Grande antologia filosofica Marzorati. Il pensiero contemporaneo [Vol. 22]

Il pensiero contemporaneo. Parte prima - bibliografia generale sul pensiero contemporaneo - il neocriticismo - l'id

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Grande antologia filosofica Marzorati. Il pensiero contemporaneo [Vol. 22]

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GRANDE

ANTOLOGIA

FILOSOFICA diretta da MICHELE FEDERICO SCIACCA coordinata da MARIA A. RASCHINI e PIER PAOLO OTTONELLO

MARZORATI · EDITORE · MILANO

Proprietà letteraria riservata ©

Copyright 1975 by Marzorati editore, Milano CL 23-0174-1

IL PENSIERO CONTEMPORANEO (Sezione Prima)

V o lume Ventiduesimo

INDICE

Presentazione

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XI

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PIER PAOLO 0TTONELLO

Bibliografia critica generale per la storia del pensiero contemporaneo I. Bibliografie. - Il. Enciclopedie e dizionari. - III. Periodici. IV. Atti dei Congressi Internazionali di Filosofia. V. Collane. VI. Storie generali della filosofia : l. Opere di carattere generale sulla filosofia contemporanea. 2. Filosofia italiana. 3. Filosofia tedesca . .f. Filosofia francese S. Filosofia spagnola 6. Filosofia inglese. 7. Filosofia americana . 8. Filosofia russa. 9. Filosofia sudamericana. VII. Storie per problemi e correnti : A : l. Logica. 2. Scienze. 3. Religione. 4. Etica S. Estetica . 6. Pedagogia. 7. Psicologia . 8. Politica . 9. Diritto. 10. Economia . 11. Sociologia. - B : 12. Idea­ lismo e storicismo. 13. Materialismo, socialismo e marxismo. 14. Positivismo e neopositivismo 1 S. Anarchismo e irrazionalismo 16. Pragmatismo. 17. Fenomenologia 1 8. Esistenzialismo . 19. Neo­ scol!lstica e spiritualismo. -

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.ANTIMO NEGRI

Il neocriticismo INTRODUZIONE l. Definizione dell'ambito della ricerca . 2. Il neo­ criticismo in Germania : a) Il « ritorno a Kant » (0. Liebmann, E. Zeller ecc.};· b) L'interpretazione fisiologica del kantismo {H. Hel: mholtz, A. Riehl ecc..) ; c) Il criticismo tra antimaterialismo e spiri­ tualismo (F. A. Lange, R. H. Lotze, E. Spir) ; d) La Scuola di Marburgo (H. Cohen, P. Natorp, E. Cassirer ecc.) ; e) La Scuola di Baden e la filosofia dei valori (W. Windelband, 'H. Rickert ecc.); /) Altre figure ed altre interpretazioni (Th. Lipps, B. Bauch, F. Paulsen, A. Liebert, A. Giirland, J. Cohn, ecc.). 3) II neocriticismo in Inghilterra : S. H. Hodgson, R. Adamson, G. D. Hocks 4. Il neocriticismo in Francia: Ch. Renouvier S. Il neocriticismo in Italia. 6. Conclusione. .

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Bibliografia essenziale.

TESTI l. Definizione dell'ambito della ricerca (0. Liebmann). 2. Il neocriticismo in Germania: a) Il « ritorno a Kant » (E. Zeller); b) L'interpretazione fisiologica del kantismo (H. Helmholtz) ; c) Il .

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Indice

VIII

kantismo tr11 antimaterialismo e spiritualismo (F. A. Lange, E. Lotze, A. Spir) ; d) La Scuola di Marburgo (H. Cohen, P. Natorp, E. Cassirer); e) La Scuola di Baden e la filosofia dei valori (W. Windelband, H. Rickert); f) Altre figure ed altre interpretazioni (Th. Lipps, B. Bauch). - 3) Il neocriticismo in Inghilterra : S. H. Hodgson, R. Adamson, G. D. Hicks. 4. Il neocriticismo in Francia : Ch. Renouvier. . 5. Il neocri­ ticismo in Italia : C. Cantoni, F. Masci, F. Tocco 6. Conclusione (E. Cassirer) . •

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.A,NTIMO NEGRI L'idealismo tedesco dopo Hegel

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INTRODUZIONE l. Definizione dell'ambito della ricerca. 2. Il teismo speculativo e lo spiritualismo : I. H. Fichte, J. U. Wirth, C. H. Weisse, K. Ph. Fischer, H. Ulrici, M. Carrière, J. W. Hanne ecc 3. La «filosofia dell'immanenza '1'1 di W. Schuppe 6. Il neohegelismo tedesco : Th. Hiiring, R. Kxoner, H. Glockner ecc; 7. Etica ed estetica posthegeliana: K. Kiistlin; F..Th. Vischer ecc. . 8. L'idealismo tedesco e la filosofia russa : P. J. ,Caadaev, N. V. Stankevic, V. G. Belinskij ecc. 9. Idealisti e no : E. Kiihneman, H. Barth, K. Biihm, H. J. Pos ecc. . 10. Conclusione. Bibliografia essenziale. TESTI . l. Dopo Hegel e Schelling. . 2. Il teismo speculativo e lo spiritualismo : La prospettiva filosofica dopo Hegel (J. H. Fichte).; Spi. ritualismo e materialismo (H; Ulrici) 3. E. v. Hartmann. - �- R. Eucken . . 5. W. Schuppe. - 6. Il neohegelismo tedesco : L'oggetto della storia (Th. Hiiring); Storicità e storia della filosofia (H. Glockner). 7. Etica ed estetica posthegeliana : Dimostrazione della necessità della filosofia pratica o deduzione di essa (K. Kiistlin); La bellezza umana (F. Th. Vischer) . .. 8. L'idealismo tedesco e la filosofia russa : Lettera a Schelling (P. J. Caadaev); Dell'«universale » e del «particolare » nel. l'arte (V. G. Belinskij) 9. Idealisti e no 10. Nel centenario della morte di Hegel. •

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MARIA A. R.AscHINI L'idealismo anglo-americano, francese e italiano INTRODUZIONE . I. Caratteri generali del neoidealismo. - II. L'idea­ lismo anglo-americano : l. Gli antefatti romantici dell'idealismo anglo-.

americano. 2. Idealismo e neoidealismo inglese. 3. Idealismo e neoidealismo nordamericano. - III. L'idealismo francese. - IV. Idea. lismo e neoidealismo italiano: l. L'ambiente storico 2. Il primo idealismo. - 3. Il neoidealismo. - Bibliografia essenziale. TESTI I. L'idealismo anglo-americano : l. T. H. Green 2. E. Caird . . 3. F. H. Bradley. . 4. B. Bosanquet. 5. J. E. McTaggart. 6. K. R. Sorley . 7. J. S. Mackenzie. 8. J. B. Baillie . . 9. A. S. Plingle­ Pattison . . 10. R. G. Collingwood 11. R. W. Emerson. 12. J. Royce. . 13. M. W. Calkins. 14. W. E. Hocking. - Il. L'idealismo francese: l. F. Ravaisson . . 2. J. Lachelier. . 3. O. Hamelin. 4. L. Brunschvicg. 5. D. Parodi.- III. L'idealismo italiano : l. A. Vera . . 2. B. Spaventa . . 7 . G. 3. D. Jaja. 4. S. Maturi . . 5. B. Varisco . . 6. P. Martinetti Gentile. . 8. B. Croce. . 9. P. Carabellese . . 10. G. Chiavacci . . 11. L. Scaravelli. 12. G. Galli 13. U. Spirito. •



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Indice

IX

ARMANDO PLEBE Lo storicismo tedesco e spagnolo

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INTRODUZIONE - I. W1LHELM DILTHEY l. Origini e sviluppo del pensiero di Dilthey . - 2 . . La filosofia dell'« Erlebnis » e le scienze dello spirito. - II. GEORG SIMMEL. - l. Il problema delle categorie storiche. - 2. La filosofia della vita. - III. MAX WEBER l. La teoria dei « tipi ideali )) 2. Le teorie del « condizionamento reciproco » e del lavoro intellettuale come « professione ». - IV. OswALD SPENGLER. . l. « Cultura J1 e « civilizzazione ». 2. Destino e relatività della storia. - V. EaNST TROELTSCH E FRIEDRICH MEINECKE l. Lo stori­ cismo teologico di Ernst Troeltsch. - 2. Individualismo e ragion di stato nello storicismo di Friedrich Meinecke. - JosÉ 0RTEGA Y GAsSET. l. Il metodo delle generazioni » 2. Ragion vitale e ragione storica. - Bibliografia essenziale. TESTI - WILHELM DILTHEY. l. Scienze dello spirito e scienze della natura 2. La funzione della filosofia. - 3. La vita e le scienze dello spirito. - 4!. La «comprensione storica J). - II. Gmac SIMMEL. L La natura della filosofia. - 2. La monade e la vita. - III. MAX WEBER . . 1. La scienza sociale 2. Possibilità e causazione nella storia 3. La « avalutatività sociologi�a ». - IV. OsWALD SPENGLER. - l. La morfo­ logia dellà storia universale. - 2. N atura e storia. 3. TI destino. 4. Le relazioni tra le civiltà. - V. EaNST TROELTSCH E FRIEDRICH MEINECKE. - l. Gli effetti sociali della religione 2. Il problema socio. logico del prolest;mtesimo. - 3. Il protestantesimo nella storia univer­ sale. 4'. Il condizionamento sociale del dogma 5. L'essenza della ragion di stato. 6. Il compito odierno dell'uomo di stato. - VI. JosÉ 0RTEGA y GASSET.-. l. Il fenomeno dell'agglomeramento. � 2. Vita nobile e volgare, o forza e inerzia 3. Il potere sociale 4. L'inter­ pretazione bellica della storia. .



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PRESENTAZIONE l quattro anni che sono stati necessari affinché uscissero questi sei volumi che costituiscono la Parte Sesta della Grande Antologia Filosofica, dedicata a « Il pensiero contemporaneo » dalla seconda metà dell'800 fino ai giorni nostri, sono stati purtroppo anche gli anni estremi di Michele Federico Sciacca, alla cui operosità tanto feconda e generosa tutto deve anche il oompimento di quest'opera - questi sei volumi Egli vide quasi per intero in bozze - da Lui diretta per un quindicennio.

Particolarmente complessi, come ovvio, i problemi che si sono dovuti risolvere per offrire del pensiero contemporaneo un panorama il piu possibile organico, obiettivo, completo e aggiornato, sia per quanto riguarda i testi degli autori antologizzati (oltre cinquecento autori), sia per quanto riguard� le introduzioni critiche e le notizie bibliografiche. A differenza di buona parte dei volumi precedenti, il criterio conduttore dell'organizzazione di tanto multiforme materiale è coinciso con l'individuazione delle principali « correnti» e « pro­ blemi » del pensiero occidentale dall'800 ad oggi. La materia è coor­ dinata e distribuita in ventotto sezioni monografiche (oltre all'intro­ duzione bibliografica generale), di cui soltanto una dedicata ad un solo filosofo, Nie-tzsche. Ringraziando i Collaboratori che' hanno voluto contribuire alla realizzazione di quest'opera, unica nel suo genere, ci auguriamo che il suo destino possa essere non del tutto inadeguato rispetto a quello che se ne riproponeva Miclwle Federico Sciacca.

MARIA A. RASCHINI PIER pAOLO ÙTTONELLO

PIER PAOLO OTTONELLO

Bibliografia critica generale per la storia del pensiero contemporaneo S OMM A R I O I. Bibliografie. - I I. Enciclopedie e dizionari. - III. Periodici. - IV. Atti dei Congressi Internazionali di Filosofia. - V. Collane. - VI. Storie generali della filosofia : l. Opere di carattere. generale sulla filosofia contemporanea . . 2. Filosofia italiana 3. Filosofia tedesca. 4. Filosofia francese. 5. Filosofia spagnola. 6. Filosofia in­ glese. . 7. Filosofia americana 8. Filosofia russa 9. Filosofia sudamericana. VII. Storie per problemi e correnti: A : l. Logica. 2. Scienze. 3. Religione. 4. Etica 5. Estetica . . 6. Pedagogia 7. Psicologia 8. Politica 9. Diritto. 10. Economia 11. Sociologia. - B : 12. Idealismo e storicismo. 13. Materialismo, socialismo e marxismo . . 14. Positivismo e neopositivismo 15. Anarchismo e irra­ zionalismo 16. Pragmatismo . 17. Fenomenologia. 18. Esistenzialismo . . 19. Neo­ scolastica e spiritualismo. .



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La sterminat a ampiezza della bibliografia riguardante il pensiero con­ temporaneo induce qui ad affidare in buona parte alla selezione, nonché al­ l'ordinamento sistematico del materiale, l'aspetto critico della presente bi­ bliografia ; la quale, inoltre, prende in considerazione solo opere di interesse storiografico, in continuità con le « bibliografie critiche generali » relative alle precedenti Parti di questa « Grande Antologia Filosofica » ( cfr. i vo� lumi l, III, VI, XII e XVII) e in concomitanza con le >. - Al 1893 risale pure la fon­ dazione della Rivista internazionale di scienze sociali, dovuta a G. Toniolo e pubblicata a Roma sotto gli auspici dell' Unione cattolica per gli studi so­ ciali in Italia ; dal l927 è edita a cura dell' Università Cattolica di Milano. -Il Mercier nel 1894 fondò la Revue philosophique de Louvain, pubblicata dalla « Société philosophique de Louvain ». Il Vaihinger nel 1 896 fondò ad Am­ burgo Ka.ntstudien, che dal 195 4 si pubblica a Colonia. Tra le riviste dai primi del '900 ad oggi, La Critica, fondata nel 1903 dal Croce e cui collaborarono il Gentile ( per un quindicennio), A. Omodeo, G. De Ruggiero, F. Nicolini, C. Antoni, e che durò fino al dicembre del '44 (dal '45 al '51 usci come Quaderni della Critica), resta fondamentale per la cul­ tura italiana della prima metà del secolo. Organo del positivismo ardigoiano, la Rivista di Filosofia, Pedagogia e di Scienze affini , fondata e diretta nel 1 90 0 da G. Marchesini, dal 1902 al 1 908 usci col titolo Rivista di Filosofia e di Scienze affini. - Antipositivista e pragmatista il Leonardo di G. Pa­ pini e G. Prezzolini, uscito tra il 1903 e il 190 7 ; il Papini con G, Amendola diede vita nel 19l l a L'A nima, che però cessò la pubblicazione nello stes­ so anno ( buone scelte antologiche dalle riviste Leonarrk, Hermes, Il Regno, La Yoce e Lacerba sono state raccolte nei voli. l, III e IV della serie La cultura italiana del 900 attraverso le riviste, Torino, 196 0- 61, rispettivamente a cura di D. Frigessi, A. Romanò e G. Scalia). Fondato nel 1904 da F. J. E. Woodbridge e W. T. Bush, il ]ournal of Philosophy, pubbli­ cato presso la Columbia University di Nuova York, resta tra le piu note ri· viste americane. - La Rivista Rosminiana di filosofia e cultura, fondata nel 1906 a Lodi da G. Morando, dal 1967 è diretta da M. F. Sciacca come organo del >. - Organo dell'« Association for Symbolic Logic >> è invece The ]ournal of Symbolic Logic, fondata nel 1936 a Menasha nel Visconsin. - Fon­ damentale per il neopositivismo la Encyclopedia of Unified Science, proget­ tata da O. Neurath e che usci a Chicago dal 1938, dal '49 come organo del­ l'« Institute for the Unity of Science >> di Boston. - In prosecuzione ideale con gli ]ahrbuch fur Philosophie und phiinomenologische Forschung di Husserl nasce nel l940 la rivista Philosophy and Phenomenological Research, ora pub­ blicata a Buffalo come organo della « International Phenomenological So­ ciety >>. Breve ma intensa vita tra il '40 e il '49 ebbero gli Studi Filosofici, rivista trimestrale di filosofia contemporanea, diretta da A. Banfi (ora rist. fot. a Bologna nel 1972, con prefazione di E. Garin). - Nel 1941 è stato fondato il ]ournal of Aesthetics and Art Criticism, organo della « American Society of Aesthetics >>, e che esce ora a Baltimora, diretto da H. M. Schueller. - Dal 1942 la Revista de Filosofia si pubblica a Madrid a cura dell'« lnstituto de Filosofia Luis Vives >> del Consejo Superior de lnvestigaciones Cientificas. Dall'anno dopo e a cura del medesimo Consejo Superior, esce a Madrid la Revista de ideas estética-s. - Dal 1943 gli ]ahrbuch fur Aesthetik und allge­ meine Kunstwissenschaft, diretti da H. Liitzeler, continuano il cessato Zeit­ schrift filr Aesthetik und allgemeine Kunstwissenschaft, riassumendo dal '66 il vecchio titolo. - Dal 1945 i Gesuiti spagnoli pubblicano Pensamiento. - Dal 1945 esce a Lisbona, trasferitasi dall'anno dopo a Braga, la Revista portu­ guesa de filosofia, organo della facoltà- di filosofia dei Gesuiti di Braga. -

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Bibliografia critica generale

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Subito dopo la guerra, nel 1946, M. F. Sciacca fonda a Pavia il Giornale di Metafisica, proseguendolo dal '48 a Genova, dalla fondazione edito a To­ rino ; coerentemente e fedelmente ispirato dalla fondazione ad un ripensa­ mento di Platone Agostino Rosmini nonché di · Gentile, e ricco di ricerche teoretiche e storiche, vi hanno collaborato e vi collaborano, oltre alle figure piti insigni dello spiritualismo contemporaneo, come Blondel, Le Senne, La­ velle, Stefanini, protagonisti della cultura filosofica mondiale come Marcel, Maritain, Jolivet, Aliotta, von Balthasar, Perelman, Nédoncelle, Gonzalez Alvarez, Muii.oz Alonso, Moreau e Forest. Al 1 946 risale la fondazione della Rivista critica di storia della filosofia, che esce a Milano, diretta da M. Dal Pra, con tale titolo dal '50, mutato quello originario di Rivista storica della filosofia. · Nello stesso anno nasce il Zeitschrift fiir philosophische Forschung, che esce a Meisenheim/Glan, diretta da G. Schischoff. · Una grande aper­ tura di indirizzi caratterizza le Études Philosophiques, rivista uscita dal 1946 in una nuova serie diretta ·da G. Berger. Dal 1 946 esce a Messin� 'reo­ resi, diretta da V. La Via.· Fondato da J. Cohn e R. Honigswald nel 1947, I'Archiv fiir Philosophie è ora diretto da J. von Kepski. · Interessi epistemolo­ gici caratterizzano la rivista Dialectica, fondata nel 1947 a Zurigo da F. Gon· seth e da lui diretta. Dal 194S esce la Revue cfesthétique, fondata da Ch. Lalo, E. Souriau e R. Baier e pubblicata dalla « Société Française d' Esthé­ tique. Dallo stesso anno esce la Rassegna di Scienze Filosofiche, diret­ ta da N. Petruzzellis. Dal 1950 la « British Society for the History of Science » , cura la pubblicazione di The British ]ournal for the Philosophy of Science. Dallo stesso anno A. Guzzo dirige Filosofia, edita a Torino . . Dal 195 1 esce a Roma la Nuova Rivista Pedagogica, diretta da N. Sammar­ tano. Dal 1952 esce a Roma la Rassegna di Filosofia, fondata e ·diretta da C. Antoni, B. Nardi e U. Spirito . . Dal 1953 si pubblica a Tubinga Phi­ losophische Rundschau. Eine Vierteljahresschrift fiir philosophische Kri­ tik, diretta da H. G. Gadamer e H. Kuhn. · Fondata e diretta da A. Muiioz Alonso nel 1954, esce a Madrid Crisis. Revista Espafiola de Filosofia. Dal 1955, diretto da E. Rothacker, esce I'Archiv fiir begriffgeschichte, a cura della commissione per la filosofia dell'Accademia di scienze e lettere di Ma­ gonza. · Fondata nel 1956 dallo Stefanini, dalla sua morte, nello stesso anno, la Rivista di Estetica esce a Torino diretta da L. Pareyson. · Dal 1956 L. Lu­ garini dirige la rivista Il Pensiero R. H. Popkin dirige il ]ournal of the History of Philosophy, che esce dal '63 a cura della Stanford University e della University of California. Tra le riviste di fondazione piti recente e interessanti discipline particolarmente sviluppate in questi ultimi anni, sono da citare Kybernetics, che esce a Berlino dal 1964, Cultural Hermeneutics. An lnternational ]ournal for the philosophical lnterpretation of the Special Lan­ guages of the Human Sciences, pubblicato a Dordrecht dal 1972 e Cirpho, di informatica e filosofia, pubblicato dal 1973 a Montréal. ·





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IV. ATTI DEI CONGRESSI INTERNAZIONALI DI FILOSOFIA . Dal 1900 ad oggi sono usciti i seguenti Atti dei 14 Congressi Internazio­ nali di Filosofia : Bibliothèque du Congrès international de Philosophie, Pa­ rigi, 1900, 4 voli. ; Rapports et comptes rendus, Congrès lnternational de Phi­ losophie, Il' session, tenue a Genève du 4 au 8 septembre 1904, a cura di E. Claparède, Ginevra, 1905 ; Bericht iiber den III. lnternationalen Kongress fiir Philosophie zu Heidelberg, l. bis 5. September 1908, a cura di Th.

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PIER PAOLO OTTONELLO

E1senhans, Heidelberg, 1909 ; A tti del IV Congresso Internazionale di Filo­ sofia, Bologna, 1911, 3 voll. ; A tti del V Congresso· Internazionale di Filo­ sofia, Napoli, 5-9 maggio 1924, a cura di G. De.lla Valle, Napoli, 1925 ( gli Atti dei primi cinque Congressi sono stati ristampati in ed. fot. a Mendeln T�ichtenstein nel 1968) ; Proceedings of the sixth international Congress oJ Philosophy, Harvard University, Cambridge, Massachùssetts, September 131 7, 1 926, a cura di E. S. Brightman, Nuova York, 1927; Proceedings of the 7th lnternational Congress of Philosophy held at Oxford, England, Septem­ ber 1 -6, 1 930, a cura di G. Ryle, Londra, 1931 ; Actes du VIII' Congrès lnter­ national de Philosophie à Prague, 2-7 September 1934, a cura di Z. Smeta­ cek, Praga, 1936 ; Congrès Descartes. Travaux du IX' Congrès lnternational de Philosophie, a cura di R. Bayer, Parigi, 1937, 12 voll. ; Bibliothèque du X' Congrès lnternational de Philosophie, Library of the Xth lnternational Congress of Philosophy (tenuto ad Amsterdam nel 1948), a cura di E. W. Beth, H. J. Pos, J. H. A. Pollak, Amsterdam, 1949, 2 voli. ; Actes du XJe Congrès lnternational de Philosophie, Proceedings of the Xlth lnter­ national Congress of Philosophy, Bruxelles 20-26 aout 1 953, Amsterdam­ Lovanio, 1953, 14 voli. ; A tti del XII Congresso Internazionale di Filosofia ( Venezia 1958), Firenze, 19'6 1, 12 voli. ; XIII Congreso Internacional de Filosofia, Città del Messico, 1963, 5 voli. ; Akten des XIV. lnternationalen Kongresses fiir Philosophie, Wien, 2.-9. September 1968, a cura di L. Ga­ briel, Vienna, 1969-71, 6 voli. v. COLLANE

Delle collane filosofiche si segnalano qui solo quelle caratterizzate da una configurazione determinata ( con preferenza a quelle piu note e diffu­ se) e che pubblicano testi e saggi critici originali con particolare atten­ zione alla storia del pensiero dalla metà del1'800 ad oggi. Fra le collane italiane di testi spiccano per rigore di impostazione, per l'alto livello storico-critico, per ampiezza di concezione, nonché per l'ot­ tima presentazione editoriale, quelle della UTET di Torino. La collana dei « Classici di filosofia », diretta da N. Abbagnano, contiene, limitatamente all'area storica qui presa in considerazione, la traduzione, a cura di P. Chiodi, di Essere e tempo e de L'essenza del fondamento di HEIDEGGER ( 1969) e le due ampie raccolte antologiche dedicate a Il neoempirismo, a cura di A. Pasquinelli ( 1969), e a Il pragmatismo, a cura di A. Santucci ( 1970). Dei « Classici della sociologia », diretta da F. Ferrarotti, si segna· lano : PARETO, Scritti sociologici, a cura di G. Busino ( 1966); CoMTE, Corso di filosofia positiva, a cura di F. Ferrarotti, in 2 voli. ( 19 67); SPENCER, Prin­ cipi di sociologia, a cura dello stesso, in 2 voli. ( 1967); SoMBART, Il capita­ lismo moderno, a cura di A. Cavalli ( 1967); von WrnsE, Sistema di socio­ logia generale, a cura di M. Digilio ( 1968); VEBLEN, Opere, a cura di F. De Domenico e F. Ferrarotti ( 1969); DURKHEIM, Il suicidio; l'educazione morale, a cura di M. J . Tosi e L. Cavalli (1970); GEIGER, Saggi sulla socio­ logia industriale, a cura di P. Farneti ( 1970). Dei « Classici della politica », collana diretta da L. Firpo, si segnalano : von HALLER, La restaurazione della scienza politica, a cura di M. Sancipriano, vol. I ( 1963) ; SoREL, Scritti politici, a cura di R. Vivarelli ( 1963, 197F) ; LAMENNAIS, Scritti politici, a cura di D. Novacco ( 1964 ) ; TocQUEVILLE, Scritti politici, a cura di N. Mat-

Bibliografia critica generale

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teucci, 2 voli. ( 1968-69); Gli anarchici, a cura di G. M. Bravo ( 1971) ; MAZ· ZINI, Scritti politici, a cura di T. Grandi e A. Comha ( 1972) ; FERRARI, Scritti politici, a cura di S. Rota Ghibaudi ( 1973). Dei « Classici dell' eco­ nomia», diretta da G. di Nardi, si segnalano : KEYNES, Teoria generale del­ ( 1971); PARETO, Corso di economia politica, a cura di G. Bussino e G. Pa1omha (1972) ; MARSHALL, Principi di economia, a cura di A. Campolongo ( 1972). La Utet ha in corso inoltre una collana di > (L'Aia, Nijhoff) nel 1974 ha raggiunto 70 volumi. La collana di maggior rilievo edita da Hain di Meisenheim qui da se­ gnalare è quella di cc Monographien zur philosophischen Forschung >>, di­ retta da G. Schisckoff, che dal 1947 ad oggi ha pubblicato una ottantina di saggi. Klostermann di Francoforte pubblica da un ventennio la collana di cc Philosophische Abhandlungen >> , ricca di oltre 30 saggi e, dal 1965 (con circa un volume all'anno) la collana >, diretta da R. Berlinger. - Di grande importanza per la fenome­ nologia contemporanea la collana cc Phaenomenologica », che si affianca alla collezione cc Husserliana » delle opere edite e inedite di Husserl, en­ trambe a cura delle cc Archives-Husserl >> di Lovanio, dirette fino alla morte ( 1974) da H. Van Breda, ed edite da Nijhoff de L'Aia. - La >, diretta da A. Gonzalez Alvarez, conta oltre 80 volmni, per la maggior parte traduzioni dei piti significativi testi contem­ poranei. Intenti di seria divulgazione caratterizzano la sezione > della menzionata cc SUP >> (Presses Universitaires de France), che conta oltre 60 agili profili di filosofi; la collana >, di­ retta da A. Rohinet per la Seghers di Parigi, che conta oltre 70 svelte pre­ sentazioni di filosofi attraverso i testi, agilmente intro dotti ; e infine le for­ tunatissime cc Rowohlts Monographien >> (Amburgo, Rowohlt), dirette da K. Kusenherg. -

Bibliografia critica generale

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VI. STORIE GENERALI DEU..A FILOSOFIA l. Opere di carattere generale sulla filosofia contemporanea

Fra le opere generali e piu recenti sul pensiero contemporaneo, i sei volumi de Les grands courants de la pensée mondiale contemporaine ( Mi­ lano, 1958-64 ; in preparazione un'edizione aggiornata), diretti da M. F. Sciacca, si distinguono in quanto ne abbracciano tutti gli aspetti, con inten­ to sia orientativo che di alta divulgazione, con rigore di metodo scienti­ fico che insieme non ne attenua l'accessibilità alla massa dei lettori colti. L'opera offre sintesi panoramiche senza cadere nella genericità ; nella ampia articolazione dei sei grossi volumi nòn cede al pericolo del fram­ mentarismo, insieme tenendo conto delle situazioni concrete di nascita e sviluppo di ogni pensiero. Di qui la sua ripartizione, oltre che per ten­ denze principali, anche per panoramiche nazionali, che manifestano le mo­ dalità in cui l'universalità della cultura sussiste presso ciascun popolo, e la sua caratterizzazione nei « ritratti » o profili dei suoi maggiori espo­ nenti. Ne nasce una diretta possibilità di confronto fra le diverse nazioni e i diversi pensatori, senza astratte riduzioni a denominatori comuni che ne livellino le peculiarità. Nell'insieme l'opera risponde all'intento di apri­ re ciascuna cultura nazionale - e anche continentale - alle altre e diverse forme di cultura, secondo un libero e fecondo scambio di idee. Anche per­ ciò il direttore dell'opera ha voluto avvalersi di una collaborazione mon­ diale di specialisti ed ha voluto anche abbracciare culture meno note o piu lontane non solo in senso geografico. In ciò l'opera costituisce il primo tentativo, e assai ben riuscito, del genere. - La materia dell'opera è cosi ri­ partita. La prima sezione, Panoramas natiònaux, è in due volumi ( 1958-59); vol. 1: M. F. SciACCA, Présentation ; J. v. RINTELEN, Allemagne ; F. RoMERO· J. L. RoMERO, Amérique latine ; A. C. EwiNG, Angleterre et Dominions ( Grande-Bretagne) ; J. GERARD, Belgique et Luxembourg ; I.-V. SARAILIEFF, Hulgarie ; P. M. D'ELIA, Chine ; A. MuNoz ALoNso, Espagne ; A. NYMAN, Etates scandinaves ; J. A. MoURANT, États-Unis d'Amérique et Canada ; R. KAUPPI, Finlande ; J. CHAix-RuY, France ; vol. II : G. MouRÉLOS, Grèce ; B. DELFGAAUW, llollande; E. VARADY-A. FA.J, Hongrie; A. de MENDONçA, Inde; A. CARLINI, Italia ; SEIZO 0HE, ]apon ; N. BALADI, Le monde Arabe ; W. Eao­ ROWICZ, Pologne ; L. CRAVEIRO DE SILVA, Portugal ; V. HoRIA Roumanie ; P. PASCAL, Russie (U.R.S.S.) ; P. CHRISTOFF, Suisse ; L. RIEGER, Tchécoslova­ quie; Z. FAHRI FINDIKOGLU, Turquie ; D. KUREPA-V. FILIPOVIC, Yougoslavie. - La seconda serie, Les tendances principales, in due volumi ( 1961), con­ tiene : il vol. I : F. ScHNEIDER, Développement et évolution du néo-criticisme ; G. KENNEDY, Le pragmatisme ; H. DuMÉRY, Le modernisme ; A. Guzzo­ V. MATHIEU, L'idéalisme transcendental; O. F. BoLLNOW, La philosophie de la vie à l'époque moderne ; H. KuHN, L'irrationalisme et les tendaces scep­ tiques; H. L. van BREDA-E. PACI, La phénoménologie; A. DE WAELHENS, L'existentialisme ; G. GusDORF, La philosophie des valeur ; H. LEFEBVRE, Le matérialisme dialectique ; L. DE RAEYMAEKER, Le courant de pensée thomi­ ste ; R. JoLIVET, Le courant néo-augustinien ; il vol. Il : V. KRAFT, Dévelop­ pement et évolution du positivisme ; P. K. FEYERABEND, Méthodologie; In., Philosophie de la nature ; R. CAPONIGRI, Le néo-réalisme et le réalisme cri­ tique dans la philosophie américaine ; C. PARIS, Le problème de la science ; E. W. BETH, Logique symbolique et philosophie des mathématiques ; R. SA· ,

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vmz, Les tendances educatives ; G. ZUNINI, Les tendances psychologiques ; G. MoRPURGO-TAGLIABUE, Les tendances esthétiques ; G. PERTICONE, Les grands courants de la pensée juridique ; J. J. CHEVALIER, Les tendances politiques ; A. DEMPF, Les tendances sociales du temps présent; L. BuQUET, Les ten­ dances économiques. La terza serie, di Portraits, anch'essa in due volumi ( 1964), contiene : il vol. 1 : M. GoNZALO CASAS, C. Alberini ; E. PAci, S. Ale­ xander ; G. CASALIS, K. Barth ; J. CHAIX-RuY, N. Berdiaeff; J. CHEVALIER, H. Bergson ; H. DuMÉRY, M. Blondel ; A. C. EWING, F. H. Bradley ; M. DE­ SCHOUX, L. Brunschvicg ; T. MoRETTI CosTANZI, P. Carabellese ; V. SAINATI, A. Carlini ; A. R. CAPONIGRI, R. Carnap ; W. KRAMER, E. Cassirer ; P. Ro­ STENNE, L. Chestov ; C. CARBONARA, B. Croce ; M. Guozzi; L. De. Broglie ; J. A. MouRANT, ]. Dewey ; C. PARIS, A. Einstein; A. STOCKER, S. Freud ; O. BRIÈRE, Fung-Yu-lan ; A. DE MENDONçA, Le Mahatma Gandhi ; M. F. SciAc­ CA, G. Gentile ; H. KuHN, R. Guardini ; L. LUGARINI, N. Hartmann ; J. F. von RINTELEN, M. Heidegger ; F. SELVAGGI, W. Heisenberg ; R. Pucci,,E. Hus­ serl ; J. HERSCH, K. ]aspers ; il vol. Il : F. RoMERO, L. Lavelle ; P. PAsCAL, W. I. Lenin ; J. CHAIX-RUY, E. Le Roy ; A. FoREST, R. Le Senne ; l. MÉszA.­ ROS, G. Lukacs ; R. TROISFONTAINES, G. Marcel ; G. lsAYE, ]. Maréchal; J . LECOMBE, ]. Maritain ; M . F . SciACCA, P . Martinetti ; L . DE RAEYMAEKER, Le card. Mercier ; F. BARONE, G. E. Moore ; M. KosAKA, K. Nishida ; A. Mu­ :Noz ALoNso, ]. Ortega y Gasset'; L. BUQUET, V. Pareto; N. BALADI, Mou­ stapha' Abd El-Razek; J. O. DRMSON, B. Russell ; R. CAPONIGRI, G. Santa­ yana ; P. MESNARD, L'idéologie de ].-P. Sartre ; E. HoLZEN, M. Scheler ; R. JoLIVET-G. RoGGERONE, M. F. Sciacca ; A. HILCKMAN, O. Spengler ; A. Mu­ :Noz ALONSO, M. de Unamuno ; A. B. F. del VALLE, ]. Vasconcelos ; E. PAci, A. N. Whitehead ; D. CAMPANALE, L. Wittgenstein. Carattere panoramico ha l'opera Philosophy in the Mid Century, a cura di R. Klibansky (Firenze, 1959-61, 4 voli.). Essa continua la serie di cro­ niques o referti annuali iniziati nel 1938 per conto dell' « lnternational ln­ -

stitute of Philosophy ». La presente serie si riferisce alle annate 1949-1955 ed è uscita in occasione del XII Congresso Internazionale di ' Filosofia di Venezia. Scopo dell'opera è riferire sui problemi che sono · stati al centro dell'interesse filosofico nel decennio indicato. Il materiale è cosi distri­ buito nei quattro volumi : l. Logica e filosofia delle scienze ; Il. Metafisica e analisi ; III. Filosofia del va-lore, della storia e della religione ; IV. Storia della filosofia dall'antichità ai nostri giorni ; Filosofia contemporanea nel­ l'Europa orientale e in Asia. Il Klibansky ha continuato tale opera cu­ rando altri quattro volumi di Contemporary Philosophy ( La philosophie con­ temporaine) (Firenze, 1968-71), che hanno lo scopo di sottoporre all'at­ tenzione quei problemi che sono stati al centro dell'interesse filosofico ne­ gli anni piu recenti, mediante il disegno, delle linee principali lungo le quali è proceduta la discussione, facendo scaturire il significato comples­ sivo del periodo interessato ( qui, dal 1956 al 1966). Il vol. I è dedicato alla logica e ai fondamenti delle matematiche ; il II alla filosofia delle scienze ; il III alla metafisica, fenomenologia, linguaggio e struttura ; il IV all'estetica, diritto, religione, politica, materialismo storico e dialettico, alla filosofia nell'Europa Orientale, in Asia e in America Latina. L'opera nel suo complesso resta per piu aspetti frammentaria, il che non è dovuto tanto alla molteplicità dei collaboratori, quanto ad un intento fondamen· talmente cronachistico, il quale provoca taluni squilibri d'impostazione, per cui nelle stesse denominazioni delle ripartizioni si trovano allineati

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piuttosto che coordinati titoli riferentisi a dottrine precise ( quale il mate· rialismo storico e dialettico) e titoli riferentisi invece a problematiche filo­ sofiche (metafisica, estetica, diritto, politica ecc.). Meglio coordinato ma di minore ampiezza il panorama costituito da Die Philosophie im XX. ]ahrhundert. Eine Enzyklopiidische Darstellung ihrer Geschichte, Disciplinen und Aufgaben, edito da F. Heinemann a Stoccarda nel 1959. I 17 collaboratori tedeschi, seguendo un ideale enciclo­ pedistico, dedicano 8 saggi alla storia della filosofia (l sezione), dalla filo­ sofia orientale al pensiero piu recente, a 13 saggi, nella seconda sezione, sistematica per problemi, ad altrettanti gruppi di problemi corrispondenti alle principali discipline filosofiche. Piuttosto per la storia delle scienze che non per la storia della filosofia hanno interesse i sei volumi (di cui gli ultimi due riguardano il periodo dalla seconda metà dell'800 ad oggi) della Storia del pensiero filosofico e scientifico, diretta da L. Geymonat (Milano, 1970-72). Opera a collabora· zione varia, impostata sulla base del criterio storiografìco che considera la filosofia non autonomizzabile ma sussistente nella sua unità con la scienza e le sue singole branche, ben risponde a criteri di divulgazione enciclo­ pedica; utile ' soprattutto per la raccolta di notizie . relative alla storia della scienza, nonché per l'eccellente materiale iconografico ; spesso carente, in· vece, tanto piu rispetto all'ampiezza dell'opera, la: documentazione e la segnalazione bibliografica. Criteri sistematici segue l'impostazione della Storia antologica dei pro­ blemi filosofici, diretta da U. Spirito (Firenze, 1965-68), in sei volumi, di cui due dedicati alla sezione Teoretica (a cura di C. Lacorte, l. Cubeddu e G. Baratta), due alla sezione Morale (a cura di A. Guerra e A. Negri), uno alla sezione Religione (a cura di M. Miegge) ed uno alla sezione Este­ tica ( a cura di A. Plebe) ; ciascuna sezione contiene antologie di testi, in ordine storico, corredate da essenziali introduzioni. ·

Per quanto riguarda la storiografia filosofica di carattere generale flalla metà dell'800, l'influenza hegeliana resta determinante nella fondamentale storico-critica Geschichte der neueren Philosophie di KuNo FISC HER, pub­ blicata a Stoccarda e Heidelberg tra il 1854 e il 1877, in sei volumi (nuova ediz., ivi; 1898 sgg., in IO voli. ; V ediz., Heidelberg, 1912) e che si estende fino a Schopenhauer. Importante il volume miscellaneo in onore del Fischer (Die Philosophie im Beginn des 20. ]ahrh.s, Festschrifte fiir Kuno Fischer, 1904-5, 19072), che contiene scritti di W. WuNDT (Psychologie); TH. LIPPS (Naturphilosophie) ; W. WINDELBAND (Logik) ; B. BAUCH (Ethik) ; H. RIC· KERT (Rechtsphilosophie) ; E. TROELTSCH (Religionsphilosophie) ; K. GROSS (Asthetik) ; W. Wn{DELBAND ( Geschichte der Philosophie ). Classica per l'esemplare chiarezza ed ampiezza documentativa dell'espo· sizione l'opera di FRIEDRICH UEBERWEG, scolaro del Trendelenburg e del Beneke : Grundriss der Geschichte der Philosophie, Berlino, 1862-66, in tre volumi (XII ediz., ivi, 1923-28, in cinque volumi). Si estende fino al materialismo moderno, al monismo e neocriticismo contemporaneo l'Histoire de la philosophie européenne di ALFRED WEBER, uscita a Strasburgo nel l872 (VII ediz., Parigi, 1905 ; tr. it. a cura di A. Tre­ ves, Milano, 1928-29, 3 voli.), impostata secondo una prospettive spiritua­ lista-volontarista che si basa su una metafisica della volontà di radice scho-

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penhaueriana, distinguendosi però da ogni pessimismo nihilista mediante un Wille zum Guten. Di impostazione neoscolastica la Geschichte der Philosophie di ALBERT STOCKL, Magonza, 1864-1891, in sei volumi, e la Historia de la filosofia di ZEFIRINO GoNZALEZ, uscita a Manila, in tre volumi, nel 1878-79, e che ebbe una seconda edizione, in quattro volumi, nel 1885. Profonda influenza sulla storiografia filosofica ha esercitato per circa mezzo secolo la storia della filosofia « per problemi » di WILHELM WIN­ DELBAND : Geschichte der neueren Philosophie in ihrem Zusammenhange mit der allgemeinen Kultur und den besonderèn Wissenschaften, uscita a Lipsia in due volumi nel 1878-80 (XII ediz., 1928 ; tr. it. di A. Oberdorfer, Firenze, 1925, 3 voli., n. ediz., 1942), successivamente essenzializzata nel Lehrbuch der Geschichte der Philosophie, uscito a Tubinga e Lipsia nel 1892 (XV ediz., riveduta da H. Heimsoeth, 1957 ; tr. it. di C. Motzo Den­ tice D'Accadia, Palermo, 1939, 2 voli., e Firenze, 1948, ult. rist., 1963). Di quest'ultima opera interessa qui la breve parte VII (La filosofia del secolo XIX), impostata sulla tesi del distacco della psicologia della filosofia come caratteristica dell'evoluzione generale della scienza nell' 800, donde il dua­ lismo di radice kantiana tra scienze della natura e scienze dello · spirito e l'allargarsi del volontarismo dalla metafisica alla psicologia, alimentando . l'inversione di tutti -i valori in cui sbocca la dialettica ottimismo-pessimi­ smo propria del secolo. - Eclettica, invece, I'Histoire de la philosophie, les problèmes et les écoles, di P. JANET e G. SÉAILLES, uscita nel medesimo torno d'anni (Parigi, 1887). Della lucidissima, famosa e tuttora valida opera del neoidealista Ru­ DOLF CHRISTOPH EucKEN, Die Lebenschauungen der grossen Denker, uscita a Lipsia nel 1890 (XVIII ediz., 1922 ; tr. it. di P. Martinetti, Torino, 1909, ultima ediz., ivi, 1969), e divisa in tre parti corrispondenti all'antichità greca, al Cristianesimo e all'età moderna, interessa qui l'ultima sezione della terza parte, dedicata a La dissoluzione del razionalismo e la ricerca di vie nuove, e specialmente per i capitoli ·dedicati : a) alla reazione contro il « realismo », denominazione con la quale Eucken designa tutte le con­ cezioni antispeculative : il secolo XIX « aveva conquistato gli spiriti con la speranza di rendere la vita piu vigorosa e piu ricca mediante un piu im­ mediato contatto con l'ambiente ( ... ). Ma ora quel mondo stesso, da cui l'uomo si attendeva una vita piu alta, tende a volgersi colitro di lui ; l'uo­ mo è oppresso dalle stesse opere sue e minaccia di diventare, da signore, schiavo del lavoro : sempre piu gli sfugge un punto sicuro d'appoggio, dal quale egli possa convertire gli eventi in esperienze del suo spirito. Ed al­ lora la rovina di questo mondo è inevitabile .. » ; b) a Nietzsche, del quale giudica positivamente le potenzialità del suo soggettivismo estetico, ma le vede minate dal fatto che l'arte debba poi incarnare soltanto le disposi­ zioni sentimentali del soggetto ; e del quale critica l'incomprensione del Cristianesimo, da Nietzsche visto esclusivamente nelle sue miserabili de­ formazioni umane : di Nietzsche Eucken, in ultima analisi, trova l'aspetto piu originale nella forma espressiva ; c) alla situazione presente, cioè tra la fine del secolo e i primissimi anni del '900, che Eucken considera epoca di penosa incertezza, dovuta anche al fatto che al levarsi con fresca vigo­ ria e aspra intolleranza delle moltitudini a voler > osta il fatto che esse « sono ancora scarsamente e d este­ riormente toccate dalle esperienze e dai risultati del lavoro secolare dello ·

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spirito » . Il coincidere di una crisi mteriore della civiltà con i rivolgi­ menti sociali - conçlude Eucken - è destinato a spianare la via, nel mon­ do contemporaneo, al trionfo della negazione. Di Eucken merita ricordare qui anche la Geschichte der philosophischen Terminologie, uscita a Lip­ sia nel 1879 (ediz. fot., Hildesheim, 1960). Della fortunata opera di HARALD HoFFDING, Den nyere Filosofis Histo­ rie, uscita in prima edizione a Copenaghen, in due volumi, nel 1894-95 (III ediz., 1921-22, 4 voll. ; tr. it. : Storia della filosofia moderna, a cura di P. Martinetti, Torino, 1906; VII ediz., Firenze, 1970, 3 voli.), il libro nono (che occupa la maggior parte del III vol. della traduzione italiana ora citata) è dedicato al positivismo, da Comte a Spencer, interpretato come uno dei due indiriz:;o;i, di cui l'altro è il Romanticismo, la cui lotta costi­ tuisce per lo Hi:iffding la dialettica spirituale del secolo XIX. Egli non nasconde le sue simpatie per il positivismo, maturate nel suo soggiorno parigino tra il 1868 e il 1869, nemmeno nell'ultimo libro dell'opera, dedi­ cato a La filosofia in Germania, 1850-1880 (vi espone il pensiero di Mayer, Lotze, Fechner, Hartmann, Lange, Diihring), nel quale l'iniziale influsso kierkegaardiano alimenta la dialettica del positivismo con il « pessimi­ smo >> di radice schopenhaueriana proprio di Eduard von Hartmann. Dello Hartmann erano usciti due anni prima due importanti volumi : Geschichte der Metaphysik. l : Bis Kant ; II : Seit Kant, a Lipsia, nel 1899-1900 ( ediz. fot., Darmstadt, 1969). La Geschichte der Philosophie del neokantiano KARL VoRLANDER, usci­ ta a Lipsia in due volumi nel 1903 (III ediz., ivi, in 3 voli.), dà ampiezza di documentazìone storica alla sua tesi di una necessaria connessione tra Kant e Marx ; la successiva edizione, postuma (Amburgo, 194,9 e segg.), a cura di E. Metzke, H. Knittermeyer e L. Geldsetzer, tenta ridurre tale uni­ lateralità interpretativa. Da menzionare inoltre l'opera, di tre anni prima, De Kant à Nietzsche di J. de GAULTIER (Parigi, 1900). A Parigi nel 1912 esce l'originale libro di G. PALANTE intitolato Pessi­ mismo e individualismo (tr. it., Milano, 1923). Contro l'avanzante epoca di socializzazione eccessiva, il Palante considera il pessimismo e l'individua­ lsmo come un utile contrappeso allo spirito gregario e al conformismo : « Verrà un momento in cui le catene sociali non feriranno quasi piu nes­ suno, per mancanza di persone sufficientemente individualizzate per sen· tire quelle catene e per soffrirne ». Ricco di riferimenti culturali e di no­ tevole capacità critica, è libro di lettura oggi attuale quanto profetica quan· do fu scritto. Nello stesso anno, oltre alla · grossa Geschichte der Philosophie di A. MESSER (Lipsia, 1912, 1932-352, 5 voli.), esce La filosofia contemporanea di Gumo DE RuGGIERO ( Bari, 1912, 19648). Questa ricostruzione storica della filosofia inizia dalla decadenza dell'idealismo tedesco e si arresta alle so· glie del '12 ; essa conserva quale carattere distintivo la tesi della naziona· lità della filosofia (mutuata dallo Spaventa e piu tardi dal De Ruggiero respinta come troppo angusta), tesi che suggerisce anche la ripartizione dell'opera stessa (per nazioni : Germania, Francia, Inghilterra, America, Italia). All'interno di questa struttura il pensiero contemporaneo è pre­ sentato con un vivido senso speculativo e con un vigoroso possesso della problematica filosofica - che ne rendono ancora assai proficua la lettura -, entro la tesi generale, mutuata dal neoidealismo, che il metodo specu­ lativo deve coincidere con la problematica del concreto, per la quale filo-

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sofia e scienza hanno, nel mutuo apporto, una autonomia e una libertà che ne impediscono quell'assorbimento reciproco che si verificava all'in­ terno delle astrazioni idealistiche o positivistiche. Un'appendice scritta a otto anni di distanza dalla prima edizione integra il quadro generale con la trattazione della neoscolastica, degli studi storico-sociali, del pensiero di Varisco, Gentile e Croce. Un ventennio dopo, il De · Ruggiero raccolse nel volume Filosofi del Novecento (Bari, 1934, 19667) le c< Note sulla re­ cente filosofia europea e americana » pubblicate su cc La Critica » e · con le quali completa il quadro della storia della filosofia disegnato ne La filo­ sofia contemporanea. Scritto in un periodo in cui era cominciata la revi­ sione critica del neoidealismo, il libro si fa piu attento alle voci di diversa provenienza (oltre all'idealismo di lingua inglese e allo Hamelin, vi sono presenti Meyerson, l'ultimo Bergson; il darwinismo e i suoi critici, Dil­ they, Husserl, la filosofia dell'esistenza e, in appendice, Freud e la psica­ nalisi) ; l'opera conserva tuttavia intatta la prospettiva critica idealistica dell'Autòre, prospettiva che, anzi, costituisce l'elemento di coesione fra saggi nati staccati l'uno dall'altro. Nell'approssimarsi degli anni venti, oltre alla History and Historians in the Nineteenth Century, di G. P. GoocH (Londra, 1913, n. ediz., ivi, 1967), retrospettiva tipica dello storicismo conte,nporaneo, al tempo del­ l'individualismo freneticamente nostalgico · di Stefan Zweig - che nel 1919 aveva fatto uscire Drei Meister : Balzac, Dickens, Dostojewsky (tradotto in italiano a Milano nel 1932, ultima ediz., ivi, 1961), saggi biografici ·che esaltano, non senza retorica, libertà e genialità, propria di questi tre cc mae­ stri », i soli grandi « romanzieri » del secolo, capaci di creare un nuovo cosmo nella sfera, rispettivamente, della società, della famiglia e del rap­ porto individuo-universo --, esce l'importante opera del neokantiano sto­ rico della filosofia HEINZ HEIMSOETH, Die sechs grossen Themen der abend­ liindischen Metaphysik und der Ausgang des Mittelalters (Berlino, 1921, ultima ediz., Stoccarda, 1966 ; tr. it., Milano, 1974), cui fa seguito pochi anni dopo la sua Metaphysik der Neuzeit ( Monaco-Berlino, 1929). Nella posizione di uno spiritualismo antipositivistico e antiidealistico gli studi sulla filosofia contemporanea di FRANCESCO DE SARLO, i principali dei quali sono raccolti nei due volumi Il pen.siero moderno (Palermo, 1915) e Filosofi del tempo nostro (Firenze, 1916). Dopo la prima guerra mondiale spicca I'Histoire de la philosophie di ÉMILE BRÉHIER, uscita a Parigi tra il 1926 e il 1932, di cui i fascicoli terzo e quarto del tomo secondo (La philosophie moderne) sono dedicati rispet­ tivamente a Le XJX• siècle, période des systèmes, 1 800-1850 e a Le XIX" siècle après 1850, le XX• siècle (V ediz., Parigi, 1968). Nel 1923 e8ce a Kempten la terza edizione della Ceschichtsphilosophie di F. SAWICKI. Nel 1924, ad Halle, la Weltgeschichte als Tat und Gemeinschaft, eine verglei­ chende Kulturphilosophie di ALOIS DEMPF, la c'ui critica dello storicismo si attuerà sistematicamente nell'opera Kritik der histurischen Vernunft (Monaco, 1957). Nel 1925-26 escono a Lipsia i due volumi, essenzialmente su Nietz.sche, Marx e George, di . GEORG EDUARD BuRCKHARDT, Weltan­ schauungskrisis und Wege zu ihrer Losung, auch eine Einfiihrung in die Philosophie der Gegenwart. A Stoccarda e Berlino compaiono nel . 1925-28 i tre volumi di K. BREYSIG Vom geschichtliche Werden, Umrisse einer zukiinftige Geschichtslehre ; tra il 1928 e il 1934, a Tubinga, i due volumi di K. J OEL intitolati Wandlungen der Weltanschauung. Eine Philosophie-

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geschichte als Geschichtsphilosophie. Nel 1929-31 a Tubinga escono i due volumi di S. MARX, Die Dialektik in der Philosophie der Gegenwart. An­ cora nell'ampia area storicistica i due volumi di LÉON BRUNSCHVICG su Le progrès de la conscience dans la philosophie occidentale (Parigi, 1927, 19532) e l'opera della vecchiaia di JOHN MACKINNON RoBERTSON, A History of Freethought in the Nineteenth Century (Londra, 1929 ; ediz. fot., ivi, 1969). DoMINIQUE PARODI nell'opera Du Pos,itivisme à l'ldéalisme, uscita a Parigi nel 1930, traccia un quadro della filosofia da Green a Brunschvicg, che tocca il pragmatismo e il suo significato, il modernismo, Bergson, Ha­ melin, Meyerson, soffermandosi con particolare insistenza sul problema re­ ligioso, che egli vede risolto positivamente nel processo della filosofia, con l'acquisizione, tipicamente idealistica, dell'idea di Dio come idea dello sforzo creatore del pensiero che realizza la propria unità e il proprio indefinito progresso. Il decennio prebellico è segnato da La rebelion de las masas di ORTEGA, del 1930 (tr. ii., Bologna, 1962) e da Le crépuscule de la civilisation di MA· RITAIN, del 1939 (nel '36 era uscito il suo Humanisme intégral). La dissolu­ zione dello storicismo che in questo periodo, in Italia, è vista da Tilgher in chiave di relativismo vitalistico ( in particolare nei Filosofi e moralisti del '900, Roma, 1932), è vista dallo HUIZINGA come « crisi della civiltà » nella nota opera In de schaduwen van morgen, een diagnose van het geestelijk lijden van onzen tijd (Haarlem, 1935, tr. it., Torino, 1937, 19633). Carenza di creatività nella cultura, indebolimento del raziocinio, problematicità del­ l'idea stessa di progresso, stato di crisi delle scienze, decadenza degli ideali intellettuali e morali, il diffondersi del puerilismo ( anche nell'arte) e della superstizione, la perdita di stile ecc. : questi per Huizinga i sintomi di una crisi profonda della civiltà che egli confronta con le crisi del passato e di cui - alla vigilia della seconda guerra mondiale - vede possibile il supe· ramento solo in una totale mutazione dell'habitus spirituale dell'uomo ; an­ che grazie a tale vigilia questo libro ha avuto una risonanza e un successo che oggi si può giudicare superiore alla sua profondità. Ben maggiore, in· vece, l'importanza - cui farà riscontro una adeguata intensità di influsso dell'opera di FRIEDRICH MEINECKE Die Entstehung des Historismus (Monaco· Berlino, 1936, 2 voli., 19462 ; tr. it., Firenze, 1954) e soprattut�o de Die Krisis der europiiischen Wissenschaften und die transzendentale Phiinomenologie di EDMUND HussERL, le cui prime due parti furono pubblicate nello stesso 1936 (la prima edizione intera uscirà solo nel 1954 a L'Aia, presto tradotta in italiano, Milano, 1961, 19683). Si segnalano inoltre, di questo periodo, la Historia Filozofii di W. TATARKIEWICZ (Leopoli, 1931, 2 voli., Varsavia, 19683); la Geschichtsphilosophie di E. RoTHAKER (Monaco-Berlino, 1934) e Philosophie der Gegenwart, del 1935, di E. von AsTER (ediz. fot., Leida, 1967). Negli anni di guerra escono inoltre gli Sguardi sulla filosofia contem· poranea di A. Guzzo (Roma, 1940); la Methaphysics in Modern Times, di D. w. · GoTSCHALK (Chicago, 1940) e il volume Twentieh Century Philoso­ phies, edito da D. D. RuNES (Nuova York, 1943). Cronologicamente poco distanti ed elaborati negli ultimi anni della guerra, ultimi anche della vita dei loro autori, due importanti lavori di J osEPH MARÉCHAL e di ERNST CAssmER. Del primo nel '47 esce postumo (era morto nel l944·) il quarto dei cinque cahiers (sui postkantiani) dell'opera Le point de départ de la métaphysique, di cui i primi tre erano usciti a Bruges-Parigi nel 1922-23. Della fondamentale opera Das Erkenntnisproblem

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in der Philosophie und Wissenschaft der neueren Zeit di Cassirer, i cui pri­ mi tre volumi erano usciti a Berlino nel 1906-20, il quarto ed ultimo uscirà in tedesco, a Stoccarda, solo nel 1957 (la prima edizione, in inglese è �el 1950; del 1958, uscita a Torino, la traduzione italiana, che avrà parecchie ristampe, dei quattro volumi con il titolo Storia della filosofia moderna). Il quarto volume (intitolato nella tr. it. Il problema della conoscenza nei sistemi posthegeliani) prosegue la trattazione sistematica organica sintetica dei precedenti, per tematiche interne al problema gnoseologico, che per Cas­ sirer è quello fondamentale al cui significato tutti gli altri si riconducono : la teoria della conoscenza è la base formale di tutta la filosofia e d è il solo giudice dei metodi filosofici e scientifici. Ciò, mentre esclude ogni chiusura « teologica >> del pensiero speculativo e, insieme, ogni suo blocco nelle fran­ tumazioni specialistiche, si può caratterizzare come razionalismo di im­ pronta kantiana ; il quale, per l'influenza della scuola di Marburgo, costi­ tuisce il motivo teoretico sotteso a questa opera tra le piu importanti e pregevoli nell'ambito storiografico. L'indagine tematica condotta in questo volume (nei tre libri : La scienza esatta ; L'ideale della conoscenza nella bio­ logia e le sue trasformazioni ; Forme e téndenze fondamentali della cono­ scenza storica) tende a mettere in rilievo come il problema della conoscenza non abbia mai avuto la centralità che ha nel pensiero moderno, anche per la mole degli studi ad esso relativi, ma che è > . La considerazione, ad esempio, delle diverse scuole epistemologiche degli ultimi decenni rivela come ciascuna debba la propria origine a d una disciplina particolare. Di qui la necessità per lo storico della filosofia piu recente di non arrestarsi ai movimenti periferici ma di studiarli, come Cassirer fa, > ), che comprende profili di pensatori, frammenti di carteggi, discussioni in congressi e convegni, esame critico di opere significative re­ centi, spunti critici e polemid, interviste, incontri : un panorama multifor­ me e vario al quale sottostà una unità teoretica a cui l'opera deve la sua coerenza non meno che alla problematica contemporanea che vi emerge con particolare vivezza. Meritano speciale rilievo i profili di Gentile, Carlini, Lavelle, Le Senne, Bréhier, Valensin, Aliotta, Stefanini ; i saggi di carattere antropologico ; e, attraverso le discussioni qui riferite, risalta il complesso panorama problematico affrontato, oltre che da altri convegni e congressi dei quali si dà testimonianza, dagli ormai piu che decennali convegni interna­ zionali di Merano. Una serie di « letture » tratteggia e illumina dal vivo una varia tematica d'attualità, che si innesta su lavori e ricerche soprattutto ita­ liane, francèsi, spagnole, latino-americane. Il libro, che molto dice della vasta attività e delle ampie relazioni culturali dell'Autore, si offre come let­ tura di oggettivo interesse e quale testimonianza di un ampio settore della cultura europea. Tra le storie a vasto raggio uscite nel primo dopoguerra si segnalano inol­ tre : L. B. NAMIER, The Revolution of the lntellectuals, Londra, 1946 (tr. it., Torino, 1957 : sul '48 intellettuale); i tre volumi di P. VAN ScHILFGAARDE, De zin der geschiedenis, een wijsgerige bespreking van den gang der mensheid (Lei da, 1946 : sbozza una filosofia della storia) ; i cinque volumi di H. MEYER, Geschichte der abendliindischen Weltanschauung (Wurzburg, 1947-49) ; J . M. BocHENSKI, Europiiische Philosophie der Gegenwart, Berna, 1947 (fortu. nata guida, piu volte edita e tradotta, allo studio de1la filosofia contempo· ranea europea, per lettori non specialisti, che si propone una esaustiva pa· noramica del pensiero piu recente, capillarmente seguito, ma, par nella sua sintetica chiarezza, un po' schematico) ; N. PETRUZZELLIS, Problemi e aporie del pensiero contemporaneo (Mazara, 1948, Napoli, 19702 : analisi critica dei principali atteggiamenti del pensiero contemporaneo - idea­ lismo, storicismo e irrazionalismo, esistenzialismo, l'antiumanesimo di Sar­ tre, il materialismo storico ecc. - condotta dalla prospettiva del realismo

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spiritualistico di cui l'Autore propone alcune linee direttrici per un piu concreto e fecondo sviluppo). Nel 1950 esce a Torino il terzo volume della Storia della filosofia di NI­ COLA ABBAGNANO : Filosofia del Romanticismo. La filosofia tra il secolo XIX e il XX (III ediz�, ivi, 1963, piu volte rist.). L'intera opera si distingue tra i piu ampi manuali universitari per l'accuratezza dell'informazione, l'onestà del dettato storico e l'esemplare chiarezza. La parte dedicata al pensiero contemporaneo è cosi suddivisa : lo sph·itualismo ( discutibile la denomina­ zione in rapporto agli esponenti ivi rappresentati, alcuni dei quali esige­ rebbero forse altt·e collocazioni, come ad esempio Hamelin, Martinetti, Va­ risco, Carabellese) ; il neocriticismo ; Nietzsche ; l'idealismo anglo-america­ no ; l'idealismo italiano (limitato a Croce e Gentile) ; Bergson ; la filosofia dell'azione ; Dewey (per il quale un capitolo a sé, come per Nietzsche, sem­ hra e('cessivo) ; la filosofia delle scienze ; il realismo ( compr�ndcnte, in modo un po' equivoco rispetto alla definizione, sia il neotomismo che il materia­ lismo dialettico) ; la fenomenologia; l'esistenzialismo. L'Abbagnano ha mi­ rato soprattutto alle connessioni problematiche, ai punti di convergenza tra le varie correnti, ispirandosi a un punto di vista fondamentalmente cri­ tico-realistico che gli configura immediatamente come « dogmatiche >> le posizioni troppo nettamente stagliate, e che gli fa sentire, ma senza traumi drammatici, l'instabilità fondamentale con cui il mondo si rivela al pensiero contemporaneo. Il criterio della 'convergenza e delle connessioni è appunto offerto come relativa e pratica garanzia di fronte a questa instabilità del soggetto che ha il suo « modo d'essere >> come « problema >> e la sua dimen­ sione propria nella > . Sempre nel 1950, ANTONIO ALIOTTA ne Le origini dell'irrazionalismo con­ temporaneo ( edito a Napoli) traccia un quadro della reazione all'intellet­ tualismo, reazione di cui illustra il momento genetico alla fine del secolo XIX e di cui vede i prodromi nello stesso aspetto agnostico di parte del positivismo ; con la cultura e la vivacità che caratterizzano i suoi scritti, l'Aliotta identifica la presenza delle istanze irrazionalistiche nel neo-criti­ cismo e nel volontarismo (collegati con il primato della ragion pratica) ; nell'empirio-criticismo ; nell'idealismo anglo-americano ; nel contingenti­ smo e intuizionismo francese ; nel pragmatismo �nglo-americano. Dei primi anni del '50 si segnalano : la Geschichte des abendliindische Geistes. Grundziige einer Kultursynthese di K. MuH s (Berlino, 1950-54, in 2 voli.); di B. M. f. DELFGAAUW il fortunato De wijsbegeerte van de 20e eeuw (La filos. del sec. XX), Amsterdam, 1950-52, 3 voli. (III ediz., Baarn, 1956-61 ; tr. it., Torino, 1972); M. GENTILE, Il problema della filos. moderna, Brescia, 1950; R. BAYER, Histoire de la philos. métaphysique, Parigi, 1950; É. BRÉ HIER, Les themes actuels de la philosophie, Parigi, 1951, 19646 (tr. it., Napoli, 1965 : opera di ampio respiro storiografico) ; F. I. VON RINTELEN, Philos. der Endlich­ keit als Spiegel der Gegenwart, Meisenheim-Glan, 1951, 196F (tr. it., Napoli, 1968) ; L. LANDGREBE, Philos. der Gegenwart, Bonn, 1952, Francoforte s. M., 19572 (in chiave fenomenologica); G. BoNTADINI, Dal problematicismo alla metafisica, Milano, 1952 ; F. LoMBARDI, Nascita · del mondo moderno, Roma, 1953, 19672 ; di P. FILIASI CARCANO i due notevoli volumi Problematica della filosofia odierna, Roma-Milano, 1953 e La metodologia nel rinnovarsi del pen­ siero contemporaneo, Napoli, 1957 ; G. DI NA PO LI, La concezione dell'essere nella filosofia contemporanea, Roma, 1953 ; J. HIRSCHBERGER, Geschichte der Philosophie. II : Neuzeit und Gegenwart, Friburgo, 19657•

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In ultima analisi, la nota opera di LmU.cs Die Zerstorung der Vernunft ( Berlino, 1954 ; tr. it., Torino, 19522) non è che un'ampia riduzione di un secolo e mezzo di storia del pensiero occidentale, da Schelling a Hitler, a] variegato irrazionalismo che egli individua nei termini che vanno dalla reazione antihegeliana di Kierkegaard, Schopenhauer e Nietzsche, ai vari vitalismi, fenomenologie, esistenzialismi, reazione che identifica con la « di­ struzione delJa ragione » perpetrata dall'« imperialismo » del « capitalismo borghese » . I l Tableau de l a philosophie contemporaine, a cura di A. WEBER e D. HmsMAN (Parigi, 1957, II vol. dell' Histoire de la philosophie européenne del Weber, con prefazione del Marcel) è un'opera di intelligente divulga­ zione, con l'intento principale di far comprendere le connessioni che uni­ scono le varie filosofie europee, entro il concetto chiave del progresso uni­ tario del pensiero occidentale : volontà conciliatrice, entusiasmo e ottimi­ smo riflettono nel metodo dì questo lavoro il « migliorismo » storiografico del Weber. Il materiale, frutto di diversi autori, è distribuito per correnti : dal positivismo e dal marxismo allo sph·itualismo, da Renouvier a Nietzsche e dall'esistenzialismo, con quadri panoramici per nazioni europee e per l'America. Piu di una classificazione può offrire qualche perplessità : ad esempio, la fenomenologia vi compare come un capitolo dell'esistenzialismo. Tra il 1962 e il 1971 escono a Firenze i volumi dal IV al VII della grande Storia della filosofia di EusTACHIO PAOLO LAMANNA, dedicati, rispet­ tivamente, a La filosofia delf Ottocento (il vol. IV) e a La filosofia del Novecento (gli altri volumi). Nel volume dedicato alla filosofia dell'Otto­ cento di quest'opera - che resta, pur con riserve che, a distanza, si po­ trebbero avanzare sull'impostazione generale, una delle piu serie e profi­ cuamente leggibili -, la materia è distribuita in otto capitoli di carattere storico e ricapitolata in una sintesi finale di carattere problematico : il pri­ mo capitolo è dedicato alla filosofia del Romanticismo e dell'idealismo te­ desco ; segue un capitolo sulla pedagogia del · Romanticismo e la scuola po­ polare, forse un po' troppo ampio nei confronti del precedente e in rap­ porto al suo tema. Il cap. III espone i movimenti che, da Fries a Bolzano, da Herbart a Schopenhauer, da Kierkegaard alla sinistra hegeliana, dal pen­ siero romantico inglese allo spiritualismo e all'eclettismo fran�esi, sono rac­ colti sotto la denominazione di (( opposizione e limitazione all'idealismo » . I l cap. IV tratta della filosofia e pedagogia italiane nell'età del Risorgimen­ to. Sia il terzo che il quarto capitolo appaiono alquanto sintetici, e con qualche sproporzione ( ad esempio assai ridotto lo spazio lasciato al Rosmi­ ni), non ostante la presentazione sempre obiettiva. Larga parte è data ne] cap. V al pensiero politico ed economico-sociale nei grandi stati europei . Il cap. VI tratta, in maniera proporzionata, della scienza nell'800, mentre il VII espone le dottrine positivistiche, divise per nazioni, e la pedagogia del positivismo. Segue un capitolo sulla reazione al naturalismo nei vari paesi : è forse uno dei capitoli meno sistematici. La stessa complessità del pensiero dell' 800 giustifica la sintesi finale, dove il pensiero stesso è ripensato proble­ maticamente (linea di sviluppo ; problemi della conoscenza, della realtà, morale, politico, economico, estetico - questo appena accennato -, peda­ gogico-educativo). Il V e il VI volume si ispirano, come del resto l'intera opera, ad un criterio di massima obiettività storica, affiancata da una pregevole chiarezza e da una esauriente informazione, anche sulle problematiche non stretta·

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mente filosofiche ; comprende infatti un'esauriente trattazione degli aspetti pedagogici, sociali ed economici, scientifici ecc. della cultura del Novecento. 11 V volume si divide in quattro parti, caratterizzate da una connotazione tematica : nella prima tratta del processo all'intelligenza nel pensiero fran­ cese (Bergson, Blondel, il modernismo, Laberthonnière, Le Roy) ; si può forse qui rilevare, a distanza, la necessità di ridimensionare la portata del pensiero del Bergson, sulla quale l'Abbagnano si diffonde. La seconda parte è dedicata al pragmatismo, presentato nei suoi maggiori esponenti e com­ pletato con la trattazione del neo-illuminismo e del pragmatismo in Italia. La terza parte ha per oggetto la problematica della scienza, articolata nella esposizione aelle istanze specifiche delle scienze biologiche, della psicologia ( forse un po' succinta), della nuova fisica, della matematica e della logica ; nella p1·esentazione del neo-positivismo logico ; nella esposizione dei capi­ saldi e delle figure della nuova epistemologia. La quarta parte tratta della problematica della storia, con particolare riguardo a Dilthey, Siminel, Spen­ gler, allo storicismo e alla filosofia del valore (da Windelband a Huizinga). lJ volume VI continua la ripartizione del quinto, trattando : l'eredità .del criticismo e del positivismo ottocentesco (in Germania, in Inghilterra, in :Francia : esamina qui il pensiero dello Hamelin e del Brunschvicg) e in Ita­ lia ; il neo idealismo anglo-americano ; il neo-realismo anglo-americano ; la fenomenologia (larghissima parte data ad Husserl) ; l'esistenzialismo (lar­ ghissima parte data a Heidegger). Ogni tema e ogni autore trattati, sia nel V che nel VI volume, sono corredati da una bibliografia essenziale, inclu­ dente le principali traduzioni italiane sia dei testi che della critica. Il volu­ me VI, lasciato allo stato di manoscritto e incompleto dal Lamanna, è stato affidato a V. Mathieu, per il completamento- del quadro storico, con la pre­ sentazione della filosofia italiana del Novecento, mancante nei volumi pre­ cedenti. Il volume VII comprende due tomi, la cui linea di demarcazione è segnata dalla seconda guerra mondiale. Il primo tomo, dopo una parte de­ dicata alla eredità dell'800 in Italia, parte assai ben tratteggiata anche nelle figure minori, è dedicato all'idealismo, da Martinetti a Gentile ; il secondo tomo, alla filosofia italiana del dopoguerra. Le parti lasciate svolte dal La­ manna per ques,ti due tomi sono : del tomo I il cap. XXX (salvo i paragrafi 6, 8, l l-13); le prime due sezioni del cap. XXXI ; la prima sezione del capi­ tolo su Croce ; del tomo II : il capitolo sull'Ab bagnano. Il resto si deve al Mathieu, che si è felicemente uniformato al carattere generale impresso dal Lamanna all'opera. A Londra nel 1963 e 1966 (subito riediti nel 1966-68), sono usciti i vo­ lumi VII e VIII della grande A History of Philosophy del neoscolastico ge­ suita inglese FREDRICK CHARLES CoPLESTON ( il I vol. era uscito a Londra nel 1946 ; dell'opera è in corso una traduzione italiana, Brescia, dal 1965), già autore del volume Contemporary Philosophy (Londra, 1956, Westmin­ ster, 19592). II vol. VII (Fichte to Nietzsche) tratta della filosofia tedesca del sec. XIX e interessa qui per gli ultimi tre capitoli, il primo sulla rinascita della metafisica ( dove si considera specie Lotze, Eucken, la rinascita del tomismo) e gli altri su Nietzsche, con un cenno alle linee interpretative. II vol. VIII (Bentham to Russell) è dedicato all'« empirismo inglese » con­ temporaneo, con particolare attenzione a Stuart Mill e a Spencer ; all'ideali­ smo inglese ed americano ; al movimento pragmatista ; alla rivolta realista contro l'idealismo, dove larghissimo spazio è fatto a Russell, a danno, ci sembra, del ben piu filosoficamente geniale Alexander, troppo sacrificato.

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Una appendice è dedicata a Newman. I due volumi sono infine corredati di una bibliografia essenziale per ogni corrente e per ogni singolo pensatore di rilievo. Un progettato vol. IX dovrà trattare del pensiero del secolo XX in Francia e nelle altre nazioni europee. Nel complesso quest'opera, che nella storiografia inglese occupa un posto di rilievo, si presenta come un ampio manuale per studenti universitari ed ha i suoi maggiori pregi nella chia­ rezza espositiva, in una buona informazione e in una certa obiettività nella presentazione di ciascun argomento, piuttosto, forse, che non nelle propor­ zioni entro le quali ciascun argomento è trattato. Del 1966 il vol. IV, edito a Parigi, dell' Histoire de la pensée di )ACQUES CHEVALIER (il primo è del 1955), dedicato a La pensée moderne de Hegel à Bergson. Preceduto da una essenziale nota bibliografica generale e corre­ dato da ottime bibliografie ragionate ad ogni capitolo, questo volume rimasto incompiuto e perciò integrato, anche con l'aggiunta di un capitolo su Bergson, dal discepolo L. Husson -, mette a fuoco, con tutti pregi che distinguono i precedenti volumi di questa ormai classica storia della filo­ sofia, l'hegelianismo e il pensiero successivo a Hegel (Kierkegaard, Scho­ penhauer, Marx) ; Maine de Biran ; il tradizionalismo e Comte ; il concetto di positivo nelle scienze ; la tradizione spiritualista dall'eclettismo a Bou­ troux ; e, da ultimo, con particolare risalto secondo il piano dello Cheva­ lier, Bergson. Di Bergson, del resto, si sente vivo l'influsso in tutta l'opera. L'apparato emdito di note, l'abbondanza di riferimenti culturali che arric­ chiscono il testo e danno un'interna complessa articolazione alle sue schema­ tiche linee generali, fanno di quest'opera, anche riguardo al pensiero con­ temporaneo, una delle piu scientificamente apprezzabili nel settore delle ' storie della filosofia. Del 1971 la raccolta, postuma, di saggi storici scritti fra il 1931 e il 1968 da JEAN HYPPOLITE, dal titolo Figures de -la pensée philosophique (edita a Parigi in due volumi). Tra questi saggi - parecchi dei quali testi di corsi universitari : assai pregevole quello su Hegei - sono qui da segnalare, del voi l, quelli su Freud, Bergson e Husserl; del vol. II quelli su Alain, Jaspers, Heidegger, B achelard, Merleau-Ponty e Sartre. Di notevole ampiezza i due volumi della storia della filosofia di A. R. CAPONIGRI, dedicati, rispettivamente alla Philosophy from the romantic age to the age of Positivism e alla Philosophy from the age of Positivism to the age of analysis (Notre Dame-Londra, 1971). In corso di stampa una grande Storia del pensiero occidentale, presentata da M. F. Sciacca, in sei volumi ( Milano, entro il 1974), di cui il quinto ( Dal Romanticismo al positivimo ), di oltre 400 pagine, è curato da A. , Rigobello e il sesto (Dalla critica del positivismo ad oggi), di circa 500 pa­ gine, curato da A. Pieretti. Delle opere uscite nell'ultimo ventennio sono qui inoltre da segnalare : J . M. BocHENSKI, Die zeitgenossischen Denkmethode, Berna, 1954 ; J. D. CoLLINS, A History of Modern European Philosophy, St. Louis, 1954 (tr. it., Torino, 1959 : manuale adatto a studenti unive�;sitari, d'intento formativo oltre che informativo, interessa qui per la parte dedicata a Nietzsche e a Bergson - capp. XVIII e XIX -; corretto, esauriente, di agevole lettura) ; P. H. SIMON, L'esprit de fhistoire, essai sur la conscience historique dans la littérature du xx· siècle, Parigi, 1954 (su Barbusse, Duhamel, Alain, Péguy, Claudel, Sartre, Camus, Malraux) ; H. ' DuMÉRY, Regards sur la philosophie contemporaine, Tournai-Parigi, 1956 ; le due raccolte postume di saggi di

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ANTONIO BANFI : Filosofi contemporanei, Milano, · 1961 ( a cura di R. Can­ toni) e Studi sulla filosofia del Novecento, Roma, 1965 (raccolta asistematica di scritti, alcuni dei quali destinati a svilupparsi in piu ampia stesura come lavori a parte ; da segnalare quelli su Boutroux, Renouvier, Bergson ; quelli su Croce hanno carattere tipicamente teoretico pur includendo interessanti notazioni storiche) ; E. PACI, La filosofia contemporanea, Milano, 1957, 196P (visione prospettica di alcune correnti, considerate le principali ed emble­ matiche di una situazione « determinata dall'eredità di Kant e dalle inter­ pretazioni che il pensiero dell'Ottocento ha · creduto di poter dare della cri­ tica kantiana » ) ; A. RIGOBELLO, L'itinerario speculativo · dell'umanesimo con­ temporaneo, Padova, 1958 ; G. SIEWERT, Das Schiksal der Metaphysik von 1'homas bis Heidegger, Einsiedeln, 1959 ; J. FERRATER MoRA, La filosofia en el mundo de hoy, Madrid, 1960 (ultima edi:�;., 1969); Basis of the contem­ porary Philosophy, ed. da Seizi Uyeda, Tokyo, 1960; AA. VV., La crise de la raison dans la pensée contemporaine, Parigi-Bruges, 1960 ; W. BRUNING, Geschichtsphilosophie der Gegenwart, Stoccarda, 1961 ; L. FLAM, La philo� sophie au tournant de notre temps, Bruxelles, 1961, 19702 ; Panorama des zeitgeiWssischen Denkens, ed. da G. Picon, Francoforte s. M., 1961, Stoccar­ da, 19632; AA. VV., El hombre y lo humano en la cultura contemporanea. Madrid, 1961 ; J. FoURASTIÉ, La grande métamorphose du XX' siècle. Essais sur quelques problèmes de fhumanité d:aujourd:hui, Parigi, 1962 ; E.. MilL­ LER-GANGLOFF, Horizonte der nachmodern Welt. Miichte und ldeen in 20. ]ahrhunderts, Stoccarda, 1962 ; H. NoAcK, Die Philosophie Westeuropas. Die philosophischen Bemiihungen der 20. ]ahrhunderts, Basilea-Stoccarda, 1962 ; R. T. DE GEORGE, Classical and Contemporary Metaphysik, Nuova York,. 1962 ; A. PELLEGRINI, Dalla « sensibilità » al nichilismo, Milano, 1962 ( rac­ colta di studi sulla letteratura europea del secolo XVIII e XIX, con partico­ lare riguardo a Germania e Francia : individuano la crisi della società euro­ pea in tali secoli, figurando, in epilogo, l'evoluzione del metodo storiogra­ fico idealistico e il suo attuale dissolversi); AA. VV,, A Modern lntroduction to Metaphysik. Readings, from Classica[ and Contemporary Sources, Chi­ cago, 1962 ; R. M. ALBERÈS, L'aventure intellectuelle du xxe siècle, Parigi, 19633 ; Die Philosophie im XX. ]ahrhunderts, ed. da F. Heinemann, Stoc­ carda, 19632 ; AA. VV., Pesimismo y optimismo en la cultura actual, Madrid, 1963 ; E. GARULLI, Esperienza e metafisica nella filosofia moderna, Roma, 1963 ; di F. BARTOLONE i significativi volumi Struttura e significato nella storia della filosofia, Bologna, 1964 e Metafisica e pensiero contemporaneo, Milano, 1968 ; W. STEGMVLLER, Hauptstromungen der Gegenwartsphiloso­ phie, Stoccarda, 19653 ; l. S. KoN, Die Geschichtsphilosophie des 20.· ]aht­ hunderts, Berlino, 1964, 2 voli. ; H. ScHMITZ, System der Philosophie, I : Der Gegenwart, Bonn, 1964 ; J. KE MPSKI, Brechungen. Kritische V ersuche zur Philosophie der Gegenwart, Amburgo, 1964 ; H. PRoscH, The Genesis of Twentieth Century. Philosophy. The Evolution of Thought from Co­ pernicus to the Present, Nuova York, 1964; K. E. BouLDING, The Meaning of the Twentieth Centuty. The great Tradition, Nuova York, 1964 ; A Cri­ ticai History of Western Philosophy, ed. da 0' Connor, Nuova York-Lon­ dra, 1964 ; A. M. MoscHETTI, L'irrazionale nella storia, Bologna, 1964 ; AA. VV., Das Zeitproblem im 20. ]ahrhunderts, Berna-Monaco, 1964 ; É. BRÉHIER, Études de philosophie moderne, Parigi, 1965 (contiene molti saggi notevoli); J. VÉLEZ CoRREA, Filosofia moderna y contemporanea, Madrid, 1965 ; J. A. NuNo, Sentido de la filosofia contemporanea, Caracas, 1965 ; In·

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troduction to Modernity. A Symposion on Eighteenth Century Thought, ed. da R. Mollenauer, Texas, 1965 ; Twentieth Century Thinkers, ed. da J. K. Ryan, Staten Island, 1965 ; M. HocHGESANG, Mythos und Logik im 20. ]ahr­ hunderts, Monaco, 1965 ; AA. VV., La mort et l'homme du XX' siècle, Pa­ rigi, 1965 ; H. MEYER, Abendliindische Weltanschauung, vol. V : Die Wel­ tanschauung der Gegenwart, Paderborn, 19662; J. CHAIX-RUY, Le Surhom­ me. De Nietzsche à Teilhard de Chardin, Parigi, 1966; G. BoNTADINI, Studi di filosofia moderna, Brescia, 1966 ; M. CIARDO, Il dramma della metafisica nelfetà contemporanea, Bologna, 1966 ; F. Rm, Ontologia de siglo XX, {:aracas, 1966 ; AA. VV., Recent Philosophy. Hegel to the Present, Nuova York, 1966; S. P. FREUND, Contemporary Philosophy and its Origins, Lon­ dra, 1967 ; D. A. ZoLL, The Twentieth Century Mind. Essais on Contempo­ Tary Thought, Baton Rouge, 1967 ; J. LACROIX, Panorama de la philosophie .contemporaine, Parigi, 19682; L. GELDSETTZER, Die Philosophie der Philo­ .sophiegeschichte im 19. ]ahrhunderts, Meisenheim am Gian, 1968 (opera .che si compone di una parte storica e di una parte sistematica); G. RAD· NITZKI, Contemporary Schools of Metascience, Goteborg, 1968 ; AA. VV., La violence dans le monde actuel, Bruges, 1968; J. CHORON, La mort et la pen­ .sée occidentale, Parigi, 1969 ; W. STEGMULLER, Hauptstromungen der Ge­ genwartsphilosophie, Stoccarda, 1969" ; W. T. JoNES, A History of Western Philosophy, vol. V : Kant to Wittgenstein and Sartre, Nuova York, 19692 ; G. A. RAUCHE, Contemporary Philosophical Altematives and the Truth. A criticai Study of Positivism, Existentialism and Marxism, L'Aia, 1970 ; E. RI· VERSO, La filosofia oggi, Roma, 1971 (opera notevole); A. G. N. FLEW, An lntroduetion to Western Philosophy. ldeas and Argument from Plato to Sartre, lndianapolis, 1971 ; M. H. MANDELBAUM, History, Man and Reason. A Study in 1 9th Century Thought, B altimora, 1971 ; K. ULMER, Philosophie der modernen Lebenswelt, Tubinga, 1972 ; C. CARBONARA, Pensatori moderni, Napoli, 1972. Un illuminante profondo sondaggio nella categoria contemporanea del­ l'estetismo offre M. F. SciACCA nell'opera L'estetismo. Kierkegaard. Piran­ dello (Milano, 1974, vol. XXXIX delle > del pensiero e delle « relazioni » della filosofia italiana con il pensiero euro­ peo secondo il rapporto per il quale la filosofia del Rinascimento italiano, aurora del mondo moderno, ha alimentato l'intero pensiero europeo, ritor-

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nando, in Italia, fruttificato al culmine del sistema hegeliano del sapere assoluto, che è « lo stesso nostro pensiero in altra forma >> , nel pensiero di Gioberti è senza dubbio presente alle basi metodologiche della storio­ grafia filosofica gentiliana. Una sorta di summa di essa ha costruito recentemente il Garin ricompo­ nendo in due grossi volumi una ideale sintetizzata Storia della filosofia ita­ liana (Firenze, 1969) del GENTILE, mediante testi gentiliani abbraccianti il periodo dal Medioevo agli inizi del Novecento ; e precisamente, raccoglien­ do : a) dai testi incominciati ad uscire nel 1904 a fascicoli nella collana del Vali ardi « Storia dei generi letterari italiani » e che comprendono il la­ voro di un quindicennio ( 1904-1915), arrestatisi al Valla ; b) da Il pensiero italiano del Rinascimento ; c) dagli Studi vichiani ; d) dalla Storia della filosofia italiana dal Genovesi al Galluppi; e) dal Rosmini e Gioberti ; f) da Le origini della filosofia contemporanea in Italia : è questa la parte che qui piu interessa; come noto, Le origini · sono suddivise nei quattro libri : I pla­ tonici (Ferrari, Franchi, Mazzarella, Mamiani, Bertini, Ferri, Bonatelli, Cantoni, Barzellotti, Conti, Allievo, Labanca, Acri) ; I positivisti ( Tommasi, Villari, Gabelli, Marselli, Angiulli, Lombroso, Ardigò e la sua scuola) ; I neokantiani (Fiorentino, Tocco, Masci), con appendice sui Neotomisti ; Gli hegeliani ( Vera, Ceretti, De Meis, Spaventa e la sua scuola). Tutti questi testi seguono l'ultima edizione delle cle, Parigi, 1966 ; Problèmes fondamentaux du matérialisme dialec­ tique, dir. da G. Koursanov, Mosca-Parigi, 1967; H. S . HuGHEs, The ob­ structed Path: French social Thought in the years od desesperation, 19301960, Nuova York, 1968 ; N. LESER, Zwischen Reformismus und Bol�chevi­ smus. Der A ustro-Marxismus in Theorie und Praxis, Vienna, 1968 ; J. RQUX, Précis historique et théorique de marxisme-léninisme, Parigi, 1969 ; A. LEHNING, From Buonarroti to Bakunin. Studies in International Socialism, Leida, 1970 ; A. von WEISS, Neomarxismus. Die Problemdiskussion im Nach· folgemarxismus der Jahre 1945 bis 1970, Frihurgo-Monaco, 1970 ; P. VRA· NICKI, Historija marksisma, Zagahria, 1971, 2 voli. (tr. it., Roma, 1972, 19732); F. CASSANO, Marxismo e filosofia italiana (1 958-1 971), Bari, 1973 ; una antologia di testi cinesi su La filosofia della rivoluzione culturale, è

stata curata da M. A. Bonfantini e M. Macciò, Milano, 1974. 14. Positivismo e neopositivismo

Tra le storie del positi:vismo : G. MILHAUD, Le positivisme et le progrès de resprit, Parigi, 1902 ; A. BAUMANN, La religion positive, Parigi, 1903 ; G. CANTECOR, Le positivisme, Parigi, 1904 ; A. ScHNEKEL, Die positive Philo­ sophie und ihre geschichliche Entwicklung, Berlino, 1914; S. CARAMELLA, Studi sul positivismo pedagogico, Firenze, 1921 ; L. GEYMONAT, Il problema della conoscenza nel positivismo, Torino, 193 1 ; H. GoUHIER, La jeunesse aA . Comte et la formation du positivisme, Parigi, 1933-34, 3 voli. ; P. Dv­ cAssE, Essai sur les origines intuitives du positivisme, Parigi, 1939 ; R. HoF­ STAEDTER, Social Darwinism in American Thought, 1860-1915, Filad�lfìa, 1945 ; W. BROEC KER, Dialektik, Positivismus, Mythologie, Francoforte s. M., 1950; J. DEWEY, The Influence of Darwinism on Philosophy, and other Es­ says in contemporary Thought; Nuova York, 1952 ; B. MAG NINO, Storia del positivismo, Mazara-Roma, 1955 ; D. G. CHARLTON, Positivist Thought in France during the Second Empire 1852-1870, Oxford, 1959 ; A. NEUBERT, Semantischer Positivismus in de� U.S.A., Halie, 1962 ; W. M. SIMON, Euro­ pean Positivismus in the Nineteenth Century, ltaca, N. Y., 1963 ; S. MoN­ DOLFO, I positivisti italiani. A ngiulli, Gabelli, Ardigò, Padova, 1966 ; l. S.

Bibliografia critica generale

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und Denken als sprachphilosophischen Problem von Locke bis Wittgenstein, 's Gravenhage, 1968 ; Il Neoempirismo, a cura di A. Pasquinelli, Torino, 1969 ; E. RIVERSO, La filosofia analitica in Inghilterra, Roma, 1969 ; V. BE­ LOHRADSKY, Interpretazioni italiane di Wittgenstein, Milano, 1971.

15. Anarchismo e irrazionalismo Sull'anarchismo : Bibliografie : M. NETTLAU, Bibliographie de l'anar­ chisme, Bruxelles, 1897; L. BETTINI, Bibliografia dell'anarchismo, Firenze, 1972. Storie dell'anarchismo : M. NE TTLAU , Breve storia dell'anarchia, tr. it., Cesena, 1964 ; J. GARIN, L'anarchie et les anarchistes, Parigi, 1885 ; G. W. PLECHANOW, Anarchismus und Sozialismus, Berlino, 1894; E. ZoccoLI, L'a­ narchia, Milano, 1907 ; A. SERGENT-C. HARMEL, Histoire de rAnarchie, Pa­ rigi, 1949; L. LOWET, Histoire mondiale de /:anarchisme, Parigi, 1951, G. WooncocK, Anarchism, Nuova York, 1962 (tr. it., Milano, 1966); P. AVRICH, The Russian Anarchist, Princeton, 1967; J. JoLL, The Anarchists, tr. it., Milano, 1970; P. ANSART, Naissance de /:anarchisme, Parigi, 1970; D. GuE­ RIN, L'anarchisme, Parigi, 1970 ; R. KRAMER-BADONI, Anarchismus, Monaco, 1970 ; · AA. VV., Anarchici e anarchia nel mondo contemporaneo, Torino, -

1971. Sull'irrazionalismo contemporaneo : R. RICHTER, Der Skeptizismus in der Philosophie, Lipsia, 1904-1908, 2 voli. ; N. ABBAGNANO, Le sorgenti irra­ zionalismus, Berlino, 1923 ; E. KELLER, Das Problem des I rrationalen Idea­ lismus der Gegenwart, Stoccarda, 1931 ; H. E. EISENHUTH, Der Begriff der lrrationalen als philosophischen Problem, Berlino, 1931 ; M. DE MuNNYNCK, L'antiintellettualismo contemporaneo, Roma, 1936; R. CRAWSHAY-WILLIAMS,

The Confort of Unreason. A Study of the Motives behind lrrational Thought, Londra, 1947; J. H. W. RosTEUTSCHER, Die Wiederkunft des Dionysos. Der naturmystische lrrationalismus in Deutschland, Berna, 1947 ; C. DAMUR, Der lndividualismus als Gestalt des A bendlandes, Berna, 1947.

16. Pragmatismo Sul pragmatismo : M. HÉBERT, Le pragmat�sme, étude de ses diverses for­ mes anglo-américaines, françaises, italiennes et de sa valeur religieuse, Pa.­ rigi, 1908, 19092; A. W. MooRE , Pragmatism and its Critics, Chicago, 1910 ; G. PAPINI, Il pragmatistno. 1903-1911, Firenze, 19273 ; R. BERTHELOT, Un . romantisme utilitaire, étnde sur le mouvement pragmat:i. (op. cit., p. 17) : ed invero anche il materia· lismo o il positivismo piu dogmatico, piu suggestionato dalle scienze naturali, parte dalla considerazione dell'in-sé delle cose : e l'in-sé delle cose, quando anche non è il noumeno kantiano, è certamente il rimanere delle cose sul piano dell'immediatezza e dell'oggettività del realismo ingenuo che esclude il problema kantiano della possibilià e delle condizioni della conoscenza delle cose. Positivismo e materialismo condividono di fatto, per paradossale che possa sembrare, il criterio dell'assoluta oggettività del reale ; e, nei confronti del positivismo e del materialismo in particolare, il neocriticismo, senza rinnegare le indicazioni metodologiche delle· scienze naturali, riabilita il senso della proposizione del problema di Kant. Dal quale i neocriticisti, in generale, puntando in particolar modo la riflessione sul soggetto della conoscenza, accettano l'acquisto gnoseologico fondamen­ tale, secondo il quale l'oggettività della conoscenza dipende, piu che dalle cose, dalla struttura conoscitiva comune dei soggetti di conoscenza. La ridu­ zione del neocriticismo ad un fenomenismo coerente, per il quale noi non conosciamo le cose, bensi solo le apparenze delle cose, riesce possibile, anche in vista delle scienze piu interessate a creare un ordine conoscitivo. Le pro­ posizioni scientifiche, quale che sia l'oggetto cui si riferiscono, a patto che sia un oggetto fisico e non un oggetto . metafisico, sono proposizioni che non possono costruirsi se non partendo da precise condizioni soggettive e trascen­ dentali. Il significato del « ritorno a Kant >> del neocriticismo è tutto qui : consiste nella franca accettazione, certamente in diverso modo operante, delle indicazioni di Kant sulla possibilità, le condizioni e, soprattutto, i limiti della conoscenza umana. I limiti della conoscenza sono anche i limiti del sapere scientifico : un sapere fenomenico, il cui titolare è alieno dal pre­ sumere che esso sia assoluto e totale. È il dogmatismo scientistico, positivi­ etico e· materialistico, che si mette in questione, con la denuncia di quanto di soggettivo, di provvisorio, di arbitrario, di convenzionale può esserci, sempre, in ogni costruzione del sapere scientifico, restituito alla consape· volezza del suo fondamento e della sua struttura trascendentale. Da ultimo, il neocriticismo, ritornando a Kant, raccomanda di prendere coscienza del problema teoretico della conoscenza ; e ciò fa, il piu delle volte, discutendo criticamente lo stesso Kant, allorquando si tratta di istituire un rapporto storicamente piu evoluto tra la filosofia e le scienze, fino alla liquidazione, ove occorra, di certi residui realistici (e, per ciò che si è detto, anche, indifferentemente o spiritualistici o positivistico-materialistici) del criti­ cismo. Il quale, naturalmente, soprattutto quando maggiormente vuole segnare

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il « ritorno a Kant », esprime anche un suo preciso atteggiamento antidea­ listico : questo, però, va cercato nel fatto che il neocriticismo, diversamente dall'idealismo, non svaluta la scienza, ed in particolar modo la scienza della natura, specialmente quella che aspira ad essere esatta, in nome di una filosofia che pretende di risolvere in sé, e solo in sé, il sapere concreto, riservando l'astrazione e l'astrattezza del sapere scientifico propriamente detto. Quest'ultima pretesa è propria della filosofia idealistica ; e verso di essa, allora, il neocriticismo avanza le sue obiezioni e le sue riserve. E le avanza con il pregiudizio e la presunzione di interpretare il pensiero di Kant per quello che è stato. Un tale pregiudizio ed una tale presunzione, se mai, anche se rinnova la metafisica kantiana per ciò che vuole essere una scienza delle condizioni e delle strutture dell'esperienza ed anche dell'azione morale (come si vedr� soprattutto nei rappresentanti della Scuola di Marburgo), nel criticismo occorre guardare criticàmente, specialmente se si appura, come è facile appurare in prosieguo, attraverso la presentazione dei suoi singoli rappresentanti, che esso avanza interpretazioni di Kant non solo contrastanti o contraddittorie, ma anche lontane, talvolta, dal piu autentico spirito del kantismo : basti pensare proprio all'aggiornamento in senso idealistico della sintesi a priori kantiana su cui ci si è trattenuti. Ma, a questo punto, con­ viene spostare la nostra attenzione sui concreti lineamenti interni di que­ sta corrente di pensiero.

2. Il neocriticismo in Germania a) Il « ritorno a Kant

>>

(0. Liebmann, E. Zeller, ecc.)

