastico di endecasillabi a rima chiusa o, più raramente, alternata – che proprio tra lo scorcio del Quattrocento e i primi decenni del secolo successivo si era affermato affiancandosi al sonetto quale genere canonico dell’epitaffio in volgare, grazie soprattutto all’opera di Girolamo Pandolfi da Casio, cui Leone X aveva concesso il privilegio di fregiarsi del nome dei Medici. Numerosi sono gli epitaffi di re, papi, imperatori, scrittori, artisti, condottieri e altri personaggi illustri dei suoi tempi ch’egli scrisse, appunto, su tale metro e incluse in un’ampia raccolta intitolata Cronica, uscita a stampa probabilmente a Bologna nel 1525. Basti, per restare entro una tematica cara a Machiavelli, trascriverne qui uno dedicato al Valentino: Di Cesar Borgea, ad Alessandro figlio, le membra serbo et serbo le memorie de l’acquistate sue tante vittorie con stratageme, con forza et consiglio6.

Sullo stesso metro, stando alla testimonianza di Vasari, Annibal Caro avrebbe composto un epigramma in memoria di Masaccio; Michelangelo 5 Cfr. C. Dionisotti, Machiavelli, Cesare Borgia e don Micheletto (1967), in Id., Machiavellerie. Storia e fortuna di Machiavelli, Torino, Einaudi, 1980, p. 32. 6 Cfr. Libro intitolato Cronica ove si tratta di epitaphii di Amore e di Virtute, composto per il Magnifico Casio felsineo cavaliero et laureato, versi tre milia et cinquecento, s.n. t., c. 12v.

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avrebbe scritto quarantotto dei cinquanta epitaffi per la morte (Roma, 8 gennaio 1544) del quindicenne Cecchino Bracci; e anche Benvenuto Cellini avrebbe vergato di getto quello per l’unico figlio, Giovanni, inviandolo in data 22 maggio 1563 a Benedetto Varchi perché, su quella traccia, ne concepisse uno da scolpirsi sul sepolcro in Santissima Annunziata7. L’esemplificazione potrebbe essere più ampia, ma quel che interessa è spostare subito l’attenzione sul corrispettivo comico di questo genere di epitaffio. Se l’uno ripeteva i toni dell’encomio del morto che dall’epigrafia antica si era trasferito nella lirica umanistica, giungendo a un raro traguardo di stile coi Tumuli di Pontano, l’altro assolveva con identiche caratteristiche metriche il compito di screditare il compianto, dando voce ad un’invettiva talora velenosa: Con tutte quante l’operacce sue, ch’al gran Varchi dièr già biasmo infinito, in questo cacatoio è seppellito Alfonso, pazzo in rima e in prosa bue8.

La quartina scritta dal Lasca contro un avversario del Varchi, Alfonso de’ Pazzi, mostra chiaramente l’intento parodico nei confronti dell’epitaffio vero e proprio; non meno di quella per il gran traduttore d’Ovidio, Giovanni Andrea dell’Anguillara, che alcuni manoscritti attribuiscono al medesimo Lasca: Colui che giace qui morto riverso fu da Sutri, fu gobbo e fu dottore, ma gli ebbe un nome tanto traditore ch’io nol vo’ dir per non storpiare un verso9.

Con non minore salacia Grazzini colpì del resto altri suoi nemici o individui socialmente discutibili; e non fu il solo, ché il carattere divertente del7 Vedi rispettivamente: G. Vasari, Le vite de’ più eccellenti pittori, scultori e architettori, nelle redazioni del 1550 e 1568, testo a c. di R Bettarini, commento secolare a c. di P. Barocchi, Firenze, Sansoni, 1971, III, p 133; M. Buonarroti, Rime, a c. di E. N. Girardi, Bari, Laterza, 1960, pp. 95-108; e Opere di Benvenuto Cellini, a c. di G. G. Ferrero, con un profilo della Vita celliniana di E. Carrara, Torino, UTET, 1971, pp. 973 e 994. 8 Questo e altri epitaffi dello stesso tipo in Le rime burlesche edite e inedite di Antonfrancesco Grazzini detto il Lasca, per c. di C. Verzone, Firenze, Sansoni, 1882, pp. 635-41. 9 Cfr. ivi. L’epitaffio, adespoto, è anche nel Magl. VII 59.

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l’epitaffio satirico ne fece un genere di moda e Francesco Berni se ne servì per sfogare addirittura la propria antipatia verso il cane di Alessandro de’ Medici, cui era stato messo nome Amore: Giace sepolto in questa oscura buca un cagnaccio ribaldo e traditore; era il Dispetto e fu chiamato Amore. Non ebbe altro di buon: fu can del Duca10.

Ora, se è possibile che il cinismo del Berni si sia estrinsecato – secondo l’aneddoto raccontato nelle Facezie di Lodovico Domenichi – alla presenza dello stesso duca Alessandro, riesce più difficile comprendere come potesse prender piede un genere fondato sull’improperio contro le anime dei defunti, che non poco doveva ripugnare alla pietà cristiana. Si ripropongono, insomma, anche per gli epitaffi composti dal Lasca e da altri11 le perplessità relative all’insaevire in mortuum già proposte da quello machiavelliano per il Soderini. Allo scopo di formulare un’ipotesi in grado di fornire una spiegazione plausibile, senza cedere a interpretazioni banalizzanti né forzare i dati sopra raccolti, converrà risalire, per quanto possibile, alle origini di questo filone poetico. 3. Alcuni antecedenti classici di simili sferzanti epitaffi potevano esser noti in epoca umanistica dall’Antologia Planudea (autogr. Marc. IIIa 17, 5; 17, 6; 26, 5; 28, 26); e alla fortuna del genere avrà forse contribuito la diffusione dell’Hermaphroditus, in cui il Panormita aveva raccolto fittizi epitaffi d’improperio contro un pederasta, un ubriacone ed una meretrice (cfr. I, 7; II, 12 e 30)12. Ma è ragionevole supporre che il gusto per questo tipo rimatorio avesse origine dall’usanza tardomedievale di comporre strofette infamanti, spesso abbinate alla raffigurazione pittorica di traditori o altri nemici dello stato in pose ignominiose13. A cominciare almeno dall’inizio del Trecento se 10 F. Berni, Rime, a c. di D. Romei, Milano, Mursia, 1985, p. 193. Il passo di Domenichi relativo all’epigramma è stato segnalato da G. Bàrberi Squarotti (ed. Torino, Einaudi, 1969, p. 199). Il testo è anche nel Magl. VII 59. Su questo sottogenere degli epitaffi per cani vedi l’accenno di S. Longhi, Le rime di Francesco Berni. Cronologia e strutture del linguaggio burlesco, «Studi di filologia italiana», XXXIV (1976), p. 297. 11 Una più ampia campionatura sia del tipo faceto sia di quello serio è sparsa nella raccoltina di Epigrammi italiani, scelti e ordinati da G. Mazzoni, Firenze, Barbèra, 1896. 12 Cfr. Antonii Panhormitae Hermaphroditus, a c. di D. Coppini, Roma, Bulzoni, 1990. 13 Sull’argomento vedi G. Ortalli, «Pingantur in palatio». La pittura infamante nei secoli XIII-XIV, Roma, Jouvence, 1979; e in particolare sulla poesia infamante F. Suitner,

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ne scrissero in vari metri, e fra le poche di cui si ha memoria ve n’è pure una serie in quartine di endecasillabi a rima chiusa. A Firenze difatti, nel Palazzo del Podestà, Andrea del Castagno aveva dipinto «per un piede impiccati», all’indomani della battaglia di Anghiari (1440), Rinaldo degli Albizzi e i più rappresentativi fra i fuorusciti suoi consociati; e l’araldo della Signoria, Antonio di Matteo di Meglio, aveva scritto le epigrafi da apporre alle varie effigi, ognuna consegnata appunto ad un tetrastico in cui s’immaginava che l’impiccato parlasse al pubblico: Crudel Rinaldo, cavalier superbo, privato di mie schiatta e d’ogni onore, ingrato alla mie patria e traditore, fra costor pendo il più iniquo e acerbo14.

Analogamente al capo della fazione antimedicea venivano caratterizzati i figli Ormanno e Giovanni o, ad esempio, Lisca Peruzzi: Per ladro, per ruffiano e per ribaldo, imprima delle forche bando avendo. Lisca Peruzzi son, che po’ qui pendo per seguir l’orma di messer Rinaldo.

Antonio Araldo avrà forse avuto presente nella fattispecie anche l’esempio dei tanti dannati che nel corso della Commedia dantesca si presentano in modo affine, com’è il caso di frate Alberico (Inf. XXXIII 118-20: «I’ son frate Alberigo; / io son quel dalle frutta del mal orto, / che qui riprendo dattero per figo») o di Vanni Fucci (Inf. XXIV 122-26: «Io piovvi di Toscana, / poco tempo è, in questa gola fera. / Vita bestial mi piacque e non umana, / sì come a mul ch’i’ fui; son Vanni Fucci / bestia, e Pistoia mi fu degna tana»). Proprio la memoria di quest’ultimo luogo del poema potrebbe aver provocato il recupero di «mulo», in dittologia sinonimica con «bastardo», nella quartina del Meglio relativa all’abate Niccolò Gianfigliazzi:

La poesia satirica e giocosa nell’età dei comuni, Padova, Antenore, 1983, pp. 179-212. 14 L’intera serie si legge in Lirici toscani del ‘400, a c. di A. Lanza, Roma, Bulzoni, 1975, II, pp. 94-95. Cfr. anche il vecchio studio di F. Flamini, La lirica toscana del Rinascimento anteriore ai tempi del Magnifico, estr. dagli «Annali della Reale Scuola Normale Superiore di Pisa», IX, Pisa, Nistri, 1891 (rist. anast. con present. di G. Gorni, Firenze, Le Lettere, 1977), p. 120.

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Niccolò son d’Anton Gianfigliazzi io, detto Sacchin, di Pasignan già abate, bastardo, mulo e qui pendo, sappiate, perché cercai tradir la patria e Dio.

Anche questi tetrastici costituivano la parodia di un’iscrizione tombale vera e propria, intesa a colpire, delineandoli con secchezza, i vizi di persona viva e vegeta. Si trattava, in altre parole, di fingere che l’esecrando fosse già morto, sì da colpirne la reputazione con un epitaffio costruito antifrasticamente rispetto al modello positivo ereditato dai classici. 4. Nelle rime infamanti lo strano connubio tra epitaffio e vituperio era favorito evidentemente dalla fictio. Ciò non significa che non se ne concepissero anche col preciso scopo della damnatio memoriae, ma è comunque importante constatare che in esse s’intendeva colpire generalmente – con una sorta di compianto alla rovescia fatto di ingiurie ed oscenità – qualcuno ch’era ancora in vita. Le stesse condizioni, a prescindere dalla pratica della pittura infamante, si riscontrano in diversi epitaffi satirici, seguendo così una tradizione assai longeva che giunge quanto meno oltre le soglie del Seicento. L’esempio più tardo ch’io conosca è il primo dei tre epitaffi, manieristicamente intitolati Sepolcri, composti dal fiorentino Alessandro Adimari15, che lo scrisse quando il vilipeso era in realtà vivo ed al suo servizio, come prova la seguente didascalia: «A Mariano Pacini. Questo fu uno servitore sciocco che servì l’Autore a S. Miniato l’anno 1614 e per burla se li fece questo epitaffio; e di lì a pochi mesi lo verificò morendo pazzo». E il poeta lo derideva infatti in versi che vien da pensare gli avrebbe risparmiato a decesso avvenuto: Fra queste zucche vòte ecco l’avello di Marian da Pescia servitore: campò di balordaggine e d’amore; nacque, visse e morì senza cervello.

Scendendo al pieno Cinquecento, è da aggiungere che dichiaratamente fittizi erano pure gli epitaffi, ispirati ai medesimi criteri espressivi, che gli oppositori celati dietro il nome di Pasquino scrissero per Paolo III e per i suoi

15

Li leggo nel manoscritto Il I 92 della BNCF, c. 217r. Gli altri due sono «Sopra un certo chericone assai ignorante» e «Ad un sarto». 16 Cfr. Pasquinate romane del Cinquecento, a c. di V. Marucci, A. Marzo e A. Romano, pres. di G. Aquilecchia, Roma, Salerno ed., 1983, pp. 650-57.

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trentasei cardinali16. La rubrica del codice Ottoboniano lat. 2811 li data esplicitamente al 1544, ovvero a cinque anni prima della morte del papa (10 novembre 1549), specificando che si tratta appunto degli «Epitafi di Maestro Pasquino sopra il Papa e’ Cardinali che son oggi». Questa la quartina mortuaria relativa al pontefice: Qui fu sepolto un certo papa Paulo, fraudolente, vulpon, ladr’assassino, di qua famoso in bocca di Pasquino, di là dolent in bocca del diaulo.

La somiglianza con le rime infamanti è qui evidente, non meno che, per fare qualche altro esempio, nell’immaginario epitaffio di Jacopo Sadoleto (Monsignor Sadoletto, che qui sta, non scio se luteran o turco fu; basta che non credea nel buon Gesù, l’altre cose le dica chi le sa.)

o in quello di Marcello Cervini cardinale di Santa Croce: Fra mill’alme virtù da cardinale che Santa Croce avea, ch’è qui serrato, a’ suoi benefattor’ fu sempr’ingrato che levato l’avien da l’ospidale.

Epigrammi di questa specie si erano scambiati anche Lorenzino de’ Medici e Giovan Battista Strozzi il Vecchio, dislocati su opposti versanti politici dalle vicende successive al definitivo ritorno dei Medici in Firenze: Lo Strozza giace qui, buona persona, poeta fu ex tempore, e le foglie di Febo meritò, ma e’ tolse moglie e in capo non gli entrò poi la corona. Qui giace un ch’esser già liberatore della sua patria volse, ma viltade non gli lasciò seguir tanta pietade, ond’è ch’ei ne fu detto Traditore.

Il configurarsi come una sorta di tenzone poetica che fa aggio, con regolare proposta e relativa risposta, su epitaffi infamanti basterebbe a svelare il carattere fittizio dei due epitaffi. Non saprei dire se la successione fosse dav-

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vero questa, desunta da Ferrai di sul frontespizio di una stampa dei Triumphi petrarcheschi (impressa a Venezia nel 1500, dai torchi di Bartolomeo de Zani), dove li aveva copiati un ignoto possessore cinquecentesco17. È certo comunque che quando il Medici concepì la sua pungente quartina lo Strozzi era ancora in vita, giacché morì nel 1571: vale a dire ventitré anni dopo l’assassinio di Lorenzino stesso perpetrato dai sicari del cugino Cosimo. Il tetrastico per giunta, data la menzione della moglie di Giovan Battista, va considerato senza dubbio posteriore all’anno 1539, quando questi si sposò con Marietta di Bindo Altoviti. E d’altronde una eventuale replica da parte dello Strozzi avrebbe avuto poco senso dopo la scomparsa del tirannicida; mentre gl’improperi lanciati contro di lui, a cominciare dal nomignolo di Traditore che i partigiani di Cosimo subito gli affibbiarono18, trovano una loro precisa e comprensibile collocazione storica durante il periodo dell’esilio di Lorenzino, allorché la propaganda cosmiana si accanì a screditare il gesto del novello Bruto. Che l’esistenza di tale genere rimonti almeno all’epoca della formazione di Machiavelli dimostra, infine, il giocoso epitaffio per una figura di profittatore noto alla Firenze di fine Quattrocento col soprannome di Pacchierotto, composto da un poeta caro a messer Niccolò come Luigi Pulci: Qui iace el Pachierotto, uom lieto e magno, che rimaner non volse alla cornacchia, e d’ogni cosa seppe trar la machia: Morte per certo uccise un buon compagno19.

Anche Pacchierotto in realtà sopravvisse al Pulci, continuando ad evitare

17 Cfr. L. A. Ferrai, Lorenzino de’ Medici e la società cortigiana del Cinquecento, con le rime e le lettere di Lorenzino e un’appendice di documenti, Milano, Hoepli, 1891, p. 413. La successione è accolta da F. Ravello, in appendice alla sua ed. di Lorenzino De’ Medici, Aridosia e Apologia, Torino, UTET, 1926, p. 238; e nell’introduzione a G. B. Strozzi, Madrigali inediti, a c. di M. Ariani, Urbino, Argalia, 1975, p. XXXIX. Si avverta che l’epigramma composto da Lorenzino è trascritto con varianti nel Magl. VII 59, c. 64r (inc. «Batista giace qui buona persona»), e nel Magl. VII 271, c. 113r (inc. «Lo Strozzi giace qui buona persona»). 18 La via in cui abitava fu addirittura ribattezzata con decreto di Cosimo «Strada del Traditore»: cfr. F. Martini, Lorenzino de’ Medici e il tirannicidio nel Rinascimento, Firenze, Giachetti, 1882, pp. 15-16. 19 Pubblicato per la prima volta da chi scrive in Due inediti e un raro di Luigi Pulci (1980), in Le muse dei Pulci. Studi su Luca e Luigi Pulci, Napoli, Guida, 1985, p. 92.

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lo scorno ed a trarre il proprio utile da ogni occasione propizia (vv. 2-3), se è vero che morì di lebbra a Bologna – come c’informa la Cronaca di Simone Filipepi – l’anno 1500 o poco dopo20. La satira dunque, già a quest’altezza di tempo, aveva preso forma d’immaginario quanto ignominioso epitaffio di colui che ci si proponeva di burlare o di additare alla pubblica esecrazione. 5. È sufficiente aver seguito, a ritroso, lo snodarsi di un filone rimatorio tanto poco noto oggi quanto familiare ai poeti del Rinascimento per affermare che non si trattò di estemporanee invenzioni ma di una tradizione affatto compatta, i cui reperti sarebbero certo incrementabili estendendo le ricerche alla lirica umanistica. Basti qui ricordare lo scetticismo mostrato a suo tempo da Giosuè Carducci circa il fatto che alcuni epitaffi satirici dell’Ariosto, in latino appunto, fossero stati «composti veramente per morti»21. Tornando a quello machiavelliano per il Soderini, non pare si possano nutrir dubbi che anch’esso afferisse al genere la cui identità ho cercato di delineare. A parte il metro comune, Machiavelli ne condivide il gusto per un espressionismo macabro, da Spoon river anthology avanti lettera, che non gli impedisce peraltro di reinterpretare piuttosto liberamente il modulo, partendo da un riecheggiamento petrarchesco (Tr. Mor. II 1 «La notte che seguì l’orribil caso») per figurarsi la scena dell’incontro tra l’anima del Soderini e Plutone con accenti schiettamente danteschi (Inf. XXXI 70-71 «Anima sciocca, / tienti col corno e con quel ti disfoga»). E che l’epigramma venisse letto proprio secondo le coordinate tracciate dai campioni sopra esibiti conferma il fatto che entrambi i compilatori dei codici in cui ci è serbato lo trascrissero entro una serie cospicua di siffatti epitaffi, tra i quali, adespoti, quello di Lorenzino de’ Medici per lo Strozzi ed alcuni del Lasca. Dal momento che ogni epitaffio d’improperio datato o databile è, come si è visto, precedente alla morte del compianto, credo sia lecito inoltre domandarsi se anche il componimento di Machiavelli non sia solo la parodia di una lirica in mortem, invettiva contro un uomo che, pur avendolo benvoluto, aveva altresì determinato la sua rovina. S’intende che niente, a rigore, porta ad escludere che Machiavelli si sia valso del genere giocoso violandone

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Cfr. ivi, pp. 91-92. Cfr. G. Carducci, La gioventù di Lodovico Ariosto e la poesia latina in Ferrara, in Opere, Bologna, Zanichelli, 1936, XIII, p. 347. Si aggiunga solo che lo scherzoso cenotafio pontaniano per Pietro Compatre fu scritto certamente quando costui era in vita: cfr. da ultimo G. Parenti, Poeta Proteus alter. Forma e storia di tre libri di Pontano, Firenze, Olschki, 1985, p. 22. 21

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X Machiavelli e la tradizione dell’epitaffio satirico

quelle che parrebbero esserne state le regole e componendo effettivamente il tetrastico in occasione della scomparsa del Soderini. Una volta preso atto, tuttavia, delle caratteristiche letterarie dell’epitaffio, prudenza vuole che la cronologia non venga immediatamente e con piena certezza stabilita a dopo il 13 giugno 1522, quando avvenne il decesso. Vero è che Dionisotti, tratteggiando il retroscena della poesia, si richiamava al tentativo messo in atto proprio allora dai Soderini per rovesciare il regime mediceo e alla contemporanea repressione della congiura ordita da amici di Machiavelli quali il Diacceto, l’Alamanni, il Brucioli e gli altri che si riunivano presso gli Orti Oricellari. Ma l’argomento non sembra tale da dirimere la questione. Si rilegga il prosieguo di quella pagina dionisottiana: È probabile che l’estro comico di Machiavelli fosse stuzzicato dal bisogno di chiarire, in quel momento, la sua posizione con il mezzo semplice e sicuro, a Firenze, della facezia irriverente. Aveva fatto la sua scelta ultima: stava col cardinale Giulio de’ Medici, prossimo dedicatario delle Istorie fiorentine, e col nuovo e savio amico Francesco Guicciardini, non coi Soderini vivi e morti, né con le teste calde che architettavano infantili congiure. E bisogna dire che finalmente, una tantum, aveva scelto bene. Ma con tutto ciò, proprio perché il calcolo e la dissimulazione erano incompatibili con la natura di Machiavelli, l’epigramma gli riuscì sproporzionato al bisogno, sagomato e affilato da un antico rancore, che era tutto e soltanto suo: a nessun altro, in quel momento, scomparendo il settantenne Pier Soderini, esule ma onorato, a Roma, non a Ragusa, con tutti i suoi ancora sulla breccia, con un’eredità di governo che sarebbe durata lungamente nel ricordo e rimpianto dei concittadini, come prova la testimonianza concorde di storici fiorentini d’opposta tendenza, a nessun altro, dico, sarebbe venuto in mente di gabellare come infantile la politica del gonfaloniere, se non per l’appunto a Machiavelli, che durante quel gonfalonierato aveva appassionatamente meditato le ragioni di una politica virile, caratterizzata dall’impiego tempestivo e risoluto della forza, da un gioco rischioso, per una posta alta22.