Nel 1865 Otto Liebmann pubblica il suo celebre libro Kant und die Epigonen, che segna, in Germania, il momento d'avvio deciso del neocriti­

cismo. Liebmann (nato a Lowemherg il 25 febbraio 1840, morto a Jena il 14 gennaio 1912, professore ordinario a lena dal 1882) lancia la parola d'ordine : « Si deve ritornare . a Kant (Es muss auf Kant zuriickgegangen werden) >> È la parola d'ordine che ripete alla fine dell'esame di ciascuno dei quattro indirizzi fondamentali della filosofia post-kantiana (l'idealismo di Fichte, Schelling e Hegel, il realismo di Herbart); ed è la parola d'ordine cui rimane fedele negli ulteriori scritti in cui cerca di fondare una metafi­ sica critica, schiettamente kantiana e, se mai, liberata dalle incoerenze kantiane : Zur Analysis der Wirklichkeit ( 1876), Die Klimax der Theorien . ( 1884), Gedanken und Tatsachen ( 1882-1901). Anzi tutto, quindi, un « ri­ torno a Kant » , ma un ritorno critico, non dogmatico : « Nella Critica d�lla ragion pura egli avverte . - sono gettate norme per le tendenze di tutti i secoli altrettanto importanti che quelle gettate dall'Organon di Aristotele. Indubbiamente, il grande critico, il nemico di ogni dogmatismo non auto­ nomo, vuole, anche lui, essere trattato criticamente, non dogmaticamente. Senza dubbio, non dobbiamo guardarci dal criticarlo là dove, secondo i1 nostro piu avanzato sapere, egli ha torto ; dobbiamo intenderlo secondo il suo spirito, non secondo la sua lettera ; e quindi si deve parecchio appro­ fondire, vagliare, completare, ad esempio, il concetto a priori, la dottrina delle categorie, la genesi dell'intuizione ecc. >> (Kant und die Epigonen, ed. Bauch, Berlino, 1912, p. 214). Sulla base di questa premessa metodo­ logica, Liebmann, se da un lato riconosce a Kant il merito di avere aperto -

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la strada all'idealismo trascendentale, ad una filosofia cioè che non conce­ pisce alcuna indipendenza dell'oggetto rispetto al soggetto di conoscenza, gli obietta l'incoerenza dell'ammissione della cosa in sé. Da questa incoe­ renza, secondo Liebmann, non sono riusciti a liberare Kant i filosofi post­ kantiani, da Fichte a Hegel, da Herbart a Schopenhauer. Dalla stessa incoe­ renza Kant può essere liberato ; e Liebmann ritiene di averlo liberato non riconoscendo altra realtà che non sia quella calata nella rappresentazione conoscitiva dell'uomo. Analogamente, Liebmann esclude l'esserci del bene o del male, del bello o del brutto in sé, non riconoscendo altri valori etici ed estetici che non siano quelli costruiti in effetti dalle nostre sensazioni e dalle nostre rappresentazioni. Da ultimo, sul terreno della ricerc � scienti· fica, non hanno senso, per Liebmann, i fatti in sé e per sé, bensi i fatti rappresentati : la « logica dei fatti » è l'unica ed autentica realtà dei f�tti : è questo il motivo fondamentale di Zur Analysis der Wirklichkeit. Un « ritorno a Kant » , soprattutto alla rigorosa sistematicità del criti· cismo kantiano, progetta anche Eduardo Zeller, il celebre storico della filo­ sofia antica che consegna il suo nome soprattutto a Die Philosophie der Grie� chen in ihrer geschichtlichen Entwicklung dargestellt ( 1859-1868). Nato a Kleinbottwar nel Wiirttemberg, il 22 gennaio 1814, egli studia al seminario teologico di Tubinga, dove ha come maestro F. Ch. Baur. Libero docente a Tubinga nel 1840, percorre la sua fortunata carriera accademica, insegnando a Berna ( 1847), a Marburgo ( 1849), a Heidelberg ( 1862), a Berlino ( 1872), a Stoccarda ( 1895), dove muore il 19 marzo 1908. Comincia hegeliano e solo in un secondo momento si aècosta al criticismo che egli svolge teoreticamente in proprio come una forma di gnoseologia empirica : di una gnoseologia che, mantenendo in piedi l'impianto trascendentale kantiano, no:ri. perda di vista il problema della produttività gnoseologica affidata al ruolo della sensazione nella conoscenza. Il suo scritto fondamentale resta, in proposito, cioè dal­ l'angolo visuale dei nostri attuali interessi storiografici, il saggio intitolato Uber Bedeutung und A ufgabe der Erkenntnistheorie ( 1862). Scrive Zeller : « Il merito immortale di Kant è di aver liberato la filosofia da questo dogmatismo : non solo di aver riportato in campo il problema dell'origine e della verità delle nostre rappresentazioni, ma anche di averlo 1isolto in maniera piu radicale e piu comprensiva, come nessuno di quelli che l'hanno preceduto ha fatto. Questi ultimi avevano fatto derivare le nostre rappresen­ tazioni o solo dall'esperienza o · solo dal nostro spirito. Kant riconosce che esse scaturiscono dall'una e dall'altra fonte ; e ciò sostiene. non nel senso eclettico come se una avesse un'origine empirica e l'altra un'origine a priori, giacché la sua opinione è che non c'è una sola rappresentazione in cui i due elementi non .siano uniti » ( Ober Bedeutung, ecc., in Vortriige und A bhandlungen, II S., Lipsia, 1877, p. 485). Cosi riassunta la problematica gnoseologica di Kant, cioè la problematica del giudizio sintetico a priori che accoglie in sé il momento positivo del razionalistico giudizio analitico a priori e il momento positivo dell'empiristico giudizio sintetico a posteriori, Zeller individua, con sentimento netto del tralignamento in senso idealistico del criticismo, il compito della teoria della conoscenza dopo Kant : « Sem­ pre piu fortemente dobbiamo riconoscere che in tutte le nostre rappre­ sentazioni c'è un elemento soggettivo, che in esse le cose ci si mostrano sempre solo come le portano le forme in noi innate dell'intuizione e del pensiero, ed allora ci si impone anche l'improcrastinabile problema della verità delle rappresentazioni alle quali per questa via arriviamo. Può benis-

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simo esserci a fondamento delle nostre rappresentazioni qualcosa di oggettivo, ma come è possibile conoscere quest'oggettivo nella sua forma pura, l'in-sé delle cose, se le cose ci sono date sempre solo nelle forme soggettive di rappresentazione ? Kant risponde che è impossibile, e questa impossibilità gli appare cosi evidente che non trova per essa nessuna altra prova. Ma proprio qui è l'errore fondamentale del criticismo, il · passo fatale verso quell'idealismo che doveva svilupparsi immediatamente in Fichte con cosi rigida unilateralità » ( ibidem, p. 492). Dove, la preoccupazione anti· dealistica di Zeller va compresa come cura di salvaguardare, nella sintesi a priori kantiana, l'elemento produttivo, e cioè l'elemento empiristico, sinte­ tico del trascendentalismo kantiano. ·

b) L'interpretazione fisiologica del kantismo (H. Helmholtz, A. Riehl, ecc.) Un notevole interesse, nel quadro storiografico che qui si deve realiz­ zare, ha quella che felicemente si è detta l' « interpretazione fisiologica del kantismo » (N. ABBAGNANO, St. d. fil., cit., Il, 2, p. 270). Una tale interpre­ tazione attua, partendo dalle scienze di cui è cultore, la fisiologia e la fisica, anzi tutto Ermanno Helmholtz. Nato a Potsdam il 31 agosto 1821, Helmholtz studia medicina a Berlino, laureandosi con una tesi sul sistema nervoso (De fabrica systematis nervorum, 1842); insegna anatomia prima e fisiologia poi a Bonn e, successivamente, a Heidelberg ; dal 1871 occupa la cattedra di fisica all'università di Berlino, dove dirige anche l'istituto di fisica di Charlottenburg e dove muore 1'8 settembre 1894. I suoi scritti, che in questa sede maggiormente ci interessano, sono Vber das Sehen des Menschen ( 1855), I'Handbuch der physiologischen Optik ( 1856-1866), Die Lehre von den Tonenempfindungen als physiologische Grundlage jilr die Theorie der Musik (1863) e Die Tatsachen in der Wahrnehmung (1879). Riassume cosi il rap­ pqrto Helmholtz-Kant il Cappelletti : « Si rivolse verso il Kant che aveva conosciuto attraverso gli studi ginnasiali e le conversazioni con il padre. Ma questo ritorno a Kant, che doveva essere per lo Helmholtz un ritorn() alla distinzione programmatica del dato trascendentale e del dato empirico, non impedi l'istituirsi nella sua epistemologia d'una certa equivocità, con­ forme, del resto, alla tendenza di buona parte del movimento . neokantiano· in Germania come in Francia. L'epistemologia e la gnoseologia helmholt­ ziane fiorirono negli anni di Heidelberg e di Berlino, ma preannunziarono il loro orientamento a Koenigsberg con due scritti di primaria impor­ tanza, teoretica e storica : la memoria del '52 Sulla natura delle sensazioni nel soggetto umano e il discorso Sul senso della vista delfuomo, che Hel­ mholtz tenne nel '55 per l'inaugurazione del monumento a Kant. Orienta­ mento soggettivistico : dove, però l'io trascendentale e l'io corporeo, l'origine della normatività conoscitiva e la causa delle diverse modalità conoscitive dei diversi organi di senso pretendevano di richiamarsi l'una all'altra, e dì costituire su piani differenti un soggetto omogeneo. Il kantismo del fisiologo Helmholtz veniva a conflitto, inconsaputamente, con alcuni passi di capitale importanza della Critica della ragion pura : passi, nei quali Kant aveva distinto la soggettività trascendentale da ogni altra possibile maniera d'indi­ viduarsi del soggetto conoscitivo » (Introduzione a Helmholtz, Opere, Torino,, 1967, p. 18). Il conflitto si scava in particolar modo sul terreno del diverso modo di intendere (almeno, presunto tale da parte di Helmholtz) la sensa­ zione. In sede di ottica e di acustica fisiologica, Helmholtz considera la

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sensazione VIsiva o uditiva come un segno che l'azione delle cose esterne produce sui nostri organi di senso. Resta che la sensazione è, anche per Kant, la fonte conoscitiva attraverso la quale la realtà si dà al soggetto di conoscenza; e perciò, i segni delle sensazioni testimoniano questa stessa realtà, se hanno un rapporto con essa. Ad ogni modo, l'incontro-scontro, su questo punto, tra Helmholtz e Kant si può dedurre da questo passo di Die Tatsachen in der Wahrnehmung : « Anche la fisiologia riconosce, dunque, le qualità sensoriali come pura forma dell'intuizione. Ma Kant va oltre. Egli pretende che non soltanto le qualità delle sensazioni, ma anche il tempo e lo spazio ineriscano alla caratteristica della nostra facoltà intuitiva : nulla possiamo, infatti, percepire nel mondo esterno, senza che l'evento accada in un determinato tempo e sia collocato in un determinato luogo. La determi­ nazione temporale appartiene finanche a ogni percezione interna. Kant designò pertanto il tempo come la forma trascendentale, data e necessaria, dell'intuizione esterna. Kant considerò, dunque, le determinazioni dello ·spazio come tanto poco appartenenti al mondo reale, alla " cosa in sé ", quanto i colori che noi vediamo appartengono ai corpi in se stessi » (l fatti nella percezione, in Opere, cit., p. 602). Sebbene subito dopo Helmholtz ammetta che « le scienze della natura possono, fino ad un certo limite, procedere con la filosofia » , in questo caso con la filosofia kantiana, egli accetta il punto· di vista criticistico del carattere trascendentale del tempo e dello spazio. Rigetta, invece, l'opinione kantiana che gli assiomi della geometria abbiano un carattere trascendentale : « Preso atto delle polemiche, le quali, negli ultimi anni, si sono incentrate sul problema se gli assiomi della geometria siano proposizioni trascendentali o empiriche, io potrei innanzi tutto far notare che questo problema dev'essere nettamente distinto dall'altro, da noi discusso, se lo spazio sia o no, in generale, una forma tra­ scendentale dell'intuizione » (ibidem, p. 609). Spiega opportunamente il Cappelletti : « A differenza di quanto Kant aveva affermato nell'esempli­ ficazione annessa all'Estetica trascendentale, poteva considerarsi dimostrato per merito di Lobacevskij, di Gauss, di Riemann e dello stesso Helmholtz che non esistono né una sola metrica dello spazio né una sola possibile ·situazione geometrica per il soggetto conoscente, e-che perciò gli assiomi della geometria non potevano essere considerati proposizioni sintetiche a priori nel senso di Kant » (ibidem, p. 586). Helmholtz è amico di Kant, ma piu amico della verità scientifica ; e la fisiologia ottica ed acustica, nonché il vasto orizzonte di ricerca aperto dalle geometrie non euclidee, lo spingono a portarsi oltre un kantismo di stretta osservanza ; e ciò sul piano della stessa gnoseologia, sul quale è castigato ad un limite il trascendentalismo kantiano. Di piti stretta osservanza kantiana, e ritornando ad un Kant piu anti­ dealista nella misura in cui si sottolineano i tratti realistici del trascenden­ talismo kantiano, è Aloisio Riehl (nato a Bolzano il 27 aprile 1844, morto a Neubabelsberg il 21 novembre 1924, professore a Graz, a Friburgo, Kiel, H alle, Berlino). La sua opera che qui maggiormente ci interessa . è Der philosophische Kritizismus und seine Bedeutung filr die positive Wissenschaft ( 1876-1877). È significativo che in quest'opera sia sottolineata l'importanza dell'estetica kantiana. L'estetica è la dottrina della sensibilità come fonte di conoscenza; ed è, la sensibilità, la fonte che rinvia al reale. È l'estetica .che, nella costruzione kantiana, impedisce al criticismo di ridursi. ad un inte.llettualismo di tipo razionalistico. Certo, è l'estetica che richiama la

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necessità di un contenuto reale perché ci sia conoscenza concreta, fornita appunto di un contenuto, anche se poi si sostiene che, per la stessa cono· scenza, occorrono delle forme a priori, trascendentali. Attraverso l'estetica e la fonte conoscitiva in essa teorizzata c'è come il privilegiamento del lato empiristico della sintesi a priori kantiana : della sintesi che non si può avere senza la sensazione, l'osservazione, il contatto con la realtà, cui si appellano positivisticamente le scienze naturali ed esatte. Dalla sensazione non ci si aspetta nessuna rivelazione sulla cosa in sé, ma certamente ci si aspetta il riferimento concreto alla realtà. Riehl progetta un realismo che non � assolutamente in contrasto con il trascendentalismo criticistico ; e, allora, acquista un significato preciso questa sua dichiarazione programma­ tica : « Non contraddice ad alcun concetto del nostro pensiero assumere che ciò che diventa oggetto entrando nel rapporto che costituisce la coscienza esista anche indipendentemente da questo rapporto. Anzi, quest'afferma­ zione è connessa necessariamente con l'idea del rapporto : ciò che non è non può neppure entrare in un rapporto qualsiasi » (Der philosophische Kritizismus, cit., Il, 2, p. 142). La coscienza è il rapporto soggetto-oggetto ; e Riehl non dubita che l'oggetto possa assumersi anche in una assoluta indipendenza dal soggetto. La stessa funzione trascendentale presuppone l'oggetto in questa sua indipendenza; questa funzione è sintetica e parte dall'opposizione del soggetto e dell'oggetto che si supera nella coscienza originaria. In questa coscienza ci sono le categorie che condizionano l'espe· rienza e c'è la sensazione che consente alle categorie di riempirsi di un contenuto reale. L'esperienza è una realtà c�mplessa in cui l'elemento sog· gettivo e l'elemento oggettivo si integrano reciprocamente ; né, d'altra parte, è una nozione psicologico-individuale, se è piuttosto qna nozione sociale per la coscienza della sua uniformità posseduta da tutti i soggetti capaci di sentire. Questa uniformità trova corrispondenza nella regolarità degli stessi fenomeni, quella che consente a Riehl di riconoscere, seguendo Helmholtz, nella > . In questa coscienza, il pensiero si iden­ tifica con l'essere; il che significa che, in essa, la conoscenza si risolve sul piano del pensiero. Pensare e conoscere sono la stessa cosa : chi ha anche un minimo di dimestichezza con il lessico kantiano sa che ciò che esclude Kant · è proprio l'identità del pensare e del conoscere, che è poi quella che sancisce e giustifica l'identità di pensiero ed essere. Fatto è, però, che questa identità Cohen Iion la pone in senso idealistico ; o, almeno; presume di non porla in questo senso. L'identità a Cohen serve solo per eliminare la presupposizione di qualsiasi dato reale rispetto alla conoscenza : di qui, anche, il rifiuto del concetto kantiano di sintesi. La conoscenza come sintesi pre­ suppone qualcosa che è fuori del pensiero, impedendo a quest'ultimo di qualificarsi come gnoseologicamente esaustivo, proprio, si badi, come glielo impedisce Kant per non cadere nell'idealismo. Al concetto di sintesi Cohen sostituisce il concetto di produzione (Erzeugung); alla logica della sintesi sostituisce la « logica dell'origine ( Ursprung) >> : di conseguenza, le forme trascendentali, in quanto non vuote, in quanto forme del pensiero e del­ l'essere, non sono forme per il giudizio, ma sono, esse stesse, giudizi. Al limite, si fa avanti un modo diverso di concepire l'apriori kantiano, inteso come legge di produzione costitutiva della possibilità dell'esperienza. Natu­ ralmente, la stessa realtà, cosi recepito il metodo trascendentale, si defi­ nisce in modo nuovo ; e questo è il modo che si impone non appena Cohen comincia a studiare l'applicazione del . metodo trascendentale al calcolo infinitesimale, in Das Prinzip der infinitesimalmethode und seine Geschi­ chte ( 1883), significativamente apparso tra la prima e la seconda edizione della Kants Theorie, e che vuole essere un « capitolo della fondazione della critica della conoscenza n. « La qualità pensata come realtà >> - afferma Cohen - « è contemporaneamente un esempio della differenza tra la :filo­ sofia detta del concetto e la critica della conoscenza. Non è dal concetto,

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ma dal princ�pro che bisogna partire. Ed il principio è la scienza che Io presenta. II metodo trascendentale parte dal fatto della scienza matematica della natura » (pp. 124-25). Ed è la scienza matematica della natura che suggerisce la ·. nuova definizione della realtà : la realtà - dice Cohen nella Kants Begriindung der Ethik ( 1871) - deve essere concepita « come pen­ siero concettuale, non come elemento intuitivo » (p. 28). Un « pensiero con­ cettuale », una realtà autentica è la stessa scienza matematica, soprattutto come calcolo infinitesimale, se la realtà, soprattutto l' Ursprung della realtà, è l'infinitamente piccolo, maggiore di zero e pur tendente a zero. II risul­ tato è l'affermazione di una logica del reale e di una realtà della logica che, se chiama in campo l'idealismo, è l'idealismo platonico che fa inter­ venire ; né si deve dimenticare che, nella Logik (p. 5), Cohen afferma che « nel Rinascimento, la matem atica e la meccanica convalidano la tra­ scinante forza dell'idea platonica » . Questi i tratti caratteristici della > di Eduard von Hartmann Eduard von Hartmann (nato a Berlino, il 23 febbraio 1842, morto a Gros-Lichterfelde il 5 giugno 1906) resta soprattutto, nonostante la vasta e varia · produzione anteriore e posteriore, l'autore della Philosophie des Unbewussten ( 1869), un'opera fortunatissima, giunta alla decima edizione

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nel gi �o di venti anni, che sono anche anni di enorme successo per l'autore, se in essi vengono pubblicati non meno di cinquantotto scritti sulla sua filosofia (HoFFDING, Storia della filosofia moderna, trad. it. di P. Marti­ netti, con ind. bibl. di D. Bigalli e Paolo Rossi, III, Firenze, 1970, p. 230). A questo successo irride, attraverso un'aspra critica contro lo storicismo, Nietzsche (nella seconda delle sue Unzeitgemiisse Betrachtungen ( 18731875), Vom Nutzen und Nachteil der Histoire fiir das Leben), definendo Hartmann un « parodista filosofico » , un filosofo all'altezza del « moderno fanatismo del processo che nuota e si annega nel fiume del divenire », un « ameno personaggio » ed un « briccone >> , ed augurandosi che possa finire, tra tante illusioni che fioriscono in un'epoca presa dalla (( malattia della storia », (( l'illusione dei suoi contemporanei sul suo conto », sul conto cioè di Hartmann che i contemporanei con la sua parodia filosofica (( ha disprezzato, disprezzato con tanta nausea ». Eppure, non mancano alcune ragioni del successo di Hartmann nella cultura filosofica tedesca degli anni sessanta-ottanta del secolo scorso ; e possono essere proprio quelle addotte da Hoffding : (( Per la sua esposizione chiara ed ampia, per l'uso frequente di esempi tolti dalla scienza naturale, per il connubio di un materiale realistico con uno spirito romantico-mistico e infine per la sua inclina­ zione verso il pessimismo, il quale per l'influenza sia degli scritti, allora in voga, di Schopenhauer, sia per le correnti dominanti dell'epoca, aveva acquistata una grande diffusione, Hartmann poté trovare dei lettori di una cerchia molto vasta » (op. cit., p. 230). Può essere, inoltre, se si guarda ad una caratteristica fondamentale dell'opera di Hartmann, quella di essere antiaccademica (in questo senso, direi, ben allineata con quella di Scho­ penhauer, all'inizio messo in ombra dal professore Hegel e la cui f01-tuna comincia solo con la seconda edizione · del suo capolavoro 1844 e con quella dello stesso Nietzsche ), nonché al ruolo che essa finisce col giuocare in questi anni anche fuori dell'area della cultura filosofica tedesca, accetta­ bile questa indìcazione di Lukacs : (( Nei filosofi extraaccademici appaiono, a dire il vero, altre tendenze : Eduard von Hartmann, per esempio, vuole creare una sintesi eclettica mediante l'ultimo Schelling, Schopenhauer e Hegel... Queste tendenze rimangono episodiche, tanto piu che nella conce­ zione eclettica di Hartmann si nascondono molti residui del periodo ante· riore al '48, che peraltro sono anche, in parte ,e in un certo senso, antici­ pazioni teoretiche delle posizioni della filosofia della vita del periodo imperialistico » (La distruzione della ragione, trad. it. di E. Amaud, Torino, 1959, p. 409). Resta, ad ogni modo, che il successo prima e la fama poi, ed anche oggi, sono legati soprattutto alla Philosophie des Unbewussten, un'opera scritta a soli ventisei anni. La precedono due scritti in cui Hat"tmann prende contatto e discute con tre dei suoi interlocutori fondamentali : Hegel, Schel­ ling e Schopenhauer, quelli stessi che, come si è letto in Lukacs, cerca di mettere ecletticamente d'accordo nella sua (( filosofia dell'inconscio » : Vber die dialektische Methode ( 1868) e Schellings positive Philosophie als Einheit von Hegel und Schopenhauer ( 1869). Delle opere successive, nessuna raggiunge il successo, nonostante la loro importanza, della Philosophie des Unbewussten. Tra di esse vi sono la Phiinomenologie des sittlichen Bewusstseins ( 1879) che taluni ritengono la sua opera piu notevole, l'Asthe­ tik ( 1886-1887) e, infine, il ponderoso System der Philosophie in Grundriss (8 voli., 1906-1909), in cui il filosofo cristallizza nella trattazione sistema-

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tica (dottrina della conoscenza, :filosofia della natura, psicologia, metafisica, axiologia, principi della dottrina etica, filosofia della religione, estetica) le sue piu significative intuizioni e le sue idee piu caratteristiche. La collocazione di E. von Hartmann nell'ambito di questa ricerca, intanto, può spiegarsi per la sostanza fondamentalmente antimaterialistica della « filosofia dell'inconscio », che è poi una filosofia che Hartmann pre­ sume non sempre a torto di costruire anche basandosi sul metodo induttivo delle scienze della natura. Lo studio di queste scienze, che lo impegna in una serrata discussione con i materialisti naturalisti (cfr. Briefwechsel zwischen E. von Hartmann und E. Haeckel, in « Kantstudien », 1956-57, pp. 3-24), è individuabile in particolare a fondamento di Das Grundproblem des Erkenntnistheorie ( 1889) e della Kategorienlehre ( 1898), in cui Hart­ mann traccia le linee di un realismo trascendentale che non a caso a Lenin, lettore di un'altra sua opera aperta ai problemi delle scienze naturali, Die Weltanschauung der modernen Physik ( 1902), appare come una forma di idealismo. Piu precisamente, Lenin parla di una « interpretazione idea­ listica delle ultime conquiste della fisica » da parte di Hartmann (Materia­ lismo ed empirioçriticismo, trad. it. di F. Platone, con pref. di L. Gruppi, Roma, 1970, pp. 279-80) ; e, quale che possa essere la sua prospettiva critica ed anche ideologica, Lenin ha ragione di parlare in questi termini, se lo stesso Hartmann afferma che « soltanto la tendenza neokantiana e agnostica del nostro tempo ha portato a un'interpretazione in senso idealistico dei risultati conclusivi della fisica » (Die Weltanschauung, cit., p. 218, in LENIN, op. cit., p. 280). Il neokantismo hartmanniano, pure intravisto in un'opera ormai lontana cronologicamente dalla Philosophie des Unbewussten, consiste nel respingere un realismo ingenuo che esclude il ruolo del tra­ scendentale, e cioè del soggettivo, dalla costruzione scientifica. L'idealismo hartmanniano, in verità, non va mai oltre questa assunzione del trascen­ dentale. Intanto, fin dal principio, Hartmann dichiara di far suo il metodo induttivo . delle scienze naturali, che gli offrono la base empirica di una filosofia che non intende, tuttavia, trascurare il lascito della filosofia di Hegel, di Schelling, e di Schopenhauer (Phil. des Unb., I, p. 14) : e rispetta lo spirito della dichiarazione quando, a fondamento del mondo dei fatti naturali, pone una forza spirituale inconsapevole, l'inconscio (das Unbe­ wusste) appunto, qualcosa tra la volontà e la rappresentazione di Scho­ penhauer, tra la volontà cieca di Schopenhauer e l'idea logica di Hegel, anche come l'Assoluto schellinghiano, come quello che, assunto, non con­ sente di separare mondo fisico e mondo dello spirito. L' inconscio è l'essenziale unità metafisica degli attributi dell'infinita volontà e dell'in­ finita rappresentazione : « Volontà e rappresentazione » - insisterà ancora Hartmann nella Kategorienlehre ( p. 48) « costituiscono un'unità indis­ solubile, nell'attività spirituale cosciente come in quella incosciente, e for­ mano solo le opposte polarità di questa unità ». La volontà pone il che (dass) del mondo, la rappresentazione o idea pone il che cosa (was) de] mondo ; la materia e lo spirito non costituiscono due universi contrapposti ed irriducibili, ma modi diversi di una stessa realtà : e, in questa afferma­ zione, si ascolta veramente l'Assoluto di Schelling piu bruniano o anche piu spinoziano. E questa realtà ha tre sfere : quella metafisica, che, dirà ancora Hartmann con accento schellinghiano, costituisce « la radice unitaria dello spirito cosciente e della natura, della coscienza e dell'esistenza, dell'interio­ rità e dell'esteriorità » (Kategorienlehre, cit., pp. V-VI) ; la sfera ogget· -

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tivo-reale, il regno della natura o il mondo reale ed oggettivo dei feno­ meni ; la sfera soggettivo-ideale, il regno dello spirito cosciente. Queste tre sfere, il rapporto che intercorre tra loro, sono l'oggetto della dottrina della conoscenza. Il problema fondamentale di questa è, cioè, il rapporto tra la .coscienza e l'esistenza o, se si vuole, è la prima sfera della realtà come mediatrice della seconda e della terz a : in altri termini è la sfera metafisica della realtà. Si ha ragione di dire, allora, che la dottrina gnoseologica di Hartmann, proprio quel realismo trascendentale di cui si è toccato e che a Lenin pare una forma di idealismo, è « un monismo dell'incosciente e un dualismo della coscienza » (cfr. N. ABBAGNANO, Storia della filosofia, II, 2, Torino, 1950, p. 343). Ora, in quanto monismo dell'incosciente, tale dottrina è veramente idealistica, per lo meno nella misura in cui resta fedele ad un assunto fondamentale del primo Schelling : o anche nella misura in cui sembra ricordare l'unità del pensiero e dell'essere propria dell'idea­ lismo hegeliano, contro il quale, tuttavia, si leva, contemporaneamente, il dualismo schopenhaueriano. Si comprende, allora, l'eclettismo hartman­ niano che si è visto sottolineare da Lukacs. L'eclettismo si estrinseca attra­ verso il gioco delle concessioni al monismo idealistico e al dualismo. Le concessioni al dualismo, poi, sono fatte anche partendo dall'assunzione dell'inconscio come principio assoluto o come Dio. Certo, Dio è das Unbewusste per eccellenza ; come tale, è la realtà in cui il pensiero e l'essere si fondono in unità ; ma Dio non è intaccato dalla coscienza, propria del­ l'uomo, legata al dualismo di soggetto ed oggetto, di pensiero ed essere. Si prepara, per questa via, un'altra concessione : al teismo speculativo, giac­ ché Dio è distinto dall'uomo che è fornito di coscienza e che, proprio perché fornito di coscienza, è solo un'espressione parziale dell'inconscio totale ; ed è, peraltro, Dio, distinto dal mondo, esso stesso espressione par­ ziale dell'inconscio. Dio, ancora, in quanto inconscio e non coscienza, in quanto unità · di pensiero ed essere, di soggetto ed oggetto, di spirito e natura, che sono suoi modi, opera nell'uno e nell'altro modo : nell'uomo, . come nella natura. Ed i fatti di questi, spiegabili che siano anche con il ricorso alla categoria della causalità ( determinismo meccanicistico), rive­ lano un interno finalismo, che è poi quello stesso che si è visto servire al teismo speculativo come un · elemento per provare l'esistenza, la trascen­ denza e la personalità di Dio. L'operare di Dio nella natura è lo stesso operare dell'inconscio, se Dio è l'inconscio per eccellenza. E l'inconscio, infatti, per Hartmann, opera nei fatti naturali piu vincolati alla categoria della causalità come in quelli della vita organica e, successivamente, della vita psichica. Tutto nella natura, dal mondo vegetale a quello umano, rivela un'attività spirituale inconsapevole­ che tende ad · un fine : e questa attività è anche volontà ; è, ad esempio, la forza che agisce nella costituzione dei tipi vegetali, l'istinto che aiuta a sopravvivere nella lotta contro le malattie, l'istinto di conservazione ecc. Da ultiu'to, Dio, o l'inconscio opera anche nella storia. È un'afferma- ­ zione, questa di Hartmann, che suscita, come pure si è visto, lo sdegno di Nietzsche ; né poteva essere diversamente, se Nietzsche, discepolo di Bur­ ckhardt e di Schopenhauer, non può condividere una } e perché « la dialettica è l'irrazionalismo stesso reso metodo, reso razionale, perché · il pensiero dialettico è un pensiero razionale-irrazionale » ( ibidem, Il, pp. 271 segg.). Il neohegelismo si appoggia, ad un certo punto, a questa interpretazione del pensiero dialettico come pensiero razionale-irrazionale e svolta per la via dell'irrazionalismo. Ciò avviene in particolare con Hermann Glockner (nato a Fiirth, in B aviera, il 23 luglio 1896), professore a Giessen e poi alla Technische Hochschule di Brunswick. Anche Glockner lega il suo nome a Hegel con un'opera storica e monograficamente critica : basti ricordare lo Hegel (2 voli., 1929-1940) e lo Hegel-Lexicon (1935-1939) ed il suo ruolo di animatore e realizzatore della ]ubiliiumsausgabe delle opere di Hegel (ed. Fromann di Stoccarda). Ma Glockner discepolo di P. Hensel (kantiano) e di H. Rickert ( filosofia dei valori), nonché sotto il profondo influsso di Dilthey e dell'estetica di Vischer, non si ferma né può fermarsi ad un con­ tatto puramente storico · e filologico con l'opera hegeliana. La interpreta; la fa vivere secondo i modi in cui si deve far vivere, o di fatto vive, la storia. della filosofia (cfr. passo antologico), seguendo e sviluppando l'inter­ pretazione di Kroner. Bene, allora, G. Lukacs : « Questa decisa presa di posizione di Kroner a favore dell'irrazionalismo è t�nto pio degna di nota in quanto per il resto egli appartiene all'ala moderata del neohegelismo. Questa tendenza viene espressa in modo molto piu radicale da Glockner » (La distruzione della ragione, cit., p. 577). Lukacs ricorda anche opportu­ namente il puntuale riferimento di "Glockner all'interpretazione di Kroner : « L' " irrazionalismo " di Hegèl non è stato nrisconosciuto, ma anzi ener­ gicamente sottolineato da Kroner. Ma esso è stato esposto, per cosi dire, solo implicitamente : come elemento del metodo dialettico » (Hegel, cit., l, Stoccarda, 1929, p. Xl); ed il suo programma, non solo di storico inter­ prete di Hegel ma anche di filosofo : « Vorrei recare alla coscienza gli elementi irrazionali di ogni pensiero concreto mediante un procedimento piu differenziato di quanto n�n avvenga nello stesso Hegel. Vorrei mostrare che questi elementi possono essere collegati in un metodo scientifico-filosofico non solo in modo dialettico » ( ibidem, p. XXI). Di qui, la preferenza di Gloçkner, a danno della parte logico-sistematica, per il pensiero « vitale » ­ oggettivo · dello Hegel della riflessione che va dagli anni di fine Settecento fino alla Phiinomenologie des Geistes ( 1807). Al panlogismo Glockner pre­ ferisce il « pantragismo », come dice con parola mutuata da Hebbel : di qui lo sviluppo di quello che egli chiama « pensiero concreto » ( das kon-

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krete Denken), attuato soprattutto in Das A benteuer des Geistes (1938) e in Die europiiische Philosophie von den Anfiingen bis zur Gegenwart ( 1958). Non meraviglia, allora, che certo neohegelismo possa fare delle con­ torsioni reazionarie per conquistarsi, come ricorda ancora Lukacs (op. cit., p. 585), il favore di una delle piu grandi espressioni storiche del « pantra­ gismo » dei tempi moderni : l'hitlerismo, il nazismo.

7. Etica ed estetica posthegeliana: K. Kostlin, F. Th. Vischer ecc. Molte sono le indicazioni bibliografiche che si possono fornire sulla ripe­ tizione scolasticamente hegeliana o sullo svolgimento ulteriore di due grandi temi della filosofia di Hegel : quello etico-politico e quello estetico (cfr. Bibliografia essenziale della sezione dedicata a La Destra hegeliana, in questa Grande A ntologia filosofica, vol. XVIII, pp. 693-694). Una integra­ zione di quelle indicazioni è, qui, indubbiamente possibile, ricordando gli scritti di etica o di estetica di Carrière, Weisse, Uh·ici ecc. (cfr. Biblio­ grafia essenziale della presente sezione). Ma, di là da questa integrazione, meri­ tano attenzione due hegeliani che hanno tentato un serio svolgimento per­ sonale del tema etico-politico e del tema estetico. Conviene ricordare, per cominciare, Karl Reinhold Kostlin (nato a Urach, il 28 settembre 1819, morto il 12 aprile 1894 a Tubinga), autore di una Geschichte der Ethik, fermatasi purtroppo al I vol., Die griechische Ethik bis Plato (1887), di cui è notevole l'introduzione dedicata ad una deduzione della filosofia pratica (cfr. passo antologico), e di Prolegomena zur .iisthetik (1889), in cui ribadisce le idee fondamentali di una sua precedente .iisthetik ( 1863-1869), dove si affaccia il concetto della « vita estetica » come terzo momento rispetto alla vita teoretica e alla vita pratica, da questa differenziata perché, pur essendo contemporaneamente vita teoretica e vita pratica, è destituita di ogni scopo. Manca presso che il ricordo dello hegeliano bello come mani­ festazione· sensibile dell'idea. Il bello, infatti, è, per Kostlin, un oggetto bello costituito, certo, di contenuto e forma : ma la considerazione estetica di esso ne investe solo la forma, il contenuto restando oggetto di conside­ razione teoretica o pratica. Si tratta dell'avvio ad una vera e propria este­ tica della forma, attenta alla trattazione specifica, anche, delle forme belle (figure geometriche, accordi musicali), in uno svolgimento di idee che direi intermedio tra il formalismo estetico kantiano ed il formalismo estetico herbartiano-hanslickiano : non per niente Kostlin collabora con Vischer, con il terzo volume dell'À'sthetik di questi, dedicato alla Musikiisthetik. Una vasta Asthetik oder Wissenschaft des Schonen (1846-1857) scrive, per l'appunto, Friedrich Theodor Vischer {nato a Ludwigsburg il 30 set­ tembre 1807, morto a Gmunden am Traunsee il 14 settembre 1887), pro· fessore di estetica a Tubinga e, per un po' ( 1855), a Zurigo, dove, è utile ricordarlo, ha come collega F. De Sanctis. L'.iisthetik resta l'opera fonda­ mentale di Vischer, che, per intero assorto nello studio della sua disci­ plina, affronta specificamente alcuni dei temi estetici piu significativi come quelli del sublime o del comico o del rapporto tra contenuto e forma, anche in opere minori come : Ober das Erhabene und das Komische. Ein Beitrag zur Philosophie des Schonen (1837) e Ober das Verhiiltnis von lnhalt und Form in der Kunst ( 1858). Hegeliano ortodosso, anche accademicamente tale, fino a guadagnarsi l'accusa aspra di Nietzsche che lo bolla come un filisteo

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della cattedra (Inattuale dedicata a Strauss), Vischer cerca di guadagnare sul piano estetico una sicura indipendenza di riflessione e di discorso. Questo, almeno nell'applicazione dei principi che restano sostanzialmente hege­ liani. G. Lukacs fa bene il punto sulla situazione : « Vischer ha iniziato la sua principale opera estetica in veste di hegeliano. Certamente nemmeno in questo periodo iniziale si dimostrò mai un seguace ortodosso di Hegel : la sua Estetica, infatti, fu composta in un'epoca di massima dissoluzione dello hegelismo, nel periodo preparatorio della rivoluzione del 1848. Tuttavia, la critica che Vischer in questo periodo esercita nei confronti di Hegel non è mai tale da investire i principi >> (Contributi alla storia dell'estetica, trad. it. di E. Picco, Milano, 1957, p. 275). Quello che, non senza sarcasmo, ma a ragione, è definito da Croce « il piu corpulento estetico della Germania, anzi l'estetico tedesco per eccellenza >>- ( Estetica come scienza dell'espressione e linguistica generale, Bari, 195810, p. 374), non tocca i principi di Hegel, anzi da Hegel accetta il fondamentale concetto dell'arte come manifestazione del­ l'idea e, egli aggiunge, proprio perché manifestazione, necessaria limita­ zione di essa. Poi, Vischer cade nelle lamhiccature sistematiche e distin­ zionistiche, esibite in un'opera articolatissima in paragrafi ed annotazioni, nella quale orchestra una metafisica del bello, una trattazione del bello nelle sue espressioni concrete ed una teoria delle arti (si è visto che la tratta­ zione dell'estetica musicale è affidata a Kostlin). Nella metafisica, si fonda e si illustra l'addotto' concetto dell'arte : nella seconda parte, si distingue il bello · naturale oggettivo dal bello di fantasia soggettivo ; nella terza parte, si studiano le espressioni concrete del bello, dell'arte che congiunge il mo­ mento oggettivo (bello naturale) e soggettivo (bello di fantasia). L'arte per eccellenza è, stando al Vischer che in questo si abbandona a:ll'uso della tripartizione ' dialettica, è la poesia che raccoglie in sé l'oggettività delle arti plastiche e figurative e la soggettività della musica, l'oggettività del­ l'arte antica e la soggettività dell'arte moderna. Per ciò che riguarda il posto dell'arte rispetto alla religione e alla filosofia, Vischer la colloca come momento sintetico della filosofia e della religine. Osserva, puntual­ mente, Croce : « Per l'appunto, disporre in un modo o in un altro questi tre pezzi della scacchiera, Arte, Religione e Filosofia, era materia di molte fatiche a quei giorni. È stato osservato che delle sei possibili combinazioni dei tre termini A. R. F., quattro furono tentate : dallo Schelling, F. R. A. ; dallo Hegel, A.R.F. ; dal Weisse, F.A.R. ; e dal Vischer, R.A.F. (HART­ MANN, Deutsche Asthetik s. Kant, p. 217). Ma poiché Vischer stesso (À'stetik, Einleitung, par. 5) riferisce l'opinione del Wirth, autore di un sistema di Etica, il quale optò per la quinta combinazione, R. F. A., risulta che solamente la sesta non venne adoperata e rimane disponibile ; se pure (cosa non improbabile) qualche genio sconosciuto non vi corse col pensiero e non l'espose in qualche suo sistema >> (Estetica, cit., pp. 375-376). Croce, qui, scherza un po', ma· coglie nel segno, con riferimento all'uso di uno strumento dialettico che, in mano a molti hegeliani, diventa un vero e proprio balocco. Tale, quello strumento, rischia di diventare anche tra le mani di Vischer, il quale, tuttavia, utilizzandolo, cerca nell'arte la sintesi piu autentica del soggettivo e dell'oggettivo, del teoretico e del pratico, del­ l'umano e del naturale. Il bello segna per Vischer l'attuazione piu sicura dell'Idea :per ciò che questa vuole essere effettivamente unione di concetto e di realtà ; questa unione, poi, egli osserva in particolare nella bellezza umana (cfr. passo antologico) come espressione suprema della bellezza.

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Successivamente, Vischer pubblic� una Kritik meiner Asthetik e, ancora un Das Symbol ( 1887), scritti raccolti nei Kritische Giinge (ed. a cura di R. Vischer, 1920-22). Ricorda Lukacs : « In Vischer il principio antropologico assume le sembianze di una nuova teoria del simbolo e diventa principio dell'estetica sotto la denominazione di Einfiihlung, termine che piu tardi divenne assai importante ; Vischer lo mutuò dal figlio, lo storico d'arte Robe1·t Vischer, che risentiva fortemente dell'influsso del padre. Il nucleo fonda­ mentale di questa teoria sta nell'idea che noi non possiamo né conoscere né copiare la realtà cosi come essa è oggettivamente ; tutto ciò che noi con­ sideriamo copia della realtà e che ci appare come ricezione nostra di fronte agli oggetti della natura, altro non è che l'introduzione dei nostri pensieri, sentimenti, etc. nel mondo esterno che ci sta di fronte » (Contributi alla storia dell'estetica, cit., p. 293). Il bello come manifestazione, sia pur limi­ tata, dell'Idea come unione di concetto e di realtà è, ormai, dimenticato a vantaggio di una concezione dell'arte intesa come espressione di una visione necessariamente simbolica della realtà ; e la visione simbolica è vis-ione soggettiva della realtà, per ciò che non c'è una realtà in cui non si introducano (Einfiihlung) i sentimenti ed i pensieri umani. L'estetica id�a­ listica si arena nel soggettivismo e, successivamente, nell'irrazionalismo.

8. L'idealismo tedesco e la filosofia russa : P. ]. Caadaev, N. V. Stankevic, V. G. Belinskij ecc.

Il capitolo sull'influenza dell'idealismo tedesco sul pensiero russo è, certamente, uno dei piu interessanti per lo storico della filosofia occidentale e per lo storico occidentale della filosofia. Due grosse presenze, in parti­ colare, sono rilevabili nella filosofia russa dell'Ottocento, quella di Schel­ ling e quella di Hegel. Sul tema, è disponibile, ormai, una letteratura abba­ stanza nutrita (cfr. Bibliografia essenziale); qui, mi limiterò a seguire le indicazioni di una delle piu complete ed esemplari storie del pensiero russo : la Histoire de la philosophie russe di B. Zenkowsky ( tra d. francese di C. Andronikof, Parigi, 1953). Il quale spiega cosi le prime grandi « in­ fluenze occidentali » , e particolarmente tedesche, avvertite in Russia all'i­ nizio del XIX secolo : « Il misticismo... dimostra chiaramente la relazione delle ricerche mi­ stiche con la crisi spirituale generale che si produce nel momento in cui il pensiero s'impegna nella via delle concezioni " libere " cioè non ecclesia­ stiche. Lo si vede ancora piu nettamente nel lavoro puramente filosofico compiuto all'inizio del secolo XIX, e non è certamente per caso che gli spiriti gravitano soprattutto verso Schelling; ma verso lo Schelling della " filosofia della natura ". Questa peculiarità del movimento schellinghiano russo, sostituito piu tardi da un entusiasmo esagerato per l'estetica di Schelling e del romanticismo tedesco in generale, ristabilisce il legame tra la corrente filosofica e l'interesse per la filosofia della natura che avevano manifestato i frammassoni della fine del secolo XVIII (Schwarz ed i suoi amici). Per vedere bene ciò che si ricavava da Schelling e come ciò si faceva, gettiamo un rapido sguardo sul modo in cui la filosofia tedesca della fine del secolo XVIII e dell'inizio del secolo XIX penetrava in Russia. Lo sviluppo generale · della cultura nella seconda metà del secolo XVIII e soprattutto

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l'insegnamento della filosofia nelle scuole superiori spiegano il crescere dell'interesse per i temi puramente astratti. Abbiamo già indicato la diffu­ sione delle traduzioni, spesso manoscritte, di Kant e dei suoi successori ; ma ecco che, all'inizio del secolo XIX, parecchi rappresentanti seri ed anche eminenti della filosofia tedesca vengono ad insegnare nelle Università. I piu degni di essere citati sono Buhle a Mosca e Schad a Charchov. Il primo, uomo coltissimo, dall'esposizione chiara ed elegante, si dedicò piuttosto alle questioni letterarie. Il suo discepolo, il prf. Davydov ... qualificò il suo inse­ gnamento come idealismo ragionevole : voleva, in tal modo, dire che Buhle non era un seguace troppo fanatico dell'idealismo trascendentale. Tuttavia, la dottrina di Kant, a poco a poco ma irresistibilmente, si dif­ fondeva attraverso le università come attraverso le accademie di teologia. La personalità di Schad era piu brillante. Egli fu vittima degli attacchi violenti diretti contro la filosofia nel 1816 e che avevano colpito le uni­ versità di Pietroburgo, Kazan e Charchov (in cui insegnò dal 1811 al 1816). Schad era un discepolo di Fichte ; lasciò una traccia notevole nella storia de.lla filosofia russa, illustrata dai suoi allievi... Ma già nello stesso Schad la dottrina di Fichte cedeva alla " filosofia della natura " schellinghiana ; per i destini della filosofia russa, quest'attenzione estrema, avida potrebbe dirsi, per Schelling (come filosofo della natura), era delle piu caratteri­ stiche. Infatti, la corrente schellinghiana prosegue ancora ai nostri giorni ; ci basterà indicare la sua enorme importanza nel sistema di Vladimiro So­ loviev, la cui influenza è ancora vivace » (op. cit., l, pp. 132-134). In quanto all'influenza di Hegel (e, in linea subordinata, di Fichte) B. Zenkovski la prende in considerazione in relazione alle singole figure che maggiormente l'hanno sentita particolarmente in relazione a N. Stankevic, a M. Bakunin, a V. G. Belinskij, ad A. Herzen : (( Stankevic studia Hegel con attenzione ed entusiasmo. Egli è particolarmente . sensibile alla potenza della sintesi del dialettico tedesco. Traduce un buonissimo articolo di Willm su Hegel e legge i successori, tra i quali Feuerbach e Cieskovski (un hegeliano polacco). Scrive un articolo : Della possibilità di una filosofia come scienza : quest'articolo rimase inedito, non si sa per quale ragione, ed il manoscritto andò perduto >i (ibidem, I, p. 272 ) ; (( Ma ecco che (dopo Kant, Schelling e Fichte) Bakunin legge Hegel e si lascia progressivamente trascinare dalla potente ispirazione di cui tutte · le opere del grande dialet­ tico sono piene. Nondimeno, Bakunin mette per il momento nei termini e nei concetti hegeliani il suo antico contenuto. E, se si è potuto dire che i suoi studi fichteani erano molto " insufficienti ", ben bisognerebbe dirlo ancor di piu delle sue letture di Hegel... Con il suo carattere appassionato ed incline al proselitismo, egli diffonde l'hegelismo, come lo concepiva allora (tra gli anni trenta e quaranta : la parentesi è mia), tra gli scrittori ed i giornalisti che lo circondavano ; gli tocca, dunque, un posto importante nella st01ia dell'hegelismo russo. Egli, tuttavia, non spingè fino all'estremo il suo studio e solo a Berlino abbraccia l'intero sistema di Hegel... Verso la fine della stessa epoca (1840), Bakunin offre anche agli " Annali nazio­ nali " un articolo Della filosofia, puramente teorico... Il fermento hege­ liano ha anche cominciato ad agire sul problema della conoscenza. Ne vediamo wia prova molto netta in un secondo articolo, in cui Bakunin espone la Fenomenologia dello Spirito. Questo articolo non ha niente di origi­ nale, ma esprime ancora piu deliberatamente l'idea fondamentale di Hegel, cioè che la coscienza particolare è mossa dall'essenza universale » (ibidem, ·

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l, pp. 277-279); « Nel 1837 Bakunin Io (Belinskij) introdusse a Hegel, aprendo in tal modo un nuovo capitolo della sua vita spirituale. Plechanov ben avevil osservato che, quando anche Belinsk.ij si fosse liberato (nel 1841) del suo sentimento di dedizione completa a Hegel, gli restò fedele sotto molti rapporti. Infatti, l'influenza da Hegel esercitata sul suo pensiero fu profondissima : egli raccontava spesso e con emozione ciò che il sistema dialettico gli aveva donato. Si è rimproverato piu di una volta a Belinsk.ij di non aver letto i testi e di non averli conosciuti se non attraverso esposi­ zioni specificamente fatte per i suoi intenti. Comunque sia, il sistema hege­ liano sedusse Belinskij, lo strappò dall'idealismo astratto, orientandolo verso il realismo >> (ibidem, I, p. 294) ; « Herzen studia Hegel a · fondo, come testimoniano eloquentemente pagine del suo gio1·nale ; ma la sua analisi è originalissima. Tchijevski riconosce che, " pur partendo da pre­ messe hegeliane, non riprende quasi in nessuna parte le formule e gli schemi hegeliani ". Plechanov rimprovera costantemente a Herzen di com­ prendere solo in parte il sistema di Hegel, pur ammettendo che non vi è in lui « alcun disdegno >> per Hegel. Uno studio molto attento di Herzen mostra, infatti, che egli non era un hegeliano nel senso proprio del termine, che non solo il suo atteggiamento verso Hegel era " libero ", ma ancora che egli prendeva da lui ciò di cui aveva bisogno >> ( ibidem, l, p. 317). Tra i molti schellinghiani nominati da Zenkovsky (op. cit., l, pp. 134-146) emerge la figura di Petr Jàkovlevic Caadaev ( nato a Mosca il 27 maggio 1794, morto nella stessa città il 14 aprile 1856). Contro la slavofilia del suo tempo, Caadaev scaglia tutta la carica del suo > , 1896 ; A. ALIOTTA, G. S., in « Cul­ tura filosofica », 1908 ; L. KLJUBOWSKI, Das Bewusstsein und das Sein bei W. S., Heidelberg, 1912 ; A. PAPEL, Beitriige zur philos. Rechtslehre, zugl. e. krit. Wiirdigung der rechtsphilos. Bedeutung W. S.s, 1914 ; A. PALLAZZA, G. S. e la filosofia del/:immanenza, Milano, 1914 ; R. ZoCHER, Husserls Phiinom�nologie und S.s Logik, Monaco, 1932 ; C. GoRETTI, La filosofia pratica di W. S., in « Rivista fil. >>, 1932 ; W. FucHS, W; S. als Rechtstheo­ retiker und Rechtsphilosoph, in >? È l'essenza di tutto l'esistente, l'unità di tutto il diverso, l'anima dell'universo, il principio e fine di tutto ciò che fu, è e sarà, in una parola, l'idea. Ma perché - ci si

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chiederà - questa denominazione nuova e arbitraria per un og· getto vecchio che da tempo ha già avuto il suo nome ? Perché « universale » e non semplicemente « idea » ? . .. In questa nuova parola - rispondiamo - è uno dei piu essenziali segni coi quali si determina un qggetto ed essa vien presa per l'oggetto stesso, perché ne sia piu chiaro il significato. La parola « idea » esige una definizione filosofica, a pochi accessibile, mentre la parola « uni­ versale » (Allgemeinheit) può essere spiegata per tutti in modo piu o meno chiaro e soddisfacente. Tutto l'universale è fonte e ·causa dell'esistenza di tutto il particolare e parziale. L'universale è indispensabile e perciò eterno ; il particolare è casuale e perciò transitorio. Voi vedete davanti a voi un animale, per esempio, un leone. La sua nascita, la lunghezza o brevità della sua vita, la sua morte - tutto ciò è casuale, perché questo leone poteva essere o anche non essere e morire appena nato e vivere fino alla vecchiaia. La natura e il mondo sono indifferenti tanto alla sua esistenza quanto alla sua non esistenza. Ma il leone, come intero genere a sé di animali, formante un anello nella catena dell'or­ ganizzazione del mondo, non un . qualsiasi, non questo leone, ma il leone in generale è già un fenomeno non casuale o parziale, ma necessario e per conseguenza universale. Ogni giorno vengono distrutti moltissimi animali, ma i loro generi sono indistruttibili ; indifferenti ai fenomeni particolari, la natura accuratamente con· serva generi e specie. I fenomeni particolari sono per lei casualità ; i germi e la specie sono idee, quindi universale. E cosi noi abbiamo trovato nella sconfinata · differenziazione della natura ciò che in essa deve chiamarsi universale. Se si consideri che il genere, come idea, concentra in sé innumerevoli segni, egualmente comuni ad una quantità di oggetti che lo esprimono, la parola « univer­ sale » non apparirà né strana né arbitraria. I generi e le specie dei fenomeni organici della 'natura, dai minerali · ( 3) attraverso i vegetali e gli animali fino all'uomo, non sono altro che momenti necessari del suo sviluppo, quei gradini s.ui quali essa, per cosi dire, si riposò nel suo sforzo creativo verso la coscienza di sé at· traverso l'individualizzazione. Tutto l'esistente, ogni oggetto nella natura non è altro che l'idea incarnatasi, individualizzata si, del· l'esistenza assoluta. Essendo fonte di tutto il visibile, finito e transitorio, in una parola, essendo madre di ogni ésistenza sensi· bile, l'idea assoluta, restando nel suo elemento dell'esistenza pura, non accessibile ai sensi, è simile allo zero che, non essendo nulla (3) Qui la parola l è presa in senso ampio, come contrapposizione a tutto il Critica dell'idea di verità ; non coerenza logico-discorsiva di tipo cartesia­ no, ma coerenza sistematica, che non è di una forma imposta a una ma­ teria, ma l'unità stessa di un organismo reggente la molteplicità delle sue interne articolazioni, le quali non hanno vita alcuna indipendentemente da quella unità. Il postulato dell'assolutezza è la completezza. Ma è proprio questo che finisce con l'essere un peso ideale per la conoscenza umana, inattingibile dall'esperienza. Su questa base Joachim innesta la dottrin a bradleyana dei gradi di verità, che qui si configura quale affermazione della validità del giudizio come relativa alla totalità del sistema scientifico, ehe ne contiene la verità piena in quanto verità compiuta del sistema stesso. La coerenza può essere solo nella totalità che dà significato alla particola­ rità, e dunque ai singoli giudizi. E se ciò significa concepire la verità me­ tafisicamente, Joachim è convinto che, metafisicamente, non si possono risolvere le questioni che ne derivano, poiché ciò a cui non si può rispon­ .dere è proprio la domanda intorno alla > (nel fine che vuoi raggiungere), anziché nella corrispondenza ad una realtà oggettiva. Il « realismo » , che propende a trovare quest'ultima corrispon­ denza, non è sostenibile; cosi come non è sostenibile il « misticismo », che nel processo con cui giunge all'immediato mistico, si autodistrugge ; il « razionalismo critico » punta sul concetto di validità, ma questo è un con­ cetto a sua volta derivato e non può fungere da fondamento. Solo il ricon­ durre . l'idea al suo « significato interno » può far vedere la insostenibilità del rapporto dell'idea ad un oggetto ; questo rapporto può bensi essere dato, perché per oggetto si intende quello stesso che l'idea per se stessa indica e al quale vuole adeguarsi ; vale a dire, l'oggetto, piuttosto che statico o precostituito, deve concepirsi come il termine di una dinamica della volontà, uno scopo. Perciò la massima determinazione di significato - e dunque di valore - di un'idea coincide con l'operazione mediante la quale interviene la decisione per un certo fine tra i molti possibili. Che rapporto, tuttavia, resterebbe tra l'idea cosi concepita e la realtà? Questo, per il Royce : la realtà è la determinazione stessa dell'idea, che si ha per processo di indi­ viduazione, dai risultati, appunto, individuali, insostituibili, e insieme da considerare come la totalità (il Tutto) unitariamente realizzata di ogni significato. Scaturisce da questa premesesa un deciso panteismo che mette in risalto l'aspetto contraddittorio già accennato : nessun fine o scopo di un'idea, dunque nessuna sua realizzata individuazione, deve essere considerata pur nella sua insostituibilità - fine a se stessa, bensi quale momento di un fine assoluto, cosi come la volontà intervenuta per ottenere quel fine deve considerarsi come momento, in essa conservato, della volontà infinita, dove tutto il processo del tempo e della verità è incluso come in una > americano, Borden Parker Bowne ( 1847-1910), professore a Boston, critico dello Spencer e polemico nei confronti della psicologia empiristica: delle facoltà, alla quale oppone il concetto di persona (Self), fonte delle cate­ gorie e delle norme ; anche Dio è da concepirsi come persona, dal momento che la comprensibilità dell'universo indica che esso ha origine da un pen­ siero (Metaphysics, 1882 ; Philosophy of Theism, 1887 ; Personalism, 1908). Il Bowne si può annoverare fra gli idealisti nordamericani per la riduzione della realtà a esperienza cosciente, e per la concezione dinamica dell'io ; egli stesso definisce la propria posizione « empirismo trascendentale >>. Di secondario rilievo quale pensatore e scrittore, ma di grande prestigio e influenza come docente fu James Edwin Creighton ( 1861- 1924), professore alla Cornell University, fondatore di « The Philosophical Review >l e primo presidente della « American Philosophical Association >>. È autore di Studies in Speculative Philosophy, pubblicati postumi nel 1925, dove polemizza con la tradizione empiristica dei paesi di lingua inglese e sostiene che nessun

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oggetto può essere conosciuto se non nella relazione col soggetto che lo interpreta secondo categorie ideali e universali. Ma il soggetto non è conce­ pito soltanto in correlazione all'oggetto ; il Creighton afferma anche la cor-· relazione tra i vari soggetti ; il carattere proprio della razionalità è la so­ cialità, onde il giudizio con cui il soggetto interpreta l'oggetto richiede il vaglio di un'esperienza piu ampia di quanto non sia quella individuale : ciò perché la natura del pensiero è sociale, vale a dire ogni atto del pensiero, come ogni atto. dell'esistenza, non può essere sottratto a un sistema di rela-· zioni. Nel sistema di relazioni vive infatti concretamente il rapporto fra esistenza e significato ; esso anzi può denominarsi « esperienza » colta nel suo principio interno ed immanente : appellarsi all'esperienzà è appellarsi alla realtà, e insieme alla .sistematicità del pensiero. Il Creighton, come si vede, afferma, piu di quanto non fondi, il rapporto pensiero realtà, e, in esso, il carattere unificante del sistema delle relazioni. Né maggior originalità rivela Mary Whiton Calkins (1863-193Q), docente di filosofia e psicologia al Wallesley College ; accanto a opere di psicologia, essa ha lasciato The Persistent Problems of Philosophy (1907); The Good Man and the Good ( 1918). Dal Royce, mutua una concezione metafisico-im­ manentistica per la quale il concetto di totalità « onni-includente », quello di universo e quello di Persona assoluta si identificano : ogni comunicazione­ delle parti o relazione fra esse avviene nell'Assoluto, la cui sussistenza è a sua volta condizionata dalla presenza delle parti. In polemica col Royce, ma al fine di rivendicare l'autonomia della per­ sonalità è George Holmes Howison (1834-1918), studioso anche di mate­ matica e logica, professore all'università di California e fondatore della « Philosophy Union ». Tra i suoi scritti, The Conception of Good (1897) e· The limits of Evolution and other Essays (1901). Per lo Howison, Royce annienta le personalità finite, che costituiscono invece il fulcro stesso del­ l'esistenza, perché sono al centro delle esperienze. Il rapporto coesistente­ fra le molteplici personalità dà luogo ad un ordine morale, distinto da quello fisico e di questo piu consistente, « repubblica eterna >> o eterna città di Dio, nella quale ciascuno tende a realizzare, insostituibilmente, un. i deale comune a tutti, razionale, che è Dio stesso : Dio pertanto è da conce· pirsi come la natura razionale nella sua perfezione eterna, non creatrice ma causa finale del molteplice. Fra queste manifestazioni di idealismo che va perdendo sempre piu vigore quanto piu viene a subire l'influenza di altre correnti - specie pragmatistiche, empiristiche, realistiche - . si annovera l'opera di Alfred Henry Lloyd (1864-1927), formatosi ad Harvard, e poi in Germania, e­ professore all'università del Michigan. Egli scrisse, fra l'altro, Dynamic ldealism (1898), la sua opera maggiore, The Will to Doubt (1907) e Lea­ dership and Progress (1922). Elabora il concetto di totalità o universo come organismo autoattivo, che si evolve : le categorie di spazio, tempo e causa­ lità, che lo ordinario, sono in dinamica relazione entro l'unità del tutto ; ne risulta un monismo dinamico, per il quale la differenza tra soggetto, o coscien­ za, e oggetto scompaiono come parti (o semplici sistemi relazionali) entro l'unità organica e dinamica del sistema totale. Anche da qui sporge l'istanza della natura sociale della coscienza, e una portata, si può dire, metafisica. di questa stessa socialità : l'universo è un organismo o sistema vivo, intelli­ gente - e perciò intelligibile. Ciò induce, in sede morale, a giudicare il bene e il male esclusivamente dalla prospettiva della totalità e della sua

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dinamicità ; cosi come conduce ad affermare il dubbio e la critica, criteri mobili e dinamici ( in polemica con la volontà di credere o fede di James, considerato un criterio piu statico), quali sostegni della vita di un pensiero che sia capace di penetrare il significato di una realtà in movimento, cui il pensiero stesso appartiene. Piu caratterizzato, all'interno del movimento che stiamo presentando, è il pensiero di George Plimpton Adams (1882), professore di filosofia all'uni­ versità di California ; se non altro per la insistenza con la quale si preoc­ cupa di distinguere metodologicamente la conoscenza filosofica - che è .sempre dialettica - da quella scientifica, che si limita ai fatti ma non ne raggiunge il significato. La filosofia, pertanto, in quanto ricerca dei signifi­ cati, testimonia l'irriducibilità dello spirito alla natura e consente di appro­ fondire il senso stesso dell'esperienza, che non è quella delineata dal campo d'azione della scienza, bensi, nel suo senso pregnante, è solo quella umana. Il fatto che sia tipicamente umana non la rende tuttavia soggettiva per­ ché oggettivo è l'ordine che la coscienza riflette in se stessa, come oggettivi sono · i valori e i significati che si rivelano a livello della complessità multi­ forme della vita dello spirito. Opere principali dell'Adams sono Idealism and the Modern Age (1919), Man and Metaphysics (1948). . In contrasto con l'Adams, perché volto quasi ad un accostamento al naturalismo scientifico, è il pensiero di Frederick James Eugene Woodbridge (1867-1940), autore, fra l'altro, di The Realm of Mind (1926), Nature of Mind (1937), An Essay on Nature (1940), e direttore del « Journal of Philo­ .sophy » e degli « Archives of Philosophy ». Sulla base dello schema spino. ziano del parallelismo dell'ordine delle idee e dell'ordine delle cose, e del loro identificarsi entro una superiore unità, il Woodbridge ammette la co­ noscibilità del mondo per mezzo delle idee, le quali non sono però imma­ gini delle cose, bensi > e dell' >. Autore fecondo, lasciò, tra l'altro, La modalité du jugement (1897), lntroduction à la vie de fesprit (1900), L' Idéalisme contemporain (1905), Les étapes de la philosophie mathématique (1912), L'expérience humairie et la causalité physique (1922), Le progrès de la conscience dans la phi­ losophie occidentale (1927), La raison et la religion (1939). Oltre a lavori storici su Pascal e Spinoza restano altri scritti, fra . i quali La philosophie de fesprit (1949). Idealista è concordemente definito il Brunschvicg, a titolo pieno, ma,

come è stato scritto, non di un > ( 5). Infatti decisa è in lui l'intonazione stori­ cistica, da un lato, epistemologica, dall'altro. Tale tendenza egli manifestò (5) M. F. SciACCA, La filosofia, oggi, Milano, 19705, vol. II, p. 78.

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anche. sul piano storico-culturale, oltre che col teorizzarla, facendo oggetto dei suoi studi sia la storia del pensiero - e in particolare alcune grandi figure di filosofi -, sia la storia delle scienze (matematiche, soprattutto, e fisiche). L'esperienza, sia storica che scientifica, è il vero campo cui dobbiamo attenerci ; ed esperienza. è, idealisticamente, per Brunschvicg, conoscenza. « La conoscenza costituisce un mondo che per noi è il mondo. Niente vi è di là da essa » : l'al di là della conoscenza, per noi, è il nulla. L'oggetto proprio della filosofia è pertanto la conoscenza, anzi, la filosofia· stessa non può proporsi legittimamente che come conoscenza della cono­ scenza. Ma conoscenza è l'atto stesso con cui lo spirito si esplica ed attua ; perciò la filosofia non può essere che « critica », avere cioè per oggetto d'indagine non la rappresentazione, bensi l'atto medesimo, l'attività grazie a cui la conoscenza acquista conoscenza di sé ( coscienza critica). La filo­ sofia critica ha introdotto il problema della modalità del giudizio - con Ari­ stotele - ma non ha risolto il rapporto tra la teoria della modalità e la teoria della scienza; il paradosso dello spazio, di Zenone d'Elea, e quello del tempo, di Diodoro, mettono in luce l'incompatibilità fra la necessità del sillogismo, che è per gli antichi la forma rigorosa della scienza, e la concezione qualitativa che essi avevano della realtà concreta. Per risol­ vere le contraddizioni che fecero trionfare lo scetticismo antico, occorreva che la scienza, progredendo, favorisse la trasformazione, in sede filosofica, delle nozioni di verità logica e di realtà concreta. Spetta a Cartesio il merito di avere sostituito alla logica del sillogismo la logica matematica. Ma il meritò di Cartesio apriva nuove difficoltà : al giudizio che si otte­ neva col suo criterio era possibile muovere l'obiezione : come passare dal possibile al reale ? Come oltrepassare il liìnite che la natura del tempo itnpone alla· realtà del giudizio ? Infatti, se la proposizione « ]e suis, fexiste è necessariamente vera ogni volta che la pronuncio o la concepisco nel mio spirito » - come scriveva Cartesio - resta vero anche che la stessa proposizione è posta come discontinua e intermittente. Lo spirito di Cartesio era ancora teologico, poiché è Dio colui che opera il passaggio dal possibile al reale ; inoltre, la modalità del giudizio vi appare subor· dinata a una teoria metafisica sulla natura del tempo. Con lo Spinoza si raggiunge la formazione del giudizio primo - l'unità assoluta è la suprema realtà - nel quale la copula sorge in modo assolutamente necessario, si dà come produzione radicale dell'essere ( causa sui). Alla luce di questo giudizio primo, che è Dio stesso, si comprende la natura del giudizio umano : ogni atto umano è un giudizio, ogni idea è affermazione di essere. Con Spinoza si fonda cosi il monismo sistematico. Tuttavia resta, allo stato di postulato, una condizione ingiustificata : il concetto di necessità è un con­ cetto univoco, poiché esiste una sola forma di necessità, e dunque tutti i giudizi necessari sono dello stesso ordine. L'esame dello spinozismo ci mostra in realtà che la necessità - propria del processo interiore mediante il quale l'essere è causa sui - è insieme libertà ed eternità ; mentre ciò che ha la sua causa in altro riceve la sua determinazione dal di fuori, dunque non è libero. Ciò si riflette nelle tre forme di conoscenza - immaginazione, ragionamento, intuizione -, eterogenee fra loro : pertanto, se a ciascun genere di conoscenza corrispondono giudizi ugualmente necessari, ne deriva che le forme di necessità sono eterogenee esse pure. La riduzione all'unità della necessità del giudizio non è definitiva, in Spinoza. Leibniz vide questa aporia e cercò di conciliare il possibile col neces·

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sario, mediante una nuova forma di intelligibilità : la continuità. Infatti, niente vi è nella filosofia di Leibniz che sia assolutamente eterogeneo e irriducibile ; egli rappresenta il massimo sforzo compiuto verso l'inte­ grale intelligibilità e, insieme, la giustificazione morale della realtà. Ma la legge della continuità - che risulta una forma sufficiente di spiegazione nelle matematiche - per la quale possono essere considerati uguali due quantità la cui differenza diviene piu piccola di ogni quantità data, viene a contraddirsi nel razionalismo del tipo wolffiano, perché vi si reintroduce il principio di identità che blocca il sistema e gli toglie l'originalità leibni­ ziana, piuttosto che portarla avanti. Ciò fa si che il possibile e il reale, che Leibniz aveva ravvicinati con . una s �rie di termini intermedi, tornano a separarsi e ad escludersi. Kant dirà, infatti, che mediante una rigorosa deduzione, dal possibile si ricava solo il possibile, e che se si deve riuscire alla realtà, occorre che il principio contenga la realtà. Altro è il principio ideale o puramente logico, altro il principio d'esistenza. Ciò posto, è illegittimo dire con Leibniz che cc se l'essere necessario è possibile, esso esiste » . Perciò Kant si ritrova, si può dire, di fronte al problema che si era trovato innanzi Cartesio. Ma, da un lato, egli si tien fermo alla fenomenicità dell'oggetto, senza di cui ogni affermazione cade nel vuoto ; dall'altra, l'assunzione dell'oggetto stesso nella forma dell'intuizione umana, affinché possa essere elevata dalla con­ tingenza alla necessità del giudizio, sopprime la contingenza stessa. In tal modo, all'interno delle categorie, cc si pone la questione fondamentale della filosofia critica : qual è il rapporto tra forma e materia, tra possi­ bile e reale? ». Per Kant ciò che vale come risposta alla richiesta di differenti ordini della modalità è la reciprocità fra intelletto ed esperienza, vale a dire fra possibile e reale : reciprocità che non è una semplice coin­ cidenza empirica, dal momento che la scienza c'è, e c'è come universale e necessaria. E se tale reciprocità esige un principio che la fondi di diritto, si dovrebbe dire che la realtà trascendentale suppone la realtà trascendente. Ma, ancora, come attingere questa realtà trascendente? Date le premesse kantiane, la cosa in sé è nozione puramente limitativa ; la sua natura intrin­ seca ci sfugge ; né la Critica della ragion pratica accrescendo la nostra fede nell'esistenza del noumeno, ce ne fa meglio conoscere per questo le determinazioni positive. Lo hegelismo, che si presenta come il tipo perfetto dell'idealismo asso­ luto, non risolve il problema rimasto aperto. Infatti la dialettica hegeliana non è una posizione assoluta ; essa specula sull'essere, a condizione che l'essere le sia dato. L'essere è presupposto, e l'elemento sù cui si fonda questa supposizione è la realtà dello spirito assoluto, ultimo momento della dialettica. L'evolu.Zione dialettica deve il suo movimento non al punto da cui muove, ma al fine cui tende. Perciò è esteriore, parallela all'cc essere ». L'idealismo di Hegel non è u'n panlogismo, bensi un dualismo (La modalité du jugement, cap. II). L'esame storico conduce il Brunschvicg ad affermare che l'opposizione di intelligibile e di reale, risultata cosi insormontabile, non costituisce un accidente nella storia del pensiero, ma un problema eterno, avente radiei nella natura dello spirito umano. A proposito di questo problema si è ancora e sempre · o platonici o aristotelici : Platone e Aristotele si conten­ dono ancora il mondo dei filosofi. Se progresso c'è stato esso .si può rico­ noscere nella misura in cui si riesce a portare l'intera questione - alter-

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nativa dell'intelligibile e del reale - a muovere da questa affermazione : la natura dell'essere è sospesa alla natura dell'affermazione dell'essere ( ibid.).

A questo excursus sul significato storico del problema della modalità del giudizio, il Brunschvicg fa seguire un'analisi dei termini del problema ( le modalità del verbo, le modalità della copula nel giudizio di ordine teorico ; le modalità della copula nel giudizio di ordine pratico) per con­ cludere con il sottolineare l'essenzialità del problema stesso nei confronti della :filosofia : se il progresso della logica si misura sul progresso dello spirito critico, perché la speculazione metafisica dovrebbe essere sottoposta alle condizioni della verifica logica; dal momento che la metafisica, essendo oggetto che riposa su un atto di fede, basta volerla per conoscerla? Alle conclusioni di un metodo critico-analitico sfuggono le domande della spe­ culazione metafisica, che restano allo stato di ipotesi. D'altra parte, tutti i metafisici si accordano nell'affermazione che ciò che è impossibile non esi­ ste; e l'analisi delle modalità del giudizio mostra a quali condizioni si può affermare il possibile : mostrano cioè che il possibile in sé è una astrazione vana, una contraddizione in termini, poiché il possibile che può essere soltanto possibile equivale all'impossibile. Ogni possibilità è relativa a una realtà : > e > (La Raison et la Religion, cap. III, 13). Nel razionalismo scientifico in cui sfocia l'idealismo del Brunschvicg, l'istanza metafisica dell'idealismo medesimo si perde nell'affermazione che l'infinità della vita spirituale s'identifica nella storia (per il Brunschvicg, storia dello spirito scientifico, come per il Croce è la storia civile) anonima e impersonale, di cui ciascun uomo cessa di essere il protagonista e il faci-· tore, e al cui immancabile processo verso il sempre meglio realizzato cc spi­ rito della scienza >> si deve credere : nonostante la storia stessa. Meno rilevante nella storia dell'idealismo francese è la figura di Domi­ nique Parodi ( 1870..1955 ), ispettore generale della pubblica istruzione, e formulatore di un idealismo etico d'impronta decisamente personalistica. Autore di studi storici, oltre che teoretici, lasciò Le problème moral et la

pensée contemporaine, 1910); La philosophie contemporaine en France ( 1919); Les bases psychologiques de la vie morale (1928); En quéte d'une philosophie première (1935); En quéte d'une philosophie. La conduite hu­ maine et les valeurs idéales ( 1939). Scrisse anche di filosofia politica : Tra-

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ditionalisme et démocratie (1909); · Le problème politique et la démocratie (1945). Di fronte alle istanze positivistiche e pràmm.atistiche della filosofia

·contemporanea il Parodi difende l'idealismo come la filosofia che, in linea generale, può rispondere pienamente alle esigenze ,poste da quelle posi­ zioni, senza scapito alcuno della problematica propria . della filosofia in quan­ to tale, anzi, piu radicalmente soddisfacendo a quell'esigenza del concreto e dell'azione che si vanno proponendo dai contemporanei. Non solo, ma la impostazione e la soluzione idealistica dei problemi consente di soddisfare in profondità anche le esigenze morali e religiose, proprie della filosofia di tutti i tempi. All'istanza del concreto, infatti, l'idealismo risponde me­ diante una radicale negazione dell'idea di trascendenza intesa come sepa­ razione del principio dalle sue determinazioni ; l'immanenza del principio è la garanzia della concretezza, che non toglie sostanzialità alle determina­ zioni individuali, anzi le sostanzia di sé e solo cosi le garantisce. Quanto all'istanza dell'azione, in cui si racchiude lo sforzo di ricondurre gli spiriti dall'astratto al concreto, essa non può soddisfarsi propriamente che in una filosofia nella quale l'azione stessa sia resa partecipabile dal principio al­ l'umanità in quanto inerente all'essenza stessa del principio. È dunque il principio ciò che deve essere posto in maniera inequivocabilmente idealisti­ ·ca ; vale a dire, secondo quella direzione che, da Aristotele (il principio è atto puro, pensiero di pensiero) a S. Tomm.aso, a Spinoza, a Hegel, a Brunsch­ vicg, è andata progressivamente chiarendosi all'umanità come Pensiero >, credenze e speranze che sono strettamente connesse con la nostra esistenza intesa come esistenza razionale, e che perciò, non possiamo rin­ negare pena l'essere insinceri con noi stessi. ( ... ) . La religione ebraica non era di questo tipo assoluto. Essa in verità esalta il soggetto rispetto all'oggetto, l'ideale dello spirito ri­ spetto ai fatti della vita esteriore ; ma essa non li separa l'uno dal­ l'altro. Essa subordina il mondo esterno o richiede che questo sia su­

bordinato ad una legge che derivi dall'interno ; ma -essa non tratta l'universo esterno, alla pari del buddismo, come un'apparenza illu­ soria, una rappresentazione irreale e ingannatrice. Partendo dalla concezione che l'intero sistema delle cose finite sia il risultato della potenza creativa di Dio, che Egli fa diventare esistente con una pa­ rola e che con una parola può distruggere, e che frattanto rimane passivo strumento nelle Sue mani, i profeti ebrei, considerano ido­ latria confondere la creatura con il Creatore, considerare Dio come immanente al mondo, o considerare la natura come capace di con­ tenere Dio e di rivelarLo. Per !''ebraismo la voce autentica di Dio

non è nell'uragano, o nel terremoto, o nel fuoco, sebbene queste siano le sue , piti alte espressioni. Essa è interiore, _ nell'imperativo del dovere, e nella protesta del cuore contro l'ingiustizia del mondo. Perciò, per quanto largamente esso possa distinguere tra Dio e natura·, per quanto possa innalzarLo al di sopra della vita del�

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l'uomo, tuttavia mai esso penserebbe di imitare il qu1et1smo del fa­ natismo indiano, che si appaga del ritirarsi in se stesso e -di guar­ dare lo scenario esterno come un sogno e un'ombra dal quale egli deve salvarsi semplicemente considerandolo come nullità. Al contra­ rio, esso è sempre rivolto al mondo e alla esteriore storia dell'uomo considerati come la vera sfera in cui Dio manifesta la Sua potenza e la Sua virtu ; e la sua esigenza non è quella di veder svanire il mondo esterno, ma di vederlo in armonia con la volontà di Dio come è nota nei cuori dei Suoi servitori. La sua speranza e la sua aspi­ razione non consistono nel Nirvana e neppure nella pace ·della tomba, dove il malvagio cessa di recare danno e il tribolato trova riposo, ma aspirano alla vittoria finale del giusto sull'ingiusto, alla mani­ festazione ultima di Dio in un mondo conformato alla legge divina che sempre si manifesta all'interno di noi. Perciò la relazione fi­ nale in cui Dio è concepito come posto di fronte al mondo nòn si­ gnifica né che il mondo sia esaurito in Dio, né che Egli sia imma­ nente ad esso, ma che pur rimanendone separato è estremamente subordinato alla Sua saggezza e alla Sua giustizia. La manifestazio­ ne della potenza divina, in verità, può essere ritardata dalla prova del Suo popolo ; ma

è

certo che essa arriva nel momento piu adatto

per scoraggiare i suoi nemici e per la gioia dei suoi santi, che hanno aspettato la consolazione di Israele. « Affid a il tuo cammino al Si­ gnore ; riponi in Lui la speranza ; Egli opererà. Egli farà risplen­ dere la tua giustizia come una luce e il tuo diritto come il mezzo­ giorno. Stai quieto davanti al Signore e aspettaLo in pace ». La fede giudaica perciò ritiene che Dio dall'esterno governi il corso della natura e della storia oppure, almeno, che un giorno certamente la governerà, nell'intento ·di armonizzarli con l'esigenza dello spirito. Co­ me nel sistema kantiano è postulato che Dio congiungerà felicità e virtu per quanto, in un primo momento, esse non appaiano in na­ turale e necessaria connessione ; cosi viene profetizzato che Egli di nuovo restaurerà attraverso una forza esterna, l'unità del mondo in­ teriore ed esteriore. Quindi la realizzazione dell'ideale è concepita non come presente ma come futura. Il presente è un tempo di divi­ sione in cui è perduta l'unità originale, e la riconciliazione ultima può essere s.olo oggetto di fede e non di visione e fruizione. ( . . .) Ora, è evidente che una religione che si prefigga questo, che cer­ chi la giustizia contemporaneamente nell'unità dell'opposizione tra spirito e natura, si troverà di fronte un problema molto piu diffi­ cile di qualunque altro incontrato dalla religione soggettiva o ogget­ tiva che sia. Tale religione deve vedere Dio al contempo entro e fuori ·di noi, pure deve essere capace di discernere il piu alto signi­ ficato del Suo trovarsi dentro piuttosto che fuori. Essa deve vedere

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Dio nella natura senza ·disperderLo nella sua molteplicità ; e nella storia senza concepire i successi esteriori come conseguenze del suo favore. Essa deve trovare una ancor piti elevata rivelazione di Lui nella protesta della coscienza contro ogni fatto in cui trionfi l'in­ giustizia, e nell'esigenza del cuore tesa alla realizzazione di uno stato pio perfetto di qualunque altro sia stato empiricamente realizzato sulla terra ; pure non deve affermare che ciò che dovrebbe essere sia assolutamente in contrasto con ciò che è, o supporre che il giudizio di Dio sia un giudizio futuro, ineseguibile ora e qui. Ora, il carattere distintivo del Cristianesimo sorge dal fatto che necessariamente, per le circostanze della sua origine, esso ha dovuto tentare la risoluzione ·di questo problema. Ebraico per nascita, greco nella sua prima espressione o interpretazione, aveva il compito di comhin�re gli elementi della vita spirituale dell'uomo che non erano mai stati combinati prima. È giunto nel momento piti adatto in una età in cui il mondo era pronto per accogliere una religione univer­ sale. ( . ) Una religione che vuole afferrare l'anima dell'uomo deve supplire a tutte le sue esigenze pio profonde, ed agire lungo le linee .

.

della p iti profonda corrente di tendenza : e questo, nel primo secolo dell'era cristiana, indubbiamente significò che quella religione doveva liberarsi da ogni limitazione, interna ed esterna, e parlare diretta­ mente a ciò che nell'uomo è piti universale ed ideale. Essa deve afferrare il piti alto principio di unità nell'umana coscienza, e usarlo come mezzo di riconciliazione dell'uomo col mondo e con se stesso. Non avrebbe potuto raggiungere questo risultato attraverso il sen­ tiero di un vago panteismo, la cui unità era la semplice negazione di ogni distinzione. La profezia ebraica aveva cosi approfondito e intensificato la coscienza· morale, che non fu possibile agli uomini accontentarsi piti oltre di una religione che non mantenesse la spi­ ritualità di Dio e la responsabilità dell'uomo. Se da questo momento in poi fu impossibile che fosse adorato un Dio che non fosse Dio ·dell'intero mondo, un Dio . che fosse qui e non là, che fosse rivelato ai profeti di una nazione e non alla coscienza universale dell'uomo,. o anche rivelato nel pensiero e non nella percezione e immagina­ zione, nello spirito e non nella natura esterna ; pure fu egualmente impossibile che quelli che avevano conosciuto la tenerezza e la pro­ fondità di un culto spirituale, quale trova espressione nei Salmi, potessero sentirsi soddisfatti di confondere lo spirito con la natura nell'unità del panteismo che abbraccia tutto e tutto dissolve. Se, perciò, in tale epoca, l'universalità e l'unità fu la condizione prima del pensiero, e la caratteristica necessaria di · un grande movimento religioso, pure esso doveva essere rafforzato, non dal sacrificio di quella elevazione morale che era stato il risultato della lunga evolu-

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zione religiosa ·di Israele, ma piuttosto da un ulteriore sviluppo di esso, partendo dal punto piu alto già raggiunto da Israele. Nulla po­ teva soddisfare l'esigenza del tempo all'infuori di una religione che unisse l'immanenza del panteismo con la trascendenza del mono­ teismo ; una religione che assurgesse ad un principio divino di tutte le cose e che fosse pure capace di concepire quel principio come un Dio vivente, la fonte di ispirazione e l'eterna realizzazione del­ l'ideale morale dell'uomo.

È una tale istanza ragionevole ? Non è contraddittoria ? E una religione che soddisfi o tenti di soddisfare ciò, può essere qualcosa di pili che la combinazione caotica di elementi inconsistenti ? Questa

è una domanda fondamentale della filosofia della religione, una domanda la cui risposta deve determinare non solo la razionalità del cristianesimo, ma anche la razionalità di tutta la religione. Infatti è ad ogni modo ovvio che solo una religione la quale sia capace di soddisfare queste esigenze possa significare qualcosa per noi. I Moderni non possono accettare altro se non una religione universale. Essi non possono credere in un Dio che sia il Dio di una nazione e non di un'altra o che si riveli in quest'oggetto e non in quello. Non possono credere in una Potenza Divina che sia esterna e non interna all'uomo o interna all'uomo e non esterna ad esso. Per questo ci sono molti motivi che ci spingono a rompere i limiti tra le differenti concezioni religiose del passato e ad accettare la facile tolleranza della preghiera universale di Pope « Padre di tutti in tutte le età, Adorato in ogni clima Dai santi, dai selvaggi e dai saggi, Geova, Giove, o Signore ! »

o nelle parole piu auliche di JlllO scrittore posteriore «

Con qualunque nome tu la voglia chiamare, c'è una Potenza,

Ammon, Geova, Zeus o Giove, Che cerca di penetrare nelle nazioni e nei cuori affratellati, Trovando uno specchio, li riempie di · Se Stessa ». Ma tale toll�razione doveva almeno significare abbassamento di livello ; e un Dio che è egualmente in tutte le cose, in verità è niente ; un · Dio che egualmente accetta tutti i culti non può avere occhi piu puri di quelli che guardano l'iniquità ». La distinzione

«

morale, come ogni altra distinzione, svanirebbe in Sua presenza, e tutti i molti nomi che ci è permesso di attribuirGli, si confon­ derebbero l'un l'altro. Questo tipo di universalità Lo renderebbe il

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Dio sconosciuto ed inconoscibile, il cui culto non avrebbe alcun va­ lore positivo per il pensiero, nessuna influenza ispiratrice sulla vo­ lontà. Quindi lo stesso progresso di pensiero che ci ha trasportato al di là di tutte le concezioni parziali del divino, e spinto a pensare a Dio come Dio, come l' Esistenza che è tutta in tutto, ci ha con­ dotto in vista ·di un abisso di nescienza nel quale la religione è in pericolo di venir sommersa. Se inoltre lo sforzo del Cristianesimo di conservare - a livello dell'universalità e ad uno stadio del pen­ siero in cui le concezioni unilateralmente soggettive e unilateralmente oggettive sono egualmente divenute impossibili - l'idea di Dio come potenza spirituale viv�nte, la cui influenza guida e sostiene la vita morale dell'uomo - se tale risulta, e deve necessariamente risultare, in assurdità e in contraddizione con se stesso, allora saremo costretti ad ammettere che la religione è -divenuta permanentemente· impos­ sibile all'uomo, e che essa dovrà necessariamente scomparire nella misura in cui la coscienza della sua futilità venga generalmente dif­ fusa. ( ... ) La nostra idea di Dio non ci permette di concepirLo come esterno ad ogni cosa, e meno di tutto, come esterno agli spiriti che sono fatti a Sua immagine, che vivono, si muovono ed hanno in Lui la loro esistenza. Ed inoltre, non possiamo evitare di pensare a Dio come ad un principio che sia dentro e fuori di noi, presente nella auto-coscienza come nella coscienza, il presupposto, la vita, e il fine di tutto. Ma ciò non

è

stato capito prima di quanto sem­

bri, come se il tentativo di parlare di · Lui come qualcosa ·di definito implicasse la contraddizione di doverLo escludere dalle altre cose o di dover escludere le altre cose da lui. ( ... ). Cosi l'esistenza divina concepita come principio di unità nel mondo, è supposta essere al di là del limite d:el pensiero umano, proprio perché nel pen­ sarvi noi siamo costretti a ·concentrare ed unire

in una ·Cosa unica

tutte le differenze e le opposizioni che si manifestano nel mondo. Un Dio che fosse un oggetto fra gli altri, che prendesse la forma di una pianta o di un animale, di un uomo o anche del cielo che tutto abbraccia, potrebbe essere appreso dalla percezione e dall'im­ maginazione. Un Dio che fosse un soggetto spirituale, anche se ri­ fiutasse di assumere « l'aspetto di qualcosa nel cielo o gin nella terra o nelle acque sotto la terra » - · che insomma rifiutasse di essere rappresentato in qualche forma esterna di percezione o immagina­ zione, - potrebbe essere colto dalla medesima riflessione attraverso . la quale noi diveniamo consci dell'io individuale dentro di noi. Ma che cosa, ci si chiede, ne possiamo fare di un Essete che non possa venire percepito né immaginato come oggetto, né possa essere con­ cepito e determinato come un soggetto, ma solo come unità in cui

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tutte le differenze cominciano e finiscono ? Non dovremmo accon­ tentarci del nudo riconoscimento di tale Essere e chinare le nostre teste di fronte all'imperscrutabile ? E quando il cristianesimo tenta di presentarci Dio come l' Essere Assoluto e allo stesso tempo come Logos, o spirito auto-rivelantesi che si manifesta in maniera spe­ ciale all'uomo e nell'uomo come la fonte della sua vita pio ele­ vata, nou dovremmo dire che esso obbedisce a·d una necessità che viene assieme allo svilupparsi del pensiero umano nella religione, necessità che però porta in sé un'impossibilità ? ( The Evolution in Religion, Glasgow, MacLehose, 1893, vol. Il, Lezione III, pp. 53·74).

l. F. H.

BRADLEY

}. LA SOLLECITAZIONE MORALE La moralità implica un fine in sé : accettiamo cio come sicuro. Una cosa deve essere fatta, il bene deve essere realizzato. Ma quel risultato di per sé, non è la moralità : la moralità differisce dall'arte, perché non può fare dell'atto un mero mezzo per il risultato. Pure c'è un mezzo. Non c'è solo qualcosa che deve essere fatto, ma qualcosa che deve essere fatto da me io devo compiere l'atto e realizzare il fine. La moralità implica sia che qualcosa debba essere fatto, sia che debba essere fatto da me ; e se si considerano le due -

cose come fine e mezzo, come tali non possono essere_ separate. Se si decide di cambiare la posizione del fine e del mezzo e si ·afferma che il mio agire è il fine e ciò che « deve essere fatto » sia il mezzo, non si viola la coscienza morale ; poiché la verità è che mezzo e fine qui non sono applicabili. Atto per me significa mio atto, e non vi è alcun fine al di là dell'atto. Questo consideriamo nel credere che il fallimento, moralmente, sia equivalente al suocesso - nel dire che non v'è nulla di buono al di fuori di una buona volontà. In breve, per la moralità, il fine implica l'atto, e l'atto implica una autorealizzazione. Questo, qualora destasse ·dubbi, sarebbe dimostrato ( ... ) dal sentimento di piacere che serve alla generazione dell'atto. Perciò se il piacere è il sentimento di sé e accompagna l'atto, questo indica che la generazione dell'atto è nel frattempo la generazione di sé. ( . .) .

C'è da dimostrare che ciò che si fa realmente è perfettamente o imperfettamente rivolto alla realizzazione di se stessi, e che non v'è la possibilità di fare altrimenti ; tutto ciò che si può realizzare è ( salvo imprevisti) lo scopo oppure l'oggetto del desiderio, e che tutto ciò che si può desiderare è, in una parola, se stessi ( .. ) Se potessimo accettare la teoria che il fine o movente sia sem� pre la nostra propria idea ·di piacere ( o dolore), che è associata con l'oggetto presentato, che ne è all'interno e che sola ci sollecita, .

.

allora da tale modo di vedere seguirebbe subito che tutto ciò che desideriamo è un'affermazione - di noi stessi.

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MARIA A. 'RASCHINI

Noi comunque non possiamo accettare tale teoria, in quanto riteniamo che essa ignori i fatti e sia ad essi contraria ( ... ), ma seb­ bene non ammettiamo che il motivo sia sempre, o nella maggioranza dei casi, l'idea di un'affermazione del nostro io sentimentale, pur­ tuttavia riteniamo chiaro che nulla fornisca sollecitazione a men che non sia desiderato, e che quanto si desidera non è altro che se stessi. Questo perché tutti gli oggetti o finalità sono stati associati con la nostra sod·disfazione, o, ( piu correttamente) sono stati sentiti in noi stessi o come noi stessi, o in ciò abbiamo percepito noi stessi ; ed ora la sola ragione per la quale · essi ci sollecitano, quando si presentano ai nostri animi come moventi, è che ci sentiamo affer­ mati o avvalorati in essi. Cosi l'essenza del desiderio per un og­ getto sarebbe il sentimento della nostra affermazione nell'idea di qualcosa di altro da sé, sentita, contro il sentimento di sé e priva dell'oggetto, come annullata e negata ; ed è la tensione di questa rela­ zione che provoca la sollecitazione. Se

è

cosi, allora nulla

è

desi­

derato all'infuori di ciò che si identifica con noi stessi, e non pos­ siamo pervenire a nessuna cosa se non· nella misura in cui, in essa, miriamo a noi stessi. ( Ethicals Studies, Londra, Oxford University Press, 1962, pp. 65-68).

2. APPARENZA, ERRORE E CONTRADDIZIONE Trattando dell'Errore siamo subito indotti a chiederci in che modo esso aderisca all'Apparenza. Deve tuttavia l'apparenza essere chia­ mata errore ? ( ... ) Il termine « apparenza » ha un doppio signifi­ cato. Se lo si asswne come implicante un oggetto e l'apparenza di qualcosa a qualcuno, allora tutta l'apparenza è, allo stesso tempo, verità ed errore ; poiché in questo senso essa comporta un giudizio per quanto rudimentale. Ma . il termine è usato anche in senso molto piu largo, e si ha l'apparenza dove e nella misura in cui il conte­ nuto di qualcosa cade al di fuori della sua esistenza ( ...). D'altro lato si ha la realtà nella misura in cui questi due aspetti sono inseparabili e ·dove, si può dire, che l'uno ricostituisca l'altro. Ora in ogni centro finito (a nostro avviso) il Tutto, colà immanente, de­ cade nel suo essere racchiuso in tale centro. Il contenuto del centro perciò è al di là di se stesso, e conseguentemente la cosa è appa­ renza ed è fin qui ciò che può essere definito « ideale ». Esso pos­ siede ciò che piu tardi diviene per noi un significato, un significato che è usato come un'idea, come un aggettivo che qualifica ciò che è altro dal suo proprio essere. E cosi per l'anticipazione, tutta l'ap­ parenza può essere chiamata errore, perché qualora si continuasse

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a pensare ad essa come vera, saremmo condotti ( almeno a mio avviso) a riconoscere che è falsa. Proprio nella misura in cui ci si confina in ciò che è percepito, non si riconoscono le contraddizioni né si riconosce alcuna cosa che ci appaia o possa sembrare vera o falsa, (ma ritornerò sull'argomento). Poiché queste qualità, in sen­ so proprio, esistono solo nel giudizio. Comunque, fintantoché pos­ siamo esprimere giudizi su qualunque cosa, tutte le apparenze pos­ sono cosi essere chiamate già vere o false. E alla fine, per me, .tutta l'app arenza è nel contempo verità ed errore. ( ...) Come ho asserito, in tutta la verità esiste la separazione tra idea ed esistenza, lo scioglimento di ciò che un'idea è in . sé da ciò che essa significa e rappresenta. E a mia opinione questa frattura è ad un tempo essenziale e fatale alla verità. Poiché la verità non è perfetta finché questa separazione sia in qualche modo ben realizzata, e finché quello che è nei fatti non formi un tutto consistente con ciò che rappresenta e significa. In altre parole la verità esige nel contempo l'essenziale differenza e l'identità fra idea e realtà. Essa esige ( possiamo dire) che l'idea alla fine venga rico­ stituita dal soggetto del giudizio e non possa in nessun senso essere qualunque cosa che ne cada al di fuori. Ma la possihili�à ili una tale implicazione, coinvolge, a mio avviso, un passaggio al di là della mera verità, verso la realtà attuale, un passaggio, nel quale la ve­ rità completerebbe se stessa, al di là di se stessa. La verità, in altre parole il contenuto senza n.essun difett� di realtà, per rimanere verità, deve pur sempre difettare del suo proprio ideale e rimanere imperfetta. Ma d'altra parte, non v'è giudizio possibile, il cui pre­ dicato possa in qualche modo errare nel qualificare il Reale e quindi non vi è alcun mero errore. Ci sono, possiamo dire, ·due principali modi di concepire l'errore : l'assoluto e il relativo. Secondo il primo modo ci sono verità per­ fette e dall'altro lato ci sono errori assoluti. Da questo punto di vista, sono in un certo senso ammessi gradi di verità e di errore, ma alla fine si ottengono idee che sono del tutto giuste e ancora altre idee che sono completamente sbagliate. lo respingo questo modo ·

di vedere in senso assoluto. lo convengo che entro limitate sfere e per qualche proposito di lavoro, tale dottrina possa tenersi per buona, ma io ritengo che in definitiva non la si possa mantenere. . Io sono convinto che in definitiva non esistano verità assolute e, per contro, che non esistano meri errori. Sottoposti ad ulteriori spiegazioni tutta la verità e tutto l'errore, a mio avviso, possono essere definiti relativi, e la differenza fra essi, alla fine, è una differenza di grado. Questa dottrina a prima vista può sembrare paradossale, ma quando si afferma il suo reale significato, io penso che il paradosso scom-

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paia. E qui oserei ripetere ed ampliare ciò che ho altrove soste­ nuto. Se deve esserci la completa verità, la condizione dell'asserzione non deve cadere fuori del giudizio. Il giudizio deve essere intera­ mente auto-contenuto. Se il predicato del soggetto è vero, tale verità è difettiva solo in virtu di qualcosa di omesso e sconosciuto. La condizione lasciata fuori è una x che può essere soddisfatta diver­ samente. E relativamente al modo con cui è attualmente soddisfatta una condizione non specificata, o è vero il giudizio, o è vera la sua negazione. Il giudizio inoltre, quale appare, è ambiguo ed è allo stesso tempo vero e falso finché, in una parola, esso è condizionale. Quanto maggiormente le condizioni dell'asserzione sono incluse nell'asserzione, altrettanto piu vero e meno erroneo diviene il giu­ dizio. Ma possono mai le condizioni del giudizio essere comple­ tate e comprese all'interno del giudizio ? A mio avviso ciò è impos­ sibile. E quindi congiunta ad ogni verità rimane ancora una parte di verità, comunque piccola, ad essa opposta. In altre parole, non si può mai andare totalmente al di là del grado. (Essays on Truth and Reality, Oxford, Clarendon Press, 1914', pp. 250-253).