L’identificazione delle ragioni del risentimento di Machiavelli è ineccepibile. Mi chiedo però se tali condizioni fossero valide solo per l’estate del 1522 e non anche per altri momenti successivi alla débacle del governo soderiniano. Dionisotti stesso rileva che all’epoca della scomparsa del settantenne messer Piero nessun altro avrebbe ripensato alla sua politica come prova d’infantilismo. Più attuale, viceversa, l’invettiva si rivelerebbe se collocata all’indomani del rientro dei Medici in Firenze, venendo così ad acquistare una pregnanza che dopo il decesso del Soderini sfumerebbe in mero e forse eccessivo oltraggio, anche per quei tempi, alla memoria di un defunto. Posto

22

Dionisotti, Machiavelli, Cesare Borgia..., pp. 33-34.

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che l’epigramma rispondesse all’intento di fugare eventuali incertezze sul suo distacco nei confronti del Soderini, ciò avrebbe avuto una logica non dieci anni dopo la disfatta della repubblica, ma quando il ricordo del gonfaloniere perpetuo era fresco nella memoria dei fiorentini e Machiavelli smaniava per essere reintegrato in una qualche funzione pubblica al servizio dei Medici. Confesso peraltro di non essere persuaso che si debba vedere nell’epigramma una mossa opportunistica connessa, al pari dei sonetti rivolti a Giuliano, con la strategia di avvicinamento ai Medici. In tal caso Machiavelli avrebbe scelto una strada assai strana per ostentare il proprio disamore verso il Soderini, criticando quell’irresolutezza dello spodestato gonfaloniere che aveva per l’appunto consentito agli antichi signori la riconquista dello stato. E a maggior ragione nel ‘22 egli – ormai storico ufficiale della città e per investitura, sia pur indiretta, del futuro Clemente VII – si sarebbe guardato dal prendere una simile iniziativa. Non escluderei, perciò, che la poesia avesse un valore privato, o fosse destinata tutt’al più ad una circolazione ristretta entro la breve cerchia degli amici fidati. Sfugge comunque cosa mai nel ‘22 potesse ravvivare in Machiavelli, e far sì che gli tornassero alla penna, sdegno e delusione per la condotta del Soderini. L’ipotesi che nel tetrastico sia da vedere un epitaffio fittizio consente invece di prospettare una cronologia più verosimile, prossima all’atto finale del gonfalonierato perpetuo; tanto più che l’ingiunzione a tenersi discosto dall’inferno e a raggiungere al limbo gli altri imbelli, rivolta da Plutone al Soderini, ha tutta l’aria di alludere alla sua cacciata dallo stato che non aveva saputo reggere: ovvero al tracollo dalla dignità, in pratica, del principato alla condizione di uomo comune e di esule cui l’avevano costretto le truppe medicee rientrate a Firenze nel 1512.

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XI CLASSICISMO LATINO E VOLGARE NELLE RIME DEL MINTURNO

1. Offrendo a Girolamo Pignatelli, nel 1559, l’edizione delle rime di Antonio Sebastiani detto il Minturno, il curatore, Girolamo Ruscelli, motivava la decisione di pubblicare la raccolta con l’interesse destato dal minturniano De poeta, apparso anch’esso a Venezia pochi mesi prima. Ruscelli dichiarava infatti di esser stato mosso a domandare all’autore copia delle rime (e di altre opere in volgare) dalla curiosità: ovvero dal desiderio di verificare se nella produzione poetica del celebrato trattatista trovassero rispondenza i precetti con i quali aveva «sì felicemente formato il Poeta, alla guisa che formò il suo Orator Marco Tullio»1. Fosse la verità oppure un semplice vezzo, Ruscelli inaugurava così un atteggiamento che avrebbe pesato a lungo sulla valutazione delle rime, considerate, da chi si è occupato del Minturno, ancillari rispetto ai testi teorici e liquidate sbrigativamente con giudizi quanto meno riduttivi2. L’unico intervento degno di rilievo su tale argomento resta perciò quello consegnato ad alcune pagine della monografia che Raffaele Calderisi dedicò, nel 1921, allo scrittore di Traetto, da cui converrà riprendere avvio per una prima verifica dei dati. 1

Rime et prose del Sig. Antonio Minturno, in Venetia, appresso Francesco Rampazzetto, MDLIX, c.* 3v. Le opere in prosa, Amore innamorato e Panegirico in laude d’Amore, sono in realtà distinte dalle Rime mediante specifici frontespizi, mentre hanno numerazione indipendente rispetto alle Rime stesse ma continua al loro interno. Sull’attività del Ruscelli, in quegli stessi anni, in favore della lirica volgare, si veda A. Quondam, Petrarchismo mediato, Roma, Bulzoni, 1974, pp. 195-99 e 221-50. 2 Cfr. G. Petrocchi, La letteratura del pieno e del tardo Rinascimento, in AA.VV., Storia di Napoli, V, Napoli, Società Ed. Storia di Napoli, 1972, p. 288, secondo cui «il Minturno poeta non riesce ad offrire nessuno spunto lirico degno d’interesse».

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Constatati i numerosi echi petrarcheschi, Calderisi si era convinto che le rime minturniane costituissero un canzoniere organico, composto tutto per una dama: «una raccolta di sonetti e canzoni – scriveva – sul modello di quelli del Petrarca, come ce ne sono tanti nel secolo in cui visse il Sebastiani»3. La cui Laura gli sembrava si potesse identificare peraltro, sulla base del seguente sonetto, nella persona di Giulia Gonzaga: Qual è colui che in qualche cieco nido udito ha ragionar del ciel sereno se ’1 veggia poi, così, leggiadro appieno e ’n tante cose sì costante e fido, tal io, di nobil meraviglia pieno, a tanto altero nome, a tanto grido sparso per ogni abbandonato lido del vostro bel (ch’è del celeste seno), or veggio voi, sí glorïosa donna, di Gonzaga gentil nova chiarezza et immortal onor d’alta Colonna. O felice l’etade e ’l secol nostro, che, volendo apparir, l’alma Bellezza prese le forme e ’l bel sembiante vostro.

È vero che a prima vista la poesia potrebbe sembrare dedicata, in effetti, all’avvenente Giulia: «chiarezza» della famiglia Gonzaga e al tempo stesso «onor d’alta Colonna» in quanto consorte di Vespasiano Colonna, duca di Traetto e conte di Fondi. Sfuggiva però al Calderisi che diverse altre rime del Minturno in cui «colonna» è senhal della destinataria si rivolgono esplicitamente non a costei, bensì ad Isabella Colonna, figlia del medesimo Vespasiano e della prima moglie di lui Beatrice d’Appiano. Lo dimostra, verso la fine del secondo libro, la sirma del sonetto Non è questa la dolce piaggia aprica («Ben se’ nobil per te, felice seno, / ma più per questa glorïosa donna / che regna in te, sì più d’ogn’altra bella, / sì più chiara del sol quand’è sereno: / com’è d’alto valor vera Colonna / e sola qui fra noi vera Isabella»); il cui explicit è identico del resto a quello del sonetto Bella parte del cielo e bella idea, collocato intorno alla metà del primo libro e tutto giuocato sulla 3

R. Calderisi, Antonio Sebastiano Minturno, poeta e trattatista del Cinquecento dimenticato. Vita e opere, Aversa, Tip. Noviello, 1921, p. 53; e vedi le pp. 59-60 per il problema, discusso qui sotto, dell’identificazione della donna celebrata nelle poesie volgari.

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repetitio di «bella» e affini, quale parziale interpretatio nominis della donna4. Non risulta inoltre, per quanto non sia da escludere a priori, che il Minturno fosse in contatto con Giulia Gonzaga, mentre diverse sue lettere testimoniano gli intrinseci rapporti tenuti con la stessa Isabella5: la quale poteva a sua volta essere detta, oltre che, ovviamente, «immortal onor d’alta Colonna» (v. 11), pure «di Gonzaga gentil nova chiarezza» (v. 10), dal momento che nell’aprile del 1528 aveva sposato Luigi Gonzaga. Data, questa, che si propone dunque quale termine post quem per la composizione del sonetto erroneamente riferito alla cognata nonché matrigna Giulia, probabilmente anteriore, d’altronde, al dicembre del ‘32, quando il Gonzaga morì combattendo per il papa contro gli Orsini, e al nuovo matrimonio contratto da Isabella nel ‘36 con Filippo di Lannoy. È bene avvertire tuttavia che non si tratta qui semplicemente di rettificare l’identificazione della donna. Le cose, come vedremo, sono assai più complesse di quel che sembrava a Calderisi, né sarebbe sostenibile, operata l’opportuna sostituzione, che la Colonna da sola fosse la dama cui è dedicata la raccolta minturniana. Intanto lo studioso, onde avvalorare la propria tesi, era costretto ad una forzatura non da poco quando, citati i versi: «Ma s’io mi parto dal mio vivo Sole / ch’adorna e ’nfiora il bel paese tosco, / lasso non so s’a rivederlo io torni» (son. Vaghi augelletti che per bel costume, 9-11), spiegava l’accenno di carattere geografico adducendo che «la famiglia Gonzaga

4

Quest’ultimo sonetto è compreso nella breve scelta di liriche minturniane curata, in tempi recenti, da Amedeo Quondam, che lo riferisce difatti: «A una nobildonna di nome Isabella: forse Isabella Colonna, principessa di Sulmona» (cfr. G. Ferroni -A. Quondam, La locuzione artificiosa. Teoria ed esperienza della lirica a Napoli nell’età del manierismo, Roma, Bulzoni, 1973, p. 308). Quanto al precedente, non sarà forse un caso che la clausola «vera Colonna» fosse senhal della stessa Isabella anche in Ariosto, Fur. XXXVII 115. 5 Cfr. Lettere di Messer Antonio Minturno, in Vinegia, appresso Girolamo Scoto, MDXLIX, cc. 131v-135r. Su quest’edizione cfr. G. Belloni, G. Andrea Gesualdo e la scuola a Napoli (1980), in Id., Laura tra Petrarca e Bembo, Padova, Antenore, 1992, pp. 189 n. 3, 192 n. 9 e 197 n. 22. Per la pubblicazione avvenuta senza il consenso e, dunque, senza la revisione dell’autore, si veda inoltre l’accenno di A. Quondam, Dal «formulario» al «formulario»: cento anni di libri di lettere, in AA.VV., Le «carte messaggiere». Retorica e modelli di comunicazione epistolare: per un indice dei libri di lettere del Cinquecento, Roma, Bulzoni, 1981, p. 44. Non pare, infine, rientrare nel novero delle ispiratrici minturniane Vittoria Colonna, conosciuta probabilmente durante il soggiorno ischiano del ’28 (cfr. S. Therault, Un Cénacle humaniste de la Renaissance autour de Vittoria Colonna châtelaine d’Ischia, Firenze, Sansoni Antiquariato, 1968, pp. 290-99).

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era d’origine toscana» e considerandolo perciò nuovo omaggio a Giulia Gonzaga6. È evidente invece che il poeta si rivolgeva qui a persona dimorante allora, foss’anche temporaneamente, in Toscana. Perciò, specie dopo le precisazioni fornite da Pier Giorgio Ricci in merito al breve soggiorno del Minturno a Pisa7, non può non tornare alla memoria l’amore per la bella pisana: che riporterebbe, fra l’altro, la genesi del sonetto ad una data piuttosto alta, compresa nel biennio 1519-21. Calderisi non si accorgeva neppure del fatto che il medesimo senhal colonnese compariva anche in una terna di sonetti rivolta, verso la metà del primo libro, alla già menzionata Beatrice d’Appiano, prima moglie di Vespasiano Colonna, venuta a morte nella primavera del 1525. Il primo dei tre componimenti, Care sorelle che vezzose e liete, s’indirizza esplicitamente all’«alma Beatrice» (v. 9), che in calce al secondo, Ecco sì novo ciel fra noi risplende, è detta poi «sola fra noi del ciel Beatrice» (in adnominatio con «bear» al v. 9); e nell’explicit del terzo, Ecco ch’un’altra volta a tale scempio, si ribadisce che «né ’n ciel né ’n terra è più d’una Beatrice» (ancora in adnominatio con «bear» al v. 4). L’ipotesi di un canzoniere consacrato in blocco ad un’unica ispiratrice si rivela insomma, fin da questa prima ricognizione, tutta da dimostrare. Si aggiunga che per rendersi conto di una ulteriore e ancor più consistente presenza femminile nelle rime minturniane basta leggerle alla luce dell’epistolario, ove è in primo piano – a far sospirare e comporre lo spasimante poeta per lunghi anni – la figura di Maria di Cardona, marchesa della Padula e contessa di Avellino, cui il Minturno dedicò il suo Panegirico in laude d’Amore. Mi limiterò qui a pochi esempi, scelti tra i più significativi, che consentono oltre tutto di datare con sufficiente sicurezza alcune rime. Tra le lettere fortunosamente recuperate a Napoli dopo il saccheggio spagnolo del 1547, e stampate a Venezia due anni più tardi per iniziativa di Federico Pizzimenti, si legge, priva di data e di destinatario, una minuta in cui l’autore descriveva diffusamente lo stato d’animo che l’aveva spinto alla composizione di un sonetto e di una sestina: 6

Cfr. R. Calderisi, Antonio Sebastiano Minturno..., p. 60. Non ha riscontro nella raccolta, se ho ben visto, l’affermazione che in alcuni sonetti «v’è il nome di Laura» (p. 58), in seguito alla quale il Calderisi affacciava l’ipotesi, subito scartata, di un qualche rapporto con la Terracina. 7 Cfr. P. G. Ricci, Antonio da Traetto, cioè il Minturno, «Rinascimento», VII (1956), pp. 363-67.

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Chi pensò mai ch’uomo in terra trovarsi potesse al quale sia notte quando agli altri è giorno e giorno quando agli altri è notte? Perciò che in questo nostro emisperio – come che nell’altro, per aventura, abbia gente a cui la nostra alba fa tenebre e all’oncontro le nostre tenebre fanno alba – non alberga animale che non veggia andar di pari il giorno col sole, da che egli sorge ne l’oriente infin che giunga all’occaso, e la notte con l’ombra, la quale egli lascia nel mondo quando nell’occidente si nasconde. E io, dal primo sonno infin al mattino, ritruovo un lieto sereno e, da che comincia a fiammeggiar la bella Aurora infin che la sera torni a far l’aria tenebrosa e imbrunir le campagne, null’altro che dolorose tenebre riveggio. Ma qual meraviglia e qual impossibilità, se ’l polito suo viso è il mio Sole? Che sì come di sua luminosa presentia fa, ove egli risplende, un perpetuo giorno e, simile a quello che nella sempiterna luce del cielo empireo si vede, così di sua lontananza, là onde si diparte, lascia una eterna notte, anzi un penoso e cieco abisso. Ma la notturna quiete, che libera da corporali impedimenti il pensiero e spregiona i sogni che ’1 dì teneva chiusi e stretti, con una dolce e amorosa visione mi reca innanzi il dolce lume che la mente mia rasserena, e di notte oscura mi fa chiaro giorno; poi, quando l’alba desta i miseri mortali e alle diurne fatiche li chiama, insieme con la disiata visione si diparte e io, lasso, senza luce mi rimango. Così, di questi duo contrarii tempi, l’uno è il mio conforto e la mia vita, l’altro è la doglia e la morte mia. E parmi che Amore, per far più lungo stratio del tormentoso mio cuore, mi presti aver sì liete e tranquille e serene notti, perché se quel vago e dolce errore con l’imaginata luce del Sole non rischiarasse le tenebre della mente né ristorasse l’afflitta e piuttosto perduta vita, io avrei chiusi già gli occhi e spento il cuore in sempiterna notte; onde io soglio disiare che mi fia o l’uno o l’altro tempo eterno: o per non morir più d’una volta o, quel ch’io certo più vorrei, per viver sempre beato almeno in sogno, poi che m’è tolto l’esser veramente beato. Di questo mio diverso e nuovo stato ragionano il sonetto e la sestina ch’io, per ubidire a sua volontà, le mando: per che può ella stimare a che m’abbia condotto il suo dipartire8.

Sonetto e sestina di cui il Minturno faceva menzione davano dunque voce al tema dell’innamorato che durante la notte, sciogliendosi l’anima dagl’impacci del corpo, gode in sogno la luce del suo sole – cioè la visione dell’amata – mentre di giorno è come se vivesse in tenebre per la lontananza della donna stessa, il cui «dipartire» lo ha condotto a menar vita contraria a quella di ogni altro individuo del regno animale. Si riconoscerà, con qualche aggiornamento dovuto alla teoria neoplatonica della «vacatio animae», lo schema concettuale della sestina Come notturno uccel nemico al sole di Sannazaro (Arcadia VII) e della petrarchesca A qualunque animale alberga 8

Lettere..., cc. 141v-142r. Il brano qui citato è stato messo in relazione con il motivo lirico del sogno da F. Gandolfo, Il «dolce tempo». Mistica, Ermetismo e Sogno nel Cinquecento, Roma, Bulzoni, 1978, pp. 49-50. Tale motivo è presente anche nelle rime minturniane, specialmente nel sonetto O Sonno, de’ mortai mirabil freno (cfr. S. Carrai, Ad Somnum. L’invocazione al Sonno nella lirica italiana, Padova, Antenore, 1990, pp. 51 e 160-61).