3. IL MIO MONDO REALE È bene ricordare che la mia vita e il mio mondo, pre�i come meri fatti esistenti non hanno valore ; e il pensiero di altri, anche un indefinito numero di altri mondi e vite sconosciute possono mantenere davanti alle nostre menti questa verità. ( .. ) Altri si­ stemi, reali come o piu del mio, sembrano essere possibili di là da ogni dubbio. Di tanto in tanto io posso accedere · con i miei sogni entro uno o piu di questi ordini e, per quanto io possa dire, potrei risvegliarmi domani in uno di essi. E nelle parole « di tanto in .

tanto » e « domani » io sto usando le idee, ricordiamoci, che assu­ mono il loro significato solo dal mio « reale » schema dei fatti. Anche il mio presente esistere può essere soggetto al dubbio. A volte nel sogno, o persino sempre, forse, di notte o di giorno posso con­ durre una vita diversa in qualche altro luogo ( ... ). Noi possiamo vivere molte esistenze interamente separate o persino vite che piu o meno possono influenzare ed anche apparire l'una all'interno del­ l'altra, con strani riconoscimenti non dovuti a pura fantasia. E ci possono essere altre sfere con altri abitanti il cui numero supera ogni nostro conteggio, e fra noi e loro potrebbero esserci forse abissi a volte uniti da ponti e a volte no. Il nostro « mondo reale » è, abbiamo visto, una costruzione indispensabile ma limitata. Non ah-

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biamo letteralmente idea di quali altre regioni ci siano al di là di esso. Ma né esso né qualunque altro schema finito potrebbe dovun­ que essere, nella sua verità, veramente reale. Queste considerazioni in special modo portano a discutere la questione di ciò che noi chiamiamo Morte. Noi vediamo che i nostri corpi « reali » si corrompono e si indeboliscono ; e in risposta al decadimento e alla dissoluzione di questi corpi, noi in parte sof­ friamo e in parte proseguiamo ulteriormente desumendo una mor­ tificazione e · un decesso di noi stessi. Adesso con la supposizione che il nostro mond.o reale sia la sola r.ealtà, tale conclusione, dobbiamo convenire, ha forza considerevole, sebbene ovviamente essa sia estremamente difettosa di prove. D'altro lato se la supposi­ zione non è sana e. tale da non poter essere mantenuta, la robu­ stezza di qualsiasi argomento che conduca dal fato del mio corpo al destino della mia anima, viene seriamente ridotta. Quale parte della mia vita mentale consideriamo connessa o congiunta, unicamente o principalmente, con lo svilupparsi e il cambiarsi del mio corpo « rea­ le »? Dobbiamo ammettere, io penso, di essere incapaci ·di dare una

risposta a questa domanda. E quando abbandoniamo i fatti osser­ vati della crescita e della regressione organica nel nostro mondo « reale », fatti che, io credo, sono ancora lontani dall'essere capiti, vi è forse un argomento valido del tutto nei confronti della senilità e della morte ? Ogni cosa finita è, ne convengo, soggetta per prin­ cipio a cambiare in continuazione fino alla dissoluzione di sé. Ma da ciò non segue che le esistenze finite siano incapaci di ·durare per se stesse, per un tempo indefinito. E alla fine l'istanza secondo la qua/le noi siamo finiti a causa della decadenza dei no!stri corpi, sembra possedere un piccolo grado di evidenza logica. La morte può costituire una impressione soggiogante ma certamente non è neces­ sariamente la verità, e il poeta forse non aveva torto quando la chiamò « una beffa ». D'altra parte; passare da tale risultato all'afferma­ zione di ciò che noi chiamiamo immortalità personale, sarebbe ve­ ramente affrettato. (Op. cit., pp. 466-468).

4. L' IMMORTALITÀ Proseguirò nel dire alcune parole circa ciò che è chiamata « l'im· mortalità ». Io non penso che la mia esistenza individuale, sia prima ·della mia nascita che dopo la mia morte, potrebbe essere pro­ vata come falsa dalla metafisica, ed anzi in favore di ciascuna di queste esistenze sono state addotte prove metafisiche che io non di-

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seulo. Ma d'altro lato, una tale esistenza, nella misura in cui è fon­ data dalla metafisica, può risultare, a mio avviso, di carattere irri­ levante e privo di valore per la religione. Ciò che vuole la religione non è una mera continuazione nell'una o nell'altra direzione, al di là di questa vita, di un qualcosa che in un certo senso può essere chiamato me stesso. L'esigenza principale della religione sta nel vo­ lere la sicurezza che l'individuo, tutt'uno col Bene, abbia di gran lunga vinto · la morte, e che tutto quanto chiamiamo questa vita col suo prima e il suo poi, non costituiscano la principale realtà. Se e nella misura in cui è necessario nell'interesse della religione rappresentare questa verità fondamentale nella forma dell'esistenza prolungata, io sono d'accordo e aderisco ad una tale dottrina. Ma per quanto mi riguarda, nutro il piu forte dubbio nei confronti di una tale necessità. lo non intendo discutere ancora una volta gli argomenti addotti nei confronti di ciò che è chiamato :inimortalità. Da un punto di vista religioso il loro valore, almeno secon:do la mia mentalità, sem­ bra limitato. Ciò che per me ha interesse, se mi si concede di ripe­ terlo, è l'esigenza dell'affezione personale, il desiderio che� dove al­ cune creature si amano fra loro, nulla, prima o dopo la morte, venga cambiato. Ma come posso insistere sul fatto che tale esigenza ( ... ) venga confermata dalla religione ? E le rimanenti argomentazioni mi lasciano semplicemente non convinto ed anzi indifferente.' D'al­ tra parte ammetto senza difficoltà una differenza e, se vi piace, un difetto nel mio temperamento e una differenza ed anzi, se cosi volete dire, una debolezza nella mia potenza immaginativa. E dovun­ que, ·dopo la dovuta considerazione, venga trovato da qualche uomo o da qualche gruppo di uomini ciò che la religione definisce una ge­ nuina, p ersonale e individuale esistenza dopo la morte, io sono dalla parte di tale dottrina. Credo che in tal misura la fede sia giusta, e a questa condizione possa dirsi vera. Comunque a che cosa alla fine esattamente ammonti la sua verità, penso che non lo possiamo sapere, e, nella misura in cui siamo religiosi sono sicuro che non dovremmo neppure occuparcene molto. E devo insistere che la sud­ detta esigenza debba essere posta realmente nell'interesse -della reli­ gione e non, come molto spesso accade, realmente nell'interesse di qualcosa del tutto differente. E qui ancora una volta siamo incap­ pati nella sfortunata ambiguità della religione. I timori del vecchio e selvaggio mondo spirituale con tutti i suoi terrori e la sua crudeltà, sopravvivono profondamente radicali nella nostra natura e da alcune persone sono considerati persino come religiosi. E con essi permane la vecchia e selvaggia esigenza, di banchettare, bere, cacciare, com­ battere, possedere. mogli e concubine, dopo la morte. ( ... ) Essi, per

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7ll

contro, sono ciò che una vera religione desidera soggiogare e con­ trollare, come esistenti piu che altro nelle superstizioni, contrarie ai piu alti interessi umani. L' Umanità ha compiuto progressi, nella misura in cui ha progredito, non per le idee e le arti dello stre­ gone, ma per la vita e il lavoro di ogni giorno. Cercare altrove verità e soddisfazione, lo considero essenza di superstizione. È tassa� tivo, voglio- ancora una volta affermare, che prima di cercare di trattare questioni di tal genere, si debba tentare di decidere il senso in cui la religione debba essere usata. (Op. cit., pp. 438-440).

5.

LE

FORME DEL GIUDIZIO

Fino ad ora non c'è verità o falsità per le quali non si sia fatto un giudizio. Fino a questo momento possiamo dire che l'ope­ razione è « soggettiva »· Questo è tutto il nostro agire, e tutto ciò si mantiene all'interno delle nostre teste e per niente al di fuori. Ma nel momento in cui giudichiamo abbiamo verità e fals_ità, e il reale è subito riferito alla materia. La connessione della conseguenza del « poi » col « se », del risultato del nostro esperimento con le sue condizioni è il fatto che viene asserito e che è vero o falso nei confronti della realtà in sé. Ma la questione verte sul come. Voi non asserite l'esistenza del contenuto ideale che supponete e non asserite l'esistenza della con­ seguenza. E non potete asserire l'esistenza della connessione per il fatto che non può una connessione restare come fatto quando non esiste connessione dei fatti ? « Se voi foste solamente stati in silenzio sareste passati per filosofi ». Ma voi non siete rimasti in silenzio, non siete stati creduti filosofi e l'una cosa non era o poteva essere il risultato dell'altra. Se il reale deve essere qualificato ·dalla connes­ sione delle due cose, sembra che non debba essere qualificato affatto. Non gli si può attribuire né condizione, né risultato, né relazione ; pure dobbiamo stabilire l'esistenza di qualcosa per cui giudichiamo. Ma che cosa può essere ? Quando io mi reco ·da un uomo proponendo un ca-so fittizio da cui emerga una questione di condotta e quando egli mi risponde « io farei in questo modo e non nell'altro », io posso venirmene via con qualche conoscenza ·del fatto. Ma il fatto non è la situazione inventata, né il corso ipotetico della naria fra queste due. Il fatto è la l'uomo. Essa ha risposto alla prova sito era una finzione, e la risposta ·

aziÒne, n6 la relazione immagi­ qualità nella disposizione del­ in un certo modo. Ma il que­ non è un fatto, e l'uomo non

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è qualificato né dall'una e né dall'altra. È il suo carattere latente che è dischiuso dall'esperimento. Ciò accade con tutti i giudizi ipotetici. Il fatto che viene affer­ mato come un aggettivo del reale e dal quale dipende la verità o la falsità, non appare esplicitamente nel giudizio. Né le condizioni né il risultato dell'esperimento ideale sono presi per veri. Ciò che è affermato è il mero terreno della c onnessione ; non l'attuale esistente comportamento del reale, ma una qualità latente della sua disposi­ zione, una qualità che è apparsa nell'esperimento, ma la cui esi­ stenza non dipen:de da quell'esperimento. « Se tu non avessi distrutto

il barometro; ora esso ci preavv�rtirebbe

». In questo giudizio noi affermiamo l'esistenza in realtà di tali circostanze e tali generali leggi di natura come fossero produttrici di un certo risultato, se supponiamo la presenza di determinate condizioni. Ma sicuramente quelle condi­ zioni e il loro ristùtato non sono predicati, neppure alludiamo a che

esse siano reali. Essi stessi e la loro connessione sono impossibili. ( ..:) In tutti i giudizi la verità non sembra essere nessuna delle nostre qualità essenziali. Noi forse non abbiamo bisogno di giudi­ care, ma, se giudichiamo, perdiamo tutta la nostra libertà. Nella nostra relazione col reale noi ci sentiamo sottoposti alla costrizione. In un giudizio categorico gli elementi stessi . non dipendono dalla nostra scelta. Qualunque cosa possiamo pensare o dire, essa esiste. Ma in un giudizio ipotetico, non vi è alcuna costrizione per quanto concerne gli elementi. Il secondo, in verità, dipende dal primo, ma il primo è arbitrario. Esso dipende ·dalla mia scelta. lo posso appli­ carlo o no al reale, a mio piacimento ; io sono libero di ritirare l'applicazione che ho fatto. E quando è giusta la condizione è giu­ sto anche il risultato. La costrizione non va piu in là della connes­ sione e nemmeno si estende alla connessione come tale. La relazione degli elementi in un giudizio ipotetico non è un attuale attributo del reale, per il fatto che la relazione stessa è arbitraria. Essa non ha bisogno di essere vera al di fuori dell'esperimento. Il fatto che sia esistita prima dell'esperimento, e rimanga vera dopo di esso, e che in nessun modo dipenda da esso non sono né gli elementi, né la relazione tra essi, ma è una qualità. È il terreno della sequenza dhe è vero riguardo al reale, ed è questo terreno che esercita la costrizione. Questa qualità del reale non è impliCita nel giudizio, e nei con­ fronti di quel giudizio è occulta o latente. Noi sappiamo che c'è grazie ài suoi effetti, ma noi non siamo in grado di vedere che cosa sia. Neppure possiamo dire, senza ulteriori indagini, che essa non sia la stessa che abbiamo asserito in un altro giudizio, i cui elementi, e la cui relazione, erano molto differenti. E, quando noi portiamo

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avanti l'indagine e chiediamo se queste qualità, che cosi sembrano giacere alla base dei nostri giudizi, siano completamente latenti, o ciascuna latente soltanto rispetto al suo giudizio particolare, allora noi ci troviamo subito entro difficili questioni. È certamente da un lato che noi possiamo trovare il terreno di molti giudizi del genere i quali in' tal modo sono diventati relativamente espliciti. Ma ciò serve solo a condurci ancor pin vicini al dubbio se alla fine essi abbiano cessato di essere latenti. È mai possibile pervenire ad un terreno di giudizio che noi possiamo attribuire fedelmente al reale come sua qualità ? O rimaniamo con gli ultimi giudizi, che sono certamente veri, ma di cui non sono verità di realtà né gli elementi né le rela­ zioni ? Dobbiamo dire, alla fine, che la qualità, che noi sappiamo essere la base della nostra sintesi, rimanga in altri modi" del tutto sconosciuta ed infine occulta ? Qui sembra che noi rivendichiamo, in altra forma, i limiti della spiegazione, e dovrebbe essere compito della metafisica portare avanti un'indagine che non puo essere con­ tinuata in questa sede. Abbiamo visto che, quanto è asserito dai giudizi ipotetici, è sem­ plicemente la qualità che è il terreno della conseguenza. E tutti gli astratti universali, abbiamo visto, sono ipotetici. Qui ci si potrebbe chiedere. Sono le due cose una cosa unica? Sono pertanto tutti i giudizi ipotetici anche universali ? Ciò potrebbe per un momento apparire dubitabile, dal momento che il reale, verso il quale viene fatta l'applicazione, è nel contempo un individuale. E secondo i propositi di questo capitolo e dei suc­ cessivi, darò alcuni esempi : « se Dio è giusto il malvagio sarà pu­ nito », « se avessi il mal di denti sarei infelice », « se ci fosse una candela in questa stanza, essa sarebbe illuminata », « se ora fossero le sei fra un'ora andrenu'no a pranzo », « se questo uomo avesse preso quella dose, egli sarebbe morto in venti minuti ». Potrà sorprendere alcuni lettori sentire che questi giudizi sono altrettanto universali quan­ to « tutti gli uomini sono mortali »: ma io penso che scopriremo che è cosi. In primo luogo è certo che in nessuno di questi giudizi il sog­ getto preso deve essere attualmente reale. Non abbiamo detto sopra che esista un Dio giusto e che io abbia un mal ·di denti ; lo abbiamo solo supposto. Il soggetto è supposto, e se noi facciamo ulteriori considerazioni, scopriamo che il soggetto non è niente di piu che un contenuto ideale, e che quanto è affermato non è nient'altro che una connessione di aggettivi. Il « quello », il « questo », l'« io », l'« ora » , non entrano realmente nella supposizione. Essi sono il punto di realtà al quale noi applichiamo il nostro esperimento ideale, nia essi di per sé in nessun caso sono

supposti.

Una maggiore o una

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minore quantità del loro contenuto è usata nell'ipotesi, e .passa nel soggetto. Ma, a prescindere da essi stessi, il loro contenuto non può in nessun modo essere chiamato individuale. ( ... ). al primo ti­ po di scienza, mentre il secondo dovrebbe essere piu propriamente definito - > : d'un

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zion i vere ·dei massimi problemi finiranno con l'essere scoperte, che alla costruzione d'una scienza filosofica s'arriverà. O la ricerca filo­ sofica è vana ; e allora il pericolo, che gli oppositori ci accusano di temer senza ragione, sarebbe invece un danno inevitabile, presente. Le due concezioni opposte potranno seguitare a combattersi, . modifi­ candosi quanto si voglia ; una, sia qual si voglia, finirà forse col pre­ valere ; ma questo variare d'opinioni sarà senza un costrutto, perché non ha costrutto un variare d'opinioni che non sia un accostarsi alla verità. Che la filosofia non abbia mantenuta nessuna delle sue pro­ messe, non è vero. Le dottrine filosofiche non sono piu oggi nel medesimo stato che una volta : la discussione rinnovata dei massimi problemi ebbe, se non altro, il risultato di present�rli sotto forme di mano in mano piu precise e piu esatte. Una scienza filosofica forse non c'è ancora, ci . sono ancora delle controversie oziose ; ma il ca � s delle opinioni 6i va ordinando : certi errori non sono piu possibili, e certe pietre miliari segnano con sicurezza la via della verità. Facile, a chi non capisce niente di filosofia, dire che i filosofi non si capi­ scono tra loro ; in realtà, i filosofi, e si capiscono tra loro, e riescono a farsi capire da altri, ad esercitare cioè sulla cultura, e indiretta­ mente sulla pratica, un'influenza efficace, salutare. Per assicurare l'ininterrotto procedere dell'uomo verso un meglio, la cultura spezzata in un certo numero di discipline, di cui ciascuna ordina e aggruppa le cognizioni d'una data classe, non basta. Come non bastano le cognizioni, pur numerose e importanti benché non sistemate, dell'uomo incolto. Le cognizioni sconnesse, e quei gruppi circoscritti di cognizioni che sono le varie ·discipline, formano, mi si lasci dire, il corpo soltanto della cultura. L'anima, senza della quale il corpo non è vivo né fattivo, senza della quale, con quanti si vogliano elementi di cultura, non c'è una cultura, l'anima che deve coordinare le azioni del corpo dirigendole all'intento supremo, è costi­ tuita dalla coscienza delle relazioni che hanno, con l'intento supremo, le funzioni delle singole parti del corpo. Ossia : la cultura non sarà organicamente unificata, non ci assi­ curerà contro errori fondamentali che ci farebbero uscir di strada, mancare allo scopo, e rica·dere, per quello che è l'essenziale, nella barbarie (e poco importerebbe se la barbarie anziché rozza fosse raffinata e delicata : si può vestire, abitare, nutrirsi, divertirsi princi­ pescamente, e non valer niente come uomini) finché non sarà invi­ gorita, ispirata, illuminata dalla risoluzione dei massimi problemi : dalla filosofia. ( ..) E ci si presenta sempre la stessa domanda : come costruiremo la filosofia, se il sapere positivo, la cultura per quanto estesa e appro·

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fondita, non ci può dir niente di quelle cose che bisognerebbe cono­ scere per possedere la filosofia ? Bisogna risolvere questa difficoltà, o riconoscere che i massimi problemi non sono risolvibili. E appunto quella domanda venne for­ mata dapprima in forma ·dubitativa : è possibile la filosofia ? Il dubbio pareva giustificato da un'esperienza secolare. Tra gli autori ·dei tanti sistemi, parecchi erano uomini addirit­ tura superiori, per attività indefessa, per dottrina, per ingegno. Se, tuttavia, nessun sistema resisté alla critica, la colpa non sarebbe da riferire, piuttosto che agli autori, o a qualche loro inavvertenza o deficienza riparabile, all'intrinseca impossibilità di risolvere i problemi proposti? Ecco un punto da chiarire, se non vogliamo esporci a rifare in perpetuo de' tentativi destinati a rimanere senza frutto. Sorse in tal guisa l'idea di premettere, alla filosofia propriamente detta, una critica della conoscenza. Il nostro potere conoscitivo ha dei limiti? Parrebbe di si ; poiché nessuno ardirebbe vantarsi di sapere ogni cosa, o d'f'lSSere infallibile. Quali sono questi · limiti? Non era difficile capacitarsi che il campo ·delle cose da noi conoscibili coincide col campo delle cose sperimentabili. Perché quelle nostre cognizioni che non derivano dall'esperienza - le cognizioni mate­ matiche, per esempio - concernono tuttavia le forme dell'esperienza, e in un campo che non sia quello dell'esperienza non hanno appli­ cabilità né significato. Insomma : noi abbiamo delle cognizioni posi­ tive ; inoltre possiamo procacciarcene delle altre, senza fine ; ma non oltrepassare il campo delle cognizioni positive. Vo�endo risolvere un problema, dobbiamo di necessità fondarci su delle cognizioni. E le cognizioni su cui possiamo fondarci sono le positive. Perché di fatto non ne possediamo altre ; almeno finché non sia costruita la filosofia, che non è ancora costruita. Ma ·da cogni­ . zioni positive non si ricavano mai altre cognizioni che positive. Dunque la risoluzione dei massimi problemi, la costruzione d'un sapere oltrepassante il sapere positivo, è impossibile. Dunque la filosofia non può essere che la sistemazione del sapere positivo ; al­ l'uomo non è concesso di spingersi piu oltre. Pretendere, salendo una scala, di arrivare piu in su della scala, è insensato. Nella dottrina di cui si è fatto ora un cenno sommario, qualcosa colpisce subito per la sua incongruenza. Lasciamo indiscusso, per ora se l'impossibilità di oltrepassare il sapere positivo sia dimostrata : supponiamola dimostrata. Si domanda come mai, dal momento che non si può sapere piu in là, s'affermi che c'è un al di là, naturalmente inconoscibile. Poiché con l'affermare che l'al ·di là non è conoscibile,

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s'afferma che l'al di là esiste ; ora, un al di là del quale sappiamo che esiste, non è un'assoluta incognita, non che un inconoscibile. Rispondere che dell'al di là non sappiamo nient'altro se non che esiste, è un moltiplicare gli errori ( . ) Il nos�ro potere conoscitivo, se avesse dei limiti, non li potrebbe conoscere.. Noi riconosciamo i limiti del nostro potere visivo, ma non li vediamo. Vedo azzurro il monte lontano ; so, per aver visto dav­ vicino lo stesso monte, o altri monti, che non è azzurro ; concludo, che a quella distanza l'occhio non distingue i colori. Questo, chè concludo, non mi è . possibile vedere : per accertarmi con la vista dei limiti del mio potere visivo, bisognerebbe che il monte io lo vedessi, nello stesso tempo, e azzurro, e del suo vero colore . .

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. Chi si pone i massimi problemi, domanda se oltre alle cose che son oggetto del sapere positivo, a quelle cioè di cui abbiamo e possiamo aver esperienza, ce ne siano delle altre. Di queste altre cose non potremo aver notizia, s'intende; che fon­ dandoci sul sapere positivo ; arrivare a una cognizione che attual­ mente non si possieda, non è possibile, se non per mezzo delle cogni­ zioni attualmente possedute. Dunque una delle due : o il sapere positivo contiene una scala, salendo la quale ci riescirà di superarlo ; o a superarlo non arriveremo in eterno ( e dovremo contentarci di estenderlo, di ordinario, di connetterlo sempre meglio in se medesimo). Supponiamo d'avere accertato quale sia vera delle due ipotesi. Allora, qualunque sia delle due ipotesi quella che si sappia esser vera, i massimi problemi sarebbero risoluti. Uno di questi era per esempio : dè o non c'è, al di sopra delle cose, o nelle cose, un Principio di sapienza e · di bontà, che le go­ verni ? Del Principio, il sapere positivo, debitamente scrutato e analizzato, somministrerà o non somministrerà un indizio. Nel primo caso noi sapremmo positivamente che il Principio c'è. Nel secondo, sapremmo positivamente che il Principio non c'è. E allora, ostinarci a supporlo, a dubitar che ci possa essere, a cercarlo, sarebbe del tutto ingiustificato. Purché, s'intende, la negazione che il sapere positivo includa un indizio del Principio, esprima il risultato d'una ricerca esau­ riente, non il semplice stato d'ignoranza d'una persona. Il sapere positivo potrebbe · includere, presupporre di necessità il Principio, senza che il signor Tale se n'accorga ; di qui non si conclude niente, se non che, il signor Tale non è d'un accorgimento molto fino. Dunque il sapere positivo contiene senza dubbio la · soluzione dei massimi problemi ; non rimane che da cercarvela. .·

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Ma il cercarvela non può consistere nell'estendere, sistemare, connettere in se stesso il sapere positivo. Perché questo, sia esteso, sistemato e connesso quanto si voglia, o quanto poco si voglia, è sempre della stessa natura ; concerne l'esperienza, non le origini o dove ci proponiamo d'arrivare, non dobbiamo contentarci d'averlo : dobbiamo rendercene un conto riflesso : costruirne la teoria ( ...). Il nome di teoria della conoscenza può dar luogo a un errore. Teoria e pratica si sogliono contrapporre ( ... ). Ma per conseguire i fini verso cui la pratica è diretta, non basta che noi siamo capaci di beni o di mali, di proporci come fine il conseguimento d'un bene o l'allontanamento di un male, né d'operare, cioè di modificare noi stessi, o le cose, o le relazioni tra noi e le � ose. Bisogna inoltre sapere per via di quali operazioni, di quali mezzi, divenga conseguibile un fine che ci proponiamo. Bisogna perciò conoscere le cose, noi stessi, e la relazione che passa tra noi e le cose. La potenza pratica esige la cognizione ; la quale assume conseguentemente un valore pratico di prim'ordine. Benché in tal modo acquisti un valore pratico, la cogmz10ne rimane ben distinta dalla pratica. È la teoria. La quale, benché sia diretta verso la pratica, od anzi per poter essere di utile sussidio alla pratica, ne deve prescindere. Astrarre dai valori che le . cose hanno per noi, è condizione per arrivare a conoscer le cose quali sono. Un medico, per esempio, esaminerà l'ammalato, non dirò senza che gl'importi, ma come se non gl'importasse della sofferenza di questo, delle preoccupazioni della famiglia. Cosi deve fare ; e perché possa, conviene che il medico non sia stretto parente dell'ammalato. Cosi fanno le scienze della natura : la fisiologia, la meccanica, ecc. ; cosi tutte le teorie. Fra gli oggetti che noi possiamo conoscere, ci sono anche i valori ; dunque ci saranno teorie anche dei valori. Una teoria di valori può giovarsi di un'altra ; ma ne rimane però sempre distinta. Per valutare una moneta, sarà utile, o necessario, di conoscerne la com­ posizione chimica ; ma questo, ch'è un pezzo di carta, vale nondimeno assai pio che se fosse un ugual peso d'oro. La distinzione accennata si può intro-durre anche nel campo della filosofia. Abbiamo cosi una filosofia teoretica, e una filosofia pratica. E la risoluzione dei massimi problemi sembra essere di perti­ nenza della filosofia teoretica. In sostanza, che cosa vogliamo ? Farci un concetto chiaro e preciso del mondo, considerato nella sua totalità. Per ottenere un tal concetto, dovremo, come il medico di fronte all'ammalato, come il fisico di fronte alla natura materiale, assumere di fronte alla realtà il carattere di spettatori indifferenti. Astrarre

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dai valori non è condizione per arrivare a conoscer le cose quali sono ? Osserviamo, e registriamo. Ci son le cose a, b, c,... tra cui passano le relazioni r, s, t, ... Cose e relazioni variano secondo le leggi a, �. Y, ... e queste interferiscono cosi o cosi, ecc. Anche l'uomo può venire studiato nello stesso modo, e precisamente sotto un doppio aspetto : e come una delle cose di cui si compone il mondo, e come spettatore indifferente del mondo. Alla teoria cosi costruita, possiamo dare il nome di metafisica. D'altra parte, anche. la filosofia pratica segue la sua strada, e si sviluppa in un'altra teoria distinta. I valori piu propri dell'uomo, e senza contrasto massimi, sono i valori morali ; perciò la filosofia pratica è soprattutto, se non addirittura esclusivamente, una morale. Che sia possibile costruire una morale a sé, non può esser dubbio. « La vita morale è manifestazione di una funzione speciale dello spirito » e « l'idea di valore » {di valor morale) « non può essere attinta che da una forma particolare d'esperienza ». Studiando quest'espe­ rienza costruiamo la morale ; come studiando I' esperienza visiva costruiamo l'ottica ; o come, studiando tutta l'esperienza, costruiamo la metafisica. E se la metafisica e la morale, costruite separatamente, indipen­ dentemente l'una dall'altra, non fossero conciliabili? Alla· morale noi domandiamo che determini con esattezza il fine, che ci dobbiamo proporre operando. Ma senza informarci di quel che la natura -delle cose ci permette di sperare e di tentare, non è possibile determinare il fine. Alla metafisica domandiamo che ci dia un concetto chiaro e adegliato delle cose ; ma se facciamo astrazione dai nostri fini, che son� pur qualcosa, e non sono fuori del mondo, non è possibile formarci un concetto chiaro e adeguato delle cose. La morale presuppone la metafisica, e la metafisica presuppone la morale. Se vogliamo risolvere i massimi problemi, dobbiamo costruire una scienza che sia metafisica e morale insieme, che sia metafisica in quanto è morale, morale in quanto è metafisica. Ecco il concetto vero della filosofia. La filosofia dev'essere tracciata sulla teoria della conoscenza. Ma la conoscenza dev'essere studiata nella sua integrità ; non teoretica­ mente soltanto, bensi anche nel suo carattere pratico. E non soltanto, anche, non sono espressioni giuste. Si tratta d'un'attività unica, la quale compie sempre infine una medesima funzione. Conoscendo l'uomo realizza il suo fine ; realizzando il suo fine, conosce. Bisogna comprendere l'unità delle due funzioni apparentemente distinte : questo il problema. ·

(l massimi problemi, Milan �, Libr. Ed. Milanese, 1910,

pp. 3-23).

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2. DIO Unità e unicità La critica mette fuori di contestazione, che la realtà si risolve senza resto in un pensare concreto, cioè pienamente unificato. Ma il pensare del singolo è sempre in massima parte suhconscio ; mentre la suhcoscienza, essenziale ai singoli, non può essere senza contrad­ dizione considerata come una realtà. Bisogna dunque risalire a un pensare tutto consapevole ; il soggetto, che realizzi un tale pensare, non si lascia ridurre né a un singolo, né al sistema dei singoli ; è il Soggetto Universale. Di questo, e delle sue relazioni coi singoli, dobbiamo procurarci qualche notizia che basti a eliminare, da quanto concludemmo finora, la suhcoscienza, ossia l'incoerenza. Evi­ dentemente, la notizia non è ricavabile che ·da un ulteriore sviluppo della critica. In primo luogo : il Soggetto Universale non può essere che unico. Supposto infatti, che ce ne siano due o piu, ciascuno sarà il solo fondamento necessario e di sé medesimo e di ciascun altro ; dunque la formula esprimente l'ipotesi è contradditoria ; per con­ seguenza, il Soggetto Universale non può esser che unico. Il Soggetto Universale (in secondo luogo) è intrinsecamente uno. Tra l'unità intrinseca, e l'unicità, convien distinguere : i singoli son molti, eppure ogni singolo è intrinsecamente uno. Ma il Soggetto Universale possiede l'unità intrinseca in un grado piu elevato senza paragone, che il singolo. Questo punto esige uno schiarimento. Il pensare umano è frammentario : noi, apprendiamo col tempo, cioè a pezzi, anche la geometria, che pure sviluppa un'esigenza logica estemporanea. Inoltre : un insieme un po' esteso di supposte cogni­ zioni, che una per una sembrano induhitabili e chiare, presenta non di ra·do, come insieme, delle difficoltà ; p. es. delle opposizioni tra le sue parti, che provano quanto ne sia difettosa l'unità. Il carattere frammentario del pensare umano si rende anche piu evidente nella pratic!J. Tra i fini d'un uomo, e quelli d'un altro i contrasti sono frequenti, e non di rado aspri, ogni uomo d'altronde chiude in sé una moltitudine di contrasti, eliminabili soltanto in parte, con uno sforzo di cui pochi sono capaci. L'esistenza dei contrasti prova, che il pensiero teoretico è anche piu frammentario di quanto sembri a chi, nel considerarlo, astragga dalla pratica. E prova, che la compenetrazione reciproca o l'unifica­ zione di pratica e di teoria non è quasi mai realizzata con pienezza. Insomma l'unità costitutiva del singolo, benché senza dubbio esista, è nondimeno molto imperfetta ( ..). .

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L'unità del Soggetto Universale Per il Soggetto Universale non ci sono contrasti esterni fuor di quelli, ch'Egli stesso abbia resi possibili, e che dunque non possono dirsi suoi ; ne diremo qualcosa in seguito. E neppur ce ne sono d'interni, perché nel Suo pensare pienamente conscio, le distinzioni, che nel nostro diventano facilmente opposizioni, sono sempre uni­ ficate ; perché inoltre il Soggetto Universale dalla cui unità rampolla ogni legge necessaria, non può esser sottoposto, né ad alcuna legge, né, molto meno, ad una che lo metta in opposizione con se medesimo. Privo d'ogni frammentarietà, il pensare ·del Soggetto Universale costituisce dunque un'unità perfetta, perché scevra delle manche­ volezze riconosciute nelle unità singole ; e che del resto non esclude una moltitudine d'elementi, come non l'esclude l'unità singola. Anche sotto un altro aspetto l'unità del Soggetto Universale supera di molto quella del singolo. I costitutivi dell'uomo non sùno tutti esclusivamente suoi, gli sono anzi per la piu gran parte comuni con altri uomini, e in parte minore, con tutti. L'uomo è dunque, in un certo senso, disperso nella moltitudine dei soggetti. E tale disper­ sione gli è in molti' casi essenziale ; p. es. il linguaggio esiste soltanto a condizione d'esser comune a tutto un gruppo. Lo stesso dicasi della cul­ tura ; e piu in generale di quel vivere, che si risolve in un convivere. Si tratta senza dubbio d'una dispersione relativa, perché ogni singolo ne unifica in sé gli elementi, che svanirebbero se non fossero cosi unificati. Ma l'unificazione richiede un processo, possibile sol­ tanto nella convivenza ; e quindi sottoposto a condizioni, che sfug­ gono quasi per intero al dominio del singolo. Insomma : l'unità singola è radicata in altro ; laddove quella del Soggetto Universale non è radicata, che in se stessa. l

principi. La legge

L'uomo è libero in due sensi. Primo : in quanto è capace di atti sponta_nei, ed anzi non esiste che nella realizzazione di tali atti ; secondo : in quanto i suoi atti spontanei si connettono in un sistema logicamente connesso. In Dio, le due forme di libertà s'identificano rigorosamente. La ragione sta in ciò : che rispetto a Dio non c'è nulla di estraneo alla sua coscienza, non essendovi luogo alla suhco­ scienza ; in altri termini : che la sua coscienza è piena, tutta luminosa e assolutamente una. Perciò, i suoi atti spontanei sono anche, per il loro stesso compiersi, connessi tra loro in un sistema razionale. In Dio non c'è una spontaneità fuori della razionalità, o una razionalità fuori della spontaneità, comunque s'intenda il fuori. Questo punto merita qualche maggior dilucidazione.

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Noi affermiamo che Dio non è soggetto né alla necessità logica né alla necessità deontologica, essendo egli stesso il fondamento e dell'una e dell'altra. · E non serve opporre, esser Dio un tale fon­ damento, perché le due necessità son costitutive ·della sua natura ; donde verrebbe che non gli sia possibile di andar contro all'una o all'altra, sioché egli sarebbe determinato rigorosamente ah intra, la sua libertà consistendo semplicemente nella sua mancanza d'ogni deter­ minazione ah extra. Ciò ·che da noi si nega, è appunto che Dio abbia o sia, una natura invariabile. Non abbiamo per questo che da riferirei a quanto, su tal pro­ posito, notammo intorno al soggetto singolo. Una natura invariabil­ mente costituita una volta per sempre non può essere né un soggetto singolo, né molto meno, il soggetto universale ; il soggetto (anche sin­ golo, e a fortiori se universale) non va concepito secondo lo schema d'un essere incapace di realizzare delle novità, e p·erciò astratto e morto ; la sua natura è necessariamente un vibrare, un fare, un at­ tuarsi perpetuo. È chiaro inoltre, che, · se Dio fosse determinato necessariamente ah intra, e perciò immutabile per ogni verso, non ci sarebbe alcun variare ; il variare non essendo in alcun modo rica­ vahile da un assoluto permanere. Se il principio è sempre il mede­ simo saranno sempre le . medesime anche le conseguenze. Ma da ciò che Dio non è soggetto· alla necessità logica o deonto­ logica ( s'intende intrinseca) non si conclude che egli crei a capriccio l'una e l'altra necessità ; che insomma Dio potesse, volendo, far della contraddizione il principi9 della verità, o della colpa la regola sicura della condotta. Credere questo, è disconoscere quell'assoluta unità, che a Dio è senza ·dubbio essenziale. lo non credo p. es. che il principio di contraddizione valga inde­ clinahilmente rispetto a noi, perché Dio lo abbia creato. Gli astratti non possono esser né creati, né in alcun modo prodotti ; perché la creazione o in genere ogni produzione, sono dei concreti, e non ne risultano che dei concreti. L'astratto non può essere che un ca­ rattere del concreto, e quindi è realizzato, nel solo senso in cui è realizzahile, non a parte, non per sé, da un'azione che lo con­ servi ; ma nel concreto, di cui è un carattere. Ora : tutte le azioni, che Dio compie, benché assolutamente imprevedibili perché indeter­ minate, benché dunque non sia possibile stabilir niente a priori sulla quasi totalità dei loro caratteri, hanno però necessariamente questo carattere : ·di esser azioni divine. Sono dunque tutte necessariamente incluse nella divina unità. Donde si ricava, che siano tutte com­ patibili tra loro, che siano cioè tutte pensahili, congiuntamente non meno che separatamente. I principi dunque non sono . creati a capriccio, sono l'espressione umana di quel carattere, che d'ogni costi-

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tutivo del concreto fa un costitutivo del concreto, cioè di quel carat­ tere d'ogni reale per cui non c'è reale che non sia una creazione divina ( . ). .

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La legge morale Il medesimo si dica in ordine alla legge morale. Il problema : se il bene sia tale perché Dio lo vuole, o se Dio lo voglia perché bene, va risoluto accettando il primo termine dell'alternativa. Un Dio, per cui la legge morale abbia valore di legge (s'intende intrin­ seca) e insomma costituisca un limite alle sue azioni, è inammis­ sibile. Ma di qui non si conclude ch'Egli sia un essere amorale. C'è un'esigenza morale, perché tutte le azioni sono incluse necessaria­ mente nella divina unità. Ossia : per la ragione stessa, per cui s'è visto esserci un'esigenza logica. Di questa condizione : che tutte le azioni e le intenzioni umane sono collegate con tutto quanto esiste o accade, e non hanno valore, anzi, non sono possibili, all'infuori di questo collegamento, l'uomo non riesce né a rendersi un conto preciso in teoria, né molto meno a uniformar�isi in pratica. Perché, da una parte l'uomo è limitato, dall'altra, non è che imperfettamente uni­ ficato in se medesimo e in ordine a tutta la rimanente realtà. Molti, quand'anche non neghino Dio espressamente, lo concepiscono come un singolo tra i tanti singoli ; e quelli stessi, che ne riconoscono l'uni­ versalità, sono lontani dal rappresentarsela con chiarezza e com­ piutezza ; ossia la rappresentazione che ne hanno è generica e ina· deguata ; questo per la tèoria. Quanto alla pratica, già s'è visto che l'uomo è in profondo contrasto con gli altri e con se medesimo ; !a sua iniziativa si attua soltanto attraverso a delle connessioni causali� che !asciandone intatto l'indeterminismo intrinseco essenziale, ma limitatissimo, ne ·determinano tutti gli altri caratteri ; e tale dipen· denza causale viene avvertita, per l'ordinario, e in qualche modo7 sempre, come un contrasto. La brama del piacere e il timor del dolore, gl'interessi vari èhe sorgono dal complicarsi dei piaceri e dei dolori, esercitano sull'iniziativa un'influenza potente, il cui effetto è di farci operare molte volte in opposizione a quell'ordine, di cui forse riconosciamo in astratto il valore supremo. Da tutto ciò risulta che l'esigenza pratica, mentre in Dio si riduce alla sua unità universale, nell'uomo assurile la forma d'un imperativo che, data la frammentarietà del fare-pensare umano, può esser anche violato ; per un tempo e parzialmente, ma con delle conseguenze, che in or·dine al pensare astratto sono assurde, e in ordine al fare con­ creto sono disastri. Donde il carattere obbligatorio dell'imperativo. Alla domanda : come possa l'uomo accertarsi di conoscere il detto

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imperativo e di uniformarvisi, ora non è difficile rispondere : L'uomo deve procurar di vincere la propria franimentarietà, sollevandosi al­ l'unità divina, e in qualche modo ricostruendola in se medesimo. La differenza tra l'imperativo morale o categorico, e gl'imperativi ·d'altro genere o ipotetici, è tutta qui : l'imperativo categorico è un'� sigenza dell'unità universale assoluta ; l'imperativo ipotetico è l'esigenza d'una unità secondaria, transitoria, incapace di sussistere fuori dell'unità universale. Che l'uomo, per essere moralmente nel bene, debba trascurar i beni d'ordine inferiore, non è cosa da· prender nemmeno in considerazione. Infatti : c'è un bene morale superiore a tutti gli altri, perché gli altri non sono beni, non esistono, che suhordina­ tamente a un ordine supremo, all'unità o al bene morale. Ma l'ipo­ tesi, che l'ordine supremo sia possibile all'infuori degli elementi dei quali è l'ordine, è priva ·d'ogni significato. Non c'è azione per quanto frivola, che in determinate circostanze non possa diventar obbligatoria ; il valore d'una azione dipende per intero dal posto che occupa nell'ordine. Considerazioni, che giustificano ( o rendono obbligatorio) il pratico aspirare alla felicità. Un ordine, che non fosse un ordine di beni ( o di mali, ma questi c'entrano soltanto perché vanno superati a fine di realizzare i beni) sarebbe qualcosa come lo spazio ; il quale ha di certo un'esigenza ; ma la cui esigenza, pura­ mente logica e astratta', è sempre necessariamente realizzata, e quindi priva di valore deontologico. Immanenza e trascendenza Gli uomini (in generale i soggetti) vivono, si muovono, ed esistono in Dio ; secondo la formula di S. Paolo, riferita negli atti degli Apostoli. Come si vede questa formula esprime con esattezza la nostra teoria dell'immanenza ; o piuttosto la nostra teoria è una determi­ nazione pm precisa di quella formula ( ...). L'immanenza di cui parliamo è relativa, in quanto il pensiero di ogni soggetto è pensiero divino, mentre il pensiero divino è senza paragone piu esteso, piu organico, piu attivo e unificato, che non quello di qualsivoglia soggetto singolo. Perciò Dio (quantunque, anzi perché, immanente nel nostro senso) è nondimeno ( sempre nel nostro senso) anche trascendente. Il pensiero divino costituisce la realtà della suhcoscienza e · dell'indeterminato, che · d'ogni singolo è costitutivo essenziale : che sarebbe assurdo, se non ci fosse il pen­ siero divino completamente consapevole. Dio è accertato, malgrado la conoscenza imperfetta che n'abbiamo, dalla discussione critica della contraddizione ora messa di nuovo in evidenza.

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Il mondo è una costruzione, i fattori della quale sono i soggetti singoli ; nondimeno, Dio ne è il creatore, perché, primo : i singoli non esistono, che per un divino atto creativo ; secondo : i loro atti non interferirebbero, se i singoli non costituissero un'unità, consi­ stente nel loro esser inclusi tutti nel pensiero divino ; terzo : la detta unità sarebbe insufficiente a costituire il mondo (anzi escluderebbe un mondo analogo al conosciuto) se non fosse articolata in se stessa. Ora l'articolazione, quantunque mutabile grazie all'interferire degli atti, non può in modo alcuno esser una conseguenza dell'inter­ ferire medesimo ( ...). Neli'articolazione abbiamo dunque una dispo­ sizione ·divina iniziale, non invariabile, ma che determina essa stessa le sue variazioni. Dio articolando il sistema dei soggetti, rende pos­ sibili delle variazioni d'indole teleologica, permette ai soggetti supe­ riori ·di proporsi dei fini elevati e di conseguirli ; e permette che l'azione dei soggetti, anche inizialmente meno favoriti, anche di quelli pressoché incapaci di sviluppo, abbia per conseguenza un per­ fezionarsi del mondo, cioè il realizzarsi delle condizioni che facili­ tino il conseguimento di fini sempre pio elevati. La trascendenza assoluta Sulle relazioni tra l'uomo e Dio non sono possibili che tre dot­ trine : l'immanentismo assoluto, il trascendentalismo assoluto e l'im­ manentismo relativo o trascendentalismo relativo. L'immanentismo assoluto attribuisce al pensiero umano il pio alto valore possibile, perché non all1mette una realtà che se ne distingua. Il trascendentalismo (l'assoluto e il relativo) implica una tal quale svalutazione del pensiero umano, perché ammette una realtà che non vi si riduce. L'immanentismo assoluto pretende che tale svalutazione costituisca per il trascen-dentalismo assoluto e rela­ tivo una difficoltà insuperabile. Discutiamolo in breve ( ...). ·In primo luogo : il pensiero umano sarà : o sufficiente a se stesso (come dicono gl'immanentisti assoluti) o impossibile senza il Dio per­ sonale (come dicono i trascendentalisti assoluti e relativi). Ma il. pen­ siero umano di cui parlano gli uni e gli altri, di cui gli uni e gli altri voglion render esplicite le implicazioni, è il medesimo per gli uni e per gli altri : è quello di cui tutti abbiamo (salve le implica­ zioni di cui si discute) notizia. Il pensiero essendo il medesimo come oggetto studiato ha dunque, sempre come oggetto studiato, un me­ desimo valore tanto nell'imma.nentismo che nel trascendentalismo : ·dunque non è vero che questo lo svaluti a segno da renderlo incon­ cludente. Il trascendentalismo assoluto, escluso da noi, ma del quale non è

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inopportuno dire qualcosa, implica l'assoluta estemporaneità divina. Dio conosce dunque ab aeterno tutto quel vero, che l'uomo va sco­ prendo faticosamente un pezzo dopo l'altro : a che serve questo lavoro umano ? ( domandano gl'immanentisti assoluti). Serve ( rispon­ dono i trascendentalisti assoluti) a render umano quel pensiero che già esiste, ma soltanto come divino. Studiando il greco, un ragazzo non fa esser il greco ; ma impara un greco esistente bensi, ma tutt'ora ignoto a lui. La ragione per cui è da escludere l'estemporaneità divina, e quindi il trascendentalismo assoluto è tutt'altra ; e non d'ordine gnoseologico. Se Dio fosse fuori del tempo, l'uomo sarebbe qualcosa meno di un balocco ( . .). E se c'è una rivelazione assolutamente sovrumana ? Una tale rivelazione (necessaria quando s'ammetta il trascendentalismo as­ soluto, perché altrimenti l'uomo non potrebbe saper nulla di Dio, e certamente possibile anche nell'ipotesi del trascendentalismo rela­ tivo) ( ... ) esclude che l'uomo vada con le sole sue forze in cerca della verità rivelata ; nondimeno, alla ricerca rimane aperto il campo non piccolo delle verità non rivelate, su ·di che son da ripetère alcune tra le riflessioni fatte poche righe pio sopra. È poi anche da notare che la rivelazione stessa esige, per esser accertabile razionalmente, la certezza razionale ( cioè ottenuta con soli mezzi umani) che Dio esista còn alcuni caratteri : sia p. es. verace. Di passaggio : il carattere almeno problematico del trascendentalismo assoluto apparisce pio che mai evidente : ammette che l'uomo non possa saper nulla di Dio, che per mezzo di rivelazione, mentre viceversa non può accertare la rivelazione, se non gli è possibile arrivare altrimenti a Dio ( ... ). Per il nostro immanentismo la difficoltà non esiste. L'uomo, benché possieda un'iniziativa da cui Dio è in qualche modo limitato, è di fronte a Dio in una dipendenza piena e assoluta ; per due ragioni, prima : che volendo potrebbe sempre annullarlo ; seconda : che l'ini­ ziativa, e la conseguente limitazione divina, sono d - a Dio volute libe­ ramente. Inoltre senza l'articolazione teleologicamente preordinata in guisa da rimaner tale malgrado il suo variare (che Dio solo poteva introdurre nel sistema dei soggetti cioè del mondo), l'uomo non sarebbe stato capace di conéepire, nonché di conseguire, alcun fine. L'articolazione gli permette di modificare parzialmente, cioè di co­ struire, il suo mondo, sviluppando indefinitamente se stesso cosi, da liberare il suo mondo e sé ·da ogni elemento non conéordante col volere divino. Tuttociò, con delle determinazioni che Dio, rinun­ ziando liberamente a prevederle nonché ad attuarle, gli abbandona. Creando l'uomo Dio si crea un collaboratore, l'uomo è dunque al mondo per qualcosa. .

·

(Dall'uomo a Dio, Padova, Cedam, 1939, pp. 81-96).

6.

}. DETERMINAZIONE METAFISICA

PIERO MARTINETTI

DEL

CONCETTO DI FILOSOFIA.

FILOSOFIA E

Una determinazione piena e precisa della funzione che la filo­ sofia esercita nel complesso della vita spirituale e dei suoi rapporti con la religione non è possibile empiricamente ossia per il semplice mezzo della considerazione storica ·di ciò che è stata ed è nell'evolu­ zione della cultura umana la filosofia� Le scienze storiche ci mostrano come nella vita dei popoli si produca ad un dato momento, poste certe condizioni materiali e sociali, la manifestazione di attività spi­ rituali superiori come l'arte, la scienza, la filosofia, la religione ; e come esse si trasformino, reagiscano le une sulle altre, subiscano nel corso della loro evoluzione storica l'azione dei fattori materiali, economici, sociali, che modificano il terreno onde esse sorgono. Ma né la storia dell'arte ci dice che cosa sia l'arte in se stessa, né la storia delle religioni ci rivela la natura della religione : lo stesso è a dirsi della filosofia. L'asserire, per esempio, che l'arte, la religione, la filosofia siano semplici fattori dell' evo1luzione biologica collettiva non è una teoria scientifica, ma una teoria filosofica : essa ha il suo fondamento in una concezione generale delle cose che, si voglia o non si voglia, è già per · sé una metafisica, una filosofia. Rivolgendo quindi a noi quelle prime e piu semplici domande che si presentano spontanee all'inizio della filosofia noi ci poniamo �ià di fronte al problema filosofico fondamentale a cui esse- dovrebbero servire d'introduzione : chiedendo quale sia il compito della filosofia e quali le sue relazioni con le attività spirituali affini noi ci proponia­ mo una serie di problemi la cui soluzione chiara e completa implica in sé la determinazione ·definitiva del significato e del valore dell'esi­ stenza. Ciò è quanto accade del resto ogni volta che noi non paghi delle esplicazioni superficiali in cui s'acquietano le menti volgari, ten­ tiamo risalire fino alle cause profonde delle cose : ogni problema particolare ci conduce sempre, se noi non ci arrestiamo a metà cam­ mino, ai problemi generali e supremi della filosofia.

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Ma se pure la soluzione d'una semplice questione particolare esige, sotto pena di rimanere incompleta, di essere posta nella sua vera luce come parte integrante di una concezione metafisica per­ fetta, ciò non implica che il punto di partenza debba esser preso, more geometrico, nel centro stesso onde la soluzione logicamente discende. Lo spirito umano non procede nella formazione ·delle sue concezioni teoretiche dal centro alla periferia, ma dalla periferia al centro : e la nuova luce che sorge dalla· combinazione dei dati periferici si irradia poi su quei dati stessi che hanno servito come punto di partenza. La chiarezza dell'esposizione richiede quindi il sacrificio della perfezione logica : perfezione che è sempre del resto in qualche modo inconciliabile con l'unità organica della filosofia. Se la filosofia, ·dice giustamente · Schopenhauer ( 1), fosse un sistema di pensieri cosi ordinato che ciascuna parte a cominciar dalla base por­ tasse il resto senza esserne portata, non riuscirebbe difficile imitare nell'esposizione la disposizione naturale delle conoscenze. Ma la filosofia non è un · sistema di pensieri ; essa è un pensiero solo e l'ordine delle sue parti è un ordine organico : ogni parte vi sostiene il tutto ed è alla sua volta sostenuta dal tutto. Perciò nessuna di esse è la prima, nessuna è l'ultima : il principio presuppone la fine come questa il principio : il pensiero nel suo complesso deve la sua chiarezza ad ogni singola parte ed ogni parte anche minima non può essere perfettamente intesa senza possedere già una cognizione del tutto . ·

. . . Svvòv oÉ IJ.OL ÈO""tL\1 Ò1t1t08E\I apç,o(-t(U ' "t09� yàp 1taÀW tl;o(-I.OC� au9�ç. (PARM., fr. 3, Diels). Rinunciando quindi per ora ad ogni piu profonda ricerca a que­ sto riguardo, noi possiamo prendere le mosse dal concetto che, pre­ scindendo dalle differenze individuali nel determinarne in modo pre­ ciso e rigoroso l'intimo significato, si ha usualmente della filosofia. Anche dalla piu superficiale considerazione appare in modo evidente che per filosofia generalmente s'intende una veduta d'insieme delle cose sistematicamente svolta ed approfondita o, per usare la defini­ zione stessa d'un autorevole contemporaneo, una sistemazione com­ pendiosa di tutte le conoscenze particolari diretta a soddisfare le esigenze dell'intelletto e le aspirazioni dello spirito e). La filosofia sta cosi con l'insieme delle conoscenze individuali del volgare nello stesso rapporto che ogni singola scienza con quelle cogni(1) ScHOPENHAUER, Die Welt als Wille und Vorstellung, Vorr. § 38 (N.d.A.). (2) WuNDr, Syst. d. PhiU, l (N.d.A.).

z.

e.

A.; N. Paralip.,

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zioni volgari nelle quali ogni individuo riassume il proprio sapere relativo a·d un dato campo dell'esperienza. Prendendo quindi ]a parola « filosofia » in un senso alquanto ampio noi potremmo dire che ogni individuo ha la sua filosofia ( . ). Soltanto nella maggior parte degli uomini questa concezione delle cose rimane una produzione spontanea, quasi inconscia, in balia del caso e delle circostanze esteriori : nel filosofo è una produzione riflessa, approfondita, rigorosamente unificata. Alle coJ;J.cezioni vol­ gari . manca .soprattutto la rigida suhordinazione dell'esperienza sotto un principio esplicativo supremo : ciò che le caratterizza di fronte alla filosofia propriamente detta è appunto l'imprecisione e l'incoe­ renza logica delle idee, la coesistenza nel seno d'una stessa coscienza -di principi disparati non collegati da verun rapporto, il pullulare di intime contraddizioni che il pensiero o ignora o non si cura di conciliare. Quando invece il pensiero imprime all'insieme delle co­ noscenze individuali un'unità rigorosa e logica sottoponendo a severo controllo i dati della sua esperienza e coordinandoli in un sistema di proposizioni astratte, allora abbiamo una filosofia nello stretto senso della parola, ossia una metafisica ( . ). .

.

..

( Introduzione alla Metafisica, Torino, Clausen, 1904, vol. l, pp. 1-4).

2. MOLTEPLICITÀ EMPIRICA E UNITÀ METAFISICA ( ... ) La realtà sensibile, che noi vediamo, non è il dato immutabile e definitivo, ma è anche essa un atto, una creazione ·dello spirito, un prodotto delle attività piu antiche del pensiero, ora meccanizzate nella vita subcosciente ; essa è semplicemente la . sintesi del passato, da cui il nostro spirito incessantemente progredisce alla costituzione d'una realtà qualitativamente superiore. L'attività del nostro pensie­ ro è una lenta e continua creazione di questa realtà piu alta, che in­ sensibilmente si sostituisce alla realtà che oggi ci è data ; la costitu­ zione del mondo intelligibile non è soltanto una costruzione sogget­ tiva, ma è veramente l'inizio d'una nuova realtà, la rivelazione iniziale dell'essere profondo delle cose ; per essa lo spirito nostro legato alla terra, avvinto ad un punto ·dello spazio e del tempo, intuisce i primi albori di quel mondo spirituale che è il fondamento di tutte le esi­ stenze sensibili ed il termine ideale di tutte le nostre aspirazioni piu alte. Anche qui certamente lo spirito nostro non crea nulla, che dal punto di vista assoluto già non sia ; come nel conoscere sensibile lo spirito unifica partecipando ad un'unità esteriore, crea concreando, cosi nelle sintesi piu alte del pensiero esso crea partecipando alla vita

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dello Spirito, unifica confondendo se stesso nell' Unità profonda delle cose : ma in questa partecipazione ad una creazione sovrumana risiede appunto l'attività sua piu alta, in questa unione con la Ragione universale stanno la sua libertà e la sua beatitudine. Posta cosi in modo generico l'obiettività dell'intelligibile, ricono­ sciuto che le unità intelligibili posseggono, come le unità sensibili, un carattere inalienabile di obbiettività, ed anzi costituiscono rispetto alle unità sensibili quell'unità normale dell'esperienza, che nel campo della rappresentazione è attuata dalla rappresentazione vera di fronte alla rappresentazione illusoria, ancora un punto ci rimane a determi­ nare : e questo è precisamente il punto, in cui la concezione prece­ dentemente esposta si ·differenzia dalle altre concezioni che riconoscono egualmente la realtà ohhiettiva dell'intelligibile. Poiché se l'obbietti­ vità della conoscenza sensibile è, come abbiamo riconosciuto, un'oh­ biettività relativa, sorge qui naturalmente la questione : quale è il va­ lore che il sistema degli intelligibili possiede dal punto di vista assoluto ? Costituisce esso semplicemente un'espressione relativa d'una realtà superiore, od è invece il fondamento ultimo delle cose, la realtà ohhiettiva in senso assoluto? Noi non abbiamo, per rispondere a que­ sta domanda, che a riassumere brevemente le conclusioni a cui siamo pervenuti nel nostro esame critico del razionalismo, dell'idealismo on­ tologico e del panlogismo. Ora a questo proposito noi abbiamo rilevato in primo luogo che, erigendo il sistema degli intelligibili in realtà assoluta, si rende con ciò inesplicabile il sistema delle unità sensi­ bili : il quale, pur costituendo con il primo una realtà sostanzialmente unica, è tuttavia in se stesso qualche cosa di positivo e di qualitativa­ mente irreducibile. Il razionalismo infatti riconosce hensi alla realtà sensibile un'esistenza distinta, ma in fondo la riduce ad una iposta­ tizzazione del fattore empirico dell'esperienza, considerandola come una pura realtà di fatto, come la materia informe, su cui si esercita l'azione dei principi: mentre anche la realtà sensibile è, come ah­ biamo veduto, un'organizzazione formale, ed un ·dato assolutamente puro è inconcepibile ; inoltre l'organizzazione logica della coscienza tende a trasfigurare in un ordine logico puro l'ordine sensibile, il quale non può perciò essere pensato come alcunché di assoluto. L'idea­ lismo ontologico invece ed il panlogismo annullano in realtà l'ordine sensibile: l'uno in quanto lo considera come il risultato d'un'illusione, d'un oscuramento della facoltà conoscitiva, come una negazione della perfezione intelligibile ; l'altro in quanto, considerando la totalità dell'essere come uri processo logico, riduce anche la realtà del senso ad un momento dell'C?rdine logico complessivo. Anche a questo pro­ posito noi abbiamo osservato che l'ordine formale del tempo e dello spazio viene con ciò reso inesplicabile : in quanto esso non è solo una

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limitazione, una negazione parziale di rapporti intelligibili, ma è, di fronte a questi, qualche cosa di positivo e di qualitativamente di­ stinto, che non è assolutamente inquadrabile, senza violenza, in un ordine logico. Certo il mondo sensibile è sostanzialmente identico col mondo intelligibile, da cui non si -distingue che formalmente ; ma questo suo carattere formale ci dice che anch'esso è una realtà e che, se dal punto di vista del pensiero logico la distinzione fra realtà logica e realtà sensibile s'identifica con la distinzione fra essere e non essere (come appunto- accade nel caso della distinzione fra la rappresenta­ zione vera e la rappresentazione illusoria per colui che è dal punto di vista della rappresentazione vera), l'una e l'altra non sono vera­ mente dal punto di vista assoluto che due forme successive ·di una realtà, la quale non è, nella sua forma assoluta, né l'una né l'altra di esse. In secondo luogo noi abbiamo osservato che un sistema di intel­ ligibili assoluti è una contraddizione : in quanto, venga esso concepito come la generazione d'un mondo ideale da un'idea prima, o come la successione dei momenti di un processo dialettico, esso è sempre in ogni modo una molteplicità relativa, che tende a risolversi nell'unità immutabile -di quel principio, che è posto come il fondamento od il fine dell'intiero processo. E questa impossibilità di erigere in principio assoluto qualsivoglia dei principii sempre relativi del nostro conoscere intelligibile si riflette nell'alternativa, in cui si trova in tal caso il pen­ siero fra il porre come principìi assoluti dei principii, il cui contenuto è evidentemente attinto alla realtà relativa e contingente, ovvero dei principii indeterminatissimi ed esclusivamente formali, vale a dire delle astrazioni, dei puri simboli verbali privi di qualsiasi conte­ nuto ; onde anche sotto questo riguardo noi siamo stati condotti a con­ siderare il mondo ideale non come un sistema assoluto di unità immu­ tabili, ma come l'espressione relativa d'un'Unità trascendente che è il solo ed il vero intelligibile assoluto. L'impossibilità di arrestarci ad una molteplicità assoluta ci è chia­ rita anche meglio, del resto, da ciò che si è detto in seguito relativa­ mente alla unificazione formale ; la quale in ogni grado aspira a rea­ lizzare un'unità assoluta, e ci fa considerare come relativa ogni molte­ plicità : mentre d'altra parte ogni unità concreta, vale a dire ogni unità coesistente con una molteplicità, anche se indefinitamente este­ sa, si rivela come assolutamente inadeguata rispetto a quell'unità, che essa aspira ad esprimere. La sostituzione dei principii intelligibili alle unità sensibili è una conseguenza ·di quel processo di unificazione formale dell'esperienza che già ha luogo nel seno della stessa espe­ rienza sensibile e che costituisce il criterio della realtà e dell'apparen­ za ; ma questa unificazione non ha termine nei principii intelligibili od in alcun'altra molteplicità assoluta ; l'unico termine possibile è l'unità

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pura. Il vero ed assoluto a priori non sono punto infatti il tempo, lo spazio, la causa, l'identità logica ; ciascuna di queste forme non è che un'espressione imperfetta di quell'unità, verso cui aspira l'esperienza ; come già aveva riconosciuto Kant con la sua teoria dell'appercezione trascendentale, la radice ultima delle forme a priori è nell'unità del Soggetto, e le diverse forme d'unità, che esso introduce nel contenuto molteplice, non sono che manifestazioni diverse ·di quest'unità. L'in­ tuizione dell' Unità assoluta è quindi il vero elemento a priori : non nel senso certamente che noi possediamo mai questa intuizione in tutta la sua perfezione ; ma nel senso che essa è come una virtualità inte­ riore, che si svolge contemporaneamente alla nostra vita psichica e che di fronte a questa rappresenta costantemente l'ideale intellettivo superiore, l'unità da raggiungere, la forma da realizzare. Essa non è qualche cosa che noi possediamo nella sua totalità, non è un semplice fattore dell'esperienza destinato ad entrare in tutte le combinazioni di questa : essa è anzi qualche cosa di costantemente superiore a noi, qualche cosa che si partecipa a noi di mano in mano che in noi si rea­ lizza un'unità spirituale piti universale e piO. alta ; il sapere nostro, pur essendo suscitato dal concorso delle esperienze, è veramente, come Platone voleva, una rivelazione interiore, è un atto di unione mistica col Logos eterno che è il fondamento assoluto della nostra natura e). « Né la lettera scritta, dice uno scolastico, né la parola esteriore insegnano : esse non fanno che stimolare e muovere il di­ scepolo. Ma vi è nell'anima un Maestro che l'illumina e le mostra la verità. Essa non impara pertanto per l'abilità dei maestri, ma per l'il­ luminazione interiore che procede dalla luce prima » (4). E la stessa dottrina è insegnata in fondo anche da Aristotele ; l'intelletto agente di Aristotele, che è atto puro, separato dalla corporeità, eterno, libero dall'imperfezione e dal dolore, non è altro che l' Unità formale suprema, che è in ogni istante presente allo spirito e per cui questo trapassa di forma in forma ; il 'VOUç' 7tOC91j'tLXOç' mutabile, personale, perituro, rappresenta di fronte ad esso l'unità risultante dal comples­ so delle formazioni · mentali pervenute all'atto, superiore al senso ed alle immagini sensibili, ma lontana ancora sempre dalla perfezione suprema ed immutabile del pensiero, che è pervenuto all'unità asso­ luta col proprio oggetto e). Quindi nessuna delle unità concrete, che l'esperienza ci fornisce, può essere considerata come la realtà asso­ luta ; nessuna delle forme della conoscenza, anche se considerata nella ' (3) Si cfr. GREEN. Proleg., 80 ss. (N.d.A.). (4) RoBERTO DI LINCOLN, in }OUKDAIN, Fil. di S. Tommaso, II, 73 (N.d.A.). (5) ZELLER, Phil. d. Gr., Il, 23, 566 ss. Questa è, com'è noto, l'interpr. di Alessandro d'Afrodisia. ZELLER, ib., III, P, 797 ; si cfr. pure BoBBA, La dottr. d. intell. in Aristot., 1896. (N.d.A.).

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sua massima generalità, esprime quest'unità formale assoluta, in quan­ to ciascuna di esse esprime ancora sempre un rapporto di un'unità ad una molteplicità e perciò costituisce un'unità relativa ed imperfetta ; anche le denominazioni ·di Soggetto, Spirito assoluto, in quanto espri­ mono le unità logiche pili perfette che noi possiamo concepire, non sono mai altro che pure denominazioni simboliche. L'unica realtà metafisica assoluta è l' Unità formale assoluta : essa è l'unica vera sostanza, l'unica vera legge universale ed eterna, che esiste anterior­ mente ad ogni intelligenza e verso cui ogni intelligenza aspira. La co­ noscenza sensibile traduce quest'Unità trascendente in quel sistema di unità formali �Sensibili, che è il mondo dei colori, dei suoni e degli estesi : il quale pertanto è una creazione continua dello spirito che lo intuisce, e tuttavia esiste in sé medesimo, nel suo fondamento assoluto, in modo identico ed immutabile, indipendentemente da ogni punto di vista limitato ed imperfetto. Cosi l'intelligenza realizza in noi un sistema di leggi e di idee, le quali vengono da essa create nell'atto stesso che le apprende : il processo della conoscenza intellettiva non è un processo di riflessione, per cui oggetti e rapporti d'una miste­ riosa natura causino per inesplicabili mezzi un ordinamento corri­ spondente nel nostro pensiero, ma è un processo per cui un complesso di rapporti intelligibili fondati su ·d'un'Intelligenza eterna si realizza gradatamente in noi, generando in un'inseparabile corrispondenza l'intelligibile e l'intelligenza, le leggi delle cose ed il pensiero a cui si rivelano (6). Ma anche questo mondo intelligibile non è altro che un'espressione relativa d'un'unità, che in se stessa trascende l'iniel­ ligenza : la pluralità dei principii intelligibili è puramente ·Correlativa alla limitazione della nostra intelligenza ; noi non esprimiamo con essi ( diremo con la scolastica) una reale pluralità delle idee in Dio, ma solo la pluralità dei punti di vista (respectus tationis), che corrispon­ dono ai nostri ina-deguati concetti dell'unica Idea divina (). Ciascuna delle unità che noi consideriamo come una legge od un'idea non è cosi altro che un momento di quell'unità medesima, la quale, parteci­ pandosi a me, costituisce la mia coscienza ; l'unità che si rivela nelle cose non è sostanzialmente altra da qti.èlla che si rivela nell'essere mio e l'unità dell'essere mio è la forma pio alta, in cui io posso intuire la natura dell'unità delle cose. « Ciò che è in tutti gli esseri essendo da tutti gli esseri distinto, ciò che nessuno degli esseri conosce, ciò :di cui tutti gli esseri sono un 'incorporazione ( çariram), . ciò che interna­ mente regge tutti gli esseri - questo è l'anima tua, la tua guida inte(6) GREEN, Proleg., 43 (N.d.A.). ( 7) WERNER, F. Suarez, I, 178 ( ...) (N.d.A.).

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riore, il tuo (essere) immortale » (8). Quest'unità partecipata alle cose come unità intelligibile e che costituisce nello stesso tempo il fon­ damento dell'attività, per cui io partecipo a quest'unità, è la vera intel­ ligenza immanente alla realtà sensibile ; l' Intelligenza universale dei neoplatonici, che è l'espressione immediata dell' Uno e genera dal proprio seno l'Anima dell'universo sensibile, non è che l'unità astratta della realtà intelligibile, come è l'Anima del mondo rispetto alla realtà sensibile. Cosi anche qui si rivela quell'identità di natura fra l'io ed il mondo, che già abbiamo rilevato a proposito ·della natura sensibile ed in cui ha la sua profonda ragione, come Schopenhauer rileva, la tesi dell'idealismo subbiettivo (�. Poiché, se io volgo lo sguardo al mondo obbiettivo, dinanzi all'infinità dell'universo, dinan­ zi agli infiniti mondi ed agli innumerevoli esseri la mia personalità sparisce. Ma se io rivolgo lo sguardo dentro di me, e penso che tutto quest'universo, e quanto esso contiene, è la mia coscienza, e che il centro ed il fondamento di ogni realtà è quella medesima unità, che è il centro ed il fondamento della mia coscienza, io debbo allora rico­ noscere che la realtà intiera ha nell'io il suo ubi consistam, e posso ripetere con gli antichi savii · indiani : Io sono tutte queste creature e non vi è altro essere fuori di Me. Noi possiamo pertanto applicare a tutto il conoscere ciò che ah­ biamo già rilevato in riguardo al conoscere sensibile, delineando cosi definitivamente la natura ed il valore del nostro conoscere nel suo complesso. Il conoscere è sempre ed in ogni suo grado un conqscere obbiettivo, un conoscere ed un essere nel medesimo tempo ; la realtà che noi conosciamo, è un atto nel . nostro pensiero, ma questo atto è il processo costitutivo ·della realtà medesima : ciò che io chiamo il :ptondo è il processo medesimo della mia coscienza considerato nella sua molteplicità obbiettiva, è il contenuto concreto della mia cÒ scienza isolato dalla rispettiva unità subbiettiva. E questo vale tanto per il conoscere sensibile quanto per il conoscere razionale : anche il mondo creato dal pensiero logico è un essere, che, se da principio appare come una pura realtà ideale, come un termine, verso cui il pensiero risale dal dato sensibile in determinati momenti, non è tuttavia meno per il soggetto del pensiero una realtà obbiettiva ; realtà, . che, come ogni altra realtà, tende a trasformarsi in una realtà data e che quindi insensibilmente s'incorpora nello stesso dato primitivo trasformandolo profondamente. Ma quest'obbiettività del conoscere non è mai in nes­ suno dei suoi gradi un'obbiettività assoluta ; sebbene per virtu dell'uni­ ficazione formale esso ascenda di grado in grado verso un'unità sem(B) Brihad Ar. Up., 3, 7, 15 (N.d.A.). (9) ScHOPENHAUER, Par.

u.

Par., II, § 20 (N.d.A.).

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pre pm perfetta, che in rapporto ai gradi inferiori appare come la realtà obbiettiva di fronte all'apparenza, nessuno di questi mondi successivamente creati dal pensiero costituisce una realtà assoluta : anche le piti alte costruzioni del pensiero logico sono espressioni imperfette d'una Realtà, la cui assoluta unità trascende ogni co­ scienza. Una sola è quindi la realtà, uno solo l'oggetto del nostro cono­ scere ; ma quest'unico oggetto non si rivela che in un infinito numero di concezioni ina-deguate e relative ; la realtà è unica per tutti i sog­ getti, ma empiricamente non identica. (l�oduzione alla Metafisica, cil., vol. I, pp. 470-4'76).

3. LA LIBERTÀ Si è da molti osservato che il concetto di libertà è negativo : libertà da che cosa ? Il nome « libertà » designa sempre l'indipendenza in un certo riguardo che p�ò anche essere sottinteso : da questo riferimento riceve il suo senso la parola « libero ». Cosi per esempio l'animale che vive liberamente è quello che vive fuori dalla soggezione del­ l'uomo ; il cittadino libero, la libera repubblica s'intendono liberi da un governo tirannico ; e cosi in tutti gli altri casi. « Questo concetto, esattamente posto, è un concetto negativo. N oi pensiamo per mezzo di esso solo l'assenza di ogni impedimento, ·di ogni coazione : è questa che, in quanto esplicazione di forza è qualche cosa di positivo » ( 1�. Non vi è quindi veramente né un contenuto, né un sentimento posi­ tivo della libertà (11). Questa osservazione riceve la sua apparenza di vero dal fatto che la libertà è sempre relativa ; nòn vi è una libertà in senso assoluto. Il grado della libertà può quindi, sempre venir de­ terminato per il suo rapporto con qualche cosa, ma questo non vuoi dire che il concetto di libertà sia soltanto negativo. Preso nel suo senso piu semplice e generale, questo concetto ha un contenuto intui­ tivo non altrimenti definibile perché è quello d'uno stato psichico immediato, come il dolore o il suono ; ma che tutti · conosciamo o-d esperimentiamo quando il corso della nostra vita interiore si svolge senza urti, senza ostacoli, in conformità del desiderio e. delle esigenze nostre. Noi conosciamo tanto bene questo stato di volontà non osta­ colato che lo riferiamo figuratamente alle cose e parliamo d'una libera caduta dei corpi, della libera vegetazione di una pianta ecc. ; noi do( IO) ScHOPENHAUER, Ober die Freiheit des menschlichen Willens (ed. Reclam)

(N.d.A.).

p. 383

(11 ) Cosi C. GiiRINC, Ober die menschliche Freiheit und Zurechnungsfiihigkeit ( 1876),

pp. 1-14 (N.d.A.).

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tiarno allora il corpo che cade, la pianta che vegeta di quel senso parti­ colare che proviamo quando l'attività nostra si svolge senza essere impedita, per una specie di espansione naturale conforme alla volontà nostra. La libertà non si riferisce quindi in senso proprio che ad es­ seri coscienti ; ed in questo senso . a tutti gli esseri coscienti. Niente ci vieta di supporre qualche cosa di analogo anche nella pianta che espan­ de liberamente le sue fronde o che apre i suoi fiori al sole. Noi possiamo quindi chiamare libertà quello stato in cui un essere non è impedito di realizzare le disposizioni e le inclinazioni che ne costituiscono la natura. Una pianta si svolge liberamente quando nes­ suna causa interna od esterna le impedisce di vegetare e di svolgersi cosi come la natura sua richiede. E se il compito morale dell'uomo è -di giungere al dominio della ragione sui desideri inferiori, la realiz­ zazione di questQ fine è la natura piu essenziale dell'uomo : il quale non è libero (come essere morale) fino a che da cause esterne od interne è impedito di svolgersi e di operare in questo senso. Si com­ prende perciò come la libera attività sia accompagnata da un senso di gioia e come la libertà - i.n tutti i sensi - sia posta dall'uomo fra i beni piu preziosi : non v'è per l'uomo altra sorgente di felicità che il pieno svolgimento normale dell'essere suo e questo ha il suo indice nel sentimento della libertà. È vero che questo senso è spesso ( special­ mente nel primo momento) come un senso di liberazione da qualche cosa, di negazione ·d'una passione, d'un'idea dominante, ecc. : ma questa negazione è sempre in pro d'un'altra attività, d'un'altra idea, d'un'altra tendenza, chè noi in quel momento non sentiamo come una servitu, perché ci identifichiamo con essa : ma che sentiremo cosi domani, quando faremo un altro passo nella conquista della libertà. Chiarito cosi genericamente il senso che dobbiamo attribuire al concetto di libertà, dobbiamo premettere in primo luogo due avver­ tenze. La prima è relativa a quella distinzione fra libertà di volere e libertà di agire, sulla quale Schopenhauer si arresta con insistenza nelle prime pagine della sua memoria sulla libertà ·del . volere. La libertà del volere in vero e proprio senso è la libertà interiore, la li­ bertà della determinazione, l'esplicazione spontanea e non ostacolata dell'attività volitiva ; la libertà di agire è la libertà esteriore, la libertà dell'estrinsecazione della volontà, l'esplicazione non ostacolata delle attività fisiche, le quali dipendono dalla volontà. Un paralitico, un uomo chiuso in un carcere possono ben volere andare dove loro talen­ ta ; ma quel loro volere è inutile, perché non può avere la sua realiz­ zazione esteriore per mezzo delle attività corporee. Bisogna natural­ mente guardarci dal far consistere la libertà ·del volere nella libertà dell'agire ; i moralisti di tutte le età hanno troppo ben insistito sulla incoercibile libertà dell'animo che non può venir messo in ceppi, non

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può venir piegato_, ove esso medesimo non si pieghi, da nessuna forza esteriore. Ma la libertà dell'agire è o non è un elemento della libertà del volere? Che la libertà dello spirito non possa venir costretta da una forza fisica, è ben vero ; ma solo fino ad un certo punto. Anche il linguaggio comune non chiamerà libero un uomo che è chiuso in un carcere : questa coazione fisica non può infatti non esercitare una certa violenza sul volere. Dato pure che la volontà interiore si irrigi­ disca nella resistenza e nella affermazione della sua indipendenza, questa reazione porta nell'anima qualche cosa che non sarebbe stato da essa liberamente e spontaneamente voluto : la libertà dello spirito non è soppressa, ma subisce una specie di deformazione violenta che la piega e la forza in un senso che non sarebbe stato, senza di essa, liberamente adottato. Quest'azione della coazione fisica sulla libertà -spirituale si vede benissimo nell'oppressione politica, che è e non può essere altro, in ultimo, che oppressione fisica, coazione della libertà d'agire. La soppressione della libertà di riunione non può distruggere la libertà dei cuori : solo impedisce che questa unità si esplichi este­ riormente ed oppone ad ogni tentativo diretto in questo senso una violenza fisica. Ma il ·dispotismo politico ha raramente bisogno di ri­ �orrere alla violenza ; la semplice possibilità di questa costringe le volontà riluttanti e crea poco per volta una disposizione paurosa degli animi che a lungo andare si traduce in un abito servile e cancella an­ ·che le ultime tracce di resistenza interiore. Potremmo dire in questo caso che la violenza esteriore non possa nulla sulla libertà interiore? La libertà non è una proprietà dell'anima, anzi d'una facoltà dell'ani­ ma - la volontà - ma è una disposizione, uno stato di tutta la per­ -sonalità. Poiché questa è gerarchicamente ordinata ed in ogni momento vi è un pensiero dominante, una volontà preponderante che domina tutto il sistema e che viene da noi in quel dato istante pio intimamente identificata con il nostro « io », noi siamo soliti a considerare la nostra libertà come una cosa sola con la libertà di questa volontà suprema : ed anzi quando vi è in noi qualche tendenza che ad essa rilutta, noi la respingiamo da noi come non nostra, come « schiavitu del senso », come « passione », ecc. Quindi allorché tutto l'essere nostro è do­ minato dalla volontà morale, noi ci sentiamo liberi anche quando resistiamo ad un tiranno e per questa resistenza siamo privati della libertà fisica : e se il nostro essere sensibile si duole deHe debolezze perdute, noi ripudiamo con Epitteto questo desiderio e questo rim­ pianto come rimpianto di cose non nostre. Tuttavia è inevitabile che anche lo stoico piu indurito soggiaccia qualche istante a questo rim­ pianto e senta la sua volontà migliore come · assalita e, se non in­ franta, indebolita da questo tumulto interiore : la sua libertà di volere, per quanto in ultimo trionfi, non può dirsi che non sia in qualche

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modo affetta dalla violenza esteriore. E tutti i suoi sforzi saranno di­ retti a calmare questo tumulto, a sostituirvi un'indifferenza non solo voluta ed ostentata, ma interiore e spontanea ; vale a dire a sostituire al sistema ·delle tendenze sensibili riluttanti un sistema di tendenze che si accordino con la sua volontà superiore nelle nuove condizioni ;. e solo allora si considererà come veramente libero di fronte alla violenza del despota. Ma di solito noi consideriamo questa resistenza· come un atto eroico ; il che vale a dire che abitualmente invece le VO·· lontà sensibili inferiori piu o meno rapidamente esercitano un'influen­ za sulla volontà superiore e la volgono nel senso da esse voluto. Quan­ do Napoleone III il 2 dicembre 1851 si impadroni con violenza del potere, si ebbero, anche da parte degli impiegati, magnanime ribel­ lioni. Ma quanti poco dopo rinnegarono il nobile atto e tornarono supplici e pronti a farsi passivo strumento ·della ingiusta violenza ! n senso morale offeso, la dignità, t'esempio avevano determinato il pri­ mo impulso : il pensiero della destituzione, la prospettiva della mi-· seria, la paura della persecuzione, le influenze familiari soffocarono rapidamente la volontà generosa e diedero a tutta l'attività personale· un diverso indirizzo. Non vi è quindi vera libertà se questa non è libertà di tutta la personalità ; e quindi anche dell'attività fisica. La li­ bertà dell'agire è parte della libertà del volere : parte subordinata, che noi possiamo in date circostanze considerare come non essenziale alla nostra libertà vera, perché facciamo consistere questa nelle no­ stre volontà superiori e crediamo di poter ad esse subordinare le nostre tendenze fisiche ; ma pure inseparabile e in molti casi eserci-· tante una non lieve influenza sulla libertà complessiva. La libertà è la spontaneità nell'attività : e poiché l'essere nostro è un sistema di atti­ vità, di tendenze, di volontà, la libertà nostra non è la libertà di una attività o d'una facoltà sola, ma è nella spontaneità di tutto il sistema. Non ogni coazione è della medesima importanza ; ma anche la coazio­ ne dell'attività piu subordinata detrae alla libertà totale e non è senza azione sulla libertà delle stesse attività superiori, nelle quali è fatta spesso consistere la vera e propria libertà. La seconda avvertenza si riferisce al carattere nettamente spirituale della libertà. Noi non possiamo dire libera un'attività solo perché essa è indipendente da forze estranee : perché non abbiamo nessun cri­ terio con cui determinare se un'attività è o non è estranea. Quando una macchina agisce « liberamente'» noi prestiamo alla sua attività una unità ed una finalità che sono soltanto della volontà nostra, la sua « libertà » è un riflesso della libertà umana. n vapore, per esem­ pio in una macchina a vapore non si muove affatto liberamente, ma è costretto dalla caldaia, dai tubi e dagli stantuffi a·d esercitare una certa azione meccanica : quando noi parliamo del « libero » svolgi-

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mento del vapore acqueo, noi sostituiamo anche qui metaforicamente all'atto ed alla sostanza materiale il concetto di un essere cosciente che oppone sé al resto delle cose e sente perciò come una coazione, un'azione estranea la limitazione che esse oppongono alla sua atti­ vità. · Ciò che delimita il nostro io e lo contrappone con chiarissima differenziazione alle attività estranee, è la coscienza. L'essere nostro non è un punto semplice di coscienza, ma un sistema, un'unifica­ zione che si svolge e si trasforma nel tempo. Questo sistema è costi­ tuito da attività che vengono successivamente attratte nell'orbita del sistema, assimilate, unificate ; dalle energie degli alimenti, che l'uomo ingerisce, alle idee che un'accide�tale lettura insinua nel mio spirito, si tratta sempre di elementi che il mio essere attr� e nell'orbita ·della sua attività, assimila e subordina ; essi diventano il mio corpo, il mio modo di sentire, di pensare e di agire. Quando questa unifica­ zione avviene in modo normale, cosicché le attività inferiori ( con­ scie e subconscie) si subordinano armonicamente, la vita si svolge come una specie di consenso interiore di tutto l'essere : ogni parte dell'essere nostro si svolge, nel posto che le è assegnato, spontanea­ mente, « liberamente ». Nel caso contrario si ha una resistenza, un urto della o delle nostre volontà dominanti contro energie inferiori, contro « necessità >> sgradevoli e dolorose, dalle quali ci sentiamo con­ trariati o dominati. Il processo normale delle trasformazioni chimiche -del sangue non è da me avvertito se non come un elemento indistinto dello stato di benessere fisico : ma nello stato febbrile prodotto da un elemento patogeno, io avverto questo stato come un .processo che si fa in me e tuttavia ostile a me, come qualcosa. a cui sono soggetto, come una coazione a cui soggiaccio. Analogamente è necessario, perché l'essere mio si svolga col sentimento della sua libertà, che i suoi rap· porti con la realtà esterna siano normali (in senso relativo all'indi­ viduo), non contrastino troppo aspramente con lo svolgimento della ·sua volontà complessiva. Certo l'essere individuale è sempre limitato ed urta ben presto contro impossibilità che sono necessità estrinseche invincibili : ma finché esse non urtano la sfera dei suoi desideri e dei suoi bisogni immediati, esse non appariscono come limitazioni della libertà. Se un legame mi costringe a tener le braccia lungo i� corpo in modo da non poter prendere un oggetto vicino ciò mi sembra una restrizione della mia libertà : ma non mi affiiggo di non poter toccare con le mani la luna e non vedo in questo una limitazione dolorosa .del mio potere. Le condizioni individuali e sociali tracciano intorno a ciascuno una sfera di bisogni, di desideri, di volontà che sono piu o ineno perfettamente unificate in una personalità. Quando l'ambiente esteriore e l'unificazione interiore sono tali che questa personalità com­ plessiva può svolgersi in tutte le sue parti senza resistenze violente,

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senza compressioni dolorose, il senso della spontaneità della sua azione è ·ciò che noi -denominiamo libertà. In quanto è senso della propria spontaneità, la libertà non è mai senza coscienza : solo gli esseri coscienti possono essere liberi. Ma d'altra parte tutti gli esseri che han­ no coscienza sono capaci, in questo senso, di libertà. La libertà non è dunque uno stato unico, ma la resultante di molte « libertà » ; ogni attività nostra, · in quanto non coatta, ha il senso della sua spontaneità, la sua libertà. Nessun essere può dirsi mai perfettamente libero : perché, per quanto grande sia il consenso in­ teriore delle sue attività e il suo adattamento all'ambiente, la sua limi­ tazione e la sua imperfezione si impongono sempre piu o meno ener­ gicamente alla sua coscienza come schiavitu della necessità, dell'esi­ stenza terrena, del COfpo, del senso ecc. Le stesse attività inferiori e subordinate sono sempre piu o meno sensibilmente impedite : ciò che noi avvertiamo come necessità fisica, limitazione economica ecc. Que­ sta diminuzione della libertà esteriore non è senza influenza, come abbiamo veduto, anche sulla libertà- interiore. La compressione este­ riore può creare infatti esigenze, abitudini, che agiscono fortemente come motivi nell'interno e diminuiscono cosi o tolgono la libertà in­ teriore, la libertà del volere. In questo caso la soggezione ad una necessità esteriore non è immediatamente avvertita : chi compie un atto sotto il terrore di una . persecuzione crede di agire liberamente secondo la linea piu vantaggiosa, come crede di agire liberamente chi è sotto l'azione di un accesso d'ira, dell'intossicazione alcoolica, del­ l'esaltazione sessuale. Ma questa volontà momentanea si trova poi in disaccordo con la linea complessiva della personalità ; svanita la causa che la sosteneva, l'indivi-duo si trova di fronte ad essa come colui che ha agito sotto l'impero della suggestione ipnotica sta di fronte all'atto suo dopo il risveglio. Perciò egli la condanna come dovuta ad uri acciecamento, a un asservimento momentaneo alla viltà, al senso ; la considera come dovuta ad un'energia straniera che egli ripudia come non veramente sua. Anche sotto questo aspetto nessuno di noi è mai completamente libero : la nostra linea di condotta non è una risultante fissa ; la direzione della nostra attività assunta ora da una volontà, ora da un'altra e l'in-dirizzo della nostra vita subisce delle oscillazioni corrispondenti. Perciò ci rammarichiamo di aver « ce­ duto » ieri all'espansività ; e le visioni e i propositi pessimistici si dissipano in un giorno. di serenità come « attacchi » di ipocondria : tutto ciò che non coincide con la spontaneità dell'oggi appare come difetto di libertà, conseguenza di necessità fisiche, fisiologiche, o psi­ cologiche, straniere al vero essere nostro. Ma appunto perciò l'io del momento appare sempre come supremamente e indiscutibilmente li­ bero e nel giudizio complessivo, neglette le piccole variazioni involon-

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tarie, noi consideriamo come interiormente libero ogni essere la cui vita si svolge secondo una spontaneità uguale e coerente a se stessa, in conformità ·della sua « natura », cioè del complesso dei suoi an· tecedenti. Questo è il concetto dal quale dobbiamo partire per determinare anche le forme pio alte della libertà umana : come la coscienza e l'in­ telligenza anche nelle loro esplicazioni superiori non sono che un potenziamento di quell'attività sintetica medesima che già si esplica nelle sue piti umili manifestazioni della vita del senso, cosi anche la libertà morale dell'uomo non è un'apparizione ex novo, una facoltà senza antecedenti : essa non è diversa che per grado dalla spontaneità che si manifesta nelle attività piti semplici degli esseri coscienti. Che la libertà come spontaneità non contraddica alla necessità della concatenazione causale è ora facile a vedersi. Anche senza ricercare piti a fondo, per adesso, in che consista e su che si fondi il senso della spontaneità che accompagna tutte le attività che si esplicano liberamente, noi possiamo assumere come un punto superiore ad ogni dubbio che l'attività esplicata da un animale o da un bambino costituisce una serie causalmente concatenata. In questi inizi stessi dell'attività volontaria, dove pure la spontaneità segue docilmente il corso degli stimoli, non è certamente cosa facile stabilire con chia­ rezza tutti gli antecedenti d'un fatto, per quanto .semplice, sia per la complessità d'ogni coscienza, anche elementare, sia per la difficoltà di penetrare con l'interpretazione subhiettiva in una vita di cui ci sono ·date soltanto le manifestazioni esteriori indirette, sia infine per­ ché le serie psichiche terminano rapidamente nel fondamento oscuro delle predisposizioni fisiologiche. Ma in ogni caso è sempre possibile ricostruire con una certa approssimazione tutta una serie di atti rela­ tivamente semplici, la cui successione si rivela alla coscienza come una manifestazione vitale spontanea : tutta la psicologia · è fondata sopra questa presupposizione. Ciò è tanto poco controverso del resto che la difficoltà maggiore opposta a questa identificazione della spon­ taneità e della libertà è tratta appunto dalla considerazione che le ma­ nifestazioni spontanee non sono liher41 che in apparenza, che l'essere agente obbedisce a necessità di cui non ha coscienza e che gli tolgono, agli occhi nostri, ogni libertà. L'opposizione che viene cosi stabilita fra la libertà e la necessità non è tuttavia un'opposizione assoluta, tale cioè che la spontaneità pel fatto solo che costituisce una concatenazione causalmente determinata, non possa piti dirsi libera. Per la coscienza dell'agente la concatenazione necessaria è vissuta come spontaneità, come libertà : e questa concatenazione appare come un limite, un ostacolo alla libertà soltanto a·d un'altra coscienza, per cui essa costi­ tuisce una necessità straniera, che non può assimilarsi con la sua vita,

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non può senza piu o meno profondo contrasto, entrare a far parte della sua ugualmente necessa-ria spontaneità. Un individuo che è in preda ad una passione agisce . nel senso della sua spontaneità ; ma per noi che lo osserviamo freddamente, è una volontà travolta nel meccanismo d'una violenta commozione psichica ; la sua necessità è per noi assenza di libertà. Se però anche noi, come accade nei fenomeni di eccitazione collettiva, partecipassimo alla sua esaltazione, la sua necessità diventerebbe anche la nostra : noi vivremmo della stessa spontaneità e la sentiremmo in noi come libertà. Questo è stato già del resto ripetutamente osservato in riguardo alla libertà morale, che nella sua relativa perfezione è sempre neces­ sità del bene : « sia ringraziato il Signore che io debbo essere un uomo onesto ». Anche gli scolastici debbono ammettere in piu d'un caso · questa coincidenza della libertà e della necessità. I dannati, secondo Alberto Magno, vogliono necessariamente il male, come i beati il bene : e tuttavia questa volontà necessaria è anche libertà perché è 1 senza coercizione ( 2). Cosi Bonaventura riconosce che la libertà sta essenzialmente nel volere secondo la propria spontaneità : anche un volere · immutab ilmente e necessariamente diretto verso un fine può essere libero : la libertà è condizionata unicamente dall'assenza di 13 coazione ( ) . Scoto usa la parola libero anche nel senso di tn e le altre (quando le altre anime ci appariscono talora mute e impe­ netrabili, come i sassi e le forze cieche . della natura), ma anche tra l'anima nostra e ìa nostra anima stessa, o quello che fu anima nostra, o che noi possiamo pensarne ( ma non quello che noi possiamo

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realizzare nell'anima nostra) ; quello che è uno stato nostro, come vedremo, non l'atto. ( Teoria generale dello spirito come atto puro, Firenze, Sansoni, 19596, pp. 1-10).

4. IL POSITIVO COME AUTOCTISI Il pensiero come concretezza dell'universale e dell'individuo Ebbene, cerchiamo, dunque, nel pensiero concreto la positività che sfugge al pensiero astratto, si dell'universale e si dell'individuo. L'astratto universale è quello a cui il pensiero pensa, ma non è il pensiero. L'astratto individuo è pure un termine del pensiero, che si vuoi intuire, sentire, affermare quasi d'un tratto, di sorpresa. Ma non è il pensiero né anch'esso : ed è perciò naturale che né l'universale si individui come dovrebbe, per essere reale ; né l'individuo si uni­ versalizzi, come pure . dovrebbe, per essere ideale, cioè vero reale (reale pel pensiero). Ma quando Cartesio volle esser certo della verità del sapere disse : cogito, ergo sum ; cioè non guardò pio al cogitatum, che è astratto pensiero, ma piuttosto al cogitare stesso, atto dell'lo, centro da cui tutti i raggi del nostro mondo partono e a cui tutti tornano. E allora non trovò pio nel pensiero quell'essere che è semplice idea, universale ·da realizzare ; come l'essere di Dio nell'argomento ontologico, giusta la critica dei suoi avversari, dal monaco Gaunilone (sec. XI) fino a Kant : ma l'essere positivo, del­ l'individuo : di quell'individualità, che, secondo Kant e tutti i nomi­ nalisti antichi, moderni e recentissimi, non può esser garentita se non dalla intuizione. E una intuizione infatti è pur quella onde Cartesio vede di essere ; ma un'intuizione, che non è immediata, come quella che i nominalisti e lo stesso Kant con la sua teoria del dato, termine o materia ·dell'intuizione empirica, vogliono ; bensi risUltato essa stessa d'un processo. Cogito : giacché io non sono se non penso, e sono in quanto penso ; e sono perciò tanto quanto penso. La vera positività Qui si ha la positività vera, che Platone cercava ; la positività senza la quale ad Arisiotele giustamente parve non si potesse serbar fede alle idee : la positività, che è realizzazione di quella realtà di cui l'idea è il principio, e che integra perciò dall'intrinseco l'idea stessa. Giacché, se ndea è idea, o ragione della cosa, la cosa dev'essere prodotta dall'idea : il pensiero che è vero pensiero, deve generare l'essere ·di cui è pensiero. Questo è appunto il significato del cogito

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cartesiano : io - questa reatà che io sono, la piti certa che io possa avere, e, abbandonata la . quale, smarrirò ogni possibilità di accertarmi di una realtà qualsiasi ; il solo punto fermo, al quale io possa legare il mondo che penso - quest'io sono in quanto penso : lo realizzo, pensando, con un pensiero che è il pensiero (l'esatto pensiero) ·eli me. L'io, infatti, come si vedrà meglio piti innanzi, non è se non auto­ coscienza, non come coscienza che presuppone il Sé, suo oggetto, anzi come coscienza che lo pone. E già ognun sa che la personalità, ogni determinata personalità, non si può pensare che si costituisca se non in virtti delle sue proprie forze, le quali si assommano nel pensiero. Il pensiero sottratto all'intellettualismo Il pensiero pertanto, che nella posizione intellettualistica alla ma­ niera di Platone, si trova innanzi alle idee e non ha modo di passare al positivo dell'individuo, scopre l'individuo perché lo realizza tosto che si sottrae a quella posizione e pertanto non si trova piti alla pre­ senza delle idee, fuori delle idee, che egli ha costruite e proiettate innanzi a sé ; ma si trova alla presenza di se medesimo, ossia di quel processo, in cui le idee stesse sorgono e vivono, appena dall'astratto si rivolga al concreto. Nel quale dovrà quind'innanzi sempre cer• care il fondamento positivo d'ogni realtà. Ciò che sappiamo non aver fatto Descartes, il quale rica·d de subito nell'intellettualismo. Né meglio vi è poi riuscita la filosofia posteriore. Universale e particolare nell'lo Nel positivo di questo essere - essere che io, pensando, sono coincidono e s'immedesimano la particolarità e l'universalità, dando luogo al vero individuo, quale Aristotele lo defini, unità di forma e di materia, dell'elemento ideale che è universale e dell'elemento im­ mediato, positivo, che è particolare. S'immedesimano ( e questo è il punto), non perché siano termini originariamente diversi e quindi concepibili l'uno senza l'altro, anzi perché non si possono pensare se non come differenziazione dell'identico. Infatti io, che sono in quanto penso, non posso trascendere l'atto puntuale del pensare senza trascendere me stesso. Non si può escogitare maggiore unicità di questa. Ma se nel mio pensare sta la mia unicità, il mio stesso pensare è la maggiore universalità che ci sia : perché questo pensiero onde penso me, è quel medesimo pensiero appunto onde penso tutto ; e - ciò che è piti, e assai piti esatto -, è quel pensiero onde penso me veramente, cioè sentendo di pensare ciò che assolutamente è vero, e perciò da pensare universalmente. L'atto del pensare, adunque,

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per cui sono, . mi pone come individuo universalmente : come, in generale, pone universalmente ogni pensiero o, se si vuole, ogni verità. La verità del realismo e quella del nominalismo . Dal punto di vista, che cosi abbiamo raggiunto, mentre si risolve l'antica e vessata questione dei realisti e dei nominalisti, e quella insieme del principio di individuazione, si può anche dire che tanto i realisti quanto i nominalisti abbiano assai piu ragione di quel che essi non abbiano mai sospettato. Giacché non solo è reale quell'uni­ versale che i realisii affermavano, ma non c'è altra realtà ; e non solo è reale quell'individuo che affermavano i nominalisti, ma oltre l'in­ dividuo non c'è altro, neppure come semplice nome, schema astratto, arbitrario, ecc. L'universale, non presupposto ma posto realmente dal pensiero, è tutto ciò che si può pensar di reale. Checché infatti se ne ·distingua, da esso non si può distinguere se non dentro di esso, ossia dentro allo stesso pensiero, uscendo dal quale nulla piu è pensabile. Quindi l'universalità investe ogni piu diverso principio o ente che al pensiero si voglia opporre, non potendoglisi mai opporre per modo che n,on sia sempre, risp.etto al pensiero concreto, pen­ siero esso stesso. · D'altro lato, l'individuo, non presupposto, né an­ ch'esso, ma posto dal pensiero, è · del pari tutto ciò che è pensabile come reale, o che · è semplicemente pensabile : perché tutto ciò che è pensato, è (sempre che si abbia riguardo al pensiero concreto) pensiero : cioè quel cogito, che è positivo, certo, individuo. Lo stesso mondo delle idee platoniche, quel sistema di concetti ·di cui con �ta tutta la speculazione spinoziana dell'Etica, quel mondo di possibili a cui mira la piu astratta e intellettualistica filosofia che ci sia mai stata (Wol:ff) , che. altro sono, se dal pensiero astratto ci si rivolge al concreto, se non determinate filosofie storiche, pensieri indivi­ duali, ossia realtà realizzatesi una volta, o meglio, realtà realizzantisi, per quel tanto in cui si realizzano, nella nostra mente che se le rappresenta ? Si tratta del cogitare, che si realizza in un determinato essere, che è assolutamente unico : non uno tra molti, ma uno come tutto, infinito. Conciliazione del realismo e del nominalismo Questo rigoroso nominalismo, che non lascia luogo né pure per nomi, fuori della concretezza individuale, e questo non meno rigo­ roso realismo, che non ammette nulla oltre l'universale, trovano ciascuno la propria verità nella verità ·dell'altro, sottraendosi perciò all'opposizione, in cui pel passato essi rimasero schierati l'un contro

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l'altro. Giacché oltre l'universale del pensiero non c'è l'individuo, essendo che l'universale stesso è il vero individuo ; e fuori dell'in­ dividuo non c'è né anche il nome di un universale, poiché l'indi­ viduo stesso, nella sua genuina individualità, non può non essere, per lo meno, nominato, e investito di un predicato, e insomma della universalità del pensiero.Vanità degli universali-nomi Norni, regole, leggi, falsi universali, tutte le bestie nere dei nominalisti sono, in verità, chimere del pensiero astratto, non mai esistite : tanto reali, quanto reale è la bestialità di quegli uomini, che fan perdere la pazienza e son ingiuriosamente giudicati, in uno scatto d'ira e di risentimento, per bestie ; laddove è ovvio che, se fossero dav­ vero tali, tale sarebbe anche colui che loro lo rinfacciasse ; ed ovvio è altresi che con tale violenta negazione dell'umanità e della ragione non si fa che astrattamente pretendere dagli altri quella stessa ragione che è la nostra. Pretesa, la cui ingiustizia salta agli occhi appena si rifletta che della ragione ci sono gradi e forme diverse, e che la nostra in tanto è reale, e imperiosa, in quanto noi la realiz­ ziamo. Il nome comune ! Ma il nome, ogni volta ' che suona sulle nostre labbra, è un nome nuovo, rispondente a un atto che, per defini­ zione, come atto spirituale, non ha passato: e fuso nell'unità dell'atto spirituale a cui appartiene, nulla ha di comune con tutte le altre voci materialmente identiche, usate altre volte a designare oggetti simili della nostra esperienza. La regola non comprende sotto di sé, quasi genere che abbracci una serie indefinita d'individui, una mol­ teplicità di casi : poiché la regola astratta -dai casi è una regola sempre inapplicabile, per definizione : e la vera regola è quella che investe a volta a volta singolarmente il caso, facendo tutt'uno con esso. Onde l'estetica moderna sa che ogni opera d'arte ha la sua poe­ tica propria, e che ogni parola ha la sua grammatica ('). Cosi la legge, e cosi ogni universale, empirico o speculativo che sia, non si distacca mai dal fatto, dall'individuo : anzi vi aderisce e vi s'immedesima, se noi non consideriamo l'una o l'altro in astratto, ma in quel che l'una e l'altro significano allo spirito ogni qual volta effettivamente si pensano : giacché essi non sono allora se non la trasparenza logica, la pensabilità dei fatti e degl'individui, altrimenti evanescenti di là dai limiti estremi dell'orizzonte logico. Nel quale, si ba-di, tuttavia essi rientrano, non come oggetti astratti del pensiero, (1) Cfr. GENTILE, Il concetto della grammatica (1910) in Frammenti di estetica e di letteratura, Lanciano, Carabba, 1920 (N.d.A.).