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in terra (RVF XXII), il cui incipit echeggia per giunta nella lettera stessa («in questo nostro emisperio [...] non alberga animale»); sicché risulta facile, oltre che incontrovertibile, l’identificazione della sestina minturniana con quella situata intorno alla metà del primo libro delle Rime, che svolge questo tema e inizia appunto con lo scoperto omaggio a Petrarca (di cui ripete ben quattro parole-rima): «Qual animal di sì contrarie tempre / e ’n sì deserti lidi alberga in terra / che non riveggia dopo l’alba il sole, / infin che altrove se ne porti il giorno, / ricominciando ad apparir le stelle?». Quanto al sonetto, ve ne sono diversi tra quelli del Minturno che toccano tale argomento: l’identificazione sarebbe quindi problematica se non soccorresse un ulteriore documento. Mi riferisco alla missiva che l’autore – allora in Sicilia al seguito di Ettore Pignatelli, duca di Monteleone e Viceré dell’isola – spedì da Palermo in data 10 gennaio 1532 a Maria di Cardona. Lettera, questa, che parrebbe in effetti una meno prolissa redazione della minuta da cui ho stralciato il brano precedentemente citato, come stanno a dimostrare i concisi accenni al retroscena delle due liriche in questione: Il sole se ne porta il giorno, ma non può egli rasserenare se l’aria ne’ suoi nuvoli i raggi di lui nasconde, né può vincere l’ombra de la notte; ma il vostro luminoso volto faceva sempre qui lieto giorno e, di penose et oscure, tranquille e chiare le notti. Quello, lasciando tenebroso là onde si parte, fa sereno là ove si volge; questo, di qua partendosi, in tartaree tenebre et in solitario orrore ci lasciò tutti e, colà ove egli ora risplende, infiamma delle sue vaghe e sante luci et allumina il cielo. [...] Né pur, quel pensiero, mi turba l’andare e lo stare et il sedere, et interrompe tutte le mie operationi; ma, quando gli uomini e gli animali, dormendo, acquetano i loro affanni, mi rompe il sonno e mi pone in guerra. E nondimeno solo di lei pensando ho qualche pace. Questo mio doloroso stato in parte discritto potrà ella vedere nella sestina e nel sonetto ch’i’ ora le mando e nell’altre rime che le manderò poi9.

L’apprendere inoltre, dalla lettera medesima, che tale situazione psicologica si era determinata nel poeta per la partenza della Cardona dalla Sicilia rende sicuro il riconoscimento della seconda lirica in un sonetto analogamente ispirato da una reminiscenza petrarchesca (RVF IX, Quando ’l pianeta che distingue l’ore). Eccone il testo: Quel pianeta che gli anni mena intorno, quando dal nostro ciel si volge altrove, lasciando tenebroso onde si move, a noi fa notte oscura, agli altri giorno; 9

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Lettere... , cc. 140r-v.

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così quel volto più d’ogni altro adorno, ch’è vero Sol de le bellezze nove, or, che dal proprio sito si rimove, lascia in tenebre il suo chiaro soggiorno. Lascia in tenebre, lascia in doglia e ’n pianto Sicilia tutta, e ne riporta altrui 1’ almo, soave, angelico splendore: ogni diletto se n’andò con lui, con lui si dipartì la festa e ’l canto, e qui rimase un solitario orrore.

Si noti, ad ulteriore conferma di questa seconda agnizione, che alcune frasi della missiva trovano qui esatta corrispondenza. Lo stesso parallelo tra il sole vero e proprio e quello che designa l’amata sembra dipendere, anzi, dalla similitudine espressa nella poesia, provocando la ripresa quasi letterale del v. 2, «lasciando tenebroso onde si move» (nella lettera: «lasciando tenebroso là onde si parte»), e il riecheggiamento dei passaggi principali della sirma: «Lascia in tenebre [...] Sicilia tutta [...] con lui si dipartì la festa e ’l canto, / e qui rimase un solitario orrore» (nella lettera: «di qua partendosi, in tartaree tenebre et in solitario orrore ci lasciò tutti»). Si può affermare allora, senza ombra di dubbio, che entrambi i componimenti furono scritti non molto prima del gennaio 153210. Altre lettere del 10

Il gruppo di poesie da riconnettere all’occasione della partenza della Cardona da Palermo sarà, comunque, più nutrito, tanto più che la chiusa della lettera le prometteva, come si ricorderà, l’invio di nuove rime. Un altro brano della medesima missiva dà modo d’individuarne, con tutta probabilità, una terza. Si torni con la memoria là dove il Minturno si attardava sul paragone tra sole-astro e sole-donna, scrivendo tra l’altro: «Quello, come, allontanandosi dal nostro emisperio, ne lascia il verno, così, appressandocisi, primavera ne rimena. Questo, di qua dilungandosi, ci lasciò quella fiera stagione che l’aere e l’acqua e la terra contrista, e colà ove giunse, col suo splendore, il dolce tempo e l’aure soavi rinovella, e di fioretti e d’erba i colli e i prati adorna» (Lettere..., c. 140r). Il tema, certo non originale, è quello su cui s’incentra la sestina di cui basterà qui citare la prima stanza: «I chiari giorni e le tranquille notti, / l’alto splendor di duo celesti lumi, / de le sirene l’amoroso canto, / l’aure soavi e l’umil suon de l’onde, / e ’l dolce tempo de’ leggiadri fiori / mi tolse un aspro e tenebroso verno». Essa s’incontra, nelle Rime, dopo i cinque sonetti (tra i quali è pure Quel pianeta che gli anni mena intorno, inviato alla Cardona, lo si è visto, con la lettera del 10 gennaio 1532) che inaugurano il secondo libro, aperto per l’esattezza da U’ va ‘l Sol, che l’altro sole oscura?, anch’esso espressione del dolore per la partenza della donna da Palermo (cfr. al v. 9 «Già felice Palermo, or infelice»). Non è detto però che tutti questi componimenti risalgano precisamente al medesimo periodo, giacché il Minturno dovette continuare a far riferimento

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resto contengono riferimenti a rime ben individuabili e, di conseguenza, databili; si veda, ad esempio, il seguente brano: Ma poi che ella disiosamente aspetta alcuna delle mie compositioni, non avendo altro di nuovo, le mando un sonetto il quale, benché io gliel’abbia un’altra volta mandato, nondimeno, perché ella non m’ha infin a qui significato che l’abbia letto, credo che non le sia venuto in potere. Ragiona egli di quel tempo che in questa città suole essere a donne e cavalieri sì caro e si festevole, ma quanto l’anno adietro, per l’onorata sua presenza, mi parve lieto e glorioso, tanto questo anno per la sua lontananza m’è stato doglioso e pieno di noia11.

Il testo cui queste righe appartengono non reca altra indicazione che «Di Palermo», ma risale con ogni verosimiglianza a poco dopo il maggio del 1532, perché vi si legge che l’anno prima la Cardona si trovava in quella città. Il sonetto cui si allude è poi facilmente identificabile in Come va ‘l mondo, il mondo cieco e ‘nfermo scritto a Palermo (cfr. al v. 5 «Non è questo il felice, almo Palermo?»), la cui sirma dà voce con concordanze anche di ordine lessicale alla tematica accennata nella lettera: «Vago, ombroso, fiorito e ricco maggio, / a donne, a cavalier’ bel paradiso, / ma per me, lasso, dispietato inferno: / quanto era in te de l’amoroso raggio / d’un Sol nasceva, or senza il suo bel viso, / che altro sei ch’un tenebroso verno?». E, per contrasto, l’esaltazione del sonetto Almo, ricco, felice e novo maggio risalirà quindi al maggio 1531, tanto più che il Minturno vi aveva scritto analogamente: «d’alta virtute ogni divino raggio / in te risplende, sì che vento indegno / nol turba» (vv. 5-7). Se anche questi sonetti rimontano dunque al biennio 1531-32, è da rilevare che l’astro della Cardona non pare essersi eclissato nei due anni successivi. In data 2 agosto 1536 il Minturno, da Napoli, le scriveva: «Mandole tre anche in seguito allo strazio procuratogli da quel distacco, come suggerisce il brano di un’altra lettera, purtroppo non datata, spedita alla Cardona sempre da Palermo: «Mandole con questa una sestina nella quale, alludendo al divino suo nome, ragiono di quella sua dipartita a me sempre acerba, sì come ho già in costume le più ch’io scrivo in rima, da poi che a lei piacque di lasciarci fra questi scogli senza il suo lume, in tenebre et in dolore» (Lettere... , c. 172v). L’accenno ad una nuova sestina consente inoltre di accertare che almeno tre delle quattro rime minturniane scritte su tale metro (ma una quinta è inserita nella terza egloga) furono ispirate da quell’evento, perché l’autore alludeva qui manifestamente a quella che inizia, con mossa squisitamente petrarchesca, A la dolce ombra de la nobil pianta, tutta intessuta di richiami al cardo quale emblema di Maria così come il lauro lo era stato della donna di Petrarca. 11 Lettere..., cc. l48v-149r.

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sonetti i quali io feci, quando ella era qui, ad Apollo: de’ quali, duo il pregano de la salute che in lei parea che allora fosse alquanto smarita, il terzo lo ringrazia de la riavuta sanità»12. I tre componimenti cui egli accennava sono senz’altro da riconoscere, nell’ordine, in: Apollo, se l’amate chiome bionde; Re delle stelle e di quel nobil coro; e Se quanto pasce ne l’erbose sponde. La terna, collocata poco prima della fine del secondo libro, è ascrivibile alla primavera inoltrata del 1533, visto che il poeta, nella lettera scritta alla Cardona da Messina il 4 maggio di quell’anno, si rammaricava della «mala dispositione» cui la salute dell’interlocutrice era allora soggetta13. Così, con la lettera datata, sempre da Messina, 26 marzo 1534, questi le inviava un suo sonetto in lode della «sepoltura del Re Francesco di Francia fatta a M. Laura, la quale infin a qui vilmente sepolta e trovata, poi, da quel Re, ora per cortesia di lui giace altamente in un sepolcro di nobil marmo»14. L’omaggio reso a Francesco I col sonetto Quella sì pura e candida colomba, per il gesto di pietà verso le presunte spoglie della donna amata da Petrarca, è dunque non di molto anteriore a tale data. Basterà, a riprova dell’individuazione, la sirma: «O fortunata!, cui duo tai Franceschi, / duo rari fior’, l’un di virtuti e d’armi, / l’altro d’ogni eloquentia e di dottrina, / quel con lo stil, questi coi ricchi marmi, / han fatto onore, onde la tua divina / beltà convien ch’ognor più si rinfreschi». Un altro testo si data sul fondamento della lettera indirizzata alla stessa Maria, da Palermo, il 26 dicembre 1534, assieme alla quale il Minturno le inviava, con altri, un «sonetto di Monreale», facendone risalire la composizione all’«Agosto passato», e dicendole inoltre: «Legga V. S. il sonetto ch’io feci a Monreale e vedrà se quel luogo, senza la sua disiata presenza, mi dilettava»15; ciò che rende indubitabile l’identificazione col sonetto Real, sacro, felice e ricco Monte, in cui aveva lamentato appunto che la pace del luogo e della sua cattedrale, l’amenità dei colli d’intorno e della sottostante Conca d’Oro non gli alleviavano la pena per la lontananza della bella marchesa. A conclusione di questa breve rassegna di testi dedicati alla Cardona, aggiungo che nella lettera a Francesco d’Este, scritta da Monteleone il 22 agosto 1538, è fatto esplicito riferimento ad «un sonetto», ad essa allegato, col quale il Minturno intendeva celebrare le nuove nozze della dama con lo 12

Ivi, c. 178r. Ivi, cc. l59v-160r. 14 Ivi, cc. 170v-r. Sull’episodio cfr. V. L. Saulnier, Maurice Scève, Paris, Klincksieck, 1948-49 [rist. anast. Genève, Slatkine, 1981], I, pp. 38-45, e Il, pp. 28-29. 15 Lettere..., cc. l74v-175v. 13

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stesso Francesco. Il componimento è facilmente rintracciabile nel secondo libro delle Rime, iniziando proprio col distico «Coppia gentil de’ più diletti e fidi / sposi che Vener bella arda et annodi», che trova peraltro riscontro in un passo della medesima lettera, ove si legge: «Là onde per fermo creder mi si lascia che per divino provvedimento sì rara cop

ia di sposi infin a qui libera dal nodo maritale si riservasse, acciò che, congiunta insieme, l’uno e l’altro accrescesse onore, et il secol nostro più onorato ne devenisse»16. Già da qualche tempo del resto la marchesa aveva mostrato di non gradire più come una volta gli omaggi, pur rigorosamente platonici, del poeta di Traetto; la nuova circostanza dovette, se non mettere fine alla produzione di rime ad essa ispirate, raffreddare alquanto gli ardori del Minturno. Quel medesimo giorno, 22 agosto 1538, in cui scriveva al futuro sposo, spediva infatti una lettera anche alla dama, soffermandosi sul loro poetico idillio in tono ormai decisamente rievocativo: Perciò che ella, come vera mia musa e mio vero Apollo, non che da presso, ma di lontano spirava in me una gratia divina che nell’intelletto mi creava dolci et alti pensieri e leggiadre parole mi dittava. E quella che ’1 Cielo data m’avea per eterno e singolare oggetto da lei stessa mi si dava talmente per unico soggetto che, pregato più volte ch’io d’alcun’altra scrivessi, non possendo col dire il vero fare iscusa che mi valesse, provai chiaramente ch’i’ né so né posso lodare altra che lei. E se pur, da preghi altrui costretto, a nome d’altra presi talvolta la penna, a lei come ad idea d’ogni leggiadria la mente e lo stile indirizzava, parendomi non poter altramente né pensare né dire cosa la quale avesse a piacere. Privato adunque de l’usato suo favore, quante volte mi sono ingegnato di scriver com’io sogli di lei (il che ho fatto più volte), ogni mia fatiga ho riconosciuto esser vana. Di che faran fede alquanti sonetti li quali con questa le mando, così d’ogni ornamento ignudi come non eran da lei spirati17.

2. Alla figura della marchesa sembra legarsi la stessa preistoria della non più stampata raccolta del ’59. Con la citata lettera da Palermo del 26 dicembre 1534 il Minturno le inviava infatti un codicetto contenente la propria messe di rime, dicendole: «Or pur alfine, scritto il libro, il mando a Vostra S., nel quale sono tutti i sonetti che dati e che mandati averle mi rimembri: così ragunati fanno quasi un giusto libretto». E nel giugno successivo rammaricandosi di non aver ricevuto neanche una riga di risposta a quel dono, avreb-

16

Ivi, cc. 75r-v. Ivi, cc. 181r-v. Per qualche altro cenno sulla datazione di componimenti latini e volgari cfr. S. Carrai, Minturno traduttore di Plutarco in un manoscritto della Nazionale di Madrid, «Italia medioevale e umanistica», XXXVII (1994), pp. 233-39. 17

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be ribadito di aver raccolto in tale frangente «quelle rime le quali, avendole ella più anni possedute, erano ite in poter d’altrui», e avergliele «fatte scrivere tutte in un libbretto e di Sicilia mandatogliele»18. Un florilegio di questo ingente materiale rifluì in seguito nell’antologia giolitina di Rime di diversi illustrissimi signori napoletani, compilata da Lodovico Dolce nel 1552. La raccoltina minturniana ivi compresa – dodici sonetti più una canzone – ha tutta l’aria di una silloge d’autore. Che si tratti di una scelta organica lascia pensare, pur con la dovuta cautela, l’argomento amoroso comune alle tredici liriche. Si aggiunga che i primi due sonetti sembrano costituire un doppio esordio, volto a ricordare alla sdegnosa donna la fugacità della sua bellezza. Il primo, Quanti dal Tago ispano a l’indo Idaspe, si conclude infatti con la terzina: «In quella età ch’ogni bellezza annulla / vedrai chiaro l’error che ’l cor ti smalta / e pentirti vorrai, ma che val?: nulla»; cui fa eco quella finale del secondo, Anima bella, che ’l bel petto reggi: «Ma quando i capei d’or saran d’argento, / vedrai che giova gli occhi aprir per tempo / e qual tormento è del pentirsi tardo». Intonato l’accordo iniziale, la suite procede con il sonetto Quel che l’eterno et infinito Bene, cui il Minturno mantenne la terza posizione pure nel volume del ’59, forse per l’efficace impostazione in chiave spirituale del rapporto amoroso ad esso affidata19. Ivi, in effetti, il poeta presenta al lettore la propria donna, connotandola nella sirma – per la sua somiglianza con la bellezza celeste – come guida all’eterna beatitudine: «Queste son quelle sante e vive luci / che ne mostran la via d’andare al fine / ov’è chi sol può fare altrui beato. / Alte bellezze angeliche, divine, / voi siete le mie fide e care duci /

18 Cfr. ivi, cc. 175v e 176r. Con quest’ultima missiva il Minturno inviava pure «una delle tre Ecloghe le quali per commandamento de lo lllustrissimo Signor Viceré dì Sicilia, che sia in gloria, cominciate avea, e dopo la morte di lui ho fornite, benché non bene ancora amendate» (c. 176v). Il che c’informa sull’allora recente compimento della stesura, appunto, delle tre egloghe che chiudono le Rime, delle quali alla Cardona spediva evidentemente la terza (intitolata Proteo II), che a differenza delle altre due, tutte in endecasillabi sciolti, comprendeva una sestina intonata dal pastore Menalca. Lo si deduce da quanto aggiungeva subito dopo, nella stessa lettera: «Piacquemi qui di servare quello che veggio ragionevolmente piacere a molti, cioè che le rime non abbiano consonanza se non là dove si canta, perciò ch’el consonare, sì come sta bene al canto, così per quel ch’i’ ne sento si disdice al parlare» (ibidem). 19 È probabile inoltre che a questo sonetto si legasse per il Minturno il senso dell’inizio di una storia, se nell’Arte poetica dichiarava che, entro il volume delle Rime, esso dà inizio alla «Narrazione»: ma per tale aspetto e per il valore che il Minturno dava al termine rimando il lettore alla sezione finale di questo capitolo.

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che mi scorgete al più felice stato». Il sonetto successivo, quarto dell’intera serie, si lega a questo già per l’affinità dell’incipit (Quel Sol che dal più chiaro e lieto seno) e si chiude riprendendo il tema petrarchesco dell’ascesa al cielo: «Questo è quel Sol che dritto al ciel m’invia / e, pien d’una leggiadra, alta vaghezza, / mi scorge al somm’onor per destra via» (cfr. RVF XIII 13). E il quinto, L’almo splendor che non deriva altronde, non solo esordisce con la stessa immagine iniziale del quarto, ma ribadisce nell’explicit, con una nuova eco petrarchesca, il ruolo di scorta accordato all’amata: «la via mi mostra di salire al cielo» (cfr. RVF LXVIII 4). Il sesto è poi una concettosa giustificazione del nome che adombra, in parecchie di queste liriche, l’identità della donna: Non son del sol, perché dal sol si nome questa sola fra noi luce del Sole, i begli occhi, il bel volto e l’auree chiome che son proprie bellezze al mondo sole, ma, perché avanza co’ suoi raggi il sole, la vincitrice tien del vinto il nome; né, perché sia tra noi mortali or, come vedi, non è de la celeste prole. Ella venne qua giù per farne fede del Sommo Ben, de la Beltade eterna e del vero valor ch’altri non crede. Sì la vedrem salita al bel soggiorno nel carro, ch’or sua vece il sol governa, far de’ be’ lumi suoi più lieto il giorno20.

Si noterà che il v. 10, menzionando il Sommo Bene, si riallaccia all’incipit del terzo sonetto, Quel che l’eterno et infinito Bene, e dimostra così l’estrema compattezza di questo gruppo di testi. Quel che più importa, comunque, è la particolare attenzione richiamata dal componimento – anche mediante la testura artificiosa, tra rime equivoche, paronomasie e ripetizioni – sulla tradizionale metafora del sole. Torna in mente, in proposito, un altro brano della lettera a Maria di Cardona del 10 gennaio 1532, già ampiamente messa a frutto, ove il Minturno scriveva:

20

Seguo, come per le altre rime di questa breve serie, il testo della giolitina. Secondo la redazione del ’59 (unica variante, al v. 13, «ch’ora il sol per lei governa») il sonetto è stato ripubblicato in Ferroni-Quondam, La locuzione..., p. 305.

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Più volte ho nelle mie rime e nelle prose il vostro leggiadro viso col nome del Sole significato, non perché già gran tempo abbiano i dicitori amorosi in costume di chiamare sole quel volto il quale essi adorano, ma perch’io vedea chiaramente in voi i celesti sembianti di lui; et ora conosco apertamente ch’el divino lume della vostra beltà non pur l’agguaglia, ma di gran lunga l’avanza21.