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anzi piuttosto come momenti della sua vita, e individui nel senso che abbiamo spiegato. L'individuo come posizione di sé, o spirito L'individuo da noi trovato è positivo, e il solo positivo che sia dato concepire. Ma positivo, ormai è chiaro, non come una volta ·deside­ ravasi, cacciandosi in una via senza uscita : cioè non come posto da altro che dal soggetto : sibbene come posto dal soggetto, anzi come lo stesso soggetto che si pone. Il quale soggetto aveva bisogno di uscire da sé per imbattersi nel positivo, - ciò che poi non gli veniva fatto - finché non fu consapevole del suo vero essere, che proiettava innanzi a sé, e fermava in un'astratta realtà. Ma, acqui­ stata che �bbia la coscienza dell'intimità dell'essere a quello stesso atto con cui egli lo cerca, lo spirito non vedrà piu come si' possa desiderare positività piu certa e piu salda di quella che ha in sé quando esso pensa e si realizza. n pensiero volgare crede che l'uomo .che si sveglia, metta in fuga le immagini del sogno, - quel mondo affatto soggettivo che non è il mondo, - mediante le sensazioni della natura materiale ; che sarebbe la corda, a cui gli converrebbe affer­ rarsi per non naufragare nel pelago della inconsistente realtà della sua fantasia. Ma il contrario è vero. Quando infatti sul primo sve­ gliarci ci tocchiamo, e giriamo attorno lo sguardo ai materiali oggetti che ci sono intorno, per riscuoterei meglio e riacquistare chiara e netta coscienza del reale, noi non abbiamo negli oggetti stessi e nella natura esterna la pietra di paragone del reale, anzi in noi stessi. E la difficoltà di ammettere come reale questa esterna natura, che immediatamente non s'innesta nella nostra vita soggettiva quale s'è configurata nel sogno, essa ci fa tastare il corpo nostro e gli altri corpi, e aggiungere nuove sensazioni e sviluppare le rappresentazioni di codesta esterna natura, che cosi, a primo aspetto, ci turba e respinge, e non ancora si riesce a·d affermare come reale. E se la realtà poi la vince sul sogno, è che nella esperienza, onde è contesta la trama del soggetto, si trova posto per essa e non pel sogno, se non in quanto è pur realtà questa del nostro sognare. E se si prescindesse da questo centro di riferimento di tutta l'esperienza, che è l'lo, intorno al quale essa si organizza e sistema, la realtà si giustaporrebbe alle cose vedute fantasticando e a tutta la vita vissuta nel sogno, senza possi­ bilità di discriminazione e valutazione. Il che vuoi dire, che il vero e unico positivo è l'atto del soggetto che si pone come tale ; e ponendo sé, pone in sé, come suo proprio elemento, ogni realtà che è positiva per questo suo rapporto di immanenza all'atto in cui l'Io si pone in modo sempre piu ricco e piu complesso. Di guisa ·che, sottraete

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la vostra soggettività dal mon-do che contemplate, e il mondo diventa un reve, senza positività ; introducete la presenza vostra nel mondo dei vostri sogni (come ci accade quando si sogna, e non c'è dissidio tra il contesto generale dell'esperienza e le cose sognate), e lo stesso sogno diventa massiccia realtà, positiva tanto da scuotere la nostra personalità, appassionarci, farci vibrare di gioia o tremar di paura. L'individuo come universale che si fa Infine, l'individuo, cosi come noi l'intendiamo, e il correlativo uni­ versale, non sono piu, evidentemente, né due oggetti, né due posizioni statiche di pensiero. A loro non compete propriamente la categoria dell'essere, poiché non c'è, a rigore, nessun individuo e nessun univer­ sale. Né quindi potrebbe dirsi puramente e semplicemente che l'in­ dividuo desiderato da Aristotele non sia natura, ma pensiero. Perché la natura davvero È, in quanto termine del pensiero che lo presup­ pone ; e per la stessa ragione ben ·diceva Platone essere l'universale. Ma l'universale nostro è l'universalizzare, il fare l'universale, o meglio, poiché questo universale è lo stesso pensiero che lo fa, il farsi dell'uni­ versale. Parimenti l'individuo è atto, anzi che principio o termine d'atto ; e consiste nel farsi individuo, o individuarsi. E in conclusione, si può parlare d'universale e di individuo, in quanto si ha la mente al soggetto, all'lo che pensa, e, pensando, si tÙiiversalizza indivi­ duandosi, . e s'individua universalizzandosi. Qui apparisce il significato piu profondo del positivo, che non è posto come risultato d'un processo già compiuto e perfetto, e che rimanga perciò innanzi al pensiero come un mistero (chi lo pose ?). Il positivo è .posto in quanto attualmente si pone, rientrando in quell'essere che è in quanto si pensa. Il positivo, anzi che qualcosa di posto, è veramente l'essere autoponentesi come tale : la cui posizione è certa per ciò, che essa è appunto la trasparenza assoluta del pensiero a se stesso nell'atto suo. E cosi si spiega perché niente riesca pili certo del fatto, che vien percepito : ma la sua certezza non dipende dal suo esser fatto, hensi dall'esser percepito ; dal risol­ versi in un · atto reale del pensiero, che si attua e si pensa ( ... ). Il concetto della molteplicità Ebbene, un omaggio al piu profondo motivo di vero dell'ato­ mismo democriteo, che è il bisogno della differenza, noi pure l'ah­ biamo reso quanto abbiamo esposto il concetto dello spirito come processo ( ...) ; e ora potremmo riferirei a quel che allora fu detto, mostrando come l'unità dello spirito non escluda se non l'astratta molteplicità, poiché tale unità è in se stessa molteplicità : una molte-

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plicità concreta che si spiega nell'unità del processo spirituale. Se non che qui l'esigenza della molteplicità risorge con un aspetto nuovo, che bisogna accuratamente rilevare. Giacché li si guardava alla molteplicità che s'impone allo spirito dal di dentro : in quanto egli è coscienza ·delle cose e delle persone, le quali son molte, le une e le altre. E certamente non c'è altra molteplicità oltre di questa, che lo spirito si vede sorgere innanzi dal suo seno stesso. Ma all'ato­ mista (e atomista è in fondo chiunque senta il bisogno dell'individuo come qualcosa onde si debba integrare e realizzare il pensiero) pare che la molteplicità, in quanto molteplicità positiva, sia ancora di là da quella molteplicità che apparisce al soggetto. Non basta concepire un mondo svariato e ricco di particolari, perché questo mondo esista : può essere un sogno. E sogno sarebbe per l'atomista se le nostre rap· presentazioni non potessero spiegarsi trascendendo il soggetto, e ad·ditandone l'origine nella molteplicità reale delle cose. Né giova per lui avvertire, come abbiamo avvertito, che le cose reali e le cose sognate non si discriminano da sé, ma han bisogno del soggetto che le discrimini, senza di che la stessa veglia sarebbe tutta un sogno, da cui non ci sveglieremmo mai. Non giova, perché egli sempre ci ripeterà che queste cose reali che il soggetto oppone alle sognate, non sono reali perché ce le rappresentiamo ( ché le cose rappresen­ tate presuppongono le altre, che generino in noi coteste rappresen­ tazioni) ; ma piuttosto ce le rappresentiamo come reali, perché sono reali in se stesse, di una realtà che è a base di quella che noi si attri­ buisce loro : d'una realtà in sé, che è la vera, la sola positiva, la natura, dove sono gli individui veramente individui, gli atomi in se stessi inconoscihili. Li è la positività vera, a cui il pensiero deve appoggiarsi se non vuole annaspare nel vuoto e aggirarsi in un mondo ·di vane ombre di se medesimo. E li non c'è la molteplicità da noi pensata come tale (e che non si può pensare senza unificarsi), ma la molte­ plicità in sé : che è il solido fondamento di tutte le differenze e opposizioni individuali, e quindi della complessa vita della realtà. Sicché, attraverso il concetto dell'individuo, ritorna in campo la molteplicità con la pretesa di accamparsi ancora al ·di là di quella molteplicità che noi abbiamo dimostrata immanente al processo dello spirito, e postulante pertanto una natura in sé, fondamento a tutta la vita dello spirito e condizione all'esatto concetto dell'individuo, inteso come positività integ�ante del pensiero. E noi torniamo a scrutare cotesto concetto della molteplicità. D'una molteplicità, come ognun vede, oscura perché trascendente lo spiritò, caotica perché sottratta a ogni unità, onde possa stringerla un atto spirituale, paurosa come l'infinito leopardiano, in cui il pen­ siero s'annega (per la stessa ipotesi !). Dobbiamo pure scrutarla,

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perché, malgrado la sua trascendenza, essa - ricordiamoci dell'avvertenza di Berkeley -, piglia posto tra i nostri concetti, e anche l'atomismo è una filosofia : né un concetto può mantenersi senza resistere agli altri con cui nella nostra mente deve coesistere. lmpensabilità di una molteplicità pura Già una pura molteplicità non solo è inconoscibile, ma impen­ sabile. I molti sono sempre un insieme ; e se ciascuno non fosse cogli altri, sarebbe uno, non come parte, ma come tutto : unità assoluta : quell'unità che l'atomismo nega. E c'è dell'altro. Data la molteplicità a, b, c, d ... , a non dev'essere b, né c, né d, ecc. E cosi b, c, d, ecc. Ma che una cosa non sia l'altra non è possibile, assolutamente, se non si nega ogni relazione tra le due, poiché relazione importa certa identità. Dunque, la molteplicità reca con sé necessariamente l'irrelatività assoluta dei �olti, che ne fanno parte. Di modo che a non solo non dev'essere b, ma non dev'essere né anche relativo a b. E questo è assurdo, perché chi ·dice « non essere », dice esclusione reciproca, e quindi relazione. Ancora : posta pure la molteplicità; questa molteplicità non può essere assoluta senza essere di elementi assolutamente semplici : altrimenti ogni composto sarebbe un'eccezione alla molteplicità, orga· nizzandola e unificandola. Ma il semplice ( a't'O(.I.OV, a't'O(.I.Oç" ovcr�a) viene ad essere, a sua volta, una flagrante violazione della legge dellà molteplicità : perché il semplice è uno. L'atomista, movendo dall'unità dell'esperienza, la nega, spezzandola, dividendola : questa è la logica del suo pensiero. Egli quindi dove trova unità, dovrebbe dividere, né arrestarsi all'atomismo, ma disperdere l'atomo stesso all'infinito ; e allora non avrebbe piu la molteplicità, che richiede i suoi elementi. Ancora : data pure questa molteplicità, come la fantastica l'ato­ mista, a che gli servirebbe essa? Gli atomi, come le idee, sono esco­ gitati. quale principio del reale : in cui c'è la unità, ma c'è anche la molteplicità (donde l'inservibilità delle idee, messa in chiaro da Aristotele) ; c'è la molteplicità, ma c'è anche l'unità, il rapporto, l'urto degli atomi, l'aggregazione della materia, ecc. Ma posti i semplici assolutamente irrelativi, l'urto è impossibile, perché esso è relazione, per quanto estrinseca ; e posto l'urto, finisce la irrela­ tività, la semplicità, e la molteplicità. Difficoltà non nuove, poiché piu o meno ·chiaramente, piu o meno energicamente, sono state sempre sollevate contro l'atomismo, e, mutatis mutandis, contro ogni pluralismo. Ma esse non hanno im­ pedito che da tutti i filosofi, anche avversari del pluralismo, il mondo

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fosse rappresentato nello spazio e nel tempo, e che ogni individuo positivo fosse pensato come determinato hic et nunc : esistente in quanto esiste nello spazio e nel tempo. ( ... ) ( Teoria generale dello spirito come atto. puro, cit., pp. 9-f-111).

5. LA VERITÀ COME CERTEZZA E COME VALORE Il

germe di vero della teoria volontaristica

La dottrina volontaristica, insufficiente pel suo opporre la volontà all'intelletto, ha tuttavia il gran merito di mettere in evidenza un attributo essenziale della verità, sfuggito a tutto l'intellettualismo antico, quantunque sempre oscuramente incluso nel concetto di verità : l'attributo della spiritualità del valore, e, si può dire, della moralità della verità. Giacché essa accentua il momento della soggettività del vero� come posizione o dimostrazione della presenza del soggetto nel vero medesimo : che è uno degli aspetti caratteristici della verità immanentisticamente intesa. Il proprio infatti del volontarismo è questa conversione dell'attenzione diretta a cogliere il vero, per dir cosi, della verità, dal logo al soggetto per cui il logo vale. Al sog­ getto, si badi, e non piu al logo soggeitivo. o al pensiero pensato dall'intelletto che sia già venuto in possesso del vero. La diffe-· renza è di capitale importanza, perché quando a un logo obbiettivo astrailo si è sostituito . un lo go suhbiettivo, nel baratto non si guadagna nqlla, come risulta da tutte le analisi precedenti : immediato l'oggetto,. immediato il soggetto, · sia che si consideri come intuito, sia che · si consideri come riflessione, il cui valore è reale solamente quando essa sia adeguata e immedesimata con l'intuito che presuppone. Un soggetto inteso a questo modo non è il soggetto, il cui interesse afferma Platone quando esprime il bisogno di legare la verità.. Chi ha questo bisogno e questo interesse è, non il pensiero che già sia determinato conforme al À.éyoç oç ÀÉyEt "t'OC èhmx. wç ECT"t't\1 ; ma chi pem;a questo pensiero ; la persona che si realizza come una certa attività intelligente nel pensarlo . . Il soggetto, insomma, nella sua attualità di soggetto, come autoctisi. Il concetto della verità immanente in rapporto al concetto dello spirito come autoctisi Non è caso che questa dottrina risorga nell'età moderna e si affermi con tanto vigore per opera di quel Cartesio, che ben si può dire il fondatore del concetto filosofico del soggetto come autoctisi. Egli stesso vede ed accenna l'intima relazion� tra questa sua dottrina

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della volontarietà della verità e dell'errore, e quella dottrina della -certezza attraverso la quale egli scopri il nuovo concetto del soggetto, -che è in quanto pensa : il cui essere è una generazione identica al pensare. « Esaminando in questi giorni passati », dice infatti nelle Meditazioni (8), « se qualche cosa esistesse nel mondo, e conoscendo >Che dal solo fatto che io esaminavo questa questione, seguiva eviden­ temente che esistevo io stesso, non potevo a meno di giudicare che una -cosa che concepivo con tanta chiarezza fosse vera, non già perché a ciò mi trovassi forzato da alcuna causa esterna, ma soltanto perché una -gran chiarezza era nel mio intelletto, e ne è derivata una grande inclinazione nella mia volontà ; e io mi son ridotto a credere con tanto maggior libertà, quanto minore è stata l'indifferenza in cui mi son trovato ». Sicché la chiarezza estrema della proposizione ·Cogito, ergo sum, per cui Cartesio può sottrarsi al dubbio de omnibus, e gettare le basi ·della certezza della cognizione, è solo un momento .astratto della certezza stessa : la quale si compie con l'atto di libertà, ·Che riconosce la chiarezza dell'idea, e cioè ne afferma la certezza. ·

Il concetto della certezza e la logica della fede La certezza, dunque, che col Discorso sul metodo (come pure col Nuovo Organo) diventa il problema logico principale, e quindi il vestibolo di tutta la filosofia moderna, non è la verità che essa astrat­ ta�ente presuppone, ma l'integrazione e la concretezza della verità, -sottratta per lei al dommatismo proprio di ogni realtà intellettuali-sticamente concepita, e quindi particolare, e non filosofica. La verità d'una logica filosofica non può essere se non questa verità che è con­ tenuto della certezza. Con questa dottrina si rovescia tutta la logica della fede, propria .della filosofia intellettualistica. Per la quale, la verità è certa quando .è. oggettiva ; e la 'ltttew prrtoptxÌ') di G�rgia (9), è ilsurrogato della scien­ za oggettiva, per lui impossibile. La retta opinione di Platone è cre­ duta vera, ma non è vera, perché non veduta con quella O"lNO�tç-, che è la funzione mentale caratteristica del filosofo e�, il quale scorge ·ogni idea nella logica necessità del sistema obbiettivo. La fede è atto :soggettivo, che ha valore soltanto p el soggetto ; e poiché il soggetto vien concepito come uno dei termini della realtà, nel cui organismo (B) Medit. 4•, in Oeuvres, IX, pp. 64-7 (N.d.A.). (9) PLATONE, Gorgia, 454 E : persuasione rettorica, da cui · deriva "t'Ò mCT"t'EUEL\1 YLY\IE"t'GtL

-iivru "t'OU Ei.SÉ\IaL (N.d.A.). ( lO) \PLATONE, Rep. VII, 357 C : awax"t'É0\1 Ei.ç- a'11voljiw otxEL6"t'i)"t'oç- à.).),:f)).wv "t'W\1 p.aOTJp.à."t'w\1 xaL "t'ik "t'ou ov"t'oç- cpucrEwç-. M6vTJ youv, EL'ltE\1, 1) "t'OLGtU"t'TJ p.ci8TJO"Lç' ·f3É(3aLoç- È\1 oi:ç- &v ÈyyÉ\ITJ"t'GtL. KaL !J.EYLO""t'TJ yE, i'jv B'éyw, 1tEi:pa 8La).EX"t'Lxik cpucrEwç- xaL il-l'lÌ · 'O p.È\1 y&.p CTV\IOX"t'LXÒç- 8La.).�x"t'Lx6ç-, o BÈ p.T} oil (N.d.A .).

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ideale consiste il sapere necessario ( come uno dei fatti che sono og­ getto della scienza, diremmo oggi, e non come la funzione stessa creatrice della scienza), la certezza del sapere è al polo opposto del soggetto, nella verità trascendente. La fede cosi pare un sape�e immediato, e perciò particolare, !ad­ dove la scienza è mediazione e universalità : mediazione, in quanto sistemazione del particolare nell'universale. Il contenuto della fede è bensi pel soggetto che crede ; ma non si dimostra, né vale perciò universalmente : né per altri soggetti, e né anchè pel soggetto stesso, venutegli meno le circostanze e quello stato suo, da cui la cre·denza germoglia. È evidente che questa attribuzione dell'immediatezza alla fede come adesione del soggetto alla verità sua, e della mediazione, e conseguente certezza, a un logo obbiettivo e pèr sé stante, ideai termine della cognizione soggettiva, si regge su un presupposto, che è quello innanzi illustrato del concetto della trascendenza della verità. Per cui la verità, in quanto trascendente, è il principio, e la certezza si consegue solo quando il soggetto si spogli di tutta la sua soggettività e si risolva ed annulli nell'oggetto astratto, in cui, me­ diante la logica, può immedesimarsi. Ma, una volta chiarito l'assurdo implicito nel concetto d'una verità trascendente, la verità, in quanto tale, diviene essa l'immedia­ to : e la fede, come antitesi della certezza, anzi che atto del soggetto, è l'astrazione che il soggetto fa da se stesso. E la mediazione, vice­ versa, consisterà nello spiegarsi dell'attività del soggetto per instau­ rare, convalidare e valutare la verità astratta. Onde parrebhe che la fede antica si trasfiguri nella nuova certezza, e l'antica certezza si trasmuti per i moderni in una pura fede dommatica ; se non fosse piu esatto dire che nel nuovo concetto della verità si conciliano e unificano gli antichi opposti della fede e della certezza. Giacché la fede come puro atto del soggetto diventa certezza solo in quanto non è piu immediatezza, anzi quella mediazione appunto che l'antico intellettualismo non poteva vedere nell'attività del soggetto, e si affidava di ritrovare piuttosto nell'oggetto. L'unità della fede e della certezza Questo infatti convien avvertire molto attentamente : nel movi­ mento filosofico iniziato da Cartesio col dubbio metodico, per giun­ gere alla critica di Kant e al concetto del soggetto attuale (sottratto a ogni presupposto) della nostra filosofia, non si tende già, come può facilmente sembrare a chi intenda le cose in modo approssimativo, a sostituire la fede della volontà alla scienza dell'intelletto. Al punto a cui siamo pervenuti, giova rilevare accuratamente il significato di

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-questa unità di fede e certezza, che è la certezza moderna, come con­ cretezza della verità. La quale è concreta - questo ormai è evidente dalle precedenti indagini - se è certa ; ed è certa : l) se è contenuto immanente all'atto libero del soggetto ; che è il carattere della fede ; 2) se quest'atto importa in sé, e quindi nel suo contenuto, una media­ zione ; che è il carattere della certezza. Come sia possibile tale unità di fede e certezza, che è la certezza vera, è chiarito dalla stessa necessità che spingeva l'antica filosofia a dividere prima e contrapporre i due termini, e a dibattersi poi tra tesi e antitesi di quella che fu una vera e propria antinomia dell'età di mezzo : credo ut intelligam, intelligo ut credam. Necessità derivata dal concetto intellettualistico del reale, che, quale presupposto dello spirito, non può essere spirito. Talché lo spirito non si poteva conce­ pire come quella libera attività che esso è nell'attualità sua, in quanto, p. es., concepisce il reale che è il suo oggetto ; ma soltanto come uno ·degli oggetti. Ora la fede, atto di libertà d'uno spirito cosi intenso, non si può intendere come niente di mediato, per la semplice ragione, che, quale presupposto esso stesso dello spirito (attuale), fatto cioè che sia termine di constatazione empirica, e, come tale, immediata­ mente posto rispetto allo spirito che lo pensa, tale atto è perché è : un che di contingente, che può non essere : non legato con quei vincoli che debbono stringere la verità. È l'immediatezza ·dell'atto del soggetto che oppone nella filosofia intellettualistica la fede alla certezza. Ma se anche il contenuto della certezza, cosi opposta alla fede, ci si manifesta, quale si è manifestato nell'antecedente analisi, un che d'immediato, noi sappiamo che non è certa né la verità che era contenuto della vecchia fede, né quella che le voleva sostituire la vecchia certezza, bensi la verità di una fede che sia essa stessa · cer­ tezza : che cioè come atto di libertà sia mediato, e come tale, neces­ sario e universale. E poiché l'impossibilità di vedere nel soggetto la mediazione nasceva dalla posizione intellettualistica in cui lo spirito si collocava per guardare tutto, e quindi anche se stesso, tale impos­ sibilità cade, ove si abbandoni cotesta posizione, e lo spirito non venga piti considerato oggetto, fatto, contenuto di esperienza, anzi soggetto di tutti gli oggetti, atto che genera tutti i fatti : l'esperienza stessa, che pone via via tutti i suoi contenuti. La verità come valore Per raggiungere il pieno concetto di questa certezza, che è il solo per cui si possa concepire quella verità del pensiero a cui mira la logica, bisogna ritornare al primo principio dell'idealismo carte­ siano, che non presuppone l'essere al pensare, ma lo fa consistere ap-

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punto nel pensare ; e intendere questo pensare come unità dei due termini da Cartesio separati: intelletto e volontà. La quale, in Carte­ sio, per presupporre l'intelletto, che presuppone l'essere, riesce an­ ch'essa una sorta d'intelletto, e in ultima analisi presuppone, anche lei, l'essere. Qui si scopre subito quell'aspetto della verità che s'è andato finora �ercando - che fu l'esigenza implicita di tutto il pensiero antico - ma che ·doveva restare avvolto nella piu oscura nebbia finché non sorgesse in tutto il suo splendore il sole che può illuminarlo : il valore della verità. Che è l'aspetto a cui sempre si è guardato, ma che non si è potuto finora veder nettamente, ancorché non di rado, sopra tutto negli ultimi tempi, energicamente asserito ; poiché la posizione intel­ lettualistica non si è superata davvero mai in modo speculativo. Nella posizione intellettualistica non c'è verso di concepire altra realtà all'infuori di quella che è ( "t'èL OV"t'!X. wç EO'"t'LV). Si badi : il signi­ ficato di questo « è » che in grammatica è un presente, a chi ben rifletta, è quello di un essere già costituitosi (factum), la cui azione generatrice è un fatto compiuto. E tale rimane, anche se si muti in un « sarà ». È l'essere della natura (presupposto dello spirito), la quale si dispiega bensi nel tempo, ma in un tempo contenuto del pensiero, tutto presente già, anzi passato, in quanto viene pensato. Ché la natura è l'oggetto astratto dell'esperienza : ossia quello che è contenuto della nostra esperienza, ma in quanto noi lo stacchiamo da questa esperienza e lo assumiamo, o meglio, lo presumiamo come quel che già era perché empiricamente lo potessimo conoscere. E in tanto perciò si presenta nell'esperienza presente, in quanto, per sé, eome natura, c'è già. C'è già, anche quando sia per realizzarsi do­ mani, come il ritrovarsi del sole a un certo punto dell'orizzonte, o, fra millennii, come lo spegnersi di esso : giacché la previsione non consiste se non nella constatazione d'un processo, che è ,già attuato e non può pili mutare ( 11). Bene perciò fu detto che la natura è pensiero pietrificato. E tutto è natura, se non è spirito, ma suo ·limite e condizione. In natura, or­ mai è chiaro, si converte lo stesso spirito in quanto lo vediamo nella natura, attività di quell'uomo, che è uno degli esseri ehe sono oggetti della nostra esperienza. E questa natura non ha valore. Il naturali­ smo spinoziano { ...) è la forma piu logica della filosofia della realtà intesa . come presupposto dello spirito ( come sostanza, nel linguaggio dello ·stesso Spinoza) ( ... ). La libertas animi di Spinoza è l'apatica e morta comprensione intellettuale, che contiene la verità cosi come lo ,(1 1) Teorià generale dello spirito,

cap. XII (N.d.A .).

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specchio contiene l'immagine, o, per usare una frase di Tommaso· d'Aquino, come la luce è riflessa nella parete. ( ...) La necessità dello spirito sola necessità assoluta Ora ciò da cui il pensiero non può prescindere senza negare se stesso, è soltanto quell'essere che è la realtà in cui esso si realizza (la substantia cogitans di Cartesio, lo spirito come autoctisi). Questa realtà ci si presenterà in infinite forme, poiché infinite sono le forme in cui si realizza il pensiero : ma tutte queste forme infinite sono quello che sono in quanto essere del pensiero che pensa. Intendere la necessità di ciò che dev'essere, ossia di ciò che ha valore, è i�ten­ dere questo essere del pensiero. Tale essere, a sua volta, si può intendere in due modi ben diversi ; e chi non si renda esatto conto della differenza che corre fra questi due modi, non può penetrare nell'ultima essenza di quella necessità� a cui tutti ci sentiamo legati in ogni istante della nostra vita spirituale� mentre pur cosi difficile ci riesce a dire in che questa necessità con­ sista. Per designare distintamente questi due modi possiamo ancora una volta rifarci dal divario tra il punto di vista astratto o intellettmi­ listico e il punto di vista concreto proprio dello spiritualismo asso­ luto ; giacché l'essere del pensiero noi lo possiamo intendere come og­ getto di contemplazione o cognizione intuitiva : oggetto intuibile soltanto in virtu di una attività intuitiva che gli si opponga, e che sarà pure pensiero ; e lo possiamo, e dobbiamo, intendere pure come quest'attività, che si rappresenta, sia pure intuitivamente, la realtà del pensiero. Se noi, p. es., parliamo di idea, questa idea può essere ideato o ideare : termine del pensiero o pensiero, pensiero pensato o pensiero pensante. « Può essere », ben si, qui significa soltanto « si può credere che sia ». E si può credere infatti che sia or l'una or l'altra cosa ; perché oltre a pensare, noi analizziamo il pensiero, e astragghiamo un ele­ mento, cosi analiticamente fissato, dagli altri elementi. Ma, in realtà, non c'è pensiero se non in quanto pensante, il quale non è oggetto di contemplazione, anzi, se mai, attività contemplante, e, come tale, vera e propria azione, produzione, creazione di essere. ( ... ) Il valore come unità del soggetto e del logo Con la dottrina della volontarietà del vero e con quella della certezza la filosofia si è accostata al concetto del valore della verità, del dover essere del pensiero. Concetto che però non si ottiene se non · quando si sia superato ogni dualismo d'intelletto e di volontà, ossia ogni dualismo di pensiero ed essere, idea e realtà, e la certezza

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non apparisca piu immediata presenza di fatto del soggetto nel suo oggetto, né come integrazione d'una verità preesistente, ma come ·quell'unità del pensiero con l'essere che consiste nell'autoctisi pro­ pria del pensiero in atto, che, pensando, pone il suo essere. Il valore è il OECT!J.6ç- platonico : non il logo obbiettivo, né il suh­ biettivo che astrattamente si ponga di fronte al soggetto di cui è logo (pensiero pensato) : ma l'unità del soggètto e del suo logo. Il qual logo, inteso in maniera trascendente, apparisce come il Àéyoç çuvòç di Eraclito, come l'idea di Platone, come l'intelletto attivo aristoteli­ co : e quante altre forme ha avuto la verità concepita pur sempre quale essere intelligibile, ma presupposto del pensiero in atto. Ve­ dremo ora come e perché OECTIJ.6ç che è sintesi d'opposti o pro­ cesso, si polarizzi verso ciascuno dei due termini, e generi nella sua dialettica la libertà del soggetto e la necessità dell'oggetto del puro conoscere. ·

(Sistema di logica come teoria del conoscere, Firenze, Sansoni , 19644, vol. l, pp. 79-92).

6.

CONCRETEZZA DEL LOGO ASTRATTO

Immanenza del logo astratto nel concreto La cÒncretezza del logo astratto consiste, come s'è veduto ( ...), nella inerenza di esso nel logo concreto, cioè nel pensiero in atto. Ma questa inerenza non è da rappresentare, con meccanica imma­ ginazione, morta e passiva appartenenza ·del contenuto al suo conte­ nente, o della parte al tutto ; ben si è da pensare speculativamente co­ me intrinseca generazione del risultato in cui termina un processo dinamico vivo. Il logo astratto è l'oggetto in cui si rappresenta a sé il logo con­ creto : attuale perciò nell'attualità stessa del logo concreto. Fisso in sé, chiuso come processo esaurito, in questo suo essere in cui il pensiero pensante lo contempla, esso non è originariamente e per se medesimo ; ma entra in essere e si mantiene per virtu dell'atto pensante, come manifestazione di questa virtu, realizzazione di questo atto. Il quale perciò lo ha in sé, e può dirsi che lo contenga. Non lo contiene in una sorta di spazialità metaforica, o ideale che si voglia dire, ma nel suo processo vivente ; cosi come un organo determinato e particolare d'un organismo naturale si nutre e vive della vita complessiva del tutto, la cui interruzione è morte pure ·di quell'organo.

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Significato di tale immanenza L'oggetto pertanto del pensiero è vivo della vita del pensiero. E però è esso stesso pensiero : è relazione come riflessione. Perciò la sua legge fondamentale è quel principio d'identità che s'è detto (A = A) come anche principio di non contraddizione e del terzo escluso. ( ...) La pensabilità del logo è condizionata dal sollevarsi dell'essere naturale, inconoscibile e ineffabile, a questa identità con se stesso che importa un dualizzarsi dell'essere in se medesimo, per ripiegarsi sopra di sé ; che non è relazione, veduta da uno spettatore esterno, fra due termini in sé reciprocamente indifferenti, e quindi irrelativi� bensi piuttosto intrinseco autoriferimento dell'essere a se stesso. Ma se l'oggetto stesso del pensiero è possibile soltanto come que­ sta riflessione di sé sopra di sé che è pensiero, è esso possibile tuttavia come oggetto opposto al pensiero che lo pensa ? Può cioè il logo astrat­ to, nella sua essenza di essere pensabile, che è l'essenza del pensiero, mantenersi nella opposizione al logo concreto ? O la stessa opposi­ zione è intelligibile come risultato della identità tra l'astratto e il concreto, l'oggetto e il soggetto ? Soggettivismo del pensiero La risposta alla precedente domanda è nella storia della filosofia. La quale ha dimostrato che l'opposizione come tale è assurda. E, si badi, non giova distinguere tra pensare e conoscere, pen­ sare il possibile e pensare il reale. Una tale distinzione è estranea, come s'è veduto a proposito del principio di ragion sufficiente ( ... ), alla logica. Il pensabile, se è veramente pensato come pensabile, è reale. Né invero c'è altra via per accorgersi dell'irrealtà dei nostri pensieri, che quella per la quale pensiamo, e pensando ci avvediamo e accertiamo che quei tali pensieri non sono effettivamente pensa­ bili, poiché contraddicono ad altri nostri pensieri. Orbene, l'oggetto del pensiero, o ·della conoscenza che si dica, ha cominciato nella sto­ ria della filosofia a provare la propria pensabilità, �ome pensabilità di ciò che è reale, quando con Cartesio si vide che esso non poteva intendersi altrimenti che identico al soggetto che lo pensa. Li è la radice d'ogni certezza : cogito, ergo sum; Deus cogitatur, ergo est. E insomma esse = cogitatio. Appena infatti si postuli l'essere fuori del pensiero, esso diventa naturale, quindi irriflesso, immediato, e cessa di essere pensabile ; cioè, rende assurdo il postulato stesso ; e il pen­ siero piomba nello scetticismo. Diventa essere naturale e immediato, ancorché in se medesimo supposto mediato. Cosi abbiamo visto che il principio d'identità non ha valore logico se non si sviluppa nel

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principio di non contraddizion-e e infine in quello del terzo escluso, che soddisfano appunto cotesto bisogno del pensare logico, di vin­ cere l'immediatezza dello stesso mediato la cui mediazione sia con­ ·chiusa. Né la cogitatio cartesiana può prendersi come pensiero obbiet­ tivo, o divino, trascendente il pensiero attuale. Giacché appena dal soggettivismo iniziale (cogito, ergo sum) la filosofia moderna passa all'astratto razionalismo metafisico, ritorna all'intuizione platonica, cade sotto la critica dell'empirismo, che riafferma il diritto del sog­ getto ; e non ha piO. modo di vincere la scepsi. La via della soluzione ·del problema è additata dall'idealismo trascendentale, che risolve o 1ende a risolvere ogni pensiero che abbia valore pel soggetto, nella stessa attività del soggetto. Niente si pensa se non come ·determina­ zione dell'lo penso. Che è la grande scoperta di Kant. ldealismo

trascendentale

· Un nuovo orizzonte si apri per quella scoperta innanzi al pen­ siero umano : e · il filosofo di Koenigsberg, pur non avendo chiara coscienza delle conseguenze che la sua rivoluzione speculativa do­ veva portare in tutte le idee degli uomini, ebbe tuttavia un sentore di questa rivoluzione quando paragonò la sua dottrina a quella con c · ui Copernico aveva capovolto il sistema del mondo solare. Il mondo infatti, quale noi lo vediamo e conosciamo nell'esperienza, il mondo reale a cui si lega la nostra vita e l'animo nostro, questo saldo mondo in cui siamo nati noi e con noi convivono le persone a noi care, in cui abbiamo continuamente una missione da compiere, una fatica da sostenere, un nemico da vincere, una gioia da conquistare, questo stesso mondo si svelò come piantato in « noi » che lo pensiamo. Non nella nostra piccola persona empirica, e tanto meno nel nostro mise­ rabile cervello ; l'una e l'altro non raffigurabili fuori di questo stesso mondo che è il prodotto dell'attività costruttiva della nostra espe­ rienza, laddove il « noi » , anzi che il prodotto, è il germe o principio .di ·cotesta attività. ( ... ) Formalismo assoluto Kant non vide chiaramente tutto il significato della sua scoperta. Il suo lo trascendentale, energia originaria produttiva dell'esperienza, e in questa del mondo fenomenico, il solo lo di cui si possa critica­ mente, cioè ragionevolmente parlare, non è lo assolutamente trascen­ dentale. In generale, la forma, in cui Kant fa consistere l'elemento trascendentale o puro (in opposizio-ne all'empirico), non è forma assoluta. E di qui tutti i difetti del criticismo e dei sistemi idealistici

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che in seguito si sforzarono di pensare con tutto rigore il concetto della realtà trascendentale. La forma dell'esperienza suppone per Kant una materia da for­ mare : dati forniti all'attività elaboratrice elementare dallo spirito in quanto recettività, e che nello spirito non sembrano intelligibili se non in conseguenza di un principio · esterno, ·di qualche cosa che eserciti non si sa quale azione sullo spirito stesso. È vero che questa azione non è pensabile altrimenti che come causalità ; e la causalità non è per Kant rapporto realisticamente pensabile nella realtà, come in questo caso, tra la realtà estrasoggettiva esterna e lo spirito come recettività sensitiva. Ma, ad ogni modo, per lui come per tanti ancora oggi, incapaci di trarre alle sue conseguenze necessarie il principio dell'idealismo trascendentale, se c'è qualche cosa d'immediato nello spirito, una modificazione o un modo di essere, di c�i n_on si trova dentro di esso il principio, questo principio bisogna cercare in un essere, che si penserà quantunque inconoscihile, il famoso nemmeno : base ferma all'oggettività della conoscenza : la quale è prodotto sog­ gettivo rispetto alla forma, ma non rispetto alla materia. In quali difficoltà si venga ati avvolgere un fenomenismo a metà come q�esto, che mentre circoscrive tutto il reale, che è tutto il pensabile, alla sfera di ciò che apparisce al soggetto, s'argomenta di poter saltare fuori di questa sfera, per mettere una volta il piede sul terreno solido, non è qui il caso di dire. È · ovvio che il preteso non­ meno, reale di una realtà indipendente dall'attività del soggetto, non sarebbe pensabile senza quest'attività : la quale ha bisogno di negare dal contenuto positivo dell'esperienza tutte le determinazioni cono­ sciute o conoscibili per raggiungerlo ; e lo raggiunge perciò in forza di quella negatività che è sua funzione affatto soggettiva. Ma quel che ci preme qui avvertire è l'origine di questa esigenza,. a cui Kant con tutti i realisti obbedisce quando al fenomeno sotto­ pone il noumeno : che è per lui come dire, alla forma la materia. Ciò che egli intende a spiegare per mezzo del suo presupposto è la immediatezza della sensazione, in cui l'animo sarebbe ancora al di qua dell'esercizio della sua energia produttiva : semplice passività, che si suppone quindi modificata dall'esterno. Tale immediatezza si assume pertanto come contenuto attuale della sintesi di materia e .forma in cui l'atto dell'esperienza consiste (in quanto intuizione em­ pirica) ; perché come tale la stessa sensazione, immediata, come sen­ sazione, sarebbe invece, come contenuto dell'intuizione, mediata dall'attività intuitiva : sarebbe oggetto prodotto dall'interno atto spi­ rituale. La sensazione è assolutamente immediata, dato, fatto natu­ rale, non producibile dall'energia dello spirito solo in quanto, astratta che sia, essa si considera separatamente dalla forma da cui s'è trovata

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investita : come quel contenuto · cieco, al dire di Kant, che precede la sintesi destinata ad illuminarla ; e che fa riscontro alla forma vuota, anch'essa anteriore alla sintesi ·destinata a riempirla. Ora questa posizione naturalisticamente immediata della mate­ ria dell'intuizione e, in generale, dell'esperienza è una contraddizione al principio fondamentale dell'idealismo trascendentale, che è ]a sintesi a priori. La quale può essere davvero a priori solo in quanto non presuppone i suoi elementi, ma li genera da un'unità originaria, ·che nel suo processo genera l'immediato attraverso la mediazione. Noi nell'esperienza ci troviamo hensi alla presenza dell'immediato, ·del fatto, del ·dato : ma ci troviamo alla sua presenza soltanto in virtu dell'esperienza. Per guisa che, soppressa l'esperienza, vien pure sop­ presso il dato. E lo stesso dato è dunque un prodotto, e dato allo spirito dallo spirito stesso. Almeno, il dato nella sua concreta attua­ lità : quel dato cioè di cui il dato intravisto come anteriore alla sintesi è una proiezione postuma dell'intelletto, che sottoponga ad analisi la sintesi a priori dell'esperienza, e ne discerna di qua e ·di là gli ele­ menti costitutivi. Il soggetto che intuisce ( spazializza, temporalizza) il dato sensi­ bile, non sta di contro al soggetto che subisce la sensazione. Sentire veramente è intuire una sensazione : quel proprio modo di essere che è sensazione solo in conseguenza dell'intuizione, per cui il soggetto, riflettendosi in se stesso, si pone effettivamente come · soggetto. Poiché essere, diventare soggetto questo è : non essere soltanto, ma intuirsi nel proprio essere. Non essere, ma riflettersi : ed essere nella riflessione su se stesso, da cui nasce appunto il Sé, l' Io. In conclusione, il principio stesso dell'idealismo trascendentale, per cui l'esperienza come fatto si risolve nell'atto che' genera questo fatto dell'esperienza, e la cognizione non è piu un rispecchiarsi della realtà nello spirito, ma una produzione -dell'attività originaria dello stesso spirito presupposta da ogni realtà che si conosca o s'immagini, cotesto principio, distinguendo nella conoscenza una forma e una materia, e la forma facendo consistere nell'attività per cui la materia è tale, conduceva necessariamente a dedurre la materia dalla forma ; e però a smaterializzare del tutto l'oggetto del conoscere. L'aut-aut della materia e della forma Prima infatti della scoperta del principio trascendentale s'era pure parlato di forma e di materia -del conoscere. E basti ricordare, non dico Democ �ito e Protagora e gli Accademici e quanti altri fe­ ·cero notare la parte del soggetto nella formazione della verità cono­ sciuta, ma la dottrina scolastica, in cui si fissò nella sua forma classica

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la teoria realistica della cognizione ; la quale dottrina doveva pure ammettere, che quidquid recipitur ad modum recipientis recipitur. Ma in realtà sempre, prima di Kant, la concezione del conoscere era stata rigidamente materialistica : aveva ridotto tutto il conoscere alla sua materia, di cui la forma era stata un modo, un accidente, un par­ ticolare. Quando si confronta Protagora a Kant, si dà a divedere di non aver ancora avuto il minimo sentore del significato della forma trascendentale di Kant. E per accorgersi dell'abisso che separa il sog­ gettivismo kantiano dall'antropometrismo (che, certo, è pure sog­ gettivismo) dell'Ahderita, basta osservare che l'uomo misura di co­ stui è esso stesso un oggetto, parte di quella natura atomisticamente concepita il cui movimento genererebbe la cognizione : laddove il sog­ getto kantiano si oppone ad ogni oggetto, naturale o no, come il pri�­ cipio pro-duttivo di tutti gli oggetti del pensiero. Cosi il modus reci­ pientis degli scolastici è la soggettività del soggetto empirico, oggetto esso stesso della cognizione, materia di osservazione e di esperienza. E in fine ogni conoscenza vera non si commisura al modus recipientis� variabile e particolare, ma a quell'universale, che non è post rem, se non è prima in re, anzi, ancora prima, ante rem. E la cognizione ha valore in quanto non è prodotto del soggetto, anzi esclud� da sé ogni oggettività, e nel soggetto si trova per accessione che avvenga per propria virtu, dell'oggetto stesso, immediatamente. Quindi vera e propria forma, nel senso kantiano, nella cogni­ zione non c'è. Aprioristi ed empiristi convengono nel negare che il soggetto possa cavare dal proprio seno un grano di verità mediante il suo stesso lavoro. Ecco Platone, che inventa le idee innate e l'anam­ nèsi per garentire le i-dee da ogni ombra di soggettività ; e l'innatismo è negazione dell'autonomia del soggetto nel possesso del vero, e però posizione immediata di questo vero, come immagine che si riflette nello specchio. Ecco Aristotele, che nega l'innatismo e deduce dal processo dell'esperienza la conoscenza dell'universale : ma attra­ verso le specie sensibili e le intelligibili riduce anch'esso la parte del soggetto a un s�mplice rispecchiamento della materia della cogni­ zione preesistente alla cognizione. In verità, ammessa una materia, come . tale, antecedente alla cognizione, questa non può concepirsi quale cognizione vera se non in quanto si spogli di ogni forma sua per adeguarsi precisamente e immedesimarsi con quella preesistente materia. · Viceversa, quando con l 'idealismo trascendentale sorge il vero con­ cetto della forma, la materia è destinata a dissolversi nella forma. La quale è forma in quanto è, non coefficiente o completamento mec­ canico della materia, bensi principio attivo e produttivo della espe­ rie�za, in cui la cognizione ritrova la propria materia. La quale c'è

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hensi di fronte alla forma, ma come contenuto dell'esperienza ; e questa non c'è se non come effetto della forma. Che se, oltre alla materia inerente all'esperienza, se ne ammetta una antecedente, che· còndizioni l'attività della forma, allora questa forma, collocata per tal modo accanto alla materia in un mondo in cui dovrà poi intervenire e spiegarsi l'attività della forma produttiva d�ll'e:ffettiva esperienza, a cui l'altra materia sarà inerente, non potrà piu valere essa come la forma trascendentale nel suo proprio valore. Allora il pensiero tor­ nerà a pensare la realtà in due piani. In uno dei quali sarà il mondo solo - semplice materia di conoscenza, senza forma ; e in questo mondo il futuro oggetto e il futuro soggetto, accomunati nella comune natura di oggetti del pensiero. Nell'altro ci sarà poi la cognizione come rapporto fra i due termini, soggetto e oggetto. E cosi si ritorna a Pro­ tagora, e all'antico materialismo. Sicché tra la cognizione tutta materia e la cognizione tutta forma tertium non datur. Immaterialità del mondo Qui è la critica profonda d'ogni materialismo : critica che direi non teoretica, ma pratica. Poiché pensare il mondo come materiale,. nella sua opposizione estrema allo spirito che lo pensa, ma pensarlo davvero, energicamente, rigorosamente e consapevolmente, è già .ve­ derselo svanire innanzi come mondo materiale per risolversi . senza residuo non in un mondo pensato, bensi nello stesso atto o processo di pensare. Qui non occorrono dimostrazioni argomentative, di quelle che in verità non hanno mai avuto forza di ('.onvincere se non i già convinti. Qui si tratta di realizzare col pensiero quella realtà tutta spirituale, da cui il materialista può bensi torcere lo sguardo, ma in quanto non pensa, contento a quella philosophia prigrorum, che è la incoscienza del proprio pensiero. L'esperienza immanente della nostra vita quotidiana ci attesta. pure a gran voce la verità dell'assoluto formalismo. Per cui non è da dire che il mondo da noi conosciuto e per noi reale presupponga l'atto del pensare come condizione ·del proprio essere ; ma addirittura che tutto il suo essere reale sia in quell'atto del pensare. Ogni lettore· di poesia sa bene che, quando abbia la fortuna d'incontrarvisi, la poesia egli non la trova materialmente nel libro : non dico già stampata nel libro, ma né anche li obbiettivamente esistente in tutti i gradi della sua idealità per modo che possa bastare aprirvi sopra a un tratto gli occhi e l'animo per accoglierla dentro. Sa che soltanto vincendo· l'opposizione dell'oggetto a se stesso, e pervenendo a tale situazione di

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sprr1to che la poesia stessa del libro ne sprizzi e sgorghi spontanea come da natura! fonte, allora si che gli è possibile vedere e sentire e gustare la poesia : immedesimando in guisa il mondo poetico con quello che si sviluppa dal lavorio interno all'animo commosso, che egli dimentichi non pure il libro che ha innanzi, e il luogo dove col libro si trova, e il tempo con cui egli stesso cronologicamente fa si­ stema con l'autore della poesia, e ogni realtà estranea a questa vita fantastica che gli pulsa interiormente in un aere senza tempo. Il poeta, è stato detto, si dimentica nel suo mondo. Ma deve pure dimen­ ticarvisi chi voglia partecipare alla gioia del poeta con la contempla­ zione di quel mondo luminoso, che non preesisteva già oggettivamente all'attività creatrice dell'artista, né veramente preesiste a quella di chi legge la sua poesia. Ora questo dimenticarsi non è propdamente risoluzione del soggetto nell'oggetto, anzi, al contrario, completo assorbimento della materiale realtà dell'universo nell'attività del soggetto. Ma, se non c'è poesia che porga una materia alla nostra attività fantastica, c'è forse forma di esperienza o di pensiero che ci ponga innanzi immediatamente una natura, un cielo, un mare, una monta­ gna, una società, un uomo, un'epoca storica o un avvenimento nella sua essenza? C'è nulla che da noi si possa comunque conoscere, e ma­ gari soltanto percepire, avvertire, scorgere, senza un nostro processo spirituale, di cui l'oggetto in quanto tale possa essere il prodotto, e il cui prodursi pertanto non coincida, nei vari momenti del suo svolgi­ mento, col progressivo sviluppo del nostro spirito ? È forse la stessa montagna quella che conosce il valligiano che sedendo innanzi al suo casolare ne guarda tranquillamente la vetta fulgente ai raggi del sole e quella che ha imparato a conoscere dalla valle alla vetta l'alpinista, nelle sue ardimentose ascensioni? È la stessa storia quella che ha im­ parucchiato dai cenni sconnessi di un manualetto scolastico un distrat­ to fanciullo e quella che dentro gli stessi confini di spazio e di tempo ha con sapiente e industre fatica costruito lo storico? Risorge bensi in tutte le menti la realtà storica con determinazioni cronologiche e geografiche, per cui l'uomo che se la rappresenta colloca se stesso fuori ·degli avvenimenti a maggiore o minor distanza nel tempo e nello spazio. Ma tutta questa prospettiva complessa, in cui fatti e personaggi storici coesistono insieme con lui, non solo è tutta quanta dentro il suo pensiero, ma vi si costruisce e sviluppa, punto per punto, mercé l'energia viva di questo stesso pensiero. Sicché, a ben consi·derare, non è (lo avverti Spinoza) pictura in tabula, ma ipsum concipere : lo stesso pensiero in atto. . La vita dello spirito, in questo senso, è sempre una distrazione,

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un rapimento, un'estasi. Poiché sempre è distratto e2) chi fortemente è intento al proprio lavoro, all'oggetto del proprio pensiero, non po­ tendolo aver presente nella ricchezza e determinatezza de' suoi par­ ticolari senza costruirlo di continuo con l'atto del suo proprio pen­ siero. E l'oggetto di questo, concentrando, raccogliendo in sé e impegnando tutte le forze del soggetto, lo rapisce e distoglie da ogni altro studio ed esperienza, generando una specie d'estasi, in cui ii soggetto pare sia uscito fuori di sé e non abbia piu di sé coscienza,. perché non ha occhi per ciò che all'osservazione altrui apparisce· atto a suscitare il suo interesse e· attrarre e scuotere la sua personalità. Egli è tutto nel suo oggetto in quanto il suo oggetto· è tutto lui. Infi­ nito l'oggetto, è però non superabile, né completabile, poiché infinito sempre il pensiero nell'àmbito della coscienza che esso realizza. Il mondo materiale, dunque, esiste, si, ma in quanto pensandosi viene smaterializzato, e risoluto tutto nella vita dello spirito. (Sistema di logica come teoria del conoscere, cit., vol. Il, pp. 36-55).

7. Lo STATO E LA FILOSOFIA Delucidazioni preliminari Il valore pratico della questione dei rapporti tra lo Stato e la Filosofia è, credo, evidente : cosi frequenti sono · le occasioni in cui chi rappresenta lo Stato assume, o deve assumere, determinati atteg­ giamenti verso i rappresentanti della filosofia, e d'altra parte cosf difficile è concepire una filosofia che non giudichi lo Stato e quindi esplicitamente o implicitamente chi lo rappresenti nel luogo e nel tempo in cui il filosofo esprime il suo giudizio. Ma credo sia anche evidente, quantunque troppo spesso la cosa sia poco osservata e punto tenuta nel debito conto, che la questione non può avere una soluzione degna di esser considerata per tale se per definire la natura dei rapporti tra lo Stato e la filosofia non si comincia ad intendersi intorno a ciascuno dei due termini tra cui detti rapporti intercorrono. Accade spesso che se ne parli e si corra con la disinvoltura pili am­ mirabile alle osservazioni piu recise, senza esserci dato nessuna cura di riflettere sul significato delle parole che si adoperano, senz'es-· sere in grado di dare una qualsiasi risposta a chi domandasse che cos'è la filosofia e che cosa lo Stato. Ma pon bisogna troppo meravigliarsi che ciò avvenga. Come sarà· chiaro, spero, dal séguito di questo discorso, per sapere che cos'è (12) Distratto da quanto in astratto potrà dirsi che esista e sia magari universalmente im· portante, ma non rientra nel campo degli attuali interessi del soggetto (N.d.A.) .

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Stato bisogna sapere che cosa è filosofia, perché bisogna filosofare, e in una concezione filosofica, ossia totale, sistemare il concetto dello Stato insieme con gli altri che la filosofia deve rendere coerentemente concepibili. In ogni caso, dunque, il requisito essenziale per l'intelli­ genza della questione dei rapporti tra Stato e filosofia è la filosofia. Ora la filosofia non è una scienza come tutte le altre. Delle quali si può vivere tutta la vita ignorando perfino i principi ; anzi è condi­ zione essenziale la specializzazione, con relativa divisione di lavoro, -che consenta ad uno di coltivare alcune scienze, e magari una sola, non occupandosi menomamente delle altre. Poeta nascitur, orator fit ; cosi almeno si credeva dagli antichi. La verità è che si può diventare o no matematici, fisici, chimici, giu­ risti, filologi, ecc. ; ma non si diventa allo stesso modo né poeti, né :filosofi ; non perché la poesia e la filosofia siano il privilegio degli eletti e non si svolgano anch'esse con l'arte, ossia con lo studio, col p�nsiero e con la volontà, ma perché ogni uomo, molto o poco, è poeta e filosofo. E quando si distingue i filosofi dai non filosofi, in realtà quel che si attribuisce ai primi e si nega ai secondi è una determina­ · ta filosofia, prodotto di una metodica meditazione dei problemi che il pensiero ha storicamente meditati : la d dove la tradizione storica non è che il passaggio graduale dalla non filosofia degli uni (ossia dalla loro filosofia) alla filosofia degli altri : passaggio che è progressiva trasformazione di una costante attività dello spirito. E quando l'uo­ mo pratico o il poeta o il puro scienziato si pone ·di contro al filosofo e lo distingue da sé e già con questa distinzione lo sottopone a giudi­ zio, è già in via di filosofare. Poiché, .com'è stato tante volte osservato, negare la filosofia è fare filosofia, anche senza saperlo. E in conclu­ sione, filosofi si è tutti, ciascuno a suo modo e nella misura delle sue forze : e ci è una filosofia in germe, rudimentale, come c'è una filosofia spiegata e composta in sistema ; c'è una filosofia intuitiva ed oscura, come c'è una filosofia ragionata, dimostrata e logicizzante, tutta chiarezza. Onde accade che, comunque, a discorrere delle rela­ zioni della filosofia con lo Stato, si fa sempre della filosofia, anche da quelli che ne sanno cosi poco da potersi -dire ignoranti d'ogni filo­ :sofia. Soltanto, con una filosofia cattiva, oscura, rudimentale, s'intende, non si può pretendere di risolvere la questione se non in una maniera oscura e rudimentale, e insomma in una cattiva maniera. Pensiero e libertiz L'uomo è si animale politico, ma è prima di tutto un animale :filosofo. La sua essenza fondamentale è questa. È filosofo perché pensa. Giacché pensare significa non .essere piu animale, né null'al-

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tro che sia naturalmente ; non appartenere pio alla natura, ossia al­ l'insieme delle cose in cui l'uomo al suo nascere viene a trovarsi, e dinanzi a cui si ritrova ogni giorno, all'inizio d'ogni forma della sua attività ; distinguersi, e opporre quindi se stesso, come coscienza di sé, alla realtà data, o naturale. Pensare è realizzarsi ed esistere come coscienza ·di sé che si oppone alla coscienza d'altro. C'è l'uomo e c'è . il mondo. La vita umana non è mai altro che la risoluzione di questa dualità tra noi e il mondo, in guisa che la nostra vita sia la stessa vita del mondo e il mondo sia tutt'uno, nel suo sviluppo, con la nostra esi­ stenza. Quando questa conciliazione e unità non si stabilisca, o si spezzi, la vita vien meno ; e per tanto la vita si realizza, per quantò si riesce a realizzare l'unità. Unità, senza la quale, l'uomo è limitato, e non è libero. E non essendo libero, non solo non può agire, ma non può neppure pensare. Per conquistare la sua libertà, e vivere, e perciò pensare, l'uomo lavora con un lavoro che è realizzazione d'intelligenza : lavora sem­ pre per vincere la dualità e l'opposizione tra sé e il mondo. E, co­ munque, sempre pensa. Giacché col pensiero il mondo diventa sempre pio il mondo nostro, e noi (che siamo coscienza di noi, autocoscienza) diventiamo sempre pio coscienza del mondo. Lo conosciamo sempre pio, e sempre piu ce ne impadroniamo, piegandolo ai nostri bisogni, e attuando sempre piu la nostra libertà. Il pensiero a grado a grado s'affranca da ogni limite ; e però diventa pensiero universale, infinito, libero. E poiché nel pensiero si attua l'autocoscienza, si afferma cioè e prova e si fa valere la nostra personalità, pensando il pensiero che si fa libero è volontà : ossia l'attività onde ' l'Io signoreggia la realtà impos­ e si fa creatore d'un mondo - che è il m�ndo dello spirito sibile a concepirsi fuori dell'iniziativa dello spirito. ·-

La filosofia La filosofia non è altro che questo pensiero potente onde l'uomo realizza la sua personalità, e si fa il suo mondo, vivendo la sua vita. Che non è vita naturale e semplicemente istintiva, ma vita sempre governata dal pensiero. Il quale si manifesta, e cioè si determina ed esprime, con parole, con linee, con note, con · forme plastiche, con azioni comunque modificatrici · e trasfiguratrici del cosi detto mondo materiale : zappare la terra, scavare le miniere, estrarre pietre e mar­ mi, edificare città, aggregare uomini ; insomma recare via via in atto quel mondo umano in cui l'intelligenza splende e signoreggia.

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L'universalità della filosofia Il problema della filo�ofia si può presentare in mille e mille forme svariate, le quali tutte convengono nel porre l'uomo dinanzi a un ·dualismo da risolvere, tra sé e il mondo, tra il pensiero e l'essere. Per­ ciò i pio alti problemi filosofici hanno un senso, come le piu potenti creazioni dell'arte, anche per gli spiriti piu umili e piu ingenui ( ...) ; e soltanto una mezza filosofia, cioè una falsa filosofia può apparire aliena dagli interessi universaH ed elementari del cuore umano. E perciò l'uomo è portato a non contentarsi delle piu ovvie ed agevoli riflessioni che quasi naturalmente gli vengono suggerite dalla stessa esperienza della vita, e tende ad approfondire i suoi concetti, ossia a pensare sempre piu efficacemente e conclusivamente. Infatti via via si avvede che quel che a primo tratto aveva compreso e pensato, non è stato da lui per anco chiaramente e coerentemente inteso, e cioè non è stato ancora veramente pensato ; e non si tratta quindi di pas­ sare dal pensiero alla filosofia, ma dal non pensare al pensare effetti­ vo, da una filosofia ina-deguata e repugnante alle esigenze del pen­ siero a una filosofia soddisfacente e, relativamente, la sola possibile. Unità ai teoria e di pratica Intesa cosi la filosofia come l'essenza stessa dell'essere pensante che è l'uomo, è chiaro che essa non è piu una astratta teorica che presuppone la vita umana, poiché essa piuttosto la crea. E rispetto al concetto del pensiero in cui si risolve il concetto della filosofia, è pur chiaro che non si può piu mantenere né ha piu senso l'ordinaria di­ stinzione ·di teoria e pratica, con cui per solito si distingue una classe da un'altra classe di atti del pensiero, che invece bisogna assimilare e mettere tutti sopra una linea sola ; alme� o quando non si voglia considerarli dall'esterno ma inten-derli nel loro significato intimo e nel loro valore spirituale. Universaliifz dell'uomo Ma l'uomo, quest'essere pensante, che è coscienza di sé, personalità teorica in quanto pratica, e pratica in quanto teorica, non è l'uomo singolo, particolare. O meglio è l'uomo particolare in quanto non è (o, che è lo stesso, non è abbastanza) quello che dev'essere e vuoi essere : in quanto non parla in modo da esprimere qualche cosa che possa fermare l'attenzione, in quanto non agisce in modo che la sua azione abbia un'importanza ; e insomma -in quanto non pens'a. Pensare è superare la particolarità e universalizzarsi : quindi parlare, agire, ragionare, in modo che il soggetto che parla, agisce, ragiona

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realizzi qualche cosa di universale : una legge viva : estetica, morale, logica. Perciò riesce, parlando, ad esprimere qualche cosa di umano, di cui tutti sentono la presenza in se stessi, e della cui espressione tutti perciò sono indotti naturalmente a partecipare e godere, come di cosa propria ( ..). E altrettanto si dica dell'agire e del ragionare. Poiché l'uomo via via che pensa, e vive la sua vita di pensiero, si affranca anche da questi limiti onde la sua persona pare dapprima separata dalle altre fisicamente e moralmente. E perciò l'uomo è veramente animale politico : il suo pensiero non è suo, ma suo in quanto sociale, uni­ versale : degli uomini, che tali sono per lui, e del mondo. Dall'in­ fanzia all'età piu adulta è un investire sempre piu questa realtà sociale e universale, e investirsene. La storia è questa esistenza dell'individuo nell'universalità del mondo : per cui il fanciullo nato e cresciuto in Italia, parlerà, usando una lingua che sarà la lingua italiana ; lingua sua in quanto lingua ·del suo popolo ; e penserà (teoricamente e praticamente) come italiano. Come uomo, ma come uomo italiano. L'esistenza attuale è esistenza storica determinata in una forma : che è linguaggio e costume, sono istituti e leggi, sono tradizioni e principi morali, memorie e speranze : per cui l'uomo è nazione, e la nazione, nella concreta personalità, è Stato. .

Concetto dello Stato Lo Stato è · la nazione consapevole della sua unità storica. È lo stesso uomo, in quanto si realizza universalmente, questa sua universalità determinando in una certa forma. Determinazione neces­ saria, com'è necessario che chi parla usi certe parole. La forma in cui si determina lo spirito d'un popolo è complessa� e non è questo il lu�go per fare l'analisi di tutti i suoi elementi. Ma nessuno degli elementi che s'appartengono alla vita d'un popolo, materiali o morali, è estraneo a codesta forma tutta spirituale che si suggella nell'auto­ coscienza della nazione che è Stato. Pensiero e azione ; consapevo­ lezza di quel che si è, volontà di quel che si dev'essere. L'uomo che nella sua singola personalità si senta estraneo a tale forma, è un'astrazione storica : può essere un delinquente che viola la legge della patria, può essere un immorale che non sente · nella sua co­ scienza pulsare la coscienza universale. Interiorità dello Stato

È evidente che questo Stato ha un'esistenza interiore ; e tutte le sue esterne manifestazioni (territorio, forza esecutiva del · potere, uomini rappresentativi dei · vari poteri dello Stato ecc.), traggono

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il loro valore dalla volontà che le riconosce e vuole come elementi necessari e costitutivi della forma storica e attuale dello Stato. E bisogna riferirsi a questa interiorità, e intenderla rigorosamente, per rendersi conto del carattere etico dello Stato, che cosi spesso dà luogo a . fraintendimenti ed equivoci strani. Giacché lo Stato nella sua essenziale interiorità non solo è volontà etica, ma è, in generale, autocoscienza, quindi umanità piena e perfetta. Non di rado invece si scambia lo Stato col Governo, anzi con le persone fisiche in cui il Governo s'incarna. E non si vede che queste persone e il Governo stesso non sono lo Stato, bensi solo elementi della forma in cui lo Stato si attua. Carattere dialettico dello Stato Ma la principale difficoltà che ostacola l'esatta intelligenza del carattere etico, ..- in genere, spirituale dello Stato, è la relazione statica e assolutamente meccanica in cui sono concepiti il cittadino e lo Stato : il particolare e l'universale. Onde si pensa che il parti­ colare è particolare e non è universale ; e viceversa. E ciascuno dei due termini si oppone all'altro, rigidamente, irriducibilmente. Laddove i due termini cosi concepiti sono due astrazioni, e il concreto è la loro unità dialettica, cioè il particolare che si fa universale. Si fa, non è immediatamente. Di guisa che l'universale è sempre e non è mai. E quel che il cittadino si può trovare ·di fronte come suo termine opposto, non è mai lo Stato, ma quello che non è ancora lo Stato : un particolare, a cui infatti ripugna, perché esso limita la sua personalità. Lo Stato vero invece non limita ma slarga � no:ò. deprime ma innalza la personalità del cittadino : non l'opprime ma la libera. Lo Stato non è mai lo Stato perfetto, e s'intende. Ma ogni sforzo che si fa per mutare la forma in cui lo Stato consiste, obbedisce alla logica che fa cercare ad ogni uomo la sua vita nell'universale e nella libertà. Questo sforzo non sarebbe d'altronde possibile se lo Stato non fosse, pur nella sua imperfezione, la stessa volontà del cittadino che, insoddisfatta, aspira a una forma pili adeguata. Vo­ lontà particolare che ha in sé la forza di diventare univerE>ale, vo­ lontà di tutti. Contraddizione immanente al concetto meccanico dello Stato Soltanto chi si ferma a cotesta concezione statica dello Stato e del cittadino, può concepire lo Stato come forza che non è libertà, ma limitazione della libertà ( concetto negativo dello Stato), e attri­ buirgli un'azione diretta al governo dei beni materiali, ossia deter-

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minatrice, mediante il diritto, della sola vita economica dell'uomo. Ma chi si serve di questo concetto meccanico ed economico dello Stato (che è il concetto cattolico tradizionale) è tratto poi - con una contrad·dizione che è una flagrante autocritica perentoria - a volere che lo Stato stesso si spiritualizzi e sottometta a idealità superiori, morali e religiose. Sottomissione assurda, se chi è solle­ citato a sottomettersi non fosse in grado di valutare queste idealità, e quindi non fosse già coscienza morale e religiosa. Sicché si toglie con una mano quel che si restituisce con l'altra. E in realtà il disco­ noscimento del carattere etico dello Stato non si fa se non contrap­ ponendo allo Stato che non è etico, lo Stato etico che si sente di realizzare colui che dello Stato ha disconosciuto l'eticità. La Chiesa, come Stato superiore che include in sé uno Stato terreno e materiale (si dice, puramente · umano), disconosce il val or� etico di questo Stato inferiore e subordinato - che, quando si va a vedere, non è il vero Stato, ma un semplice Stato astratto, la cui concretezza è invece nella Chiesa. In che se-,r,so lo Stato ha una dottrina Lo Stato come personalità non è amorale e non è agnostico. Nihil humani a se alienum putat, perché esso infatti non è se non il vero uomo. Non essere agnostico significa avere una dottrina, un determinato contenuto della coscienza. E questa dottrina come elemento essen­ ziale della personalità dello Stato è il fondamento del diritto di inse­ gnare e di educare che compete allo Stato. Il quale ha diritto a insegnare perché ha una dottrina, sa · il fine della nazione, sa il valore di questo fine ; e lo sa non in astratto� ma in . relazione al passato e all'attuale presente e alle forze vive e perenni della nazione, poiché res sua agitur. E sempre ha ·diritto a insegnare chi insegna : questa è la legge stessa dello spirito, la quale ha dato e darà sempre autorità ed efficacia educativa a chi sa su chi non sa, e a chi sa pio su chi sa meno. Perciò lo Stato apre scuole, e quindi prescrive programmi, e dà esami. È il diritto che deriva dalla sua essenza. Ma questa non vuoi dire che ci sia una verità di Stato, dommaticamente definita, che fiacchi ogni libertà di pensiero nelle scuole e nei cittadini. Ànzi, vuoi dire proprio il contrario. E per due ragioni. . In primo luogo, lo Stato (almeno, lo Stato legittimo) non è se non la stessa autocoscienza universale, con cui s'immedesima l'autoco­ scienza del cittadino : e la vita dello Stato consiste appunto nel processo continuo e progressivo di tale immedesimazione, che è il

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processo stesso per cui l'autocoscienza umana si fà universale attuan­ dosi storica.IJlente ; e quindi, se mai, cotesta verità dommatica e fissa non sarebbe una verità esterna al cittadino e !imitatrice della sua libertà, ma la verità stessa del cittadino. In secondo luogo, se non è agnostico, lo Stato ·deve possedere una verità autentica e schietta : una verità che sia verità. La cui dottrina non può essere qualcosa di fisso e stabilito una volta per sempre, nulla piu che tale carattere ripugnando all'essenza del pensiero, e di . ogni dottrina. ( ... ) , La filosofia come pensiero critico Il carattere critico che compete alla dottrina dello Stato è lo stesso carattere critico essenziale al pensiero; e cioè alla filosofia. La quale, a differenza delle altre forme del pensiero che per certi rispetti si possono distinguere dalla filosofia, ha coscienza di questa esigenza critica fondamentale del pensiero, e si propone di soddisfarla, e vive perciò di critica (ossia di pensiero che sa di doversi -di continuo rinnovare e svolgere, sopra tutti i suoi oggetti). In realtà la dottrina dello Stato è la stessa dottrina del cittadino, ma dottrina critica, cioè filosofia. Lo Stato, consapevole della sua essen� a, promuove la spe­ culazione filosofica, perché sa che cosi si potenzia il pensiero, che è la sua forza. Ma promuovere la filosofia è promuoverne il carattere critico, in cui è il lievito del progresso speculativo. Lo Stato e i filosofi Lo Stato, come ogni realtà concreta dello spirito, è divisione di lavoro e coordinazione dei vat:i elementi in cui esso si divi-de : orga­ nismo, la cui unità, cioè la vita, richiede specializzazione di organi e funzioni, che sono tutti organi e funzioni dell'unico organismo. Lo Stato ha la sua arte negli artisti della nazione di cui ee.so è la per� sonalità : e cosi ha i suoi sacerdoti, i suoi scienziati, i suoi agricoltori e naviga tori e medici e ingegneri, ecc. La cui molteplicità è · varietà di forme dello stesso pensiero, e quindi paragone e concorrenza, e trionfo delle migliori, per le quali trionfa sempre nel popolo, ossia nello Stato, il pensiero piu potente, o semplicemente, il pensiero. Ha i suoi filosofi, sulle cattedre, nelle accademie, dovunque lo spirito soffia. Attraverso le varie filosofie si svolge la filosofia : quella che sola può essere la filosofia, il pensiero, la potenza della nazione forte ·della sua civiltà e delle sue energie spirituali : la potenza dello Stato. (Introduzione alla filosofia, Firenze, Sansoni, 19582, pp. 157-169).

8. BENEDETTO CROCE

l. IL CONCETTO PURO E GLI PSEUDOCONCETTI Affermazione del concetto Presupposto dell'attività logica, che è oggetto della presentè trat­ tazione, sono le rappresentazioni o intuizioni. Se l'uomo non rap­ presentasse cosa alcuna, non penserebbe ; se non fosse spirito fan­ tastico, non sarebbe neppur lt>ico. Si vuole am.ritettere che il pensiero rimandi, come a proprio antecedente, alla sensazione : dottrina, che non abbiamo difficoltà di fare nostra, quando per altro vi s'accom­ pagni una duplice intesa. Cioè, in primo luogo, che la sensazione sia concepita come qualcosa di attivo e di conoscitivo, come atto conoscitivo, e non già come qualcosa d'informe e di passivo, o di attivo bensi, ma di attività vivente e non teorizzante. E, in secondo luogo, che sia presa nella sua purità, fuori di ogni rifles­ sione ed elaborazione logica : come semplice sensazione, e non come percezione, la quale ultima (e si vedrà a suo luogo), non che essere presupposta, presuppone l'attività logica o addirittura s'identifica con lei. Con questo duplice schiarimento, la sensazione attiva, conosci­ tiva e irriflessa diviene nient'altro che sinonimo di rappresentazione o intuizione ; e non è qui di certo il caso di disputare sull'uso· dei sinonimi, benché vi siano buone ragioni di opportunità pratica che consiglierebbero la preferenza dei termini da noi adoperati. Quel che importa, a ogni modo, è ritenere bene in mente che l'attività logica o pensiero sorge sullo spettacolo variopinto delle rappresenta­ zioni, intuizioni o sensazioni che si dicano, mercé le quali a ogni attimo lo spirito conoscitivo elabora in forma teoretica il corso del reale. ( .. .) Ciò che è presupposto dal pensiero logico non è presupposto in filosofia, la quale non conosce presupposti e deve pensare e dimo­ strare tutti i concetti che pone. Nondimeno, può essere opportuna­ mente lasciato come presupposto per la « parte » della Filosofia, che prendiamo ora didascalicamente a trattare, ossia la Logica ; e · darsi qui come ammessa la forma rappresentativa o intuitiva della cono-

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scenza. La scepsi, infatti, non potrebbe in questo caso formulare se non due sole istanze : o negare il conoscere in genere, o negare quella forma di conoscere, che è stata presupposta. La prima istanza sa­ rebbe quella dell'assoluto scetticismo ( . .) La seconda istanza importa la negazione dell'attività intuitiva in quanto originale e autonoma, e la risoluzione di essa nelle dottrine empiristiche, edonistiche, in­ tellettualistiche o altre che · siano. Ma a garantire l'attività intuitiva contro siffatte dottrine e a dimostrare l'autonomia della fantasia a stabilire un' Estetica, abbiamo rivolto le nostre forze nel precedente volume ( 1) ; onde il presupposto, che qui lasciamo sussistere, si giusti­ fica come nient'altro che un rinvio a cose già dimostrate altrove. Affrontando dunque senz'altro il problema della Logica, non lo scetticismo assoluto né quello circa la forma intuitiva sarà il primo ostacolo che dovremo rimuovere, ma uno scetticismo nuovo e meglio circoscritto, il quale non mette in questione le due prime tesi, anzi vi si appoggia sopra, col negare non già la conoscenza in genere o l'intuizione, ma direttamente la conoscenza logica. La conoscenza logica è qualcosa di là dalla semplice rappresentazione : questa è individualità e molteplicità, quella r u n i v e r s a l i t à della in­ dividualità, l' u n i t à della molteplicità :. l'una intuizione, l'altra c o n c e t t o : conoscere logicamente è conoscere l'universale o con­ cetto. La negazione della logicità importa l'affermazione che non vi ha altra conoscenza se non quella rappresentativa ( o sensibile, come anche si suole dire), e che la conoscenza universale o concettuale è un'illusione : di là dalla semplice rappresentazione non vi sarebbe nulla di conoscibile. Se cosi fosse, la trattazione alla quale ci siamo accinti non avrebbe materia alcuna e dovrebbe arrestarsi sul limitare, riuscendo chiaramente impossibile ricercare la natura di quel che non è, ossia, in questa ipotesi, del concetto, e come esso operi in relazione alle altre foeme dello Spirito. Ma che la cosa non stia cosi, e che il concetto abbia realtà ed operi e formi oggetto di problemi, si prova induhitabile nella negazione stessa, pronunciata dallo scetticismo che diremo l o g i c o , e che d'altronde, è la sola negazione con­ cepibile in questo punto. Cosicché potremo presto rassicurarci circa le sorti della nostra impresa, o, se piace meglio, dovremo smettere subito la speranza che ci si era fatta balenare innanzi, e sottomet­ terei alla fatica di costruire una Logica : fatica, che lo scetticismo logico, affermando vera la sola forma della rappresentazione, sem­ brava volerei risparmiare. .

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( l ) Si . veda il primo volume di questa Filosofia come scienza dello spirito : l'Estetica

come scienza dell'espressione (N.d.A.).

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Lo scetticismo logico o afferma senz'altro che la conoscenza rap­ presentativa è tutto, e che l'unità o l'universalità, di cui si pone l'esigenza, è parola priva ·di significato ; - o giudica che l'esigenza dell'unità è giustificata, ma ·che trova soddis facimento nelle forme non conoscitive dello Spirito ; - o infine, che essa viene soddi­ sfatta bensi da queste forme non conoscitive, ma in quanto riope­ rano su quelle conoscitive, cioè sull'unica c:;he sia stata ammessa come legittima e che è la forma rappresentativa. È chiaro che, fuori di queste tre possibilità, non ve n'ha altre : o contentarsi dèlla conoscenza rappresentativa ; - o richiedere una forma non conosci­ tiva ; - o combinare le due richieste. Nel primo caso, si ha la teoria dell' e s t e t i s m o (la quale si potrebbe anche dire a giusto titolo del s e n s i s m o , se non ci fosse timore d'ingenerare equivoci) ; nel secondo, la teoria del m i s t i c i s m o ; nel terzo quella del­ l' e m p i r i s m o o a r b i t r a r i s m o . Conforme al vedere dell'estetismo, non è possibile, né poi gio­ verebbe, pensare per concetti, universalizzare, ragionare, loicizzare, quando si vuoi cogliere la verità vera del reale. Giova invece trascorrere di spettacolo in spettacolo ; e la ·serie di questi spettacoli, che si accresce all'infinito, è essa sola la verità che si brama, e che bisogna guardarsi bene dal trascendere per non cadere nel vuoto. L'attrattiva dal sub specie aeterni sarebbe né piu né meno che quella dello specchio d'acqua, che ingannò l'avidità del cane di Fedro e gli fece lasciare il cibo reale per l'illusorio. Alla fredda, e infeconda ricerca del logicizzante si contrappone, invito e ammonimento, la ricca e mossa contemplazione dell'artista : ' la verità è nelle opere della parola, del suono, del colore, della linea, e non già nei secchi e sterili filosofemi. Cantiamo, dipingiamo, e non costringiamo il cer­ vello a sforzi spasmodici e infecondi. Si potrebbe questo atteggiamento estetico considerare come quel­ lo dello spirito che esce da se stesso e si sparge sulle cose, pur tenen­ dovisi di sopra e a distanza, e le guarda e non le penetra. Ma di esso non si appaga il misticismo, che avverte come a colui il quale si abbandoni a questa orgia di spettacoli vari all'infinito non sia dato mai riposare dalla vicenda affannosa, e come, attraverso essa, gli sfugga l'intimo di tuiti quegli spettacoli. Certamente, anche pel misticismo una conoscenza logica è un'ubbia, il concetto è sterile ; ma l'esigenza dell'unità è pur legittima, e chiede legittimo appagamento. Quale ? L'arte parla, e la sua parola, per bella che suoni, non con­ tenta ; dipinge, e i suoi colori, per attraènti che 6iano, abbarba­ gliano. Per cogliere nel suo interno la vita bisogna cercare non la luce ma l'ombra, non la parola ma il silenzio. Nel silenzio, la mi­ steriosa Iside erge verso di noi il capo e ci svela il volto ; o piut-

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tosto non ci svela nulla, ma ci riempie di sé, ci dà il sentimento di se stessa. L'unità, che si ricerca, è nell'azione, nella forma pratica dello Spirito : nel cuore, che palpita, ama, vuole. La conoscenza è conoscenza del singolo, rappresentazione ; · l'eterno non è materia di conoscenza, ma d' i n t i m a e i n e f f a h i l e e s p e r i e n z a . I settatori dello scetticismo logico-estetizzante sono anime arti­ stiche ; quelli dello scetticismo logico-mistico, anime sentimentali e agitate, che, pur non partecipando alla vita con l'azione propria­ mente detta, vi partecipano in qualche modo col vibrare all'unisono per simpatia e, secondo i casi, col soffrire del parteciparvi o del non parteciparvi. Ma gli empiristi o arhitraristi si trovano piuttosto tra coloro che, vòlti alla pratica, non indugiano nelle commozioni e nei sentimenti e cercano modi di pensare che sembrano piti diret­ tamente adoperabili nel fare. Perciò, affatto concordi con gli estetiz­ zanti e coi mistici nel negare ogni valore alla conoscenza logica in quanto forma autonoma di conoscenza, non si soddisfano come i primi, negli spettacoli e nelle opere dell'arte, né, come i secondi, sen­ tono la nialia e la mania dell' Uno e dell' Eterno. La combinazione da essi operata della dottrina estetizzante, che ripone il valore nella rappresentazione, e di quella mistica, che lo ripone nell'azione, non potenzia né l'una né l'altra, ma le fiacca entrambe ; e in luogo della poesia dei primi e del rapimento dei secondi . offre un prodotto assai prosaico, contrassegnato dal prosaicissimo nome di f i n z i o n e . C'è (essi dicono) qualcosa di là dalla mera rappresentazione, e que­ sto qualcosa è un atto di volontà, che soddisfa l'esigenza dell'uni­ versale con l'elaborare le rappresentazioni singole in schemi generali o simboli, privi dii realtà ma comodi, finti ma utili. Gli ingenui filosofi e logici · si sono lasciati trarre in inganno da queste finzioni e le hanno prese sul serio, come accadde a don Chisciotte innanzi ai fantocci moreschi di mastro Pietro. Dimentichi della qualità del­ l'operazione compiuta, hanno continuato a elaborare, cioè a con­ densare e semplificare, dove non c'è nessuna materia per tale lavo­ rio, pretendendo raggruppare non solo queste e quelle serie di rappresentazioni, ma tutte le rappresentazioni, e sperando di otte­ nere a questo modo il concetto universale, che accolga nel suo grem­ bo le infinite possibilità del reale. Per questa via sono pervenuti alla pretesa forma nuova e autonoma di conoscenza, che supererebbe le rappresentazioni, e che è un'escogitazione raffinata hensi ma alquan­ to ridicola, come sarebbe quella di chi volesse foggiare non solamen­ te coltelli di varia grandezza e forma, ma un coltello dei coltelli, dì là da tutti i coltelli che si materiano nel ferro e nell'acciaio e che hanno forme e usi determinati. A suo luogo andremo esaminando cosi gli errori generali di . que-

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sti modi di risolvere o di troncare il problema della conoscenza, come anche le parziali verità, che vi sono frammiste e che bisogna far valere nella loro libera efficacia. Ma circa il problema che ora ci oc­ cupa, e che è l'affermazione o negazione della forma concettuale del conoscere, basta osservare come tutti e tre codesti drappelli di negatori muovano all'assalto contro il concetto, armati di c o n c e t ­ t o . Osservare semplicemente, e non affannarci a confutare, perché è cosa in verità che dà subito all'O(,chio e non richiede troppe parole ; quantunque assai ce ne vorrebbero per illustrare psicologicamente le condizioni di spirito e di cultura, le tendenze naturali e acquisite, le abitudini e i partiti presi, che rendono possibile tanta e cosi mara­ vigliosa cecità. Gli estetizzanti affermano che la verità è nella con­ templazione estetica e non già nel concetto. Ma, di grazia, codesta loro affermazione è forse canto, pittura, musica, architettura ? Con• cerne bensi l'intuizione, ma non è intuizione ; ha per materia l'arte, ma non � arte ; n;on comunica uno stato d'animo, ma comunica un pensiero, ossia un'affermazione di carattere universale ; dunque, è un concetto. Un concetto, mercé cui si cerca di negare i1 concetto, come col salto, che proietta ombra, si è cercato, negli aneddoti delle . no­ velle umoristiche, di saltare sulla propria ombra, o con l'aggrappar­ si al proprio codino, di trarsi a salvamento fuori del fiume. Il medesimo si dica dei mistici. Essi inculcano la necessità del silenzio e di cercare l' Uno, l' Universale, l' Io, ripiegandosi e chiudendosi in se stessi e lasciandosi vivere ( ...) ; ma nel ciò fare, raccomandatori come sono del silenzio, non passano sotto silenzio il silenzio, e vanno spiegando e dimostrando quanto sia efficace quella loro ricetta a soddisfare la brama dell'universale. Se tacessero davvero, è chiaro che non ci troveremmo a fronte, come ci troviamo, la loro teoria in quanto formola dottrinale da discutere. La teoria del silenzio e della tacita azione ed esperienza interiore è nient'altro dunque che un'affermazione con la quale si rifiuta, e si crede di èonfutare, altre affermazioni. Ma affermazione, negazione e confutazione vuoi dire universalità di esigenza e di contenuto ; e perciò quella dottrina importa un concetto : contraddittorio quanto si voglia, bisognoso di elaborazione, ma di elaborazione sempre concettuale e non già sen­ sitiva, sempre teoretica e non già pratica, la quale ultima imporrebbe ad·dirittura ai suoi adepti il tacere. E chi, ai nostri giorni, parla tanto quanto i mistici? Anzi, che cosa farebbero essi ai nostri giorni, se non parlassero ? E dove ora si sùole incontrarli, nelle solitudini o non piuttosto nei circoli e caffè, luoghi nei quali non si tace ? - Fi• nalmente, i teorici delle finzioni e dei fantocci, nella loro amabile satira della logicità e della filosofia, dimenticano di determinare un piccolo particolare, che non è privo d'importanza : v�le a dire, se la

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loro teoria dei concetti come finzioni sia, a sua volta, f i n z i o n e . Perché, se fosse finzione, si annuncierehhe e confuterebbe da sé come priva di verità ; e se non fosse (come non è), riterrebbe carattere di universalità vera ce e non finta ; cioè non sarebbe semplificazione e simboleggiamento di rappresentazioni, ma concetto, e darebbe il concetto vero nell'atto stesso che smaschererebbe quelli finti. La finzione e la teoria ·della finzione sono ( e dovrebbe riuscire evidente) cose diverse ; come sono diversi il delinquente e il giudice che lo con danna, il pazzo e il medico dei pazzi. Una finzione, che finga di esser finzione, apre tutt'al piu lin processo all'infinito, che non è possibile chiudere se non interviene un atto, il quale non sia fin­ zione e renda ragione degli altri tutti, come nello scioglimento di una commedia di equivoci. Ed ecco in qual modo gli empiristi o arhitraristi si fanno anch'essi confessori della fede, che vorreb­ bero negare. Salus ex inimicis è una verità per la filosofia non meno che per la vita tutta, e riceve bella conferma ·dall'inimicizia, forse non mai tanto feroce come oggi, contro il concetto, e dagli sfo�i, non mai tanti e con tanto zelo esercitati, per sopprimerlo ; giacché i nemici del concetto vengono a trovarsi nella mala condizione di non poterlo sopprimere senza sopprimere, con quell'atto, lo stesso loro principio di vita mentale. Il concetto dunque, non è rappresentazione né pratico miscuglio o condensamento di rappresentazioni. Sorge dalle rappresentazioni come qualcosa che è in esse implicito e deve farsi esplicito, come esigenza o problema, di cui le rappresentazioni pongono le premesse, ma non sono in grado di soddisfare e non possono nemmeno for­ mulare. Il soddisfacimento è dato dalla forma non piu meramente rappresentativa ma logica del conoscere ; e si effettua in perpetuo, a ogni istante della vita dello spirito. Negare la forma logica, introducendo in suo luogo, per dimostrarla illusoria, altre forma­ zioni spirituali, è tentativo che si è piu volte ripetuto e ancora si rinnova, ma che è lecito ormai considerare disperato. E dalla dimo­ strata vanità di questi tentativi trae conferma la necessità della scienza della Logica, il cui oggetto o problema è per l'appunto quella forma spirituale, quell'aspetto del reale, che si chiama il Concetto. Il concetto e gli pseudoconcetti 'Col distinguere il ·concetto dalle rappresentazioni è stata ricono­ sciuta, per altro, la rappresentazione in quel che ha di legittimo, e le si è assegnato il posto nel sistema dello spirito come forma ele­ mentare di conoscenza, antecedente alla logicità. Col distinguere il concetto dagli stati d' animo, dai moti di volontà, dalle azioni,

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s'intende insieme riconoscere la legittimità della forma pratica, della quale, e delle sue relazioni con la forma conoscitiva, tratteremo altrove per disteso e). Ma, col distinguere il concetto dalle f i n z i o n i , sembra che di queste ultime non sia stata riconosciuta la legittimità, anzi che sia stata . negata per ciò stesso che a desi­ gnarle si è adoperato un nome di significato reprobativo. Ora ciò conviene chiarire, perché non si potrebbe procedere oltre nella trat­ tazione della Logica, se si lasciasse dUbbio e malfermo, ossia insuf­ ficientemente distinto, uno dei termini dai quali il concetto dev'es­ sere distinto. - Che cosa sono le f in z i o n i concettuali? concetti falsi e arbitrari, moralmente riprovevoli? . o produzioni spirituali, che concorrono e giovano alla vita dello spirito ? Errori da correg­ gere, o forme necessarie? ( ... ) Che lo spirito pratico porga nuove conoscenze, inconseguihili dallo spirito conoscitivo, è da negare con risolutezza : lo spirito prati­ co è tale, appunto perché non conoscitivo, e, in fatto di conoscenza, del tutto sterile. Se dunque esso esegue quelle manipolazioni, e dice a un gatto : « tu mi rappresenterai tutti i gatti », o a una rosa : « ecco, ti disegno nel mio trattato ·di botanica, e tu rappresenterai tutte le rose » ; e al triangolo : « è vero, non ti posso pensare né rappresentare, ma suppongo che tu sia lo stesso di quello che eseguo con la riga e con la squadra, e mi servo di te per misurare gli approssimativi triangoli della realtà » : - con ciò riconosce che non compie nessun atto di c o n o s c e n z a . Ma ne compie in que­ sto caso uno di ostilità alla conoscenza ? ossia si adopera a porre impacci al conoscere e a simularne i prodotti per trarre in inganno chi cerca . il vero ? Se cosi fosse, « spirito pratico » sarebbe in quel­ l 'atto, sinonimo di spirito d'inganno ; e il foggiatore di finzioni con­ cettuali meriterebbe la riprovazione che colpisce falsari di documen­ ti, sofisti, retori e ciarlatani ; laddove, in effetti, riscuote il plauso e la gratitudine generale. Ognuno di noi, a ogni istante, sarebbe reo ·di subdolo attentato contro la verità, perché a ogni istante tutti noi formiamo e adoperiamo quelle finzioni ; la d dove la coscienza morale, pur tanto delicata nelle sue ripugnanze, qui non ci rimprovera nulla, anzi c'incoraggia. L'atto del foggiare finzioni intellettuali non è dun­ que né di conoscenza né di anticonoscenza ; non è logicamente ra­ zionale e non è nemmeno illogicamente irrazionale, ma è razionale a suo modo, p r a t i c a m e n t e . Poiché si conosce per operare, e tutte le nostre conoscenze deb­ bono via via venire rievocate per via via operare, sorge l'interesse pratico di provvedere alla conservazione del patrimonio delle cono·

(2) Queste relazioni sono indagate nella Filosofia della pratica, parte prima (N. d .A.).

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scenze acquistate. E sebbene in senso assoluto tutto si conservi nella realtà e niente che sia stato una volta fatto o pensato sparisca dal grembo del cosmo, la conservazione della quale ora si parla ha il suo uso, perché è propriamente una facilitazione al ricordo ·delle co­ noscenze possedute e all'opportuno richiamo di esse dal grembo del cosmo o - dell'apparentemente inconscio e dimenticato. A tal fine si costruiscono gli strumenti delle finzioni concettuali, che rendono possibile, per mezzo di un nome, di risvegliare e · chiamare a rac­ colta moltitudini di rappresentazioni, o almeno d'indicare con suffi­ ciente esattezza a quale forma di operazione convenga ricorrere per mettersi in grado di ritrovarle e richiamarle. Il « gatto » della fin­ zione concettuale non ci fa conoscere nessun singolo gatto, come ce lo fa conoscere un pittore o un biografo di gatti ; ma, in forza di quel nome, molte immagini di animali che sarebbero rimaste di­ sperse, o ciascuna congiunta e fùsa nel quadro complessivo in cui era stata immaginata e percepita, vengono ordinate in serie e sono ricordate in gruppi. Ciò importà poco, anzi nulla� a chi sogna da poeta o ricerca la verità universale ; ma importa assai a colui che, avendo la casa ihfestata da topi, deve dare l'incarico per l'acquisto di un gatto ; e importa non meno al ricercatore, che si faccia a studiare un determinato gatto e che deve procedere nel suo studio con qualche ordine, sia pure artificiale, salvo ad abbandonare l'ar­ tificio nella sintesi finale. Del pari il triangolo geometrico non serve né alla fantasia né al pensiero, che compiono il loro ufficio senza e oltre quell'astrazione ; ma è indispensabile al misurat ore di un cam­ po, e può eventualmente anche servire a un pittore negli studi preparatori per un quadro, o a uno storico, che voglia bene inten­ dere la configurazione di un terreno, sul quale fu combattuta la battaglia ch'egli si accinge a narrare. Per questa ragione le finzioni concettuali non solo restano salde e invincibili nonostante l'affinarsi e perfezionarsi dei concetti veri e propri, ma anche prendono alimento e incremento dallo svolgersi dei concetti rigorosi. Non è dato, mercé questi, criticarle e risol­ verle, perché esse sono eterogenee alla logica, né possono fungere rispetto ai concetti da gradi inferiori, perché li presuppongono. La risposta, che si aveva l'obbligo di dare, è data, ed è tolto ogni dub­ bio circa la relazione del concetto con le finzioni concettuali : rela­ zione, che non è d'identità, e nemmeno di contrarietà, ma di sem­ plice d i v e r s i t à . Rimane la questione terminologica, che ha scarsa importanza. « Finzioni concettuali » è un modo di dire. Comunque. noi, anche per ragione di brevità, le chiameremo p s e u d o c o n c e t t i , e, per abbondare in chiarezza, chiameremo i concetti veri e propri, c o n -

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c e t t i p u r i : denominazione che ci sembra anche più convenien­ te di quella d' i d e e (concetti puri) contrapposte a c o n c e t t i l o g i c i ( pseudoconcetti), come un tempo si dice'' a nelle scuole. È ·da tenere tuttavia ben presente che gli pseudoconcetti, sebbene nel loro nome entri la parola « concetto » , non sono concetti, nÒn ne formano una specie, né litigano con essi (salvo che non li si faccia litigare, distorcendoli dal loro fine proprio) ; e che i concetti puri non hanno a sé accanto i concetti impuri, i quali non sono vera­ mente concetti. Ogni vocabolo porta seco, in misura maggiore o mi­ nore, l'appicco agli equivoci, perché si aggira in questo basso mondo, che è pieno di tranelli ; e la ricerca di vocaboli che impediscano assolutamente gli equivoci, di quel fissamento dei significati che è il sospiro di molte anime candide, riesce affatto vana, perché biso­ gnerebbe anzitutto tarpare le ali allo spirito umano, fermarlo nella sua opera incessante, progressiva e rivoluzionaria. Possiamo bensi preferire l'un vocabolo all'altro secondo contingenze e opportunità storiche ; e, per conto nostro, abbiamo dichiarato di preferire quelli di p s e u d o c o n c e t t o e di . c o n c e t t o p u r o , non fosse altro per ricordare la modestia ai foggiatori delle finzioni concet­ tuali e fare risplendere sulle loro teste la luce della sola forma vera di concetto, che è la logicità stessa nella sua universalità e nel suo rigore. Come non essere d'avviso che la scelta è ben fatta, se, ai giorni nostri, questa denominazione di c o n c e t t o p u r o piace ai pochi, ma spaventa i molti e irrita i moltissimi, peggio del panno rosso agitato sugli occhi del toro ; Cioè, se essa, come ogni medicina efficace, suscita reazione nell'organismo dell'infermo? I caratteri e il carattere del concetto Da quel che si è detto finora è dato raccogliere i caratteri del concetto puro o concetto senz'altro. Il concetto ha il carattere dell' e s p r e s s i v i t à , ossia è opera conoscitiva, e come tale espressa o parlata ;· non è già atto muto dello spirito, come sarebbe, per sé considerato, un atto pratico. Per mettere a una prima prova l'e:ffettivo possesso di un concetto si può fare uso dell'esperimento in altra occasione da noi consigliato : invi­ tare colui che asserisce quel possesso a esporlo con parole e con altri mezzi di espressione (simboli grafici e simili). Se colui si rifiuta e dice che il suo concetto è cosi profondo che parole non valgono a tradurlo, si può star sicuri o che egli s'illude di possedere un con­ cetto e possiede solamente torbidi fantasmi e mozziconi d'idee, ovvero che il profondo concetto è solo vagamente da lui presentito o tut­ t'al piu si comincia appena a formare, e sarà, ma non è ancora

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posseduto. Ciascuno di noi sa bene che, quando è · impegnato nel piu forte della meditazione, dell'interiore battaglia, di quella vera a g o n i a ( perché morte di una vita e nascita ·di un'altra) che è la formazione di . un concetto, può bensi discorrere del suo stato d'animo, delle sue speranze e timori, dei barlumi che gli appaiono e delle tenebre che lo occupano ; ma non già comunicare quel s'Do concetto, che non è ancora tale, perché non è ancora esprimibile. Se questo carattere dell'espressività è comune al concetto e alla rappresentazione, proprio del concetto è quello dell' u n i v e r s a ­ l i t à , ossia ·della trascendenza rispetto alle singole rappresentazioni, onde nessuna o nessun · numero di queste è mai in grado di ade­ guare il concetto. Tra l'individuale e l'universale non è ammissibile nulla d'intermedio o di misto ; o il singolo o il tutto, in cui quel singolo rientra con tutti i singoli. Un concetto, che venga provato non universale, è per ciò stesso confutato come concetto ; e a questo modo procedono nel fatto le nostre confutazioni :filosofiche. Per esempio, la sociologia asserisce il concetto di s o c i e t à come con­ cetto rigoroso e principio ·di scienza ; e la critica della sociologia prende a provare che il concetto di società non è universale ma qualcosa di generale, il gruppo di taluni enti che la rappresenta­ zione ha messi innanzi al sociologo e che egli ha isolati arbitraria­ mente da altri complessi di enti coi quali erano legati o si potreb­ bero legare. La teoria della tragedia pone .il concetto del t r a g i c o e da esso deduce questo o quel necessario requisito della tragedia ; e la critica ·dei generi letterari dimostra che il tragico non è con­ cetto, ma anch'esso gruppo mal delimitato di rappresentazioni arti­ stiche, che hanno tra loro alcune estrinseche simiglianze, e perciò non può servire di fondamento a nessuna teoria. Per converso, stabi­ lire un universale del quale non si aveva prima piena consapevo­ lezza, è il vanto del pensiero veramente scientifico ; onde si chia­ mano inventori coloro che mettono in luce le relazioni di rappre­ sentazioni o di gruppi rappresentativi o di concetti, che prima si consideravano disgregati. :Per esempio : si è creduto un tempo che la. volontà e l'azione fossero concetti distinti ; e si è compiuto un progresso con l'uni:fioarli, stabilendo il concetto, veramente univer­ sale, della volontà che è insieme azione. C osi anche si reputava che l'espressione del linguaggio fosse cosa diversa dall'espressione dell'ar­ te ; ed è stato progresso universalizzare l'espressione dell'arte, esten­ dendola al linguaggio, o quella del linguaggio, estendendola all'arte. Non meno proprio del concetto è l'altro carattere della c o n ­ c r e t e z z a : cioè, che se il concetto è universale e trascendente rispetto alla singola rappresentazione, presa nella sua astratta singo­ larità, è d'altra parte immanente in tutte le rappresentazioni, e

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perc10 anche nella singola. Il concetto è - l'universale rispetto alle rappresentazioni e non si esaurisce in nessuna ; ma, poiché il mondo. della conoscenza è mondo di rappresentazioni, il concetto, se non fosse nelle rappresentazioni stesse, non sarebbe in nessun luogo : sa­ rebbe in un a l t r o mondo, che non si può pensare e perciò non è. La sua trascendenza, dunque, è insieme immanenza ; come quel tale linguaggio veramente letterario, che Dante vagheggiava e che, ri­ spetto alle parlate delle varie parti d' Italia, in qualibet redolet civi­ tate nec cubat in ulla. Se di un concetto si prova che è inappli­ cabile alla realtà, ossia che manca di concretezza, lo si confuta nel­ l'atto stesso, in quanto concetto vero e proprio. È a s t r a z i o n e ( si dice), non è realtà : n o n h a c o n c r e t e z z a E a que­ sto modo è stato confutato il concetto dello Spirito posto come di­ verso dalla Natura �spiritualis:r�IO astratto), o del bene come mo­ dello posto di sopra del mondo reale, o degli atomi come compo· nenti la realtà, o delle dimensioni dello spazio, o della varia quan­ tità del piacere e del dolore, e - simili. Tutte cose che non si ritro­ vano in nessuna parte del reale, non essendovi né una realtà me­ ramente naturale, straniera allo spirito, né un mondo ideale fuori di quello reale, né uno spazio a una o a due dimensioni, né un pia­ cere o dolore _ omogeneo con un altro e perciò maggiore o minore di un altro : cose tutte che non nascono, dunque, da un pensare concreto e non formano « concetti ». .

(Logica come scienza del concetto puro, Bari, Laterza, 1958, pp. 3-28).

2. SuLLA TEORIA DELLA DISTINZIONE E DELLE QUATTRO CATEGORIE SPIRITUALI

( ... ) È risaputo o riconosciuto che il motivo conduttore dell'opera mentale che sono venuto eseguendo è stato la tenace' difesa del concetto della « distinzione » ; difesa che, ove si consideri che ogni filosofo, anzi ogni uomo, pensa solo in quanto distingue, potrebbe sembrare superflua o arrogante, se essa non si dimostrasse giustifi­ cata dal carattere generale dell'età in cui son vissuto e vivo, la quale, in filosofia come in morale, agitata tra romanticismo e positivismo e naturalismo e attivismo e misticismo e altrettali tendenze, infiac­ chi la forza della distin�ione e ne abbassò e contaminò il valore. Non che io mi ponessi, consapevolmente e di proposito, contro i miei tempi, perché, grazie al cielo, da cotesti atteggiamenti che si chia­ mano « gladiatori » mi ha sempre preservato, non dirò la modestia, ma il senso, in me napoletano assai vivo, del ridicolo ; e se ora accetto la definizione che si suoi dare dell'opera mia, è semplice_

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mente perché, ora che posso volgermi indietro a ripensare il cam· mino percorso, mi sembra giustificata e da potervi proficuamente ragionare intorno. Due furono le principali polemiche che svolsi in quella difesa : l'una contro i sensisti, psicologisti, associazionisti, naturalisti e ma­ terialisti, che adoperavano bensi e anzi moltiplicavano a ogni passo le distinzioni, ma le tenevano tutte alla pari empiriche e conven· zionali, senza valore assoluto ; l'altra contro gl'idealisti, della màg· :giore scuola speculativa dell' Ottocento, la hegeliana, che, avendo af­ fermato il principio della dialettica, mercé di questa trattavano alla lesta le distinzioni, come insufficienze o gradi ascendenti di matu­ razione logica, e cosi tutte le risolvevano e annullavano nella rag· giunta maturità del Logo o dell' Idea. L'argomento di cui mi valsi contro i primi era relativamente agevole, perché, senza far loro torto, quelli erano in genere molto irrifl.essivi, anche i piu celebrati. lo feci notare, se non a loro, a coloro che riflettono, che una distinzione empirica e convenzionale ' non si pone se, nell'atto stesso, non se ne postula l'altra assoluta e reale, cosi come la carta-moneta suppone rapporti non cartacei di ·scambi reali di cose con cose o di servigi con servigi, e la moneta falsa postula la buona. La lite, per questa parte, poté considerarsi presto vinta. Ma l'altra confutazione riusci ·di necessità piu difficile e piu sot­ tile, perché il principio dialettico era veramente una grande forza di rinnovamento e addirittura di rivoluzione che lo Hegel aveva avuto il precipuo merito di introdurre e far valere nel pensiero moder­ no, né si poteva da esso tornare alla vecchia metafisica dell' Essere, togliendosi d'attorno la logica del Dive.nire, la quale, venuta nel mondo del pensiero, non se ne lasciava pili scacciare. L'errore della concezione panlogistica era, di certo, patente nel sistema hegeliano ·e nelle sue ·derivazioni, e nondimeno non era lecito da esso inferire l'erroneità di quella logica, ma soltanto sospettare una grave imper­ fezione nel concetto ossia nella teoria che se n'era elaborata. E, in effetto, il processo della mia confutazione consistette, qui, nel ·domandare come mai fosse da spiegare il sorgere della opposizione n ell'unità dello spirito e con essa la susseguente conciliazione e il .superamento e la conservazione, evitando cosi il dualismo mani" cheo come la ricaduta nell'unità senza opposizione e perciò immo­ bile. E la mia dimostrazione fu che l'opposizione, anziché essere il prius logico, importa la distinzione nell'unità spirituale, la quale vuole un piu concreto e filosofico concetto di sé, non piu astratta unità matematica ma organica e vivente, e perciò distinzione-unità, l'un termine di questi due definito per l'altro, identico con l'altro.

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Solo nel trapasso ·da un distinto a un altro, da una ad altra forma o categoria della realtà o dello spirito, si accende l'opposizione, che è il travaglio dell'attuazione di quel trapasso attraverso il contrasto del nuovo col vecchio, del positivo col negativo. Le singole distin­ zioni non sono dunque gli scalini per giungere all' Uno, che le supe­ rerebbe e tutte le risolverebbe in sé, ma sono la forza dell'unità che col perpetuo suo passare da una forma all'altra tesse infaticata e sempre ringiovanita la tela della storia. Solo la storicità è adeguata al processo del reale, ma la storicità nel suo libero moto, non quale lo Hegel la presentava incatenata nel suo sistema, e non quale egli in quel sistema la dichiarava pervenuta al suo termine e conclusa ; e solo la logica della conoscenza storica è adeguata al pensiero, il che porta per conseguenza l'abbandono · dei sistemi definitivi e la loro sostituzione con le storiche sistemazioni, che sempre si ampliano e si arricchiscono insieme con l'ampliarsi ed arricchirsi della vita. Le forme o categorie della realtà e dello spirito, i valori su­ premi, erano state nel corso dei secoli, quasi per un consensus gen­ tium, raccolte nella triade del Vero, del Bene e del Bello, che a me parve da integrare con un quarto termine, l' Utile o l' Econo­ mico o il Vitale o come altro voglia chiamarsi, illogicamente spre­ giato e calunniato e considerato materialistico dai filosofi che non osavano ribellarsi alla concezione triadica tradizionale, dettata da una sorta di inconsapevole pedagogia educativa, ma speculativamen­ te non giustificabile : da quei medesimi filosofi che in · altri tempi avevano fatto il viso dell'armi alla teoria delle passioni intese nella loro efficacia creatrice. Mutata la triade in tetrade, con l'introdu­ zione del nuovo termine venivano pensati alquanto diversamente,. ma ben · piti adeguatamente alla realtà, l'ordine e i rapporti tra le forme dello spirito ; e la forma della tetrade concorreva a impedire la ripetizione del gioco pseudodialettico del triadismo, adoperato a vanificare ogni distinzione. Ma l'introduzione della categoria anzi­ detta era altresi necessaria per preparare e avviare la soluzione · del dualismo di spirito e natura, di anima e di corpo, di realtà interna e realtà esterna, svelando questo mistero che l'uomo fabbrica a sé stesso, quando lascia che l'immaginazione soverchi il pensiero e lo spinga all'inerzia o al delirio del trascendente : un mistero che era di quelli che, come diceva il Goethe in simile occasione, resta tale sol perché niemand hort's gerne, a nessuno piace di apprenderne la semplice spiegazione e di abbandonare le congiunte illusioni e le non savie speranze. Allo stesso intento è da badare e vigilare che tra le quattro forme dello spirito non s'insinui una divisione gerarchica di alto e di basso, di superiore e d'inferiore, . alla quale il modo corrente di dire

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·conduce facilmente chi dimentica che altro ( per usare la parola .del Bergson) è « parlare il mondo » e altro è « pensarlo » . Le forme ·dello spirito, essendo tutte necessarie, sono tutte necessariamente di pari dignità� e non sopportano se non un ordine di successione e di implicazione che non è gerarchico, perché per la circolarità o cir­ -colazione della vita spirituale nessuna di esse dà l'assoluto inizio e nessuna il termine assoluto. In effetto, quale è quella a cui nel pensiero comune si tende ad assegnare il posto piu basso? Indub­ biamente, la forma della vitalità, dell'utilità, del_l'economia, che nel rigoglio delle forze fisiologiche effonde la sua gioia e afferma la sua positività ; ed �ssa riceve facilmente la denominazione metaforica di materialità e animalità, laddove bisognerebbe definirla per quel che veramente è : la forma della mera individualità, che crea e mantiene se stessa e fa valere con le altre il suo diritto nella dialettica e nell'unità spirituale. Pure, basterebbe rammentarsi ciò che accadde quando quella forma fu a lungo · depressa e aborrita e calpestata, come si risollevasse impetuosa e poderosa e splendesse di antico-nuova luce contro l'ascetismo medievale, nella grande età che si chiamò il Rinascimento. (Filosofia

3.

e

storiografìa. Saggi, Bari, Laterza, 1949, pp. 14-18).

LA STORICITÀ DELLA VERITÀ

( . . ) Come sorge una verità, che viene per il suo sorgere salu­ tata nuova, sebbene si possa materialmente ritrovarla nelle parole dei tempi passati ? O, piu brevemente, come sorge una verità senza altro? Non certo come è stato immaginato, o da taluni ancora si immagina, per una sorta d'interiore spinta logica onde un con­ c · etto progredirebbe, una filosofia ne genererebbe un'altra, e cosi indefinitamente fino a quando non ci sia piu campo al progredire, 'Sicché la corsa si arresta. Neppure nella sfera del pensiero vige la partenogenesi, e vi è necessario l'intervento fecondatore di un ele­ mento di altro sesso, e poiché uno dei due elementi qui è teorico e logico, l'altro non puÒ essere se non pratico ; la qual cosa è comu­ nemente riconosciuta nei detti che la vita, e anzi le difficoltà della vita, stimolano il pensiero, e che ·dal dolore nasce il problema del filosofo come il canto del poeta. L'esperienza quotidiana mostra che non altrimenti splende un lume di verità se non attraverso una ·crisi d'inquietudine e d'affanno che muove a raccogliersi nella rifles­ sione, apre la via a comprendere il pensiero degli altri che prima rimaneva estraneo, e fa ripetere, con l'accento di una scoperta che .

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si sia fatta, parole che, dianzi, si ripetevano per abito senza riviverle senza riviverle a· pieno. Questo legame del pensiero con la vita, con la pratica, con la storia, determina il senso di una verità. Nata a placare un'angoscia, essa è piena di questa angoscia alla quale apporta il rimedio e il sollievo con lo sgomberare le tenebre che l'aggravavano. Se si spezza questo legame, non c'è pio .quella verità, ma restano le vuote parole, i suoni, i segni grafici, che si possono r�contrare e riconoscere simili ad altri che appartengono al passato e che sono stati parimente vuo­ tati. Per ripensarli come verità, bisogna coglierli nella storia a cui appartennero, in quella e non in altra ; e tale è il fine della inter­ pretatio verborum, che è sempre interpretazione storica, ritrovamen­ to ·del palpito vitale che giace sotto le parole e dà a loro il signifi­ cato pieno. Con ciò si schiarisce anche quella che si chiama la ricerca storica delle origini ; e intendiamo parlare delle origini di un fatto storico, e non come un tempo, o ancor oggi stoltamente, dell'origine del­ l'originario, di quella che darebbe origine ai fatti storici, dello spi­ rito e delle sue categorie, ponendo il falso problema dell'origine del linguaggio, della poesia, del pensiero, della morale e della religione, e altrettali. Le categorie si pensano pensando i rapporti in cui sono tra loro, e questi rapporti solo per metafora si possono chiamare le loro origini. Ma neppure ·dei singoli fatti .storici si possono asse­ gnare origini nel vieto senso causalistico e deterministico. Meglio si dovrebbe dire che la ricerca a cui danno luogo non . è delle origini . loro, ma della loro originalità : di quel che propriamente ciascun di essi sia. E questa originalità è segnata dalle circostanze da cui un fatto prorompe e su cui si leva e che sono non la sua causa ma la sua materia, alla quale esso dà forma e, attraverso della sua forma superandola, la rende altresi conoscibile storicamente, cioè nella fisionomia che prese e nell'ufficio che esercitò nella ,storia. o

( Filosofia

e

storÌografia. Saggi, cif., pp. 174-176).

4. L 'ATTIVITÀ PRATICA E LA TEORETICA La conoscenza che si richiede per l'atto pratico non è la cono­ scenza dell'artista e neppure quella del filosofo, o, meglio, è anche queste due, ma solo in quanto si ritrovino entrambe quali elementi cooperanti nella conoscenza ultima e compiuta, che è quella s t o r i c a . Se la prima si chiama intuizione, la seconda concetto e la terza percezione, e si fa della terza il risultato delle due prime, si dirà che la conoscenza occorrente all'atto pratico è la conoscenza ·

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p e r c e t t i v a . Di qui il detto comune che loda nell'uomo pratico il colpo d'occhio sicuro : di qui anche lo stretto legame che si pone tra senso storico e senso pratico e politico ; di qui, infine, la giusti­ ficata diffidenza verso coloro che, impotenti ad affisare la realtà effettuale, sperano di raggiungerla a furia di meri sillogismi e di astrazioni, o credono di averla raggiunta quando hanno costruito un edificio fantastico, mostrando chiaro a questo modo di non poter diventare mai uomini pratici, almeno in quella sfera d'azione cui mirano di presente. Siffatta conoscenza non è di certo, per sé, l'atto pratico. Lo sto­ rico come tale è contemplatore, non uomo pratico e politico : se non scatta quella scintilla, che è la volizione, il materiale della conoscenza non s'infiamma e non si converte in alimento della pratica. Ma quella conoscenza è la condizione, e senza la condizione non nasce il condizionato : nel qual ultimo significato è vero che azione è cono­ scenza e che volontà è sapienza, cioè che volere e operare, com'è ben chiaro, suppongono conoscere e sapere. E in questo stesso signi­ ficato, ossia quando si consideri solamente lo stadio dell'indagine conoscitiva che forma la premessa dell'azione, la deliberazione può anche essere detta, per metafora, atto teoretico. Metafore sono an­ che le espressioni consuete di azioni « logiche », « razionali », « giu� diziose » ; perché l'azione potrà essere energica o fiacca, coerente o incoerente, ma non già avere quei predicati, che sono propri degli atti teoretici che precedono le azioni, e nei quali le metafore pre­ dette hanno il loro fondamento. Nondimeno, quali sono gli atti teo­ retici, tale nasce l'atto pratico ; tanto si può quanto si sa. La voli­ zione non è il · mondo circostante, che lo spirito percepisce ; è una iniziativa, un fatto nuovo ; ma questo fatto ha le radici nel mondo circostante, questa iniziativa è iridata dei colori delle cose che l'uomo ha percepito come spirito teoretico prima di operare come spirito pratico. E qui importa osservare ( cosi per impedire un equivoco in cui molti cadono, come per le conseguenze che ci avverrà di trarne) che non bisogna concepire la cognizione percettiva della realtà che ci attornia, quale base ferma su cui si operi traducendo in atto . la formata volizione. Perché cosi fosse, converrebbe supporre che il mon­ do circostante, percepito dallo spirito, si arrestasse con l'atto percet­ tivo ; il che non è. A ogni attimo, quel mondo cangia, l'atto per­ cettivo percepisce il diverso e il nuovo e l'atto volitivo cangia se­ condo quel cangiamento reale e percepito. Percezione e volizione si susseguono a ogni attimo ; pr volere bisogna, a ogni attimo, toc­ care la terra e ripigliare forza e direzione. Percezione continua e continuamente cangiante : ecco la neces-

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saria condizione teoretica della volizione. Necessaria e unica. Altro . atto teoretico non occorre, perché ogni altro è incluso in quello, e di là da quello nessun altro è pensabile. Ma se ciò è vero, se nessun altro atto teoretico fuori di quello precede la volizione, nell'esposta dottrina si contiene la critica di una serie di altre teorie generalmente ammesse nei lihri di Filosofia della pratica non meno che nel pensierò c valori, che sono stati assunti a modelli e misura della storia, non sono idee e valori universali, ma fatti particolari e storici essi stessi, malamente innalzati a universali. Cosi l'idea della bellezza, che ser­ viva innanzi la figura, attestata ·dalle fonti, di un uomo abile ed elo­ quente, fa si che tale egli sia stato anche nei casi in cui non si sa se quelle virtu operarono ; avendo innanzi un generoso cavaliere, gli attribuisce sentimenti cavallereschi anche dove poté nutrirne in effetto di assai bassi ; avendo, insomma, un quadro incompiuto in alcune parti, lo compie per gustare piu agiatamente quelle già com­ piute.

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Ed ecco come di nuovo ci si trova di fronte l'idea di una storia doppiamente in servitii dell'immaginazione e del probabile : per le testimonianze su cui si appoggia, che sono fededegne solo « proba­ bilmente », e pei racconti che costruisce, i qua.li, in tutti i . punti in -cui tacciono le probabili fonti, solo « probabilmente » rappresentano le cose come sono andate : all'idea, insomma, che la storia sia l'in­ fima forma ( se forma, in tal caso, può darsi) del conoscere uma­ no, traballante nelle fondazioni e con le mura cementate dall'im­ maginazione. Ma quella che qui si chiama, per attenersi all'espressione cor­ rente, « storia », si è già di sopra segnata col nome, che solo le spetta, di « aneddotica » : la quale, per la natura sua stessa che si .aggira nel generico e astratto e non giunge al concreto e storico delle cose umane, e per il metodo cosi dell'accertamento come del­ l'esposizione, scopre il punto in cui tocca il romanzo storico. Ferma come essa è nei migliori autori a non volersi discostar� dalle fonti, è tuttavia costretta a discostarsene per tessere i suoi racconti, sia pure attenendosi all'esperienza, ·del resto assai ondeggiante, del con­ sueto e normale. E poiché l'esperienza stessa include anche quella op­ posta del discontinuo e dello straordinario, facile è spingere piii ol­ tre l'ardimento delle integrazioni, che sono sempre un ardimento, e cosi, di ardimento in ardimento, versarsi nell'immaginoso dei piii immaginosi romanzi storici. La distinzione tra aneddotica e romanzo storico non è assoluta. ma empirica, approssimativa e graduale ; e bisogna accettare questa situazione, che niente vale a mutare. L'esi­ genza che i casi raccontati siano reali e non immaginari, non si so-ddisfa in quella cerchia altrimenti che col ridurre al minimo, nel­ l'impossibilità di annullarlo completamente, l'elemento di immagi­ nazione. La storia, la storiografia vera � propria, quella che non sta nel­ l'infimo ma nel sommo e unico grado del conoscere, non soggiace a queste aporie né soffre queste ambasce, perché essa non è l'« aned­ dotica », e perciò esclude affatto l'immaginazione e si esplica uni­ camente nel pensiero. Beninteso, non già nel se�so che il suo pen­ siero sorga in uno spirito che non sia immaginazione e fantasia e desiderio e passione, perché, per contrario, di tutte queste cose il pensiero si alimenta, tutte queste brucia nella .sua fiamma ; ma nel­ l'altro senso che la sua fiamma splende di luce propria. Superfluo le sarebbe il soccorso della facoltà combinatoria o dell'immaginazione, perché in lei è vivo e attivo il « fatto », che essa converte nel « vero » . (La storia come pensiero e come azione, cit., pp. 131-133).

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ARISTOCRAZIA E MASSE

Non si dice cosa peregrina se si dice che gli uomini che pensano e che operano profondamente sono pochi e che perciò le sorti ·della società umana sono legate a quelle di un'aristocrazia. E neppure ormai si dice alcunché di peregrino aggiungendo che non si deve pen· sare con ciò alle vecchie aristocrazie chiuse del sangue e dell'eredità, perché qui si parla invece di aristocrazie sempre aperte, in continuo rinnovamento, i cui componenti, compiuta l'opera loro, muoiono o tornano nelle file, sopravvivendo all'ufficio esercitato. Porre di fronte a codesta · aristocrazia la massa, considerandola come la bestia, il mostro immane da schiacciare, da legare, da delu­ dere, è il solito vezzo di estetizzanti e di superficialmente poetanti, come fu l'infelice pratica dei decadenti monarcati assoluti. Ma, se l'aristocrazia di cui discorriamo è aperta e i suoi nuovi elementi le vengono dalla cosiddetta massa, chiaro è che essa non può trattarla da nemica né da estranea né da materia indifferente, che calchi col piede e sulla quale superbamente passi. E per ciò neppure si dice cosa peregrina, ma tuttavia si dice cosa vera, quando si ripete che l'aristocrazia ha il dovere di educare le masse. Educarle, ma anche metterle in condizioni di libertà affinché si educhino da sé. L'educazione elementare è bensi necessaria, ma in essa prepondera l'opera dell'educatore sopra quella che l'educando deve adempiere a proprio rischio e pericolo, cioè sull'autoeducazione ; senza dire che essa deve essere (perché altrimenti non sarebbe educa· zione ma addestramento per fini estranei e perversione) educazione universalmente e pienamente umana, opera morale e non particola­ ristica e partigiana, giacché i partiti e i particolarismi nascono in modo sano solamente � ul tronco della comune umanità. Ma, a ogni modo, usciti che si sia fuori del periodo della scuola propriamente detta, non si può continuare a tenere gli uomini, già formati, sotto tutela con l'illusione o pretesto di venirli cosi educando, giacché è chiaro che per questa via non si educheranno veramente mai. E come si suoi lasciare, per non comprimerli troppo e invano, che la vita stessa educhi i giovani e che essi dagli errori traggano le le­ zioni dell'esperienza, cosi è da condursi verso gli uomini che si vuole innalzare a cittadini, partecipi della vita politica della loro patria. Associazioni operaie, camere di lavoro, sindacati, richieste di prov· vedimenti legislativi, leghe di resistenza, scioperi, e simili statuti e azioni, sono alcuni dei mezzi coi quali si compie il processo educa­ tivo dei già adulti. Né c'è da temere, salvo che episodicamente, di intemperanze ed eccessi da parte di · quegli uomini appartenenti alle

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masse, perché l'operare, il contrastare, il persuadere, il durare peri­ coli, il dichiarare guerre e il sostenerle, le sconfitte non meno che le vittorie, sono efficacissimi mezzi pedagogici, che danno la coscienza dei propri e degli altrui diritti, di quel che si può e di quel che non si può chiedere né aspettare, del divario tra il desiderato e l'ot­ tenibile, del limite che è nelle cose ossia nelle situazioni storiche, e fanno apprendere, a chi non le possegga già adulte, le virtu ·della moderazione e della pazienza. In questa libera lotta si svolge la com­ prensione e la generosità. Gli uomini sotto tutela, gli schiavi, avvi­ liti, diventano, quando l'occasione si presenti, crudeli e bestiali. Tale duplice e consecutiva educazione del maestro e della vita ha non solo il fine di guadagnare sempre nuovi elementi al ceto aristo­ cratico e dirigente, e di rinsanguarlo, ma anche l'altro di formare l'ambiente generale in cui i concetti nuovi, gli arditi disegni, gli accorti metodi, le sagge provvidenze che nascono e si maturano nella mente e nel cuore dei pochi, vengono accolti con minori frainten­ dimenti e ostacoli e col maggiore consenso, e trovano molti animi disposti a cooperare alla loro attuazione. Da un gruppo di intelli­ genti e finissimi e nobilissimi aristocratici e da una ma.ssa rozzis­ sima e recalcitrante, gli uni distaccati dall'altra, gli uni impotenti perché senza forza pratica adeguata, e l'altra impotente pe:.:ché senza cervello adeguato, da questa doppia inerzia non potrebbe nascere nes­ sun movimento storico, nessun avanzamento di civiltà ; e, poiché di fatto nasce ed è sempre nato, si ha in ciò la riprova che quei due estremi cosi diversi ed opposti son � due diversi fantasmi del­ l'immaginazione, entrambi privi di realtà. Masse ed aristocrazia non sono dunque entità separate e separa­ bili, due mondi ciascuno chiuso in sé e che non può far pressione sull'altro se non dall'esterno ; ma, tra loro comunicanti, compon­ gono entrambi l'unica società umana in continuo intimo fervore di reciproci scaQJ.hi e di trasformazioni. E a castigare l'orgoglio del­ l'intellettuale, e in genere di ogni variamente specificato aristocrate, che si stimi collocato fuori e sopra della massa per privilegio di natura o per ìlluminazione della grazia, giova considerare che an­ ch'esso, per qualche rispetto, sempre è massa o volgo, in quella parte che non è la sua propria vocazione e professione e che non impegna il suo vigore mentale e morale, e nella quale passivamente aderisce, dal piu al meno, al pensiero e al sentire comune o volgare, indotto dalla moda o da altro che sia. Non si può non sorridere quando si osserva altri riporre tanta fiducia nel filosofo o nel poeta, nell'uomo della contemplazione o dell'indagine, da interrogarlo ansio­ samente sulle risoluzioni politiche da a dottare, innanzi .alle quali l'in-

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terrogato sta smarrito e inerte assai piu dell'interrogante (che per lo meno, come si è detto, è in preda all'ansia), o, per converso, quando con altrettanta fiducia si procura di ottenere dall'uomo di politica, di finanza o di guerra lume sui problemi della religione, della filosofia e della poesia, e si raccolgono devotamente i suoi giu­ dizi, spingendo cosi gli uni e gli altri a entrare in campi a loro estranei, per modo che quando essi non hanno la coscienza del limite o non sentono la ·dignità del tacere, e si studiano di prendere un contegno che risponda all'improvvida fiducia verso di loro dimostrata, dicono stravaganze e sciocchezze e banalità, cioè lasciano affiorare la massa e il volgo che dormiva o se ne stava fin allora ben raf­ frenato in un cantuccio delle loro anime. Le cose che abbiamo ricordate, e che, come si è avvertito, non sono peregrine perché sono semplici dettati del buon senso e del retto sentire umano, possono tuttavia diventare peregrine. quando il buon senso e il retto sentire vengono smarriti e sviati. Ma se rendere tutti gli uomini superiori è pretesa contraddittoria e vana, e vano è ·del pari voler separare con una divisione assoluta gli uomini considerati superiori da quelli che si considerano inferiori, i quali gli uni e gli altri prendono quel carattere ed entrano in quel rapporto unicamente nell'organica unità sociale e nel moto della storia, che cosa dire dell'idea mistica della « massa », che si è venuta formando nel corso dell'ottocento e che ora par che abbia raggiunto il suo piu alto punto? È un'idea che ha percorso due stadi e ha preso due forme, la seconda ·delle quali, benché nasca dalla prima, in certo modo le . si oppone. « En France - si legge in una lettera del 1855 del Lanfrey a Maxime Du Camp e), - il n'y a plus d'hom­ mes. On a sistematiquement . tué l'homme au profit du peuple, des masses, comme disent nos legislateurs écervellés ». In effetto, l'immagi­ naria entità che si chiama « le peuple », il popolo, fu dapprima in­ tesa come il serbatoio di quanto di piu raro e di pii! nobile e di piu profondamente razionale è nell'uomo, la piu diretta espressione di Dio ; e poi ·da questa immaginazione alquanto idilliaca si passò al­ l'altra di una potenza misteriosa, irra�ionale e irresistibile, « la mas­ sa », di cui bisogna interpretare le spesso oscure ed involute volontà ed eseguirle. La forma idilliaca dié luogo a dolorose delusioni : « Et puis - continua la lettera citata un beau jour on s'est aperçu que ce peuple n'avait jamais existé qu'en projet et que ces masses étaient un troupeau mipartie de moutons et de tigres. C'est une triste histoire. Nous avons a relever l'ame humaine contre l'aveu.

(3) M. Du CAMP, Souvenirs littéraires (Paris, Hachette, 1883), l, 275 (N.d.A.).

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gle et brutale tyrannie des multitudes ». Ma la seconda forma, l'idea irrazionale della massa, troppo bene viene incontro al dominante irrazionalismo contemporaneo, e con esso si disposa e solo insieme con esso ca·drà. (Discorsi di varia filosofia, vol. Il, Bari, Laterza, 1945, pp. 184-188).

9.

PANTALEO CARABELLESE

l. L'EQUIVOCO DELLA FILOSOFIA TRASCENDENTALE Kant trovò, a suo avviso, che la filosofia non risolveva come meta­ fisica il problema oggettivo che era suo compito risolvere. Empirismo e razionalismo innatistico volevano, ciascuno per sé, questa assoluta scienza, la quale, tra i due indirizzi che se la dispu­ tavano, poneva apertamente capo alla negazione scettica. E se e finché, pensò Kant, questa pretesa scienza assoluta sarà affermata come propria, con ragioni persuasive almeno all'apparenza, da parti opposte, essa non sarà la scienza che si cerca. Egli propose, quindi, come problema la filosofia a se stessa : cercò se e come mai la filosofia fosse possibile. Questo il problema della Critica. Kant credette di averlo risoluto con la scoperta della sintesi a priori : questa renderebbe possibile la costruzione della scienza metafisica unica e assoluta, la quale cosi 's aldamente fondata non po­ trebbe pio esser tratta da indirizzi opposti in contrarie formazioni escludentisi reciprocamente. La sintesi a priori infatti, scopre Kant, dà sempre l'oggetto alla scienza : deve dunque darlo a quella assoluta scienza che è la metafisica, o non v'hà scienza affatto. E con la salda persuasione che scienza invece c'è, Kant si mise alla costruzione della metafisica critica : mori insoddisfatto per non averla data. E non poteva darla rimanendo nei limiti della suà critica ; giacché la sintesi a priori che egli ci presentava, importava anche elementi sensibili benché puri, e la filosofia invece, a suo avviso, ricercava il soprasensibile, perché ricercava l'in sé, che, come tale, nel sensibile non può trovarsi. Con la sintesi a priori scoperta dalla Critica non si poteva dunque costruire la metafisica, e perciò la Critica non aveva colpito al segno, non aveva risoluto il suo problema, perché, non ci ·dava la possibilità della assoluta scienza : la scienza dell'essere in sé. Con la Critica kantiana quindi non si era risoluto neppure il problema interno della filosofia, che essa aveva avuto il merito di p orre : non si era risoluto, appunto perché il mezzo offerto (la sintesi a priori) ,

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per risolvere il problema oggettivo si mostrava inadeguato alla bisogna. La soluzione del problema interno (problema critico) richie­ deva la possibilità di una soluzione del problema oggettivo. Comunque però Kant, con questo proporre alla filosofia il pro­ blema di se stessa, aveva posto, per primo, esplicito tal problema interno della filosofia, la quale, in questo suo problema interno, egli disse trascendentale. Ora, quando noi senz'altro, di fronte alla proclamata impossi­ bilità di raggiungere l'essere in sè e quindi di risolvere il problema oggettivo della filosofia, dichiariamo che non v'ha altra filosofia che la stessa Critica in quanto filosofia trascendentale, cioè filosofia che volutamente ha fatto astrazione dall'essere per risolvere il problema del conoscere tale essere ; - quando ciò dichiariamo, non facciamo che dimenticare o sopprimere il problema oggettivo che la filosofia deve risolvere, dimenticarlo o sopprimerlo proprio perché ci risulta di impossibile soluzione. Ma non volevamo noi sapere appunto questo : se fosse possibile o no una metafisica? Possiamo sostituire la nostra stessa ricerca, solo perché questa ci ha portato invece che alla sperata e cercata possibilità, alla impossibilità ? O questa ritrovata impossibilità invece non ci riconduce · a quello scetticismo che vole­ vamo superare, sia che si ammetta valida l'indagine fatta, sia che dalla constatata impossibilità sia tolto valore anche all'indagine stessa ? Né ci si dica che questo essere in sé, che col suo problema ogget­ tivo la filosofia vuoi cogliere, è un mito o un radicato errore della coscienza volgare, giacché, come esplicitamente vedremo poi ( ...), la negazione dell'essere in sé nega l'oggetto, · e l'oggetto negativo nega anche la coscienza, che è innegabile. Per ora guardiamo la cosa dal punto di vista del problema interno della filosofia. E un problema interno non c'è, se non c'è un pro­ blema oggettivo. Problema oggettivo che non esiste, se la filosofia si riduce alla Critica cioè all'esame della possibilità che una filosofia ci sia. Questa riduzione doveva menare, e menò, alla dissoluzione della filosofia pur nella sua esaltazione. ( ...) L'essere la filosofia oggetto a se stessa è certo un compito della filosofia, ma solo in quanto essa ha già assolto, o assolve insieme, o potrà cosi assolvere il suo compito oggettivo : cogliere e presentare l'essere in universale, l'in sé. ( ... ) Il problema che Kant ha posto, è certo fondamentalissima sco­ perta per il progredire del pensiero speculativo attraverso la piu radicale trasformazione, ma non ha diritto di sostituirsi sic et si� pliciter al problema oggettivo della filosofia, senza togliere anche a se stesso il terreno sotto i piedi e svanire quindi anch'esso. La Critica,

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col suo punto di partenza, non esclude ma richiede la metafisica. Né può escluderla col suo punto di arrivo senza sopprimere anche il punto di partenza e quindi dimostrare la propria vanità. E non può neppure sostituire se stessa, come indagine circa la possibilità del conoscere, alla metafisica ; non può considerarsi essa come la stessa metafisica cercata. Non può, perché, insieme con la dimostrata soppressione del problema oggettivo della filosofia, viene ad essere soppresso, di necessità, anche l'oggetto della conoscenza. E l'oggetto, come vedremo nel capitolo seguente, non è sopprimihile. Cosi l'equivoco storico che abbiamo detto di sostituzione inconsa­ pevole ·del problema interno al problema oggettivo della filosofia, trova il suo coronamento ed il suo presupposto insieme nell'annul­ lamento dell'oggetto. Sono due processi che si condizionano a vicenda, e che hanno la fonte unica del loro errore in un permanere di un motivo di realismo naturalistico nell'indirizzo che tale realismo vuole combattere. ( ..) .

2. PoSSIBILITÀ DELLA METAFISICA CRITICA Se, adunque, la filosofia trascendentale non è una soluzione dell'an­ titesi, in cui si dibatteva Kant, tra Critica e metafisica, non ci ritro­ viamo senz'altro in questa antitesi tra il risultato della Critica, l'inco­ noscibilità dell'essere in sé, e l'esigenza metafisica di una scienza di tale essere ? ( .. ) Senza dubbio Kant esplicitamente affermava come risultato fon­ damentale della sua Critica l'inconoscibilità dell'essere (cosa in sé). Ma è veramente questo il risultato della Critica ? Io credo di aver dimostrato ( ...) che il risultato vero della Critica, invece, è la noume­ nicità dell'essere in sé come puro oggetto, cioè la riduzione della cosa in sé ad Idea. In breve, risultato della Critica è la dimostrazione che l'essere in sé è l'oggetto della coscienza. Dimostrazione che par nulla ed è tutto ; e non è niente affatto un ritorno all'antico ontolo­ gismo realistico, in vista del quale Kant quasi si affrettava a can­ cellare questa sua scoperta aggiungendo che tale essere, pur pensabile, è assolutamente inconoscibile, in quanto è principio della conoscenza ma non è immanente a questa. L'essere realistico è appunto l'inconoscihile kantiano ; ma questo essere non è l'essere della Critica. Non aver saputo scoprire questo essere, l'aver preso come punto di partenza l'inconoscihilità dell'es­ sere e l'aver quindi conservata la concezione realistica dell'essere è il torto dell'idealismo postkantiano. È, come vedremo, questa conce­ zione realistica che mena alla negatività dell'essere e quindi alla .

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logica contraddittoria come logica del pensiero speculativo e quindi ·del Concreto. Se, adunque, la noumenicità dell'Essere in sé e cioè il suo costi­ tuire la ragion;e è il risultato vero della Critica, se cioè la ragione, istituendo questo rigoroso esame della sua propria possibilità, scopre che l'essere in sé non può non essere immanente a lei stessa, è chiaro che quella incompat:ihilità che si è messa in evidenza tra Critica e metafisica non esiste, e che quindi il processo storico che da questa incompatibilità è nato per risolvere in un qualche modo il problema della Critica, non fa che conti_nuare, portandolo alle sue estreme conseguenze, quell'imbarazzo in cui la Critica veniva a trovarsi, perché da una parte esigeva, per il suo stesso costituirsi come Critica, il risoluto abbandono di ogni concezione realistica dell'essere, e dal­ l'altra, per il suo stesso porsi solo come Critica della conoscenza, e non della . stessa coscienza nella sua integrità, richiedeva anche il con­ servarsi di tale concezione realistica. La cosiddetta logica trascendentale come logica speculativa e quindi del non empirico concreto, la logica contraddittoria non è che l'elevazione ad assoluto di questo imbarazzo : il riconoscimento, cioè, che il problema della Critica non è risoluhile, se non dichiarandone l'insoluhilità, cioè facendo la Critica fine a se stessa mentre por si conserva il suo concetto di Critica e cioè di mezzo ·di valutazione del potere conoscitivo che deve costruire la metafisica ; non è riso­ lubile, se non concependo la Critica come metafisica solo in quanto critica ; non è risoluhile, se non confondendo il problema interno col problema oggettivo della filosofia, e quindi confondendo l'essere in sé assoluto di quest'ultimo con l'essere concreto nel quale esso si realizza dando luogo anche alla filosofia ; non è risoluhile, se non ponendo la stessa filosofia ( e cioè la stessa Critica) come l'unico concreto. Tutto questo vario formularsi della contraddizione elevata a principio sommo ( e quindi escludente ogni principio col suo contrad­ dirsi) non è che la contraddizione del realismo vista nella soluzione del problema interno della filosofia. Perché tutta questa formula­ zione fosse vera, bisognerebbe accettare come vero il realismo stesso : solo se il realismo ( inteso come assoluta esteriQrità dell'essere alla coscienza) fosse vero, sarebbe vero anche il dialettismo contrad­ dittorio. Ma proprio tale premessa la Critica ha dimostrata falsa. E solo con questa dimostrazione ha vinto Hurne : vittoria su Hurne, di cui il dialettismo contraddittorio non spoglia la Critica, ma che invece presuppone come fondamento del suo sviluppo. La Critica dunque ha assolto il suo compito ponendo capo alla nou-

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menica Idea come Essere essenziale alla ragione e costitutivo unico di essa nella diversità fondamentale delle sue forme di coscienza. L'essere in sé, dopo la indagine critica, è ricomparso proprio come 't'Ò ov TI ov di Aristotele, cioè coine l'essere nella sua assoluta semplicità, principio costitutivo di ogni ·correlatività, ma non correla­ tivo egli stesso come tale. È ricomparso con quella maggiore sem­ plicità e profondità insieme che, dopo tanto sviluppo di pensiero speculativo, solo la rivoluzione critica poté in esso disvelare. Ponendo capo a questo Essere, la Critica non si è resa incompa­ tibile con la metafisica, ma ha di questa dimostrata, come voleva, la possibilità.

3. IL NUOVO CONCETTO DI METAFISICA Una metafisica critica è, dunque, possibile. Ma sarà sempre quella scienza unica ed assoluta dell'essere, che non consepte disparità e tanto meno contrasto di vedute, quella scienza fissa ed immutabile che invano Kant si . affannò a cercare ed a costruire ? Una scienza cosiffatta sarebbe ancora . e sempre la metafisica dogmatica ; non sarebbe critica. Giacché l'incompatibilità che veramente la critica kantiana scopre, pur senza che Kant se ne accorga affatto, non è tra la Critica che ha per oggetto il conoscere e la metafisica che ha per oggetto l'essere in sé, ma tra la Critica che è sempre essenziale al conoscere come Kant per primo ha esplicitamente messo in luce, e la scientificità d'ella metafisica, scientificità che Kant ha presupposto senza Cri­ tica. ( . ..) Quindi l'impostazione stessa della Critica importava già la nega­ zione dell'oggetto come tale. Negazione che Kant non vedeva. E non poteva vedere, giacché proprio quel concetto realistico di oggetto suscitò in lui il problema critico. Si fece chiara con lo svilupparsi della Critica in metafisica, ed apparve quindi come un risultato di tale sviluppo, una conquista del Criticismo metafisico. Era sol­ tanto una deduzione da quel concetto in campo critico.

4. L'ALTERITÀ :t'iON È ESTRANEITÀ Può un tale concetto accettarsi? Per rispondere bisogna cominciare dall'intendere lo stesso con­ cetto di alterità.

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Per la co,scienza comune (e intendo coscienza non nella sua in­ coerenza volgare, ma coscienza nella massima sua coerenza che è concretezza) altro è, si, altro dall'uno, del quale è altro, ma appunto per essere altro di quell'uno, è proprio come l'uno. Il che ci è con­ fermato dall'uso linguistico : per dire che un galantuomo è stato ·depredato da ladri, non diciamo che egli è stato spogliato da altri ladri. I ladri posti come altri dall'uno chiamerebbero anche questo in loro compagnia. In breve : alterità importa moltiplicazione, non negazione e neppure estraneità. C'è dunque un primo errore nella concezione dell'oggetto, quando si concepisce l'alterità come estraneità ( .. ). .

5. L'OGGETTO ( ESSERE PRESENTE NELLA COSCIENZA) NON È ALTERITÀ Ma è poi veramente questo di essere altro dal soggetto il carattere dell'oggetto? Se noi spogliamo l'alterità della concezione realistica che l'ha deformata e camuffata, troviamo che essa indica moltiplicazione omo­ genea ; e, se anche non vogliamo far quistione di omogeneità ed etero­ geneità, troviamo che l'alterità importa essenzialmente moltiplica­ zione : l'altro richiede essenzialmente l'uno. Ora una tale moltiplicazione dalla schietta esigenza oggettiva non solo non è richiamata, ma esclusa. Oggettività ha significato sempre consentire dei soggetti costringenti in essa la propria molteplicità, consentire che si è detto universalità, necessità o com'altro si voglia ; oggettività ha significato sempre unica essenzialità costitutiva del molteplice reale. E significare, quando il genuino significato non sia tratto ad erronee interpretazioni, vuoi dire appunto esprimere l'intima esigenza della coscienza. Se anche qui ricorriamo alla coscienza comune, troviamo che comunque si sviluppi o si riduca quel concetto di oggetto, che è tanto essenziale alla coscienza che senza di esso questa piu non ci sarebbe, l'oggetto è sempre l'essere in sé che è presente nella coscienza. Pare, questa, l'oggettività del realismo ingenuo, ed è invece, a chi ben la guardi, quella del piu scaltrito idealismo. « Presenza nella coscienza », e quindi interiorità non esteriorità ; « essere in sé » e quindi costitutivo anche di ciò in cui è presente come esserè. Costitutivo quindi anche di quel soggetto, che, come tale, lasciato nella pura alterità, nella schietta reciprocità col tu ( . ), non avrebbe essere, non sarebbe, come non sarebbe il reciproco tu. Oggetto è dunque l'essere unico costitutivo ·di tutti questi reciproci nella loro alterità. È l'unicità ; non è la molteplicità. L'oggetto non è dunque .

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lo « spezzarsi in esseri distinti, di cui ciascuno è esso stesso la tota­ lità » ; non è quindi l' « assoluta contraddizione della indipendenza completa del molteplice, e della dipendenza altresi completa della medesima indipendenza ». (HEGEL, Enciclop., § 194). Nella oggèttività pura non c'è lo spezzarsi e quindi non c'è la contraddizione. Se questa ci sia nel concreto, è cosa da vedere e che vedremo a suo tempo. L'alterità adunque non è caratteristica della oggettività pura. Nella coscienza l'oggetto non è vissuto come altro dal soggetto. (Il problema teologico come filosofia, Roma, Tipografia del Senato, 1931, pp. 8-23).

6.

IL PROBLEMA DI DIO NELLA FILOSOFIA

La filosofia ( .. .) non si esaurisce nel problema di se stessa. Ha anche il suo problema oggettivo, perché è positivo l'essere in sé, che essa tenta ; ricompare l'antico ed eterno problema che non finirà mai di essere tale, pur con tutti gli innegabili sviluppi che le sue soluzioni attuano. La distinzione però del problema interno da quello oggettivo della filosofia importa anche (ed è questo, a mio avviso, un altro vantaggio della Critica posta ·da Kant) che si distingua il principio della filosofia dal suo oggetto. Senza questa distinzione risulta impossibile la Critica, e quindi impossibile la filosofia di cui questa vuoi darci la possibilità. Principio della filosofia non può essere che il concreto. Questo vuoi dire il nostro continuo richiamarci alla coscienza comune. Ri­ trovare in questo principio la ragione della filosofia nel suo sviluppo è risolvere il problema interno della filosofia, giacché è vedere come nel concreto possa e debba esserci il filosofare, è dar ragione della riflessione filosofica ( ... ). Ma la riflessione non è tale, cioè la filosofia non è filosofia, se suo oggetto rimane quello che è soltanto il suo principio : il concreto. Il concreto come tale non può divenire puro oggetto di checchesia o di chi si voglia. Ahbiam visto che la filosofia che voglia porlo come tale, necessariamente annulla sé. La causa ·di questo errore della ele­ vazione del concreto ad oggetto di scienza o di altro che si voglia, sta sempre nella concezione intellettualistica del concreto come og­ getto. Oggetto della filosofia rimane quello che è sempre stato, anche se non visto esplicitamente : l'essere in sé. E il problema oggettivo della filosofia sta appunto nel vedere come possa esserci nel con­ creto, da cui essa si dispicca, un essere in sé che di quel concreto è la universale oggettività. Questo vuoi dire essere la filosofia teoria del concreto : non, avere ad oggetto puro il concreto ; ma, avere come

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suo proprio oggetto l'oggettività pura del concreto. E si spiega poi quindi anche il determinarsi della filosofia in spe'ciali trattazioni ·dedotte dalla esigenza stessa dell'oggetto immanente al concreto. Ma di ciò non qui. Ora ci importa solo vedere che, se oggetto della filosofia è l'essere in sé, e l'essere in sé noi abbiamo ritrovato come oggetto puro, oggetto della filosofia è l'oggetto puro, cioè l'oggetto per eccellenza. Ogni altro sapere non è cosi schiettamente oggettivo, come pretende di essere la filosofia. La coscienza che questa sua è una pretesa ·dà alla filosofia da una parte il suo incontrastabile valore, dal­ l'altra l'ineliminabile slio moto. Per riguadagnare il problema ogget· tivo della filosofia, dobbiamo renderei esatto conto di questo : che l'essere in sé è l'oggetto della filosofia, in quanto è in sé stesso oggetto puro e non concretezza. Ora questo oggetto puro, noi abbiamo dimostrato ad esuberanza anche in lavori precedenti, è l'idea pura della ragione ; giacché per idea intendiamo, ed altro intendere non si può, proprio l'ogget· tività schietta di coscienza. La svalutazione astrattistica dell'idea è nata dal contrapporre tale oggettività di coscienza ad altra ogget· tività non di coscienza. L'idea riacquista il suo valore, quando l'oggettività è posta a suo luogo, entro la concreta coscienza, come esigenza di questa ; la si vede allora entro i soggetti, costitutiva di questi. L'essere in sé, dunque, che abbiamo scoperto · come lo stesso oggetto puro, proprio in quanto assoluto, ci si presenta, appunto perciò, come l'Idea. Idea quindi che costituisce l'in sé nel concreto ; è essa quindi l'in sé di ogni alterità e di ogni reale prodotto di questa, quando stiano nel .concreto. L' Idea perciò dev'essere quel quid unificante e quindi quell'assoluto Unico che abbiam visto dover essere la cosa in sé, quando se ne sia scoperta la sua essenza di oggettività pura. Or questa idea pura che come cosa in sé ci risulta sostanziare il concreto, e che è l'oggetto della filosofia, è Dio, o no? A che sia lo stesso Dio non si oppone certo il suo essere la cosa in sé, quando questa cosa in sé si sia intesa : non è certo, abbiam ripetuto a sufficienza, il fuori della coscienza e perciò il non-coscienza. Una tale cosa in sé certo non sarebbe Dio : l'essenza spirituale del­ l'essere si cominciò a scoprire proprio vedendosene l'esigenza anzi­ tutto in Dio. Porre quindi un Dio non spirituale, un Dio materia, non significherebbe nulla, se anche qualcosa significasse un essere materiale. Non si oppone neppure il suo essere assoluta idea, quando si pensi che l'idea nella sua assoluta purezza non è un qualunque fatto psicologico fattura del soggetto nella sua relatività, ma è la stessa assolutezza di coscienza che costituisce il soggetto e che cosi può im· porsi alla sua astratta singolarità. L'idea pura non è né dato né pro·

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dotto dal soggetto : è l'universalità della coscienza, cioè l'oggetto che il soggetto afferma. Tanto meno l'idea pura è quella idea innata, che presuppone non viva spiritualmente l'idea e precostituito il vivente come tale perché si faccia ricettivo dell'idea. Si oppone il fatto della distinzione, che pare, ed è effettivamente richiesta, tra quel che come Dio intendiamo e l'universo sia pur preso nella somma e massima complessità sua e comprensivo quindi anche della spirituale opera umana. Questa distinzione fa in generale rite­ nere ancora oggi da coloro che il problema di Dio si pongono, che non possa Dio essere ridotto a questa specie di sostanza spirituale che è l'idea come essere del mondo. Dio diverrebbe la natura stessa ; .e con questo avremmo perduto Dio e la spiritualità. Ma di questa distinzione tra Dio e mondo, io cre·do si possa dar ragione ( ...) Tutto sta a vedere la prima volta questo concreto, por­ tando la Critica, al di là della semplice conoscenza, nel cuore stesso .della concretezza. Soddisfare quindi si può quella esigenza, senza per questo dover ammettere al di là di quell'Assoluto che risulta l'oggettività del concreto, un Assoluto stante di là dal concreto e quindi quasi con una concretezza sua propria, che toglierebbe ogni valore anche di concretezza a quella di cui sentiamo di vivere anche quando e soprat­ tutto quando affermiamo Dio. L' Unico deve essere unico. O il con­ creto, e noi in esso con tutto il nostro pensiero, è un assoluto caos in cui non v'è unicità ; o quell'Unico che sostanzia il concreto è il solo ed assoluto Unico. E questo non ci sarebbe bisogno che fosse riaffermato ancora oggi dopo Plotino, Agostino, Anselmo, Cartesio, Malebranche, Spinoz�. Non ce ne sarebbe bisogno, se fino ad oggi il falso concetto dell'al­ terità non avesse resa insufficiente ogni dimostrazione dell'unicità dell'Assoluto : si è creduto il relativo come l'altro dell'Assoluto. E finché questo si crede, la relatività della natura sarà sempre saldo argomento per mettere al di là ·di questo relativo, come altro di questo, l'Assoluto. Ed allora il riconoscimento esplicito dell'Asso­ luto come Unico Essere in sé, sarà sempre una negazione del relativo, giacché l'altro Essere non v'ha. Quindi l'acosmismo, che può dirsi attuale in Spinoza, è virtuale negli stessi Malebranche e Cartesio. Quella distinzione tra Dio e il mondo, da cui siam mossi ad affer­ mare la trasc�ndenza di Dio, viene annullata proprio da questa tra­ scendenza, la quale sopprime un termine della distinzione stessa. L'essere in sé a·dunque o è l'Unico o non è assolutamente. Dal riconoscimento dei due esseri, Dio e mondo, era fatale ed inevitabile la caduta in un assoluto relativismo. Quella cosa in sé, adunque, che è l'Oggetto puro, essendo, come .

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tale, assoluta Unicità di coscienza, è quello che da tutti intendesi come· Spirito assoluto : è Dio. E se oggetto della filosofia è l'essere in sé, Dio sarà oggetto della filosofia ; e questo infatti fu e sarà sempre il problema fondamentale· della filosofia. Noi non abbiamo fatto altro che riscoprirlo come tale. Questo perdersi nella ricerca di Dio è la riflessione filosofica. In quello sforzo « nostro intelletto si profonda tanto che retro la memoria non può ire », sforzo che non è dunque ripetibile. Ricordarlo e ripe­ terlo è perderlo, è passare dalla viva filosofia alla coscienza volgare, illusione di filosofia, filosofia morta, che purtroppo spesso si dice buon senso. Se questo nostro sforzo ha quindi un valore, da esso si potrà o si dovrà prender le mosse, non ripeterlo : ripeterlo non è riviverlo, è ucciderlo. Con questa coscienza noi riprendiamo e trat­ tiamo gli sforzi finora fatti : sia detto questo per qualche coscienza piu ti.morata dei filosofi che della filosofia. Oggi, in campo filosofico, è raro sentir porre il problema di Dio. Non che lo si risolva negativamente : sarebbe sempre un porlo sia pure per additare le ragioni per cui Dio deve essere negato. Anzi raramente si trova chi si professa ateo o materialista. Di solito o si relega il problema tra gli insolubili enigmi, che l'uomo non ha proprio nessun interesse a risolvere, o all'opposto si ritiene che il problema sia comprensivo ·di tutti quanti gli altri nei quali si risolve e quindi non può porsi distintamente, o, infine, lo si dichiara senz'altro un problema inesistente. Problema inesistente, solo perché si è dimostrata l'insufficienza o. l'erroneità di una precedente soluzione che importava una prece­ dente posizione. E cosi con questa dichiarazione ci si dispensa dal vedere, di quella dimostrazione, i concetti o dogmaticamente assunti o erroneamente presupposti e, di fronte al problema, le conseguenze· della correzione o eliminazione di essi una volta riconosciutane la dogmaticità o erroneità ; ci si ·dispensa dal vedere del problema l'esi­ genza da cui nasce anche nella sua inesatta e quindi superabile posizione. Ma cosi ci si dispensa insieme dal filosofare : . si pongono a questo delle barriere insormontabili, proprio in nome di quella Critica, che,. se ha un valore, ha proprio quello di voler vedere, di aver visto le barriere e di aver con ciò posto la necessità di sormontarle. Dichiarare inesistente quella esigenza, solo perché si sono riconosciute false la posizione e la soluzione del problema che ne era nato, è chiudere gli occhi per non vedere, o applicarsi irremovibili paraocchi per non esser distratti dalla propria strada come si fa o si faceva per vivaci ·destrieri attaccati al cocchio, cui le briglie disciplinavano e mena­ vano : non è necessario che essi si guardino a fianco, ne sarebbero.

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disturbati e si adombrerebbero : c'è chi pensa a guidarli. Ma, non è superfluo ripeterlo, la filosofia con paraocchi non è piu filosofia, sia quando questi paraocchi siano imposti da un dogmatismo tradi­ zionale, sia quando siano formati di un antropologismo o antropo­ morfismo sia pur nato dalla Critica. Se si esclude a ragione che possano servire da imperscrutabile lume di verità concetti tradizionali o rivelati, si ritengano venerabili quanto si voglia, tanto piu devesi a ragione escludere che di siffatte bende ci si possa servire eliminando i problemi con la comoda ·dichia­ razione della loro inesistenza. Noi dunque non ci sentiamo di profittare di questa dichiarazione, perché non ci sentiamo di usufruire di nessuna di quelle dispense. Sarà cosi teologizzante la nostra filosofia, perché pone esplicito il problema di Dio, problema metafisico che una filosofia che voglia .esser moderna non deve porre ? Sia pure teologizzante : anzi la filosofia non è, e non può essere fondamentalmente che teologismo. Me ne dispiace per i teologi che .non vogliano saper nulla ·di filosofia ; ma me ne dispiace anche per chi crede di costruire una filosofia dello -spirito, dichiarando inesistente il problema di Dio. La filosofia, se qualcosa è nell'essenza sùa, è proprio Dio nella sua problematicità. Problematicità, che vuoi dire bisogno di dimostrazione. (Il problema teologico come filosofia, cit., pp. 136-141).

7. IL PRESUPPOSTO DELLA ESISTENZÀ La presupposta religiosità del problema di Dio, dunque, è conse­ guenza del falso concetto realistico di religione, il quale chiude questa in una speciale esperienza ·di Dio. Il non aver visto questo con chia­ rezza e l'aver quindi soppressa la religione nella sua specificità invece di ricercarne il piu profondo concetto, ha portato, attraverso la iden­ ·tificazione di religione e filosofia, al conseguente svanire di entrambe ridotte alla stessa concretezza, e allo svanire quindi del problema di 'Dio insieme con ogni problema : l'oggettività è dispersa in uno scettico relativismo o negata in un assolutistico attivismo soggettivo. Ora, come non è stata vista ancora con chiarezza l'indipendenza del problema teologico dalla religione, cosi, e proprio per questa mancata visione, non è stata vista la non esistenzialità di esso. Se da una parte, come con l'Ente giobertiano � l'Essere ideale rosminiano, si è intravista l'incompatibilità tra l'essenza di Dio e l'esistenza, dall'altra si è sempre poi cercato di non perdere in Dio anche l'esistenza ( Gioberti) o la sussistenza (Rosmini) e cosi si .è rinnegato per un verso quel che dall'altro si era conquistato.

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La verità è che senza portare la Critica, rinnovandola cosi profon­ damente, verso quello stesso concreto che fu scoperto dalla Critica kantiana, non è possibile sentire il valore profondo dell'immanentismo, le sue esigenze, il conseguente rinnovamento di tutti i problemi metafisici, e di tutte le concezioni della vita umana nel suo specifico agire ( ...). Non devo qui fare l'esame storico delle fugaci intuizioni che pur sempre si sono avute di questa incompatibilità tra Dio e l'esistenza. Dirò soltanto che quella impostazione moralistica del problema di Dio che va da Kant a Blondel o a Le Roy e che è il rimodernamento di una esigenza tradizionale, mentre da una parte è !;oscuro senso di questa incompatibilità tra l'esistere ed esser Dio, dall'altra riman sempre problema esistenziale di Dio ( . .) Il quale perciò in questa sua forma non è il problema teologico nato dall'oggetto puro come oggetto della filosofia, ma è soltanto una falsificazione del problema di Dio, della quale abbiam vista l'origine. Se, infatti, Dio è essere in sé, e l'esistere invece è essere in rèla­ zione, dire che Dio come tale esiste, comunque si intenda l'esistere, è pronunciare verbalmente soltanto una contra-ddizione, ma non dire nulla : affermare l'esistenza di Dio è negare Dio. Questo non vedeva Gioberti, quando, pur dopo aver distinto tra ente ed esistente ed aver posto quest'ultimo come concreto, indivi­ duale e singolare, cercava di dimostrare queste proprietà nello stesso Ente reale assoluto, il quale « è adunque astratto e concreto, generale e particolare, individuale ed universale ad un tempo » (Introd. allo studio della filos., Libro I, cap. IV ; ediz. di Capolago, 1846, vol. II, pag. 170). Questo non vedeva neppure Rosmini, quando, rinnegando la logica intima della sua dottrina che era proprio sulla via di questa nuova scoperta speculativa di Dio, questo non vedeva quando diceva che ciò che distingue Dio dall'essere è la sussistenza, giacché « il concetto di Dio importa un subietto personale » ( Teosofia IV, pag. Il). Il fondamento di questo errore è sempre il pregiudizio che possa esserci una alte!l'ità di fronte all'assoluto essere. Di questo non ci può essere altro, perché ogni altro è in esso, cioè non è altro di fronte ad esso. Che questa esistenza, che di Dio vogliamo affermare per poter­ affermarlo, non possa essere il realistico di là dalla coscienza e quindi non coscienza, a cui riducono l'esistere il realismo dogmatico accettandolo, e l'idealismo trascendentale negandolo, è chiaro già da tutto quanto abbiamo detto. E la ragione è semplicissima : l'esi­ stere, quell'esistere che la coscienza comune ci dà, non è cotesto. .

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L'esistere non è una negazione. E tanto meno questa negazione ( nega­ zione di coscienza) potrebbe attribuirsi a Dio, del quale riconosciamo come essenza la spiritualità, cioè l'essere in coscienza. Chiedere, dunque, che Dio abbia questa realistica esistenza, che esaminata da vicino si risolve in un puro e semplice non senso piu ancora che in un assurdo, è non sapere quello che si dice. Né si esce dal non-senso, co�e si crede, quando si duplica l'esi· stenza cosi intesa, in esistenza della materia, ed esistenza dello· spirito. Non si fa cosi che duplicare il non-senso. Da una parte� dicendo esistenza della materia, si duplica, col preteso concetto rea· listico di materia, la negazione in cui si fa consistere l'esistenza ; dall'altra, ·dicendo esistenza dello spirito, si nega quel che si vuole affermare, lo spirito. E quando si creda di non aver negato lo spirito� ma ·di averlo affermato come tale ponendone uno come assoluto di là dal mio atto di coscienza che l'afferma, e quindi di là dal mio spirito e pur sempre spirito e Spirito assoluto, allora nel momento in cui facciamo Dio esistente proprio come Dio, come Spirito assoluto di là da me, in quel momento stesso, oltreché la natura, anche tutti gli spiriti finiti finiscono immediatamente di esistere. Tutto diviene pro­ dotto di Dio, e, in quanto tale, passivo o almeno inattivo. Inattivo pro­ dotto, e quindi non spiritualità, sia che lo si consideri berkeleyanamen· te come ]abile mutevole idea, sia che lo si consideri spinozianamente come res fixa et aeterno.. Invano Berkeley cercò di salvare gli spiriti infiniti, quando ebbe ridotto l'essere ad idea soltanto di Dio. O gli spiriti finiti sono anch'essi, in quanto sono, idea di Dio e cadranno nella mutevolezza, nella passività ·di questa idea ; o essi sono vera­ mente spirito, e non possono non essere sostanziati di Dio. Affermare dunque l'esistenza di Dio è negare Dio, rendendo impossibile uno spirito che lo affermi. Non dunque l'esistenza realistica è quella che potremmo ritrovare mai in Dio : Dio sarebbe la pura e semplice negazione, l'assurda cosa in sé precedente causale del sentire, non la cosa in sé quale dalla Critica del concreto risulta. L'assurdo della esistenza realistica si moltiplica all'infinito, quando vogliamo anche di Dio trovare tale esistenza. · Ancor meno di tale esistenza realistica, può convenire a Dio quella che abbiamo trovata propria della cosa reale della esperienza� e che, abbiamo visto, presuppone l'esistenza invece ·di possederla. È cotesta quella empiricità, a cui l'idealismo post-kantiano crede di aver ridotta l'esistenza stessa ; è la realistica esistenza contingente del dogmatismo precritico. E non c'è bisogno di ripetere oggi quello che da Platone in poi tutti coloro che han cercato di veder chiaro nel massimo dei problemi,

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hanno, in un modo o in un altro, affermato, che cioè non troveremo mai Dio come una cosa reale tra cose reali, e neppure come la somma e comprensiva cosa reale, l'universo, la natura o com'altro dir si voglia. E nei piu alti sforzi speculativi fatti per divinizzare la natura, che preludevano alla scoperta della immanenza, come in Bruno o in Spinoza, sempre il Dio non era la natura naturata, questa contingente realtà che sperimentiamo, ma la natura naturans che sfugge ad ogni esperienza, ma pur vi costringe all'assenso nella rifles­ sione speculativa. Non c'è bisogno di ripeter ciò ; _ ma c'è pur bisogno ·di richiamarvi su l'attenzione, perché, dopo la dimostrazione, della quale certo il merito maggiore è di Hegel, che la trascè ndenza assoluta è un non­ senso, non si cada nell'opposto non-senso che cioè lo stesso Tutto con le sue relazioni, con le sue partizioni primitive (Urtheilungen) sia lo stesso .Assoluto, e che cioè l'Assoluto sia la totalità del relativo. È questo, negare la distinzione spinoziana senza vedere quel Concreto che quella distinzione ci trasforma e ci fa comprendere mostrandoci l'esigenza da cui nasce. E da tal pericolo non ha certo saputo sal­ varsi Hegel. Non aver visto che l'esistere non è quel di là negativo di coscienza, in cui lo pone il realismo, ma ha, invece, proprio come esistere, un valore nella coscienza, ha fatto si che insieme con l'esistere fosse cacciato daJla coscienza anche il problema di Dio, e si finisse quindi, quando imperiosa la coscienza poneva di questo l'esigenza, col vedere Dio come lo stesso Concreto, col fare assoluto il concreto, e cosi tutto confondere. Distinguere Dio dal concreto non è, checché pensi Hegel, cadere, come egli dice, nel Dio astratto dei teologi, impene­ trabile nella sua essenza, di là da · questo nostro mondo di coscienza. È invece vivere, da una parte, la positività dell'esistere come tale, del nostro esistere, e sentire, dall'altra, l'unicità ·dell'Essere nella assolu­ tezza sua, che non è la negazione, l'opposto del relativo esistere, ma bensi il principio immanente, che nell'esistere non si nega, ma si mol­ tiplica. Moltiplicazione (numero) che. non è negazione di unicità ; ma... m01ltiplicazione ( ... ): l' Unico come tale non nega il numero ; il numero non nega l'Unico. L'antitesi tra finito e infinito Hegel la prende di peso dall'antico dogmatismo e nessuna forma di hegelismo ancora riesce a liherarsene. È forse incalcolabile la confusione di cui fu innocente creatore Fichte con quella intromissione di quel suo metodo dialettico della contraddizione, cosi germanicamente sviluppato fino alla soffocazione da Hegel.

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8. IL PRESUPPOSTO DELL'ESISTENZA : LA SOGGETTIVITÀ Resta che Dio possa avere quella esistenza, la cui positività noi abbiamo salvata dalla ·distruzione del realismo. Tale esistenza, abbiam mostrato, è la stessa soggettività, chiaritasi come alterità. Esistenza è questa alterità nella coscienza e non opposta alla coscienza. Dio sarebbe proprio l'altro da noi, l'assoluto Altro, il quale, appunto perché « Altro » sia pure assoluto, è in reciprocità con noi. E cosi appunto Egli esiste come Dio. Ora . certo chi non si rende conto di questa reciprocità e vuoi non essere nel pregiudizio realistico, non dice nulla, quando afferma l'esistenza di Dio. Giacché o nega la sua propria esistenza anche nella affermazione che fa di tale esistenza di Dio, e naturalmente non esiste neppure questa àffermazione ; o afferma questa sua propria esistenza con quella affermazione, e, se tale esistenza non è la soprad· detta reciprocità, questo suo esistere con questa sua affermazione è il Dio che esiste : cioè ,n on esiste veramente Dio ma io che ne affermo l'esistenza. In entrambi i casi dunque l'esistenza di Dio non è affermata. Se si vuoi dare dunque un significato a questa esistenza di Dio, bisogna veder Dio come soggetto in reciprocità con me. In questo rapporto ·di alterità Dio allora · risulta un io come me. È coerente quindi chi affermando l'esistenza di Dio, l'afferma come soggetto. Pare cosi che con questa posizione idealistièa di Dio come Soggetto assoluto in rapporto di soggettività con gli altri soggetti, siano suscet­ tibili di soluzione insieme le quistioni della esistenza, della perso­ nalità, della trascendenza di Dio. L'esser soggetto di Dio infatti sarebbe la sua stessa esistenza, come il mio esistere è proprio il mio esser soggetto. Inoltre quel rapporto di alterità che Dio avrebbe con me spiegherebbe da una parte l'immanenza di Lui in me e dall'altra la sua trascendenza. Avremmo quella trasceudenza relativa, di cui si è fatto sostenitore il Varisco. Ma si può veramente accettare una tale soggettività di Dio, cioè una sua reciprocità . con me ? Certo, eliminato il realismo, esistenza e soggettività di Dio devono stare o cadere insieme. Questa affermazione, che pur è tanto nuova, par vecchia quanto la stessa speculazione : ripete il motivo della essenziale spiritualità di Dio. La sua novità dipende dall'aver visto che l'oggetto è tutt'altro che negazione di spiritualità, e il soggetto non è lo spirito, ma l'esi­ stere della spiritualità. Si può, dunque, accettare questa posizione di Dio in reciprocità con me ? Qualcuno può risolutamente dir di si, a condizione che l'Altro che

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è Dio di fronte a me, sia l'assoluto Altro. Questo assoluto Altro, proprio per questa assolutezza -della sua alterità, sarebbe l'Altro di tutti, l' « E"rEpoç -.wv lH.Àwv », per dirla con una frase, che qui si mani­ festa acconcia, forse del pitagorico Filolao ( 1). Ma, dopo tutta l'indagine fatta, forse non ho bisogno di spendere molte parole per far comprendere che questo rapporto di alterità, o senz'altro il rapporto non può essere con l'Assoluto. Dire l'Altro .assoluto è ancora un non senso, giacché la reciprocità richiesta dalla alterità è necessariamente bilaterale, e perciò se Dio, in quanto altro .da me, condiziona me, io in quanto altro da Dio, dovrei condizionare Dio. Porre adunque Dio nella reciprocità è negarne la incondizio­ natezza, cioè l'assolutezza. La soggettività è alterità ; Dio, proprio perché assoluto, non può essere soggetto, non può esistere. Si ricordi tutto quello che abbiamo detto circa l'alterità, e si vedrà chiaro che Dio non può essere « altro », e cosi esistere, senza entrare anche lui nella molteplicità, cessando di essere l'Unico, e diventando uno fra tanti, anche se di fronte a tutti gli altri. E perciò è, o mi sbaglio, anche fittizia l'immanenza di Dio in me. quando Egli sia un soggetto come me e perciò altro da me. Il principio immanente a me deve costituire me e non essere l'altro da me, col 11uale devo convenire o urtarmi : io non sono, nel mio essere, costituito dall'altro, col quale ho rapporto. Questo rapporto anzi richiede che l'altro che è il tu come tale, non costituisca il me che sono io, altro da quel « tu ». Il dare dunque all'esistenza il valore che -dalla indagine critica le risulta di alterità entro la coscienza, non solo non giustifica la posizione del problema di Dio come problema di esistenza, ma ce ne fa capire l'impossibilità. E perciò il porre il problema di Dio come il problema della soggettività di Lui se da una parte è certo un progresso di fronte alla impostazione tradizionale giacché almeno ci fa abbandonare l'esistenza nella grossolana sua accezione realistica, dall'altra non è che un modo, certo piu progredito, di continuare a porre il problema di Dio nella sua forma esistenziale. Per il problema di Dio non si tratta di distinguere tra esistenza realistica ed esistenza critica o con­ cretistica : qualunque esistenza non può essere di Dio come tale. E perciò anche l'esistenza critica come già quella realistica, attribuita a Dio, ne nega l'immanenza. E a noi invece Dio è risultato tale che non può �o n essere immanente : è lo stesso essere in sé. Quando dunque noi ci siamo a:ffacciati a quella concretezza che la critica del concreto ci ha scoperta e sappiamo quel che voglian dire soggetti ed oggetto, vediamo che proprio il falso presupposto della (l) Framm.

20, in DIELS,

Die Fragmente der Vorsokratiker,

Berlin, 19224 ; l,

318 (N.d.A.).

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esistenza di Dio ha posta l'esigenza della sua soggettività. Quando si vede invece che dando a Dio l'esistenza, lungi dall'affermarlo, lo si nega come Dio, si comprenderà anche che non si può porre il pro­ blema di Dio affermandone la personalità soggettiva : bisogna riso­ lutamente affermarne l'oggettività pura. Porne la soggettività è rica­ dere nella esistenza, che in quanto attribuita a Dio non fa che negarlo. ( Il problema teologico come fìlosOI/ia, cit., pp. 168-174).

9.

AsTRATTEZZA-CONCRETEZZA E TEORIA-PRATICA

Ma non vedete, dunque, ci si può obbiettare e), che voi stesso, in­ dagando la speciale natura della teoria e della pratica, avete in fondo finito col ritrovare che teoria è il concetto astratto dell'attività, è astratta conoscenza, e pratica invece è la concreta azione di quell'at­ tività, è concreto volere ? Per rispondere a questa obbiezione comincialno con l'intendere il binomio concreto-astratto, che pare identificarsi con quello pratico­ teorico. Questa identificazione è falsa. Se il rapporto astrattezza-concretezza valesse quello teoria-pra­ tica, la teoria sarebbe astrattezza e cosi reciprocamente ; la pratica sarebbe concretezza e cosi reciprocamente. La verità invece è, che sia la teoria che la pratica, se sono prese ciascuna per sé, sono, entrambe, aspetti separati dell'attività spiri­ tuale, e quindi entrambe, per tale loro separazione, astratte. Se infatti la pura pratica è la molteplicità e singolarità dell'attività, mentre la pura teoria ne è l'assoluta unicità e universalità, a chi ben rifletta è chiaro che è tanto astratta la pura pratica, quanto la pura teoria, a meno che non si voglia concepire la concretezza dell'attività come una assoluta molteplicità di enti separati, · dei quali non si potrebbe ammettere neppure la coesistenza, senza negare la assolutezza di quella separazione. Perciò né i termini dei · due binomi si equivalgono, né l'essenza dell'uno è identica a quella dell'altro. Non si equivalgono i termini, giacché il primo termine (l'astrat­ t�zza) del secondo binomio, lungi dall'identificarsi con uno dei ter­ mini ·dell'altro, li qualifica invece entrambi in quanto separati tra loro e perciò dal loro essere concreto, e l 'altro termine (concretezza), invece, qualifica proprio lo stesso essere del primo binomio (sintesi teorico-pratica). (2) Il Carahellese ha precedentemente sostenuto che teoria e pratica si possono distin­ guere, ma non separare ; separarle significa annullarle entrambe.

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E perciò niente affatto identici sono i due binomi. L'uno, teoria­ pratica, è essere, è, tutt'insieme concretezza, ed è perciò esplicabile con i termini dell'altra ; questa invece non è neppure esplicabile con i termini della . prima. Astratto è il non concreto, cioè essere in quanto separato da altro essere, cioè parte di essere, separata dal suo essere effettiy.o. Ed astra­ zione appunto è quell'operazione per cui noi dimezziamo l'atto per fermarci ad una parte di esso. Astratta è, quindi, la teoria di una attività, in quanto di questa cogliamo solo l'universalità unica, e questa fissiamo in un nostro concetto ; ma altrettanto astratta ne è la pratica, in quanto ne cogliamo solo la molteplicità singolare, e, nella ·discreta singolarità caotica ( s�nza unità) di questa, perdiamo l'attività, ci disperdiamo : l'atto non è piu concreto. È concreto il non discreto e perciò non astratto, cioè l'essere in quanto non ha limi�i, che lo separi da un altro rendendoli recipro­ camente estranei. Cioè è concreto, non la pratica degli atti, ma il loro essere, che è teoria e pratica insieme, e perciò stringe la propria singolare molteplicità nell'universalità unica ( ... ).

10. INSEPARABILITÀ RECIPROCA DELLA TEORIA E DELLA PRATICA Siamo cosi tornati per altra via all'affermazione già dianzi fatta che la teoria non solo non può essere separata dalla pratica, ma non è neppure, accanto a questa, una forma diversa di attività. Pure, se si domanda a qualcuno, se, in un qu�lunque campo della attività umana, si può esser pratici senza teoria, molto facilmente se ne ottiene una risposta affermativa, tratta, si dice, dalla esperienza. Non solo anzi, si dice, vi sono esempi di uomini che eccellono nella pratica di qualche cosa, pur non possedendone la teoria, ma accade anche sovente che la teoria turbi la pratica ; i teorici non saranno mai dei buoni pratici. Ecco qua un educatore ottimo che non solo non ha mai studiato pedagogia, ma non si è neppure mai curato di ripensare ed esporre il proprio sistema educativo. Che possa trovarsi un tal tipo e che non sia raro, non può negarsi : la pedagogia stessa fu certo precorsa dalla educazione. Ma può ben negarsi, soggiungo io, che egli non vegga la teoria nel suo esser pratico, cioè nell'attuar la teoria. Quella pura pratiùa o non è pratica educativa, o ha in sé la sua brava teoria educativa. E se l'ha in sé, e se la pratica è fatta proprio da quell'educatore, questi ha in sé anche la teoria e ne è consapevole. Sapete soltanto

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di che cosa non è consapevole ? Della teoria in quanto astratta dalla pratica, perché non si è mai curato di fare questa astrazione e lascia che altri la faccia. E perciò non è consapevole neppure della pratica astratta, di quella che sola sarebbe in suo possesso. È invece consape­ vole, e ben consapevole, ·della concretezza del suo educare, se vera­ mente gli atti suoi singoli e diversi rispondono alla esigenza unica ed universale dell'educare. Ed egli perciò, pur non insegnando pedago­ gia, è vivente scuola di educazione, a quanti lo osservano, scolari, col­ leghi e maestri. Quel che si è detto per l'educatore ottimo, si dica per l'ottimo ar­ tista, che non abbia ripensata ed esposta la teoria della sua arte, si dli.ca per l'ottimo uomo, che della sua condotta non abbia esposto un sistema. Ottimi artisti e ottimi uomini, che saranno sempre, per tutti, le fonti vere dell'arte e della vita. L'uomo che opera da uomo, non può non sapere quello che fa� e se sa quello che fa, possiede la teoria della sua pratica. Pare, adunque, che quell'educatore sappia la teoria del propi-io fare, pur non professando pedagogia, cioè pur non avendo appresa nessuna dottrina educativa altrui, né curando di formarsene una pro­ pria. Ed ecco che cosa si intendeva dire, quando si rispondeva che si può esser pratici senza teoria : si intendeva dire che si può esser concreti senza dottrina, cioè senza la esplicita conoscenza della con­ creta forma di attività che si esercita. Per essere, adunque, esatti, e non equivocare, bisognerà alla domanda proposta rispon dere : In qualunque forma di attività umana si può essere attori concreti (teorici e pratici insieme} pur non essendo ·dei dottrinari. E cosi nella esatta risposta si vede anche qual doveva e voleva essere l'esatta domanda. Ugualmente si dica per la domanda inversa : se si possa esser teorico senza pratica. Par che l'esperienza di tutti i giorni ci con­ senta e ci imponga una risposta affermativa. Laddove l'esperienza invece non ci dice null'altro se non che si può esser dottrinari, cioè si può aver concettuale conoscenza di una forma di attività spirituale, senza attuarla. Ma non perdiamo di vista lo scopo di questa indagine, che è quello di stabilire l'esatto valore della teoria e della pratica. Se noi analizzia­ mo queste due mal formulate domande, che portano con sé natural­ mente due inesatte risposte, vediamo che alla prima domanda, men­ tre si vuoi sapere se la pratica può esser tale, per sé, senza la teoria, noi rispondiamo che può esserci una concreta forma · di attività in chi non ne abbia una esplicita dottrina ; e alla seconda, mentre si vuoi sapere se possa inversamente la teoria esser tale, per sé, senza la

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pratica, si risponde che può esserci una concettuale conoscenza di una� non esplicitamente professata, forma ·di attività. Cioè diciamo : Non vi può esser pratica senza teoria, ma si può, p. es., volere un atto senza conoscerlo ; non vi può esser teoria senza pratica, ma si può conoscere un fatto senza volerlo ( . ..).

Il. LA CONCRETEZZA DIVERSA DI CONOSCENZA E VOLONTÀ La precedente discussione, mentre ci ha fatto intender meglio la natura della concretezza, ha riaperta la via all'ohbiezione già formu­ lata a principio del paragrafo qua:n;o ( 3). In risposta ad essa, si è già dimostrato che il binomio teoria­ pratica non vale quello astrattezza-concretezza. Bisogna ora dimo­ strare che esso non vale neppure l'altro binomio conoscenza-volontà, e che non è vero che lo speciale valore ritrovato per la teoria e per la pratica non sia altro che la caratteristica, rispettivamente, della conoscenza e della volontà. Forse, a prima vista, cosi pare, ma appun­ to perché questa falsa identificazione, inavvertita, si ria:ffaccia a tur­ barne il genuino valore, come appunto avviene nelle due domande che abbiam testé discusse. Se il binomio astrattezza-concretezza fosse, e nei suoi termini e nella sua essenza, identico a quello di conoscenza-volontà, la diffe­ renza dimostrata tra il binomio teoria-pratica e quello astrattezza­ concretezza varrebbe anche per il binomio conoscenza-volontà, e non avremmo perciò bisogno di ulteriore dimostrazione. Ma, invece, se è diverso dire pratica e dire concretezza, è anche diverso dire astrattezza e dire conoscenza. Conoscenza e volontà sono entrambe concrete, sono, come direbbe il Croce, due distinti nel cam­ po ·dell'attività, e non due opposti. E ciascun distinto ha una sua propria speciale concretezza. La conoscenza perciò non è astrattezza. È bensi concretezza la volontà, ma è ugualmente · concretezza la cono­ scenza. Perciò, mentre la teoria e la pratica possano essere entrambe astratte, il conoscere e il volere sono entrambi concreti. E sono concreti, perché sono due diversi caratteri o momenti di attività. (Critica del concreto, Firenze, Sansoni, 19483,

(3) Qui, l'obiezione si trova al § 9.

pp. 11·17).

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12. LE DUE FORME DI TRASCENDENZA CONCRETA : a) LA TRASCEN· DENZA RELATIVA

La mia soggettività concreta sta nella mia coscienza singolare, in quanto individua l' Unico universale. Ora la coscienza universale, ch'io individuo, nella sua pura unicità non è singolare : l' Unico assoluto non è né un uno né i tanti. Perciò l'individuare, ch'io faccio, l'unica coscienza universale non è un chiudere in me tutte le sin­ golari coscienze in quanto tali, ma un chiuderle soltanto in quanto aventi, ciascuna, uno stesso valore di coscienza, cioè in quanto an­ ch'esse non sono puramente singolari, ma sono coscienza concreta. Questo « in quanto » fa si che io, nella mia concretezza, sia in rap­ porto con ciascun'altra coscienza singolare, e quindi comprenda le altre singolarità e sia da esse compreso. lo non sento l'altrui dolore (Varisco), ma il dolore è mio ed altrui : ciascuno nel sentire il suo proprio, sa anche l'altrui dolore. In genere : io singolare sono senziente, in quanto la cosa del senso, cioè la qualità sentita è nostra, è unica per tutti, ed è proprio, fon­ damentalmente, il sentimento in sé. Cosi io singolare intelligente, cioè uno di tanti intelligenti, sono intelligente in quanto unico è l'intelletto oggettivo che ci fa tali, e ·dall'individuare il quale ripe­ tiamo tutta la nostra concreta intelligenza. Si dica lo stesso per me volente nella volontà assoluta, che mi accomuna a tutti gli altri ( . ..). Solo a questo patto ci comprendiamo nel nostro sentire, intendere, volere, in generale nel nostro sapere. Ma per quanto io possa profondarmi in questa comprensione, per quanto io, per comprendere sempre meglio, mi sforzi da una parte di abbracciare tutta l'alterità, e dall'altra di riflettere esplicita nella mia individuale coscienza quella coscienza unica che è il prin­ cipio implicito di ogni mia attività, cioè per quanto io possa con quella attività che costituisce me concreto, vivere, fino ad una infinitesima approssimazione, la stessa coscienza universale (unica, senza nume­ ro) che anche altri vive nelle sue diverse forme, non mi porrò mai io come uno al posto dell'altro, come un altro, non lo sostituirò né sarò mai sostituito, come giammai farò esplicita senza residui l'uni­ cità nella universalità diversa delle sue forme. Per quest'ultima esplicazione intenderò sempre piu profondamente e quindi universal­ mente, per quella prima relazione comprenderò e sarò compreso sempre piu ampiamente ; ma appunto perciò non sarò mai l' Unico per esplicarlo che faccia, non sarò l'altro per quanto riesca a com­ prenderlo. L'altro, invece, proprio in quanto altro, cioè tu, trascen­ derà me ; ma soltanto cosi come io, proprio in quanto altro del tu, trascenderò l'altro. Il fatto adunque che tu trascendi me, non vuoi

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dire se non che tu, essendo un altro io, sei concreta coscienza, come sono io, in quanto anche tu sei un soggetto della coscienza- universale. L'altro, che è tu, vale me, che sono il tu di quell'altro. La coscienza universale, dunque, che immane nella nostra . reciproca compren­ sione, richiede, proprio per questa sua immanenza, la nostra reci­ proca trascen;d;enza (fusione dei due caratteri [ ... ] ), fa si che oia­ scuno resti insuperabilmente se stesso, non sia l'altro. Tutti noi, dunque, soggetti ci trascendiamo l'uno con l'altro, perché ciascuno, nell'ineliminabile rapporto con l'altro, è principio relativo dell'altro, e cosi intrinseco all'altro : il principio è sempre intrinseco, mai estrinseco. Ciascuno, quindi, in quanto singolare, è principio relativo non assoluto. I due caratteri ( ... ) dei distinti, nella trascendenza concreta dei soggetti tra loro, non possono essere disgiunti. Le monadi di Leibniz hanno il torto di aver disgiunta la trascendenza dalla intrinsecità � cioè di obbedire ancora al falso concetto della trascendenza come assoluta separazione : di qui tutte le difficoltà del leibnizianesimo. La trascendenza invece, abbiam visto, è inadeguabilità del principio da parte del concreto. Qui, in questa trascendenza relativa, i principi sono tanti, infiniti perché l'uno dell'altro ; e il concreto essere esplicito non adegua questa infinita pluralità di prinCipi pur intrinseci al con­ creto stesso : io, ciascuno, io, uno qualunque, resto ancor sempre inadeguato e inadeguabile da tutte le comprensioni che altri faccia di me. In questo trascenderei relativo, sta anche l'origine della nega­ zione ; della vera e propria negazione che è limitazione, non di quella negazione, che è errore. E si badi (sia detto tra parentesi e senza voler esaurire il fondamentale problema) : la negazione ha origine non dalla trascendenza, ma dalla reciprocità, e quindi dalla relatività, di questa trascendenza soggettiva. Quando si fa originare la negazione dalla trascendenza, si conserva il concetto, che abbiam visto falso, della trascendenza come separazione. E di qui appunto ha origine l'ele­ vazione della antiteticità a legge suprema della spiritualità : è una derivazione, non una correzione del falso concetto di trascendenza come esteriorità. La trascendenza nel concreto invece, sempre, richiede l'imma­ nente principio, non ostanti tutte le comprensioni ed esplicazioni ; non richiede la separ azione del trasceso dal trascendente. Il trascen­ dente immane nel trasceso : io in ciascuno ·degli altri, ciascuno degli altri in me. Questa trascendenza relativa, essendo richiesta proprio dalla im­ manenza dell'universale, che permette la reciproca compren sione, non è agnosticismo o scetticismo ( trascendenza gnoseologica), ma pe-

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renne sviluppo della coscienza. Quando io so che l'altro mi trascende, io so un distinto della mia concretezza, la mia singolarità. Ma lo so come saper si può e si deve, cioè rendend9mene ragione proprio con l'altra condizione, cioè la universalità. In fondo, quindi, la so facendo un atto concreto ·di coscienza, e quindi in realtà integrandola, e integrando perciò anche, come la singolarità con l'universalità, cosi la trascendenza con l'immanenza. E cosi so te intrinseco in me, come io sono in te, proprio in questo reciproco trascenderei. Se io in altro modo sap essi la mia singolarità, la falserei ( ... } ; perché la porrei concreta, mentre è solo un distinto della concre­ tezza. Perciò in e per tale trascendenza relativa, la coscienza mia sin­ golare cerca di sapere sempre p iu ampiamente, intendendo di cia­ scuno quella plurima immanenza, che, fusa con detta trascendenza relativa, costituisce l'essere concreto di quella alterità, della quale, io come tale, sono un singolare. Mi pare di avere cosi chiarita quella difficoltà ch'io altra volta mostravo ·dinanzi alla pluralità dei soggetti, e di averla chiarita pro­ prio per la via ch'io sin da allora indicavo. « Noi riteniamo, scrivevo, che la molteplicità dei soggetti sia come il necessario postulato di ogni interpretazione della realtà, ma devesi forse approfondire ancora il concetto del soggetto, per ricercare se possiamo realmente sfuggire al pericolo dell'agnosticismo » (4). Se amor ·della propria indagine non mi inganna, io credo di aver con questa penetrato un po' piu a fondo in tale natura del soggetto, vedendone non la particolarità, ma la singolarità reciproca, e di aver cosi salvata la imprescindibile plu­ ralità dei soggetti con la necessaria conoscibilità del concreto. Fin­ tantoché i soggetti si pongono, in quanto tali, come particolari centri, come unità che sono unificazioni, e piu ancora fintantoché si dà un con­ tenuto specifico al soggetto, sia esso sentimento o altro, è impossibile salvare poi la coscienza dell'essere. Bisogna vedere i soggetti nella loro purezza di singolari potenze agenti ( ... ), per poterne poi com­ prendere la loro molteplicità concreta. Piu ancora : bisogna vedere come coscienza non soltantò i soggetti in quanto tali, ma anche l'oggetto in quanto tale, per capire la èoncretezza. Se cominciamo con lo scac­ ciar via dalla coscienza l'oggetto, concependo la coscienza come sog­ getto, non ci sarà poi pin modo di rimenarvelo. È quanto finora s 'è fatto e continua a farsi. Cosi la tradizionale trascendenza gnoseologica dell'oggetto si traduce, in concreto, nella trascendenza relativa ·dei soggetti. Quella t:J:"ascendenza gnoseologica che ancora con Kant, anzi piu chiaramente proprio con lui, poneva l'impenetrabilità dell'essere in (4) L 'essere e il probl. relig., p. 43 (N.d.A.).

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sé, in quanto ogni essere vissuto dalla coscienza dei soggetti singolari era, in fondo, psichicità di questi, che nulla aveva a che fare con l'essere in sé, si chiarisce nella concreta coscienza come la relativa trascendenza reciproca dei soggetti singolari in quanto tali ; si chia­ risce come tale per aver semplicemente visto ciò, di cui Kant non si era accorto, che cioè anche i soggetti sono, hanno l'essere ( cosa in sé), non ne sono privi anzi lo hanno appunto perché conoscenti. Questa trascendenza soggettiva, che con formula valida per ogni forma di coscienza, possiamo dire alterità reciproca di coscienza, non può non rimanere in quella relatività che le è data ·dall'alterità. 13 . RELATIVITÀ DEL TUTTO .

Non può al contrario, parlarsi, nella concretezza della coscienza, di trascendenza relativa per la trascendenza dell' Unico assoluto. La trascendenza relativa è di ciò che ha relazioni, è del relativo ; non può essere dell'Assoluto. L'Assoluto, divenuto soggetto, non po­ trebbe che avere questa trascendenza relativa che hanno i soggetti, ma in questa necessariamente perderebbe la sua assolutezza. L'Assoluto, perché sia tale, dev'essere l'incondizionato univer­ sale, l'Oggetto puro, l'Unico ; Unico, che non è da confondere col Tutto dei concreti soggetti. Perciò anche la trascendenza del tutto, rispetto al singolare che ne fa parte, è trascendenza relativa, che in campo realistico si diceva gnoseologica e si credeva oggettiva ; non è ancora la trascendenza dell'Unico, quella cui vorrebbe rispondere la trascendenza tradizionale che abbiam detta religiosa. È una illusione quindi credere di soddisfare la nostra sete di asso­ luta oggettività, di raggiungere l'Assoluto, galoppando dietro questo concreto tutto, che piu inseguiamo e par che piu si allontani da noi, perché l'infinita soggettività tumultua in esso. E un disperato scetti­ cismo e pessimismo ci attende, se non ci accorgiamo che quel cavallo su cui noi stessi galoppiamo, fa parte di questo tutto e proprio col suo correre. Tale accorgimento ci darà una rinascita di ardore, per­ ché ci farà persuasi della capacità di inseguirlo, anche se dobbiamo rinunziare a raggiungerlo e fermarlo. Il Tutto, quindi, si pone nello stesso tempo come realtà attingibile ed attinta, e come sospirata. Fata Morgana, cui nessuno riesce mai a conquistare. Or certo il Tutto trascende sempre l'io che pur vi s'immerge con la sua individuazione dell'universale. lo, che sono individuazione dell'universale Unico, non sono individuazione del Tutto, il quale viceversa non risulta che proprio di queste individuazioni dell'uni­ versale, non avendo in sé null'altro che queste. lndividuazioni del

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Tutto non ce ne sono, perché il Tutto concreto consta di individua­ zioni, ma non si lascia individuare : neppure da Dio ( panteismo) ( .. .). Il Tutto, dunque, si, mi trascende, ma questa trascendenza del Tutto riguardo a me, che lo inseguo pur sapendo di non raggiungerlo· mai nella sua piena totalità, è, ripeto, sempre quella che dicemmo trascendenza relativa dei soggetti. Finché io cerco di ampliare sem: pre piii la mia coscienza, aspirando alla totalità, non sarò per questo e con questo uscito da quella reciprocità singolare, che è l'aspetto sog­ gettivo della coscienza. Famiglia, regione, popolo, umanità, vita,. si, trascenderanno me, ma anche io trascenderò come i singoli rac­ chiusi in queste totalità relative, anche queste stesse totalità relative,. appunto riconoscendole relative. E il Tutto, che . non mi risulta, tra­ scenderò, riconoscendolo soltanto e non l'Unico assoluto, trascenderò io stesso con la mia coscienza soggettiva pura. Questa irriducihilità del Tutto, nella reciproca condizionatezza dei suoi soggetti, ad Asso­ luto incondizionato vide con chiarezza Kant ; non la vide Hegel, . e tanto meno i suoi epigoni. Il Tutto non solo non riuscirà mai a soddisfare ma neppure ci farà riconoscere quella infinita sete di Assoluto messa in ciascuno di noi da quell'Unico che ci costituisce, da quell'Unico che ciascun di noi sente in seno, e nel cui mare, assoluto piii che infinito, era dolce annegare pel divino Recanatese. E solo invece il riconoscimento· di questa sete di assolutezza, darà valore a quella sempre piii ampia conquista del Tutto. Solo esso infatti può permettere quell'accorgi­ mento, che, dicemmo, fa proseguire quella ricerca e le dà un valore. Se, per noi uomini, la ricerca dovesse concludersi in una pragma­ tica conquista di una maggiore comodità di vita sulla terra, certo non avrebbe maggior valore di questa, cioè non avrebbe valore. Tale rico­ noscimento ·di quella che dicemmo sete di assolutezza non può es­ sere altro, in concreto, che consapevolezza che noi soggetti, in quanto e perché siamo coscienza, siamo coscienza dell'Unico assoluto. Se tali non fossimo, non saremmo coscienza. È una verità semplice, ma che, come tutte le verità semplici, si arriva a possedere esplicita dopo lungo travaglio. ·

114. LE DUE FORME CONCRETE DI TRASCENDENZA : b) LA TRASCE;N· DENZA ASSOLUTA Or quest'Oggetto puro, di cui noi siamo soggetti coscienti, questo Unico, di cui noi siamo i molti affermatori, trascende me? Senza al­ cun dubbio, se, quando poniaino questa domanda, siamo consapevoli di quel che diciamo e quindi la poniamo nell'unico significato che

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-essa può consentire ( ... ) e non in quello di assoluta separazione che il porre stesso della domanda esclude. E trascende non sola­ mente me, ma ciascuno di noi, trascende tutti e la totalità stessa, perché è Oggetto, e tutti noi siam soggetti, è Principio di attività e noi siam potenze agenti. E trascende me e tutti in modo che da Lui tutti rimaniam trascesi. E non rimaniam trascesi assolutamente noi in astratto, ma riman trasceso lo stesso nostro essere concreto. Nella trascendenza relativa dei soggetti ciascuno è trasceso e trascen­ dente a sua volta. Nella trascendenza assoluta dell'Oggetto, invece, .questo non è mai trasceso : il Principio che è veramente e soltanto principio, e non principio che è termine in quanto singolare indivi­ duo del Principio, tal Principio non si trascende. E perciò io non sono mai trascendente di fronte a Lui, come .dovrei essere se la trascendenza fosse intesa come quell'assoluta se­ parazione, quel netto « di là », che si credeva ·di concepire, ma non si è mai concepito. Né mai di esso veramente hanno parlato gli spiriti religiosi e metafisici che hanno affermato qualcos'altro piu che l'empirico esistere o vivere. Se ne parla oggi e con acre­ .dine da chi il probleiÌla metafisico non vive e non · pone : pro e contro, sempre astrattamente, sempre credendo di concepire la tra­ scendenza come la separazione dell'Assoluto dal relativo, ammessa dagli uni, negàta dagli altri. Ammettere tal trascendenza è ammettere ·che io relativo sia separato e quindi a mia volta trascenda l'Asso­ luto ; negarla è negare che l'Assoluto trascenda me nella soggettività mia. Sempre una falsità. La vera trascendenza assoluta, invece, che è esigenza di coscienza, è questa inadeguazione dell'Oggetto puro, .che la coscienza soggettiva sente di dover ammettere, fondandosi proprio sul suo esser coscien�a concreta, cioè avere un oggetto, cioè un principio della propria coscienza. Questa trascendenza dell'Oggetto, dunque, io devo ammettere proprio per la immanenza di Esso nella mia coscienza. Immanenza assoluta dunque ·dell'Oggetto come tale nei soggetti, ciascuno dei quali perciò Ne riconosce la trascendenzà di fr onte a se stesso, di fronte a t1;1tti, di fronte al concreto. Solo, dunque, la immanenza dell'Unico ai molti permette quella trascendenza assoluta che l'assoluto Principio non può non richie­ .dere. Nella trascendenza tradizionale io che ero trasceso, se. non ero annullato completamente (e quindi per questo non sarei stato nep­ pure trae;ceso), ero anche trascendente, perché anch'io separato da Lui. Cioè tra il Principio assoluto e me si stabiliva quella reciprocità di trascendenza che non può non togliere l'assolutezza e al Principio trascendente e alla trascendenza. Solo ammessa l'immanenza, ·dunque, è possibile salvare la tra·

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scendenza assoluta richiesta dall'assoluto Principio. Né trattasi di rapporto dialettico antitetico tra immanenza e trascendenza. L'imma­ nenza, dicemmo già ( ... ), non è l'opposto della tra&cendenza ma della estrinsecità ; e cosi la trascendenza non è l'opposto della im­ manenza ma della assoluta adeguazione. Il concreto esclude l'estrin· secità e l'adeguazione dei suoi distinti : chi l'ammetta non fa che con· trad·dirsi, non dice nulla, perché puramente e semplicemente toglie con quel che aggiunge ( estrinsecità e adeguazione) ciò che prima ha ammesso ( i distinti del concreto). Come, dunque, l'immanenza plu­ rima richiede la trascendenza relativa e insieme con questa costituisce la concretezza deli'alterità ( ... ), cosi l'immanenza unica richiede la trascendenza assoluta e, insieme con questa, costituisce la concre-· tezza della universalità. Col che si guardi bene di non ammettere una duplicità di con­ cretezze : la fusione dei due caratteri nei distinti come tali è quella loro fusione nei distinti ·concreti, che costituisce l'essere della co­ scienza ( .. . ). Cosi in concreto, mentre la trascendenza gnoseologica, che sì credeva trascendenza dell'assoluto oggetto alla coscienza, si riconosce come irriducihilità relativa di un soggetto concreto singolare all'altro,. la trascendenza religiosa, che pareva soltanto soggettiva, manifesta veramente la sua assolutezza nell'essere inadeguahilità dell'Oggetto· puro immanente nella coscienza dei soggetti. Trascendere è esser principio del trasceso, non può esser altro ; e il principio è sempre immanente nel principiato, se veramente è principio. Il prinCipiare reciproco è relatività soggettiva ; il principiare puro è assolutezza oggettiva. Questo distinguersi, in assoluta e relativa, della trascendenza,. che si attua nell'ambito stesso della coscienza concreta, è il riflesso· concreto dei due distinti fondamentali della coscienza stessa. La trascendenza è ·dunque nella coscienza, e perciò non è il realistico di là da questa, che è un concetto che dà alla sua esigenza soltanto una grossolana ed assurda soddisfazione. L'esigenza della trascendenza è invece l'esigenza che il concreto ha di un Principio,. esigenza che è soddisfatta relativamente dalla reciprocità condizionata dei soggetti e assolutamente dalla unicità universale dell'oggetto. ( Critica del concreto, cit., pp. 200-210).