Non che egli, in verità, non avesse impiegato l’immagine pure nei sonetti per Isabella Colonna: ma in maniera sporadica e occasionale. Il componimento in versi ed il brano prosastico or ora citati, se letti l’uno a fronte dell’altro, lasciano intendere che in questo caso si trattava invece di più che una semplice metafora, rendendo altresì legittimo, fino a contraria prova, il sospetto che dietro l’immagine del sole, nella mitologia erotica del poeta, si celasse proprio il volto di Maria di Cardona. Se ciò è vero, l’intera silloge inclusa nell’antologia giolitina dovrebbe allora ispirarsi all’ammirazione per la marchesa della Padula. Dopo il tema sannazariano della gelosia (cui dà voce il son. O Gelosia, d’ogni mio mal presaga)22 s’incontrano altri motivi topici della lirica amorosa: quello dell’amante che, affievoliti gli spiriti vitali, muore languendo (son. Lasso, ch’i’ moro, e languendo spesso); poi il contrasto di Amore e Onestà (son. Duo possenti nemici, o crudel guerra) e la metafora dell’amata come astro che guida la navicella dell’innamorato (son. Stella del mar, lucente, unica stella), strettamente legata alla successiva allocuzione al mare, il Tirreno, su cui splende la luce dell’adorato sole (son. Almo mio mar, dal cui beato seno). La sequenza sonettistica si chiude con l’allusione all’emblema araldico di Maria, il cardo, da cui muove Felice pianta in cui s’annida Amore. In coda – per il rispetto della distinzione fra i metri – viene la canzone Alma real, ne’ più bei nodi avolta, un lungo lamento per la «inesorabil dipartita» della marchesa da Palermo, dopo la quale «Sicilia tutta un lagrimoso nembo / tosto coverse e covrirà mai sempre, / finché lo sgombri il Sol ch’or le s’asconde» (vv. 55-57). E ai fini, non solo di una con-

21

Lettere..., c. 140r. Il rapporto che lega questo sonetto con quello dì Sannazaro O Gelosia, d’amanti orribil freno è stato segnalato da E. Raimondi, Il petrarchismo nell’Italia meridionale (1973), in Id., Rinascimento inquieto, Torino, Einaudi, 1994, pp. 267-306, e anche in Id., I sentieri del lettore, a c. di A. Battistini, Bologna, Il Mulino, 1994, I, pp. 315-53; ove si rileva che «il sonetto del Minturno ripresenta addirittura il ductus di quello sannazariano, col suo “tornati giò” del secondo terzetto, e d’altra parte ricalca, sembra, certe cadenze di un sonetto non meno significativo del Tansillo» (vale a dire O d’Invidia e d’Amor figlia sì ria). Si aggiunga inoltre che l’eco dell’incipit sannazariano risuona evidente in quello del sonetto minturniano O Sonno, de’ mortai mirabil freno. 22

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ferma dell’identificazione della donna23, ma anche di una collocazione cronologica del testo, giova rilevare che in calce alla prima stanza il poeta si dice rimasto «in solitario orrore» (vv. 15-18), analogamente a quanto è riscontrabile, come si è visto, sia nella lettera alla Cardona del 10 giugno 1532 sia nell’explicit del sonetto Quel pianeta che gli anni mena intorno. La coesione interna della serie è comprovata quindi dalle connessioni tematiche e lessicali che si stabiliscono tra le singole liriche; e che, nella circostanza, il loro ordinamento risalisse direttamente all’autore è reso più che probabile dal constatare come l’edizione del ’59 conservi alcuni componimenti in seriazioni identiche o variate di poco. Il terzo, quarto e quinto sonetto vi mantengono difatti le stesse sedi. In sesta posizione ne viene aggiunto uno su tema affine: Vinto da quel pensier che sì sovente. In settima e ottava retrocedono, per l’ingresso di una nuova coppia proemiale, il primo e il secondo, ma con successione invertita (cioè il primo diviene ottavo e il secondo diviene settimo). Al nono posto subentra Mirando il ciel con le sue luci intorno, incentrato sul diritto della donna a fregiarsi del nome del Sole; e per l’ulteriore inserzione al decimo posto del sonetto Qual’è colei che in qualche cieco nido (rivolto, s’è detto, ad Isabella Colonna), all’undicesimo passa il sesto sonetto della serie giolitina, sull’interpretatio nominis. Dislocati verso la fine del primo libro e distanziati tra di loro sono invece, nell’ordine, i sonetti Duo possenti nemici, O Gelosia (riunito con l’altro che ha incipit simile: O Gelosia, che i miei diletti hai spenti)24 e Lasso, ch ‘io muoio. Ma intorno alla metà del secondo libro si ritrova, in ugual successione, la terna Stella del mar, Almo mio mar, Felice pianta, sia pur con la novità dell’inclusione tra i due sonetti, per dir così, marini di un altro d’argomento contiguo, dedicato alle Nereidi (Vaghe ninfe e leggiadre, alme sorelle). L’insondabile destino della canzone Alma real la porta, infine, a disperdersi nel terzo libro. Tutto ciò consente di affermare che, accingendosi a partecipare all’imponente impresa giolitina, il Minturno attinse alla produzione ispiratagli una

23

Che in questa canzone «si piange la lontananza della S. Marchesa della Padula» è asserito dall’autore in prima persona: cfr. L’Arte poetica del Sig. Antonio Minturno, [in Venetia] per Gio[vanni] Andrea Valvassori, MDLXIIII (ma nel colophon MDLXIII), p. 205 (rist. anast. München, Fink, 1971). Da notare che soltanto i due ultimi componimenti di questa serie (Felice pianta e Alma real) furono scelti dallo stesso Dolce per passare nelle Rime di diversi eccellenti autori raccolte dai libri da noi altre volte impressi, In Vinegia, appresso Gabriel Giolito de Ferrari et Fratelli, MDLIII, pp. 539-44. 24 Per il ricongiungimento dei sonetti sulla Gelosia, cui si affianca Poi che la vostra angelica beltade, cfr. Arte poetica..., p. 56.

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ventina d’anni prima dall’incontro con la Cardona, selezionando pochi componimenti e operando opportuni accostamenti, alcuni dei quali finirono per mantenersi all’atto di riversare poi la breve serie, non senza introdurre qualche variante di lezione, nella mista caterva delle Rime. Il manipolo di componimenti minturniani, s’intende, non è in alcun modo equiparabile al vero e proprio «progetto di canzoniere» dato alle stampe dal Casa entro l’antologia bolognese del 1551 curata da Ercole Bottrigaro; né è da scorgervi una «struttura-ponte» mediante la quale «si ha adito alla struttura definitiva»25. Si tratterà piuttosto di due organismi – scelta del ’52 e raccolta del ’59 – paralleli e reciprocamente indipendenti: anche se l’intento dell’autore di presentare le proprie rime in base a un ordinamento congruente fece sì che il fascicolo destinato a confluire nella giolitina costituisse una sorta di banco di prova per certe parentele fra sonetti. 3. Vale la pena, a questo punto, di affrontare brevemente il discorso sul petrarchismo minturniano. Se scontato era il ricorso a Petrarca nel caso delle sestine, la misura della sua adesione, ma anche dello scarto, rispetto al canone è data dagli schemi metrici delle canzoni. A conti fatti, il Minturno si dissocia dal «rigoroso petrarchismo metrico» di un maestro come Sannazaro26, prendendosi la libertà di impiegare schemi non petrarcheschi per ben dieci delle tredici canzoni incluse nelle Rime. Al tempo stesso però egli non rinuncia a poche, perfette imitazioni. Le altre tre canzoni difatti rinviano tutte, e non solo dal punto di vista metrico, ai corrispettivi petrarcheschi. Di RVF CXXVI il Minturno riecheggia 1’incipit in quello del sonetto Chiare, fresche, soavi e placid’onde, e lo inscrive addirittura alla lettera nel v. 10 del sonetto Vago fiume, che bagni larghi e fidi («Chiare, fresche e dolci acque, aer sereno...»). Non meraviglia dunque che la canzone Liete, fresche e dolci ombre, non soltanto ne ripeta lo schema delle cinque stanze (abCabCcdeeDfF) e del congedo (XyY) nonché alcune parole-rima, ma ne

25 Cfr. D. De Robertis, Problemi di filologia delle strutture, in AA.VV., La critica del testo. Problemi di metodo ed esperienze di lavoro, Roma, Salerno Ed., 1985, pp. 394-98. Che le dieci liriche raccolte nel volume curato da Bottrigaro, le quali fanno corpo anche in alcuni testimoni manoscritti, costituiscano un antecedente organico delle Rime casiane a stampa nel ‘58 ha dimostrato G. Tanturli, Una raccolta di rime di Giovanni Della Casa, «Studi di filologia italiana», XXXIX (1981), pp. 159-83. 26 Sulla «programmatica ambizione» da parte di Sannazaro «di realizzare, nelle sue rime, un rigoroso petrarchismo metrico», valgano i rilievi di G. Gorni, Ragioni metriche della canzone tra filologia e storia (1973), in Id., Metrica e analisi letteraria, Bologna, Il Mulino, 1993, pp. 207-17; e Id., Le forme primarie del testo poetico, ivi, p. 51.

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costituisca una sorta di riscrittura che, presa analoga mossa («Liete, fresche e dolci ombre / ov’io pensoso giaccio»), traccia anch’essa un itinerario di feticistica memoria dell’amata, desumendo infine dal congedo di Petrarca («Se tu avessi ornamenti quant’ài voglia, / potresti arditamente / uscir del bosco e gir infra la gente») sia l’esortazione alla lirica stessa sia l’ambientazione boschereccia («Canzon, lunge dal Sol mio nata in selva, / se non m’acqueti dramma, / non m’infiammar, ch’io son pur foco e fiamma»). Così, in Mirando un giorno dal balcon soprano, il Minturno compone una sua canzone delle visioni che, pur adattando la situazione petrarchesca entro la cornice dell’amore per la Cardona, segue fedelmente la falsariga di Standomi un giorno solo alla fenestra (RVF CCCXXIII), compreso ovviamente lo schema delle sei strofe (ABCABCcDEeDD) e del congedo (xYY). Più complessa è l’operazione effettuata in Rapido fiume, che d’eterna fonte, canzone scritta per invocare la discesa di Carlo V in Italia e dunque anteriore al 1530, quando il Minturno già aveva iniziato a comporre i tre libri in esametri del De adventu Caroli in Italiam27. Come l’autore della canzone Rapido Po, che con le torbid’onde, probabilmente da attribuire a Bandello28, egli traeva qui ispirazione dal sonetto petrarchesco al Rodano (RVF CCVIII, Rapido fiume, che d’alpestra vena) ed inscenava un dialogo col Tevere per rivolgere all’imperatore, da parte di Roma, la triplice invocazione dell’explicit «aita, aita, aita», ricalcata su quella di Italia mia (RVF CXXVIII 122 «pace, pace, pace»). Con Rapido Po, inoltre, il testo minturniano rivela diversi punti di contatto (ad es. il v. 3 del Minturno «e mormorando con le torbid’onde» ricorda, di quella canzone, l’incipit e insieme il v. 8 «e mormorando tra i lombardi campi»), ma non lo schema metrico, che il Minturno mutuava, dato l’argomento, da Spirto gentil (RVF LIII), dal cui congedo anche dipende la struttura allocutoria di quello minturniano: Canzon, vedrai quel ch’or l’Italia afflitta, perch’ei de’ nostri fia regnando, aspetta. Qual maggior laude che scampar da morte quella ch’altrui fe’ glorïoso e forte, ch’aitar soleva ogni compagna eletta? Digli: – la tua diletta

27 Tra gli altri brani rintracciabili nell’epistolario, si veda quello della lettera a Narciso Napoletano protonotario imperiale, da Messina, del primo aprile 1530: «ho preso a scrivere del suo [scil. di Carlo V] venire in Italia e della sua coronatione. Mandone a V. S. il principio solamente» (Lettere..., c. 106r-v). 28 Cfr. M. Bandello, Rime, a c. di M. Danzi, Modena, Panini, 1989, pp. 330-33.

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Roma, non Roma mentre tal s’addita, ti chier, piangendo, aita, aita, alta –.

Il rapporto che si istituisce tra questi testi ed i loro archetipi petrarcheschi non si esaurisce nella semplice reminiscenza (che potrebbe anche essere involontaria) né in un’imitazione fine a se stessa, ma è piuttosto di carattere emulativo. La citazione d’apertura tende a mettere subito sull’avviso il lettore, orientando la sua attenzione verso i continui rinvii al modello dislocati nel prosieguo della lirica. L’abbinamento di questa costellazione di echi con il preciso calco della struttura metrica stringe poi ulteriormente il reticolo formale adibito a mediare il confronto, giuocato entro uno spazio limitato e selezionato all’interno del codice, e attuato a partire da un’identificazione anche ideologica col modello stesso: come accade pure per il sonetto Benedetto sia ’l luogo e ’l tempo e l’anno, ove il poeta dà quasi una personale esecuzione di RVF LXI. Occorre ripetere tuttavia che si tratta di casi affatto eccezionali, sufficienti ad illustrare il rapporto con il canone petrarchesco ma inadatti a caratterizzare la maniera poetica del Minturno, generalmente aliena da simili punte di aemulatio; tanto è vero che già nel ’31 un uomo come Guidiccioni gli manifestava incondizionato apprezzamento per le sue rime volgari proprio perché non si era fatto «servo d’imitare», aggiungendo parole che non possono non essere riferite in qualche misura allo stesso stile dell’interlocutore: «Voglio dire che, sebbene uno non va dietro alle orme proprie del Petrarca, se egli scrive versi volgari, né di Virgilio, se latini, non è da esser ripreso, sì perché uno spirito elevato desidera la libertà e d’esser detto ritrovator di cose nuove, e sì perché conosce che il più delle volte della tanta imitazione si cade in uno errore, il qual molti lodano, e io lo danno, di furar gli altrui concetti»29. Sembra di cogliere in queste righe quello che doveva essere allora, agli occhi di un lettore accorto, il connotato principale della lirica minturniana, non inetta alla mimesi nei confronti dell’auctoritas, eppur incline ad accordarle non più che una funzione evocativa, secondo un’attitudine divenuta particolarmente evidente dopo l’abbandono della poesia amorosa e con l’intensificarsi della produzione sacra. Nella corona di ottantuno Sonetti tolti dalla Scrittura e da’ detti de’ Santi Padri, pubblicata a Venezia due anni dopo l’edizione delle Rime, il medesimo incipit di RVF LXI dà luogo alla semplice allusione dell’esordio del sonetto LI («O sopra ogni altro benedetto giorno /

29 Cfr. G. Guidiccioni, Le lettere, edizione critica con introduzione e commento di M. T. Graziosi, Roma, Bonacci, I, p. 167.

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che ’l Re celeste nuovamente nacque», al pari del non meno celebre RVF CLXXVII che fornisce l’avvio al sonetto LIII (Almo sol, che l’umana vita allume) e, fatto più notevole, della menzionata sestina sannazariana Come notturno uccel nemico al sole, la cui immagine iniziale passa nell’attacco del sonetto X: Notturno augel nimico al sommo sole. 4. Tornando alla questione della presunta omogeneità delle Rime, il fatto che più ispiratrici siano riconoscibili nella raccolta del 1559 non significherebbe, di per sé, che il Minturno non avesse inteso inserire i suoi componimenti entro una cornice narrativa, sul modello petrarchesco. Un canzoniere si costituisce, di solito, mediante l’assemblaggio di materiali almeno in parte preesistenti, e anche rivolti, in origine, ad altra destinataria. Già Dante, com’è noto, alla fine del quinto capitolo della Vita nova aveva esplicitamente dichiarato di aver trascritto nel proprio libello alcune rime composte originariamente per la prima donna-schermo, che ben si adattavano ad essere trasferite sotto il segno di Beatrice. A rigore, dunque, il poeta poteva benissimo limare i suoi testi occultando ogni eventuale riferimento ad altre, sì da piegarli, in vista della raccolta, a celebrare una sola delle sue fiamme: magari quella Maria di Cardona che considerava come la principale. Il sonetto che inaugura il libro (I sacri fiumi, i lieti piani e i monti) farebbe sospettare, in effetti, l’esistenza di un oggetto privilegiato della ‘loda’ minturniana. Enunciando il programma della raccolta, il Minturno anche teneva a giustificare in limine la scelta del genere lirico con la missione, imposta all’innamorato, di celebrare la divina Bellezza incarnatasi nell’amata, secondo il tópos su cui insiste, ai fini di una captatio benevolentiae, il sonetto successivo: Piacque a l’eterno e glorïoso Padre. Ciononostante, si può affermare con relativa tranquillità che il Minturno non concepì il progetto di fare delle sue Rime un canzoniere organico dedicato ad una sola donna, dal momento che non si preoccupò affatto di cancellare i connotati di Beatrice d’Appiano e di Isabella Colonna dal testo dei componimenti di cui si è discorso sopra. La raccolta si presenta piuttosto come la summa della sua attività di rimatore in volgare, ad esclusione delle rime inserite nel prosimetro intitolato ad Amore innamorato30. I tre libri nei quali i componimenti si ripartiscono non mostrano di avere alcuna

30 Il Minturno ne parlava come di opera compiuta già in una lettera del 20 aprile 1534, da Messina, a Camillo Scorziati (cfr. Lettere..., c. 172v). Lo definisce «obra evidentemente de juventud» F. Lopez Estrada, L’Amore innamorato de Minturno (1559) y su repercusiòn en la literatura pastoril española, in AA.VV., Homenaye a Casalduero. Crítica y poesía, Madrid, Editorial Fredos,1972, p. 324

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funzione specifica, salvo che il terzo, fra le altre rime, riunisce in gruppi a parte le due canzoni pindariche per la vittoria di Carlo V in Africa, tutte le ballate e le tre egloghe. Il secondo sembra accogliere la maggioranza delle liriche composte per la lontananza della Cardona, talché nell’Arte poetica il Minturno avvertiva: «E nel secondo libro delle mie rime trovarete chiarissimamente descritto quel che operi la lontananza e quel che la presenza nell’Amante»31. Per il resto, il volumetto assomma alla rinfusa, senza alcuna pretesa di ordinamento cronologico o d’altro tipo, rime di vario metro e di vario argomento: amoroso, religioso, politico. Si succedono perciò in ordine sparso sonetti in lode di San Francesco (Odi rara virtù nova chiarezza), di Cristo (Lucido specchio de l’eterno Padre), della Vergine (Pregio d’ogni virtù, di grazia fonte); sonetti e canzoni in morte di personaggi dell’epoca come Luigi Gonzaga (son. Piagnete Muse e con voi pianga Amore), Ferrante d’Avalos (canz. Quella già per adietro altera donna) e altri; rime, indirizzate a Leone X, a Francesco I, a Carlo V e a Filippo II, che attestano l’adesione dell’autore alla politica dei propri mecenati Pignatelli. Le stesse numerose rime dedicate a Maria di Cardona risultano disseminate lungo i tre libri senza lasciare intravedere alcun disegno preciso, eccezion fatta per l’affiorare qua e là di piccoli blocchi tematici. Si ha l’impressione, in altre parole, che il Minturno, nel radunare la compagine dei suoi componimenti in volgare, non abbia voluto introdurvi un criterio sistematico, serbando anzi alla struttura del libro quel carattere occasionale che la produzione lirica aveva rivestito ai suoi stessi occhi. In proposito, fa testo un brano della prefazione di Ruscelli, che così raccontava a Girolamo Pignatelli come era venuto in possesso delle opere volgari del maestro di Traetto: E sì come egli è gentil uomo, tutto sincero e pieno di lodevolissima ingenuità, senz’alcuna ipocrisia o affettazione, non solo me le mandò a vedere, com’io gli avea dimandato, ma me ne fece di tutte liberissimo dono, affermandomi che le latine egli avea scritte già a quasi sola contemplazione dell’Illustrissimo Signor Duca di Montelione, e le volgari, che fin dalla prima sua fanciullezza era venuto, secondo l’occasioni, scrivendo di tempo in tempo, avea poi da un suo giovane fatte raccorre insieme per donarle così, a penna, a V. S. Illustrissima, se però (tanta è la modestia in quel nobil animo) da me gli fosse scritto che elle qui fossero state riputate non indegne d’un signor tale32.