15.

L'AMBIENTE COME COSCIENZA

Ciascuno di noi ha un determinato ambiente, nel quale pensa,. cioè opera con coscienza : geografico, razziale, nazionale, linguistico,.

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culturale, profes&ionale, ecc. Cosi l'ambiente determinato è qualita­ tivamente limitato, cioè è differenziato. Ma, . ancora, in ciascuna di queste determinazioni qualitative c'è una limitazione quantitativa ; . l'ambiente da differenziato si fa anche parziale : l'ambiente nazionale Italia non è l'ambiente nazionale Germania. Tale determinatezza dell'ambiente, cioè la sua differenziazione . e parzialità, fa si che ciascuno di noi sia incluso in un certo ambiente ed escluso ·da un cert'altro : il partirsi dell'ambiente nazionale esclude me italiano dall'ambiente Germania e te tedesco dall'ambiente Italia. Ma c'è, nel nostro fare con coscienza, un ambiente, nel quale -&ia compreso ciascuno senza eccezioni di sorta ? Per poco che si rifletta, si troverà che un siffatto ambiente comune non solo non è da escludere, ma è richiesto dallo stesso fare con coscienza. Sarà comune quell'ambiente che abbia come carattere la coscienza. Ma non appena facciamo questa lapalissiana affermazione, vediamo che questo ambiente, che abbia tal carattere, non risulta di altro che di questo carattere, e cioè la coscienza non è un carattere ·dell'am­ biente comune, ma è lo stesso ambiente comune : la coscienza è l'ambiente, dal quale nessuno di noi operanti con coscienza può ·essere mai escluso. ( ·�· ) 1 6.

0NTOLOGICITÀ UELLA COSCIENZA CONCRETA

Questa concretezza di coscienza mi fa poi scoprire qualco&'altro. Dunque : ciascuno ·di noi, che siamo termini del Principio nello (non dello) ambiente, non ha altro essere che questo esser termini ; il Prin­ cipio, che è principio dei termini nell'ambiente, non ha altro essere che questo esser Principio. Dare altro e&sere agli uni e all'altro sarebbe uscire dall'ambiente, dal quale non si può usci),'e ( ...). Non si può dunque ·dare altro essere a queste (oggettività e soggettività), che pQssiam dire condizioni della coscienza concreta. Ma ciò non &olo non esclude, ma richiede che si dia a tali Oggetto e soggetti quell'es­ sere, che la coscienza richiede e consente. Si scopre cosi che l'essere non è quel « fuori » (realismo) o quella « negazione » ( ideali&mo) della coscienza, di cui la filosofia ci ha parlato finora, ma è invece l'esigenza primordiale della stessa coscienza : la coscienza richiede l'essere e lo richiede tale che non la neghi, non la renda impossibile. La coscienza è dunque ontologica. Or que&to suo ontologismo non può non portarè nell'essere le stesse esigenze della coscienza : un es­ sere, che rinneghi queste, rende impossibile la coscienza ; una co­ scienza, che non richieda l'essere;, si vanifica, non sa. Il ricorso alla identificazione della coscienza col divenire, per

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poterla impunemente spogliare di essere, è un vano tentativo di sal­ vataggio di una coscienza che sappia senza essere, perché non è che un contraddittorio ripiego di chi da una parte esclu-de il divenire, perché materiale negazione della coscienza, e dell'altra riduce questa a quello. Quanto, dunque, finora, in filosofia, si diceva solo della coscienza, deve essere tale, che debba potere essere ritrovato n eli' essere ; e cosi reciprocamente quel che si diceva dell'essere deve poter essere ritrovato nella coscienza. Questo significa quell'ontologismo, che la coscienza comune ha sempre implicitamente professato e professa, e al quale la riflessione filosofica si è, di tempo in tempo, affacciata per un qualche ·determinato problema ( essenza delle cose, Platone ; esistenza di Dio, Anselmo), ma non ha mai visto e professato inte­ gralmente e profondamente, cioè nella constatazione dell'essere come primordiale esigenza della coscienza. ( La coscienza, nel vol. mise. Filosofi italiani contemporanei, a c. di M. F. Sciacca, Milano, Marzorati, 19472, pp. 205.206, 2ll-212).

IO.

GAETANO CHIAVACCI

IMMANENZA E TRASCENDENZA Nell'atto stesso in cui l'immaginazione, per la liberazione dalle sovrastrutture metafisiche operata dalla filosofia, assurga a persua­ sione, anche la percezione, per la liberazione compiuta dalla moralità, assurge ad arte, a intuizione pura. La persuasione è cosi la coscienza di un infinito, assoluto, reale Valore, che supera ogni individuazione, che è presente e vivo in chiunque viva vita spirituale, come il nostro piu vero lo, come il pio vero essere di ogni cosa, ma distinto e superiore ad ogni individuazioné, identico e distinto dal mio io, come assoluto Altro. Prima di proseguire nell'esame della persuasione come cono­ scenza distinta dalla intuizione pura individuata, è opportuno sta­ bilire se il Valore che è conosciuto dalla persuasione debba dirsi immanente o trascendente. Noi abbiamo già . detto che trascendente è il principio rispetto al suo termine, quando il termine non ne sia consapevole come del proprio principio. Lo spirito è perciò trascendente la natura, finché la natura rimane soltanto natura, cioè nel momento dialettico ·dell'opposizione, momento di quel processo da natura a spirito che è l'essenza · del reale : infatti la natura, come tale, non è · consapevole esplicitamente dello spirito, non lo conosce come proprio principio. Quando l'universale non è piu, come per l'intelletto, un altro da sé, ma diviene l'universale per sé, quando cioè non esso discende a essere il principio della nostra determina­ zione, ma noi ci eleviamo ad essere il suo empito infinito, allora nasce la vera immaginazione. Il porsi dello spirito è il dileguarsi della trascendenza� appunto perché lo spirito è il procésso ·dalla tra­ scendenza all'immanenza : lo spirito si pone come un principio natu­ rale che si fa principio spirituale, come una mèra possibilità che diviene potere · in atto. Rimane nell'intimo del processo non una trascendenza, ma una distinzione : e non bisogna confondere distin­ zione con trascendenza. Dio non sarebbe Dio se non cominciasse col porsi come trascen­ dente di fronte alla natura : ma non è veramente Dio se non in quanto questa trascendenza da esso posta è superata, facendosi Dio

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stesso uomo, cosi che l'uomo, la natura, accolga in se stessa Dio. Non c'è vera immanenza, se essa non implica in sé una trascendenza superata. Perciò nella distinzione spirituale si hanno insieme i due momenti : c'è il momento in cui il Principio ci si presenta come un dover essere, come qualcosa che ancora non siamo, e che perciò, in qualche modo, ci trascende, ed è il momento logico, il momento della fede : e c'è il momento in cui viviamo il Principio come nostra realtà vivente, il momento in cui il principio ci è immanente, ed è il momento poietico, il momento della persuasione. Questa sorta di trascendenza della poiesi rispetto alla logica è manifestamente ben diversa dalla trascendenza del principio rispetto alla natura. Qui non si tratta piu di inconsapevolezza, ma anzi del­ l'assoluta consapevolezza della distinzione fra principio e principiato, nell'atto stesso che genera l'immanenza. Se lo spirito è processo, processo è anche l'immanenza, ed è perciò passaggio da trascendenza a immanenza. La trascendenza della poiesi rispetto alla logica è perciò una trascendenza dialettica, vista nell'atto di trapassare in im­ manenza. La differenza fra queste due trascendenze è analoga a quella che abbiamo posta fra la mèra possibilità e la possibilità in atto, il potere. Non è chi non veda che è proprio questa distinzione quella che ci permette d'altro lato di distinguere fra esigenza e realtà, fra logo e poiesi. Nella dialettica di tipo hegeliano il logo si divora la natura da un lato e la realtà poietica dall'altro : ed è perciò che tale dialettica, portata alla sua rigorosa conseguenza, finisce per ridurre l'esse a un percipi. Nella dialettica che noi abbiamo esposto il pro­ cesso dello spirito da logo a poiesi pone realmente una natura, distinta da quel sé che è il logo, onde il logo è libertà, e pone realmente un Valore, ·distinto anch'esso dal logo, onde la poiesi è creazione. Dio non è dunque immanente alla natura né è il principio della natura. Egli pone come a sé opposto, come sua mèra possibilità, il principio della natura, la « coscienza », la relazione dialettica fra esistente e intelletto. Cosi lo spirito si pone come assoluta libertà, come deliberazione, che interpreta il fatto come mèra 'possibilità, e dal mèro possibile risale liberamente al potere in atto, all'idea. Si pone come trascendente affinché l'immanenza sia un libero còmpito che esso assolve nel suo processo. Se cosi non fosse non si avrebbe vera immanenza, ma una spontaneità sintetica, cioè questa volta dav­ vero, se la cosa fosse possibile, una trascendenza insuperahile. La filosofia è l'asserzione della trascendenza dialettica e perciò della possibile immanenza ; la religione è la coscienza diretta - e non pio quindi asserzione, ma realizzazione - dell'immanenza. Circa questo capovolgimento della comune opinione è opportuna qualche considerazione.

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La divergenza principale fra la filosofia mo-derna e la filosofia tradizionale della religìone sembra essere proprio questa, che la filosofia moderna afferma l'immanenza di Dio, mentre la filosofia dei religiosi ne afferma la trascendenza. Ma, se ben si considera, la filo­ sofia, affermando l'immanenza di Dio, non può affermarla se non come una propria dottrina, per la quale essa si convince che Dio deve essere immanente : ora questa dottrina può essere interpretata in due modi, a seconda che si concepisca Dio come un essere di fatto o come una realtà spirituale. Se infatti si considera Dio come un essere ·di fatto, dichiararne l'immanenza sembra giustamente lesivo della divinità stessa di Dio, g)acché Dio è cosi ridotto in verità al principio della natura, sia pure che per natura si intenda anche tutta la vita cosciente dell'uomo, che risultando necessariamente da un prin­ cipio già posto, non potrebbe essere in fondo anch'essa se non natura. Ora quando, non diciamo la religione - che di per sé non è affermazione teoretica, ma vita in atto - ma la filosofia dei reli­ giosi afferma la trascendenza di Dio, questa sua preoccupazione nasce da ciò che la filosofia ·dei religiosi concepisce ancora l'essere di Dio come un essere di fatto, come una realtà già data, e perciò l'unica maniera di salvare la divinità di Dio è per essa la trascendenza. Questa preoccupazione trova un appiglio anche nel fatto che la filo­ sofia moderna, sebbene anch'essa proclami la spiritualità di Dio, in realtà non è giunta ancora a portare a coerenza questa sua afferma­ zione, e per qualche 'a spetto il suo concetto di Dio risulta ancora quello di una realtà di fatto. Che se invece si concepisce davvero Dio come spirito, . il signi­ ficato della dottrina dell'immanenza cambia completamente, e non è affatto lesivo della divinità, anzi si chiarisce come il solo mo-do coe­ rente di concepirla. Infatti proclamare l'immanenza dello spirito alla natura, significa in tal caso proclamare l'ideale necessità, il libero dover-essere, l'agognato avvento dello spirito, che se « adveniat » non può non « immanere », non può non essere spiritualmente, e perciò dall'intimo, presente alla nostra vita. Ma questo non è un far Dio principio immanente della natura, ma principio immanente alla reden­ zione, alla spiritualizzazione della natura. Appare dunque ben chiaro che la proclamazione di immanenza che la filosofia fa, se è quale deve essere, è richiesta, è esigenza esplicita di tale immanenza, e perciò è in ciò stesso asserzione di trascendenza. Appunto perché la filosofia è esigenza, l'immanenza non può non presentarsi alla filo­ sofia se non come possibile, come oggetto ·di fede. D'altra parte è evidente, se non si confonde la religione con la filosofia dei religiosi, che la vita religiosa, la vera e schietta religione è contatto dell'uomo con Dio, è elevazione dell'uomo a Dio, è presenza

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di Dio nell'uomo, o come altrimenti si voglia significare quella rela­ zione intima, quell'unità-distinzione fra uomo e Dio, che è la rela­ zione religiosa, e che non può non essere se non una forma di imma­ nenza di Dio nell'uomo, la vera assoluta immanenza. Cosi la divergenza si rivela esistere non tra filosofia e religione, che sono due momenti dello stesso unico processo, tali cioè che in essi vive la stessa realtà - ma tra la filosofia moderna e la filosofia dei religiosi. Infatti la filosofia della tradizione medievale ha tutte le ragioni di sostenere la trascendenza di Dio, perché questo è il proprio della filosofia, l'asserzione della trascendenza, del problema : ma quella filosofia - nella lettera dei suoi concetti - ha il torto di pensare ancora Dio come essere di fatto, e perciò la sua trascen­ denza non è quella genuina trascendenza che è dell'oggetto dell'idea, come richiesta di immanenza. E d'altra parte la filosofia moderna ha tutte le ragioni di sostenere l'immanenza di Dio nell'uomo che viva vita spirituale : ma non si accorge che tale immanenza si realizza nel momento religioso ·dell'atto, che è distinto dal momento filosofico, e che perciò la filosofia proclamando quell'immanenza non può pre­ tendere di viverla direttamente, ma può affermarne solo il dover-essere, la possibilità in atto, e perciò a rigore essa afferma la trascendenza di Dio alla filosofia·, o piu esattamente la distinzione fra se stessa, filosofia, come attuale esigenza di Dio, e la realtà stessa di Dio. Dopo aver chiarito dunque come la distinzione che nella poiesi si ha tra il nostro io e l'assoluto Valore è · la distinzione propria di un'assoluta immanenza, dobbiamo ora, per comprendere come filosoficamente si identifichi la persuasione con la religione, cercare di penetrare quanto è possibile il valore re·dimente della poiesi. Sacro, santo, religioso si può intendere in due modi: o in modo liberamente umano, intendendo per umanità la spiritualità ; o in modo istituzionale, magico, ecclesiastico. Anche per la libera vita dello spirito, al di sopra di ogni istituzione, v'è una distinzione fra sacro e profano, cioè fra spirituale e non spirituale, distinzione pro­ fonda, avente un senso cosmico e tragico, escludente ogni velleità di porla ad arbitrio delle nostre · povere forze individuali e sociali. Se ora perciò parlando della redenzione poietica, parliamo di qualcosa di sacro e di religioso, vogliamo che esso sia inteso in questo senso liberamente e assolutamente spirituale. In che cosa consiste questo carattere sacro della libera creazione dello spirito, redimente la nostra natura ? A rendercene conto gio­ verà partire dalla radice stessa dell'atto, vogliamo dire gioverà comin­ ciare col mettere in rilievo il carattere tragico del momento filosofico. Chi tratta leggermente di questioni filosofiche, come se la filosofia fosse un trastullo cerebral� elegante, non ha neppure l()ntana coscienza

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·di quel che davvero sia la filosofia, non sa che tremendo giuoco sia questo, in cui si impegna tutto il nostro essere e tutto l'essere del cosmo. La negazione che la filosofia fa della natura è una negazione assoluta, senza limiti, che ci mette a contatto con l'infinito buio del nulla, con la tremenda possanza della morte. Ogni artificio, ogni compromesso è escluso : qui si tratta per la nostra infinita sete di assoluto, di affrontare l'assoluto annientamento ; si tratta . di rinnegare ogni correlatività, mentre senza correlazione non c'è esistenza : il mondo, gli uomini, Dio stesso, tutto naufraga con noi : non resta che l'immane possanza del nulla. Questo è il terribile rischio che conviene affrontare senza tremito, per giungere alla vita : questo è la filo­ sofia, rischio reale, rischio realmente vissuto. Chi non valichi questo abisso, chi non rinunzi a tutto, chi non abbandoni padre, madre e figli e le cose pio care per questo suo disperato amore di assoluto, chi non ponga a definitivo rischio la sua stessa vita, chi non sfidi im­ pavido non una volta sola, ma in ogni momento, la morte, non può fare filosofia. Chi crede di poter fare filosofia con l'animo di salvare con accorti ragionamenti le sue convinzioni pio rassicuranti, tutta la sua borghese tranquillità attaccata alle cose di questo mondo e del­ l'altro, la sua fiducia nella civiltà, nel progresso, nella scienza, nelle istituzioni, nelle verità rivelate della religione - costui non sa che cosa sia filosofia. Filosofia è rimettere contiQ.uamente tutto in que­ stione, rinunziare a ogni sicurezza, a ogni verità acquisita, e affidarsi al rischio mortale di ricreare nel proprio intimo una realtà che si sostituisca a quella, a cui cosi si rinunzia, una realtà che sia il fiore del nostro libero rischio. A chi perciò sia pauroso di Dio, nel doppio senso che tema la collera di Dio, e che si spaventi di rimanere senza Dio, la filosofia non può convenire ( 1). Perché la filosofia non pro­ mette nulla : essa ci invita al rischio decisivo. Questo è il battesimo - battesimo di fuoco - che deve ricevere chi voglia davvero incon­ trarsi con lo Spirito, e sapere che cosa è davvero sacro, che cosa è vera religione : questo è il battesimo attraverso cui si attua la libertà e la redenzione. È superbia ? È anzi infinita umiltà, infinita dignitosa umiltà. Superbo è chi sente inadeguatamente di sé : qui si tratta di negare totalmente se stessi per affermare l'assoluto dover essere, per affer­ mare la luce divina dell'idea. Il superbo non può giungere mai a questa assoluta dedizione, per la quale tutta la nostra natura si convelle e fa offerta di sé all'idea. Si comprende perciò che cosa significhi la redenzione della poiesi, (l) Questa paura di Dio, paura del tutto esteriore e antispirituale, non va confusa col

timor di Dio, che, nel suo miglior senso, significa il rispetto che la . nostra coscienza ha per

la dignità del suo Principio assoluto (N.d.A.).

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si comprende quale sia il libero Dio, che arride alla vita dello spirito. Non è il Dio dei morti, diceva Gesti, è il Dio dei' viventi : non è il Dio della nostra paura e della nostra sufficienza, ma è il Dio della nostra assoluta esigenza ; della nostra coraggiosa dedizione, il Dio del nostro libero rischio. Il Dio del nostro rischio : perché tale è la realtà spirituale ; non è una realtà convalidata dalle autorità e dalla tradizione, è una realtà che è il correlato della nostra pura e libera fede. Finché io rimango in questa esasperata fede, in questo slancio ardimentoso, rimane anche la mia persuasione, rimane la pre­ senza di Dio. Ma, e se non rimane ? Se io mi fossi ingannato ? Se io avessi rinunziato allà placidità della vita già assicurata, alla prote­ zione -de� Dio dei Farisei, per piombare nel nulla ? Se io avessi presunto troppo dalle mie povere forze? Quando sorgono questi dubbi, già lo Spirito non c'è piu, già è subentrato l'intelletto, e la visione beatificante, la sicura persuasione è svanita. Questo è il rischio : bisogna costruire la propria vita su questo filo di spadà : chi non se ne sente la forza, non parli di filosofia e di religione. Ma quanto la nostra volontà non si ammorza, quanto abbiamo il coraggio e la fede della vera filosofia, tanto la grazia discende su di noi, tanto si compie in noi quell'atto poietico, che è assoluta, eterna presenza, per la quale non c'è né un passato né un futuro : questo è il destino immortale dell'anima. E il coraggio della filosofia è il libero arbitrio, la bona voluntas, che condiziona la grazia. Il libero arbitrio si concepiva una volta come scelta fra due vie egualmente esistenti di fatto, ed egualmente pro­ poste dall'intelletto. · Abbiamo visto che anche nel campo intellettivo le cose vanno diversamente. Ma nell'atto spirituale il logo non sceglie fra due· vie paritetiche egualmente proposte, ma sceglie fra l'intel­ letto, che è una via che c'è già, e una via che non c'è, una via invia, che il logo stesso crea per la forza della sua fede, e oppone alla via che c'è già. La nuova via è il logo stesso : il logo è in persona la sua via, il logo è l'idea. E la poiesi è la grazia, grazia redimente. In . virtu della poiesi nell'atto spirituale io non mi rivolgo a Dio piu di quanto Dio si muova verso di me, Dio non mi trascende come mèta del mio volere, piu di quanto mi sia immanente come atto creativo del mio valore. E poiché ora davvero valgo, perciò ora davvero conosco : se il lo go è autocoscienza come esigenza, come volere, la poiesi è autocoscienza come realtà, come valore. Il primo è amore come aspirazione, il secondo è amore come gioia : l'uno svanirebbe senza l'altro. « Chi perde la propria vita la troverà » : « bussate e vi sarà aperto ». Questa è la redenzione del peccato originale nel fuoco dello spirito : questo è il Regno dei Cieli. Che se debole ed evanescente

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sembrerà questa beatitudine, se malsicura questa eternità, segno è che debole è la nostra fede, debole la forza intima della nostra richiesta filosofica. V'è un solo rimedio : intensificare questa nostra vita spiri­ tuale, intensificare il nostro ardimento, cosi da renderei degni di una grazia piu piena. Altri rimedi nel mondo dello spirito non sono concepibili ; la misericordia divina non costituisce un comodo ricorso magico, che ci dispensi dal nostro concorso. Il Regno dei Cieli è sempre identico : esso advenit insieme col farsi della volontà' di Dio. Tornando ora alla nostra prima questione, che cos'è questo cono­ scere che è la persuasione ? Non è esatto dire che è un sentimento, se non si dà alla parola sentimento un significato diverso dal comune, un significato eminente, come si ·dà a intuizione un significato emi­ nente, quando si indichi con essa l'arte e si distingua dalla perce­ zione. Se sentimento è la coscienza dell'elemento soggettivo della percezione, e costituisce il correlato di ciò che sul piano oggettivo è l'immaginazione, si può dire che la persuasione è il punto in cui, facendosi attuale l'inattuale, sentimento e immaginazione coincidono nella coscienza ·del loro principio immanente. Ma questa · non è in fondo se non una definizione indiretta : piu esattamente si può dire che la persùasione è il passaggio dell'idea da coscienza ·di assoluta possibilità in atto a coscienza di assoluta realtà. « Coincidenza di sentimento e immaginazione » ; « l'idea come cono­ scenza di assoluta realtà » : in ambedue queste definizioni si ha l'identificazione, l'assoluta adeguazione del soggetto con l'oggetto, e la realizzazione della loro assoluta mediazione, della loro assoluta distinzione. Questa coincidenza ·di assoluta identità e di assoluta distinzione è il punto della persuasione, il punto dell'assoluta realtà. A chi ha avuto l'ardire di rinunziare a tutto per aver tutto, nel buio stesso della sua sèonfinata solitudine, si accende la luce della vera realtà, dell' O'J't'Wç' cv, la luce del Dio verace. 'Av6pw1toç- Èv EÙcpp6vn cpaoç­ a1t't'E't'etL E!:tU't'Q, Questo è il punto della certezza perché è il punto della pace, della gioia. Perché è gioia verace ? Nel punto in cui l'uomo rinunzia a ogni valore esterno, si rivela in lui il suo intimo Valore : solo ora che ha cessato di cercar fuori di sé, la voce di questa assoluta Persona si fa distinta e gli parla : e gli dice che tutto egli può per­ dere, ma questa sua piu vera ricchezza non si può perdere, se egli non le volga le spalle. Perché questa gioia è diversa da tutte le altre gioie possibili : è di un altro mondo. È un oggetto che non è piu fuori di me : è intimo a me stesso, se pur è distinto da me, se pure è oggetto. Perciò è un oggetto che non può essere colto da un'intuizione, quasi fosse un oggetto esterno, come vorrebbe l' ontologismo : né si riduce alla mèra autocoscienza, alla coscienza del mio stesso sapere, com'è per l'idealismo, il che è quasi dire una parvenza di oggetto,

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che in realtà si riduce a un soggetto senza oggetto. L'estrema ·delica­ tezza di questo punto riguardante l'unità-distinzione fra soggetto e oggetto nella poiesi, ne ha fatto facilmente disconoscere la vera natura : e se riuscissimo a rivendicarla il nostro lavoro non sarebbe stato invano. È induhitabile che il vero soggetto della poiesi è il punto di coincidenza ineffabile fra l'io e Dio, come il vero oggetto di essa è il punto di coincidenza ineffabile fra Dio e il mondo. In questa coincidenza, la rivelazione di Dio crea il nuovo aspetto, la nuova realtà dell'io e del mondo. La libertà acquistata col processo razio­ nale, colla rinunzia a ogni appoggio fuori di noi, è la possibilità in atto che il vero noi stessi si riveli, si enuclei, si distingua. Si distingue e perciò si conosce : ma appunto in ciò che si può conoscere è e non è noi stessi : è l'Io in questa sua misteriosa e pur luminosa prerogativa di essere distinto in sé, di essere, quando è veramente Io, il portatore dell'assoluto Altro. Non io, particolare individuo, posso essere, senza distruggermi, l'identico dell'altro individuo : ma quell'Io che è insieme l'Altro, quell'Io, che è insieme soggetto e oggetto, questo è · quell'unità-distinzione a cui anela l'anima nostra, questo è quel conoscere che offrendo al soggetto un oggetto ad esso interiore, placa finalmente la nostra ansia, unificando conoscere e volere, cosi come unifica soggetto ed oggetto. La persuasione è dunque il punto dell'assoluta pacificazione e dell'assohita positività, in cui il positivo non è affermazione corre­ lativa e apofantica, implicante sempre una negazione. Ora questo assoluto conoscere che non si dà mai - se non per astrazione - sepa­ rato da quel concreto individuato conoscere, che è l'intuizione poietica, è tuttavia nettamente distinto da essa, come la · filosofia è distinta dalla moralità. Se la poiesi non è atto logico, essa è pur conoscenza e me­ diazione ; e abbiamo visto che tale mediazione è autocoscienza crea­ trice, che crea ed esprime se stessa, creando ed esprimendo l'altro da sé. Ora affinché questa creazione non sia una semplice relazione univoca, una rappresentazione fenomenica, ma reale creazione di un altro da sé, essa deve essere la consapevolezza vissuta, la consape­ volezza di chi sa in quanto è, che l'Io ha del principio che fonda la sua realtà spirituale, che è l'unico e identico Principio che fonda la realtà di tutte le cose, la vita spirituale di tutti. La possibilità dell'intuizione artistica è dunque data da questa conoscenza ·di un Universale immanente all'individuazione, ma distinta da essa ; cono­ scenza immanente all'intuizione ma distinta da essa, in quanto è conoscenza di una realtà che non è · il proprio soltanto di quell'in­ dividuazione, ma è la realtà cosi di me che intuisco come di ògni individuazione : è il valore assoluto in atto, è Dio. (La ragione poetica, Firenze, Sansoni, 194'7", pp. 344-354).

11.

LIDGI SCARAVELLI

l. IL PROCEDIMENTO ANALITICO n . procedimento critico non si può pensare, e neppure fantasti­ care, privo di forma, cioè privo di connessione, di direzione e di significato determinato. L'analisi non si snoda in un mondo estraneo alla delimitazione che dà senso . preciso agli elementi in cui si arti­ cola ; per labili che essi siano debbono pur avere delineati i çontorni. L'analisi non è perciò articolazione che possa avvenire nel buio, al di là della coscienza, cioè prima che sia delineata la struttura del suo stesso procedere, ossia la sua forma. Sicché, in ogni analisi, la forma concreta in cui essa si dispiega, è già inchiusa nella struttura carat­ teristica ·della stessa determinazione che è necessaria a rendere possi­ bile il - suo cominciamento. Questa forma anzi in cui si dispiega è tutt'uno con questa determinazione e struttura. L'unità del proce­ dimento analitico si svolge cioè in modo che non venga alterato l'in­ timo piano formale del proprio andamento. E per far questo, cioè per svolgersi in modo da mantener costante la propria costituzione interna, l'analisi deve far si che perduri identica la connessione con gli ele­ menti in cui rende concreto il proprio procedimento. ( ...) Il procedimento analitico, per evitare ogni arresto deve dunque mantenere identico il rapporto con gli elementi in cui è concreto. Ché se non mantiene con un solo di essi quello stesso identico rap­ porto che mantiene con gli altri, l'unità del procedimento analitico, vista nel suo intimo e concreto rigore, è troncata. Per presentare ogni elemento analizzato come avente una sua deli­ mitazione e figura, un suo significato (sia pur provvisoriamente), il procedimento analitico deve distinguerlo dagli altri elementi ; deve mostrare di ognuno di essi i caratteri particolari in base ai quali può esser considerato come membro coordinato e subordinato di un altro elemento. Per far questo, per dare cioè il carattere d'ogni singolo elemento, deve dare a ognuno una sua specifica funzione ; ché solo nella ·diversità della funzione sta la diversità non meramente verbale, e solo nella peculiarità della funzione sta la specificità del carattere che si mette in luce. E perché questa funzione sia realmente diversa

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da quella degli altri elementi o funzioni in cui via via l'analisi si compie, occorre che l'analisi garantisca questa effettiva diversità funzionale ; e la può garantire solo facendo si che il proprio com­ portamento verso i suoi vari elementi si venga esplicando in modo funzionalmente diverso. Poiché se la relazione o rapporto che l'analisi ha con un elemento, cioè la funzione che l'analisi esplica con un elemento, fosse identica a quella che ha con un altro, quell'elemento non potrebbe avere la sua distinta e particolare funzione, quella funzione in base alla quale aveva avuto la sua caratteristica ; ché la sua funzione infatti si confonderebbe con quella precedente. E appena si confonde e fonde con la precedente, viene a mancare all'ana­ lisi la sua ulteriore articolazione ed essa è costretta ad arrestarsi. E si arresta ad un elemento che - non riuscendo essa interiormente ad articolare in una distinta funzione - le appare come la ripeti­ zione del precedente : l'elementare, l'omogeneo. Questa è la struttura costitutiva dell'analisi : mantenere l'iden� tità formale con i propri elementi, e perciò l'identità funzionale con ciascuno di essi, ché diversamente essa si arresta, anzi neppur sorge ; mantenere la realtà dei propri elementi e perciò la differenza fun­ zionale con ciascÙn di essi, ché diversamente essa si arresta, anzi neppùr sorge. ( . . .) Dentro l'unità del procedimento analitico, nella sua coerenza pio intima, si annida questa duplice necessità : mantenere l'iden­ tità con se stesso, cioè la coerenza coi propri metodi e col proprio piano formale : e mantenere l'identità con gli elementi che viene formando, cioè l'identità con ciò in cui soltanto può essere concreta, con la differente funzione dei propri elementi. Per la prima necessità l'analisi non può articolarsi in modo reale e non può sorgere ; per la seconda non può procedere e non può formarsi. Se potesse esser coerente a se stesso il procedimento analitico si porrebbe come unico : procedimento assoluto che dà la pienezza infinita degli elementi ed è la totalità sconfinata del reale ; abbraccia in sé tutto e, abbassando tutte le differenze a suoi modi, a suoi feno­ meni, a suoi momenti, pone sé come unità assoluta. Quest'unità assoluta, che è la sua coerenza formale, è ciò che fa ·da base ali 'idea dell'unità architettonica da cui discende appunto la unicità del reale. Tutte le parti, tutti i momenti, tutti i suoi aspetti rientrano come elementi analitici nella identità del procedimento ; esso garantisce la unità ininterrotta della compagine nella continuità necessaria del concatenarsi dei propri eventi nella quale consiste la propria concreta essenza. E in questa unità rientra tutto quanto, all'infinito : ché se un elemento che l'analisi delinea appare come incomprensibile, il procedimento analitico in quanto progr'ediente senza posa, garanti-

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sce che anch'esso verrà indagato nelle sue parti costitutive, e dovrà rientrare e connettersi nell'unico universo. A questa unità fa capo, come all'unità sintetica di elementi molteplici ed eterogenei, la molte­ plicità ·degli elementi analitici conHuenti nell'unicità della sintesi ; e si ha quella che Kant chiamava idea cosmologica, e che dopo Hegel è una totalità non di meri fenomeni entro la sensibilità, ma delle stesse forme o concezioni della realtà entro lo spirito tutto. Il concetto di spirito, con la sua continuità ininterrotta, la sua forma a priori che lo rende possibile, e la totalità assoluta, conchiusa entro la sua forma, è l'odierno sostituto dell'idea cosmologica concepita come totalità. Esso esplica, oggi, la medesima funzione di universalità assoluta che un giorno era esplicata dalla totalità del cosmo. Ma poiché questa totalità ha valore solo se si presuppone assoluta la continuità formale del procedimento analitico, e poiché se il proce­ dimento analitico conserva questa unità formale non riesce a dare concretezza alcuna ai propri elementi, anzi non riesce neppure a farli sorgere l'unità necessaria che garantisce questa totalità viene ra·dicalmente a mancare. Se il procedimento analitico potesse essere un procedimento coe­ rente con i propri elementi, variando, per mantenere questa coerenza, il proprio metodo e la propria forma in modo da mantenersi appunto aderente alle molteplici diverse funzioni che formano l'essenza dei suoi elementi, si avrebbe, si, la concretezza di funzioni e sistemi .diversi e distinti fra loro:; ma, spezzando questo procedimento l'unità propria, quest'unità che dovrebbe garantire la validità di quei concreti viene a mancare,, e quelle funzioni e quei sistemi concreti verrebbero a perdere l'unità che li fa funzioni e sistemi intelligibili. Risàliti cosi alla struttura interna del procedimento critico, ci si può ora render ragione della impossibilità di presentare la con­ traddittorietà da un lato e la distinzione dall'altro come gli elementi analitici del reale. Impossibilità speculativa : ché la particolare con­ figurazione del procedimento · critico, mentre fa si che si possa pene­ trare nell'elementare unità indivisibile d'ogni forza e d'ogni principio e procedere oltre e perciò disgregarne l'omogeneità e unità funzionale, mostra come questo procedimento non può sorgere e operare questa analisi liberatrice d'ogni angustia analitica se non pone come valide e fisse quelle determinazioni in cui è concreto ; determinazioni che la concretezza stessa col suo sorgere disgrega. Ma se la struttura del procedimento critico è tale che la sua stessa costituzione gli impedisce di formarsi e perfino di sorgere, come è possibile eh'esso sia procedimento? cioè come è possibile una concezione speculativa ? ·

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Nella prefazione alla prima edizione della Critica della Ragion Pura Kant scrive : « La metafisica, secondo i concetti che qui ne daremo, è la sola fra tutte le scienze che possa ripromettersi, e in breve tempo e con pochi sforzi ma associati, si/Jatta compiutezza, in modo che dipoi altro rwn resti da fare alla posterità se non adattarla nella maniera didattica ai suoi scopi, senza per altro poterne accrescere menomamente il contenuto. Altro non è infatti che l'inventario di tutto ciò che possediamo per mezzo della ragione pura, sistemati­ camente ordinato. Nulla qui può sfuggirei, perché c i ò c h e l a r a . g i o n e t r a e i n t e r a m e n t e d a s e s t e s s a non può rimaner celato, m a p e r o p e r a ·d e I l a s t e s s a r a g i o n e v i e n e a I l a luce, appena scop erto il p r incipio gener ale che 1 a g o v e r n a . L'unità perfetta di tale specie di conoscenze, deri­ vanti cioè da puri concetti, senza che nulla di empirico o anche solo una particolare intuizione che conduca a concrete determinazioni possa influire su di essa per allargarne la cerchia ed accrescerl�, rende non solo possibile, ma necessaria questa compiutezza incondi­ ·zionata » . E nella prefazione alla seconda edizione : « In quel tentativo di cambiare il procedimento fin qui seguito in metafisica, e di operare cosi in essa u n a c o m p l e t a r i v o l u z i o n e seguendo l'esempio dei geometri e -dei fisici, consiste il compito di questa critica della ragion pura speculativa. Essa è un t r a t t a t o d e l m e t o d o , e non un sistema della scienza stessa ; ma essa ne t r a c c i a t u t t o i l c o n t o r n o , sia riguardo ai suoi limiti, sia riguardo alla sua completa struttura interna. Giacché la ragion pura speculativa ha in sé questo di peculiare, che essa può e deve misurare esattamente il suo proprio potere secondo il diverso modo col quale sceglie gli oggetti . pel suo pensiero ; e dare cosi una enumerazione completa di tutti i differenti modi di porsi i problemi ; e cosi pure delineare tutto il disegno per un sistema di metafisica ; infatti ... essa, rispetto ai principii -della conoscenza, è una unità affatto separata e per sé stante, nella quale c i a s c u n m e m h r o , c o m e i n u n c o r p o o r g a n i z zato, esiste per gli altri, e tutti e sistono per cia­ s c u n o ; e nessun principio può essere assunto con certezza da un punto di vista, se non sia stato investigato nell'insieme dei suoi rap­ porti, in tutto l 'uso puro della ragione. Ma perciò la metafisica ba anche la rara felicità, della quale nessun'altra scienza razionale .che abbia da fare con oggetti... può partecipare : che, se per mezzo di questa critica vien messa sulla via sicura della scienza, essa può abbrac­ ciare completamente tutto il campo delle conoscenze che le appar­ tengono, e può quindi lasciare la sua opera compiuta, e tramandarla alla posterità come un'opera da servirsene, non da accrescere con .aggiunte importanti... A questa compiutezza quindi essa, in quanto ·

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scienza fondamentale, è anche obbligata, e di essa si deve poter dire : « nil actum reputans, si quid superesset agendum ». E ribadisce tanto la prima proposizione, che asserisce l'unità, quanto la seconda, che l'asserisce come organismo, nella pagina con cui apre l'Analitica Tra· scendentale, ove addita nella totalità la ragione che giustifica quelle due proposizioni : « Questa analitica è la risoluzione di tutta la nostra conoscenza a priori negli elementi della conoscenza pura intel­ lettuale. E qui bisogna por mente ai punti seguenti : l) che i concetti siano concetti puri e non empirici ; ... 4) che la loro tavola sia com­ pleta, e abbracci interamente tutto il dominio dell'intelletto puro. Ora questa compiutezza d'una scienza data non può ottenersi con sicurezza col calcolo all'ingrosso -di un aggregato messo insieme per tentativi ; quindi essa è possibile soltanto mediante un' i d e a d e I l a t o t a l i t à della conoscenza intellettuale a priori e per mezzo della divisione dei concetti che la costituiscono, determinata in base a codesta idea, e · quindi per mezzo della loro c o n n e s s i o n e s i s t e m a t i c a ; L'intelletto puro... è l'unità per sé stante, sufficiente a se stessa, e non suscettibile di aumento per aggiunte dall'esterno. L'insieme quindi ·delle sue conoscenze formerà un sistema, da esser compreso e determinato sotto una sola idea, e la cui compiutezza e articolazione possono fornire a un tempo una pietra di paragone per provare l'esattezza e il valore di tutte le parti di conoscenza che vi rientrano ». Questa « completa rivoluzione » che pur non essendo il sistema della scienza stessa, ne traccia tuttavia « il contorno sia riguardo ai suoi limiti sia riguardo alla sua completa struttura interna » è dunque un sistema nÌetafisico cosi rigido e compatto da inibire ai posteri persino la . speranza di potervi modificare qualcosa ; e concede loro solo, se proprio vogFono continuare a pensare, di « servirsene » per­ « adattarlo nella maniera ·didattica ai loro scopi ». Ogni nuova espe·· rienza,. ogni nuovo pensiero, non può né modificare la sua immodifi­ cabile struttura, né accrescere veramente il suo « contenuto ». La rivoluzione di una cosi fatta « rivoluzione » è cominciata ben presto, facendo leva proprio su quello che Kant stesso dice : cioè che « ciò che la ragione trae interamente da se stessa non può rimaner celato, ma per opera della stessa ragione viene alla luce,. appena scoperto il principio generale che la governa ». Facendo levà su questo « venir alla luce per opera della stessa ragione » si è visto che il principio generale non è un lo penso, il quale rende ragione solo della natura fisica e non giustifica né fa venire alla luce l'esistenza della ragione stessa, ma è la dialettica, che è la ragione in quanto autorivelazione o autoconcretezza, cioè in quanto. non si chiude in limiti di alcun genere, perché la sua unità siste-

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matica non è l'unità di elementi o principi ch'essa trae, c o m e c o s e , alla luce, ma è l'unità sistematica di q u e s t o s t e s s o t r a r r e alla luce, di quest'attività in cui è riposta la sua essenza e sostanza, e che è tale da garantire l'eterna produttività, in quanto è reale come produttività. Sicché di essa si deve poter dire non piu col verso di Lucano : nil actum reputans, si quid superesset agendum; ma : nil « esse » reputans, si quid non superesset agendum. Eliminato dunque ogni kantiano ed hegeliano residuo sintetlco­ naturalistico, che chiude il reale dentro la ripetizione meccanica, è stata raggiunta la concezione del reale come attività pura o storia, la quale non si chiude in alcun modo, perché è reale solo in quanto continua con cretamente e d effettivamente la propria opera. Possiamo asserire d'aver cosi raggiunta quella concezione teoretica che è necessaria a dare la risposta alla domanda dianzi formulata ? La concezione della realtà come attività e processo è possibile solo se nell'intimo di ciò in cui questo processo è concreto, cioè nel­ l'intimo di quelle opere e di quelle concezioni teoretiche e di quei problemi che venendo a mano a mano a tessere l'esistenza fanno ap­ punto concreto il processo ed il reale, sta a fondamento la forma eh� le fa tutte opere e concezioni teoretiche e problemi ; ché se a �che questa forma come principio del cambiamento, cambiasse, non esi­ sterebbe piu alcun cambiamento o processo. E rispetto a questa eterna · forma, a questa eterna possanza, che sta in eterno, le concezioni e concetti e problemi che di essa si vengono elaborando, non sono forme assolute, originarie, ma manifestazioni ; e · quella forma o principio assoluto, rintracciabile nel fondo di ogni opera, di ogni concetto, di ogni problema, è invece forma immodificabile. Il « con­ tinua » in cui dovrebbe consistere l'essenza formale della realtà, sta solo ad indicare che al processo non mancherà mai questa possibilità di ulteriori manifestazioni, cioè la sua materia ; ma non giustifica né fonda la possibilità vera o formale di se stesso come processo . formalmente concreto. Il sisteina che si è cosi ottenuto sodd_isfa l'esigenza dell'assoluta coerenza interna all'analisi, ma subordina a questa coerenza l'altra esigenza, quella della sua coerenza ai propri elementi. Sicché questi, non soddisfatti nella propria concretezza, rivelano la loro deficienza col configurarsi a mera possibilità di pos­ sibili concezioni delle sempre identiche forme, senza acquistare vera concretezza ed esistenza. E quando si vogliano considerare con· crete solo queste opere e queste concezioni e questi problemi, togliendo a quelle forme il loro valore a sé, quelle forme sfumano, e queste concretezze si dirompono nell'inconcepibile. Poiché delle due necessità costitutive del procedimento critico, ·

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questa concezione ne soddisfa una, ma lascia insoddisfatta l'altra, che si limita a subordinare alla prima, il procedimento critico non vi ha quella struttu ra che gli è necessaria ad essere vero e concreto procedi­ . mento. Per questa ragione questo sistema speculativo non dà la rispo­ sta concreta, cioè rigorosamente formale, alla domanda sopra formu­ lata : « com'è possibile una concezione teoretica ? ». Nella sua coe­ renza intima di concezione del reale come attività pura e assoluta,. come storia, sentiamo risuonare ancora l'eco delle parole di Kant. La c o n n e s s i o n e s i s t e m a t i c a , che sta sulla soglia dell'Anali­ tica, richiesta per avere non un aggregato di principi messi insieme per tentativi ma una compiutezza degna della scienza, possibile solo mediante l'idea della totalità, è appunto il reale come attività, formato dalla presenza dei propri principi, che sono forme pure, le quali, nel loro insieme, intessono la realtà stessa. Sicché l'unità di questa concezione ha esattamente lo stesso significato dell'unità di cui parla Kant nella prefazione alla seconda edizione della Critica della Ra­ ragion Pura: che cioè essa « non è un sistema della scienza stessa », non è la storia e la realtà stessa nel suo quotidiano formarsi, ma è « u n t r a t t a t o d e l m e t o d o » che di questa realtà «traccia tutto il contorno, sia riguardo ai suoi limiti, sia riguardo · alla sua completa struttura interna» ; poiché la teoria del reale come puro divenire, come assoluta attività e storia, dà appunto l'organismo delle proprie forme come la totalità in cui tutto è raccolto e · racchiuso,. si che dai suoi limiti niente trascende, e dà questè sue forme proprio come la s t e s s a s t r u t t u r a i n t e r n a d e l r e a l e ; forme cioè che sono, esse stesse, con questa loro struttura, l'esistenza reale. Sembra che, con la sua nascosta presenza, Kant chiuda dentro limiti non valicabili questa e ogni altra concezione filosofica ; e faccia d'ogni pensiero teoretico una unità talmente ben chiusa da togliere a qualunque sistema possa presentarsi la possibilità che esso, dentro di sé, ponga effettivamente quelle condizioni che sono nc;lcessarie ai formarsi di una nuova concezione teoretica. Eppure Kant stesso, nelle prime pagine dei Prolegomeni, si la-· menta di coloro i quali « nulla vedono mai in nessun luogo, se non rassomigli a ciò che hanno · già visto in qualche altro luogo » e che si accostano ad una parola nuova credendo di giudicarla con concetti e principi e sistemi già acquisiti ; ché in questo caso « si crederà esclama Kant - di vedere ovunque ciò che già si conosceva ». Ed .in effetti si crederà di vedere e si potrà vedere e capire soltanto ciò che già si conosceva e niente altro, perché vedere e capire è possibile solo avendo a base dei principi ; ché solo in base a principi le cose e le parole hanno significato e realtà ; e se i principi della compren­ sione sono quelli già acquisiti, dinanzi a una nuova parola questi.

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principi impediranno che essa abbia un nuovo significato : e la parola sarà una vecchia parola. Per capire è necessario compiere quella purificazione dei propri concetti e principi che Kant richiede da chi si avvicina al suo pen­ siero ; purificazione della quale già parlava il Forestiero d'Elea, e che se proprio non è, com'egli dice a Teeteto, la piu dolce, è certo indi­ spensabile a far si che possiamo produrre in noi quella intima dispo­ sizione che ci metta in grado di non esser costretti a vedere dapper­ tutto solo ciò che già conoscevamo ; ché solo a qÙesta condizione saremo in grado di capire il nuovo significato di ogni �uova parola. (Critica del capire e altri scritti, Firen,ze, La Nuova Italia, 1968, pp. 185-196).

2.

GLI OPPOSTI

Se la contradittorietà SI mcarna, cosi, senz'altro, nella molteplice varietà dei sistemi filosofici, o nelle molteplici membra interne a-d ogni organismo filosofico, con funzioni diverse volta a volta, e luogo per luogo... eccoci perduti nel fluire della opi;nione o della sensa­ zione ; eccoci perduti nella infinita possibilità. Ma non si avrebbe mai nulla piu che semplice possibilità. Possibilità, che non si avrebbe modo neppure di possedere, di stringere, di definire. Immersi nel fiume, lui ci trascinerebbe e sommergerebbe . . Ma da questo fluire e susseguirsi incessante delle coppie di con­ trari, si può tentare uscire afferrandosi alla contrarietà pura e in sé, all' u n i t à d e I l a c o n t r a r i e t à , che forse è tanto salda da reggere il mondo, se è lei stessa l'universalità e la base unica e asso­ luta del reale. La contrarietà pura si presenta, cosi, a noi, come si presentò ad Eraclito : Bianco nero, giovane vecchio, vivo morto, sono, nell'unità del Logos che è il genere prossimo in cui son compresi e che costitui­ scono, la stessa cosa. Tutte le coppie di contrari che esistono al mondo o che l'occhio può scoprire o la mente fantasticare sono dello stesso tipo, cioè sono in realtà tutte una unica contrarietà ; sicché il mondo non è, come pare, gerarchia di sovrapposte opposizioni - con una distinzione speciale in ogni piano della contrarietà a differen­ ziarlo e innalzarlo sul piano precedente della piramide - ma è l' u n i · c a i d e n t i c a contrai-ietà. I termini non rimangono allora uno di fronte all'altro immoti (come semplici solidificati distinti), né ruo­ tano uno dietro l'altro ( quasi fossero contigui), ma cadono l'uno nell'altro : e l'uno precipitando nell'altro, aggiungendogli il volUDie della propria struttura, lo dirompe in ogni fibra e lo fa scoppiare,

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incendiandone la natura originarià in un fuoco che e.boccia in una nuo­ va dimensionalità. Cosi si accende la fiaccola e la luce disperde le torbide visioni dei sensi. Il dormiente si sveglia nella notte, e i sogni - differenze che nel crepuscolo incosciente sembrano formare · il mondo delle cose - scompaiono come nebbia al sole che eternamente rinasce. Guardiamo se in questo fulgore si riesce a vedere dove la no­ stra anima, già umida di caligine, sia pervenuta, . e se siamo proprio nella relazione di contrarietà. Siamo stati svegliati perché nella penombra dei sensi il profeta al grido 1tcbl'toc pEi. ci aveva fatto scorgere il vero mondo luminoso. Tutte le contrarietà si sono rivelate fuse nella unità del Logos. Non guardiamo se anche questo scorra e passi nel suo contrario, o vibri di un suo speciale movimento, o se rimanga immobile ; se cioè il grido del profeta valga solo per il mondo dei profani e serva di stimolo ad uscirne, o valga anche per quello vero degli iniziati, e vi assuma un diverso significato. Cerchiamo invece di capire che differenza si veda qui tra i rapporti che legano le fugate larve dei sensi e quelli che determinano la loro verità come ·fluire. Siccome manca ogni distinzione tra le relazioni, perché tutte sono siate ridotte a-d una sola, non ci troviamo in presenza di due mondi, uno delle immagini e uno delle essenze, con due logiche diverse ; e per la medesima ra­ gione nemmeno ci possiamo trovare davanti a due' distinti modi di vedere lo stèsso mondo. Se bianco rosso paiono disiinti, se bianco logaritmo paiono -distinti, in realtà cosi non è, perché fra distinti e contrari non c'è reale differenza. E poiché i contrari sono uguali, nero rosso e logaritmo paiono ma non sono tra loro diversi. Anzi, se · al mondo c'è u n p a r e r e che sembra diverso dall' e s s e r e , questa diversità non esiste, e quel parere non si deve distinguere dall'essere, appunto perché distinzione reale non c'è. La contrarietà ha assor­ bito tutto. Scomparsa la differenza che distingue bianco nero da bianco rosso, e questi due da _ bianco logaritmo, cioè fra contrari e distinti entro un genere prose.imo chiuso nel reale, fra contrari e distinti del reale, tutti vengono ricondotti alla formula essere non-essere interpretata come contrarietà. E poiché neanche fra contrari e con­ tradittori può esservi distinzione, anche bianco e non-bianco devono seguire la stessa sorte. Ecco dove siamo arrivati : in un mondo di luce in cui distinti contrari e contradittori sono concepiti indiscernibili fra loro. Identici non sono i due termini che formano la contrarietà. Scom­ parirebbe, senza lasciar traccia di nulla. Ma la distinzione che, neces­ saria alla loro esistenza, esiste fra essi, non può esser tale da sepa-

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rarli né da far sorgere sotto di essi a suhstrato una sostanza inerte su cui poggino e si alternino, né sopra di essi una distinta unità che sia legge unica in cui ineriscano ; la distinzione, in questo regno di pura contrarietà, non ha tanto potere. Eppure l'apparire della distinzione nell'unità di questo rapporto come unicità assoluta è bene presente : Appare : e i contrari sembra acquistino realtà ; ma non la dà loro, perché solo appare e non è. Perciò scompaiono nell'unità che sovra­ sta il loro apparire, arcana musica divina cui sono i termini tutti, bianco nero, bello brutto, bene male semitoni e metafore al suo canto.

Appare : e i contrari sembra acquistino una autonoJDa consisten­ za ; ma subito la riversano e comprimono con la propria densità l'unità che è in loro, in cui ineriscono, e che plasmano al grado som­ mo di interiore vibrante tensione : pressione assoluta : materia in­ candescente. Ma la fiamma è anteriore a ogni distinzione, a ogni delinearsi di differenze, a ogni sorgere di immagini, a ogni nascere di mondi. Che essi sorgano e ne oscurino il fulgore è buio mito e forse sogno ; essa non li lascerà mai formare nella sua luce abbagliante. In essa niente si vede e niente si può vedere ; non appaiono le cose per di­ leguare ma neppure appaiono ; non affiora una parvenza per scompa­ rire ma nemmeno affiora ; in essa niente si vedrà né si potrà vedere. Mai n .e i secoli è stata agitata « una fiamma cosi nera ». Per quanto buia sia questa fiamma, la sua luce basta a far scor­ gere la ragione del suo incandescente trepidare, la ragione del suo duplice procedimento : l'apparire di contrari come immagini dile­ guantesi, come metafore d'una realtà che è oltre di loro ; l'apparire ·di contrari che si riversano nella realtà e vi scompaiono : la fiamma incomprensibile. ( . ..) Gli opposti nascondono in sé tali e tanti significati e rapporti che non ·è stato possibile leggerli e trattarli come se avessero un significato unico e una funzione semplice ed elementare. Ad adoperarli come spiegazione, invece di considerarli come problema essi stessi, si convertono fra mano in qualcosa che non è piu la loro essenza ; si convertono in a l t e r i t à , nella generica iden­ tità dell'alterità che lascia indeterminato uno dei termini, e si illude che, nonostante questa sua indeterminatezza, l'altro termine possa avere consistenza determinata ; oppure si convertono in c o n t r a ­ r i e t à , nella identità dei contrari che, ,abbiamo visto, si dispongono sotto l'unità e non la esprimono nella sua interezza ; oppure si convertono in un tipo di opposizione g r a d u a t a in mo·do tale ·

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che un termine .si approssimi " sempre piu " all'altro e perciò all'unità. Insomma si convertono in proposizioni e discorsi cosi poco rigorosi e cosi poco approssimativi, che vien fatto di cercare a capo e a giu­ stificazione di questi discorsi - se ogni tipo di discorso ha una cate­ goria che lo genera - la " categoria del pressappoco ". Hegel, proprio per evitare che lo spirito fosse il fiume senza sorgente né foce di generici opposti - ossia di svariati tipi di con­ trari susseguentisi e sostituentisi a vicenda - ha concepito il reale fatto in modo che le coppie degli A non A si immergano l'una nel­ l'altra in quanto ciascuna rivela l'essenza della precedente. E per questo continuo rivelare o produrre l'essenza, non vengon messe da parte a mano a mano che si espongono, si che restino affastellate l'una fuori dell'altra, ma si penetra in loro, e perciò si resta sempre nell'unica, che è la centrale verità e realtà. Sicché l'A non A iniziale è l'A non A finale. Ciò che in questo continuo processo del sorgere e formarsi di A non A (che dà luogo al prodursi d'una fenomenolo­ gia) è fondamentale ed essenziale, è appunto il p r o c e s s o s t e s s o : e questo è Spirito. A non A è perciò tanto fenomeno o tappa o ele­ mento, quanto questo stesso processo, che producendo l'A non A, come l'essenza la natura e la realtà appunto dall'A non A precedente, ha in questo produrre la propria realtà. E perciò il processo si espri­ me anch'esso con A non A. Se si restringesse il t e m p o i d e a l e in cui si articola la dia­ lettica, e lo si riducesse ad un istante indivisibile, in modo da far Ai che tutti quanti gli A non A che formano la fenomenologia, schiac­ ciandosi l'uno sull'altro, coincidessero fra loro nell'unità indivisi­ bile, svanirebbe, fin nella sua radice, ogni realtà del processo. E scomparirebbe ogni traccia di spirito. . La realtà dello spirito poggia sulla realtà di questo " tempo idea­ le " . E per questo è stato provveduto a che scorra lento : per dar tempo di vivere. E scorre lento perché le distinzioni che sorgono e tengon separati e distinti i vari A non A, nonostante il loro dile­ guare, sono pur sempre presenti ed agenti, e con la loro presenza rallentano il ritmo che senza ·di loro si contrarrebbe nell'immobile. Sicché l'A non A in cui si compendia lo spirito, significa : bianco non-bianco nella sua coincidenza con bianco logaritmo ; cioè : con­ traddittorietà identica a distinzione. Si sa però come non essendo Hegel riuscito a mantenere l'identità di questa coincidenza (per cui i contradittori si sono abbassati a con­ trari e la distinzione s'è frantumata in una miriade di semidistin­ zioni), il ·processo stesso, cioè .lo Spirito, si è svuotato radicalmente, fin dall'origine, proprio dell'essenza che avrebbe ·dovuto avere per poter essere spirito.

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Per mantenere rigorosa l'identità della distinzione con la contra­ dittorietà, si che i contradittori non diventino contrari e non si dispon­ gano sotto l'unità assoluta in un " pio e meno " che con fittizia in­ finità di semidistinti cerca di adeguare quell'unità che sta fuori di loro, occorre fare in modo che mentre l'A non A è tanto quel bianco che sta con nero, quanto quello che sta con rosso, quanto quello che sta con logaritmo, quanto quello che sta con non-bianco, nello stesso tempo il non A sia quel nero quel rosso quel logaritmo e quel non-bianco, che non si intendono distinguere fra loro piu ·di quello che si intenda discernere in quel bianco che è A, il bianco di ogni coppia. Solo se ogni distinto nero e rosso e logaritmo, è la presenza di questo �on A, solo a questa condizione, quelle distinzioni non si allontanano e non stanno sotto generi autonomi e a sé ; e solo se quell'A, quel bianco, come unità dei diversi A, tutti in sé li racco­ glie e impedisce che si dirompano, solo allora il reale come A non A è intensità e pienezza dell'unità assoluta. E questo è appunto ciò che si raggiunge con il sistema del Gentile. Ed è la ragione intima della assoluta intensità onde l'atto puro è, e mantiene in sé, senza squadernarla per l'universo, la propria ricchez­ za interiore. Ma · poiché qui A non A vengono, in quanto opposti, concepiti come necessariamente subordinati alla propria assoluta identità la assolutezza della distinzione, la opposizione che forma l'unità del si stema non è adeguatà ad esprimere l'intera essenza della realtà. A non A è la realtà : che si deve leggere s i m u l t a n e a m e n t e : bianco non-bianco e bianco logaritmo. E questo è- tanto poco l'identità degli opposti, che tutta la forza che gli impedisce di svanire nel buio è radicata nella ·distinzione onde logaritmo non è non-bianco. Non eravamo dunque menomamente autorizzati ad applicare la leibniziana identità degli in discernibili ; e non ne potevamo perciò trarre come conseguenza la univocità degli opposti, ossia la conce· zione che trova nella loro identità la definitiva unicità di significato del reale. Abbandonati gli opposti con l'ambigua ricchezza che li rende torbidi, ci troviamo ora davanti ad A non A come presenza della contra·dittorietà e della distinzione. Per quest'ultima sua costituzione, A non A non ci consente di servirsi di lui per risolvere particolari problemi, ma si presenta come problema da risolvere : il problema del suo s i g n i f i c a t o che è il problema della sua struttura costitutiva. Se il puro contradittorio non esistesse, se si negasse davvero e non a parole, non si sfuggirebbe alla rigorosa posizione di Parme­ nide : tutto quanto scomparirebbe, ché ogni nero ogni rosso ogni

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logaritmo deve essere intanto genericamente non-bianco ; e se non lo è, gli mancherà eternamente la materia e la possibilità per formarsi ed esistere. Indeterminato quanto si vuole, il contradittorio è substrato indispensabile di ogni cosa che solo su ·di esso - sebbene non da esso - può sorgere. Sicché, eliminato il contradittorio, ogni contra­ rietà, ogni opposizione, ogni distinzione, vanisce nel sogno di esseri effimeri vaganti nel nulla. E se Parmenide, portato per incantato ra­ pimento da bianche cavalle nella pura identità, e chiusi i portoni di bronzo, riesce a sentire la voce della Dèa, è perché essa gli parla ancora coi termini e con le distinzioni ·del mondo, dal quale, con un atto di incomprensibile rapimento, è uscito. E ne è uscito appunto con un incanto, con un salto nell'identità, che né Parmenide né Schelling riescono a giustificare. E li dentro, nell'uno, nell'essere, se proprio chiusi i portoni di bronzo si sono tagliate le connessioni con la contradittorietà, non c'è nulla da vedere né nulla da sentire : la vita vi è terminata ; anzi la vita non vi è mai cominciata. Per vivere occorre ammettere il contradittorio, dice il Forestiero d'Elea. E il puro contradittoi.-io è proprio come la vita : non si coglie mai. Cogliere la vita... ma la vita si vive ; cogliere il trapasso fra essere e non-essere ... ma quando si ficca il viso a fondo, e l'essere, puro essere, privo di ogni determinazione, scompare, e ci si trova dinanzi il Nulla, il passaggio non si vede avvenire : è avvenuto. Non passa, è passato, ammoniva Hegel. La riflessione arriva troppo tardi i la vita è già stata. Ma come ? Vita incosciente, germogliare ignaro e cieco? Il regno del già stato? Il puro meccanismo? E la Scienza della Logica, nella sua prima parte, in cui A = non A è moto che avviene, no, che è avve­ nuto, è appunto una grande fisica ; e solo nella sua ultima parte, in cui A = non A è atto c h e s i c o m p i e , dovrebbe essere idea. Ma come si compie ? Come avviene il passaggio nel presente del suo pro­ dursi? Si dice che A non può, solo, stare ; che lui stesso si muove e va... Ma qui si attribuisce ad A un i n t e r n o , e in questo interno si introduce una qualità occulta, un'occulta virtu, una forza. A è con­ cepito come nucleo esistente e ·dinamico, come forza espansiva ; in una parola, come entità metafisica. E dentro di lui v'è già il piano schematico della futura effettiva costruzione che il suo dispiegarsi potrà produrre : che è il cammino con cui A arriva al non A, e perciò è A vivente. Ma la forza, il moto, la vita, ha già in sé tutta quella struttura che svilupperà solida ed architettata e formerà in sistema, ma non darà ragione del moto stesso, della forza stessa, non spie­ gherà il " Non " dentro A. Bisognerà concepire questo Non come qualcosa- originario, ab aeterno ; ed accettarlo cosi com'è. Accettare il Non positivo. Ma cosi si accetta qualcosa che è già concluso e determinato ; ché in quel Non positivo si cela già una d i s t i n z i o n e ,

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sebbene minima ; si cela già un'intera metafisica. Proseguiamo allora l'analisi ; togliamo il Non positivo. Togliamo al rapporto A non A o g n i differenza : togliamola fino in fondo, radi­ calmente, togliendo ·di fra A non A tutto ciò che può farne la di­ versità, che può i n d i c a r n e la diversità. Anche se si tratta di una distinzione e v a n e s c e n t e , è già una distinzione presente. E, appena nominata, questa distinzione, che, si sente, ci deve pur essere fra A e non A, assurge a Demiurgo ; anche se è una pallida opi­ nione, una Meinung, è già Demiurgo distinguente, suscitatore, nel seno di A non A, d'una successione di fenomeni, ancorché destinati a vanire nel seno stesso in cui son nati. Togliamo dunque anche questa evanescente distinzione, questo seme generatore tr9ppo potente, to­ gliamo anche l' o p i n i o n e della distinzione fra i due A della con­ tradittorietà, e, privi alla fine di ogni distinzione... i due A si schiac­ ciano l'uno sull'altro e si identificano. No : non si identificano. In verità non si identificano : in Parmenide si. E se non è facile contrad­ dire Parmenide - direi imitando Socrate - è impossibile contrad­ dire la verità. In verità, tolto dalla contra·d ittorietà ogni sospetto di distinzione, ogni ombra di distinzione, si ha l ' i n d i s t i n t o . E ha­ sta. Trasformare l'indistinto in identico, fermarlo nell'uno, richiede un arresto nel processo, un capovolgimento violento, un vigore sin­ tetico che forzi l'indistinto e lo stringa in sé, lo renda compatto, omogeneo, uno, identico : Essere. Questa violenza a quel processo che porterebbe i due termini della contradittorietà - scomparsa ogni distinzione - fino all'indistinto, violenza che lo arresta e inverte, . si chiama Parmenide. Una fermata mentale : l' Uno. Ma il processo non è costretto a fermarsi ; il non distinto non' è identico a identico. Quel di piu che c'è per ottenere questa trasforma­ zione, non sorge nel processo, viene da fuori. Ed il processo prose­ gue, e Parmenide rimane indietro nella storia del pensiero. Eppure tutte le volte che si desidera o si sogna di cancellare la distinzione, sorge l'Uno come mèta, come termine cui porta il sogno e il desiderio. E l' Uno prende il nome ·di Sostanza, o di Amore, o di Beatitudine della trasparenza intellettuale, e sarà sempre qualcosa, e mai l'indistinto. È che anche nei sogni noi siamo nella vita, e dentro ogni sogno c'è sempre la totalità a formarne la genesi ; ed essa è concreta, reale ; sicché anche un sogno mai sarà il · puro processo della contradittorietà privata d'ogni distinzione. Neanche nella fanta­ sia si può toglierla per intero. Andrebbe nell'indistinto. Ma non ci va. Ché si trova ovunque quell'e'lemento estraneo alla contradditto­ rietà, ma a lei interno, che · distingue A da non A. E neppure nel so­ gno si riesce a trovare davvero pura la contraddittorietà. (Critica del capire e altri scritti, cit., pp. 152-164).

12. GALLO GALLI

l. DIO Dobbiamo ora affrontare il problema che piti pesa sull'uomo e alla cui soluzione tende, come a vertice del conoscere, l'indagine filosofica : il problema di Dio. Noi siamo lontani dal reputare che da Dio si debba partire, per vedere con aperti occhi della mente. E invero. Ciò o significa subordinazione della nostra attività conosci­ tiva all'affermazione di una realtà superiore, e faremmo come chi, per meglio vedere, si cavasse gli occhi ; oppure ha un significato peda­ gogico, ossia non filosofico. In ambedue i casi, poi, significa arbitraria soluzione positiva del problema di Dio, cioè, innanzi tutto, dell'esi­ stenza ·di Dio. - Ma vogliamo esser lungi dal negare l'importanza di tal problema. Chi ha creduto di dileggiare la dottrina che se ne occupi dicendola teologica, non s'è accorto come dovrebbe tagliar fuori dalla storia tutte le dottrine filosofiche (compresa la sua, che di · quel problema è soluzione negativa), e come, disconoscendo un'esigenza universale, fornisca un sicuro criterio per un giudizio di valutazione negativa della propria dottrina. Quando si parla ·di Dio, facilmente si corre col pensiero alla fede, come a ciò che pone all'uomo la necessità del riconoscimento di Dio. E la fede, se non si voglia considerarla atto di valore meramente psico­ logico, che è assurdo porre qual principio di certezza, è atto spirituale posto come organo dell'assoluto. Senonché la fede in quest'ultimo senso facilmente soggiace alle critiche che piti d'una volta abbiamo avuto occasione di fare ad ogni pretè sa di ridurre l'assoluta realtà entro un atto o forma determinata. Cosa, questa, che nessuno, veramente, si propone e confessa di fare ; ma la fa in effetto, ogni volta che parla ·di quel modo, o forma, dicendo che esso ha valore assoluto non in quanto sia considerato soltanto nella sua affermazione differenziale, bensi in quanto sia anche il resto della realtà, tutta la realtà. È chiaro che ciò, se non vuoi significare una semplice riduzione, significa un circolo vizioso. E ogni modo, per chi non voglia accettar quella, né cadere in questo, deve, si, fare di tutto il resto il proprio contenuto ; ma anche la reciproca ha da esser vera. - Una volta, poi, riconosciuto ciò, non si comprende quale -

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differenza sia legittimo e necessario porre tra il pensare che sia pie­ namente concreto e la fede che voglia davvero attuarsi secondo quella fm:.zione per cui si rende distinta dall'affermazione arbitraria. Non ci sarà che una m era ·differenza di fatto nel punto di partenza ; ma le posizioni fondate sulla fede saranno sostanzialmente le medesime di quelle fondate sul pensiero. E dunque il pensiero, cioè la filosofia, non deve ricorrere, poiché non ne ha bisogno, a qualcosa di alieno da sé, a cui affidarsi e da cui attingere quella verità che essa non sarebbe capace di raggiungere. Se ne è capace la fede, ne è capace anch'essa ; se non ne è capace essa, non lo è neppure la fede. Ma, in verità, accade che alla f e d e come organo ·dell'assoluto . viene sovente sostituita la fede come atto semplicemente di significato e valore psicologico. E allora siamo fuori dalla ragione e dalla filo­ sofia : anche se si sostenga il contrario, appellandosi a quella con­ cretezza dello spirito, la cui esigenza noi pure vogliamo riconoscere, ma che vogliamo trasvalutata in affermazione di valore filosofico, ossia in affermazione di pensiero concreto. N on sarà difficile accorgersi che i sostenitori del valore conoscitivo della fede, con la massima facilità e come si trattasse d'una cosa sola, dall'affermare · il valore della fede passano a parlar ·di tendenze insopprimibili, di profondi bisogni spirituali, di naturali esigenze della vita (non altrimenti qualificate e fondate). E cosi resta aperta la porta a tutte le affer­ mazioni arbitrarie e a tutti i concetti del conoscere comune, con la illusione di dar loro un saldo fondamento. Noi dunque vogliamo metterei da un punto di vista rigorosa­ mente razionale-concreto. Ma per riprendere la nostra discussione di là dove il problema di Dio possa trovare il fondamento della sua soluzione, in modo da dare nello stesso tempo ai seguaci della fede -quella soddisfazion� che è possibile dar loro ; partiamo pure dalla posizione, diremo, metafisica della fede. L'atto di fede non è atto meramente psicologico, si 'distingue ·dall'atto di pura spontaneità, dal puro e semplice sentimento, in -quanto si appunti nell'assoluto, sia umano organo dell'assoluto : è ciò, che lo toglie dal dominio del semplice opinabile, ·del contingente, del­ l'errore. Ma questo non significa se non che interiormente all'atto di fede si pongono tutte le categorie dell'essere e del conoscere, che sul riconoscimento di queste si misura il suo valore, e che esso stesso le pone come proprio principio, · pur non annullandosi, bensi ponendo anche se medesimo, in ciò che abbia di peculiare, quale categoria dell'essere e ·del conoscere. ( .. ) Cosi, siamo ricondotti a quella dialettica dell'atto di partico­ larità e dell'atto di universalità, cioè del molteplice e dell'uno, da cui siamo partiti nella nostra indagine : al quale uno-molteplice non ·

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abbiamo mai dato il significato ·di conoscenza razionale pura, ossia della conoscenza razionale in quanto posta nella particolare forma per cui si contraddistingue da altre forme della realtà spirituale ; hensi abbiamo dato il significato generale di realtà spirituale, di cui soltanto per ragioni inerenti al punto di vista proprio della filosofia è stato messo in speciale rilievo il momento o-d aspetto logico. Siamo ricondotti al · problema dell'uno e del molteplice. E invero. È innanzi tutto da osservare che l'universale, se non vuole svanire nell'assurdo dell'universale astratto, dovrà significare, in quanto presente nell'atto di fede, costituirsi interiormente all'atto di fede di tutte le affermazioni di vita spirituale ; le quali nell'atto di fede trovino il principio dell'esserci loro, e il fondamento onde non siano vanità ed illusione, ma veraci manifestazioni di vita. Tutta la vita spirituale dovrebbe essere, senza residuo, atto di fede. E allora, gli altri atti saranno semplice depotenziamento o. priva­ zione dell'atto di fede? ( ...) Quando si tengano presenti le osservazioni onde ci è sembrato incontrovertihile il valore del finito come vera e propria realtà, e quando si tenga presente la natura propria di quell'universale che ahhiam visto potersi realizzare riconoscendo il valore della sponta­ neità creatrice, cioè del finito, ossia quando si tenga presente la natura del rapporto che ahhiam detto formale ; sembra incontro­ vertihile che nella nostra filosofia non vi sia luogo pel trascendente, ma solo per il trascende'ntale. Non staremo qui a ripetere quanto ah­ biamo già detto con una insistenza che forse a taluno sarà sembrata eccessiva, e con un desiderio di precisazione che sarà apparso meti­ colosità ai frettolosi : i quali credono che la filosofia debba essere una specie di bacchetta magica che apra tutte le porte, e non s'accor­ gono come quella che essi credano adatta alla bisogna, sia invece un miserabile grimaldello. Eppure, fermo restando quanto ahhiam detto, e anzi appunto per ciò, noi mostreremo senza troppa difficoltà la necessità di affermare l'esistenza del trascendente. ( . ..) Il mondo del divenire, il mondo della finitezza, sembra dunque assolutamente insuperahile, e sembra identificarsi con la vera e con­ creta realtà assoluta. Ma poiché fin qui tutti i tentativi esaminati per giungere al trascendente hanno cercato il loro fondamento sulla. categoria dell'universale, rivolgiamoci appunto al mondo del finito. Né - a parte ogni considerazione ulteriore - è strano proposito, questo, se si rifletta un poco. Poiché il trascendente, se c'è, non potrà, come realtà assoluta che esso deve essere, non avere un mo­ mento di immanenza nel mondo del relativo, . ossia non potrà essere cosi asso�utamente trascendente, che nessuna traccia di esso si debba trovare nel mondo del relativo. E inoltre anche la dimostrazione del

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trascendente, quando non voglia essere, per quanto ci si ingegni a camuffarla con apparenza di razionalità, un intuito immediato, che è, per natura sua, insufficiente a fondare una vera dimostrazione ; anche la dimostrazione del trascendente, come tutte le altre dimostrazioni, sarà davvero incontrovertibile, solo quando significherà chiarimento di esigenze intrinseche al suo contrario, e cioè al mondo della vissuta esperienza. Or bene. Non soltanto sulla base della intuizione immediata del­ l'essere e conoscere, ma anche com� posizione logicamente implicita nella posizione del valore categorico della spontaneità, ossia per la impossibilità di una realtà priva di molteplici, e per la inesauribile ricchezza della spontaneità creativa ; abbiamo avuto p iti di una volta la necessità di notare che è impossibile assegnare un cominciamento al processo d'attuazione dell'essere. Senonché non è difficile accor­ gersi di una difficoltà estremamente grave, che a tal punto si pre­ senta. L'atto in atto, l'atto nuovo di spontaneità creativa, viene a costituirsi preceduto da un processo d'attuazione della realtà, che è infinito. Ma l'infinito non è superabile ; e cioè, attraverso di esso non è possibile che si giunga al costituirsi del nuovo atto di spontaneità creativa. E allora dovremo abbandonare la posizione del valore categorico a acquistar piu pre­ cisa conoscenza. Poiché evidentemente il pensiero assoluto ed i di­ stinti non sono due mondi chiusi, l'uno di fronte all'altro. L'univer­ salità dell'uno sta non già nell'espellere da sé ogni particolare, si da impallidirsi nell'astratta e vuota identità, ma nel riassorbire, pur conservando .la loro distinzione, i singoli ; e viceversa i singoli rag­ giungono la loro distinzione piena nell'essere contemplati attraverso l'universale. - D'altra parte, di qualche cosa fuori di noi non si com­ prende come si potrebbe parlare. - E infine non potremo negare che il pensiero universale debba esistere conforme all'essere, pel quale l'abbiamo posto : cioè formare sistema con noi, esistere in noi e per noi ; mentre viceversa noi esisteremo in lui e per lui ( ... ). La singolarità delle determinazioni dell'essere, e quindi del sog­ getto, è ineliminabile. Vale a dire : Il pensiero del singolo non potrà mai . essere pensiero puro : in quanto limitato, è inscindibilmente con­ giunto col sentimento e con la volontà. Quindi si spiega come nel soggetto singolo il sentire e il volere siano irriducibili al pensiero,

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come essi siano anche costitutivi del pensiero singolo e non semplice­ mente determinati da questo. Quando parliamo del e.entimento e della volontà come posizione del pensiero, se ci riferiamo al pensiero soggettivo, non possiamo parlare che della possibilità di questo a pÒrli ; possibilità mai attuata, la quale necessariamente conduce al pensiero universale che li pone. ( ...) Se la diversità dei singoli costitutivi del soggetto non è dovuta che al diverso gra·do d'implicazione del pensiero, ben si vede come il pensiero universale, il pensiero cioè che tutto comprende e pensa attualmente, non possa essere semplicement.e uno tra i vari costitutivi d'un soggetto universale. Data l'esigenza d'un pensiero universale, non si può porre un sentire ed un volere universali se siano sintetiz­ zati col pensiero nell'unità d'un soggetto supremo. L'essere universale, in quanto universale, non vuole, perché esso è tutto e niente può vo· l ere ; non sente, perché esso è tutto e nien�e gli si oppone e da niente si può distinguere. Esso è pensiero, non altro che pensiero ; pensiero concreto ; logicità e spontaneità, ragionamento ed intuizione assolu­ tamente uni. Ma non è perciò un'infinita quiete, nella quale svanisca come in morta gora quest'attività che ci freme dentro. Il pensiero universale pensa la vita nostra, le nostre gioie e i nostri dolori, le nostre scon­ fitte e le nostre vittorie : e non è nient'altro se non il pensiero di­ questi stati soggettivi. Noi dunque non si scompare nell'universale, ma siamo costitutivi di esso, sebbene posti da esso ; siamo pensieri di Dio, ma Dio non è nient'altro se non questi pensieri. Dio, Essere determinato consapevole di sé, in quanto è essere pensa istantanea­ mente il tutto, in quanto è determinato pensa singolarmente queste determinazioni, si identifica cioè col nostro pensiero soggettivo. Noi siamo i pensieri singoli di Dio. Il pensiero universale è l'essere deter­ minato visto attraverso l'essere puro }imitantesi nelle sue determi­ nazioni ; il soggetto è l'essere determinato visto attraverso la singo­ larità delle determinazioni : un concetto unico che si spezza in con· cetti infiniti e che c'è in questo spezzarsi in concetti infiniti ; un atto di pensiero unico il quale crea i singoli e insieme crea se stesso creando i singoli, ossia in quanto creato dai singoli. Dio, pensando il singolo, si fa singolo e si fa se stesso in quanto pensa i singoli e si fa singolo. (Dall'idea dell'essere alla forma della coscienza, Torino, Chiantore, 1944, pp. 5-15).

13. UGO SPIRITO

l. SciENZA E FILOSOFIA Si è detto che la scienza è necessariamente una considerazione na­ turalistica della realtà, la·ddove la filosofia ha il compito di dimostrare la spiritualità della stessa natura. Si è creduto che, se al filosofo è dato di concepire il mondo come creazione dello spirito o autocrea­ zione, lo scienziato debba invece fatalmente presupporre il mondo che studia e che può studiare solo in quanto egli trova innanzi a sé come mondo da scoprire nella sua esistenza, nei suoi caratteri costi­ tutivi e nelle sue leggi imprescindibili. Lo scienziato, che pone l'oc­ chio al microscopio, si affaccia a un mondo ch'egli ancora non co­ nosce, ma che sa preesistere alla cognizione che potrà averne e ch'egli, muovendo appunto da questa certezza, intende solo constatare. E tanto piu scienziato egli sarà, quanto piu saprà sgombrare il suo animo da ogni pregiudizio di carattere soggettivo .e considerare il reale nella sua assoluta oggettività. Il filosofo, dunque, può e deve essere idea­ lista ; lo scienziato, invece, non può non essere naturalista o empirista. È, tuttavia; illusorio ritenere che questa distinzione possa avere un valore effettivo e rispondere alla realtà concreta. Concretamente, infatti, la posizione del filosofo e dello scienziato di fronte al mondo da studiare non può essere che una sola, e cioè :riaturalistica e idea­ listica insieme, in una dialettica alla quale non è dato sfuggire. Pen­ sare diversamente significa assolutizzare quella concezione della scien­ za che è legata alla moderna filosofia empiristica, e, prescindendo da questo nesso storico indubitabile, giungere a una conclusione dogma­ tica, della quale invano si cercherebbe una giustificazione. Significa, peggio ancora, far cristallizzare il fondamento gnoseologico e la metodologia ·della scienza, distaccando questa dal processo specula­ tivo e costringendola a vivere in una sterile autonomia. La scienza, al contrario, è stata sempre indissolubilmente legata alla filosofia : de­ duttiva, quando la deduzione sembrava il fondamento del conoscere ; induttiva, quando si negò il valore a priori dell'universalità ; metafi­ sica, quando fu forzata anch'essa negli schemi di una dialettica arbi­ traria ; positivistica, infine, quando, perv�:�sa dall'idolatria per il fatto,

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stette invano aspettando che questo parlasse. Perché mai, dunque; do­ vrebbe ora mutar destino e, lungi dal seguire il pensiero nella sua conquista idealistica, restare in eterno legata alla metodologja empi­ ristica ? Se, poi, alla conclusione del carattere necessariamente natura­ listico della scienza si volesse dare un significato piu generale e iden­ tificare senz'altro l'atteggiamento scientifico con quello intellettualì­ stico, allora si riuscirebbe, si, a dimostrare che la scienza è stata sempre intellettualistica, ma intellettualistica si dimostrerebbe al­ tresi la filosofia, che si ha bisogno di rinnovare, e il cui nuovo de­ stino dovrà pure implicare quello della scienza nuova. Se, infine, all'atteggiamento intellettualistico della scienza non si vuoi dare un significato metafisico, ma soltanto gnoseologico e dia­ lettico, allora deve convenirsi che l'oggettività del mondo da cono­ scersi è esigenza imprescindibile di ogni sorta di pensiero e che anche il filosofo, nella massima consapevolezza del processo autocreativo, non può non ricercare l'essere del :Ò::wn;do e di se stesso alla stessa guisa dello scienziato, che ricerca l'essere della natura. Anche quando so che la verità del mio pensiero è posta da me e non preesiste al mio pensiero, so pure, con assoluta certezza, che non mi è dato porla ad arbitrio, perché la verità è · quella li e non è possibile che sia altrimenti. Che la scienza non sia per sua natura legata alla metodologia em­ piristica, lo confermano le nuove terideme che da qua'l che decennio vanno delineandosi in vari campi e che, pur restando ancora molto indecise e problematiche, lasciano già intravedere un rinnovamento radicale nella concezione ·del compito dello scienziato. L'esigenza sempre piu viva, che va imponendosi, in Italia e aJl'estero, di una integrazione reciproca di scienza e filosofia, è la prova piu evidente ·dell'insoddisfazione delle rispettive autonomie, e del bisogno che la scienza prova di rivedere i propri presupposti metodologici. Come po· trebbe la filosofia negare alla scienza questo diritto e ritrarsi nel suo campo disdegnando ogni collaborazione, senza rinnegare se stessa e annullarsi? Negata ogni ragione essenziale per distinguere la scienza dalla filosofia : dimostrata cioè l'insussistenza di un contenuto proprio della filosofia e di una limitazione costitutiva del conoscere scientifi. co, resta a vedere se alla' distinzione sia possibile dare un significato, che caratterizzi non due forme del sapere, ma due momenti · necessari di ogni sapere. Ogni concetto, abbiamo visto, può essere considerato nella sua astratta oggettività o nella concretezza dell'atto giudicante. Nel primo caso esso è sempre particolare e generale, nel secondo sempre uni-

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versale e individuale. Occorre ora chiarire il significato che può avere questa duplice considerazione e se essa sia essenziale al pro­ cesso spirituale. Quando io concepisco il calamaio, evidentemente di­ stinguo tale oggetto da tutti gli altri che non sono calamai : considero cioè il calamaio nella sua particolarità, per cui esso mi appare un frammento ·dell'infinita realtà. Ma quando cerco di rendermi conto di quel che propriamente il calamaio sia, non .posso pensarlo fuori del suo rapporto con tutti gli altri oggetti e propriamente con tutta la realtà : tale rapporto è imprescindibile e costitutivo dell'essere del calamaio, e infatti tutte le cosi dette note del concetto di calamaio sono intelligibili solo in funzione di una finalità universale. Basta porre in questi · termini il problema per convincersi che pensare non si può senza particolarizzare od astrarre (contrapporre, ad es., il calamaio agli altri oggetti) ed insieme senza universalizzare o ricon­ durre alla concretezza della vita (intendere il calamaio nella sua unità con tutto il mondo di cui fa parte). Evidentemente le ·due specie di considerazioni non possono con­ cepirsi come realmente esistenti l'una fuori dell'altra : non è possi­ bile, infatti, contrapporre o distinguere senza unificare, essendo la stessa contrapposizione una sorta di rapporto. Ciò vuoi dire che con� cretamente non esiste che un solo modo di concepire il calamaio ; ma ciò non esclude, tuttavia, anzi implica necessariamente un processo dialettico del conoscere, dal particolare all'universale e dall'univer­ sale al particolare, o, che è lo stesso, dali' oggetto al soggetto e vice­ versa. Escludere uno dei due momenti ·del processo significherebbe annullare la conoscenza in una immediatezza inconcepibile. Il millenario travaglio del pensiero filosofico nell'antitesi di uni­ versale e particolare è la conferma decisiva dell'impossibilità di eli­ minare uno dei due termini : si può astrattamente ritenere che il problema sia superato, ma l'antitesi risorge a ogni passo è impone la necessità di una soluzione non verbalistica. Se non che è difficile, anzi impossibile, pervenire a questa soluzione, finché ci si ostini a iposta­ tizzare i due termini antitetici e si continui, pur dopo averne procla­ mato il carattere meramente dialettico, a far filosofia per un verso e scienza per un altro, in una reciproca ignoranza di problemi. L'avve­ nire del pensiero moderno sarà nella chiara consapevolezza del valore assolutamente innnanentistico dell'antitesi e cioè nell'assoluta identi­ ficazione di scienza e filosofia. (Scienza e filosofia, Firenze, Sansoni, 19502, pp. 57-61 ).

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2. LA CRISI DEL PENSIERO MODERNO In qual senso, dunque, può parlarsi di una crisi del pensiero mo­ derno? Per rispondere, occorre naturalmente tornare a caratterizzare il principio spirituale che informa il mondo moderno e che vale a distinguerlo dall'antico ; occorre in altri termini risalire all'esigenza fondamentale che ha indotto l'uomo moderno a spezzare i vincoli tra­ dizionali, a compiere una radicale rivoluzione e a costruire un nuovo ideale di vita. Ora, quest'esigenza, si sa, è caratterizzata dal dubbio metodico, dall'analisi della propria coscienza e dalla volontà di pos­ sedere se stesso, e, attraverso se &tesso, il mondo. È, in una parola, l'esigenza critica. Per comprendere, quindi, la crisi, è necessario ren­ dersi conto del significato piu profondo de'l principio critico e analiz­ zare il modo in cui esso ha agito nella coscienza moderna, modificando e trasformando tutte le manifestazioni :della vita. La trasformazione ha potuto assumere un carattere tanto gene­ rale e profondo perché il criticismo implica addirittura un capovol­ gimento meta fisico del pensiero : quel capovolgimento che Kant de­ signò come rivoluzione copernicana e che, se giunse a piena consape· volezza nella Critica della ragion pura, è tuttavia alla radice di tutto il pensiero moderno. Il quale da Di{} e dal mondo si volge all'io, e pone al centro della speculazione il problema dell'autocoscienza. Il conosci te stesso era già stato, fin dall'antichità, un motivo essenziale della filosofia occidentale e basterebbe ricordare le figure di Socrate e di Agostino per comprendere fino a che punto esso abbia operato nella vita del pensiero. Ma esso si trasforma e diventa dominante sol­ tanto dopo il Medio Evo, dall'Um� nesimo in poi, quando l'esigenza immanentistica si potenzia e &i sviluppa fino a rinnegare ogni forma di trascendenza. L 'uomo si ripiega . su se stesso e in se stesso vuoi tro­ vare il criterio della verità e la ragione della vita. In interiore homine habitat veritas, aveva detto Agostino, e il nuovo centro del mondo è visto cop�e principio ·di un processo di interiorizzazione, in cui si vorrà riconoscere l'essenza della spiritualità. Da Dio all'io, ma nel mondo della propria coscienza si ritroverà, appunto, Dio, il vero Dio, che invano si è cercato di fantasticare e mitologizzare in un mondo diverso. Si che, quando con Campanella e con Cartesio si giun­ gerà all'autocoscienza del senso o della ragione, nel sen&o e nella ragione si vedrà vivere tutta la realtà nel suo principio divino. Sento, penso, dunque sòno e dunque Dio è. Il secondo ergo è quello fonda­ mentale, quello che dà valQre al primo e perciò al mio sentire e al mio pensare. L'autocoscienza è vera soltanto se si risolve nella co­ scienza di · Dio. Ma, intanto, il secondo ergo è appunto secondo. La coscienza

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di Dio diventerà pm profonda e pio vera, ma non sarà pio, logica­ mente, il punto di partenza della mia vita spirituale. Il centro dell'in­ dagine è spostato e con esso si sposta l'accento o il tono del mio vivere. Il mio discorso d'ora in poi non avrà pio il soggetto in terza persona, ma in prima, e il passaggio dalla terza alla prima persona varrà a ca­ ratterizzare tutta la fisionomia del mondo · moderno. La dualità dei termini del pensiero, io e Dio, o pio genericamente, io e realtà, quando · si muova dal primo per giungere al secondo, im� plica una conseguenza di carattere fondamentale, che vale a illumi­ nare i poli tra i quali si svolge la vita moderna. Muovere da me pe� giungere a Dio significa, infatti, che, se il punto di partenza è certo e costituisce il presupposto di ogni agire, non altrettanto certa è la capacità di giungere alla mèta. Muovendo dalla trascendenza il cam­ mino può ritenersi tracciato fin da principio e il problema consisterà nella scelta di vivere con Dio o contro Dio ; muovendo dall'imma­ nenza, invece, la via deve essere costruita da me e il processo del mio pensiero comincerà a svolgersi sen:ta Dio o senza la .· consapevolezza della realtà ·di Dio. Ora il mondo moderno ha proprio questo di ca­ ratteristico, di potei"si svolgere e di svolgersi effettivamente, in pro­ porzioni piu o meno grandi, senza Dio, ossia al di qua del problema di Dio, in un'immanenza immediata, meram{mte umana, in cui la ricerca di Dio può avere carattere secondario o addirittura attenuarsi fino a scomparire. Cogito, ergo sum, ergo Deus est. Il ragionamento può scindersi in ·due e la vita dell'uomo può esaurirsi prima di essere giunta alla · seconda parte. Per comprendere la vita mo-derna, occorre appunto considerarla nel duplice aspetto che essa assume quando ci si arresta al primo ergo e quando si giunge, o si tenta di giungere, al secondo. (Il problematicismo, Firenze, Sansoni, 1948, pp. 17-20).

3. IL PROBLEMATICISMO Il passo decisivo per giungere al fondo del criticismo è stato com­ piuto dal problematicismo. Il quale rappresenta perciò un punto di arrivo e un punto di partenza. Il carattere peculiare del passo può essere chiarito nei suoi vari aspetti prendendo le mosse dall'argomento tradizionale contro lo scettico, al quale si contesta la possibilità di dare significato alla pro­ pria dottrina senza con ciò stesso negarla. Perché lo . scetticismo possa sussistere, occorre che sia valido il criterio in virtu del quale lo si afferma ; ma, se il criterio è valido, sussiste quella verità che lo scet­ ' ticismo pretende di non riconoscere. Il circolo vizioso è evic;lente e

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la confutazione dello scettico perentoria. Ma, guardando a fondo, ci si accorge che il circolo vizioso non è soltanto della filosofia scettica, bensi, e per la stessa ragione, di qualunque filosofia che si ponga come conclusiva. Allorché, infatti, il pensiero si arresta nel sistema o nella definizione del tutto, esso è costretto a trascendere il tutto che pre� tende di definire e implicitamente a renderlo parte della vera realtà che sfugge alla definizione. Che la conclusione sia negativa ( scetti­ cismo) o positiva (sistema della verità) è indifferente al fatto di essere conclusione, e il circolo vizioso riguarda appunto la conclusione comf tale. Non si può definire il tutto senza negarlo. E se la filosofia si propone il compito di questa definizione, essa deve fallire in partenza perché il suo assunto è intrinsecamente contraddittorio. D'altra parte, è anche evidente che il pensiero non può sfuggire all'esigenza di ·definire il tutto e che la rinunzia a farlo non ha signi­ ficato. Se, infatti, ci si convince dell'impossibilità della definizione, il convincersene presuppone un processo logico in virtu del quale la convinzione è conclusiva. Ma dire . ciò val quanto ·dire che la rinun­ zia a definire il tutto scaturisce dalla coscienza del falso tutto e del vero tutto, e cioè che la rinunzia si pone essa, contraddittoriamente, come definizione del tutto. Se cosi non fosse, la certezza della parti­ colarità, che la rinunzia implica, non · avrebbe luogo, in quanto si può riconoscere che una parte è parte solo perché la si confronta col tutto. La coscienza del tutto, dunque, o la coscienza dell'assoluto è immanente nel nostro discorso, qualunque esso sia. Perché io possa aprire la bocca e pronunziare una qualsiasi parola, occorre che in me la parola aderisca alla coscienza di una realtà assoluta. E l'adesione può venire meno soltanto in virtu di un'altra parola che si ponga, essa, come assoluta. A questa radicale contraddizione, che inves.te il pensiero nella sua totalità, il criticismo moderno si è sforzato di sottrarsi approfon­ dendo, come si è visto, il principio dell'autocoscienza. L'impossibilità di definire il tutto si è voluta, perciò, attribuire al presupposto rea­ listico che tale definizione implicava nella filosofia premo·derna. Una volta interiorizzata la realtà, invece, non occorre piu uscire dal tutto per definirlo, perché il tutto è vissuto dall'interno e la coscienza di esso diventa l'atto dell'autocoscienza. Il tutto non è piu posseduto circoscrivendolo, ma esprimendolo. La contraddizione della definizione del tutto cade, perché cade il concetto stesso di contemplazione e di definizione di mia realtà presupposta. Il processo di trasvahitazione del principio della realtà, e in­ sieme del concetto della conoscenza o della filosofia, si è compiuto, naturalmente, in varie e discordanti tappe, con l'avvicendarsi conti­ nuo di esigenze realistiche e idealistiche, ma la logica del criticism()

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doveva condurre progressivamente all'eliminazione di ogni residuo di trascendenza, si da poter proclamare - con l'idealismo attuale il superamento definitivo della logica dell'astratto, cui è legata la contraddizione ·di un tutto concepito come contenuto di pensiero. La logica del concreto, invece, s'impernia sul principio della dialettica o del divenire dello spirito ed esclude che si possa definire alcunché una volta per sempre, senza portare la morte al posto della vita. Definire il tutto, perciò, si può soltanto definendolo continuamente e cioè non definendolo mai, ma coincidendo con esso nell'eterno atto del defi­ nire. Il limite si risolve nella coscienza che lo pone e vive nell'infi­ nità di questa. ( ) Ma, nonostante gli evidenti successi, i sinceri apostolati e le cor­ renti di fede suscitate, i sintomi della crisi ·della civiltà moderna non sono cessati ed anzi si sono - spesso inavvertitamente - rafforzati e moltiplicati fino a metter capo all'attuale situazione mondiale. Il processo disgregatore del criticismo è sostanzialmente continuato, di­ mostrando affatto inadeguata la sua esigenza antintellettuaoJ.istica. ( .. ) Toccata l'estrema forma dell'intellettualismo, il criticismo mo­ derno giunge a porsi come problematicismo. Il quale si trova ancora una volta di fronte àll'argomento contro lo scettico e con la piena consapevolezza dell'incapacità dimostrata a superarlo da parte di tutte le altre filosofie, scettiche e non scettiche. La constatazione storica sulla quale la consapevolezza si fonda non consente illusioni ·di sorta. Occorre che l 'ideale sci�ntifico del pensiero moderno, di escludere ogni affermazione gratuita e di tener fede a ciò che consta in modo in­ controvertibile, non sia piii frustrato da una nuova ingenua caduta. Posto cosi il problema, è chiaro che l'unica cosa che consti fin da principio è il problema stesso, la cui legittimità è data dal bisogno che si avverte di raggiungere l'ideale scientifico. Ciò che io posso .affermare senza timore di smentita, perché al di qua del piano sul quale ha significato parlare di smentita, è che sento il desiderio di dare una conclusione al mio discorso, di togliere in esso ogni contrad­ dizione che la conclusione renda impossibile o gratuita. Ora, finché rimango in tale situazione cercando di uscirne ma non avvertendo di esserne effettivamente uscito, l'istanza critica non degenera in al-. cuna forma di ·dogmatismo. Il problematicismo; cioè, è inconfutabile, e tocca, come si è detto, il fondo del criticismo. Naturalmente, salta subito agli occhi che un'affermazione tanto perentoria del problematicismo è anch'essa un discorso conclusivo, con l'esplicita pretesa della coerenza assoluta delle parti e della siste­ maticità del tùtto. Ancora una volta pare ovvia la caduta nel dogma­ tismo e la validità nei suoi riguardi dell'argomento contro lo scettico. Si tratta, dunque, di chiarire in qual senso il problematico ritiene di . . .