Poiché non è pensabile che il giovane copista di cui Ruscelli parlava fosse responsabile, da solo, dell’ordinamento delle rime, il fatto che canzoni 31 32

Cfr. L’Arte poetica..., p. 52, e vedi qui n. 10. Rime et prose... , c.* 4r.

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pindariche ed egloghe compaiano esclusivamente nel terzo libro parrebbe indicare che il Minturno tenne da ultimo i metri di esorbitante lunghezza. Il computo relativo ai singoli versi dimostra infatti che lo squilibrio fra i primi due libri (rispettivamente di 113 e di 115 componimenti) e il terzo (di soli 38) è del tutto apparente, e che quest’ultimo è anzi poco più esteso degli altri due. A parte questo, anche supponendo che all’inizio il piano dell’opera non fosse ben chiaro e prestando fede alla ritrosia (peraltro convenzionale) da parte dell’umanista a divulgare le proprie nugae volgari, resta arduo spiegarsi l’assenza di una più coerente organizzazione interna; né è lecito, trattandosi del Minturno e per di più all’indomani della pubblicazione del De poeta, giustificarla con una carenza di coscienza teorica. Occorrerà semmai far leva proprio su questo aspetto per recuperare la particolare concezione ch’egli ebbe del libro di rime. Per farsene un’idea sufficientemente chiara si dovrà ricorrere, in altre parole, ad un brano del quinto libro del De poeta, laddove si discuteva della «partitio lyrici poematis»33. Per il Minturno, modello esemplare in questo campo erano i Carmina oraziani nella originaria redazione in tre libri, aperti da un esordio («Scripturus enim carminum libros, sic exorditur Horatius: ‘Mecenas atavis edite regibus / O et presidium et dulce decus meum’»), cui fa seguito, stando alla terminologia minturniana, una parte narrativa («Exordium statim subsequitur narratio») chiusa da uno specifico congedo («Verum Horatius, praeter illud totius operis exordium, praeterque ea quae deinceps canens exponit, poema clausurus in fine quasi exodum facit, ut illud est quod in hunc incipit modum: ‘Exegi monimentum aere perennius’»)34. Sull’esempio dei commentatori antichi Acrone e Porfirione – rinnovato verso la fine del Quattrocento da Landino e da Mancinelli35 egli spiegava infatti correttamente l’esistenza 33

Cfr. Antonii Sebastiani Minturni De poeta, ad Hectorem Pignatellum, Vibonensium Ducem, libri sex, cum privilegijs, Venetiis [apud Franciscum Rampazetum], MDLIX, pp. 391-92 (rist. anast. München, Fink, 1970). La gestazione del testo doveva esser stata, comunque, abbastanza lunga, se nella prefazione rivolta al Ruscelli e datata primo settembre 1558 scriveva: «in hoc opere elaborando non decem aut novem, sed multo plures ad hanc diem me annos consumpsisse»; e nella dedicatoria dell’Arte poetica precisava: «ne’ sei libri latini del Poeta ne’ quali consumai presso a XX anni». 34 Pur soffermadosi sulla teoria melica del Minturno, non tratta la nomenclatura relativa alle parti del poema lirico S. Ussia, Note sul lessico critico in Antonio Sebastiano Minturno, «Annali della Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Napoli», n. s., V (1974-75), pp. 157-71 35 Mentre Antonio Mancinelli, nel commento oraziano stampato a Venezia dal Pinci nel 1492, seguiva in modo pedissequo le indicazioni dei predecessori annotando, all’ini-

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del quarto libro come un’aggiunta posteriore («Nam carminum omnium hoc poeta ille ut ultimum cecinit, et si postea, lyricum genus repetens, quartum adiecit volumen»). Non restavano obiezioni, di conseguenza, alla conclusione, interessantissima ai fini della nostra indagine: Itaque tripartita poesis illa horatiana tota erit, cuius quidem partes Prohaemium, Expositio, Exodus dici possunt: earum media longissime provehitur, per brevis prima non secus atque postrema est. Unico enim utraque profecto cantu continetur.

Non è difficile intravedere oltre lo schema così delineato – con un proemio ed una conclusione costituiti da un solo carme ed una lunghissima parte intermedia di mera esposizione – il modulo imitato dal Minturno, in quello stesso momento o poco più tardi, nel mettere insieme le rime volgari. La triplice divisione, per quanto fittizia, assumeva in questa prospettiva un senso preciso: anche Orazio, pur senza distinguerli in base all’argomento o ad altro, aveva suddiviso i propri carmi in tre libri. La tripartizione intendeva, insomma, conferire alla raccolta un aspetto inequivocabilmente classicheggiante, in ossequio proprio al modello oraziano e non – come nel caso di Boiardo o in quello più recente di Bernardo Tasso – all’Ovidio degli Amores, ché scopo del volumetto non era cantare l’amore per una Corinna o una Laura, né di sola materia erotica si trattava, ma anche politica e, con minore incidenza, religiosa. È dato trovare conferma di questo ascendente strutturale in alcune pagine del terzo libro dell’Arte poetica – il trattato in volgare pubblicato, ancora a Venezia, nel 1564 – ove il Minturno, immaginando di dialogare con Berardino Rota circa le parti di cui si compone il «melico poema», applicava al canzoniere petrarchesco ed alla propria raccolta lo stereotipo ricavato dal-

zio del quarto libro dei Carmina, che Orazio era stato costretto ad aggiungerlo in un secondo momento («Proposuerat velle poeta lyricis finem imponere, ut tertii libri finis ostendìt. Sed tamen, quum Venus eum iterum aggrederet, quamquam natus annos quinquaginta, rursus ad lyrica rediit»), Landino aveva anticipato l’avviso in nota alla chiusa del terzo libro, glossando nell’incunabolo impresso a Firenze nel 1482 per i tipi del Miscomini: «Exegi monumentum: Videtur ira huiuscemodi ode hunc tertium librum concludere tanquam lyricis carminibus finem impositurus sit. Quapropter sunt qui velint ipsum deinceps Augusti impulso ut in laudem Drusi Neronis privigni sui quartum quoque librum scripsisse». Su Orazio nel Rinascimento cfr. G. Curcio, Quinto Orazio Flacco studiato in Italia dal secolo XIII al XVIIl, Catania, Battiato, 1913; scarsi invece gli apporti di L. Pietrobono, Orazio nella Letteratura Italiana, in AA. VV., Orazio nella Letteratura mondiale, Roma, Istituto di Studi Romani, 1936, pp. 115-29. 36 Cfr. L’Arte poetica..., pp. 179-80. La dipendenza di questo secondo trattato, per molti aspetti, dal De poeta è stata sottolineata da B. Weinberg, The Poetic Theories of

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l’analisi dei Carmina oraziani36. Senza neppure far cenno della consueta bipartizione in vita e in morte di Laura, egli distingueva nei Rerum vulgarium fragmenta un esordio (Voi ch‘ascoltate) ed una fine (Vergine bella) che incorniciano una estesa porzione narrativa (a cominciare, a seconda dei testimoni, da Per fare una leggiadra oppure da Era ’l giorno). E tornava ad esporre la sua teoria quasi traducendo alla lettera le parole già scritte nel De poeta, solo variando, con la lingua cui si applicava l’esemplificazione, l’opera presa a modello, ovvero sostituendo, per restare pur sempre ai vertici, ad Orazio il Petrarca: E così la costui poesia par che abbia tre parti: il Proemio, la Narrazione e l’Uscita. Tra le quali, come che la Narrazione sia lunga e molte e varie composizioni comprenda, nondimeno il Proemio si contenta d’un sonetto e l’Uscita d’una canzone.

Si noterà che la tripartizione proposta dal Minturno non ha niente a che vedere con quella attuata a suo tempo da Vellutello, il quale aveva ritenuto di poter estrarre dalle prime due sezioni, in vita e in morte di Laura, dei componimenti fuori tema o estravaganti, collocandoli nella terza parte. Decisivo è poi, per la valutazione delle rime minturniane, che egli si producesse in una breve autoesegesi, indicando nei due sonetti iniziali del primo libro il proemio dell’intera sua raccolta e nel terzo sonetto l’avvio della parte narrativa. Non sarà un caso invece che egli sorvolasse per l’appunto sulla chiusa, se è vero che le Rime vedono in posizione finale il gruppetto delle tre egloghe. La mediazione di un Petrarca rivisitato alla luce di Orazio rende ancor più evidente quale fosse per il Minturno l’autentico archetipo della propria raccolta, tanto più che anche il citato sonetto proemiale, lungi dal richiamarsi a Voi ch’ascoltate, desumeva l’esordio dal repertorio delle odi oraziane. La contrapposizione tra gli altri e se stesso segnata dal passaggio tra la fronte e la sirma («I sacri fiumi, i lieti piani e i monti, / le città grandi e l’onorate prove / dican gli altri d’alcun figliuol di Giove, / o pur de’ Paladin’ famosi e conti. [...] Io canto la divina, alma Beltate») nonché l’accenno a Tempe del v. 5 dipendono manifestamente da Carmina I VII 1-l1: «Laudabunt alii claram Rhodon aut Mytilenem / aut Ephesum bimarisve Corinthi / moenia vel Baccho Themas vel Apolline Delphos / insignis aut Thessala Tempe; [...] me nec tam patiens Lacedaemon / nec tam Larisae percussit campus opimae»). Nelle pagine dell’Arte poetica egli conferiva inoltre al libro l’implicito Minturno, in AA. VV., Studies in Honor of Frederick W. Shipley, Saint Louis, 1942, pp. 124-29, e Id., A History of Literary Criticism in the Italian Renaissance, Chicago, The University of Chicago Press, 1961, pp. 755-59.

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appellativo di canzoniere, formulando per due volte l’abbinamento: «Nel Canzoniere del Petrarca [...] e nel mio [...]». Il corpo delle rime che fa seguito al dittico proemiale dimostra però che la parte detta «Narrazione» non implicava, per il Minturno, alcun obbligo di ancorare le singole liriche ad uno sviluppo propriamente narrativo, né di legarle l’una all’altra mediante connessioni di ordine intertestuale, ma che anzi egli considerava un canzoniere quasi come una lunga serie di macrovarianti. L’idea non era certo peregrina. Si ricordi quanto ha osservato Gorni in merito ai commentatori petrarcheschi: e cioè che «la ricezione cinquecentesca, a differenza di quella moderna, mette l’accento molto più sulla qualifica di Fragmenta che su quella di libro organico»37. Il senso di questa presunta libertà strutturale del libro petrarchesco era ben presente a Giovanni Andrea Gesualdo, il quale – ragionando appunto, nel proprio commento, dell’ordine e della divisione dell’opera – sosteneva che Petrarca «non ebbe questa cura, che punge sì forte noi altri, di darnela meglio ordinata». Ed è noto, perché lo dichiarò Gesualdo stesso, che nella formazione di quel commento il Minturno ebbe parte attiva, se l’opera nasceva in pratica dalle lezioni da lui tenute intorno a testi petrarcheschi tra il ’23 e il ’25, confluite nel trattato, andato presto perduto, dal titolo di Accademia. È comprensibile allora che anche sulla questione dell’ordinamento – a parte l’individuazione di un proemio e di un congedo – la sua opinione non si discostasse da quella dell’amico e parente Gesualdo38. Neppure era nuovo nell’ambiente partenopeo, a onor del vero, l’accostamento del genere canzoniere al modello di Orazio lirico. Già Francesco Patrizi, nel commento confezionato oltre mezzo secolo prima per la corte aragonese, aveva paragonato la raccolta petrarchesca alle odi di Pindaro e di Orazio39. Notevole è però che il Minturno cercasse di superare la crisi della forma canzoniere – che tra i rimatori del Regno durava dal 1519, data di pub-

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Gorni, Le forme primarie..., p. 117. Cfr. A. De Santis, Di Antonio Minturno umanista del Cinquecento, «Archivio della Società Romana di Storia Patria», n. s., I (1927), pp. 312-13; e G. Belloni, Commenti petrarcheschi, in AA.VV., Dizionario Critico della Letteratura Italiana, diretto da V. Branca, Torino, UTET, 19862, II, p. 34. Il Minturno stesso dava qualche notizia di tale collaborazione al Guidiccioni nella lettera del 10 maggio 1529 (cfr. Lettere..., c. 16v). 39 Cfr. ancora Belloni, Commenti petrarcheschi..., p. 30. Quanto al commento di Patrizi, che «in una storia del petrarchismo napoletano meriterebbe lungo discorso», si ricordi il fondamentale studio di C. Dionisotti, Fortuna del Petrarca nel Quattrocento, «Italia medioevale e umanistica», XVII (1974), pp. 92-95. 40 Cfr. ancora G. Gorni, Le forme primarie..., pp. 131-32. L’emulazione petrarchesca del Britonio con un canzoniere diviso in due parti e chiuso da una canzone alla 38

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blicazione della Gelosia del Sole di Girolamo Britonio40 – allestendo una sua raccolta in volgare d’impianto oraziano. Diviene allora tanto più evidente quanto a proposito dell’attività lirica del Minturno ha notato Quondam, scrivendo che «della tradizione classicista» egli «riesce a prospettare soltanto utilizzazioni esteriori o puramente strumentali»41. Proprio per la riflessione sul libro di rime che essa sottintende, la raccolta acquista peraltro un valore esemplare delle istanze classicistiche di medio Cinquecento specie in area partenopea, adottando un modello che sarebbe andato soggetto al manieristico raddoppiamento dei Sei libri della Carafé, fondati sulla traduzione e sull’adattamento di odi oraziane con farcitura di testi autonomi. Pur segnata dagli inevitabili calchi petrarcheschi, insomma, la silloge minturniana rappresenta anzitutto un cospicuo episodio della fortuna di Orazio lirico nella poesia volgare del secolo XVI, marcando anche il netto scarto rispetto al paradigma, allora vecchio di quasi un trentennio, fissato dalla contemporanea apparizione a stampa delle rime di Bembo e di Sannazaro. Il tipo classicheggiante era del resto il collettore più adatto a conferire alle rime del Minturno una dignità consona al clima tridentino e al ruolo che l’autore aveva ormai assunto. Non va dimenticata infatti la particolare circostanza in cui egli le riuniva: ossia all’indomani della nomina a vescovo che gli avrebbe valso, con la ripresa dei lavori, l’ingresso nel novero dei partecipanti al Concilio. Non per nulla – secondo che ha rilevato Dionisotti – si era premunito di bilanciarne la pubblicazione con quella della sua poetica latina42. Nei tre lustri circa che ancora gli restavano da vivere43, i suoi titoli di poesia – a parte il recupero di versi latini scritti in passato – sarebbero stati le Canzoni sopra i Salmi e i Sonetti tolti dalla Scrittura e da’ detti de’ Santi Vergine su schema identico a quello di Petrarca tendeva a sua volta a risolvere la situazione di stallo del genere lirico verificatasi tra la fine del Quattrocento e l’inizio del nuovo secolo, illustrata da M. Santagata, La lirica aragonese. Studi suilla poesia napoletana del secondo Quattrocento, Padova, Antenore, 1979, pp. 296-341. 41 Cfr. Ferroni-Quondam, La locuzione..., p. 304. 42 Cfr. C. Dionisotti, La Letteratura Italiana nell’età del Concilio di Trento (1965), in Id., Geografia e storia della Letteratura Italiana, Torino, Einaudi, 1967, p. 247. 43 Contrariamente a quanto generalmente si ritiene, il Minturno non dovette morire nel 1574, bensì prima del giugno dell’anno precedente, dato che il cardinale Paolo Burali, scrivendo al Sirleto in data 8 giugno 1573, parlava appunto della «bona memoria di Monsignor Minturno» (la lettera è conservata nel codice Vat. lat. 6191, c. 524r). Ricavo la notizia da una tesi di laurea sul Minturno discussa da Elena Devizzi presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore dì Milano, relatore Claudio Scarpati, anno acc. 1985-86.

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Padri, dedicati entrambi al cardinal Borromeo nel 1561, ovvero i Poemata Tridentina, offerti al cardinal Morone tre anni più tardi. La stessa serie di cinque sonetti estravaganti serbata dal codice Parmense Palatino 557 ci mostra un Minturno dedito all’encomio di città e di fiumi, e all’elogio più scoperto del «fattor del mondo»44. Nell’ambito di questa strategia si comprende meglio il senso dell’ampio bilancio del ’59, inteso a chiudere ufficialmente i conti con una produzione che egli sentiva superata e non confacente alla sua nuova posizione, secondo quanto è reso esplicito nella dedicatoria dell’Arte poetica, datata «Di Trento a’ XXI di Settembre MDLXIII», ove sottolineava il carattere giovanile delle rime e delle prose amorose («che giovane essendo scrissi in questa commune lingua») anche per far meglio risaltare la svolta segnata dalle raccolte spirituali («come convenia a quella età mia più grave et all’ordine vescovale, al quale oltra i meriti miei stato sono io chiamato»)45. E anche si capisce come, posto a colloquio col suo Girolamo Ruscelli sulla scena del dialogo tassiano Il Minturno overo de la Bellezza, gli toccasse di rinnegare post mortem quella venustà «la qual a guisa di sole ci dimostra una obliqua via di salire al cielo», obiettando all’interlocutore che non esisteva altra bellezza all’infuori di quella di Dio. Il personaggio di queste pagine poco o nulla aveva a che vedere ormai con l’autore delle Rime; riviveva bensì nella memoria di Tasso l’anziano vescovo di Ugento e poi di Crotone, fermo assertore dell’estetica controriformistica, sicché Ruscelli stesso aveva buon giuoco a rinfacciargli in un’ultima battuta: «Ma voi, signor Minturno, sete 44

A Roma, esaltata quale sede pontificia, è dedicato il dittico di c. 231r, Questa città di cui mai non si tacque e Quanto Pavolo adunque e quanto Piero; al Po, Re de’ fiumi, superbo e sommo padre (c. 232r); a Venezia, Alma città, fondata in mezzo l’onde (ivi); a Cristo, infine, Conobbe il sol l’alto fattor del mondo (c. 233r). Sul manoscritto, appartenuto a Lodovico Beccadelli, cfr. P. O. Kristeller, Iter italicum, London-Leiden, The Warburg Institute-Brill, II, 1967, p. 37. Si aggiunga che la probabile autografia dei componimenti in questione rende lecita l’ipotesi che essi fossero stati inviati dall’autore stesso al Beccadelli, il quale peraltro lodò l’abilità poetica del Minturno nel son. Sì come a peregrin cui spina manca, datato 1563 (cfr. il ms. Parmense Palatino 972/2, c. l5r). 45 Ciò non implica, ovviamente, che si verificasse un radicale mutamento di prospettiva nel Minturno come teorico di poesia, giusta la tesi sostenuta dal Toffanin e negata con buoni argomenti da A. Belloni, Il Minturno, il Concilio di Trento e lo Spagnolismo, «Giornale storico della letteratura italiana», LXXXIV (1924), pp. 211-14. 46 Cfr. T. Tasso, Dialoghi, edizione critica a c. di E. Raimondi, Firenze, Sansoni, 1958, II, p. 939, ove però non è riconosciuto il titolo del prosimetro minturniano («de’ vostri amori e del vostro amore innamorato»); come si constata anche in T. Tasso, Prose, a cura di E. Mazzali, Milano-Napoli, Ricciardi, 1959, p. 330. Sullo scarto cronologico fra la stesura del dialogo, probabilmente del novembre-dicembre 1592 (cfr. l’introduzione alla cit. ed. Raimondi, I, pp. 59-63), e l’ambientazione anteriore alla morte di Ruscelli (1556), vedi A. Daniele, Capitoli tassiani, Padova, Antenore, 1983, pp. 24-26.

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XII IN ESORDIO DEL CANZONIERE: MINTURNO, MARINO E UN MODULO ORAZIANO

Nel sonetto proemiale delle Rime amorose, primo libro della vasta raccolta pubblicata nel 1602, Marino, coerentemente con l’argomento, enunciava il programma di astenersi dal genere eroico per dedicarsi al canto esclusivo dell’amore. L’opposizione acquisiva risalto per effetto dello schematico andamento delle due quartine. Nella prima il poeta formulava la rinuncia, in favore d’altri, alla poesia epica e nella seconda dichiarava la propria dedizione verso quella amorosa: Altri canti di Marte e di sua schiera gli arditi assalti e l’onorate imprese, le sanguigne vittorie e le contese, i trionfi di Morte orrida e fera. I’ canto, Amor, da questa tua guerrera quant’ebbi a sostener mortali offese, come un guardo mi vinse, un crin mi prese: istoria miserabile ma vera. Duo begli occhi fur l’armi onde traffitta giacque, e di sangue in vece amaro pianto sparse lunga stagion l’anima afflitta. Tu, per lo cui valor la palma e ’l vanto ebbe di me la mia nemica invitta, se desti morte al cor, dà vita al canto1. 1 G. B. Marino, Rime amorose, a c. di O. Besomi e A. Martini, Modena, Panini, 1987, p. 35.

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Una tale apertura era tutt’altro che scontata in seno alla tradizione petrarchista2. Palese è, fra l’altro, lo scarto rispetto alla linea Bembo-Della Casa, che proprio dalla protasi del poema eroico aveva desunto, in esordio del canzoniere, il motivo dell’invocazione alle muse. Né più significativi contatti il testo di Marino stringeva, per questo aspetto, con il modello tassiano, che nel sonetto proemiale alle rime esibiva sì un confronto fra genere epico e genere lirico, ma nei termini di un paragone («Vere fur queste gioie e questi ardori / ond’io piansi e cantai con vario carme, / che potean agguagliare il suon de l’arme / e de gli Heroi le glorie e i casti amori»)3. Da tale precedente sembra derivare semmai il marchio di autenticità rivendicato alla vicenda amorosa, come nell’incipit di Tasso, anche al mariniano v. 8 («istoria miserabile ma vera»). Marino si muoveva in effetti, qui e altrove, nel solco di un diverso classicismo. Non risulta sia stato indicato finora che un probabile ipotesto del sonetto in questione è rintracciabile nel carme di Orazio (I, 7) in cui, con analoga dispositio, il poeta lasciava ad altri il compito di celebrare le famose città, riservandosi il gusto e il piacere dei paesaggi boschivi: Laudabunt alii claram Rhodon aut Mythilenem aut Ephesum bimarisve Corinthi moenia vel Baccho Themas vel Apolline Delphos insignis aut Thessala Tempe; sunt quibus unum opus est intactae Palladis urbem carmine perpetuo celebrare et

2 A tale proposito, limitatamente all’ambito del petrarchismo cinquecentesco, si ricordino almeno: F. Erspamer, Il canzoniere rinascimentale come testo o come macrotesto: il sonetto proemiale, «Schifanoia», IV (1987), pp. 109-14; G. Gorni, Il libro di poesia nel Cinquecento (1989), in Id., Metrica e analisi letteraria, Bologna, Il Mulino, 1993, pp. 193-203; A. Kablitz, Die Selbstimmung des petrarkistischen Diskurses im Proömialsonett (Giovanni Della Casa – Gaspara Stampa) im Spiegel der neueren Diskussion um den Petrarkismus, «Germanisch-Romanische Monatsschrift», N. F., 42 (1992), pp. 381-414; M. Boaglio, Il proposito dell’imitazione. Liriche d’esordio e canzonieri petrarcheschi nel primo Cinquecento, in Teoria e storia dei geneeri letterari. Luoghi e forme della lirica, a c. di G. Barberi Squarotti, Torino, Tirrenia Stampatori, 1996, pp. 85-118; S. Carrai, Il canzoniere di Giovanni Della Casa dal progetto dell’autore al rimaneggiamento dell’edizione postuma, in Per Cesare Bozzetti. Studi di letteratura e filologia italiana, a c. di S. Albonico, A. Comboni, G. Panizza, C. Vela, Milano, Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori, 1996, pp. 471-98 (in particolare pp. 473-76). 3 Cfr. T. Tasso, Rime d’amore, a c. di F. Gavazzeni, M. Leva, V. Martignone, intr. di V. Martignone, Modena, Panini, 1993, p. 3.

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XII In esordio del canzoniere: Minturno, Marino e un modulo oraziano

undique decerptam fronti praeponere olivam; plurimum in Iunonis honorem aptum dicet equis Argos ditisque Mycenas; me nec tam patiens Lacedaemon nec tam Larisae percussit campus opimae, quam domus Albuneae resonantis et praeceps Anio ac Tiburni lucus et unda mobilibus pomaria rivis...

Il confronto suggerisce l’ipotesi che Marino abbia adattato il procedimento oraziano ad un diverso contenuto, calando nello stesso schema, anziché il contrasto fra città e scena campestre, quello fra poesia epica e poesia d’amore. Orazio era poeta che egli, ovviamente, non ignorava e poteva benissimo mettere a frutto direttamente. Ciò nonostante, ritengo che alla formazione del testo mariniano abbia concorso in maniera decisiva l’esempio di un maestro della vecchia scuola napoletana come Antonio Minturno, che aveva inaugurato le proprie rime, stampate a Venezia nel 1559, con un sonetto analogamente ispirato al brano oraziano4: I sacri fiumi, i lieti piani e i monti, le città grandi e l’onorate prove dican gli altri d’alcun figliuol di Giove, o pur de’ Paladin’ famosi e conti. Chi non sa Tempe e di Permesso i fonti, Elicona, Parnaso, Olimpo e dove fu Tebe o Troia, ond’Istro o Nilo move, qual fronde onora le più chiare fronti? Io canto la divina, alma Beltate, ignuda prima et or d’umana forma vestita, qual non vide unqu’altra etate, che col bel sol de le sue luci amate l’animo de’ mortali adorna e ‘nforma, per farle poi nel ciel sempre beate.

Si noterà che Minturno si era mantenuto maggiormente fedele alla fonte, restando in essere, nella fronte del sonetto, la rinuncia alla celebrazione in versi di toponimi classici. Egli vi aveva inserito però, ai vv. 2-4, una presa di distanza verso le imprese di eroi antichi e moderni che anticipa quella messa 4

Cfr. il capitolo precedente, p. 188.

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ad effetto da Marino; e per di più già nel testo minturniano lo schema oppositivo era stato piegato, nella sirma, all’enunciazione di un programma di poesia amorosa. Che il ricordo oraziano passasse proprio attraverso la mediazione di Minturno conferma peraltro, oltre al rapporto fra i sintagmi Altri canti ... I’ canto (Marino) e dican gli altri ... Io canto (Minturno), specie quello che lega il secondo verso di entrambi i sonetti, ove il secondo emistichio di Marino («l’onorate imprese») risente, evidentemente, di quello di Minturno («l’onorate prove»). L’agnizione è tale da sollecitare una più estesa indagine su prestiti e calchi minturniani nell’opera di Marino; anche se è bene avvertire che, ad una prima ricognizione, tale presenza sembra tutt’altro che pervasiva. È significativo, ad esempio, che la serie di quattro sonetti di invocazione al Sonno (Amorose 60-63) non sembra tenere in alcun conto il sonetto minturniano O Sonno, de’ mortai mirabil freno5, ma si muove nella scia tracciata da quello, celebre, del Casa6 e ancor più si avvicina, giova qui segnalare, ad un sonetto di Guarini rivolto al Sogno7. Mi riferisco, in particolare, alla mossa iniziale del testo guariniano: Da qual porta d’Averno apristi l’ale, col rio timor che le speranze sgombra, sogno? se sogno è quel che ’l ver m’adombra, e non, come cred’io, mostro infernale?

I contatti con l’avvio dell’ultimo componimento della quaterna di Marino sono palesi: Da qual uscio del ciel volando uscisti, vago pittor d’imagini sì liete, Sonno, che chiusi in placida quiete a più sereno dì gli occhi m’apristi?

L’analogia riguarda non meno la collocazione del vocativo all’inizio del terzo verso che le parole d’esordio; e poi la relazione sinonimica di porta 5

Cfr. Rime et Prose del Sig. Antonio Minturno, Venezia, Rampazzetto, 1559, p. 37; e G. Ferroni – A. Quondam, La «locuzione artificiosa». Teoria ed esperienza della lirica a Napoli nell’età del manierismo, Roma, Bulzoni, 1973, p. 307. 6 Cfr. S. Carrai, Ad Somnum. L’invocazione al Sonno nella lirica italiana, Padova, Antenore, 1990, p. 66. 7 Cfr. B. Guarini, Opere, a c. di M. Guglielminetti, Torino, UTET, 19712, p. 28.

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(Guarini) e uscio (Marino); l’antitesi, anch’essa rivelatrice di un rapporto fra i due testi, tra la provenienza infernale dell’incubo (Guarini) e l’origine celestiale del sonno che reca sogni beati (Marino); l’equivalenza d’immagine e di tempo verbale in apristi l’ale (Guarini) e in volando uscisti (Marino). E la stessa voce apristi occorre in entrambi, dal momento che compare anche, diversamente contestualizzata, al v. 4 di Marino. Le implicazioni guariniane nella lirica di Marino non costituiscono una novità. La tessera or ora rilevata viene ad incrementare una serie di raffronti già indicati nel commento di Besomi e Martini8. Acquisti di tale sorta non possono meravigliare, dunque, anche in ragione dei rapporti personali intercorsi tra i due poeti, documentati entro l’epistolario mariniano fin dal 16019. Neppure deve sorprendere tuttavia la presenza di Minturno nel sonetto proemiale delle Rime amorose. I debiti contratti dal giovane Marino, più in generale, con la generazione di Rota e di Tansillo sono stati rilevati da tempo10. Logico è che un preciso influsso avesse esercitato un poeta che già Garcilaso, durante il suo soggiorno napoletano, aveva mostrato di conoscere e di apprezzare quale cantore, insieme con Tansillo e Bernardo Tasso, di Maria di Cardona marchesa della Padula11; tanto più che Minturno aveva visto consolidarsi il proprio prestigio, non solo a Napoli, in virtù di una robusta produzione trattatistica latina e volgare. Morto vescovo nel 1573, egli era un nome illustre quando Marino cominciava a far versi e ancora quando metteva mano alla raccolta delle Amorose; anzi era stato rilanciato e quasi consacrato nell’empireo degli intendenti di poesia da Torquato Tasso, che gli aveva intitolato uno dei suoi dialoghi: Il Minturno overo de la Bellezza12. La comune appartenenza o vicinanza alla tradizione partenopea avrà in certa misura favorito, nel caso di Tasso e di Marino, una ricezione degli scritti di Minturno. Due lettori di questo calibro sono sufficienti, ad ogni modo, a

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Se ne veda il regesto in Marino, Rime amorose..., p. 206. Si veda la lettera a Gaspare Salviani spedita in quell’anno da Firenze: cfr. G. Marino, Lettere, a c. di M. Guglielminetti, Torino, Einaudi, 1966, p. 28. 10 Cfr. O. Besomi, Ricerche intorno alla ‘Lira’ di Giovan Battista Marino, Padova, Antenore, 1969, p. 55. 11 Cfr. Garcilaso de la Vega, Poesías completas, ed. Á. L. Prieto de Paula, Madrid, Editorial Castalia, 1989, p. 67: «Ilustre honor del nombre de Cardona, / décima moradora de Parnaso, a Tansillo, a Minturno, al culto Taso / sujeto noble de imortal corona...». 12 Per un quadro d’insieme si ricorra a E. Raimondi, Il petrarchismo nell’Italia meridionale (1973), in Id., Rinascimento inquieto, Torino, Einaudi, 1994, pp. 267-306, e anche in Id., I sentieri del lettore, a c. di A. Battistini, Bologna, Il Mulino, 1994, I, pp. 315-53. 9

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dimostrare la vitalità e l’importanza raggiunta nel secondo Cinquecento da un autore oggi generalmente negletto che, mettendo in cantiere per tempo trattati di poetica e raccolte di versi spirituali, aveva saputo interpretare come pochi altri l’età segnata dal Concilio e dal conseguente richiamo all’ordine.

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Appendice

INSERTI ELEGIACI NELLA SYLVA IN SCABIEM DI POLIZIANO

Sono trascorsi diversi decenni da quando Alessandro Perosa, raccolta la segnalazione di Kristeller, pubblicò l’inedito poemetto polizianeo contenuto, sotto il titolo di Sylva in scabiem, nel codice 555 della Biblioteca Palatina di Parma, corredandolo di chiose esemplari per concisione e dovizia d’informazione1. Nonostante il tempo trascorso, il commento non ha ricevuto incrementi cospicui2 e resta a tutt’oggi passibile di scarse integrazioni, alcune delle quali mi paiono tuttavia degne di esser proposte. Non priva d’interesse è, ad esempio, quella relativa ai vv. 245-48, ove Poliziano rivendicava i propri meriti di poeta: Ille ego sum, o socii, quanquam ora animosque priores Fortuna eripuit, qui quondam heroa canendo Proelia et exhaustos rhoeteo in Marte labores Ibam altum spirans [...]

1 Angeli Politiani Sylva in scabiem, testo inedito a cura di A. Perosa, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 1954. 2 Cfr. E. Bigi, La ‘Sylva in scabiem’, (1956), in Id., La cultura del Poliziano e altri studi umanistici, Pisa, Nistri-Lischi, 1967, p. 3; A. Cerri, Nota sulla ‘Sylva in scabiem’ di Angelo Poliziano, «Giornale storico della letteratura italiana», CLIV (1977), pp. 533-36; A. Bettinzoli, «Dolus et Error»: di alcuni carmi latini del giovane Poliziano, «Lettere italiane», XXXVIII (1986), pp. 185-92; A. Poliziano, Sylva in scabiem, a cura di P. Orvieto, Roma, Salerno Ed., 1989.

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Il brano dipende in parte, come avvertiva Perosa, da Stazio, Silvae III 10-11 («Certe ego, magnanimum qui facta attollere regum / ibam altum spirans Martemque aequare canendo»), incrociato forse con altro luogo staziano (Silvae V 38-40 «Ille ego qui quotiens blande matrumque patrumque / vulnera, qui viduos potui mulcere dolores, / ille ego lugentem mitis solator»). Ma la suggestione più forte proviene dall’inizio spurio dell’Eneide preposto di sovente al vero incipit virgiliano e che Poliziano trovava, tra l’altro, anche nell’edizione di Schweynheym e Pannartz (c. 61v) da lui posseduta e postillata3: Ille ego qui quondam gracili modulatos avena carmen et egressus silvis vicina coegi ut quamvis avido parerent arva colono, gratum opus agricolii, at nunc horrentia Martis arma virumque cano [...].

Anche se il modello era abbastanza diffuso nella poesia sepolcrale (si ricordi, in proposito, lo stesso epitafio polizianeo per il busto di Giotto in Santa Maria del Fiore: «Ille ego sum per quem pictura extincta revixit [...]»)4, si noterà che il primo emistichio del verso d’esordio risulta scomposto ed asservito, nel brano della Sylva, ad una sintassi più articolata; e inoltre, se lo pseudo-Virgilio dichiarava di aver lasciato il genere pastorale ed agreste per quello epico, Poliziano, riecheggiandolo, ne ribalta l’assunto per presentarsi come colui che aveva cantato un tempo, nelle Stanze, le eroiche gesta di Giuliano de’ Medici. Più interessanti sono, comunque, altri rinvii relativi ad un precedente che dovette giocare un ruolo non marginale nella stesura dell’operetta. Mi riferisco ad un testo ben noto agli umanisti: vale a dire la prima elegia di Massimiano5, ove si eseguiva il tema della deprecatio senectutis, presentando 3

Sull’esordio in questione vedi R. G. Austin, Ille ego qui quondam, «The classical quarterly», n. s., XVIII (1968), pp. 107-15; G. B. Conte, Memoria dei poeti e sistema letterario, Torino, Einaudi, 19852, pp. 62-63; e A. La Penna, Ille ego qui quondam e i racconti editoriali nell’antichità, «Studi italiani di filologia classica», LXXVIII (1985), pp. 76-91. Per l’esemplare appartenuto a Poliziano dell’incunabolo stampato a Roma nel 1471 da Schweynheym e Pannartz ora alla Bibliothèque Nationale di Parigi cfr. Mostra del Poliziano, catalogo a cura di A. Perosa, Firenze, Sansoni, 1955, pp 29-30. 4 In Poeti latini del Quattrocento, a cura di F. Arnaldi, L. Gualdo Rosa, L. Monti Sabia, Milano-Napoli, Ricciardi, 1964, p. 1010 5 Per la diffusione, spesso sotto il nome di Cornelio Gallo, delle Elegiae di Massimiano durante il Quattrocento cfr. V. Strazzulla, Massimiano etrusco elegiografo,

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APPENDICE Inserti elegiaci nella sylva in scabiem di Poliziano

la vecchiaia come una atroce malattia che affligge l’uomo stravolgendolo nel corpo e nell’animo. Se è vero infatti che Poliziano, per la descrizione dei terribili sintomi del suo morbo, prese a modello il brano di Lucrezio sulla peste di Atene (VI 1138-1286), già in parte utilizzato nell’elegia In Albieram6, pochi ma significativi riscontri mostrano che egli sviluppò lo spunto giovandosi proprio del carme di Massimiano. Mentre certi effetti della crudele malattia rimandano esclusivamente a Lucrezio e altri sono presenti in entrambe le fonti (il dolore senza tregua, il corpo ridotto pelle e ossa, l’insonnia), altri ancora, mancanti al catalogo del De rerum natura, stabiliscono precisi contatti con la sola elegia di Massimiano. È il caso, intanto, del pallore del volto, Maxim. I 133-34: Pro niveo rutiloque prius nune inficit ora pallor et exsanguis funereusque color,

che Poliziano sembra far proprio riprendendo alla lettera i due lemmi situati rispettivamente in clausola dell’esametro ed in inizio del pentametro, ma invertendoli di posto, 16-18: [...] rubor igneus excitat orbes Sanguineus, fugiunt oculi, squalentia pallor Ora vorat. [...].

Ancor più significativa è l’eco massimianea reperibile ai vv. 54-58 della Sylva: furor est artus laniare cruentis Unguibus aut rabidos torquere in viscera morsus: Sanguinea, putrido divellit corpore crustas Unca manus penitusque artus scrutatur hiantes Exuviasque rapit nervorum et detegit ossa.

Il violento ed irrefrenabile grattarsi da parte del malato, per cui De Robertis ha opportunamente richiamato l’immagine dei falsari danteschi 7, memorizza anche Maxim. I 136: Catania, Galati, 1893, pp. 27-28; R. Sabbadini, Le scoperte dei codici latini e greci ne’ secoli XIV e XV, ed. anast. con nuove aggiunte e correzioni dell’autore a cura di E. Garin, Firenze, Sansoni (poi Le Lettere), 1967, p. 181; e W. Schetter, Studien zur überlieferung und Kritik des Elegikers Maximian, Wiesbaden, Harrassowitz, 1970, pp. 58-95. 6 Come ha osservato lo stesso A. Perosa, Febris: a poetic myth created by Poliziano, «Journal of the Warburg and Courtauld Institutes», IX (1946), pp. 81 sgg. 7 Cfr. D. De Robertis, Interpretazione della ‘Sylva in scabiem’ (1967), in Id., Carte d’identità, Milano, Il Saggiatore, 1974, p. 147.

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et lacerant uncae scabrida membra manus;

tanto più che il verso precedente inizia con «Aret sicca cutis», che svela il calco ritmico e di posizione operato da Poliziano nel primo emistichio del v. 13: «Aret hiulca sitis», ove la variatio è ottenuta combinando il ricordo massimianeo con l’accostamento virgiliano «hiulca siti» (Georg. II 353)8. E quel che toglie ogni dubbio sulla presenza del testo di Massimiano nella Sylva è la sapiente utilizzazione di un altro distico dell’elegia, 167-68: Non totiens experta mihi medicamina prosunt, non aegris quicquid ferre solebat opem,

abilmente smembrato da Poliziano per sostenere la costruzione di un più lungo brano sull’inefficacia dei medicamenti, 27-34: Non medicae fomenta manus, non tristia prosunt Pocula et epoti numeroso e gramine succi, Unguinaque et lachrymae terebynthi et sulfura viva, Argenti spumae cinerisque immixtus acervo Conspersusque membra latex fluvii ve propinqui Lympha natata diu, nepetae malvaeque virentes, Et fumus terrae et sal fusus aceto Milleque iam fessis medicamina condita ahenis.