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potere, non ostante l'evidenza della confutazione, confermare l'in­ confutabilità della propria posizione. Abbiamo visto come l'argomento contro lo scettico estenda la sua validità nei confronti di tutte le filosofie in quanto tutte presu­ mono . di definire il tutto. Abbiamo visto, inoltre, come l'idealismo dialettico e soprattutto l'attualismo abbiano cercato di superare la difficoltà passando dalla logica dell'astratto a · quella del concreto e rifiutando il tradizionale concetto di definizione. Abbiamo visto, in­ fine, come anche questo tentativo sia fallito per l'impossibilità ·di eli­ minare il momento conclusivo, contemplativo e adialettico della logica dialettica. Ora, muovendo da queste constatazioni e da tutta la co­ scienza storica che esse 'implicano, il problematico non può dare alla propria conclusione il significato delle altre : deve cioè porla fuori del piano sul quale tutte le altre si trovano e per cui tutte sono suscet­ tibili di un'unica confutazione. Tale cambiamento di piano è dato dal riconoscimento esplicito che il problem,atico compie della contraddi­ zione della propria conclusione. A ·differenza, infatti, di tutte le al­ tre conclusioni, quella del prohlèmatico non è piu negata, ma confer­ mata dalla constatazione del suo carattere contraddittorio. Per intendere come ciò sia possibile, occorre rifarsi al concetto di sintesi degli opposti della dialettica idealistica, per cui la realtà è concepita come divenire in quanto è e non è, e si · attua insieme come assoluto e relativo, spirito e natura, verità ed · errore, unità e molte­ plicità, e cosi via nell'infinita serie di un'intrinseca autoopposizione. La conseguenza che ne deriva come criterio storiografico è che nessuna filosofia può · ritenersi definitiva e cioè che ogni conclusione si rivela insieme come conclusiva e non conclusiva o contraddittoria. Se nella conclusione non fosse implicita la contraddizione, essa non sarebbe suscettibile di ulteriore sviluppo e chiuderebbe perciò il processo spi­ rituale, segnerebbe la cessazione della vita. Se non che il dialettico, giunto alla coscienza dei dialettismo della vita, la ipostatizza in una conclusione che, a differenza di tutte le altre, si pone fuori del pro­ cesso e ne diventa garante. È la conclusione che definisce l'Assoluto e riafferma l' Essere di fronte al divenire. Il problematico, invece, giun­ to alla coscienza della ·dialetticità della vita non si crede autorizzato a compiere il passo necessario per vedere nella dialetticità stessa l'essenza della realtà e anzi ritiene che il passo, per la conclusione adialettica cui conduce, sia illegittimo e con�raddittorio. Il che vuoi dire che la dialettica, lungi dall'assurgere a soluzione, rimane il pro­ blema della vita nella sua drammaticità antinomica. Al dialettismo metafisico si contrappone il dialettismo problematico. (Il problematicismo,

cit., pp.

37-48).

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4.

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IL PROBLEMA DELLA DEMOCRAZIA

Il concetto di democrazia è strettamente legato a quello di maggio­ con esso. Si che all'istituto della ranza e finisce con l'identificarsi . maggioranza occorre rifarsi per comprendere la funzione e i limiti del regime democratico. Si tratta, in altri termini, di chiarire ulte­ riormente il valore che può avere il principio maggioritario. La prima osservazione da fare è che il criterio della maggioran­ za non è legato a quello di competenza, perché è escluso che i piu siano anche i piu competenti. Il criterio è soltanto quantitativo e la pura quantità vuoi dire forza e violenza:. In una società che si avvia a un'organizzazione scientifica e tecnica il ricorso alla violenza non può essere elevato a principio fondamentale e deve anzi essere han­ dito nei limiti del possibile. Al metodo maggioritario deve essere, dunque, sostituito un altro metodo che escluda la violenza. Quel che si è detto circa la scienza e la tecnica fa ravvisare subito nell'accordo e nel consenso il principio informatore della vita sociale. E infatti là dove prevale il discorso scientifico l'ideale . da raggiungere è sem­ pre di piu quello dell'unanimità. Consideriamo un esempio preso dalla vita universitaria dove il cri­ terio scientifico dovrebbe essere predominante. Una commissione di concorso composta di cinque membri deve formare una terna vincitrice. Il discorso scientifico che si determina per giungere alla scelta può concludersi con una decisione unanime, che esprima il consenso nell'ambito del riconoscimento di un valore esplicitamente scienti­ fico. Ma si può anche non giungere all'unanimità e allora la commis­ sione si scinde in maggioranza e in minoranza. Vince la decisione della maggioranza. L'esperienza ci testimonia che generalmente la mancata unanimità non è dovuta a ragioni di carattere scientifico, che pure possono sussistere in quanto il grado di scientificità della prepara­ zione dei commissari può non essere all'altezza del còmpito, ma è dovuta all'interferire di ragioni politiche (come il contrasto tra laici e cattolici) o addirittura di carattere personale. Allon la decisione si sposta ·dall'uno all'altro piano e assume carattere di violenza. Al principio della maggioranza, cioè, si fa ricorso quando fallisce quello scientifico. Esso rappresenta il residuo di uno stadio immaturo dello sviluppo sociale. Il bisogno di sostituire il criterio dell'unanimità a quello della maggioranza si va avvertendo sempre di piu nella società di oggi e l� vie per raggiungere lo scopo vanno moltipHcandosi. Anzitutto si cerca di insistere nella continuazione ad · oltranza della discussione e nella necessità di un'esplicita motivazione ·della decisione. Alla di­ scussione e alla motivazione, poi, si cerca di dare ampia pubblicità,

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si che ognuno assuma di fronte a tutti la responsabilità del proprio giudizio. Ma altri metodi si vanno escogitando per ridurre al minimo la necessità del ricorso alla violenza. Si riconosce, per esempio, il diritto della minoranza di appellarsi a una commissione di secondo grado o comunque a un organo superiore. Si giunge addirittura a sancire il diritto di veto ogni volta che l'unanimità non sia raggiunta. Ma, al di là dei vari metodi per eliminare o ridurre al minimo l'uso del criterio della . maggioranza, l'educazione alla volontà del con­ senso ragionato si accentua di giorno in giorno, riducendo progressi­ vamente l'imposizione violenta. Il ricorso al conto dei voti si fa sem­ pre piu raro, eccezione fatta per gli organismi piu propriamente po­ litici, in cui il criterio della competenza è ancora poco riconosciuto. La politica è ancora fondata sulla violenza e continua a educare alla violenza. * * *

A questo punto si pone una domanda che investe in toto il pro­ blema della democrazia. Qual è la funzione che ha assolto la demo­ crazia nel corso dei secoli? O la democrazia ha rappresentato soltanto un limite della vita sociale? Chi si trovi di fronte a una realtà storica, qualunque essa sia, non può non essere sicuro della sua rispondenza a una funzione positiva. L'affermazione, per cui ciò che è reale è razionale, vale come sem­ pre e s'impone allo storico che cerchi di comprendere davvero. Se la democrazia rappresenta un motivo ricorrente della vita politica dei popoli, vuoi dire ch'essa ha rappresentato un valore operante. nella storia della civiltà. Potremo affermare che il suo compito è in via di esaurimento, ma non ci sarà ·lecito sostenere che un determinato com­ pito essa non abbia mai avuto. Tuttavia la ricerca della funzione esercitata non può prescindere dalle conclusioni alle quali si è pervenuti. E le conclusioni si riassu­ mono nell'affermazione che la maggioranza decide con la violenza e senza competenza ; che la sua opera, in altri termini, è opera irrazio­ nale, che scaturisce dalla eterogeneità dei gusti o degli interessi dei singoli. Il che vuoi dire che la funzione positiva da riconoscere alla democrazia deve essere compatibile con tali conclusioni e andare al di là di esse. La via da prendere per risolvere n· problema è nel domandarsi se la maggioranza, o la quantità come tale, abbia una sua competenza insostituibile. È chiaro che, se si riuscisse a dimostrare l'esistenza di una sua specifica competenza, la contraddizione con le sopra dette con­ clusioni raggiunte verrebbe meno e il valore della democrazia potrebbe essere riconosciuto. ·

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Ebbene, al di là delle varie forme in cui 'si esprime l'azione della maggioranza, v'è una competenza fondamentale che soltanto i pio possono avere, ed è l'esperienza della povertà. L'umanità si è stori­ camente divisa in poveri e ricchi, e la sua storia è colorata attraverso i secoli da tale distinzione e dal contrasto che ne è derivato. Mag­ gioranza, allora, vuoi dire, prima di tutto e al di là di tutto, volontà dei poveri e loro bisogno di uscire dalla condizione di inferiorità in cui si trovano. Questa è la loro competenza e questo è il principio storicamente valido del cammino delle masse. Se la maggioranza fosse stata dei ricchi, il principiò della democrazia non sarebbe mai sorto. Il fatto, poi, che il criterio della maggioranza si applichi a una sfera che va al di là della specifica competenza della povertà, e diventi il principio informatore di tutta la vita sociale, è un fatto che rappresenta il lato negativo della democrazia, e propriamente quel lato che - venendo progressivamente meno la distinzione tra poveri e ricchi - sarà ragione della degenerazione e dell'esaurimento del regime. * * *

La competenza della maggioranza, derivante dall'esperienza della povertà e ·dello stato psicologico di chi si sente sfruttato, è natural­ mente una competenza sui generis, che non ha modo di esprimersi attraverso le vie del consenso. Ricchi e poveri non possono mettersi d'accordo perché i ricchi non accettano il colloquio e i poveri non sanno adeguatamente parlare. Dietro la maggioranza, allora, si for­ mano delle minoranze che ne assumono la direzione e parlano per essa. Parlano, è vero, anche con essa, ma soltanto fino a un certo punto, e cioè senza mai andare al di là della competenza specifica della maggioranza che è, appunto, quella della povertà. E il collo­ quio si conclude con l'appello a ciò che la maggioranza possiede, vale a dire la quantità, la forza della quantità fatta di povertà. La parola d'ordine diventa quella della ribellione, della violenza, della lotta. Non vogliamo essere piu poveri e sfruttati. È la voce della competenza dei pio che si fa sentire, nella sua realtà insostituibile. Il carattere sui generis di talè competenza è dato anche dal fatto ch'essa non mette capo a una ideologia o a una concezione della vita. L 'ideologia ad esempio quella socialista o comunista - sarà ela­ borata dalle minoranze intellettuali non povere, che se ne serviranno per ragioni ideali o per interessi personali, ma non vivrà nella co­ scienza dei poveri se non come senso immediato di inferiorità e di sofferenza. Essa si esprimerà soltanto con un no, e cioè con una volontà distruttiva del presente, per la speranza di un avvenire migliore. Dal punto ·di vista storico la distinzione di poveri e ricchi assume �

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varie forme, che sono poi le varie forme in cui si configura a volta a volta la rivolta delle ma:sse in ogni tempo e in ogni paese. Dopo la ri­ voluzione francese la contrapposizione assume il significato di lotta di classe, derivante dalla consapevolezza del contrasto tra terzo e quarto stato. Allora il problema si precisa, appunto, come problema della ricchezza, e, alla proclamazione dei diritti dell'uomo con la scomparsa di ogni privilegio, succede la volontà di eliminare l'ultimo dei privilegi rimasti : quello della proprietà privata. Ricchi e poveri si distinguono nettamente in funzione di questo istituto e si contrap­ pongono nelle due classi ·distinte della borghesia e del proletariato. « Lavoratori di tutto il mondo unitevi ! ». Unitevi e fate la rivoluzione. Acquistate coscienza della vostra forza e distruggete con la violenza le catene con le quali gli sfruttatori vi legano. L'istituto democratico della maggioranza assolve questa funzione storica, ma, a un certo punto, cede il posto al piu energico e risolutivo metodo rivoluzio­ nario. Quando la rivoluzione, per vie piu o meno violente, è com­ piuta, le classi finiscono e con esse la lotta che le contraddistingue. Finisce la lotta di classe e finisce la ragion d'essere della demo­ crazia. La competenza specifica della povertà si attenua e via via di­ legua, e la quantità perde il suo unico valore. Il criterio della mag­ gioranza non ha piu ragion d'essere e rappresenta soltanto il tipie­ gamento sulla violenza quando non vi sia altro modo di mettersi d'accordo. * * *

Ricondotta la democrazia alle sue origini e alla sua funzione essen­ ziale, si comprende come essa sia fondata su di una concezione di parte. Ma le parti, si badi bene, sono soltanto estrinsecamente i partiti, perché, in realtà, sono le classi. Democrazia e lotta di classe rappre­ sentano un binomio inscindihile, che si cerca di ·dissimulare sotto varie ed equivoche sovrastrutture. Il problema vero è tutto raccolto in quello della lotta di classe e continuerà a sussistere fino a quando tale lotta non · sarà completamente risolta. Che la lotta si avvii a soluzione è una constatazione di fatto diffi­ cilmente contestabile. E si risolve, naturalmente, con la violenza piu o meno drasticamente usata. La soluzione piu radicale è rappre­ sentata dai paesi in cui il processo rivoluzionario è giunto alle radici delPorganismo sociale instaurando le varie forme dei regimi comu­ nisti. In questi paesi, pur attraverso una scarsa consapevolezza del superamento del regime democratico, ci si avvia piu rapidamente v-erso istituti caratterizzati dal riconoscimento delle varie compe­ tenze. La tra·dizione teoretica e pratica dei metodi democratici conti­ nua a pesare, ma la loro riduzione progressiva è in atto.

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Meno chiara è l'abolizione delle classi nel mondo occidentale, ma anche qui, attraverso metodi meno rivoluzionari, la volontà dei poveri ha finito con l'avere ragione della resistenza dei ricchi, e almeno ]e disparità maggiori sono scomparse o tendono a scomparire. Vi sono paesi, in cui il comunismo non riesce ad avere adepti, perché la differenza di classe si avverte sempre meno e l'accordo va instau­ randosi. Il procedimento seguito ha avuto una fisionomia inversa rispetto a quello ·dei paesi d'oltre cortina, perché, lungi dal rappre­ sentare il trionfo del proletariato sostituitosi alla borghesia, ha im­ portato un progressivo imborghesimento del proletariato. Ma i due procedimenti, anche se nella conclusione non si sono· ancora identi­ ficati, vanno per vie convergenti e segnano entrambi la fine della lotta di classe. Anche in Occidente, naturalmente, le ragioni d'essere della d�mo­ crazia vanno esaurendosi, ma qui la tradizione è piu forte e il pro­ cesso critico -del pensiero non è ancora riuscito a dare la consapevo­ lezza delle conseguenze della trasformazione, si che il cammino appare piu lento e quasi nascosto. In effetti, però, il passaggio del potere­ ai _competenti e ai tecnici di ogni tipo va verificandosi con ritmo sem­ pre piu rapido, e l'importanza dei vecchi istituti va diminuendo essen­ zialmente anche se non formalmente. Il concetto di piano va guada­ gnando terreno e la · trasformazione sociale che ne deriva raggiunge il cuore del sistema democratico: * * *

Il problema della democrazia, invece, è ancora vivo là ·dove la lotta di classe continua, là dove perciò continuano a sussistere forti partiti comunisti o comunisteggianti. Tra questi paesi :figura anche il nostro, al quale purtroppo compete in qualche modo, almeno da un certo punto di vista, l'epiteto di paese sottosviluppato. Ma nel nostro paese, poi, nonostante le apparenze, è già in atto una divi­ sione tra zone in cui il procedimento della lotta di classe è in via di esaurimento, e zone in cui le condizioni economiche e strutturali consentono ·disparità paurose tra classe e classe. E allora non può far meraviglia che gli equivoci della democrazia continuino a·d avere da noi una portata ben piu grave che altrove, e che il cammino verso il domani sia piu lungo e piu faticoso. Le parti - classi e partiti continuano a irrigidirsi e a ostacolare l'unificazione d�l discorso. D'altra parte, il grado di minore cultura generale e di minore com­ petenza specifica della popolazione, consente piu che altrove il dilet­ tantismo politico, il verbalismo vuoto e il ricorso alla retorica. Si aggiunga la presenza incombente del potere clericale, che àltera il

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processo della . lotta di classe e lo intorbida, rallentandolo e . devian­ dolo. Il conformismo dilaga e l'equivoco di un cristianesimo e di un comunismo sedicenti democratici porta alla confusione delle lingue e ali'incoscienza generale. In questa confusione, cattolici e comunisti possono mettersi a braccetto e continuare insieme il cammino. Il comunismo, perduta la speranza o la volontà di fare la rivoluzione, aiuta la cosi detta demo­ crazia cristiana nell'opera revisionistica e riformistica di imborghe­ simento del proletariato, e si scava progressivamente la fossa, ceden­ do al socialismo e poi alla socialdemocrazia. Il progresso del paese,. d'altra parte, determina una parificazione sempre maggiore con gli altri paesi occidentali piu avanzati, e il problema specificamente ita­ liano si fonde con quello generale. Il cammino ulteriore diventa chiaro e segue la logica comune. I metodi democratici continuano a vivere malamente, ma già si prospetta e comincia a imporsi l'esigenza della programmazione, che schiude la porta agli scienziati e ai tecnici. ( Critica della democrazia, Firenze, Sansoni, 1963, pp. 201-211).

ARMANDO PLEBE

Lo storicismo tedesco e spagnolo SOMMARIO

INTRODUZIONE : I. WILHELM DILTHEY - l. Origini e sviluppo del pensiero di Dilthey. 2. La filosofia dell'« Erlebnis » e le scienze dello spirito. - II. GEonc SIMMEL l. II problema delle . categorie storiche. - 2. La filosofia della vita. - III. M:U WEBER. l. La teoria dei « tipi ideali �>; 2. Le teorie del « condizionamento reciproco l'i e del lavoro intellettuale come « pr> , e quindi anche con lo hegelismo, accettando la critica positivistica contro l'arbitrarietà e l'astrattezza delle costruzioni filosofiche romantiche sulla storia. Già in uno studio precedente, del 1875, Sullo studio della storia delle scienze delfuorrw, della società e dello Stato aveva cercato di distinguere le scienze dello spirito da quelle della natura su di una base del tutto differente dalle co­ struzioni metafisiche del romanticismo. Le scienze della natura vengono cioè individuate dal Dilthey per il fatto che le loro successive acquisizioni co·

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stituiscono un progresso continuo e ininterrotto ; quelle dello spirito, invece, sono caratterizzate dalla possibilità di perdere risultati acquisiti preceden­ temente, i quali verranno poi riacquistati in altra epoca, e ciò a causa del loro legame con la vita sociale e politica delle diverse epoche.

La filosofia dell'« Erlebnis » e le scienze dell� spirito

2.

Nell' Introduzione alle scienze dello spirito la distinzione tra le scienze dello spirito e quelle della natura viene effettuata sia dalla prospettiva dei loro diversi contenuti sia da quella dei loro diversi procedimenti. Quanto ai contenuti, mentre le scienze della natura ricercano fenomeni collegati fra loro da rapporti di stretta causalità, le scienze dello spirito studiano invece fenomeni soggetti tanto a leggi generali quanto alla libera iniziativa indivi­ duale. Quanto ai procedimenti, mentre le scienze della natura si fondano esclusivamente sull'esperienza esterna, quelle dello spirito si fondano invece sull'esperienza interna, la quale soltanto può spiegare la genesi individuale degli eventi storici. Il problema di quest'esperienza interna condusse il Dilthey a formu­ lare una delle idee piu centrali al suo pensiero, quella dell'« esperienza vis­ suta » (Erlebnis). Essa trovò una sua prima stesura nelle Idee per una psi­ cologia descrittiva e classificatoria del 1894. Dilthey sostiene in essa che tutte le diverse attività spirituali dell'uomo presuppongono sempre un'unità vivente dei suoi atti psichici, che è appunto l' Erlebnis. Perciò le scienze dello spirito non possono non partire da una connessione ideale fra tutte le attività spirituali : e la loro analisi di una specifica attività non può mai prescindere dalla considerazione della vita psichica nella sua totalità. Que­ ste idee vengono ulteriormente sviluppate da Dilthey nei Contributi allo st.udio delfindividualità, del 1895-96. A questo proposito, pur senza risentirne in modo radicale, tuttavia Dilthey non rimase insensibile all'apparizione, nel 1900-1901, delle Ricerche logiche di Husserl, nelle quali la vita psichica viene identificata con la succes­ sione degli Erlebnisse ( sia pur intesi da Husserl in un senso puramente trascendentale e quindi diverso da quello di Dilthey, assai piu vicino all'em­ piria storica). Anche sotto tale influsso Dilthey senti il bisogno di fissare il concetto di filosofia : a tale argomento è dedicato il saggio L'e5'Sen.za della filosofia, che è del 1907 e appap:iene già al periodo piu maturo e fecondo di Dilthey, che fu l'ultimo periodo della sua vita, dal 1905 al 19ll. In esso Dilthey si propone di studiare il compito della filosofia, cioè di fare una « filosofia della filosofia >l . Questa « filosofia . della filosofia Jl , nello studiare il sorgere e lo svilup­ parsi delle diverse filosofie nel corso della storia, scopre che esse non sono delle mere costruzioni intellettuali, ma ( nei casi in cui riescono a realiz­ zare davvero il loro intento) sono l'espressione di intere « intuizioni del mondo ll ( Weltanschauungen), le quali sòrgono dalla totalità dell'Erle bnis. Ogni intuizione del mondo è fondamento di un dato tipo di arte; di reli­ gione e di filosofia. È di piu che l'arte, perché non si limita a esprimere in immagini la propria intuizione, ma mira a riformare la vita ; è di piu che la r.eligione, perché non si limita a gettare un ponte soggettivo con l'invisibile, ma aspira a una validità universale ; è di piu che la filosofia, perché non è una sola co�cezione intellettuale, ma esprime il rapporto del­ l'intera totalità della persona umana con il mondo che la circonda. ·

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La storia è appunto il luogo ideale dove si suècedono le diverse Weltan­ schauungen nel corso dei secoli. Perciò il compito piu alto delle scienze dello spirito è quello della « comprensione storica )), cioè della compren­ sione delle diverse Weltanschauungen. Su questa base l'opera piu matura di Dilthey, La costruzione del mondo storico nelle scienze dello spirito, del 1910, formula la definizione del concetto di scienze dello spirito in maniera piu complessa di quella dell'Introduzione del 1883. Le scienze dello spirito vengono ora indicate come le scienze che ricercano il nesso che lega l'Erlebnis, la sua espressione e la sua comprensione. L' Erlebnis resta sempre la base di ogni esperienza ; però la vita psichica è vista come non limitata all'immediato fiosso temporale delle esperienze deli'Erlebnis ; bensi il suo senso consiste proprio. nel superare quell'immediatezza e nel giungere all'ulteriore piano dell'espressione, la quale stimola la conoscenza di sé e quindi la comprensione. Questa comprensione storica si attua, secondo l'ultimo Dilthey, impie­ gando alcune categorie tipiche del mondo umano della storia. Di esse la categoria-base è quella della vita, che Dilthey sottrae all'ambito della biologia ristretta dell'individuo : per Dilthey « vita )) è quell'attività che sorge soltanto nella connessione reciproca fra gli individui e che è incon­ cepibile al di fuori di tale connessione. Questo concetto eserciterà un notevole influsso sul pensiero successivo, soprattutto su quello di Ortega y Gasset. . Un altro importante concetto è quello della storicità temporale della vita : per Dilthey · la vita non « sta >> nel tempo cosi come un oggetto sta in un dato luogo, bensi la vita è temporale e quindi inconcepibile al di fuori di tale temporalità. Anche questo concetto avrà molto successo e verrà ripreso soprattutto dall'esistenzialismo di Heidegger. Le altre categorie storiche sono, per Dilthey, alcune strettamente legate alla > : quelle della forza, della struttura, dell'essenza e dello svi­ luppo ; altre invece le si sovrappongono : in particolare quelle del valore, dello scopo e del significato. Soprattutto importante è quest'ultima cate­ goria, del significato (Bedeutung) : essa sottolinea l'importanza della vita, conferendole intelligibilità e rendendone possibile la classificazione in attraverso cui comprendere le attività spiri­ tuali dell'uomo.

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GEORG SJMMEL

l. Il problema delle categorie storiche Contemporaneamente allo svilupparsi della filosofia di Dilthey lo stori· cismo faceva sentire la sua presenza anche all'interno della scuola del > sotto forma del problema, tipicamente diltheyano, della distinzione fra le scienze della natura e le scienze dello spirito. Uno dei capiscuola del neocriticismo, Wilhelm Windelband ( 1848-1915) propose una sua · propria distinzione fra i due gruppi di scienze nella sua opera Preludi, del 1883 : >. Georg Simmel nacque a Berlino nel 1858 e mori a Strasburgo nel 1918. Di origine ebrea, incontrò difficoltà nell'insegnamento universitario, che poté inizia1·e come straordinario soltanto nel 1901 a Berlino, prose­ guendolo a Strasburgo, come ordinario, nel 1914. La sua prima opera, Sulla differenziazione sociale. Ricerche sociologiche e psicologiche, del 1890, comincia con una contrapposizione al kantismo, in quanto Simmel nega la possibilità di isolare un piano trascendentale della conoscenza, e rifiuta quindi la contrapposizione fra una forma e un contenuto della conoscenza. Non esistono, per Simmel, principi a priori della conoscenza, bensi i prin­ cipi vengono liberamente assunti nel corso delle indagini conoscitive. Essi si possono quindi indicare come categorie euristiche, cioè come categorie che hanno validità soltanto nell'ambito della ricerca e in funzione di essa. La teoria delle categorie euristiche viene cosi a giustificare la possibilità delle scienze sociali e della storia. Rifiutata la prospettiva trascendentale, Simmel riconosce alle scienze sociali soltanto un compito descrittivo : esse cioè non devono mirare a formulare leggi, ma soltanto a proporre regole per anticipare risultati di future verifiche. In particolare Simniel ritiene che nel mondo dei rapporti umani esistano soltanto leggi !! microscopiche >> 1·elative ai singoli rapporti umani, ma che non esistano leggi !! macrosco­ piche >> per le risultanze totali di questi rapporti. Perciò le scienze sociali, lungi dal rintracciare leggi già esistenti, servono piuttosto per inserire i singoli fenomeni (con le loro leggi microscopiche) nell'ambito di un ordina­ mento mentale costitutivo dalle categorie storiche, il cui valore può essere soltanto euristico. Questa posizione viene sviluppata dal Simmel in alcune opere succes­ sive, la Introduzione alla scienza morale del 1892-93, la Filosofia del denaro del 1900 e la Sociologia del 1908. In tali .studi il Simmel distingue una nuova disciplina, la sociologia, sia dalla psicologia che dalle scienze sociali in genere. La psicologia, cioè, studia il contenuto della società, costituito dai fenomeni di vita dei singoli individui, mentre la sociologia studia le forme in cui si costituisce la società, cioè le diverse forme di associazione. A loro volta le scienze sociali studiano i modi con cui si organizzano i contenuti sociali nei diversi settori quali l'economia, la politica, la morale. AI problema della storia e dello storicismo in generale Simmel dedicò invece, negli stessi anni, un'altra opera importante, I problemi della filo­ sofia della storia, alla cui prima edizione, del 1892, seguirono due altre edizioni con notevoli modifiche, una del 1905 e una del 1907. In essa Simmel riprende il problema, che era stato aperto dal Dilthey (nella sua

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Introduzione alle scienze dello spirito del 1889), di fondare filosoficamente

la distinzione fra scienze della natura e scienze dello spirito. Simmel trova come caratteristica delle scienze dello spirito il loro impegno di penetra­ zione psicologica, per cui la storia diventa per lui soprattutto lo sforzo di comprendere gli altri individui come se fossimo noi stessi. Questa concezione psicologistica della storia comporta l'abbandono del­ l'ideale dell'obiettività storica. Infatti l'importanza di un fatto storico, ·. per Simmel, non è mai « oggettiva », bensi dipende sempre dai presupposti psicologici che costituiscono la prospettiva dello storiografo. Ciò permette di differenziare nettamente la conoscenza storica dalla conoscenza . della natura : la comprensione storica, in quanto fondata sulla psicologia, è sempre diretta a comprendere l'individualità irripetibile di un fenomeno, mentre la conoscenza naturale è sempre diretta alla generalità delle leggi. La natura può considerarsi dominata da leggi quando di essa ci interessa soprattutto il comportamento uniforme ; la storia, invece, non ammette leggi · di uniformità. Le cosiddette leggi storiche non sono in realtà altro che principi filosofici con cui la filosofia studia le diverse prospettive psico­ logiche della storiografia. Si tratta, ancora una volta, del compito . di studiare e classificare quelle categorie storiche, che sono considerate essere prive di validità assoluta.

2. L� filosofia d�lla vita Su queste basi Simmel cercò di distaccarsi definitivamente dal neocri­ ticismo, sostenendo che la filosofia precede od oltrepassa sempre la teoria della conoscenza, la quale resta sul piano delle discipline scientifiche : la filosofia invece esplicita i presupposti di quelle discipline e ne interpreta i risultati. Tale prospettiva è sviluppata dal Simmel in una delle sue opere piu famose, I problemi fondamentali della filosofia, del 1910. In essa la concezione di base è essenzialmente relativistica e pragmatistica : non avendo il carattere di assolutezza delle scienze naturali, il criterio di validità delle scienze umane non può essere se non quello relativistico della prassi, · cioè l'utilità pratica delle teorie. E . a tale conclusione Simmel era già giunto nella sua Filosofia del denaro, constatando come il denaro ·rappresenti la m�tevolezza delle cose, che si traduce nella relatività dei valori economici. Nel caso della filosofia, la relatività coinvolge la sua stessa definizione, giacché non esiste un'essenza unica ed eterna della filosofia, bensi il suo compito viene determinato di volta in volta. Come già aveva sostenuto tre anni prima Dilthey nella sua Essenza della filosofia del 1907, la filo­ sofia per Simmel non può conseguire risultati validi in assoluto ; Simmel ritiene piuttosto che la sua validità consista nell'esprimere le convinzioni di un individuo in maniera tale che possano esser accettate da altri individui. In una cosa però la filosofia può procedere in maniera assoluta : c10e nel precludere la possibilità di principi assoluti. E qui Simmel innesta la sua « filosofia della vita » : la filosofia deve mostrare come non si possa andare al di là della vita, come la vita sia la realtà intrascendibile entro cui deve considerarsi confinato l'uomo. Come avviene allora che l'uomo sia conti­ nuamente spinto a trascenderla? Simmel risponde che caratteristica della vita è quella di produrre continuamente forme spirituali, le quali, una

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volta resesi autonome, tendono a staccarsi dalla vita ; per cui la vita deve lottare per distruggerle, affinché esse non si contrappongano al divenire da cui sono sorte. In questo consiste l'aspetto tragico della vita. Tre autori ispirano a Simmel la sua visione tragica della vita : Schopen­ hauer, Nietzsche (ai quali dedicò un libro, Schopenhauer e Nietzsche, 1907) ·e Goethe (a cui dedicò due libri : Goethe, 1913 e Kant e Goethe, 1916). Que­ st'ultimo' soprattutto viene contrapposto a Kant come sostenitore dell'au­ tonomia oggettiva dell'esistenza contro il soggettivismo kantiano ; mentre tutti e tre gli autori gli forniscono argomenti contro la concezione mecca­ nicistica della vita, propria del positivismo. Gli sviluppi piu maturi di questo « storièismo vitalistico » di Simmel ·sono forniti in una serie di opere degli ultimi suoi tre anni di vita : Il pro­ blema del tempo storico, 1916 ; Il conflitto della cultura mod�rna, 1918 ; Sull'essenza della . comprensione storica, 1918 ; Intuizione vitale. Quattro ·capitoli metafisici, 1918. Il ritmo di creazione e distruzione delle forme, proprio della vita, viene ·qui precisato come un processo di continua .autotrascendenza della vita. La vita tende sempre a divenire ) e quella dell'America ·Centrale, dei Maya ; Spengler prevede prossimamente l'affermarsi di una nona civiltà, russa. Ogni civiltà ha una durata media di un millennio, ed ognuna attraversa un periodo di · sviluppo, uno di fioritura, uno di declino e uno di tramonto, paragonabile alle quattr'o stagioni dell'anno. Quando la civiltà (in tedesco Kultur) si avvia al tramonto essa si trasforma in una forma di civiltà dissolventesi, che Spengler denomina Zivilisation, termine che si traduce male sia col corrispettivo formale italiano « civilizzazione >> , sia con la parafrasi ( proposta da Pietro Rossi) « civiltà-in-declino >>. Fra le fasi eguali ( ad es. quella « primaverile >> o quella « autunnale >> ) di civiltà diverse esiste, per Spengler, una notevole analogia, che egli con­ sidera una sorta di contemporaneità fuori · dal tempo. Ad esempio Lutero e Calvino, al sorgere deJla civiltà occidentale, sono « contemporanei >> alla religione di Dioniso, tipica del sorgere della religione greca ; altrettanto ·Galilei, Bacone e Cartesio sono « contemporanei >> dei Presocratici ; Vol­ taire e Rousseau sono « contemporanei >> di Socrate (che rappresenta l' « illu­ minismo >> della civiltà greco-latina) ; Kant e Goethe sono « contemporanei >> di Platone e Aristotele. Si tratta di un processo di sviluppo e di dissolu­ zione biologico, al quale corrisponde un analogo processo di· acquisto (o perdita) di consapevolezza e creatività. Queste civiltà coincidono, per Spengler, con la storia stessa : prima di esse ·esiste soltanto un'umanità primitiv.a e priva di storia, perché la storia è sempre una storia di civiltà. Alla base di ogni civiltà sta sempre un'unità razionale, la quale dà origine a popoli e nazioni legati, piu o meno consa­ pevolmente, da quell'origine comune. Di fronte a questo mondo storico il mondo della natura è del tutto in subordine, perché costituisce il mondo del · « divenuto >> , mentre la storia è invece il mondo del « divenire >>. Questo -divenire ha però una sua propria logica organica, che Spengler ritiene ·che costituisca una specifica « morfologia della storia universale » : è la logica del Ciclo biologico delle singole civiltà, ciascuna delle quali si svi­ luppa indipendentemente dalle altre, in maniera necessaria e non modi­ :ficabile.

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, Alla base di tale dottrina è evidente anzitutto l'influsso della conce­ zione goethiana della vita come di un divenire organico, il cui senso si può cogliere soltanto un atto d'intuizione. Ma ancor piu evidente è l'influsso dellà dottrina dell' « eterno ritorno » di Nietzsche. Da Nietzsche Spengler deriva non soltanto la polemica contro il concetto di progresso storico, ma anche e soprattutto l'idea di una necessità irrazionale che spinge e determina lo svolgersi degli eventi storici, nella direzione di un ripetersi ciclico di forme biologiche già precedentemente presentatesi in altre civiltà.

2. Destino e relatività del/� storia ,

Le conseguenze sul piano filosofico generale di queste concezioni di Spengler sono quelle di un sostanziale determinismo e relativismo storico. Anzitutto la 'visione spengleriana della storia è rigidamente deterministica : infatti le leggi che governano i cicli biologici delle diverse civiltà sono, invalicabili; Esse costituiscono il destino di ogni situazione storica : una parola con la quale Spengler esprime la certezza, per quanto irrazionale,, di una direzione inevitabile degli eventi interni a una data civiltà. Esso comporta l'impossibilità della scelta, per l'uomo, di una condotta che esorbiti da una delle due uniche alternative possibili : o quella di collabo­ rare alla realizzazione del destino di una civiltà, o quella di contrastarlo. In ogni caso, però, il risultato sarà sempre lo stesso, quello cioè di un'ine­ vitabile realizzazione del destino. Accanto al determinismo, l'altra conseguenza filosofica è un relativismo storico che si contrappone alla tradizionale concezione della storia come di uno sviluppo unitario dell'umanità, in costante progresso, Spengler nega l'unitarietà della storia, sostenendo che essa si compone invece di una pluralità di civiltà, ognuna autonoma e non comunicante con le altre, :e nega l'esistenza di un progresso storico, sostituendo ad esso l'idea del ripe­ tersi periodico degli stessi cicli biologici. Questo mutamento radicale di concezione della storia è da lui indicato come 'il passaggio da una conce­ zione tolemaica a una concezione copernicana della storia. Ma il relativismo di Spengler è anche piu radicale di quanto non com­ porti di per sé la negazione del concetto di progresso storico, la quale era già stata enunziata da altri nell'ambito dello storicismo tedesco, in par­ ticolare da Simmel, che era, nell'ambito di tale corrente, il filosofo piu vicino al temperamento romantico di Spengler. Questi infatti ritiene che ogni manifestazione dello spirito, incluse l'arte e la scienza ( persino la stessa matematica), non consegua mai verità eterne, bensi sia relativa non soltanto alla civiltà entro cui viene sviluppata, ma pure alla parti­ colare fase del processo evoluttvo in cui si ti·ova al momento quella data civiltà. In ciò Spengler si ricollega non solo al vitalismo di Simmel, ma anche alla dottrina delle Weltanschauungen delle singole epoche storiche elaborata da Dilthey. Perciò per Spengler l'analisi morfologica delle strut­ ture evolutive di una data civiltà deve precedere ogni altra indagine sto­ rica e sociologica. Passando dalla teoria generale all'analisi particolare della nostra epoca Spengler vi ravvisa i · caratteri tipici del tramonto della civiltà dell'Occi­ dente. Tali caratteri sono costituiti da quel rovesciamento generale di tutti i valori che già Nietzsche aveva diagnosticato : sintomo caratteristico di

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tale rovesciamento è dato dalla crisi etico-religiosa che trova la sua piu tipica espressione nel socialismo marxista. Nemico dichiarato del marxismo, Spengler però era non meno feroce avversario anche del liberalismo borghese, che vedeva tipicamente rappre­ sentato dalle ipocrisie del sistema parlamentare : « L'entrata di un partito aristocratico in parlamento è non meno falsa di quella di un partito pro­ J.etario. Solo la borghesia si trova a sua agio in una tale situazione » . Come soluzione provvisoria Spengler auspicava l'avvento d i u n socia­ lismo non marxista, pur riconoscendo che neppure esso sarebbe riuscito a impedire l'inevitabile tramonto dell'Occidente. .A delineare tale soluzione provvisoria furono dedicati i saggi dello Spengler successivi alla sua opera principale. Di essi i piu noti sono L'uomo e la tecnica del 1931 e A nni della decisione del 1933 ; entrambi però ebbero una fama assai limitata, neppur lontanamente paragonabile al successo del Tramonto dell'Occidente.

V. ERNST TROELTSCH E FRIEDRICH MEINECKE

1. Lo storicismo teologico di Ernst Troeltsch Per completare il quadro dello storicismo tedesco contemporaneo è necessario tratteggiare ancora il pensiero di due figure del primo Nove­ cento che furono contemporaneamente storici e teorici della storia : Ernst Troeltsch e Friedrich Meinecke. La prima di queste figure è particolar­ mente interessante perché introduce nell'ambito dello storieismo l'interesse teologico e religioso in genere, realizzando cosi quella direzione storicistica dello studiare il reciproco condizionamento dei valori sociali e religiosi, sulla ·quale tanto insisteva Max Weber. Ernst Troeltsch nacque a Haunstetten (Augsburg) nel 1865 e mori a Berlino nel 1923. Trascorse gran parte della sua vita insegnando teologia nelle Facoltà protestanti : . prima a Gottingen, poi a Bonn, quindi a Hei­ delberg. Il periodo d'insegnamento heidelberghese durò dal 1894 al 1915 ·e fu il periodo piu lungo del suo insegnamento ; dopo di esso passò a inse­ gnare filosofia nell'Università di Berlino, dove rimase sino alla morte. La professione d'insegnante di teologia fu determiminte per la formazione di" Troeltsch : il problema del destino del protestantesimo nel mondo moderno restò per lui sempre essenziale, tanto che Carlo Antoni nel suo saggio su di lui giunse a considerarlo « lontano discepolo di Melantone » e a dire che {< se si dovesse trascegliere nella vita tedesca dell'ultimo mezzo secolo l'uomo che rappresentò nella forma piu degna quei valori contro i quali si è sca­ gliato Nietzsche, questi sarebbe Troeltsch » . La formazione di Troeltsch avvenne sotto i l duplice influsso dello stori­ cismo del Dilthey e della scienza delle religioni dell'orientalista Paul de La garde. Troeltsch parti dal problema di conciliare l'esigenza kantiana di un valore assoluto della religione con l'esigenza, propria di Schleiermacher e di Hegel, di calare l'esperienza religiosa nel mondo storico ; e insieme dal riconoscimento del fallimento di quest'intento di storicizzare la reli­ gione. Nel saggio L'intuizione cristiana e le correnti ad essa contrarie, del 1924, Troeltsch nota appunto come la storicizzazione della religione abbia nnito col ridurla a un mero complesso di fenomeni psicologici, che si pre-

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tendono di spiegare o attraverso l'eredità biologica o attraverso l'ambiente naturale. Nel saggio successivo Religione e chiesa, del 1895, Troeltsch amplia però la sua prospettiva, studiando come ogni chiesa sia vincolata ad una struttura organizzativa e sociale, e quindi come la crisi del protestantesimo sia legata pure alla crisi delle sue strutture sociali. Ma contemporaneamente si è verificata, secondo il Troeltsch, una crisi della teologia : lo storicismo derivato dal romanticismo ha privato il cristianesimo del suo carattere di assolutezza, sottraendogli sia l'impronta della soprannaturalità sia la convinzione della sua validità assoluta. Infatti lo storicismo ha considerato egualmente valide le molteplici religioni, cercando di inserirle in un pro· cesso unidirezionale del progresso storico, per cui le forme religiose poste· riori sarebbero storicamente piu mature. e quindi superiori, a quelle pre· cedenti. Nei suoi saggi La posizione scientifica e le sue esigenze rispetto alla teologia ( 1900) e L'assolutezza del cristianesimo e la storia della religione ( 1902) il Troeltsch cerca di conciliare l'esigenza dell'assolutezza della reli­ gione con quella della sua storicità, sostenendo che l'inevitabile i.nerenza della religione al processo storico non impedisce il suo riferimento a valori assoluti. Perciò anche la teologia deve, per il Troeltsch, muovere dalla considerazione storica, ma approdare a valori assoluti, i quali richiedono un fatto estrastorico, cioè la convinzione personale. Applicando questa sua teoria, nei saggi Che cosa significa si fonda su di un certo numero di credenze comuni alla maggior parte delle persone che vivono in esso. Le credenze si distinguono dalle idee, perché, a differenza delle idee, non sono soltanto pensate, ma vissute. Esse sono rite­ nute indubitabili, come una realtà stabile che l'individuo trova già dinanzi

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a sé ; e se fra esse si forma, come spesso accade, una credenza fondamentale, questa costituisce il terreno storico su cui gli individui agiscono. Le teorie del cc campo storico intelligibile » e delle cc credenze fon­ damentali » portano Ortega a concepire lo sviluppo storico come un inces­ sante succedersi di generazioni, ciascuna delle quali è caratterizzata da aJm,eno una credenza fondamentale e costituisce un proprio cc campo sto­ rico intelligibile ». Egli è stato cosi indotto a contrapporre alla teoria della Weltanschauung di Dilthey e a queJla dei « tipi ideali >> di Weber, una propria teoria metodologica, da lui denominata « metodo deJle genera­ zioni » ; la quale invero appare assai piu superficiale e meccanica che le teorie corrispondenti di Dilthey e di Weber. Secondo il « metodo deJle generazioni » , s'intende per generazione un gruppo di uomini che si trovano a vivere il momento della loro cc età vitale » nel corso di quella generazione : e la durata di una generazione è stabilita da Ortega neJlo spazio di 15 anni. Quanto alla determinazione dell'età vitale, per Ortega essa è individuata nel periodo da lui considerato « creatore » deJla vita deJl'individuo, che va dai 30 ai 45 anni (secondo Ortega sino ai 30 anni l'uomo è recettivo ed egoista, dai 30 ai 45 anni è creatore, dai 45 ai 60 è realizzatore ma conservatore, dai 60 ai 75 anni è in decadenza). Lo sviluppo storico è dato costantemente, secondo Ortega, daJla lotta di quella che al momento si trova ad essere la generazione « creatrice », dai 3 0 ai 45 anni, contro la generazione che immediatamente la ha preceduta, quella dai 45 ai 60 anni : la nuova generazione mira sempre a distruggere il mondo che è stato costruito dalla generazione precedente e a sostituime un altro. Il meccanico semplicismo di questa teoria è stato giustamente oggetto di molte critiche e costituisce effettivamente la parte piu debole deJla teoria di Ortega. 2. Ragion vitale e ragione storica Su questa teoria metodologica della storia Ortega sovrappone un pro­ prio sviluppo di quel vitalismo ch'egli ereditava soprattutto dall'insegna­ mento di Simmel, congiunto al relativismo derivato sia da Simmel che da Dilthey. Per Ortega, cioè, il mondo è anzitutto la prospettiva di un esistente, e a sua volta l'esistente non può vivere se non situandosi nella « circostanza » in cui viene a trovarsi. Su questa base, non priva di influssi provenienti dal­ l'esistenzialismo, si svolge il cosiddetto prospettivismo di Ortega. L'esigenza di vita è per lui la base di ogni avvenimento, però la vita non dev'essere intesa come cieca, bensi come, di volta in volta, generatrice di una pro­ spettiva. Questo pl'Oblema è quello che, nel libro omonimo, Ortega ha in­ dicato come il tema del nostro tempo : cioè la conciliazione fra la ragione e l'impulso vitale. Tale conciliazione è tentata da Ortega anzitutto col contrapporre alla concezione tradizionale della ragione intesa come astratta, universale e asso­ luta, una concezione vitalistica della ragione, intesa come una ragione vitale. Con la · concezione della « ragion vitale » Ortega intende superare sia il razionalisll!-o che lo scetticismo : supera il razionalismo in quanto non intende la -ragione come separata dalla vita, supera lo scetticismo, in quanto ritiene che la vita non sia qualcosa d'irrazionale, bensi consista sempre nel dare un senso e una spiegazione alle proprie azioni, dettate dall'impulso vitale. Piu precisamente, egli ritiene che tale impulso percorra sempre due

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fasi successive: una «vita ascendente » e una «vita discendente >> : la prima è propria delle epoche giovani e di ringiovanimento, caratterizzate soprattutto dagli atteggiamenti battaglieri e sportivi; la seconda caratte­ rizza invece le epoche di decadenza, in cui il desiderio di comodità prevale sull'impulso bellico e l'utilitarismo prevale sullo spirito di avventura. Essendo la ragion vitale molto superiore alla ragione intellettuale, Ortega ritiene che le scienze naturali, fondate sulla ragione intellettuale, siano incapaci di fornire una spiegazione della vita. La vita è infatti, per Ortega, basata su di una perenne «mobilità >> dei suoi principi, che si rinnovano continuamente di generazione in generazione; invece le 'scienze naturali mirano a stabilire leggi generiche, valide eternamente. Se dunque fra la ragion vitale e la ragione delle scienze naturali v'è antitesi e netta superiorità della prima sulla seconda, diversamente vanno le cose, invece, nei rapporti fra la· ragion vitale e la ragione storica. Per Ortega la ragion vitale non può se non tradursi continuamente in azione, e quindi operare sulla storia; ma ogni operare storico comporta, come s'è detto, la creazione di una prospettiva, cioè di una «ragione storica>> . Per­ ciò la ragion vitale non può se non realizzarsi continuamente in una ragione storica. A sua volta però la prospettiva storica in tanto è operante in quanto è effettivamente sentita dall'individuo come una componente ineliminabile della sua vita, cioè come una ragion vitale. Perciò tra ragion vitale e ra­ gione storica 01·tega pone una continua circolarità di causa ed effetto, nella quale consiste l'essenza stessa della vita. La filosofia di Ortega ebbe successo in ·Spagna; e alcuni suoi discepoli cercarono di sviluppare le sue idee storiciste, per cui si può parlare di una vera e propria corrente di storicismo spagnolo, anche se di esso l'unica figura di notevole rilievo sia rimasto Ortega. Fra i suoi discepoli, i piu rilevanti esponenti dello storicismo spagnolo possono considerarsi: Julian Marias, nato a Valladolid nel 1914, il cui libro piu importante in campo storicistico è Il metodo storico delle generazioni, del 1949 ; Manuel Garcia Morente, nato ad Arjonilla nel1888 e morto a Madrid nel1942, che ha avuto il merito di aver fatto conoscere, con la sua traduzione, Spengler agli spa­ gnoli: abbastanza noti sono i suoi Fondamenti di filosofia; ma soprattutto José Ferrater Mora, nato a Barcellona. nel 191 2, autore di un noto volume del 1945, dal titolo Quattro visioni della storia universali. Altri filosofi discepoli di Ortega hanno invece lasciato cadere il suo storicismo per svi­ luppare invece i temi esistenzialistici, pure presenti nel suo pensiero: cosi José Gaos (n. 1900 ) e, soprattutto, Xavier Zublri (n. 1898 ).

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1 193

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ll94

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·

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J. 0RTEGA

y

GASSET

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,1195

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Testi I.

WILHELM DILTHEY

l.

S CIENZE DELLO SPIRITO E SCIENZE DELLA NATURA

l.

Le scienze dello spirito costituiscono un tutto autonomo

L'insieme delle scienze che hanno per oggetto la realtà storico-so­ ciale è designato, nella presente opera, con il termine di scienze dello spirito. Il concetto di queste scienze, in virtu del quale esse costitui­ scono un tutto, e la distinzione di esse dalla scienza della natura, risulteranno chiariti e fondati alla fine dell'opera ; qui all'inizio, noi ci limitiamo a fissare il significato nel quale a-doperiamo quell'espres­ sione e a indicare provvisoriamente i concetti essenziali che ci per­ metteranno di distinguere le scienze dello spirito come un'unità or­ ganica di fronte alle scienze della natura. L 'uso corrente della lingua intende con il nome di scienza un insieme di concetti perfettamente definiti e di valore costante ed uni­ Vt1rsale, i cui legami hanno un fondamento razionale e le cui parti sono rnediatamente congiunte al tutto, sia che attraverso questa rete di proposizioni venga pensato un aspetto della realtà o sia che, attra­ verso di esse, venga ·dettato un fine alla attività umana. In conse­ guenza di ciò noi attribuiremo. il nome di scienza ad ogni concetto della realtà spirituale nella quale potremo ritrovare i caratteri sopra indicati. Partendo da ciò noi fisseremo provvisoriamente i limiti della nostra ricerca. Quelle realtà spirituali che si sono sviluppate storica­ mente nell'umanità e che nel comune uso della lingua sono state desi­ gnate come scienze dell'uomo, della società e della storia, formano la realtà che noi non intendiamo criticare, ma comprendere. Il metodo empirico richiede prima ·di tutto che il valore dei diversi procedimenti di cui il pensiero si serve per risolvere i problemi che gli si pre­ sentano, sia sottoposto ad un'indagine storico-critica, e che l'istitu­ zione di quel grande processo storico il cui soggetto è l'umanità stessa,

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venga chiarita da uno studio sulla natura del sapere e della cono­ scenza. Un si:ffatto metodo è l'opposto di quello di cui oggi, troppo frequentemente, si servono i cosiddetti positivisti, i quali, dalle deter­ minazioni concettuali adoperate per le scienze ·della natura forgiano un concetto di scienza, di cui si valgono per decidere a quali creazioni intellettuali competa il nome ed il rango di scienza. E di questi, ta­ luni per un loro arbitrario concetto di scienza, hanno stoltamente ne­ gato il valore di scienza alla storiografia, altri hanno creduto di tra· sformare in conoscenza della realtà scienze che hanno a loro fonda­ mento degli imperativi. Il concetto di realtà spirituali le quali rientrano nel concetto di scienza, viene diviso ·di solito in due parti, delle quali l'una viene designata con il nome di scienza della natura, mentre per l'altra, è curioso l'osservarlo, non esiste una designazione u�iver� salmente accettata. Noi adoperiamo qui il termine usato da quei pen­ satori, i quali hanno denominato scienze dello spirito questa seconda metà del globus intellectualis. Anzitutto questa de�ignazione che è sta­ ta diffusa dalla Logica di Joh n Stuart Mill, è divenuta pressoché uni­ versale, in secondo luogo ci sembra che essa, paragonata a quelle che furono fin qui tentate, sia quella che esprime meno imperfet­ tamente l'oggetto ·della nostra ricerca. Certo nella nostra indagine i fatti della vita spirituale non sono separati dalla entità psicofì.sica della natura umana, sembrandoci che una teoria che voglia descri­ vere e analizzare la realtà storico-sociale, non possa fare astrazione dalla totalità della natura umana e limitarsi alle sole realtà dello spirito. Le denominazioni che furono tentate, scienze sociali o socwlo­ gia, scienze morali, scienze storiche, scienze della cultura, soffrono tutte del medesimo difetto, sono troppo ristrette rispetto all'oggetto che esse devono descrivere. Il nome che qui è stato prescelto ha, quanto meno, il vantaggio di esprimere la fisionomia centrale di quei fatti dai quali bisogna muovere per vedere l'unità di quelle scienze, per determinare l'estensione e per tracciare i limiti che, sia pure in ma­ niera imperfetta, le separano dalle scienze della natura. La ragione per la quale è nata la consuetudine di distinguere le scienze dello spirito da quelle della natura giace nella profondità della coscienza umana. Poiché l'uomo, prima ancora di condurre delle ri­ cerche sull'origine della realtà spirituale, trova nella coscienza di se stesso il sentimento della sovranità della sua volontà, della responsa­ bilità dei suoi atti e della forza che egli ha di sottomettere tutto al pensiero, e di potere quindi, nell'interno della sua libera personalità, opporsi a tutto ; è perciò appunto che egli si sente separato dalla na­ tura. In effetti egli si sente ·di essere, per adoperare un'espressione di Spinoza, come un imperium in imperio ; e come per l'uomo non esiste se non ciò che esiste come fatto di coscienza, cosi tutti i valori e

tutti i fini della vita sono racchiusi nel suo mondo spirituale ed i suoi atti non hanno altro scopo che quello di agire nell'ordine delle realtà spirituali. Cosi si ·disegna una demarcazione tra un regno della natura ed un regno della storia, all'interno del quale, in mezzo ad un insieme di rapporti che hanno come nella natura, una necessità obbiettiva, si intravede in piu punti la luce della libertà. Nel mondo della storia, al contrario di quanto avviene nel corso meccanico dei cangiamenti naturali, i quali in virtu dell'ordine del tutto, conseguono da ciò che è posto, gli atti di volontà, grazie ad un incremento di energia e grazie ai sacrifici il cui significato è nell'in-dividuo vissuto come un fatto di esperienza, causano uno sVi­ luppo e nella persona e nell'umanità. Ed è perciò che al tempo della metafisica, per la quale la diversità della realtà supponeva nella ge­ rarchia obiettiva dell'universo, una diversità di sostanze, ci si affa­ ticava invano per trovare il fondamento dei fatti della realtà spiri­ tuale e per distinguerli da quelli della natura. Di tutte le modifica­ zioni che la metafisica degli autori antichi subi, per opera dei pensatori del Medioevo, nessuna ve ne fu piu ricca di conseguenze di quella che, senza distaccarsi dal movimento religioso nel quale quei pensa­ tori si muovevano, fissò la differenza tra il mondo degli spiriti ed il mondo dei corpi, e del loro rapporto con la Divinità. Il capola­ voro della metafisica medioevale, la « Summa de veritate catholicae fidei » di Tommaso, ci ha tracciato, a partire dal secondo libro, un quadro ·della gerarchia del mondo creato, nel quale l'essenza ( essentia quidditas) è distinta dall'esistenza, ove in Dio le due coincidono� Nella gerarchia della natm;a, essa dimostra che è necessario' porre sul punto piu alto le sostanze spirituali, le quali non sono composte di materia e di forma, ma sono di per se stesse incorporee. Da que­ ste sono distinte .le sostanze intellettuali o forme incorporee sussi­ . stenti le quali però per completare la loro specie ( ed in particolare l'uomo) hanno bisogno del corpo, ed è a questo punto che viene svi­ luppata contro i filosofi arabi una metafisica dello spirito umano, la cui influenza s'è fatta sentire sino ai metafisici ·del nostro tempo. Que­ sta metafisica dello spirito (psicologia razionale), quando la conce­ zione meccanicista della natura e la filosofia atomistica divennero do­ minanti fu combinata da eminenti metafisici con queste piu recenti dottrine. Ma ogni tentativo falli, giacché sul fondamento della 'dot­ trina delle sostanze, sia pure con l'aiuto delle nuove concezioni della natura, è impossibile giungere a stabilire un 'rapporto tra lo spirito ed il corpo. Cosi Descartes, movendo dai concetti chiari e distinti ·dei corpi intesi come grandezze geometriche, giunse a concepire la mate­ ria come un'immensa macchina, la cui somma delle forze che la muo­ vono rimarrebbe costante, ma con il concepire che una sola anima

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possa cambiare dall'esterno il movimento dentro questo sistema mate­ riale, egli introdusse una irrimediabile contraddizione. È impossibile concepire come delle sostanze estese possano agire su di un sistema spaziale, e la difficoltà non è eliminata dal fatto che Descartes riduca il luogo nel quale si opererebbe questo scambio di forze ad un punto geometrico. L'idea peregrina di una divinità che, attraverso una serie di ripetuti interventi, opererebbe lo scambio reciproco delle for­ ze, l'altra idea che fa di Dio un orologiaio che abbia regolato dall'ini­ zio il sistema della natura e il sistema degli spiriti, in modo che, a guisa di un movimento di orologeria, ad ogni azione della natura corrisponda una sensazione ed a ogni atto di volontà un movimento nel mondo esterno, dimostrano ad evidenza l'impossibilità ·di traspor­ tare la nuova metafisica della natura sul terreno dell'antica metafisica delle sostanze spirituali. L'insostenibilità di questo problema portò cosi al superamento del punto di vista metafisico. Il problema fu poi risolto pio tardi, quando si vide che la radice del concetto di sostanza doveva essere ricercata nell'esperienza vissuta della coscienza medesima, giacché esso non risulta che dal trasferimento dell'esperien­ za interna nell'esperienza esterna : cosi questa dottrina delle sostanze spirituali non può essere spiegata se non riportando quel concetto che ha subito cosi profonda metamorfosi, nel terreno dell'esperienza vissu­ ta, nel quale ha avuto la sua prima origine. Piu tardi, all'opposi­ zione tra sostanze spirituali e sostanze materiali, fu sostituita l'oppo­ sizione tra mondo esterno e cioè il mondo dei fatti che a noi giun­ gono attraverso le sensazioni e il mondo interno, quale a noi vien rivelato attraverso il senso interno delle attività psichiche ( riflessio­ ne). CQsi concepito il problema prendeva delle proporzioni piu mode­ ste ed offriva la possibilità di una soluzione empirica. Per . fondare ora una scienza dello spirito converrà poggiare sul punto di vista cri­ tico dinanzi esposto e ciò nel senso che è · necessario distinguere i pro­ cessi che il pensiero forma servendosi di dati del senso, dai processi che nell'esperienza interna, come in un affatto particolare dominio, si formano senza alcun conèorso di sensi. Si vedrà cosi formarsi un regno dell'esperienza che trova nell'e­ sperienza vissuta la sua origine ed il suo contenuto e che perciò, con­ formemente alla natura del proprio oggetto, costituisce un'affatto spe­ ciale scienza dell'esperienza. E fino a quando nessuno verrà a dimo­ strarci che quel mondo di passioni e di immagini e di pensieri che noi chiamiamo Goethe, ·dipende dalla struttura del suo cervello e dalle proprietà del suo corpo, in modo che tutto risulterà piu chiaro, l'in­ dipendenza di quella scienza non potrà essere contestata. Ora tutto ciò che ha valore e fine esiste soltanto .nella nostra esperienza in­ terna, esiste ed è dato per l'esperienza vissuta del sentimento e della

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ARMANDO PLEBE

volontà ; ne consegue che soltanto questa scienza potrà ritrovare i principi della nostra conoscenza, i quali principi poi sono quelli che rendono per noi possibile l'esistenza della natura, nonché i principi del nostro agire, cioè quei principi di fine, di valore e di bene, sui quali è fondato ogni rapporto pratico con la natura. Il nostro libro, come si è ·detto, tenterà di stabilire· con maggiore profondità l'indi­ pendenza della scienza dello spirito dalle scienze della natura e per­ tanto dovrà altresi stabilire i limiti della nostra conoscenza della na­ tura. Uno dei nostri piu eminenti naturalisti in un articolo che suscitò molto rumore tentò di recente di definire questi limiti e al tempo stesso di determinare con esattezza il concetto stesso di limite. Se noi rappresentiamo tutti i cangiamenti che accadono nel mondo ·dei corpi come riducibili a movimenti di atomi mos�i da forze costanti, allora le scienze ci permetteranno di conoscere l'intero universo. Quel natu­ ralista parti dalla concezione del Laplace : « Supponiamo uno spirito che in un momento dato conosca tutte le forze che agiscono nella natura e che conosca altresi la situazione reciproca degli esseri che la compongono, orbene questo spirito, se potesse sottoporre ad analisi tutti questi dati, potrebbe definire in una formula unica tanto i movi­ menti degli astri, quando il movimento degli atomi ». Movendo da queste ipotesi si arriva in effetti a stabilire con la massima sicurezza i limiti degli sforzi compiuti dalle scienze della �atura. Ci sia permesso ora di introdurre una distinzione che riguarda il concetto di limite nella nostra conoscenza della natura. La realtà è data a noi come un correlato dell'esperienza interna. Ne consegue che i suoi elementi hanno una provenienza differente ed è ·da quest&. differenza che risulta l'impossibilità di porre sul piano del medesimo calcolo scientifico tutti gli elementi originari che provengono da una certa fonte, per il semplice fatto che quelli che provengono da altra fonte beneficiano di quel carattere. Cosi noi non possiamo passare dalle qualità spaziali alla nozione di materia, se non attraverso le sensa­ zioni tattili che hanno un carattere di fatto e che a noi fanno espe­ rimentare una certa resistenza e. poiché ciascun senso è chiuso nel cerchio delle qualità che è atto a percepire, noi siamo obbligati a superare i limiti che separano l'impressione sensoriale dalla perce­ zione di uno stato interno, quando è necessario avvertire uno stato dell'esperienza cosi come ci si presentano e come dalle diverse fonti di coscienza. Di conseguenza noi non possiamo che accettare i ·dati dell'esperienza cosi come ci si presentano e come dalle diverse fonti ci provengono, senza poterli porre sul medesimo piano. Il loro carat­ tere di fatto è quindi per noi insondahile : ogni nostra conoscenza si riduce a fissare delle concordanze rinnovantesi o nel senso della

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simultaneità o nel senso della successione e sono queste concordanze che, nella nostra esperienza, creano i legami tra i diversi dati. Si tratta di limiti che scaturiscono dalle condizioni della nostra capacità di esperienza, limiti che si incontrano ad ogni momento della scienza della natura, in altri termini si tratta non di limiti esterni, contro i quali la nostra conoscenza andrebbe ad urtare, sibbene di limiti in­ terni, come condizioni insepar �bili del conoscere. D'altra parte questi limiti interni non costituiscono un ostacolo alla funzione conoscitiva. Poco importa che la scienza sottometta ai suoi calcoli i fatti di co­ scienza, anche se questo fosse possibile, l'origine di quei fatti ci risul­ terebbe egualmente sconosciuta. N oi non riusciamo a irovare il passaggio che da una grandezza matematica definita o dall'ampiezza di un certo movimento ci conduca ad un certo colore o suono, o ad un qualunque fatto di coscienza. Voi non riuscirete mai a spie­ gare la percezione di una luce azzurra movendo da una certa fre­ quenza di vibrazioni, pio di quanto non riusciate a spiegare un giu­ dizio per mezzo di certi processi cerebrali. La fisica lascia alla fisiolo­ gia la cura di spiegare la qualità sensoriale 1lell'azzurro, la fisiologia che non riesce a far scaturire la visione dell'azzurro dal movimento­ che colpisce i centri nervos�, passa a sua volta il problema alla psi­ cologia, e poiche in questa strana vicenda, noi siamo di continuo rinviati dall'una all'altra, dopo la psicologia noi ci troviamo di nuovo nella medesima difficoltà iniziale. In effetti, l'ipotesi che. fa nascere la qualità da un certo processo sensoriale, non è altro che un espe­ diente. E questo espediente è del medesimo tipo di quello che si veri­ fica nel calcolo quando, per spiegare certi cangiamenti della realtà si ricerca la causa ·di essi nella categoria dei mutamenti che avvengono nella medesima realtà e che fanno parte della nostra esperienza e cosi facendo li si pone nel medesimo piano, ma l'impossibilità di parago­ nare, . come se si trattasse di grandezze del medesimo ordine i fatti materiali e i fatti dello spirito ci obbliga a tracciare, nella nostra cono­ scenza della natura, dei limiti di un carattere affatto nuovo. Ci è impossibile derivare i fatti dello spirito dai fatti che nell'ordine ·della natura sono soggetti al meccanicismo, però questa impossibilità, che deriva dalla diversità della loro origine, non escluderebbe di per sé l'inserimento dei primi nel sistema dei secondi ; soltanto quando i rap­ porti che congiungono i fatti dello spirito dimostrano che essi non pos­ sono in alcuna maniera essere soggetti al corso uniforme della natura, soltanto allora si manifesterà l'impossibilità di suhor·dinarli ad essa. Ci troveremo allora nel preciso punto in cui la scienza della natura finisce, ed in cui comincia una scienza che ha in se stessa il suo proprio centro : la scienza della realtà dello spirito.

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2. Rapporto tra le scienze dello spirito e le scienze della natura Tuttavia le scienze dello spirito per la loro ampiezza includono in sé dei fatti naturali e presuppongono la conoscenza della natura. Si immagini un regno di puri spiriti dotati di personalità : l'apparizione, lo sviluppo, la sussistenza e la scomparsa di esseri si:ffatti sarebbero dipendenti da condizioni puramente spirituali, i loro rapporti, la loro azione reciproca sarebbero regolati con mezzi puramente spirituali e spirituali sarebbero altresi gli effetti dei loro atti. La conoscenza del sistema di tali enti costituirebbe una scienza dello spirito pura. Ma in effetti gli individui nascono viv�mo e si sviluppano grazie alle funzioni dell'o�ganismo animale ed in virtu degli scambi con la na­ tura, il sentimento che essi hanno della vita, dipende, almeno in parte, da questa funzione, le loro espressioni sono rese possibili attra­ verso gli organi dei sensi e dal mo-do come sono modificati dal mondo esterno. Quanto poi si riferisce alla ricchezza e alla mobilità delle loro rappresentazioni ed alla forza e alla direzione della loro volontà, noi troviamo che esse dipendono dai cambiamenti che intervengono nel sistema nervoso degli individui. Sotto l'influsso della volontà le fibre muscolari si contraggono e l'azione che tende ad esteriorizzarsi si trova legata ad un cambiamento della massa delle cellule che compon­ gono l'organismo. Cosi la vita ·dello spirito non può essere distaccata, se non per uno sforzo di astrazione, dall'entità psicofisica. Il si­ stema composto da queste entità viventi è la realtà che costituisce l'oggetto della scienza dello spirito. Grazie alla dualità dei punti di vista dai quali può essere considerato, poco· importando qui le con­ seguenze metafisiche, quell'entità vita�e che è l'uomo,, per quanto si riferisce alle esperienze interne, c:l appare come un ordine di fatti spirituali, e per quanto si riferisce all'e�perienza dei sensi, ci appare come un tutto corporeo. Il senso interno e la percezione esterna non si trovano mai simultaneamente nel medesimo piano e da ciò deriva che i fatti dello spirito non sono mai ·dati con i fatti del nostro corpo.- Si comprende che la scienza, allorquando considera i fatti dello spirito ed il mondo dei corpi, che sono l'espressione della vivente unità psicofisica, si trovi di fronte a due punti di vista, ciascuno dei quali si oppone all'altro. Se si parte dall'esperienza interna, si troverà che la totalità del mondo interno è data nella coscienza e le leggi ·di quel tutto che è la natura saranno dipendenti dalle condizioni della coscienza. È la teoria seguita dàlla filosofia germanica dalla fine del diciottesimo secolo al principio del nostro e conosciuto sotto il nome di filosofia trascendentale. Ma se si muove dalla natura quale a noi risulta dai sensi e se si osserva che nella successione cronologica e nella disposizione spaziale nella quale si ordina il mondo esteriore, si

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trovano inclusi dei fatti psichici e se si riesce a stabilire che i movi­ menti della natura penetrano sino nel sistema nervoso determinando cosi dei èangiamenti nella vita dello spirito, e se, infine, lo studio della vita umana e le esperienze degli stati patologici riescono ad ampliare queste esperienze al punto di fornire un'immagine di un mon­ do spirituale determinato dal mondo dei corpi, allora si vedrà nascere la teoria del materialismo che procede dall'esterno all'interno e dal materiale allo psichico. L'opposizione del filosofo e del naturalista risulta cosi ·determinata dai due diversi punti di vista. Prendiamo come punto di partenza il modo secondo il quale le scienze della natura considerano il mondo. Fino a quando queste scienze sono consapevoli dei propri limiti, i risultati da esse raggiunti sono incontestabili, ma allorquando esse vengono considerate ·dal punto di vista dell'esperienza interna il valore di quella conoscenza deve es­ sere sottoposto ad un'analisi pio accurata; Laddove l'analisi ritrova dei fatti nei quali una modificazione della materia è regolarmente con­ giunta ad una modificazione psichica senza · che sia possibile stabilire tra le due alcuna mediazione, non si può fare altro che constatare la regolarità di questo rapporto e rinunciare di applicare ad esso la relazione di causa ed effetto. Noi sappiamo che molte modificazioni della realtà dello spirito e la nozione matematica di funzione è l'unica che esprima correttamente questa relazione. Se voi concepite questo rapporto in modo che il movimento dei processi psichici, sia paral­ lelo al movimento dei processi fisici ed alla stessa guisa del movimento di due orologi, e se concepite la sostanza dei rapporti come risultante di un unico movimento di orologeria o se, per non ricorrere a questa immagine, ammettete però che i due regni siano due aspetti diver­ genti ·di un medesimo sostrato, voi potrete egualmente trovarvi un pieno accordo con i risultati dell'esperienza. La dipendenza dello spi­ rituale dall'ordine della natura avviene quindi secondo un rapporto si:ffatto, che i fatti e le modificazioni naturali che sono causalmente determinate dall'ordine generale della natura, sono per noi regolar­ mente ·congiunti e senza alcuna altra mediazione a fatti e a modifi­ cazioni spirituali. Cosi soltanto le scienze della natura possono esten­ dere il legame causale alla vita psicofisica. Ma ecco che qui interviene un mutamento grazie al quale il rapporto del naturale e dello psi­ chico �?fugge alla categoria di causa ed a una concezione causale del mondo, e questo mutamento susciterà, di ritorno, una modificazione nell'ordine delle realtà materiali. È in quest'ordine di idee che i fisio­ logi, con le loro ricerche sperimentali hanno posto in luce il signi­ ficato della struttura del sistema nervoso. Costoro analizzando le me­ ravigliose manifestazioni della vita hanno potuto seguire i rapporti di

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dipendenza che portano le modificazioni della natura sino all'uomo, hanno potuto. stabilire come attraverso la rete degli organi di senso giungano sino al sistema nervoso e come si formano le sensazioni, i sentimenti e le rappresentazioni e come, a loro volta, reagiscono sul movimento della natura. L'entità vitale, questa entità che noi, con un sentimento immediatò, avvertiamo come l'unità indivisibile della nostra esistenza, ci si rivela come un sistema di rapporti che empiri­ camente può essere stabilito tra i fatti di coscienza da un lato e le funzioni del sistema nervoso ·dall'altro, poiché è soltanto attraverso il sistema nervoso che ogni atto e modificazione psichica ci appaiono congiunti ad una modificazione del corpo e questa modificazione non può essere congiunta ad un mutamento del nostro stato psichico, se non perché essa agisce sul nostro sistema nervoso. Questa analisi del­ l'entità psicofisica ci permette di rappresentarci con maggiore chia­ rezza i legami di dipendenza che la congiungono all'ordine della na­ tura, nella quale essa vive ed agisce, e ci permette di determinare fino a qual punto lo studio della realtà storico-sociale dipende dalla conoscenza della natura. Noi potremo altresi stabilire fino a che pun­ to possono essere giustificate le teorie di Comte e di Spencer e se possa essere accettato il posto da essi assegnato alle scienze storico-so­ ciali nella gerarchia delle scienze. E poiché noi in questo scritto ci proponiamo di fondare Ia relativa indipendenza delle scienze dello spirito, noi dovremo studiare i loro rapporti con le altre scienze tutte, delle quali esse costituiscono il grado piu alto. I fatti dell'ordine spi­ rituale formano il limite superiore dei fatti dell'ordine naturale e que­ sti costituiscono le condizioni inferiori della vita dello spirito. E poiché il regno delle persone, ·cioè la società umana, costituisce con la storia il termine piu alto del mondo dell'esperienza, noi avremo il bisogno di conoscere il sistema delle condizioni che sono poste dalla natura. In vero l'uomo in dipendenza ·del posto che occupa nell'ordine causale della natura, ne risulta condizionato per un doppio gioco ·di rapporti. L'entità psicofisica, come abbiamo veduto, riceve continuamente dalla natura e continuamente agisce su di essa attraverso il sistema nervoso. Ora è proprio della natura di questa entità che gli atti che da essa scaturiscono assumano le forme di un agire intenzionale. Per essa infatti il corso degli eventi naturali può per un verso esercitare una azione determinante sulla fissazione dei fini, per l'altro verso, esso è da quella determinato come un sistema di mezzi per il raggiungi­ mento dei fini. Cosi noi, anche quando poniamo ·degli atti di volontà ed anche quando agiamo sulla natura, poiché noi non siamo forze cieche ma volontà che riflettono prima di porre dei fini, cosi ci tro­ viamo dipendenti dall'ordine della mi.tura. Di conseguenza l'unità psi­ cofisica, di fronte alla natura, si trova in un doppio ordine di dipen-

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denze. Da una parte l'ordine ·della natura determina, in funzione della situazione che la terra occupa nell'insieme del cosmo, la realtà sto­ rico-sociale, cosicché questo ordine naturale appare come un sistema di causa e di contraccolpo l'immenso problema dei rapporti che in questa realtà si pongono tra la nostra libertà ed il legame dei fatti naturali, si scomporrà in una molteplicità di problemi relativi ai rap­ porti tra i fatti dell'ordine spirituale e l'azione dei fatti naturali, dal­ l'altra i fini che la società umana si propone, risultano dalle reazioni che essi esercitano sulla natura e sulla terra, e queste reazioni sono legat� all'uso che noi facciamo delle leggi della natura. Tutti i fini che noi ci proponiamo esistono però soltanto nella nostra interiorità spirituale, poiché nulla esiste per l'uomo se non ciò_ che appartiene a questo dominio, ma per raggiungere questi fini è necessario ricercarne i mezzi nell'ordine della natura. Talvolta le modificazioni che la po­ tenza creatrice dello · spirito suscita nel mondo esteriore sono quasi insensibili e tuttavia è in questo mondo che essa può trovare i mezzi per giungere ad altri spiriti. Ricordiamoci come pochi fogli, soprav­ vissuti al profondo lavorio compiuto da taluni pensatori antichi che inclinavano ad ammettere il movimento della terra, caduti nelle mani di Copernico, siano stati il punto di partenza di quella che fu una vera e propria rivoluzione delle nostre concezioni dell'universo. Questo esempio ci aiuta a comprendere come sia relativo il limite che separa i due òrdini ·di scienze. Le due scienze infatti si congiungono di con­ tinuo, sia che da questo si muova verso quello, sempre si giunge al punto nel quale l'ordine della natura agisce sull'evoluzione dello spirito, e al punto in cui questo, offrendo il mezzo per l'azione dello spirito sugli spiriti degli altri, agisce su di quella. Le nozioni delle scienze naturali interferiscono quindi con le nozioni delle scienze -dello spirito. Cosi, per esempio, lo studio delle leggi del suono e della causa dei suoni è alla base di gran parte della grammatica e della teoria musicale, ed inversamente il genio della lingua e della musica sono legati a quelle leggi naturali. Di guisa che lo studio delle loro crea­ zioni è condizionato alla comprensione di questo rapporto. Questo esempio ci permette di constatare come la conoscenza delle condizioni che dipendono dall'ordine della natura e che sono oggetto delle scienze .della natura costituisce per gran parte la base del nostro studio dei fatti dello spirito. Le scienze dell'uomo, della società e della storia hanno come fondamento la natura, soprattutto per quanto riguarda le unità psicofisiche che non possono essere studiate se non con l'au­ silio della biologia e per quanto riguarda il luogo sul quale queste unità, agiscono e realizzano i loro fini. Ciò può essere chiarito in que­ sto esempio. Da una parte sono le condizioni naturali che hanno deter­ minato lo sviluppo della vita spirituale e la sua espansione sulla

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superficie della terra, d'altra parte l'attività dell'uomo è legata alla natura in quanto . è resa possibile dalla conoscenza e dalla utilizzazione delle leggi naturali. Il primo rapporto dimostra la dipendenza del­ l'uomo dalla natura ; il secondo non considera queste dipendenze se non come il lato inverso del processo storico, cioè il processo in virtu del quale l'uomo a poco a poco ha sottomesso il pianeta alla' sua po­ tenza. Si potrà considerare come risolto il problema del rapporto tra le scienze dello spirito e le scienze della natura, solo quando si sarà risolta l'antinomia dalla quale abbiamo preso l'avvio, e cioè l'antino­ mia tra la concezione trascendentale, per la quale la natura è sotto­ messa alle condizioni della coscienza, e la concezione dell'obbiettivi­ smo empirico, per il quale, al contrario, lo sviluppo dello spirito è sot­ tomesso alle condizioni del mondo della natura. La soluzione di que­ st'antinomia è uno degli aspetti del problema della conoscenza. Le condizioni per la soluzione del problema sono le seguenti : di­ mostrare la realtà obbiettiva dell'esperienza interna, affermare l'esi­ stenza del mondo esterno, e stabilire conseguentemente che i fatti dello spirito e le essenze spirituali non si trovano in questo mondo esteriore se non per la necessità di trasportare in questo i fatti del mondo interno. Come l'occhio che ha fissato il sole ne proietta l'im­ magine variamente colorata nelle piu diverse direzioni dello spazio, cosi il nostro pensiero proietta nel mondo che si muove, le immagini del mondo interiore. Questo processo non può essere giustificato logica­ mente se non con un ragionamento analogico che parta da una vita interiore, che in un modo originale ed immediato è ·data a noi e a noi soltanto, e che per mezzo delle rappresentazioni che ad essa si legano, concluda all'esistenza di un sostrato che è la base dei feno­ meni di cui il mondo esterno è il teatro. Quale che possa essere in sé la natura, lo studio· delle cause che determinano lo spirito, può limitarsi a ciò che i fenomeni dell'ordine naturale siano concepiti ed utilizzati come segni della realtà e che le concordanze riscontrate nella loro successione siano concepite ed utilizzate come segni della concor­ danza della realtà. Ma se si passa nel dominio dello spirito e si ricerca sino a che punto la natura fornisca il contenuto della vita dello spi­ rito e fino a che punto essa, sia come forza, sia come mezzo, si trovi mescolata agli atti della volontà, essa rimarrà ciò che essa è per lo spirito, e quanto a ciò che essa è in sé, rimane del tutto indif­ ferente. È sufficiente che lo spirito consideri la natura cosi come gli si manifesta, che essa possa contare sul determinismo delle leggi che la regolano e che infine possa gioire dello splendido riflesso che la natura gli invia della sua genuina realtà. (Introduzione alle scienze dello spirito, trad. D. O. Bianca, Torino, Paravia, 1969, pp. ls-30).

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LA FUNZIONE DELLA FILOSOFIA

l. Posizione nella struttura della vita psichica I tratti dati storicamente possono venire intesi soltanto in base all'interiorità ·della vita psichica : la scienza che descrive e analizza questa interiorità è la psicologia descrittiva, la quale comprende per­ ciò, per cosi dire dall'interno, anche la funzione della filosofia nel mantenimento della vita spirituale e ne determina il rapporto con le operazioni spirituali piu prossime. Cosi essa completa il concetto del­ l'essenza della filosofia : i concetti, sotto i quali sta quello della filosofia, hanno a proprio contenuto la relazione interna dei caratteri che rap­ presentano, in base all'interno possesso di ciò çhe è immediatamente vissuto e alla comprensione ·degli altri, una connessione reale ; invece la scienza teoretica della natura constata soltanto le uniformità tra i fenomeni dati sensibilmente. Tutti i prodotti umani sorgono dalla vita psichica e dalle sue rela­ zioni col mondo esterno. Poiché la scienza cerca ovunque regolarità, cosi anche lo studio dei prodotti spirituali deve partire dalle regolarità nella vita psichica : e queste sono di due maniere. La vita psichica mostra uniformità, che possono esser constatate nei suoi mutamenti, e di fronte ai quali ci atteggiamo in modo simile alla natura esterna. La scienza li constata separando negli Erlebnisse i vari processi e mostrando induttivamente le regolarità che vi sono : cosi noi ricono­ sciamo i processi di associazione, di ripro-duzione o di appercezione. Ogni mutamento è qui un caso che sta in un rapporto di subor­ dinazione con tali uniformità. Esse costituiscono un lato del fonda­ mento di spiegazione psicologica per i prodotti spirituali : i processi formativi, in cui le osservazioni si trasformano in immagini fanta­ stiche, contengono una parte della base esplicativa del mito, della saga, della leggenda e del creare artistico. I processi della vita psichica sono però- legati tra di loro da un altro tipo di relazione, cioè come parti entro la connessione ·della vita psichica. Questa connessione può venir detta struttura psichica : . essa è l'ordine per cui fatti psichici di diversa qualità sono collegati tra loro nella vita psichica mediante un'interna relazione, che può venir immediatamente vissuta. La forma fondamentale di questa connessione psichi-ca è determinata dal fatto che ogni vita psichica si trova condizionata dal suo ambiente e a sua volta opera finalisticamente su questo ambiente. Le sensazioni vengono suscitate, e rappresentano la molteplicità delle cause esterne ; per il rapporto di tali cause con la nostra vita, quale si manifesta nel sentimento, noi impieghiamo queste impressioni a nostro interesse, noi appercepiamo, distinguiamo, uniamo, giudichiamo e concludiamo:

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sotto l'impressione dell'apprendimento oggettivo sorgono, sulla base della molteplicità dei sentimenti, valutazioni sempre piu precise dei momenti della vita e delle cause esterne che agiscono su questa vita e sul sistema dei suoi impulsi ; diretti da queste valutazioni, noi mu­ tiamo mediante azioni volontarie, orientate in vista di certi scopi, la costituzione dell'ambiente, o adattiamo ai nostri bisogni processi vitali mediante l'attività interna del volere. Questa è la vita umana : e nella sua connessione sono legati tra loro, in modi quanto mai diversi, l'osservazione, il ricordo, l'istinto, il sentimento, l'aspirazione, l'azione volontaria� Ogni Erlebnis, che si realizza come un mo­ mento ·della nostra esistenza, è complesso. La connessione strutturale psichica ha un carattere teleologico. Quando nel piacere e nella passione l'unità psichica ha esperienza di ciò che per esso ha valore, reagisce nell'attenzione, nella scelta delle impressioni e nella loro elaborazione, nella tensione, nell'azione volon� taria, nella scelta tra i fini, nella ricerca di mezzi per i suoi scopi. Già entro l'apprendimento oggettivo si fa valere cosi un'aspirazio­ ne finalistica : le forme della rappresentazione di qualche realtà co­ stituiscono gradi di una connessione in cui l'elemento oggettivo giunge a una rappresentazione sempre piu compiuta e sempre piu cosciente. Questo modo di atteggiamento, in cui noi apprendiamo ciò che è immediatamente vissuto e ciò che è dato, produce la nostra immagine del mondo, i nostri concetti di realtà, le scienze particolari in cui si distribuisce la conoscenza di questa realtà - cioè la connessione fi.· naie della conoscenza della realtà. A ogni punto di questo processo operano impulso e sentimento. In questi sta il punto centrale della nostra struttura psichica ; tutte le profondità del nostro essere vengono mosse da essi. Noi cerchiamo una situazione del nostro sentimento della vita, che in qualche modo faccia tacere i nostri desideri. La vita si trova in un continuo approssimarsi a questo fine : ora sembra averlo raggiunto, ora si allontana di nuovo da esso. Solo il progre­ dire dell'esperienza insegna ad ognuno dove per lui sta ciò -che co­ stantemente è ·dotato di valore. Il compito principale della vita è da questo lato di pervenire, attraverso le illusioni, alla conoscenza di ciò che per noi vale veramente. Io chiamo esperienza della vita la con­ nessione dei processi in cui proviamo i valori della vita e i valori delle cose : essa presuppone la conoscenza di ciò che è, cioè il nostro apprendimento oggettivo, mediante il quale le nostre azioni volonta­ rie, il cui scopo piu prossimo sta nell'ottenere mutamenti al di fuori o in noi stessi, possono nel medesimo tempo rappresentare mezzi di constatazione del valore dei momenti ·della vita e delle cose esterne, nel caso che il nostro interesse si diriga a queste. Mediante la cono­ scenza dell'uomo, la storia e la poesia, aumentano i !�lezzi e l'orizzonte

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dell'esperienza della vita. E anche in questo campo la nostra vita può raggiungere la sicurezza elevandosi a sapere universalmente va­ lido. Ma può questo rispondere alla questione relativa a ciò che è incondizionatamente valido. Sulla coscienza dei valori della vita è fon­ data una terza e ultima connessione in cui, mediante le nostre azioni volontarie, tendiamo a dirigere noi stessi e a ordinare cose, uomini, società. A essa appartengono scopi, beni, doveri, regole della vita, tutto l'enorme lavoro del nostro agire pratico nel diritto, nell'eco­ nomia, nella regolamentazione della società, nel dominio sulla natura. Anche entro questa forma di atteggiamento la coscienza procede a gradi sempre piu alti, e noi cerchiamo una forma ultima e suprema di agire sulla base di un sapere universalmente va,lido, da cui di nuovo sorge la domanda sul modo in cui il fine può venir conseguito. Un essere, a cui è intrinseca un'aspirazione verso fini, che in qual· che modo è diretto verso valori vitali promossi negli impulsi, che si manifesta nella differenziazione delle funzioni e nella loro interna relazione a un fine, deve svilupparsi : dalla struttura della vita psi· chica deriva cosi il suo sviluppo. Ogni momento e ogni epoca della nostra vita ha in sé un valore autonomo, in quanto le sue particolari condizioni rendono possibile un determinato modo di soddisfacimento e di realizzazione della nostra esistenza ; al tempo stesso però tutti i gradi della vita sono legati tra loro in uno sviluppo, in quanto noi tendiamo, nel procedere del tempo, a un'esplicazione sempre piu ricca dei valori della vita, a una forma �empre piu salda ed elaborata della vita psichica. Anche qui risulta di nuovo ]o stesso rapporto fon­ damentale tra vita e sapere : nel procedere della coscienza, e nell'ele­ varsi del nostro agire a sapere valido e fondato, risiede una condi­ zione essenziale per una salda forma di interiorità. Questa connessione interna insegna come la funzione empiri­ camente constatata della filosofia scaturisce .dalle qualità fondamentali della vita psichica con un'interna necessità. Se si rappresenta un indi­ viduo che sia totalmente isolato, e percìò libero dai limiti temporali della vita individuale, in questo si avranno un apprendimento della realtà, un Erleben dei valori, una realizzazione dei beni secondo re· gole del1a vita, e dovrà in lui sorgere una riflessione sulla sua atti­ vità, �he si compirà in un sapere universalmente valido intorno a essa ; e siccome nelJa profondità di questa struttura sono connessi tra di loro apprendimento della realtà, esperienza interna dei valori, rea­ lizzazioni di scopi della vita, esso tenderà a comprendere questa in­ terna connessione mediante un sapere universalmente valido. Ciò che è collegato :rielJa profondità della struttura, la conoscenza del mondo, l'esperienza delJa vita e i principi delJ'agire, deve in qualche modo es­ sere unificato nella coscienza pensante. Cosi sorge in questo individuo

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la filosofia. La filosofia è intrinseca alla struttura dell'uomo : ognuno, in qualsiasi posto stia, si accosta ad essa, e ogni funzione umana tende a pervenire alla riflessi?ne filosofica�

2. La struttura della società � la posizione della religione, dell'arte e della filosofia L'uomo singolo come essere isolato è una mera astrazione. Affi­ nità di sangue, vita comune geograficamente, azione reciproca nelle funzioni del lavoro nella concorrenza e nel lavoro comune, nelle mol­ teplici connessioni che derivano dal comune perseguimento di scopi, relazione di forza e obbedienza fanno dell'individuo un membro della società. E poiché questa società poggia su individui dotati ·di struttura, si manifestano in essa le medesime regolarità strutturali. La finalità soggettiva e immanente degli individui si esprime nella storia cQme sviluppo : le regolarità psichiche si traducono in quelle della vita so­ ciale. La differenziazione e il superiore rapporto delle funzioni diffe­ renziate nell'individuo assumono nella società forme pio salde e attive in quanto divisione del lavoro. Lo sviluppo viene delimitato ·dalla concatenazione delle generazioni : i prodotti di ogni specie di la­ voro costituiscono il fondamento per sempre di nuove generazioni, e il lavoro spirituale si estei:tde di co.ntinuo nello spazio, sorretto dalla co­ scienza della solidarietà e del progresso, dando cosi luogo alla comu­ nità del lavoro sociale, al crescere dell'energia spirituale in esso im­ piegato e alla crescente articolazione delle funzioni di lavoro. Questi ' motivi razionali, che operano nella vita della società e sono posti in luce dalla psicologia sociale, stanno sotto le condizioni su cui poggia il carattere piu proprio dell'esistenza storica ; razza, clima, rapporti di vita, sviluppo -di classe e politico, forma personale degli individui e . dei loro gruppi danno a ogni prodotto spirituale un carattere par­ ticolare ; ma in tutta questa molteplicità sorgono, in base alla struttura sempre eguale della vita, le medesime connessioni che designo come sistemi di cultura della società umana. Infatti, nella contemporaneità delle persone e nella successione delle generazioni, sono legati in una connessione finale coloro in cui si presenta la funzione costituita dallo sforzo di affrontare, mediante concetti universalmente validi, il mi­ stero del mondo e della vita. Occorre ora ·determinare il posto di questo sistema di cultura entro la società. Nella conoscenza della realtà le esperienze delle generazioni si con­ catenano sulla base dell'uniformità del pensiero e dell'identità del mondo da noi indipendente. Estendendosi continuamente, essa si dif­ ferenzia in un numero crescente -di scienze particolari, e resta tutta­ via una per il rapporto che tutte le lega a una realtà e l'esigenza

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a esse comune di validità universale del loro sapere. Cosi la nostra t:ultura ha in queste scienze particolari il suo saldo, unitario e pro­ -gressivo fondamento. Da questo grande sistema la cultùra umana si estende fino al complesso di quei sistemi, in cui si sono connesse e differenziate le azioni del volere, le quali sono legate in connessioni che permangono nel mutare delle generazioni. La regolarità nelle varie sfere dell'agire, l'identità della real-i:à a cui esso si riferisce, l'esigenza di una reciproca connessione ·delle azioni per realizzare certi scopi, influiscono sulle con­ nessioni culturali della vita economica, del diritto e del dominio della natura. Tutto questo agire è pieno di valori vitali ; la gioia e l'avan­ zamento della nostra esistenza consistono in tali attività e vengono ottenuti i� base a esse. Ma al di �à di questa tensione del volere c'è un godimento dei valori vitali e dei valori delle cose, in cui noi ci riposiamo di questa tensione : gioia della vita, socievolezza e festa, gioco e scherzo, questo è il piacere in cui si sviluppa l'arte, il cui carattere particolare è di indugiare in una regione di libero gioco, nella quale al tempo stesso diventa visibile il significato della vita. Il pensiero romantico ha spesso accentuato la parentela di religione, arte e filosofia. Lo stesso mistero del mondo e della vita sta dinanzi alla poesia, alla religione e alla filosofia ; un rapporto affine di fronte alla connessione storico-sociale della .loro sfera di vita è presente nel religioso, nel poeta e nel filo­ sofo : essi sono racchiusi in questa singolarmente, e il loro creare si eleva al di sopra di ogni ordine, in una regione in cui si trovano di fronte soltanto alle forze sempre attive delle cose - al di sopra di tutte le relazioni storiche, con l'ambito temporale, ·di fronte a ciò che sempre e ovunque la vita opera. Essi temono i legami con cui il passato e gli ordinamenti vogliono avvolgere la loro attività creativa, e odiano l'impiego della personalità da parte delle comunità, che misurano onore e valore degli elementi secondo il loro bisogno. Cosi una piti profonda differenza separa il nesso che ha luogo nelle organizzazioni esterne, nei sistemi finali del sapere o dell'agire esterno, dal cooperare nelle connessioni culturali della religione, della poesia e della filosofia. Nel modo piu libero si comportano però i poeti : i rapporti con la realtà si risolvono nel loro giocare con disposizioni interio�i e con forme. Questi legami tra religione, poesia e filosofia, mediante cui esse sono collegate tra loro e separate dagli altri campi della vita, poggiano esclusivamente sul fatto che la tensione del volere è qui risolta in scopi . limitati : l'uomo si libera da questo vincolo di ciò che è dato e determinato, riflettendo su se stesso e sulla con­ nessione delle cose, mediante un conoscere che non ha questo o quel determinato ·oggetto, mediante un agire che non deve compiersi in un

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determinato posto della connessione finale. L'indirizzarsi dello sguardo e dell'intenzione al particolare, a ciò che è ·determinato nello spazio e nel tempo, soffocherebbe la totalità del nostro essere, la coscienza del nostro proprio valore e della nostra indipendenza dal nesso di causa ed effetto, dal legale spaziale e temporale : non sarebbe sempre aperto all'uomo il dominio della religione, della poesia e della filosofia, in cui egli è libero da tale limitazione. Le intuizioni, in cui egli qui vive, debbono sempre in qualche modo modificare i rapporti di realtà, di valore e ideale, di scopo e regola : l'elemento creativo nella religione consiste sempre nel concepire una connessione attiva a cui l'individuo si riferisce, la poesia è sempre rappresentazione di un accadimento, penetrato nella sua signifìcatività, mentre per la filosofia è evidente che il suo procedimento concettuale e sistematico appartiene all'at­ teggiamento oggettivo. La poesia ·resta nella regione del sentimento o dell'intuizione, poiché esclude da sé non solo ogni limitata deter­ minazione di scopo, bensi lo stesso atteggiamento del volere. Invece la feconda serietà della religione e della filosofia deriva dal loro sforzo di penetrare nella sua profondità oggettiva la connessione interna che, nella struttura del nostro animo, va dall'apprendimento della realtà alla posizione di scopi, e su questa base dar forma alla vita. Cosi esse si traducono in una riflessione responsabile sulla vita, che è ap­ punto questa totalità ; esse diventano, nella coscienza della propria verità, forze operanti di formazione della vita. Intimamente apparen­ tàte, quali sono, esse debbono, proprio perché hanno la stessa inten­ zione di formazione della vita, affrontarsi nella lotta per l'esistenza. Il profondo senso dell'animo e la validità u:riiversale del pensiero con­ cettuale lottano qui tra loro. Religione, arte e filosofia sono per cosi dire inserite nelle connes­ sioni finali, quanto mai salde, delle scienze particolari e dei legami dell'azione sociale. Esse stanno cosi apparentate tra loro e pur stra­ niere nel loro procedimento spirituale, nei rapporti piu diversi, che occorre ora comprendere. Ciò riconduce al modo in cui nello spirito umano si afferma la spinta verso l'intuizione del mondo, e al modo in cui la filosofia cerca di fondarla in modo universalmente valido. Cosi si rivela anche l'altro lato della filosofia, cioè il modo in cui dai concetti e dalle scienze sviluppati nella vita emerge efficace la fun­ zione universalizzante e unificante della filosofia. (L'essenza della filosofia, trad. P. Rossi in W. DILTHEY, Critica della ragion storica, 19542, pp. 429-438).

Torino, Einaudi,

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III. LA VITA E LE SCIENZE DELLO SPIRITO Qui vengono considerati soltanto i principi generali necessari per uno sguardo sulla connessione delle scienze dello spirito, mentre la trattazione dei metodi appartiene allo studio della costruzione delle scienze ·dello spirito. Due spiegazioni terminologiche devono venir qui anticipate : per unità della vita psichica intendo gli elementi del mondo storico-sociale, e per struttura psichica designo la connessione in cui� nelle unità della vita psichica, sono tra loro legate diverse operazioni. l.