Tali riscontri sono di per sé indicativi del gusto di Poliziano, incline verso i poeti argentei e della decadenza. Non è detto del resto che egli conoscesse il componimento con la sua corretta attribuzione: il fatto che Poliziano, a quanto risulta, non citi mai esplicitamente Massimiano può spiegarsi anche con la circolazione delle Elegiae senza indicazione dell’autore o sotto il nome di Cornelio Gallo, tanto più che lo stesso suo devoto allievo Piero Crinito nel De poetis latinis III 42, pur negando che esse fossero da assegnare a Gallo, non faceva parola della loro effettiva paternità9. 8

«In questo passo di Virgilio hiulca va con arva, ma il Poliziano, attratto dal casuale accostamento di hiulca e siti, ha creato un nuovo audace rapporto» (Perosa, ed. cit., che pensava all’interferenza di espressioni come arida sitis, in Lucrezio e in Ovidio, oppure sitis arens, in Ovidio e in Tibullo). 9 Cfr. Petri Criniti viri undecunque doctissimi De honesta disciplina libri XXV, De poëtis latinis eiusdem libri V, Poëmarum quoque illius, Basileae, Henricus Petrus, MDXXXII, p. 452. Di Massimiano non è traccia neppure nella raccolta di excerpta poetici assemblata da Poliziano nel ms. II I 99 della Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze, fatta Conoscere da L. Cesarini Martinelli, ‘De poesi et poetis’: uno schedario

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APPENDICE Inserti elegiaci nella sylva in scabiem di Poliziano

Quel che importa sottolineare, tuttavia, è che sarebbe superficiale limitarsi a registrare questi contatti come reminiscenze qualsiasi fra le tante del complesso collage polizianesco. La memoria di Massimiano, nella strategia della Sylva, dovette andar oltre i triti prestiti or ora illustrati. Nel poemetto compaiono in effetti altri motivi caratteristici dell’elegia tardoantica e, poi, mediolatina10. Alludo in particolare al completo abbandono in cui viene a trovarsi il malato, lasciato solo dagli amici per paura del contagio (Polit. 241-42 «Hei mihi, quod saevi fugiunt contagia morbi / Egregii comites»), che discende, attraverso autori come Arrigo da Settimello (127 «Me domini, sotii, noti, quod maius, amici, / proh scelus! in medio deseruere mari»), da Massimiano (I 282 «nec quisquam extantis praebet amicus opem»), ed ha il suo archetipo scritturale in Job 19, 13-14. Così, il tópos della mors tarda, sempre attraverso l’elegia medievale (Arrigo da Settimello 70 e 332), risale alla medesima elegia di Massimiano, di cui è un vero e proprio leit motiv (4, 112, 115, 265), e all’elegia proemiale di Boezio, De consolatione I 13-16: Mors hominum felix, quae se nec dulcibus annis inserit et maestis saepe vocata venit. Eheu, quam surda miseros avertitur aure et flentes oculos claudere saeva negat;

passo, questo, che non sarà estraneo alla genesi dei vv. 234-35 di Poliziano: Vivo tamen, nec te pietas, Mors impia, nostri Ulla subit, surdas precibus sic obstruis aures.

Non è mia intenzione abbozzare una sia pur breve storia del genere; mi

sconosciuto di Angelo Poliziano, in Tradizione classica e letteratura umanistica. Per Alessandro Perosa, a cura di R. Cardini, E. Garin, L. Cesarini Martinelli, G. Pascucci, Roma, Bulzoni, 1985, II pp. 455-87. Per la falsa attribuzione a Gallo cfr. V. Tandoi, La tradizione manoscritta di Massimiano, «Maia», XXV (1973), pp. 144-45; S. Mariotti, Cornelii Galli Hendecasyllabi (1974), in Id., Scritti medievali e umanistici, Roma, Ed. di Storia e Letteratura, 1976, p. 159); U. Jaitner-Hahner, Maximian und der «Fucus Italicus». Ein unbekannter Textzeuge, in Litterae Medii Aevi. Festschift für J. Autenrieth, heraus gegeben von M. Borgholte und H. Spilling, Sigmaringen, Thorbecke, 1988, pp. 277-92. 10 Sulla fortuna medievale di Massimiano si vedano i cenni di Strazzulla, Massimiano etrusco elegiografo..., pp. 25-27, da integrare con M. Manitius, Geschichte der lateinischen Literatur des Mittelalters, München, Verlag C. H. Beck, 1931, ad indicem, e F. Bertini, Boezio e Massimiano, in Congresso Internazionale di Studi Boeziani, a c. di L. Obertello, Roma, Herder, 1981, pp. 275-77.

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preme invece suggerire l’ipotesi che l’impiego da parte del Poliziano del testo di Massimiano rispondesse al progetto, almeno in parte consapevole, di affidare alla forma della selva in esametri di ascendenza staziana un messaggio di tono e di contenuto elegiaco, contaminando così il genere lirico improntato alla poetica del «subitus calor» con quello deputato, secondo una secolare tradizione, ad esprimere l’infelicità11. Non è da escludere, peraltro, che lo stesso titolo del poemetto traesse spunto proprio dalla prima elegia di Massimiano, 245-46, in cui si legge: Hinc miseros, scabies, hinc tussis anhela fatigat: continuos gemitus aegra senectus habet.s

Lo scarto però è dato dal fatto che Poliziano, allora poco più che ventenne, non poteva adombrare nella sua scabies una vecchiaia ancora di là da venire12. La sua malattia – fittizia o descritta in termini iperbolici – alludeva evidentemente ad altro ed aveva come scopo immediato di fornire un pretesto alla lusinghiera invocazione rivolta verso la fine a Lorenzo de’ Medici (vv. 323-25 e 336-47): ma il problema esula dai limiti di questo contributo, il cui intento era quello di isolare la voce di Massimiano nel coro di ascendenze della Sylva e di evidenziare la componente elegiaca del poemetto.

11 Quanto all’estemporaneità peculiare del genere poetico della selva, cfr. A. Poliziano, Commento inedito alle Selve di Stazio, a cura di L. Cesarini Martinelli, Firenze, Sansoni (poi Olschki), 1978, p. 29; L. Cesarini Martinelli, In margine al commento di Angelo Poliziano alle Selve dì Stazio, «Interpres», I (1978), pp. 104-5; R. Rinaldi, Le vie della selva. Appunti sulla riformulazione rinascimentale di un genere classico, (1995), in Id., Le imperfette imprese. Studi sul Rinascimento, Torino, Tirrenia-Stampatori, 1997, pp. 187-230. Per l’interpretazione medievale del genere elegiaco fondata sulla falsa etimologia da eléyson e accolta anche da Dante (De vulgari 1145 «per elegiam stilum intelligimus miserorum»), cfr. P.V. Mengaldo, L’elegia «umile», «Giornale Storico della letteratura italiana», CXLIII (1966), pp 177-98. 12 Per la datazione della Sylva agli anni 1475-78 fa ancora testo 1’introduzinne di Perosa all’ed. cit., pp. 12-13. Che la menzione della scabies nel titolo non abbia riscontro nel corpo del carme non mi pare possa autorizzare a ritenere 1’intitolazione medesima opera del copista, dal momento che questi, appunto, non avrebbe potuto ricavarla da elementi interni al testo, e dato anche il suo carattere squisitamente polizianesco, allusivo al recupero del genere staziano.

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INDIC E ANALITICO

Acrone (pseudo-), 186 Adimari, Alessandro, 161 Ageno, v. Brambilla Ageno Alamanni, Ludovico, 165 Alamanni, Luigi, 141 Alberti, Leon Battista, 12, 23, 24, 66, 71, 74n, 75, 92, 94, 114, 122, 139 Albizzi, degli, Rinaldo, 160 Albonico, Simone, 133n, 194n Alceo, 94 Alessio, Franco, 89n, 130n Alfieri, Vittorio, 140n Alighieri, Dante, 87, 91, 117n, 140, 184, 206n Allegretti, Iacopo, 132 Altoviti, Marietta, 163 Anceschi, Giuseppe, 12, 133n Andrea del Castagno, 160 Andrews, Richard, 47n Angelini, Cesare, 89n, 130n Anguillara, dell’, Giovanni Andrea, 158 Antonio da Montalcino, 17, 18, 20-24, 26, 33, 47n Antonio da Tempo, 47n Antonio di Meglio, 160 Apollonio Rodio, 95 Appiano, d’, Beatrice, 168, 170, 184 Aragona, d’, Alfonso, 113, 133n, 134, 13638, 140 Aragona, d’, Ferdinando, 83 Arco, d’, Nicolò, 143-45, 148-51 Arco, d’, Odorico, 144 Ardinghelli, Niccolò, 78

Argentario, Daniele, 31-32 Ariani, Marco, 163n Arienti, degli, Sabadino, 33 Ariosto, Ludovico, 141-43, 145-51, 164, 169n Arnaldi, Francesco, 202n Arrigo da Settimello, 205 Arzocchi, Francesco, 119, 122, 137-38, 140 Augurelli, Giovanni, 45 Ausonio, Decimo Magno, 73, 123 Austin, Roland Gregory, 202n Avalos, d’, Ferrante, 185 Avesani, Rino, 27n Bachtin, Michail, 88n Baldelli, Niccolò, 86 Balduino, Armando, 45n ballata, 23, 45, 47n, 57-58, 102 – andamento circolare, 61-62 – aspetti coreutici, 58, 62, 77 – ballata di maggio, 63-65 – ballata in ottonari, 45, 58, 102 – ballata in strofe di settenari, 58, 61 – doppio senso, 64, 87n, 103-5, 107-8 – problemi di scansione della ripresa, 5861 Bandello, Matteo, 149, 182 Barberi Squarotti, Giorgio, 159n, 194n Bardi, Giovanni Maria, 86n Barocchi, Paola, 158n Bartolomeo de Zani, 162-63 Bascetta, Carlo, 86n Basile, Bruno, 19n, 28n

207

Indice analitico Battera, Francesca, 96n, 117n, 118n, 137n, 138n, 139n Battista da Napoli, 41n Battistini, Andrea, 179n, 197n Bausi, Francesco, 23n, 47n, 48n, 54 Beccadelli, Antonio, v. Panormita Beccadelli, Lodovico, 191n Belcari, Feo, 60n, 81, 126 Bellincioni, Bernardo, 123 Bellini, Gentile, 31 Bellini, Giovanni, 31 Bellini, Jacopo, 31 Belloni, Antonio, 191n Belloni, Gino, 169n, 189n Beltrami, Pietro G., 18n Bembo, Pietro, 49, 144n, 146, 149, 169n, 190, 194 Bendedei, Timoteo, 132 Benivieni, Girolamo, 92-94, 96, 117n, 127, 137 Bentivogli, Bruno, 28n, 33n, 133n Bentivoglio, Sante, 19, 20, 21, 33 Benvenuto da Imola, 90 Berni, Francesco, 159 Bertini, Ferruccio, 205n Besomi, Ottavio, 193n, 197 Bessi, Rossella, 83n Bettarini, Rosanna, 158n Bettinzoli, Attilio, 85n, 201n Bianchi, Stefano, 145, 147 Bibbiena, Bernardo Dovizi detto il, 146 Biblioteca Ambrosiana – ms. Ambrosiano Z 100. sup., 38 Biblioteca Apostolica Vaticana – ms. Vaticano latino 6191, 190n – ms. Vaticano Rossi 215, 25 Biblioteca Casanatense, Roma – ms. Casanatense 601, 25 Biblioteca Civica, Verona – ms. 3039, 39 Biblioteca Comunale, Trento – ms. 1973, 144 Biblioteca del Museo provinciale d’arte, Trento

208

– ms. 1659, 41n Biblioteca Estense, Modena – ms. Estense latino 771, 131 – ms. Estense latino 1460, 131 Biblioteca Laurenziana, Firenze – ms. Ashburnham 266, 143 Biblioteca Nazionale, Budapest – ms. 416, 131 Biblioteca Nazionale Centrale, Firenze – ms. II. I. 92, 161n – ms. II. I. 99, 204n – ms. II. II. 62, 30, 42 Biblioteca Nazionale Marciana, Venezia – ms. Italiano IX 241, 17 – ms. Italiano IX 257, 29, 37, 39, 41n – ms. Latino XIV 267, 43 Biblioteca Oliveriana, Pesaro – ms. 1383, 53, 56, 79 Biblioteca Palatina, Parma – ms. Palatino 555, 201 – ms. Palatino 557, 191 – ms. Parmense 2508, 119 – ms. Parmense 3071, 98 Biblioteca Riccardiana, Firenze – ms. Riccardiano 2723, 98 Biblioteca Universitaria, Bologna – ms. Italiano 1739 (Isoldiano), 27-28, 33 – ms. Latino 1097, 131 Bibliothèque Nationale, Parigi – ms. Italiano 1029, 27, 29, 31, 34-37, 41n, 43, 49 – ms. Italiano 1036, 20 – ms. Italiano 1047, 98 v. anche postillati Bigi, Emilio, 89n, 97n, 120, 130n, 201n Bigo Pittorio, Ludovico, 140 Blasucci, Luigi, 156 Boaglio, Marino, 194n Boccaccio, Giovanni, 69, 104, 107, 131n Boezio, Anicio Manlio Severino, 205 Boiardo, Feltrino, 132 Boiardo, Matteo Maria, 12, 36n, 45-49, 123, 129-35, 137-40, 142, 143n, 187

Indice analitico Boldù, Giovanni, 31 Bonini, Eufrosino, 107, 108, 110 Bonis, de, Giovanni, 132 Borgholte, Michael, 205n Borgia, Cesare, 157 Borromeo, Carlo, 190 Bottrigaro, Ercole, 181 Bozano, Nicolò, 89 Bozzetti, Cesare, 119n, 133n, 139n, 194n Bracci, Cecchino, 158 Brambilla Ageno, Franca, 138n Branca, Vittore, 73n, 80n, 121n, 189n Bregno, Antonio, 31 Bregoli Russo, Mauda, 138n Britonio, Girolamo, 189 Brocardo, Domizio, 26, 45 Brucioli, Antonio, 165 Bruscagli, Riccardo, 103n, 107 Buck, August, 88n bucolica, v. egloga Buonaccorsi, Francesco, 80 Buonarroti, Michelangelo, 157, 158n Buoninsegni, Iacopo Fiorino, 137, 138 Burali, Paolo, 190n Burchiello, Domenico di Giovanni detto il, 64n Cairns, Francis, 149n Calderisi, Raffaele, 167, 168, 169, 170n Calogrosso, Gianotto, 18-21, 23-24, 26, 33 Calpurnio Siculo, 90, 131 Campo, Pellegrina, 29, 37n Canonici, Alberto, 40 canto carnascialesco, 86, 99-110 Canzona delle Amazzoni, 103-6 Canzona del signor della Cavallina, 63-64 canzone pindarica, 185-86 canzoniere, 176-81 – connessioni intertestuali, 134-35, 180 – esordio, 188, 193-96 – fine, 188 – frammentarietà, 185, 189 – parte narrativa, 188

– struttura, 184-90 – titolo, 28 – tripartizione, 186-88 capitolo ternario, 25, 46-49, 141-2, 148 Capovilla, Guido, 23, 25n, 46n Carbone, Ludovico, 140 Cardini, Roberto, 91n, 132n, 205n Cardona, di, Maria, 141, 170-75, 177-82, 184-85, 197 Carducci, Giosuè, 25n, 54-55, 68, 76, 106, 107n, 110, 164 Caretti, Lanfranco, 144n Cariteo, Benet Garret detto il, 45 Carlo V, imperatore, 145, 182, 185 Carnerio, Agostino, 33n Carnesecchi, Carlo, 117n Caro, Annibale, 157 Carrai, Stefano, 13, 22n, 28n, 63n, 87n, 100n, 105n, 118n, 121n, 124n, 125n, 130n, 132n, 139n, 171n, 176n, 194n, 196n Carrara, Enrico, 119, 122n, 131n, 133n, 158n Casadei, Alberto, 156n Casalduero, Joaquìn, 184n Casio, da, Girolamo, 157 Castagnola, Raffaella, 94n, 128n Castellani, Castellano, 60n, 108, 110 Castelli, Girolamo, 140 Castiglione, Baldassarre, 80, 146 Catalano, Michele, 133, 146n Cattaneo Vespucci, Simonetta, 78, 96, 98 Cattin, Giulio, 80 Catullo, Marco Valerio, 131 Cavalcanti, Guido, 65 Cecchi, Emilio, 72n, 89n, 133n Ceffi, Tommaso, 72 Cellini, Benvenuto, 158 Cerboni Baiardi, Giorgio, 106n Cerri, Angelo, 201n Cervini, Marcello, 162 Cesarini Martinelli, Lucia, 132n, 204n, 205n, 206n Chabod, Federico, 156

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Indice analitico Chambers, David S., 97n Chastel, André, 122n Chiabò, Miriam, 102n Chiappini, Luciano, 36n Chiari, Alberto, 86n Chiesa, Mario, 78n Chittolini, Giorgio, 106n Ciampolini, Luigi, 54 Cicerone, Marco Tullio, 167 Clemente VII, papa, 145, 166 coblas capfinidas, 62 Cocito, Luciana, 22n Collenuccio, Pandolfo, 132 Colonna, Francesco, 31n Colonna, Isabella, 168-69, 179, 180, 184 Colonna, Vespasiano, 168, 170 Colonna, Vittoria, 169n Comboni, Andrea, 133n, 194n Compatre, Pietro, 164n Conte, Gian Biagio, 202n Conti, de’, Giusto, 26, 27n, 92 Conti, Roberta, 46, 47n, 48n, 134n Contini, Gianfranco, 46n Contò, Agostino, 12 contrafactum – profano, 108-10 – spirituale, 60, 77, 80-82 Coppini, Daniela, 159n Cornazano, Antonio, 45, 132 Corradini, Ludovico, 30 Correggio, v. Nicolò da Correggio Corsi, Giuseppe, 25n, 66n Corti, Maria, 88n Cosmico, Niccolò Lelio, 28, 45 Cotta, Giovanni, 149 Crescimbeni, Giovan Mario, 29, 30n Crinito, Piero, 204 Curcio, Gaetano, 187n D’Accone, Franck A., 102n Dalla Torre, Marcantonio, 149 Daniele, Antonio, 191n D’Annunzio, Gabriele, 55, 60, 70

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danza, 58, 62, 70-73, 77 Danzi, Massimo, 182n Dei, Benedetto, 84, 125 De Jennaro, Jacopo, 123 Delcorno Branca, Daniela, 53, 56, 72n, 79, 80, 123n Della Casa, Giovanni, 181, 194, 196 Della Fonte, v. Fonzio Della Rovere, Francesco Maria, 147-48 Della Torre, Arnaldo, 125n Del Lungo, Isidoro, 66n, 95n Denley, Peter, 97n De Panizza Lorch, Maristella, 96n De Robertis, Domenico, 23n, 72n, 87n, 89, 118n, 119n, 124n, 127, 132n, 133n, 139, 140n, 181n, 203 De Sanctis, Francesco, 68 De Santis, Antonio, 189n Devizzi, Elena, 190n Diacceto, da, Iacopo, 165 Dilemmi, Giorgio, 49, 133n Dionisotti, Carlo, 119, 121, 139n, 156, 157n, 165n, 189n Doglio, Federico, 102n Dolce, Lodovico, 177, 180n Domenichi, Lodovico, 159 Donati, Lucrezia, 78, 120, 127 Dovizi, Angelo, 105 Dovizi, Bernardo, v. Bibbiena dramma pastorale, 141 egloga, 89, 91-94, 119-23, 129-51, 177n, 186 – abbandono in favore dell’epica, 133, 202 – connessioni intertestuali, 135 – egloga amebea, 24, 89 – egloga in endecasillabi sciolti, 141, 148 – egloga rappresentativa, 93, 123 – isometria, 132 – macrotesto, 134-40 – polimetro pastorale, 127, 141, 177n – travestimento pastorale, 88-97, 143-48 – volgarizzamento virgiliano, 116-18

Indice analitico Elam, Caroline, 97n elegia, 118, 138, 205 Elwerth, W. Theodor, 23n eroide, 118, 120-21, 138-39 Erspamer, Francesco, 194n epitaffio, 145, 157-58, 202 epitaffio satirico, 155-66 Equicola, Mario, 146 esametro, 131 Este, d’, Alfonso I, 145 Este, d’, Borso, 36, 129, 131-32 Este, d’, Ercole, 28, 131-32, 134 Este, d’, Francesco, 175 Este, d’, Giulio, 142 Este, d’, Ippolito, 146 Este, d’, Isabella, 84n, 151 Este, d’, Leonello, 129 Faccioli, Emilio, 144n Fatini, Giuseppe, 148n Fattori, Daniela, 33n Favati, Guido, 128n favola pastorale, v. dramma favola teatrale, 95-98 Felici, Battista, 138n Feliciano, Felice, 12, 27, 29-34, 36-43 Fera, Vincenzo, 116n Ferrai, Luigi Alberto, 162, 163n Ferrari, Severino, 68 Ferrari Barassi, Elena, 86n Ferraù, Giacomo, 116n Ferrero, Giuseppe Guido, 158n Ferroni, Giulio, 87n, 96n, 169n, 178n, 190n, 196n Ficino, Marsilio, 91, 119, 122, 124, 125n Filipepi, Simone, 163-64 Filippo II, imperatore, 185 Fiocco, Giuseppe, 31n Flamini, Francesco, 17, 18, 22 , 47n, 116n, 126n, 127n, 160n Flora, Francesco, 89n Floriani, Piero, 106n, 118n Folgóre da San Gimignano, 78

Folena, Gianfranco, 23n Folengo, Teofilo, 77, 78n, 151 Fonzio, Bartolomeo, 132 Fornasiero, Serena, 119n, 138n Forti, Giacomo, 31 Foscolo, Ugo, 140n Francesco I, re di Francia, 175, 185 Francesco d’Albizzo, 60n, 81 Francesco del Cossa, 31 Franco, Matteo, 124 Frati, Lodovico, 30 Friedman, John Block, 87n, 96n Fruticeno, Giovanni, 149n Fucci, Vanni, 160 Fulgenzio, Fabio Planciade, 96 Gaeta, Francesco, 19n, 21n, 22n Galletti, Gustavo Camillo, 60n Galli, Angelo, 26 Gallico, Claudio, 106n Gallo, Cornelio, 202n, 204, 205n Gambara, Veronica, 119n, 139n Gandolfo, Francesco, 171n Garcilaso de la Vega, 197 Gargiulo, Piero, 12, 64n, 84n Garin, Eugenio, 132n, 205n Gavazzeni, Franco, 194n Gentile, Sebastiano, 125n Gesualdo, Giovanni Andrea, 189 Ghisalberti, Fausto, 90n Ghisi, Federico, 106-7, 110 Giacomo da Monte Cenere, 37n Giambullari, Bernardo, 58, 63n, 64, 105, 128 Gianella, Giulia, 31n, 33n, 38n, 41n Gianfigliazzi, Niccolò, 160, 161 Giannotti, Antonia, 126 Gibellini, Pietro, 119n, 139n Giorgi, Emilio, 92n, 116n Giotto di Bondone, 202 Giovanni da Carpi, 132n Giovanni del Virgilio, 91 Girardi, Enzo Noè, 158n Giudici, Paolo E., 89n, 115n

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Indice analitico Giusto d’Anghiari, 84 Gonzaga, Eleonora, 147 Gonzaga, Elisabetta, 147 Gonzaga, Ferrante, 146 Gonzaga, Francesco, cardinale, 95-97 Gonzaga, Francesco, duca, 146, 150 Gonzaga, Giulia, 144, 168-70 Gonzaga, Luigi, 169, 185 Gonzaga, Sigismondo, 146 Gonzaga, Taddea, 134 Gorni, Guglielmo, 22, 23n, 24n, 60n, 71n, 72n, 118n, 160n, 181n, 189, 194n Grant, W. Leonard, 89n, 151n Graziosi, Maria Teresa, 183n Grazzini, v. Lasca Greco, Aulo, 69n Gualdo Rosa, Lucia, 202n Guarini, Battista di Guarino, 28, 29n, 12931, 139, 140 Guarini, Battista di Francesco, 196-97 Guglielminetti, Marziano, 196n, 197n Guglielmo da Pesaro, 84 Guidiccioni, Giuseppe, 183 Guittone d’Arezzo, 70 Guthmüller, Bodo, 96n Harris, Neil, 134n Hinderbach, Iohannes, 41 ibridismo metrico, 23, 47-49 ibridismo di genere, 24, 65-67, 118, 201-6 Ilicino, Bernardo, 132 illustrazioni xilografiche, 58-59, 100-1 Isaac, Heinrich, 100, 102n Jacopo da Pilaia, 116 Jacopo da Sanseverino, 36 Jacopo dell’Ottonaio, 110 Jane, Emily, 84n Kablitz, Andreas, 194n Keil, Heinrich, 95n Kristeller, Paul Oskar, 191n, 201

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Lachi, Bruno, 82-83 Landini, Francesco, 65, 67 Landino, Cristoforo, 91, 117, 186, 187n Landucci, Luca, 84 Lannoy, di, Filippo, 169 Lanza, Antonio, 126n, 160n La Penna, Antonio, 202n Lasca, Antonfrancesco Grazzini detto il, 99, 100, 102-3, 158-59 Lavezzi, Gianfranca, 18n Leonardo da Vinci, 94, 119n, 121n Leoncini, Ippolita, 81 Leone X, papa, 146, 157, 185 Leopardi, Giacomo, 68 Leva, Marco, 194n Library – British Library, Londra ms. Harley 527140, 42 ms. Additional 16439, 98 – Harvard University Library ms. Hofer 157, 27, 29, 31-33, 35, 37-38, 40, 41n, 49 Limentani, Alberto, 87n Longhi, Silvia, 119n, 139n, 159n Lopez Estrada, Francisco, 184n Lucrezio Caro, Tito, 203, 204n Ludovico il Moro, 94n Luisi, Francesco, 64n, 77n, 81, 110n Luzio, Alessandro, 151 Machiavelli, Niccolò, 121n, 155-57, 163-66 madrigale, 23, 24n, 25, 45, 47n, 67 Madruzzo, Cristoforo, 150n Magnani, Franca, 133n Maier, Bruno, 121n Maïer, Ida, 86n, 89n Malvezzi, Floriano, 37n Mancinelli, Antonio, 186 Manitius, Max, 205n manoscritti, v. Biblioteca, Bibliothèque, Library Mantegna, Andrea, 31 Mantovano, Battista Spagnoli detto il, 151

Indice analitico Marchetti, Italiano, 63n, 105n, 128n Marconi, Sergio, 54 Mariano da Gennazano, 125 Marin, Luca, 39-40 Marino, Giovan Battista, 12, 64n, 193-97 Mariotti, Scevola, 205n Marradi, Giovanni, 68 Martelli, Mario, 23n, 47n, 48n, 87n, 88n, 96, 104n, 113n, 121, 123n, 127n Martignone, Vercingetorige, 194n Martini, Alessandro, 193n, 197 Martini, Ferruccio, 163n Martini, Simone, 30 Marucci, Valerio, 161n Marullo Tarcaniota, Michele, 75 Marzo, Antonio, 161n Masaccio, Tommaso Cassai detto, 157 Massèra, Aldo Francesco, 27, 30 Massimiano, 202-6 Matarrese, Tina, 12 Mazzali, Ettore, 191n Mazzi, Curzio, 27 Mazzoni, Francesco, 104n Mazzoni, Guido, 76, 136, 137n, 159n Medici, de’, Alessandro, 159 Medici, de’, Cosimo il Vecchio, 89n Medici, de’, Cosimo I, 100, 163 Medici, de’, Giovanni detto Giovanni delle Bande Nere, 144, 145 Medici, de’, Giuliano di Lorenzo, 80, 14649, 166 Medici, de’, Giuliano di Piero, 78, 82, 96, 202 Medici, de’, Ippolito, 147 Medici, de’, Lorenzino, 162-64 Medici, de’, Lorenzo, detto il Magnifico, 12, 30, 42, 47n, 58, 63n, 64n, 65, 70, 72-73, 8084, 86, 87n, 97n, 99, 100, 102-3, 106, 110, 113-16, 118, 120-25, 127-28, 133n, 206 Medici, de’, Lorenzo di Piero di Lorenzo, 147-48 Medici, de’, Lucrezia, v. Tornabuoni Medici, de’, Pierfrancesco, 117

Medici, de’, Piero di Cosimo, 89n Medioli Masotti, Paola, 133n Memmo, Francesco Paolo, 18n Mengaldo, Pier Vincenzo, 36n, 46, 48n, 206n Michelangelo, v. Buonarroti Micheletto, don, 157n Michelozzi, Niccolò, 30 Micocci, Claudia, 46n Minturno, Antonio Sebastiani detto il, 141, 167-91, 195-97 Minuzio, Roberto, 86 Miscomini, Antonio, 119, 123, 137, 139, 187n Montefeltro, da, Federico, 106n Montefeltro, da, Guidubaldo, 106n, 147 Monti Sabia, Liliana, 202n Moretti, Walter, 133n Morone, Giovanni, 190 mot refrain, 61 Munro Pyle, Cinthia, 86n Mussini Sacchi, Maria Pia, 94n, 123n Naldi, Naldo, 89n, 102, 115, 119 Narciso Napoletano, 182n Nemesiano, Marco Aurelio Olimpio, 131 Niccoli, Sandra, 24n Niccolò da Pisa, 29, 30 Nicolò d’Arco, v. Arco Nicolò da Correggio, 123, 132, 137-39 Nuvolone, Filippo, 132 Obertello, Luca, 205n Olschki, Leo, 27 Orazio Flacco, Quinto, 131, 186-89, 194, 195 Orlandi, Guido, 97 Orlando, Saverio, 54 Ortalli, Gherardo, 159n Orvieto, Paolo, 94n, 100, 113n, 124n, 201n Osthoff, Wolfgang, 77n Ovidio Nasone, Publio, 131, 204n Pacini, Mariano, 161

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Indice analitico Pandolfi, v. Casio Panizza, Giorgio, 133n, 194n Pannartz, Arnold, 95, 202 Panormita, Antonio Beccadelli detto il, 159 Paolo III, papa, 161 Pardi, Giuseppe, 136n Parenti, Giovanni, 19n, 21n, 164n Pascucci, Giovanni, 132n, 205n Pastore Stocchi, Manlio, 73n, 120n, 123n Patrizi, Francesco, 189 Pazzi, de’, Alfonso, 158 Pedroia, Luciana, 135n Pernicone, Vincenzo, 89n Perosa, Alessandro, 58n, 86n, 132n, 201-6 Peruzzi, Lisca, 160 Petrarca, Francesco, 45, 66, 90, 93, 131, 140, 168, 172, 174n, 175, 181-83, 188-189 petrarchismo, 24n, 125, 131, 181-84 Petrocchi, Giorgio, 167n Pezzarossa, Fulvio, 82n Pico della Mirandola, Giovanni, 92-93, 124, 140 Picotti, Giovanni Battista, 85 Pieri, Marzia, 116n Piero della Francesca, 31 Pietrobono, Luigi, 187n Pighi, Giovanni Battista, 144n Pigli, de’, Giovanni, 24n Pignatelli, Ettore, 172 Pignatelli, Girolamo, 167, 185 Pinagli, Palmiro, 128n Pinci, Filippo, 186n Pindaro, 189 Pirrotta, Nino, 57n, 77n, 80, 81, 86n, 89n Pizzimenti, Federico, 170 Plutarco, 176n poesia comica, 40-42, 158-64 poesia dialogica, 23-24, 89, 114-15, 122 poesia e folklore, 64, 68-70, 85-88 poesia e pittura, 30-31, 159-61 poesia e rappresentazione scenica, 63, 75-78, 148 poesia funebre, 31-35, 143-51, 157-58, 202

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poesia per musica, 45, 58-59, 65-66, 77, 141 poesia religiosa, 183-85, 190, 198 poesia rusticale, 118-19 polimetro pastorale, v. egloga Poliziano, Angelo Ambrogini detto il, 53-58, 60-61, 63-69, 71-73, 75, 77-98, 105-7, 120-24, 127, 128, 201-6 Poliziano, Lattanzio, 86 Pontano, Giovanni, 158 Ponte, Giovanni, 109n, 127n, 130n, 133n, 143n Porcari, Francesco, 41 Porfirione, Pomponio, 186 postillati – Bibliothèque Nationale, Parigi Rés. g. Yc. 236, 95 Rés. S. 439, 86 Povoledo, Elena, 86n Pozzi, Giovanni, 31n, 33n, 38n, 41n, 127n, 135n Pranzelores, Antonio, 144n Prieto, Ángel L., 197n Probo, Marco Valerio, 95n Puccini, Davide, 54 Pulci, Antonia, v. Giannotti Pulci, Bernardo, 90, 114, 116-19, 121, 123, 125, 127, 137 Pulci, Luca, 89, 114-15, 118-23, 128, 139 Pulci, Luigi, 64, 69, 87n, 104-6, 113-14, 117n, 119, 123-25, 128, 138n, 139n, 163 Quaquarelli, Leonardo, 12, 27n quartina di endecasillabi, v. tetrastico Quondam, Amedeo, 167n, 169n, 178n, 190, 196n Raffaello Sanzio, 149 Raimondi, Ezio, 179n, 191n, 197n Rajna, Pio, 125n Ramous, Mario, 18n Rampazzetto, Francesco, 167n Ravello, Federico, 163n Razzi, Serafino, 77

Indice analitico Re, Caterina, 92n Renier, Rodolfo, 151 Resta, Gianvito, 116n Restelli, Mario, 36n, 40n retrogradatio cruciata, 18, 25-26 retrogradatio diretta, 23 Rhodes, Dennis E., 100n Riccadonna, Graziano, 144n Ricci, de’, Giuliano, 155, 157 Ricci, Piergiorgio, 170 ricostruzione di corrispondenze poetiche, 1921, 31-35, 126-27 Ridolfi, Roberto, 156, 157 Rimbaud, Arthur, 53 rime identiche, 25, 41-42 Rinaldi, Rinaldo, 206n Ripa, Luca, 140 risposta per le rime, 19-21 Roberto da Sanseverino, 125 Rochon, André, 113n Romano, Angelo, 161n Romei, Danilo, 159n Roncaglia, Aurelio, 26n Rossi, Aldo, 91n Rota, Berardino, 187, 197 Roverella, Filiaso, 31 Ruscelli, Girolamo, 167n, 185, 191 Sabbadini, Remigio, 203n Sacchetti, Franco, 61, 107 Sadoleto, Jacopo, 162 Salutati, Coluccio, 88 Salviani, Gaspare, 197n Sandal, Ennio, 119n, 139n Sandeo, Ludovico, 132 Sangirardi, Giuseppe, 143n Sannazaro, Jacopo, 45, 88, 123, 140n, 141, 171, 179n, 181, 190 Sanseverino, v. Roberto da Santagata, Marco, 22n, 24, 26n, 28n, 88n, 133n, 190n Santoro, Mario, 145 Sanudo, Alessandro, 43

Sanudo, Marin, 43 Sanuti, Nicolosa, 19, 20, 21 Sapegno, Natalino, 54, 72n, 89n, 133n Sarti, Alessandro, 97 Sartre, Jean Paul, 11 Saulnier, Verdun L., 175n Saviozzo, Simone Serdini detto il, 140 Savoia, di, Filiberta, 147 Savonarola, Girolamo, 107, 110 Sbordone, Francesco, 36n Scala, Bartolomeo, 117 Scarpati, Claudio, 190n Scève, Maurice, 175n Schetter, Willy, 203n Schweynheym, Konrad, 95, 202 Scorziati, Camillo, 184n Secchi Tarugi, Luisa, 96n Segre, Cesare, 87n, 142n, 143-44, 147 selva, 128, 206 Sereni, Vittorio, 53 Servio, 117 sestina, 23, 26 Severino da Ferrara, 33 Sforza, Alessandro, 22-24, 26 Shakespeare, William, 11 Shepard, Odell, 36n Shipley, Frederick W., 188n Signorelli, Luca, 122 Singleton, Charles, 87n, 107 Sirleto, Guglielmo, 190n Soderini, Piero, 155, 156, 157, 159, 164-66 Solerti, Angelo, 129 sonetto caudato, 40-41 Spagnoli, v. Mantovano Spanò Martinelli, Serena, 27n, 37n sperimentalismo metrico, 22-23, 25-26, 45-49, 88-89 Spilling, Herrad, 205n Spirito, Lorenzo, 26 Spongano, Raffaele, 18, 19n, 20n, 22 Squarcialupi, Antonio, 66 Stampa, Gaspara, 194n stanza di canzone isolata, 49

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Indice analitico Stazio, Publio Papinio, 206n Stella, Angelo, 89n, 130n Strazzulla, Vincenzo, 202n, 205n Strozzi, Giovan Battista, 75, 162, 163 Strozzi, Tito Vespasiano, 129-33, 136, 137 Suardi, Giovan Francesco, 28, 132, 138n Suitner, Franco, 159-60n Taccone, Baldassarre, 94 Tanaglia, Michelangelo, 127n, 128n Tandoi, Vincenzo, 205n Tansillo, Luigi, 179n, 197 Tanturli, Giuliano, 23, 94n, 181n Tarugi, Giovannangiola, 86n Tasso, Bernardo, 187, 197 Tasso, Torquato, 117n, 191, 194, 197 Tebaldeo, Antonio, 123, 132, 138-40, 142 tempus, 74 Teocrito, 94 Testa, Giovanni, detto Cillenio, 27-37, 39-41, 43, 132, 133n Testi, Flavio, 106n Terracina, Laura, 170n terza rima, v. capitolo ternario terzina lirica, 17-22, 24-26 tetrastico di endecasillabi, 155-63 Therault, Sophie, 169n Tibullo, Albio, 204n Tissoni Benvenuti, Antonia, 84n, 85, 89n, 92-94, 96-98, 123n, 130n, 132n, 133n, 138, 142n Tommasini, Oreste, 156 Tornabuoni, Lucrezia, 60n, 61, 80-84, 114 Torraca, Francesco, 125n Toscan, Jean, 64n Toscani, Bernard, 12, 84n Toschi, Paolo, 65n, 69, 87n travestimento pastorale, v. egloga travestimento spirituale, v. contrafactum Tribraco, Gaspare, 129, 131

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Trissino, Giovan Giorgio, 141 Ugolini, Baccio, 98 Ullman, Berthold Louis, 88n Ussia, Salvatore, 186n Varanini, Giorgio, 128n Varano, da, Giulio Cesare, 92 Varchi, Benedetto, 110, 158 Vargnano, Jacopo, 144 Varrone Atacino, 95 Vasari, Giorgio, 157, 158n Vela, Claudio, 133n, 194n Velli, Giuseppe, 131, 140n Vellutello, Alessandro, 188 Ventrone, Paola, 84n, 85n, 102n Venturini, Giuseppe, 129n, 131n Verde, Armando F., 116 Verrocchio, del, Andrea, 127 Verzone, Carlo, 158n Vespucci, Marco, 78, 96, 98 Vicari, Patricia, 87n, 96n Villari, Pasquale, 155n, 156 Villari, Susanna, 116n Virgilio Marone, Publio, 90, 116n, 117, 13032, 140, 183, 204n Vitali, Giacomo, 40 Vitalini, Mirella, 85n Volpi, Guglielmo, 60 Warden, John, 88n Weinberg, Bernard, 187n Welber, Mariano, 144n, 150n Wind, Edgar, 88n Zabughin, Vladimiro, 117 Zanato, Tiziano, 47, 48n, 100n, 102n, 127n Zerbi, Luigi, 38 Zoppo, Marco, 31