La vita

Le scienze dello spirito poggiano sul rapporto di Erlebnis, espres· sione e intendere. Cosi il loro sviluppo dipende sia dall'approfon­ dimento degli Erlebnisse che dalla crescente tendenza all'esaurimento del loro contenuto, ed è nel medesimo condizionato dall'estensione del­ l'intendere all'intera oggettivazione dello spirito e dalla penetrazione sempre pio compiuta e metodica del contenuto . spirituale entro le diverse manifestazioni della vita. Il complesso di ciò che si presenta nell' Erleben e nell'intendere, è la vita come connessione che comprende il genere umano. E quando per la prima volta ci troviamo di fr�mte a questo grande fatto, che per noi è il punto di partenza non soltanto delle scienze dello spirito ma anche della filosofia, occorre andar oltre la sua elaborazione scien­ tifica e penetrare il fatto stesso nella sua costituzione. Infatti, dove la vita ci si presenta come un fatto proprio del mondo umano, noi ci occupiamo delle sue determinazioni presenti nelle varie unità della vita, dei rapporti vitali, della presa di posizione, del­ l'atteggiamento, della creazione che ha luogo nelle cose e negli uo­ mini e nel subire che da essi deriva. Nello sfondo perma,nente da cui derivano le operazioni differenziate, non c'è nulla che non contenga un rapporto vitale dell'io. Come tutto qui ha una posizione di fronte a esso, altrettanto viene però a mutare la situazione dell'io secondo il rapporto che le cose e gli uomini hanno con esso : non esiste nes­ sun uomo e nessuna cosa che siano soltanto oggetti per me, e che non racchiudano una pressione o un vantaggio, il fine di una ten­ denza o un vincolo del volere, un'importanza, una pretesa a una presa di posizione, una vicinanza interna o una resistenza, una distanza e una estraneità. Il rapporto vitale, sia esso ]imitato a un dato mo­ mento o duraturo, fa · si che tali uomini e tali oggetti mi rechino felicità, estendano la mia esistenza, accrescano la mia forza, oppure vengano a delimitare in questo rapporto lo spazio ·della mia esistenza� a esercitare una pressione su di me, a diminuire la mia forza. E ai

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predicati che le cose acquistano soltanto. nel rapporto vitale con me, corrisponde il mutare degli stati in me stesso, che da esso scaturisce. Su questo sfondo della vita si presentano poi l'apprendimento ogget­ tivo, la valutazione, la posizione di scopi, come tipi di atteggiamento che hanno luogo in innumerevoli sfumature che trapassano l'una nel­ l'altra : essi sono legati nel corso della vita in interne connessioni, le quali comprendono e determinano ogni occupazione e ogni sviluppo. Se illustriamo ciò ad esempio con il modo in cui il poeta lirico reca a espressione l' Erlebnis, si vede che egli muove ·da una situa­ zione e raffigura uomini e cose nel rapporto vitale con un io jdeale, in cui la sua esistenza e il suo corso di esperienza immediata vengono rafforzati nella fantasia, e allora appare che questo rapporto di vita determina ciò che il vero lirico vede ed esprime degli uomini e delle cose e di se stesso. Anche il poeta epico ha bisogno di dire soltanto ciò che si presenta in un certo rapporto di vita. Oppure, quando lo storico descrive situazioni e persone storiche, egli desterà un'impr�s­ sione della vita reale, tanto piu forte quanto meglio raffigura tali rapporti ·di vita. Egli deve porre in 'luce le qualità degli uomini e delle cose che scaturiscono e operano in tali rapporti di vita e, si potrebbe dire, dare alle persone, alle cose, ai processi, la forma e il colore in cui si sono configurati dal punto ·di vista del rapporto di vita, sulla base di osservazioni e di immagini memorative contenute nella vita medesima. 2.

L'esperienza della vita

L'apprendimento oggettivo scorre nel tempo, e cosi m esso sono già contenute immagini di ricordo. E in quanto ciò che è immedia­ tamente vissuto cresce continuamente e sempre si ripresenta con il progredire del tempo, sorge allora il ricordo del corso della propria vita. Parimenti, sulla base della comprensione di altre persone, si formano i ricordi dei loro stati e le immagini esistenziali delle di­ verse situazioni : e certo in tutti questi ricordi la situazione è sempre legata con il suo ambiente di contenuti di fatto, di avvenimenti e di persone. Dalla generalizzazione di ciò che cosi si presenta insieme, sorge l'esperienza della vita dell'individuo. Essa si presenta in forme di procedimento equivalenti a quelle dell'induzione. Il numero dei casi, in base ai quali questa induzione decide, cresce di continuo nel corso della vita ; e le generalizzazioni che si formano ne vengono sempre piu giustificate. La sicurezza dell'esperienza personale della vita è di­ stinta dalla validità universale scientifica : infatti queste generalizza­ zioni non sono composte meto-dicamente e non possono venir racchiuse in formule rigorose.

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Il punto di vista individuale, inerente all'esperienza che la persona ha della vita, si giustifica e si amplia nell'esperienza generale della vita : con questa io intendo i principi che si formano in qualsiasi ambito di persone in rapporto reciproco e che sono a esse comuni. Si tratta di asserzioni sul corso della vita, di giudizi di valore, di regole della condotta della vita, di determinazione ·di scopi e di beni : il loro contrassegno sta nel fatto che esse sono creazioni della vità. collettiva, le quali riguardano tanto la vita · dell'uomo singolo quanto la vita delle comunità. Sotto il primo aspetto, in quanto costume, abitudine e, in riferimento alla persona individuale, opinione pubbli­ ca, esse esercitano, p er il prevalere del numero e della forza perdurante della comunità sulla persona, una pressione su questa e sulla sua esperienza o possibilità di vita, che sovrast.a di solito la volontà del­ l'individuo. La sicurezza di questa esperienza generale della vita di­ nanzi a quella personale è maggiore, in quanto i punti di vista indi., viduali vengono in essa a confronto, e cresce il numero dei casi che stanno a base dell'induzione. D'altra parte in questa esperienza gene­ rale si rivela, in modo' ancor piu forte che in quella individuale, la incontrollabilità dell'origine del suo sapere dalla vita. 3. La distinzione delle forme di atteggiamento nella vita e le classi di asserzioni nell'esperienza della vita Nell'esperienza della vita si presentano diverse classi di asserzioni,. le quali si rifanno alla distinzione di atteggiamento nella vita. Infatti la vita non è solo la fonte del sapere, considerata nel suo conte­ nuto d'esperienza ; le tipiche forme di atteggiamento dell'uomo cOit­ dizionano pure le ·diverse classi di asserzioni. Qui si deve soltanto constatare per adesso il fatto di que.sta relazione tra le diversità di atteggiamento della vita e le asserzioni dell'esperienza della vita. Nei rapporti di fatto particolari della vita, che si presentano tra l'io da un lato e le cose e gli uomini dall'altro, sorgono gli stati propri della vita : situazioni differenziate dell'io, sentiinenti di pressione o di accrescimento dell'esistenza, ·desiderio di un oggetto, timore o speranza. E in quanto cose o uomini esercitanti una pretesa sull'io assumono uno spazio nella sua esistenza, recano con sé vantaggi, o impedi­ menti, e sono oggetti di desiderio, di scopo, di applicazione, d'altra parte da questi rapporti vitali derivano le determinazioni a essi rela­ tive, che si aggiungono alla conoscenza di uomini e di cose. Tutte queste determinazioni dell'io e degli oggetti o delle persone, quali sca­ turiscono dai rapporti ·della vita, vengono tratte a riflessione ed espres­ se nel linguaggio : cosi nascono distinzioni come quelle tra asserzioni di realtà, desiderio, esclamazione, imperativo. Se si prendono ora in

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esame le espressioni che si riferiscono alle forme di atteggiamento, cioè alle varie prese di posizione dell'io di fronte agli uomini e alle cose, risulta che esse rientrano in certe classi supreme. Esse consta­ tano una realtà, valutano, designano una posizione di scopo, formulano una regola, esprimono il significato di un fatto in base alla grande con­ nessione in cui esso è inserito. Inoltre appaiono le relazioni tra queste forme di asserzione contenute nell'esperienza della vita : gli atti di pe­ netrazione ·della realtà formano un grado, sul quale poggiano le valuta­ zioni, e questo grado è a sua volta il suhstrato per le posizioni di scopo. Le forme di atteggiamento contenute nei rapporti vitali e i loro prodotti vengono oggettivati nelle asserzioni, che constatano tali for­ me come elementi di fatto : e vengono pure rese indipendenti le pre­ dicazioni di uomini e di cose, che scaturiscono dai rapporti vitali. Questi elementi di fatto sono nell'esperienza della vita elevati a sapere universale mediante un procedimento equivalente all'induzione : cosi sorgono le molteplici proposizioni, poste in luce nella saggezza gene­ ralizzante ·del popolo e nella letteratura come proverbi, regole di vita, riflessioni sulle passioni, sui caratteri e sui valori della vita. Anche in queste ritornano le differenze che si sono osservate nell'espressione delle nostre prese di posizione o delle nostre forme di atteggiamento. Ancora nuove distinzioni si fanno valere nelle asserzioni dell'espe­ rienza della vita. Già nella vita medesima la conos�enza della realtà, la valutazione, l'elaborazione di regole, la posizione di scopi si svilup­ pano in differenti · gradi, di cui ognuno ha l'altro a suo presupposto. Essi sono stati indicati per l'apprendimento oggettivo ; ma sussistono del pari nelle altre forme di atteggiamento. Cosi la stima dei valori dinamici di cose o di uomini presuppone che siano state constatate le possibilità di recar utile o danno, negli oggetti, ed una decisione diventa possibile mediante la ponderazione del rapporto delle rappre­ sentazioni di fine con la realtà e i mezzi, in essa dati, di realizzare tali rappresentazioni.

4. Le unità ideali come sostegni . della vita e dell'esperienza della vita Un'infinita ricchezza di vita si sviluppa nell'esistenza individuale delle varie persone, attraverso i loro rapporti con l'ambiente, gli altri uomini e le cose. Ma ogni individuo particolare è nel medesimo tempo un punto di incrocio di connessioni che pervadono gli individui e sus­ sistono in essi, ma sovrastano la loro vita e posseggono un'esistenza autonoma e un proprio sviluppo per la forma, il valore, lo 'scopo che vi si realizza. Sono cioè soggetti di tipo ideale ; a essi è intrinseco qualche sapere intorno alla realtà ; in essi si sviluppano punti di vista di valutazione ; in essi si realizzano scopi ; per cui acquistano e

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mantengono un significato nella connessione del mondo spirituale. Ciò avviene già nei vari sistemi di cultura, nei quali non c'è una organizzazione che racchiuda i suoi membri, come a:d esempio nel­ l'arte e nella filosofia. Ma inoltre sorgono unioni organizzate. Cosi la vita economica crea le sue associazioni, e nella scienza nascono centri per la realizzazione dei suoi compiti, e le religioni danno vita alle organizzazioni pio salde tra tutti gli altri sistemi di cultura. Nella famiglia, nelle varie forme intermedie tra questa e lo stato, nello stato medesimo si trova poi la suprema elaborazione di un'unitaria posi­ zione di scopo entro una comunità. Ogni unità organizzata di uno stato sviluppa una conoscenza di se stesso e delle regole, a cui è legata la sua sussistenza e la sua situazione di fronte al tutto. Essa gode dei valori sviluppatisi in questo grembo ; essa attua gli scopi che riposano sul suo essere e che ser­ vono alla conservazione e al vantaggio della sua esistenza. Essa è appun­ to un bene dell'umanità, realizza dei beni, ed acquista il suo significato . specifico entro la connessione dell'umanità. Arriva ora il punto in cui si distinguono dinanzi a noi società e storia. Sarebbe infatti erroneo voler limitare la storia al collaborare degli uomini in vista di scopi comuni. L'uomo singolo, nella sua esi­ stenza individuale riposante su se stessa, è un essere storico : esso è determinato dalla sua posizione nella linea del tempo, dal suo luogo nello spazio, dalla sua situazione nel cooperare ·dei sistemi di cultura e delle comunità. Lo storico deve quindi intendere l'intera vita degli individui, quale si manifesta in un determinato tempo e in un deter­ minato luogo. Questa è l'intera connessione che va dagli individui, in quanto orientati allo sviluppo della propria esistenza, ai sistemi di cultura e alle comunità, all'umanità infine, e che costituisce Ja natura della società e della storia. I soggetti logici, sui quali si compie qualche asserzione nella storia, sono tanto gli individui sin­ goli quanto le comunità e le connessioni. 5. Lo scaturire delle scienze dello spirito dalla vita degli individui e delle comunità La vita, l'esperienza della vita e le scienze dello spirito stanno in una costante connessione interna e in un costante scambio reciproco. Non un procedimento concettuale costituisce il fondamento delle scienze dello spirito, ma il divenire interiore di uno stato psichico nella sua totalità e la sua riscoperta nel rivivere. La vita afferra qui la vita, e la forza con cui vengono compiute le due operazioni elemen­ tari delle scienze ·dello spirito, è la condizione preliminare della loro compiutezza in ogni parte.

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Cosi anche a questo punto si nota una notevole differenza tra le scienze della natura e le scienze dello spirito. In quelle la distin­ zione del nostro moto dal mondo esterno avviene sulla base del pen­ siero naturalistico, le cui operazioni produttive hanno un riferimento esterno, mentre in queste sorge una connessione tra vita e scienza, per cui .il lavoro della vita nell'elaborazione del pensiero costituisce la base per la creazione scientifica. L'approfondimento in se stesso perviene nella vit�, sotto certe circostanze, ad una perfezione a cui neppure Carlyle è pervenuto, e la comprensione degli altri invece condotta ad una virtuosità che neppure Ranke ha raggiunto. Da una parte le grandi nature religiose, come Agostino e Pascal, sono gli eterni mo-delli per l'esperienza che tende a esaurire il proprio Erlebnis, e dall'altra, nella comprensione delle altre persone, la corte e la poli­ tica educano a un'arte che guarda al di là di ogni apparenza ; un uomo di azione come Bismarck, al quale sono sempre presenti per natura i suoi fini in ogni lettera che scrive e in ogni discorso che pro­ nuncia, non può venir raggiunto da nessun interprete di atti politici e da nessun critico di narrazioni storiche, per ciò che riguarda l'arte di leggere le intenzioni che stanno al di là dell'espressione. Tra la penetrazione di un dramma -da parte di un ascoltatore di forte sen­ sibilità poetica e la piu eccellente analisi di storia letteraria non c'è, in parecchi casi, alcuna distanza. E anche l'elaborazione concettuale è continuamente determinata nelle scienze storico-sociali dalla vita me­ desima : tale considero la connessione che conduce dalla vita, dalla elaborazione concettuale intorno al destino, ai caratteri, alle passioni, ai valori e agli scopi dell'esistenza, fino alla storia come disciplina scientifica. Nell'epoca in cui, in Francia, l'azione politica era fondata piu sulla conoscenza degli uomini e delle personalità eminenti che su uno studio scientifico ·del diritto, dell'economia e dello stato, e la posizione nella vita di corte riposava su tale arte, anche la forma letteraria delle memorie e degli scritti sui caratteri e sulle passioni è pervenuta a un'altezza non piu raggiunta in seguito, ed è stata coltivata da persone poco influenzate dallo studio scientifico della psi­ cologia e della storia. Una connessione interna unisce qui l'osserva­ zione della società illustre, i letterati e i poeti che ne derivano, i filo­ sofi sistematici o gli storici scientifici che si formano nella poesia e nella letteratura. Si è visto, agH. inizi della scienza politica in Grecia, che lo sviluppo dei concetti relativi alle costituzioni e alle funzioni politiche è partito dallo stesso sviluppo della vita statale, e che nuove creazioni in questa hanno poi condotto a nuove teorie. Questo rapporto risulta quanto . mai evidente negli antichi sta·di della scienza giuridica tanto romana quanto germanica.

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La connessione delle scienze dello spirito con la vita e il loro com­ pito di validità universale

6.

Cosi il sorgere dalla vita e la perdurante connessione con essa costituisce il primo tratto fondametale nella struttura delle scienze dello spirito ; esse poggiano quindi sull' Erleben, sull'intendere e sulla esperienza ·della vita. Questo rapporto immediato, in cui stanno tra loro la vita e le scienze dello spirito, conduce in tali discipline a un'antitesi tra le tendenze della vita e il loro fine scientifico. Dal momento che gli storici, gli economisti, i teorici dello stato, gli indagatori della vita religiosa stanno entro la vita, vogliono anche influire su di essa. Essi sottopongono al loro giudizio persone storiche, movimenti di massa, tendenze, ma tale giudizio è condizionato dalla loro individualità, dalla nazione a cui appartengono, dal tempo in cui vivono. Proprio quando credono di procedere senza presupposti essi sono ·determinati da questo loro ambito visuale ; ogni analisi intrapresa su concetti di una generazione passata, mostra che in questi sono contenuti elementi, i quali derivano dai presupposti dell'epoca. Però nel medesimo tempò in ogni scienza come tale è contenuta la esigenza della validità universale. Se debbono esserci scienze dello spi­ rito nel significato ristretto del termine, esse debbono porsi questo fine in maniera sempre piu costante e piu critica. Sull'antitesi di queste due tendenze riposa gran parte dei con­ trasti scientifici che si sono manifestati, negli ultimi tempi, nella lo­ gica delle scienze dello spirito. Tale antitesi si esprime nella maniera piu forte entro la ricerca storica, che è diventata il punto èentrale in questa ·discussione. La soluzione di questa antitesi si compie dapprima nella costru­ zione delle scienze dello spirito ; e gli ulteriori principi generali sulla connessione delle scienze dello spirito già contengono il principio di tale soluzione. Il risultato finora da noi conseguito permane. La vita e l'intendimento della vita sono le fonti sempre nuove della com­ prensione del mondo storico-sociale ; la comprensione penetra nella vita a una sempre maggior profondità ; e soltanto nella reazione sulla vita e sulla società le scienze dello spirito pervengono al loro piu alto signi­ ficato, che è in continuo accrescimento. Ma la strada verso questa azio­ ne deve passare attraverso l'oggettività della conoscenza scientifica : e la coscienza di ciò è operante nelle grandi epoche creatrici delle scienze dello spirito. In seguito ai vari disturbi che ha dovuto subire il moto del nostro sviluppo nazionale, e anche l'applicazione di un pre­ ciso ideale culturale dopo Burckhardt, noi cerchiamo ora di elaborare questa oggettività delle scienze dello spirito in una maniera sempre piu priva di presupposti, pio critica, piu rigorosa. lo trovo il prin-

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c1p10 per la soluzione ·dell'antitesi che ha luogo in tali scienze nella comprensione del mondo storico come una connessione dinamica, la quale è centrata in se stessa, in quanto ogni connessione dinamica particolare in essa contenuta ha in sé, per la posizione e la realizza­ zione di valori, il punto centrale, ma tutte sono però strutturalmente unite in una totalità nella quale il senso della connessione del mondo storico-sociale deriva dalla significatività delle sue varie parti : cosic­ ché esclusivamente in questa connessione strutturale deve esser fon­ dato ogni giudizio e ogni posizione di scopi che si dirige verso il futuro. A questo principio ideale ci avviciniamo ora nei seguenti prin­ cipi generali sulla connessione delle scienze ·dello spirito. (La costruzione del mondo. storico, trad. cit., pp. 213-224).

IV. LA

«

COMPRENSIONE STORICA »

l. Il sapere storico La conoscenza spirituale si compie, come si è visto, attraverso la reciproca dipendenza della storia e delle discipline sistematiche ; e poi­ ché l'intenzione dell'intendere precede in ogni caso l'elaborazione con­ cettuale, noi cominciamo con le proprietà generali del sapere storico. L'apprendimento della connessione dinamica, costituita dalla sto­ ria, sorge anzitutto in base a punti particolari, in cui i resti del pas­ sato vengono tra loro collegati nell'intendere mediante la relazione con l'esperienza della vita ; ciò chè ci circonda da vicino, diventa mezzo per comprendere ciò che sta lontano nel passato. La condizione di questa interpretazione dei resti storici sta nel carattere di persistenza nel tempo e di universale validità umana di ciò che noi vi rechiamo dentro. Cosi noi vi trasponiamo la nostra conoscenza dei costumi, delle abitudini, delle connessioni politiche, dei processi religiosi, e il presupposto ultimo di questa trasposizione è costituito sempre dalle connessioni che lo storico ha immediatamente vissuto in sé. La cel­ lula originaria -del mondo storico è l' Erlebnis, nella quale il soggettÒ si trova di fronte al suo ambiente nella connessione dinamica della vita. Questo ambiente opera sul soggetto e ne subisce l'influenza : esso è composto dalle condizioni sia fisiche che spirituali. In ogni parte del mondo storico vi è quindi il medesimo rapporto del divenire psi­ chico con un ambiente entro la connessione dinamica. Qui sorge il problema di valutare le influenze naturali sull'uomo e di constatare pure l'azione che su di lui esercita l'ambiente spirituale. Come la materia prima viene nell'industria sottoposta a diversi modi ·di lavorazione, cosi anche i resti del passato vèngono elevati

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a piena comprensione storica mediante diverse procedure, attraverso l'incontro tra la critica, l'interpretazione e il procedimento che reca unità nella comprensione di un processo storico. L'aspetto caratteri­ stico sta però anche qui nel fatto che non ha luogo una semplice fondazione di un'operazione nell'altra ; ma la soluzione di ogni com­ pito richiede continuamente punti di vista ottenuti per altre vie. Proprio questo rapporto ha però per conseguenza che la fonda­ zione della connessione storica è sempre dimostrata in base a un in­ treccio di operazioni che non può venir illustrato logicamente in modo completo, e che mai può giustificarsi di fronte allo scetticismo storico mediante prove incontestahili. Si pensi alle .grandi scoperte di Niehuhr sull'antica storia romana. La sua critica è in ogni punto inseparabile dalla sua ricostruzione del corso effettivo. Egli ha dovuto constatare come sia sorta la preceden�e tradizione dell'antica storia romana e quali conclusioni si possano trarre sul suo valore storico da tale origine. Egli ha dovuto nel medesimo tempo cercar di trarre da un'argomentazione di fatto i lineamenti fondamentali della sto­ ria reale. Senza duhhio questo procedimento metodico si muove in un circolo, se si ha-da alle regole di una dimostrazione rigorosa. E quando Niehuhr si è pure servito della conclusione analogica da sviluppi af­ fini, la conoscenza di tali sviluppi presuppone lo stesso circolo, e la conclusione analogica qui impiegata non r�ca ad alcuna certezza rigo­ rosa. Anche le narrazioni contemporanee debbono venir saggiate in rap­ porto alla concezione dell'autore, alla sua attendibilità e al suo rap­ porto con il processo in questione. E quanto pio le narrazioni ven­ gono a distare temporalmente dall'avvenimento, tanto piu diminuisce la loro credibilità, se il loro valore non può venir constatato mediante una riduzione ad altre piu antiche e contemporanee all'avvenimento stesso. La storia politica del mondo antico ha una base piu sicura dove esistono dei ·documenti, e cosi pure la storia politica del . mondo mo­ derno dove sono conservati gli atti che fanno parte del corso di un avvenimento storico. Con le raccolte critico-metodiche dei documenti e il libero accesso degli storici agli archivi è cominciata per la prima volta una conoscenza sicura della storia politica. Questo può arre­ stare completamente lo scetticismo storico di fronte ai fatti, di modo che su tali fondamenti viene a costruirsi, con l'aiuto dell'analisi delle narrazioni in rapporto alle loro fonti, e dell'esame dei punti ·di vista dei narratori, una ricostruzione che possiede probabilità storica e la cui utilità può venir negata soltanto da menti spiritose ma non scien­ tifiche. Questa ricostruzione non perviene certo a un sapere sicuro intorno ai motivi delle persone che agiscono, ma vi perviene intorno alle azioni e agli avvenimenti, e gli errori a cui sempre rimaniamo ·

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esposti per i fatti particolari non revocano in dubbio la sua totalità. In posizione assai piu favorevole che nella comprensione del corso politico, la storiografia si trova di fronte ai fenomeni di massa, ma soprattutto quando dinanzi all'analisi stanno opere artistiche o scien· tifiche.

2. I gradi della comprensione storica Il graduale assoggettamento del materiale storico si compie in di­ versi gradi, che sono sempre piu imniersi nelle profondità della storia. Molteplici interessi spingono anzitutto alla narrazione di ciò che è accaduto. Qui viene in primo luogo soddisfatto il bisogno originario di curiosità per le cose umane, in particolare per quelle della propria patria : e si fa pure valere il sentimento che la nazione e lo stato hanno di sé. In tal modo sorge l'arte narrativa, il cui modello in ogni tempo resta Erodoto. Ma si presenta poi la tendenza alla spie­ gazione in base allo sviluppo anteriore. La cultura ateniese nell'età di Tucidide ha per la prima volta offerto le condizioni indispensabili a tale spiegazione. Le azioni sono ·State derivate, mediante un'acuta osservazione, da motivi psicologici ; le lotte tra gli stati, il loro corso e il loro scaturire sono stati spiegati in base alle forze militari e poli­ tiche, e cosi pure gli effetti delle costituzioni statali. E quando un grande pensatore politiço come Tucidide spiega il passato mediante lo studio della connessione dinamica che in esso ha luogo, ne deriva che la storia ammaestra anche intorno al futuro. Per conclusione ana· logica, quando si è riconosciuto un corso dinamico antecedente e si è mostrata l'affinità con esso dei primi stadi di un processo, si può prevedere il ripresentarsi di un simile corso in seguito. Questa conclu­ sione, sulla quale Tucidide ha fondato la capacità della storia di am· maestrare sul futuro; è infatti di decisiva importanza per il pensiero politico. Come nelle scienze naturali, cosi anche nella storia una rego· larità entro la connessione dinamica rende possibile effettuare asser· zioni e svolgere un'azione fondata sul sapere. Se già i contemporanei dei' Sofisti avevano studiato le costituzioni come forze politiche, in Polihio ci si presenta una storiografia nella quale l'impiego meto· dico delle scienze sistematiche dello spirito per la spiegazione della con­ nessione dinamica rende possibile far posto nel procedimento espli­ cativo all'opera di forze permanenti, come la costituzione o l'or­ ganizzazione militare o le finanze. L'oggetto di Polihio è stata l'azione reciproca degli stati che, dall'inizio della lotta tra Roma e Cartagine fino alla distruzione di Cartagine e di Corinto, costituiscono il mondo storico per lo spirito europeo, cosicché egli ha cercato di derivare dallo studio delle forze permanenti in essi operanti i processi politici

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particolari. Il suo punto di vista era quello storico-universale, dal momento che egli riuniva in sé la cultura teoretica greca; lo studio della raffinata politica e della condotta militare della sua patria a una conoscenza di Roma che era possibile ottenere soltanto dal con­ tatto con i maggiori uomini di stato della nuova potenza mondiale. E numerose forze spirituali operano nel tempo da Polibio fino a Machiavelli e a Guicciardini, in primo luogo l'approfondirsi senza fine del soggetto in se medesimo e nello stesso tempo l'estensione del� l'orizzonte storico ; ma i due grandi storici, italiani restano affini a Polibio nel loro procedimento. Un nuovo livello è stato raggiunto ·dalla storiografia nel secolo XVIII. Allora sono stati introdotti due grandi principi, in quanto la connessione dinamica concreta, posta in luce come oggetto storico nel grandioso fluire della storia, è stata analizzata in connessioni par­ ticolari, come quelle del diritto, della religione; della poesia, comprese nell'unità di un'epoca. Ciò presuppone che lo sguardo dello storico mirasse, sopra la storia politica, alla storia della civiltà, che per ogni suo campo fosse già conosciuta, mediante le scienze sistematiche dello spirito, la funzione che esso esercita, e · che fosse stata elaborata una maniera di comprensione per il cooperare ·di tali sistemi di cultura. La storiografia moderna ha avuto inizio nell'età di Voltaire. E in seguito è stato introdotto un nuovo principio, quello dello sviluppo, a opera di Winkelmann, di Justus Moser e di- Herder : esso afferma che in una connessione dinamica è racchiusa una nuova qualità fon� damentale, per cui dalla sua essenza deriva internamente una serie di mutamenti che sono possibili soltanto ognuno sulla base di quelli precedenti. Questi diversi gradi designano momenti che, una volta conqui­ stati, sono rimasti vitali nella storiografia. L'arte narrativa piace· vole, la spiegazione acuta, l'applicazione a essa del sapere sistematico, l'analisi in connessioni dinamiche particolari e il principio dello svi­ luppo, questi momenti sono venuti a sommarsi e a rafforzarsi reci­ procamente. ·

3. L'analisi di una connessione dinamica dal punto di vista dell' og­ getto storico Sempre piu chiaro ci appare il significato dell'analisi della con­ creta connessione dinamica e della sintesi scientifica delle connessioni particolari in essa contenute; Lo storico non procede senza fine da un punto tratto fuori dal nesso ·degli avvenimenti verso tutti i lati ; piuttosto nell'unità del­ l'oggetto, che costituisce il suo tema, risiede un principio di scelta

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che è dato proprio insieme al compito della penetrazione di tale og­ getto. Infatti la trattazione dell'oggetto storico non richiede soltanto la sua analisi entro l'ambito della concreta dinamica, bensi l'oggetto contiene al tempo stesso un principio di scelta. La caduta di Roma, la liberazione dell' Olanda, la rivoluzione francese richiedono la scelta di processi e di connessioni che racchiudano le cause tanto particolari quanto . generali, cioè le forze operanti in tutte le loro trasforma­ zioni, per la rovina dell'impero romano o per ]a liberazione ·dell' O­ landa o per il compiersi della rivoluzione. Lo storico che lavora con connessioni dinamiche deve distinguerle e collegarle in maniera che nessun dettaglio vada smarrito, di modo che ogni particolare venga rappresentato nei forti tratti della connessione dinamica complessiva. In ciò non consiste soltanto la sua capacità rappresentativa, ma que­ sta è piuttosto il risultato di un determinato modo di vedere. Quando si indagano queste salde ed estese connessioni, risulta anche qui che il loro esame sorge dal nesso tra il progredire della comprensione sto­ rica delle fonti con una sempre piu profonda penetrazione ·delle con­ nessioni presenti nella vita psichica. Se ci si avvicina poi alla specie di connessione dinamica che ha luogo nei grandi avvenimenti storici, le origini del cristianesimo o la Riforma o la rivoluzione francese o le guerre di liberazione nazionale, si può concepirli come opera di una forza totale che rigetta nella sua tendenza unitaria tutti gli osta­ coli. E si troverà sempre che in essa operano due forme di forze. L'una è data da tensioni che consistono nel sentimento di bisogni oppressivi e non soddisfatti dalla situazione presente, e nel desiderio di difendere ciò che c'è nell'accrescersi degli attriti e delle lotte, e anche nella coscienza di un'insufficienza delle forze. L'altra è costituita dalle energie che spingono in avanti, da un volere e un potere e un credere di carattere positivo. Esse riposano sugli istinti vigorosi di molti, ma sono esplicati e rafforzati da Erlebnisse di natura piu elevata. E in quanto tali tendenze positive derivano dal passato per dirigersi verso il futuro, esse sono creatrici : racchiudono in sé degli ideali, la loro forma è l'entusiasmo, e in esse è insita una forma peculiare di par­ teciparsi e di estendersi. Da ciò deriviamo il principio generale che nella connessione dina­ mica di grandi avvenimenti storici i rapporti tra pressione, tensione, sentimento di insufficienza per lo stato di fatto - e pure sentimenti con previsioni negative e con deviazioni - costituiscono il fondamento per l'azione, sorretta da sentimenti positivi di valore, verso fini da raggiungere e verso determinazioni di scopo. Quando entrambi gli elementi cooperano, hanno luogo i grandi mutamenti del mondo. Nella connessione dinamica l'agente peculiare è perciò costituito dagli stati psichici che si esprimono nel valore, nel bene e nello scopo, e tra i

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quali non si debbono considerare come forze operanti soltanto le ten­ denze verso i beni di cultura, ma anche la volontà di potenza, anche l'inclinazione a opprimere gli altri.

4. l sistemi di cultura Da ciò risulta che già la determinazione dell'oggetto di un'opera storica implica una scelta degli avvenimenti e delle connessioni. Ma la storia racchiude un sistema coerente per cui la sua concreta con­ nessione dinamica riposa su campi particolari isolabili, in cui sono compiute operazioni separate, di modo che i processi svolgentisi negli individui in rapporto a una funzione comune, costituiscono una connessione dinamica unitaria e omogenea. Tale relazione è già stata illustrata da me in precedenza : su essa poggia l'elaborazione concettuale mediante cui diventano conoscibili, nell'indagine storica, connessioni di carattere generale. L'analisi e l'isolamento con cui ven­ gono distinte tali connessioni dinamiche, è quindi il procedimento decisivo che lo studio logico delle scienze dello spirito deve prendere in esame. L'affinità di tale analisi con quella in cui viene scoperta la connessione strutturale ·della vita psichica, appare subito evidente. Le pio semplici ed omogenee connessioni dinamiche, che compiono una funzione nell'ambito culturale, sono l'educazione, la vita econo­ mica, il diritto, le funzioni politiche, le religioni, la socialità, l'arte, la filosofia, la scienza. lo prendo ora in esame le qualità di un si­ stema siffatto. In esso viene compiuta una funzione. Cosi il diritto realizza le condizioni coercitive per l_a perfezione dei rapporti della vita. La poesia ha la sua essenza nell'espressione di ciò che è immediatamente vissuto e nella rappresentazione dell'oggettivazione della vita, in ma­ niera tale che l'avvenimento isolato dal poeta si manifesta, per il suo significato, operante sulla t�talità della vita. In questa funzione gli individui sono tra loro uniti. Processi particolari che in essi hanno luogo, si riferiscono alla connessione ·dinamica costituita da tale fun­ zione e le appartengono : cosi essi sono membri di una connessione che realizza la funzione. Le regole giuridiche del testo legislativo, il processo in cui le parti avvers� discutono, dinanzi a un tribunale, intorno a un'eredità, secon­ do le regole del testo legislativo, la decisione del tribunale e la sua esecuzione, costituiscono una lunga serie di processi psichici particola­ ri, che si distribuiscono e si intrecciano in diverse persone, per risol­ vere infine il compito insito nel diritto relativamente a un determi­ nato rapporto della vita che viene a presentarsi. II compim.ento della funzione poetica è, in grado assai maggiore,

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legato al processo unitario che avviene nell'animo d.el poeta ; ma nes­ sun poeta è il creatore esclusivo della sua opera, in quanto egli trae un avvenimento dalla saga, si trova davanti la forma epica in cui lo eleva a poesia, studia l'efficacia di scene particolari nei suoi predeces­ sori, impiega una misura metrica, deriva la sua concezione del signi­ ficato della vita dalla coscienza popolare o da individui eminenti, ha bisogno di ascoltatori che godano nell'accogliere in sé l'impressiÒne d.ei suoi versi e nell'attuare cosi il suo sogno di azione. Cosi la fun­ zione del ·diritto, della poesia o di un altro sistema finale della cul­ tura si realizza in una connessione dinamica che riposa su deter­ minati processi, legati da tale operazione, i quali hanno luogo in certi individui. Nella connessione dinamica di un sistema di cultura si fa valere anche una seconda qualità. Il giurista, oltre a esplicare la sua fun­ zione nell'ordine giuridico, sta anche in varie altre connessioni dina­ miche ; agisce nell'interesse della sua famiglia, ha da operare econo­ micamente, esercita la sua funzione politica, e talvolta fa pure dei versi. Perciò gli individui non sono legati nella loro totalità a tale connessione ·dinamica; ma in mezzo alla molteplicità dei rapporti dina· miei · sono uniti tra loro soltanto quei processi che appartengono a un determinato sistema, e l'individuo è intrecciato in diverse connes­ sioni dinamiche. La connessione dinamica di un sistema di cultura si realizza me­ diante una posizione differenziata dei suoi membri. La salda arma­ tura di ognuno di . essi è costituita da persone in cui i processi, che riguardano tale funzione, costituiscono l'occupazione principale della loro vita, sia per inclinazione sia per motivo professionale. Tra di esse si presentano poi le persone che incorporano in sé, per cosi dire� l'intenzione verso tale funzione, e che per la loro unione di talento o di professione sono i rappresentanti di questo sistema di cultura. E infine i sostegni veri e propri della cr�azione, che ha luogo in uno di tali campi; sono le nature produttive - i fondatori delle religioni, gli scopritori di un'intuizione :filosofica del mondo, gli scopritori scien­ tifici. Cosi in una connessione dinamica siffatta ha luogo un intreccio : le tensioni, accumulandosi, spingono in un vasto ambito alla soddi­ sfa.zione del bisogno, l'energia produttiva trova la strada per la quale si compie tale soddisfazione e dà luogo all'idea creatrice che spinge in avanti la società, e infine sorgono i collaboratori e poi i molti che l'accolgono. Procedendo nell'analisi, ognuno di tali sistemi di cultura, che rea­ lizza una funzione, attua un valore comune a tutti coloro che sono a essa indirizzati. Ciò di cui l'individuo ha bisogno e che non può ·

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realizzare, lo sarà - in parte nella funzione della totalità : un valore creato in comune, a cui egli può partecipare. L'individuo ha bisogno della sicurezza per la sua vita, per la sua proprietà, per l'insieme della sua famiglia ; ma soltanto una forza indipendente della comunità soddisfa il suo bisogno mediante il mantenimento di regole costrit­ tive della vita comune, che rendono possibile la difesa di questi beni. L'individuo soffre, nei tempi primitivi, sotto la pressione che forze non regolabili esercitano su di lui, di forze cioè che stanno al di là dell'ambito ristretto di attività della sua stirpe o del suo popolo ; ma una dimimizione ·di tale pressione è ottenuta solo mediante la crea­ zione della fede da parte dello spirito collettivo. In ognuno di tali sistemi di cultura, dalla specifica funzione a cui mira la connes­ sione dinamica deriva un ordine dei valori, i quali sono creati nel lavoro comune compiuto in vista di essa ; sorgono oggettivazioni della vita in cui il lavoro si è condensato ; e sorgono pure organizzazioni che servono alla realizzazione delle varie funzioni nei sistemi di cul­ tura "-. libri giuridici, opere filosofiche, poesie. Il bene, che la fun­ zione ·doveva realizzare, trova e troverà sempre piu la sua perfe­ zione. Le parti di tale connessione dinamica acquistano una significati­ vità nel loro rapporto con la totalità quale sostegno di valori e di scopi. Anzitutto le parti del corso della vita hanno un significato secondo il loro rapporto con la vita, con i suoi valori e con i suoi scopi, con lo spazio che qualcosa assume in essa. E quindi gli avve­ nimenti storici diventano significativi in quanto sono membri di una connessione dinamica, e cooperano alla realizzazione di valori e di scopi dèlla totalità insieme ad altre parti. Mentre noi ci troviamo perplessi di fronte alla complessa con­ nessione del divenire storico, senza trovare in esso né una struttura né delle regolarità né uno sviluppo, ogni connessione dinamica, che realizza una funzione culturale, ha una propria struttura. Se conce­ piamo la filosofia come una molteplicità di funzioni : elevazione delle intuizioni del mondo a validità universale, riflessione del sapere su se stesso, relazione della nostra attività finale e del sapere pratico con la connessione della conoscenza, spirito critico sempre presente nell'intera cultura, opera di collegamento e di fondazione. Anche la indagine storica mostra che noi abbiamo qui da fare ovunque con specifiche funzioni che si presentano sotto certe condizioni storiche, ma che sono alla fine fondate su una funzione unitaria propria della filosofia. Essa è riflessione universale che procede cosi alle piu alte generalizzazioni e alle ultime fondazioni. La struttura della filosofia sta quindi nel rapporto · di questo suo carattere fondamentale con le funzioni particolari, secondo il modo in cui incidono le condizioni

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temporali. Cosi la metafisica si sviluppa sempre nell'interna con· nessione della vita, dell'esperienza della vita e dell'intuizione del mon­ do. In quanto la tendenza a un saldo fondamento, che in noi lotta continuamente contro la casualità della nostra esistenza, non trova alcuna soddisfazione duratura nelle forme religiose e poetiche di intui­ zione del mondo, sorge allora il tentativo di elevare l'intuizione del mondo a sapere universalmente valido. Inoltre nella connessione di­ namica di un sistema di cultura si può ogni volta rintracciare una articolazione in � forme particolari. Ogni sistema di cultura ha uno sviluppo che si compie sulla base della sua funzione, della sua struttura, delle sue regolarità. Mentre nel concreto corso del divenire non si può trovare alcuna legge dello sviluppo, la sua analisi in connessioni dinamiche particolari e omo­ genee rivela la successione ·di momenti determinati dall'interno, che si presuppongono l'uno con l'altro in maniera che dallo strato sottostante se ne eleva sempre uno pio alto, e questo procede a una crescente differenziazione e a un crescente collegamento. ·

(La costruzione def mondo storico, trad. cit., pp. 253-264).

II.

GEORG SIMMEL

I. LA NATURA DELLA FILOSOFIA La richiesta di un'introduzione al complesso di pensieri che si rac­ colgono sotto il concetto della filosofia e di una determinazione di questo concetto da una posizione del mondo spirituale che non appartenga già al dominio filosofico, è un'esigenza che non può essere appagata nella caratteristica struttura del nostro conoscere. Ciò che sia la filosofia, infatti, si può ricavare solo dal suo interno stesso, solo per i suoi concetti o per i suoi mezzi : essa stessa è, per cosi dire, il primo dei suoi problemi. Forse nessun'altra scienza rivolge in tal modo alla sua stessa natura il proprio esame. L'oggetto della fisica, invero, non è la scienza fisica, ma i fenomeni, ottici od elettrici per esempio ; la filologia discute sui codici plautini o sull'evoluzione dei . casi nell'anglosassone, non discute sulla filologia. La filosofia, e forse essa sola, si muove in questo tipico cerchio : di dover determinare, all'interno dei propri modi di pensiero, delle proprie vedute, i presup­ posti di tali modi di pensiero, di tali vedute. Non v'è ·dall'esterno alcun passaggio al suo concetto, poiché solo la filosofia stessa può decidere ciò che sia la filosofia, anzi assolutamente se essa sia o se col suo nome si copra solo un irreale fantasma. Questo modo di procedere particolare alla filosofia è il risultato o forse solo l'espressione della sua tendenza fondamentale a pensare senza presupposti. Come all'uomo in generale non è dato di comin­ ciare nulla interamente dal principio, giacché egli trova sempre in sé e fuori di sé una realtà o un passato che dà al suo procedere una mà­ teria, un punto di partenza, o almeno un principio di opposizione e di distinzione, cosi il nostro conoscere è condizionato sempre da qual­ che dato, da realtà o da leggi interiori. Da queste, . che il processo .del pensiero non può creare da sé -. siano anche solo le regole della logica o del metodo o il fatto dell'esistenza di un mondo - ma che anzi limitano in modo assai complesso la sua sovranità, dipendono il contenuto e la direzione del pensiero. Ma quando questo tende a libe­ rarsi d'ogni presupposto, comincia a filosofare. Certamente tale ten­ tativo viene raramente anche ·solo intrapreso nel suo senso assolu-

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tamente radicale. Per lo piu si mira ad una conoscenza che sia indi­ pendente da alcuni particolari presupposti : dall'impressione immedia­ ta del mondo sensibile o dalle valutazioni etiche tradizionali, o dalla evidente validità dell'esperienza o dall'altrettanto evidente realtà delle potenze divine. Ma anche con tale limitazione, nella filosofia l'assenza di presupposti si differenzia da quella che possa trovarsi in altri campi, per una caratteristica universalmente ·diffusa : che cioè questo interiore appartenersi del pensiero, questo essere conseguente a se stesso, senza vincolo a nulla di esterno, riguarda, oltre la momen­ tanea forma singolare, la totalità del conoscere, anzi, della vita. Certo la completa assenza di presupposti è irraggiungibile. In qualunque punto a cui si rivolga il conoscere v'è senipre qualcosa di già pre­ supposto che ci tormenta come un 'invincibile oscurità o ci consente invece un punto d'appoggio nella relatività della conoscenza, nel suo fluire, nel suo aver solo a fondamento se stessa. Perciò l'assoluta as­ senza di presupposti è un fine direttivo, anche se irraggiungibile,. del pensiero filosofico, mentre negli altri campi del sapere essa - a priori - è tale solo in misura relativa. Lo svolgersi della filosofia in teoria della conoscenza ha questo profondo significato : che essa con ciò ricerca e scopre i presupposti del conoscere, anche ·del conoscere­ filosofico, o, in altre parole, che questo trasporta perciò le sue forme conoscitive dalla sfera della situazione di fatto . a quella della loro validità di diritto. Tale assenza di presupposti che è intrinseca al concetto della filo- . sofia, tale autonomia interiore che · caratterizza in lei il processo dèl pensiero conduce evidentemente al risultato che la filosofia determi­ na, con i suoi propri mezzi i suoi stessi problemi, cosi che la ricerca del suo oggetto, dei suoi fini e delle sue vie può compiersi solo nel suo interno stesso. Ma questo risultato ha, a sua volta, un'ancor piu imporiante conseguenza. Il diritto e il ·dovere della filosofia di fissare i propri oggetti con maggiore indipendenza dal · dato di quanto avven-· ga nelle altre regioni del conoscere, hanno per conseguenza che le differenti dottrine filosofiche sorgono anche da posizioni di problemi fondamentalmente differenti. In ogni altra scienza è universalmente riconosciuto un fine generale, che, per cosi dire, già in una sfera superiore, si distingue nella molteplicità dei compiti particolari. Solo nella filosofia ciascun pensatore originale determina non pur ciò che egli vuoi rispondere, ma anche ciò ch'egli vuoi ·domandare, e non solo ciò ch'egli vuoi domandare riguardo ai problemi particolari, ma ciò ch'egli in generale deve domandare per conformarsi al concetto· della filosofia. Cosi Epicuro determina tale concetto come lo studio di riuscire a una vita felice per mezzo della riflessione e della medi­ tazione, Schopenhauer come la tendenza a raggiungere, attraverso le ·

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rappresentazioni, ciò che non è rappresentazione, cioè al di là del fenomeno empirico di cui si occupano le altre scienze : per il Medio Evo la filosofia è l'an"cella della teologia, il fondamento delle verità religiose, per il kantismo è invece la riflessione critica della ragione su se stessa ; e mentre essa, da un lato, è determinata dal punto di vista etico, come la ricerca dei valori ideali pratici della vita umana, appare dall'altro come una rielaborazione logica dell'immagine del mondo, al fine di superare le contrad·dizioni che vi furono origina­ riamente avvertite. Dall'inesauribile molteplicità dei fini proposti alla filosofia, risulta evidente che, a priori, il singolo filosofo pone il problema, che pur sembra essere affatto generale e non pregiudicare alcuna soluzione, sotto forma tale ch'esso corrisponda a quella solu­ zione ch'egli vuoi dare. Tale carattere personale del pensiero filoso­ fico impedisce che gli sia fissato un fine conoscitivo universale, oltre l'interiore accentrarsi in se stesso del pensiero. Si potrebbe quasi dire che la produttività filosofica del pensiero originale sia qualcosa di cosi uno in se . stesso, l'espressione intellettuale di un essere cosi raccolto in sé, che domanda e risposta significhino solo un'ulteriore differen­ ziazione del pensiero. In grado qui assai minore che in altri campi, si ha generale il problema e particolare la soluzione ; anzi se que­ sta deve essere quella tale determinata, il. problema può, à priori, esser solo formulato .sulla forma particolare ed essa corrispondente. Ma se ogni definizione vale solamente per la singola filosofia del sin­ golo pensatore, che cosa rimane ancora per giustificare l'estensione .generale del nome a tendenze cosi disparate ? Forse si dovrà qui, per avere una soluzione, mutar direzione al problema. Sino a che il .fine e il contenuto della filosofia determinano la sua definizione, sem­ bra che la sua estensione non possegga alcun ·denominatore comune ; ma questo potrebbe forse risiedere nel modo di procedere del filosofo .stesso, non nei risultati del suo pensiero, ma in una condizione fon­ damentale per la quale solo possono raggiungersi tutti quei risultati, che, nella loro distinzione, non è possibile ricondurre ad unità. Si tratta cioè di un'interna formale attitudine del filosofo, in quanto filosofo, la quale non qeve essere pensata come un « atteggiamento » psicologico, ma come la condizione obiettiva di ogni filosofare in gene­ rale, anche se naturalmente essa abbia solo nell'anima la sua viv�nte :realtà. Si può forse caratterizzare il filosofo come colui che possiede un organo ·di reazione per la totalità dell'essere. L'uomo è, in gene­ rale - e ciò riguarda la prassi della vita - sempre diretto ad al­ cunché di singolare, tanto nelle cose di lieve come in quelle di grave importanza ; sia il guadagno del pane quotidiano o un dogma reli­ gioso, o un'avventura d'amore o la scoperta del sistema periodico .degli elementi chimici, si tratta sempre di particolarità che richiama-

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no l'attenzione, l'interesse, l'azione. Il filosofo, invece, ha, natural­ mente in assai diversa misura, e mai assolutamente perfetto, il senso per l'insieme delle cose e ·della vita, e, in quanto egli è pro­ duttivo, la capacità di tradurre quest'interna intuizione o questo sen­ timento del tutto in concetti e in relazioni di concetti. Non v'è natu­ ralmente bisogno ch'egli parli sempre del tutto, - forse anzi egli non lo può - in senso preciso,, ma qualunque sia il problema par­ ticolare della logica o della morale, dell'estetica o della religione che egli tratti, come filosofo, egli fa ciò solo se in qualche modo viva in quelli la relazione alla totalità dell'essere. Ora questa totalità non è accessibile, in senso proprio, a nessuno, e su nessuno può agire. Essa deve essere ricostruita dai frammenti di realtà che solo son dati, come « idea » o come aspirazione, per richiamare la reazione ·dell'intelletto filosofico. Cosi, certamente; si sconta una cambiale che non potrà mai esser pagata per l'intero suo valore. Pure questa ricostruzione filosofica di un tutto oggettivo dai frammenti dell'oggettività e la sua sistemazione non sono che il pio alto grado di sviluppo di un procedimento generale. Cosi allo storico dai brani della tradizione traluce l'unità totale del carattere che è oggetto della sua esposizione ; anzi la piti completa delle tradizioni non può dare quell'intima intuizione dell'unità interiore, che rimane per tal modo solo l'atto di un'energia, mirabilmente spontanea, an­ che se eccitata e ·diretta da qualcosa di particolare e d'esteriore, ener­ gia che può designarsi in breve come la facoltà di integrazione totale dell'anima. Tale facoltà, elevata ad un certo grado, è il presupposto comune di ogni filosofare, per quanto le forme in cui questo si svi­ luppi siano individuali ed esprimano già nelle definizioni della filo­ sofia la loro individualità. Due sono i tentativi tipici fatti per comprendere la totalità del­ l'essere in modo p iti réale e, per quanto ad essi stessi ne manchi la coscienza e l'intenzione, per rendere comprensibile come il filosofo sia colpito ·da questa totalità e intellettualmente vi risponda. L'una è la via della mistica, l'altra quella di Kant. Non discuto qui se la mistica, di cui scelgo per tipo quella di Meister Eckhart, sia da attribuire senza riserve alla filosofia ; forse essa è una formazione spirituale autonoma al di là tanto della scienza quanto della religione ; ma la speculazione di Eckhart si muove, per cosi dire, in una tanto universale ed estrema umana profondità, che la filosofia può senz'altro tradurne nelle sue forme i motivi: Il principio della serie in cui devono, per il nostro scopo attuale, ordinarsi i suoi pensieri è l'asso­ luta interiorità di tutte le cose a Dio ; in quanto esse sono tutte una natura,- il singolo non è nulla ·di individuale per sé. Solo per l'evento, che Eckhart esprime con s:i.mholi mistici quale generazione in eter-

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no del Figlio di Dio, divengono le cose nella loro molteplicità. Ma esse rimangono per le loro radici, come per la loro sostanza, di na· tura divina. Dio scorre in tutte le creature, e perciò ogni creatura è Dio ; se Dio ne volge lo sguardo esse sono annientate. Questa Divi­ nità è in sé assoluta Unità ; Dio, che è tutto, non è « né questo né quello », ma « uno e semplice se stesso ». In tal modo la totalità del mondo · è assommata in un punto, il che dà pure ad Eckhart la possibilità di trasportarla nell'anima. L'anima infatti ha varie facol­ tà, ma vi è in lei un punto centrale che non è toccato da alcuna molteplicità creata ; Eckhart lo chiama la scintilla, un puro « uno e semplice » , lo spirito stesso dell'anima. In lui Dio parla immediata­ mente, anzi esso non è invero separato da Dio, esso è con lui « uno e n (ln solamente unito » : « qui il principio ·di Dio è il mio princi­ pio e il mio principio il principio di Dio ». In questo punto noi riconosciamo tutte le cose nella loro vera natura, perché noi abbiamo, o meglio siamo la loro unità in Dio. « Il mio occhio e l'occhio di Dio è un sol occhio e una sola vista ». (I problemi fondamentali della filosofia, trad.

A.

Banfi, Milano, lsedi, 1972, pp. 37-42).

Il. LA MONADE E LA VITA Con queste determinazioni è raggiunta un'unità radicale delle esi­ genze etiche, quale esse non avevano potuto raggiungere per nessuna delle sintesi dei loro contenuti anteriormente tentate. Poiché ora la unità sta in ciò che è veramente comune, . in questo cioè, che tutti tali contenuti, per quanto siano vari e divergenti, sono contenuti del­ l'esigenza morale. Il dovere non consiste quindi nel fatto che que­ sta o quella azione sia eticamenta necessaria - giacché chi pense­ rebbe di poterla rendere obbligatoria per sempre e per tutti? - ma nell'agire come in questa situazione, irriproducibile forse, è legge, come è dovere per tutti coloro che si trovassero nelle medesime condizioni. Il volere, cosi determinato indipendentemente da ogni fine concreto, acquista la sua forma morale, forma che, di qualunque azione si tratti, è l'unica cosa richiesta nel nome della moralità, ogni volta che si richiede qualcosa in suo nome. lo non voglio qui discutere se, in tal modo, si sia veramente raggiunto il centro unitario della co­ scienza morale. A noi non interessa qui la critica, ma il fatto posi­ tivo che, in ogni modo, questa nuova posizione del problema si av­ vicina al suo scopo con maggior speranza di riuscita di tutti i tentativi fatti per raccogliere in una · forma teleologica di unità i contenuti dei fini morali. Forse il concetto kantiano del dovere, l'esi·

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genza di poter pensare ogni azione, perché sia morale, come legge uni­ versale, è ancora troppo determinata dal punto -di vista del contenuto ; forse è necessario che il momento universale della moralità sia rico­ nosciuto ancor pio radicalmente, come puramente funzionale, nella forma dell'agire come tale. Kant accenna egli stesso una volta a tale concezione piti grande e piu libera dell'unità di tutto il mondo morale. Non si può pensare nel mondo, egli dice, e neppur fuori del mondo, nulla che possa essere assolutamente buono, fuor della sola volontà buona. La volontà buona appare cosi come una disposi­ zione sintetica, decisiva, assolutamente originale della nostra natura. Come nel riconoscere la grazie d'una persona noi pensiamo alla linea dei suoi movimenti come determinata puramente dal suo interno, al tipo formale delle sue innervazioni, che anima ugualmente i diversi suoi atti, cosi la bontà del volere, cioè la moralità, ci si rivela come una qualità immediata, come una forma in cui vive il processo del volere. Le differenze morali trapa�sano cosi dai contenuti del volere al loro principio dinamico. Certo la sua « bontà » determina la scelta di quei contenuti, ma questi non sono buoni per sé e quindi, come ritiene la comune opinione, causa della bontà del volere ; solo il volere, come soggetto dei contenuti o ·dei fini, come la forza spontanea e formatrice del nostro interno, ha in sé la qualità che noi diciamo buona e che esso partecipa ai suoi contenuti. Considerato nel suo senso stret­ tamente morale, non è una cosa « buona » in se stessa il servire la patria, o amare i nemici, beneficia�e i poveri o mantenere le proprie promette, poiché i fini e la materia del volere, per sé presi, non pos­ sono trarre da sé questa qualità ; tutti questi sono piuttosto tipici contenuti di un volere buono per sé, e perciò solo essi sono buoni. L'esigenza piti profonda, "per cui questa dottrina si differenzia dalla concezione kantiana della moralità, è quindi rivolta all'essere dell'uo­ mo, e non immediatamente alla sua singola azione, il che rivela la verità del principio scolastico : l'agire segue l'essere. Dall'essere, in quanto giunge ad espressione del volere, si esige la qualità ·di « buono », di cui forse non è possibile né una analisi né una definizione, ma che esprime un ritmo del volere che può solo esser sperimentato vivendolo, una forma specifica del suo funzionamento. Si possono certamente descrivere le sue manifestazioni, le circostanze del suo sorgere, le reazioni della vita interna ed esterna ch'essa produce, si possono anche ricondurre a questo momento di bontà tutte le esigenze della prassi, ma tutto ciò che è buono, è buono, moralmente, solo in quanto può valere come il contenuto dì quella volontà buona. In questa sta dun­ que l'unità di ciò che in cosi infinita varietà ·di contenutj vien sen­ tito e richiesto come morale. Gli imperativi etici sarebbero in tal modo solo l'esito, il consolidamento, la sostanzializzazione della volontà

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buona, nello stesso senza in cui la rappresentazione di Dio sarebbe l'espressione sostanzializzata del senso religioso. Si potrebbe cosi com­ prendere, non solo perché ogni tentativo di porre un'esigenza morale assoluta, che includa teleologicamente tutte le altre, debba fallire - giacché i contenuti della volontà buona, considerata come pura funzione, si possono tanto poco predeterminare, quanto quelli del pen­ siero o del sentimento - ma anche perché tutti questi principi filo­ sofici della moralità sembrino essere privi di vitalità interiore. Ciò avviene ovunque i contenuti o i risultati di un processo si sostitui­ scano al processo stesso. Come appaiono infatti angusti e miseri i dogmi, i concetti religiosi, le manifestazioni obbiettivamente fissate della fede, se si paragonano all'ardore e all'intensità della vita reli­ giosa dei loro creatori, quali ci si rivelano da sintomi appena percet­ tibili, o ci è dato intuire per l'analogia della nostra propria vita inte­ riore ! Come magri e s��hematici appaiono, a chi non abbia speri­ mentato in se stesso il processo filosofico dello spirito, i concetti dei sistemi filosofici, in cui quel processo s'è arrestato e fissato ! Esso · si compie certamente in loro, essi sono il suo solo dato affermabile, o anche il risultato che esso, per cosi dire, lascia dietro di sé ; ma la vita che li ha animati, la passione del processo creativo che ha fusi questi rigidi concetti nella continuità di una vita interiore, non può piu immediatamente cogliersi in essi. Essi sono come corpi, un tempo viventi, che la corrente ·dell'interno divenire ha portato, ma che ora essa ha gettato alla riva ; incapaci di vivere fuori del loro elemento originario, essi giacciono - benché l'espressione sia forse esagerata come cadaveri, mentre quella corrente trasporta avanti con sé il se­ greto della loro vita. Non altrimenti avviene anche delle massime e degli imperativi, dalle cui esigenze determinate ci si illude invano di poter distillare e fissare l'essenza morale della vita etica. La moralità non risiede in questi contenuti in sé e per sé ; essi sono, nel miglior caso, risultati singoli, specificazioni discontinue e simboliche di quel­ l'interno e profondo processo di vita che forse si può chiamare la vo­ lontà buona. La moralità è la loro radice, che non può essere, nel suo vero valore, identificata né con la materia del volere, in un certo senso, a lei sempre esteriore, né con tutto il sistema di fini e di mezzi le tui singole manifestazioni, sebbene siano interiorità logiche e psicologi­ che, non esprimono la vita etica del ' volere, se non come il corpo esprime l'anima. Come il volere è, in generale, un processo che può solo esser vissuto o rivissuto, non costruito dai suoi fini e dai suoi mezzi, la volontà buona è anch'essa una pura funzione che si realizza certo solamente nei suoi contenuti, ma che non risulta da essi. Di qui deriva quel tipico, profondo carattere di insufficienza, di man­ canza di vita, proprio dei principi concettuali della morale. Essi pre-

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tendono di trarre dai contenuti della volontà buona, rimanendo sul loro piano, ciò che a questi è comune, ciò che li sostiene e li ren-de attivi, poiché quell'essenziale principio motore, la reale unità all'in· terno e al di sopra di quei contenuti determinati, sebbene solo in loro divenga concreta, non si forma sul loro piano, e perciò coincide tanto poco con l'astrazione di ciò che è a loro comune dal punto di vista logico, quanto i singoli punti di una linea coincidono con il movi­ mento, la cui continuità forma questa linea stessa. Io mi limito a questi chiarimenti intorno all'attitudine filosofica che tende ad unificare le esigenze che noi avvertiamo come poste a noi stessi. Ora, il fatto che esigenze dirette in senso opposto, rivolte cioè all'essere oggettivo, non abbiano richiamato l'attenzione in egual misura, dipende da ragioni pratiche evidenti. Il riconoscimento ·della « validità » di un mondo delle . idee, e, di fronte a lui, di una realtà, si presenta come un'esigenza · rivolta alla realtà stessa, esigenza che si sviluppa in due · direzioni, giacché dall'anima è richiesta qualche cosa che, alla fine, in un modo o nell'altro, ha il suo termine nel �ondo, e dal mondo qualche cosa che ha il suo termine nell'anima. Se il mondo è considerato dal punto di vista di questa esigenza, la coscienza filo­ sofica reagisce di fronte a lui, come totalità, con le due soluzioni che si soglio�o distinguere come ottimismo e pessimismo. Per espri­ merci semplicemente, per l'uno il mondo soddisfa all'esigenza ideale che per nostro mezzo gli è posta, per l'altro esso non vi soddisfa, e non solo non vi soddisfa, cioè non basta a realizzarla, ma questa impossibilità è proprio la natura radicale e manifesta del mondo. In modo un po' grossolano, l'opposizione si può esprimer cosi : il mondo è di Dio o il mondo è del Demonio. L'ottimismo viene a trovarsi, a priori, in posizioni di difesa. La somma del male, delle sofferenze, delle imperfezioni e delle controidealità è nel mondo cosi prevalente, che al difensore del « migliore di tutti i mondi possibili », spetta l'obbligo ·della dimostrazione, mentre il pessimista, semplicemente e, per cosi dire, senza aggiungere una parola, non ha che da indicare quel­ la somma. Anzi, egli potrebbe considerare l'affermazione che non sia pensabile alcun mondo migliore di quello dato, proprio come la piu radicale conferma della sua propria posizione : poiché, quale sarà l'es­ senza dell'essere, quali le possibilità ultime del principio costitutivo del mondo, se non è neppur pensabile che vi sia un mondo migliore di questo imperfetto, oscuro e pieno d'affanni? Di contro, l'ottimismo può ritirarsi nella rocca della religione : la bontà e la sapienza di Dio non consentono che il mondo da lui creato debba essere cattivo. Rinun­ ziando a discutere quale valore di persuasione abbia ancor oggi que­ sto �rgomento, si deve rilevare eh' esso contiene pur un motivo pro· fondo ; e cioè che la possibilità di sopportare il mondo riposa, alla fine,

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come tutte le soluzioni estreme della nostra vita, sopra una fede : il nostro sapere, come la nostra fiducia negli uomini, il nostro porre fini pratici, come le nostre valutazioni, arrivano ad un punto dove la catena delle dimostrazioni tiene a un anello sostenuto solo dalla fede. Ciò avviene anche delle serie intrecciate di sentimenti e di pen­ sieri che ci danno la possibilità di sopportare il mondo. Il pen­ siero che questo debba essere buono perché Dio lo ha creato, è, infi­ ne, solo una formulazione ingenua della profonda necessità umana di fondare l'estremo punto del sapere sopra una fede ; s olamente che l'evoluzione dell'umanità sospinge sempre piu innanzi questo punto, e la scienza non può permettere di fissarlo senza riserva. Astraendo dall'argomento teologico, la dottrina ottimistica può battere ·due vie, di cui l'una considera, per cosi dire, la coesistenza, l'altra la successione degli elementi del mondo. La prima si connette all'idea della « tota­ lità » del mondo e della distinzione di questa dalle singole parti costi­ tutive. L'elemento, isolatamente considerato, può essere di valore pic­ colo o negativo, ma ciò non toglie che nella connessione del tutto serva ai fini totali ·di questo, e che esso costituisca, insieme a tutti gli altri, un'armonia che non gli si potrebbe riferire neppur pro rata, se fosse considerato nella sua singolarità. In piccolo noi sperimen­ tiamo questo mille volte, nel sacrificio · per sé doloroso, che arreca un vantaggio definitivo, nelle intenzioni assolutamente egoistiche del­ l'individuo, che servono all'utile della società, nella sofferenza che, nei suoi gradi estremi, rende pili profonda e . p ili nobile la vita, ciò che . non sarebbe altrimenti possibile. Perché questo non dovrebbe es­ sere il tipo della concezione generale del mondo ? Per quanto prevalenti siano le esperienze del dolore e del male, esse rimangono una forma di singolarità che non pregiudicano il carattere della totale unità del­ l'essere·, come una semplice pennellata non può rendere il significato essenziale dell'unità dell'immagine. Il nerbo di questa dottrina non consiste nel fissare lo sguardo al bene invece che al male nel mondo, ma nel piu profondo pensiero che una somma di singolarità lascia all'unità organica, in cui esse si organizzano, come membra, la piena libertà di possedere un aspetto e un valore indipendenti da quelle. Ora, se questo pensiero si unisce all'altro, che tutto ciò che è cattivo, dolo­ roso e causa di insod·disfazione nell'esistenza, tutto ciò insomma su cui il pessimismo basa la sua dimostrazione, è sempre solo un elemento singolo, per quanto grande ed anche incommensurabile, la forza di­ mostrativa del pessimismo, come intuizione del mondo, diviene proble­ matica. Sarebbe, però, d'altra parte un errore quello di ritener con ciò dimostrato l'ottimismo. Piuttosto è forse necessario, in generale, di fronte a questo problema, di lasciare da parte la pretesa di « dimo­ strare » ; a·d ogni modo v'è sempre una differenza tra il caso in cui

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le argomentazioni conducono solo, come qui, ad un non liquet, e quello in cui un motivo positivo entra a favore di una parte, anche se la sua forza non possa portarci sino al termine di una conclusione necessariamente persuasiva. Questo sembra essere il caso dell'altra di· fesa possibilé dell'ottimismo, fondata sull'idea di evoluzione. Si puè ammettere che il mondo, e, in particolare, l'essere, il destino e la condizione degli uomini non corrispondano all'esigenza ideale, ma non è cosi dimostrato che questa relazione tra esigenza e realtà sia una relazione essenzialmente stabile, che nc;m avvenga cioè alcun movimen· to della realtà nella ·direzione dell'esigenza. In sé e per sé, questa è naturalmente una possibilità di pensiero affatto sterile, che tuttavia acquista un contenuto o una vita, sia per l'idea metafisica che in ogni cosa risieda, come tendenza o destino, la sua propria perfezione, verso cui infinitamente procede, sia per la concezione biologica dell'evolu· zione. Quella prima idea si ritrova nella filosofia leibniziana. Ogni monade contiene dall'eternità in sé la forza espansiva di tutto ciò che essa sarà e che con lei avverrà, poiché solo quei singoli, e non altri, possono essere i suoi stati interni. Ora si potrebbe pensare una tale disposizione delle energie latenti di una monade, che il loro svi· luppo secondo quella disposizione naturale, conducesse la monade da stati imperfetti a stati sempre· piu perfetti, come avviene, anche se in modo irregolare, nella crescita degli organismi. Secondo questa analogia, si potrebbe anche pensare il mondo, nella sua totalità e in tutti i suoi elementi, come guidato da un impulso formale che man· tenga la direzione verso ciò che a noi appare come esigenza ideale nell'essere, benché sia possibile cadere in valutazioni meramente sog· gettive ed in errori per riguardo ai singoli contenuti di questa esigenza. Ciò che appare come imperfezione in noi e fuori di noi, sarebbe un semplice « non ancora », un punto di passaggio, un invi­ luppo difettoso, da eu� le cose verrebbero a poco a poco liberandosi per forza propria. Quello che l'anima sente in sé, che cioè la sua forma perfetta riposa già a priori in lei, come una predestinazione ideale, chiedendo solo d'essere sviluppata ; che tutto ciò che in lei è oscuro, cattivo e doloroso rappresenta solo le stazioni del suo interno Calva· rio, che la guidano alla sommità della purezza e della redenzione, po­ trebbe caratterizzare il destino metafisico anche dell'essere in generale. Quanto alla base biologica che la dottrina dell'adattamento progres­ sivo e -delle finalità degli organismi òffre alla concezione ottimistica, essa è sufficientemente nota. Certo questa evoluzione concerne solo gli organismi, per cosi dire, solo i soggetti stessi e non il mondo che li comprende e alla cui perfezione mira sempre, l'esistenza ideale. Ma poiché, in fondo si tratta di una relazione tra l'uomo e il mondo, l'ultimo può rimanere come è, giacché basta che uno solo, il fattore

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soggettivo sia sufficientemente variabile, perché si possa raggiungere qualsiasi valore della relazione stessa. Sotto qualunque forma que­ sta variabilità e il suo valore per l'adattamento dell'uomo al mondo possano essere pensati, nel senso darwiniano o in un altro, la convin­ zione che è naturale necessità della vita il divenir « migliore » e rendere perciò nella sua relazione con lei, « migliore » il mondo, per se stesso immutato, sotto le dimostrazioni scientifiche e stori­ che, può aver per fondamento un profondo ottimismo ; essa è però in ogni caso, da parte sua, il fondamento dell'ottimismo stesso. Tale concezione della vita, ch'essa cioè, nel suo senso profondo e nelle su� pio intime energie, possegga la possibilità, la tendenza, la sicurezza di procedere verso un superamento di se stessa e d'ogni sua determinazio­ ne momentanea, è la consolazione e la certezza dello spirito moderno, che, per l'opera di Nietzsche, ha penetrato della sua luce l'intero regno dell'anima. Tutte le sofferenze e le imperfezioni della vita su cui si fonda il pessimismo sono ora solo deficienze e imperfezioni che la vita supera in quanto essa diviene piu vita, cioè piu forza, piu bellezza, piu dominio ·del mondo ; esse sono i punti di passaggio interiormente necessari, di cui, ciascuno al suo posto, è relativamente il migliore, il solo grado d'elevazione della vita che in quel momento sia possibile, e che perciò appunto può essere il passaggio ad un grado superiore. Nel mistero che la vita porta, nella sua essenza e nella promessa che essa non solo ci porge, ma è, in quanto vita, sta cosi il supera­ mento del pessimismo, ma sta pure la fondazione piti radicale del pessimismo stesso. Per Schopenhauer vivere non significa che volere, non può significare altro, perché l'essere in generale, non ha altro senso che quello del volere. Naturalmente egli non pone antropomor­ :ficamente, quasi com� un feticcio, l'apparenza psichica a fondamento del mondo, anzi vi scorge solo il cupo tormento, l'infinita ansietà, il tramutarsi senza scopo e senza riposo, che in noi, nella forma della coscienza, è detta volontà, e che perciò può essere cosi denominata anche nella sua assoluta metafisica. In quanto, secondo questo senso, la volontà è la '« cosa in sé » del mondo, estranea alle distinzioni delle nostre forme individualizzanti di comprensione, essa deve essere unica. Ma, come assoluta unità, essa non ha nulla fuori di sé a cui possa estinguere la sua sete, acquetare l'ansia che essa non ha, ma è in se stessa. La volontà può solo nutrirsi di sé, e la vita, come la forma piu intensiva dell'essere, è anche la piu alta del volere. Perciò ogni natura ha bisogno di un'altra, as pira da un'altra la sua possibilità di vita, per trapassare nel momento successivo ad una nuova preda. La volontà · di vita è nutrimento a se stessa ; in mille travestimenti essa afferra solo se stessa, perché nulla v'è fuori di lei. Là dove la co­ scienza si eleva maggiormente, nella specie umana, si fa piu intensa

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l'autodistruzione della volontà, a cui la propria unità stessa impedisce d'essere mai sazia. Gli uomini considerano l'intera natura come desti­ nata al loro uso, e nel loro profondo freme, mal celata e pacificata solo per brevi istanti, la lotta di tutti contro tutti. La volontà non può mai essere appagata ; possono solo mutare i suoi oggetti, quelli cioè che la coscienza le procura. Perciò spesso. mentre a volte sem­ bra che il raggiungimento di un fine particolare plachi definitivamente il nostro volere, prima o poi in tale appagamento stesso l'illusione scompare, per dar luogo ad un altro desiderio. E poiché l'essere sem­ pre vuole e solamente vuole, e non può mai soddisfare la volontà� poiché esso anzi rimane sempre volontà, il mondo è, nella sua essenza� « il peggiore ·di tutti i mondi ». Perciò appunto la vita del sentimento è condannata a un'irriducibile sofferenza, poiché ciò che essa nel mi­ glior caso potrebbe ottenere, e che pur non può senza annullare la volontà e in generale la vita, sarebbe che il valore si acquietasse, cioè che il dolore si trasformasse in privazione e in rinunzia. Ogni feli­ cità, per la sua propria essenza, non può essere altro che la libera­ zione da un dolore, da un bisogno, da qualcosa di negativo, che, rag­ giunto, ci lascia come se la volontà e la vita mai non fossero state. Questa dottrina può essere confutata. Non è esatto che la nostra felicità consista sempre solo nell'appagamento di un volere particolare ; non solo siamo spesso felici di ciò che non abbiamo « voluto », ma il volere, il tendere, l'ansioso pregustare ci danno spesso una felicità affatto indipendente dallo stesso appagamento oggettivo del volere. Ma, in realtà, tanto di fronte al pessimismo, quanto all'ottimismo, ha ben poca importanza la confutazione ·di dottrine in forma razionale. Ciò che qui interessa è piuttosto il manifestarsi, tanto nell'uno quanto nell'altro, di un'attitudine positiva di fronte alla vita, verso cui mira l'esigenza ideale. La convinzione dell'assenza di ogni valore nella vita, per cui, in tutte le sue forme, è colto solo il prevalere del dolore, e l'impotenza dei nostri sforzi, e la convinzione del valore della vita, per cui ogni privazione è preparazione ad un possesso, ed ogni ·dolore è nullo di fronte ai valori dell'essere e dell'agire che sorgono da lui, sono solamente l'espressione di opposte, fondamentali nature spiri­ tuali, e non si possono quindi conciliare in alcuna « unità superiore ». Ciò che si potrebbe chiamare la loro unità non sta in una teoria, ma nella vivente esperienza dell'anima, che in queste due estreme espressioni contempla i poli della sua propria esistenza oscillante dal­ la disperazione della vita alla gioia della Vita. In tutte le discussioni in questo capitolo si è accennato il motivo che le esigenze poste dal mondo a noi, e da noi al mondo sono pro­ fondamente e intimamente congiunte, che ciò che si chiama intuizione della vita riposa soprattutto su di una determinata relazione tra que-

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ste due direzioni dell'esigenza ideale. Ciò si rivela senz'altro in que­ sto, che la proporzione tra i valori che, un po' in vecchio stile, si indicano come virtu e felicità, è divenuta uno dei temi o forse il tema fondamentale della filosofia morale. Sopra le sue forme di esi­ genza si solleva ora l'esigenza nuova di unificarle, di comprenderle, in qualche modo, come una sola, il che può avvenire solamente se una d'esse venga negata, come nella intuizione ascetica del mondo, che esige solo da noi un essere e un fare, e respinge ogni pretesa rivolta da parte nostra al mondo e alla sua realtà. Forse né per il nostro agire, né per la nostra concezione del mondo ambedue le esi­ genze possono essere incluse in un'unica, totale immagine metafisic a ; forse deve rimanere sempre un residuo, non solo ad ogni esigenza per sé, ma anche all'unità di ambedue a cui noi aspiriamo. Annullare que­ sto residuo è opera della fede e della grazia. Esso · segna i limiti Qai quali, al di là del campo della filosofia, sgorgano le fonti della religione. (l problemi fondamentali della filos&(ia, trad. cit., pp. 168-178).

III.

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l. LA SCIENZA SOCIALE Non è un caso che . il concetto di « sociale », il quale sembra avere un senso cosi generale, rechi con sé, ogni qual volta lo si controlla nel suo impiego, un significato particolare, specificamente atteggiato, quand'anche di solito indeterminato ; l'elemento « generale » sussiste in esso di fatto soltanto nella sua indeterminatezza. Qualora lo si assuma nel suo significato « generale », esso non offre nessun specifico punto di vista dal quale illustrare il significato di certi elementi della cultura. Liberi ormai della fiducia antiquata nella possibilità di dedurre la totalità dei fenomeni culturali come prodotto oppure come funzione di costellazioni ·di interessi « materiali », noi riteniamo però d'altra parte che l'analisi dei fenomeni sociali e dei processi della cultura dal punto di vista del loro condizionamento e della loro portata economica sia stata, e possa ancora rimanere in ogni tempo prevedibile, con un'ap­ plicazione oculata e con libertà da ogni restrizione dogmatica, un prin­ cipio scientifico di fecondità creativa. La cosiddetta « concezione ma­ terialistica della storia � come « intuizione del mondo » o come deno­ minatore comune di spiegazione causale della realtà storica deve es­ sere rifiutata nel modo piu deciso - ma l'accurato impiego della interpretazione economica della storia è uno degli scopi essenziali della nostra rivista. Ma ciò richiede una piu precisa illustrazio:q.e. La cosiddetta « concezione materialistica della storia », nel vec­ chio senso, genialmente primitivo, che compare ad esempio nel Ma­ nifesto comunista, sopravvive oggi soltanto nella testa di persone prive ·di competenza specifica e di dilettanti. Presso questa gente si può tuttora trovare in f�rma estesa il fatto che il loro bisogno cau­ sale di spiegazione di uri fenomeno storico non trova soddisfazione finché non si mostrano (oppure non appaiono) in gioco, in qualche modo o in qualche luogo, delle cause economiche : ma proprio in questo caso essi si accontentano delle ipotesi a maglie piu larghe e delle formulazioni piu generali, in quanto il loro bisogno dogmatico è soddisfatto nel ritenere che le « forze intuitive » economiche siano ·

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quelle « proprie », le sole « vere », ed anzi « in ultima istanza sempre decisive ». Il fenomeno non è però affatto singolare. · Quasi tutte le scienze, dalla filosofia alla biologia, hanno talvolta avanzato la pre­ tesa di dare origine non soltanto ad un sapere specializzato, ma anche a « intuizioni del mondo ». E sotto l'impressione del profondo signi­ ficato culturale delle moderne trasformazioni economiche, ed in parti­ colare della portata predominante della « questione dei lavoratori », spinge naturalmente su questa strada l'ineliminabile carattere moni­ stico di ogni forma di conoscere priva di consapevolezza critica nei confronti del proprio lavoro. Lo stesso carattere viene ora in luce nel­ l'antropologia� mentre si viene sviluppando con crescente asprezza la lotta politica e politico-commerciale tra le nazioni per il dominio del mondo : qui è diffusa la fede che « in ultima linea » ogni divenire storico sia una derivazione del gioco reciproco di « qualità razziali » innate. In luogo di una mera descrizione acritica di « caratteri del popolo » è subentrata la costruzione ancor piu acritica delle proprie « teorie della società » su fondamento « naturalistico ». Noi segui­ remo con cura nella nostra rivista lo sviluppo della ricerca antropo­ logica, in quanto essa abbia significato per i nostri punti di vista. C'è però da sperare che venga gradualmente superata, mediante un lavoro metodicamente ·disciplinato, la situazione in cui il ricondurre causai­ mente i processi culturali alla « razza » documenta soltanto il nostro non-sapere - proprio come avviene nel caso del riferimento all'« am­ biente » o, prima ancora, alle « condizioni del tempo ». Se qualcosa ha finora danneggiato questa ricerca, è certo la presunzione di alcuni fervidi dilettanti di poter fornire per la conoscenza della cultura un orientamento specificamente diverso, e superiore, rispetto all'estensione della possibilità di una sicura imputazione di · singoli concreti pro­ cessi culturali della realtà storica a concrete cause storicamente date, conseguita mediante un esatto materiale ·di osservazione determinato in base a specifici punti di vista. Esclusivamente nella misura in cui possono fornirci questo, tali risultati hanno per noi interesse, e qua­ lificano la « biologia razziale » come qualcosa di piu di un prodotto della moderna febbre di fondazione scientifica. Per nulla diverso è il significato dell'interpretazione economica del corso storico. Se oggi, ·dopo un periodo di illimitata sopravvaluta­ zione, incombe su di essa il pericolo di essere sottovalutata nella sua capacità orientativa per il lavoro scientifico, ciò è la conseguenza dell'acriticità senza pari con cui l'interpretazione economica ·della real­ tà fu impiegata come metodo « universale », nel senso di una dedu­ zione di tutti i fenomeni culturali - vale a dire di tutto ciò che in essi risulta per noi essenziale - in quanto in ultima istanza eco­ nomicamente condizionati. Oggi la forma logica, nella quale essa si

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presenta, non è del tutto unitaria. Là dove si presentano delle diffi­ coltà per una spiegazione puramente economica, vi sono a disposi­ zione diversi mezzi per mantenere in piedi la sua validità universale come momento causale decisivo. Talvolta si considera tutto ciò che nella realtà storica non è deducibile da motivi economici come qual­ cosa che proprio perciò risulta scientificamente privo di significato, e quindi come qualcosa di « accidentale ». Oppure si estende- il con� cetto di ciò che è economico fino all'inconoscibile, in maniera da inse­ rire nell'ambito di quel concetto tutti gli interessi umani che siano in qualche 'maniera legati a mezzi esterni. Se si constata che in due situazioni eguali sotto il profilo economico si è tuttavia reagito in ma­ niera diversa - per le differenze di determinanti politiche e reli­ giose, o climatiche, o di innumerevoli altre non economiche - allora si procede a degradare tutti questi momenti, allo scopo di conservare la supremazia dell'elemento economico, a « condizioni » storiche causa­ li, dietro le quali i motivi economici operano in qualità di « cause ». S'intende però che tutti quei momenti che risultano « causali » per la considerazione economica seguono le loro proprie leggi, proprio al pari dei momenti eccmomici, e che per una considerazione la quale vada dietro al loro specifico significato le « condizioni » economiche attuali sono « storicamente causali » nel medesimo senso del rapporto. Il significato predominante dell'elemento economico, consiste infine nell'interpretare la costante correlazione e successione dei singoli mo­ menti -della vita culturale nel senso di una dipendenza causale o fun­ zionale dell'unò dall'altro, o piuttosto di tutti i rimanenti da uno sol� e cioè da quello economico. Là dove una determinata istituzione non economica ha storicamente compiuto anche una determinata « fun­ zione » al servizio di interessi economici di classe, là dove, per esem­ pio, determinate istituzioni religiose si lasciano impiegare, e sono impiegate, come « polizia nera », l'intera istituzione viene allora consi­ derata o come creata appunto per questa funzione o - in maniera assolutamente metafisica - come orientata in base ad una « tendenza di sviluppo » che muove dall'elemento economico. Non c'è pio bisogno oggi di illustrare a nessun specialista che que­ sta interpretazione ·d ello scopo dell'analisi economica è espressione in parte di una determinata costellazione storica, la quale indirizzava il proprio interesse scientifico verso determinati problemi culturali con­ dizionati economicamente, ed in parte di un rabbioso patriottismo scientifico, e che essa risulta ormai per lo meno invecchiata. La riduzione esclusiva a cause economiche non è in qualsiasi senso esau­ riente in nessun campo dei fenomeni culturali, e neppure in quello dei processi « economici ». In linea di principio una storia della banca di qualsiasi popolo, che volesse per la spiegazione avvalersi soltanto di

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motivi economici, sarebbe naturalmente impossibile nello stesso modo in cui lo sarebbe una « spiegazione » della Madonna Sistina in base ai fondamenti economico-sociali ·della vita culturale dell'epoca in cui è sorta - e non sarebbe, sempre in linea di principio, piu esaustiva di quanto non potrebbe esserlo per esempio la derivazione ·del capi­ talismo da certe trasformazioni di contenuti di coscienza religiosa che hanno cooperato alla genesi dello spirito capitalistico, o la derivazione di qualsiasi altra formazione politica da condizioni geografiche. In tutti questi casi è decisiva, per la misura dell'importanza che dobbiamo assegnare alle condizioni economiche, la considerazione ·della classe di cause a cui devono essere imputati quegli elementi specifici del feno­ meno in questione, ai quali noi nel caso singolo attribuiamo un signi­ ficato per cui esso ci riguarda. Il diritto dell'analisi unilaterale della realtà culturale da specifici « punti di vista » nel nostro caso dal punto di vista del suo condizionamento economico - deriva anzi­ tutto, in linea puramente metodica, dalla circostanza che l'educazione della vista ad osservare l'azione di categorie causali qualitativamente omogenee, ed il continuo impiego del medesimo apparato metodico­ concettuale, offrono tutti i vantaggi della divisione del lavoro. Che essa non sia troppo arbitraria è provato dal suo risultato, cioè dal fatto che essa fornisce la conoscenza di connessioni che si dimostran·o fornite di valore per l'imputazione causale di concreti processi sto­ rici. Ma l'« unilateralità » e la irrealtà dell'interpretazione puramente economica del corso storico è in genere soltanto un caso specifico di un principio generale che vale per la conoscenza scientifica della realtà culturale. Illustrarlo nei suoi fondamenti logici e nelle sue conse­ guenze metodiche generali, è lo scopo essenziale delle discussioni che seguono. Non c'è nessuna analisi scientifica puramente « oggettiva » della vita culturale o - ciò che forse è piu ristretto, nia che non vuoi dire di certo nient'altro per il nostro scopo dei « fenomeni sociali », se­ condo cui essi - espressamente o tacitamente, consapevolmente o inconsapevolmente - sono stati come oggetti di ricerca, analizzati e organizzati nell'esposizione. Il fondamento di ciò sta nel carattere specifico del fine conoscitivo di ogni lavoro di scienza sociale, che vo­ glia procedere oltre una considerazione puramente formale delle nor­ me - giuridiche o convenzionali - della sussistenza sociale. La scienza sociale, quale noi vogliamo promuoverla, è una scien­ za di realtà. Noi vogliamo intendere la realtà della vita che ci cir­ conda, e nella quale noi siamo inseriti, nel suo proprio carattere - noi vogliamo intendere cioè da un lato la connessione e il signifi­ cato culturale dei suoi fenomeni particolari nella loro odierna configu­ razione, e dall'altro i fondamenti del suo essere storicamente divenuto -

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cosi-e-non-altrimenti. Allorché cerchiamo di riflettere sul modo in cui essà si presenta immediatamente a noi, la vita ci offre una moltepli­ ·cità senz'altro infinita, di processi che sorgono e scompaiono in un rapporto reciproco di successione e di contemporaneità, « in » noi e « al di fuori di » noi. E l'assoluta infinità di questa vita molteplice non diminuisce anche quando · noi prendiamo in considerazione un singolo « oggetto » isolatamente - ad esempio un concreto atto di scambio - e intendiamo studiarlo con serietà allo scopo di descrivere questo oggetto « singolo » in maniera esaustiva in tutti i suoi ele­ menti individuali, per non dire poi del penetrarlo nel suo condizio­ nam ento causale. Ogni conoscenza concettuale dell'infinita realtà da parte dello spirito umano finito poggia infatti sul tacito presupposto che soltanto una parte finita di essa debba formare l'oggetto della considerazione scientifica, e perciò risultare « essenziale » nel senso di essere « degna di venir conosciuta ». Ma in conformità a quali prin­ cipi si procede a isolare questa parte? Si è ripetutamente creduto di poter trovare in ultima linea anche nelle scienze della cultura il criterio decisivo nel ricorrere « conforme a leggi » di determinate con­ nessioni causali. Il contenuto nelle « leggi » che noi riusciamo a co­ noscere nel corso sempre molteplice dei fenomeni, deve costituire - secondo questa concezione - il solo aspetto scientificamente « es­ senziale » che sia in essi presente : quando abbiamo dimostrato valida senza eccezione, con i mezzi di un'induzione storica complessiva, la « legalità » di una connessione causale, oppure quando l'abbiamo re­ cata ad un'evidenza intuitiva immediata per l'esperienza interna, al­ lora ogni formula cosi ritrovata subordina a sé qualsiasi numero, quan­ to grande si possa pensarlo, di casi omogenei. Ciò che della realtà indi­ viduale rimane al di fuori di questa determinazione dell'aspetto « con­ forme a leggi » o vale come un residuo ancora privo ·di elaborazione scientifica, che deve essere sottoposto ad analisi attraverso il comple­ tamento sempre crescente del sistema « di leggi », oppure rimane in­ vece da parte come qualcosa di « accidentale » e proprio perciò scien­ tificamente inessenziale, in quanto esso non è « comprensibile legal­ mente », e quindi non appartiene neppure al « tipo » del processo e può essere soltanto oggetto di « oziosa curiosità ». Sempre ricompare di conseguenza - anche presso i rappresentanti della scuola stori· ca - la convinzione che l'ideale a cui ogni conoscenza, e quindi pure la conoscenza della cultura, tende e può tendere anche se in vista ·di un lontano futuro, sia costituito da un sistema di proposizioni teo­ riche, da cui possa venir « dedotta » la realtà. Un rappresentante eminente della scienza naturale ha ritenuto, come è noto, di poter indicare come fine ideale ( di fatto non attuabile) di una siffatta ela­ borazione della realtà culturale una conoscenza « astronomica » dei

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processi della vita. Ci sia consentito qui di prendere in esame pm da vicino tale . tesi, per quanto queste cose siano già state discusse. In primo luogo risulta ovvio che quella conoscenza « astronomica », a cui si è pensato, non è una conoscenza di . leggi, ma assume piut­ tosto le « leggi » ·di cui si serve come presupposti del suo lavoro da altre discipline, quale la meccanica. Essa si interessa però, di per sé, di un'altra questione, e cioè di stabilire il risultato individuale che è prodotto dall'azione di quelle leggi su una costellazione individuale, là dove queste costellazioni individuali hanno per noi significato. Ogni costellazione individuale, che essa ci « spiega » o predice, può certo venir spiegata causalmente solo come conseguenza di un'altra costel­ lazione del pari individuale che l'abbia preceduta ; e per quanto noì possiamo risalire nella nebbia grigia del piti remoto passato, la realtà per la quale le leggi valgono rimane sempre individuale, e quin­ di non deducibile da leggi. Uno « stato originari� » del cosmo, che non rechi in sé un carattere individuale, o che lo rechi in misura minore della realtà cosmica presente, sarebbe naturalmente un principio pri­ vo di senso. E tuttavia un resto di simili rappresentazioni non viene fuori nel nostro campo in quelle assunzioni, ora intese giusnaturali­ sticamente ora invece verificate in base all'osservazione dei « popoli primitivi », di « stati originari » economico-sociali che sono privi di « accidentalità » storiche - come nel caso del « comunismo agrario primitivo », ·della « promiscuità » sessuale ecc., da cui poi sorge lo· sviluppo storico individuale mediante una specie di caduta nel con-· creto ? Punto di partenza dell'interesse della scienza sociale è senza dub­ bio la configurazione reale, e quindi individuale, della vita sociale che ci circonda, considerata nella sua connessione che è si universale, ma non per questo meno individualmente atteggiata, e nel suo pro­ cedere da altri stati sociali di cultura, a loro volta evidentemente atteggiati in forma individuale. Senza dubbio la situazione che abbiamo illustrato a proposito dell'astronomia come un caso-limite ( c�e è rego­ larmente considerato anche dai logici allo stesso scopo), si presenta qui in una misura assai piti ragguardevole. Mentre per l'astronomia i corpi cosmici hanno interesse soltanto nelle loro relazioni quanti­ tative, accessibili ad un'esatta misurazione, è invece la configurazione qualitativa dei processi ciò che ci riguarda nella scienza sociale. A ciò si aggiunga che nelle scienze sociali siamo di fro�te alla coope­ razione di processi spirituali, e che « intendere » rivivendoli questi processi costituisce naturalmente un compito di tipo specificamente diverso da quello implicito nella soluzione delle formule della cono­ scenza esatta della natura in genere. E tuttavia queste differenze non sono in sé cosi fondamentali, come può sembrare ad un primo

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sguardo. Senza la considerazione delle qualità non procedono - pre· scindendo dalla meccanica pura - neppure le scienze esatte della na­ tura ; inoltre nel nostro campo specifico incontriamo l'opinione - cer­ to distorta - che almeno il fenomeno della circolazione moneta­ ria, fondamentale per la nostra cultura, possa venir espresso quanti­ tativam ente e proprio per ciò sia comprensibile « legalmente » ; ed in­ :fine dipende da un'accezione pio stretta o pio larga del concetto di « legge » se si comprendono nel suo ambito anche regolarità che, in quanto non . esprimibili quantitativamente, non sono neppure accessi­ bili a nessuna considerazione di carattere numerico. Per ciò che ri­ guarda in particolare la cooperazione di motivi « spirituali », essa non esclude in nessun caso la determinazione di regole di agire razionale ; e soprattutto non è ancora scomparsa oggi la convinzione che sia compito della psicologia quello di adempiere, nei confronti delle « scienze dello spirito » singole, ad una funzione analoga a quella della matematica, analizzando i fenomeni piu complicati della vita sociale nelle loro condizioni e nei loro effetti psichici, riportandoli a fattori psichici il piu possibile semplici, classificando quindi questi ul­ timi nelle loro varie specie ed infine studiandoli nelle loro connessioni funzionali. In tale maniera si darebbe vita, se non ad una « mecca­ nica », almeno ad una specie di « chimica » della vita sociale, consi­ derata nei suoi fondamenti psichici. Se indagini di questo genere pos­ sano mai essere valide e - il che è cosa diversa - fornire risul­ tati particolari utilizzabili per le scienze della cultura, noi non pos­ siamo qui deciderlo. Ciò non avrebbe però alcuna importanza per la questione di cui ci occupiamo, se cioè il fine della conoscenza econo­ mico-sociale nel nostro senso, costituito dalla conoscenza della realtà nel suo significato culturale e nella sua connessione causale, possa venir raggiunto mediante l'investigazione di ciò che ricorre in conformità a leggi. Posto il caso che si pervenga un giorno, sia per mezzo della psicologia sia per altre vie, ad analizzare in base ad alcuni semplici « fattori » ultimi tutte le connessioni causali di processi finora os­ servate, ed inoltre anche quelle pensabili in qualsiasi tempo futuro, e che si possa quindi abbracciarle in maniera esaustiva in un'immensa casistica di concetti e di regole formulate su base rigorosamente cau­ sale - quale rilievo avrebbe il risultato di tutto questo per la cono­ scenza del mondo culturale storicamente ·dato, o anche solo di qUal­ che suo particolare fenomeno, come ad esempio del capitalismo nel suo divenire e nel suo significato culturale ? Esso varrebbe come mezzo conoscitivo né piu né meno di un lessico delle combinazioni chimico­ organiche per la conoscenza biogenetica del mondo animale e vege· tale. Nell'uno come nell'altro caso si sarebbe compiuto un lavoro pre­ liminare sicuramente importante ed utile. Nell'uno come nell'altro

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caso la realtà della vita non si lascerebbe però dedurre da quelle leggi » e da quei « fattori » ; e ciò non già in quanto nei feno­ meni della vita debbano risiedere ·delle altre superiori e misteriose « forze » « potenze », « entelechie » o come altrimenti le si è chia­ mate - poiché questa è una questione del tutto a sé ma sempli­ cemente poiché per la conoscenza della realtà ci riguarda la costel­ lazione in cui si trovano quei « fattori » ( ipotetici !), raggruppati in un fenomeno culturale che sia storicamente per noi significativo, e poiché, se vogliamo « spiegare causalmente » questo aggruppamento individuale, noi dovremmo sempre rifarci ad altri aggruppamenti, del pari individuali, in base ai quali « spiegarli »: naturalmente attraverso l'impiego di quei concetti (ipotetici !) di « legge ». Constatare quelle « leggi » e quei « fattori » (ipotetici) sarebbe per noi in ogni caso solo il primo dei diversi lavori che dovrebbero condurre alla cono­ scenza a cui aspiriamo. L'analisi e la coordinazione dell'aggruppa­ mento individuale storicamente dato di quei « fattori » e della loro azione reciproca concreta, condizionata in tale maniera, che risulta significativa nel suo modo specifico, e soprattutto la chiarificazione del fondamento e del tipo di questa significatività - questo sarebbe il suo compito successivo, ida risolvere certo con il ricorso a quel lavoro preliminare, ma tuttavia pienamente nuovo e autonomo nei suoi confronti. Seguire nel loro divenire le specifiche caratteristiche individuali, significative per il presente, di . tali aggruppamenti, risa­ lendo il piu possibile nel passato, e spiegarle storicamente in base alle costellazioni precedenti, che sono a loro volta individuali, costi­ tuirebbe un terzo compito che si può concepire - e la misurazione di possibili costellazioni nel futuro, infine, sarebbe 'il quarto. «



( L'oggettività conoscitiva della scienza sociale e della politica sociale, ne Il metodo delle scienze storico sociali, trad. P. Rossi, Torino, Einaudi, 1958, pp. 79-89).

2. PoSSIBILITÀ E CAU SAZIONE NELLA STORIA « Lo scoppio della seconda guerra punica, - dice Eduard Meyer, - è -la conseguenza di una decisione volontaria di Anniba­ le, come lo scoppio della guerra dei Sette Anni o della guerra del 1866 sono la conseguenza di una decisione di Federico il Grande oppure di Bismarck. Essi avrebbero potuto anche ·decidere altrimenti, ed altre personalità... avrebbero deciso altrimenti ; di conseguenza il corso della storia si sarebbe configurato altrimenti ». « Con ciò non si deve - egli aggiunge, - né affermare né contestare che in questo caso non si sarebbe arrivati alla guerra in questione ; questa è una questione del tutto insolubile ed oziosa ». Prescindendo dal rapporto

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poco chiaro in cui la seconda frase sta con le formulazioni di Meyer, prima discusse, intorno · alle relazioni tra « libertà » e « necessità >> nella storia, si deve qui in primo luogo avanzare un_a riserva di fronte all'opinione che le questioni, a cui non possiamo rispondere o non possiamo rispondere con sicurezza, siano per tale motivo questioni « oziose ». Sarebbe male anche per la scienza empirica se quei pro­ blemi piu alti, a cui essa non ·dà alcuna risposta, non potessero mai venir avanzati. Non si tratta qui certamente di tali problemi « ulti­ mi », ma ad ogni modo si tratta di una questione che da un lato è « superata » dagli avvenimènti, dall'altro non può venir risolta uni­ vocamente in maniera positiva data la situazione del nostro sapere reale e possibile - di una questione che inoltre, considerata da uno stretto punto di vista « deterministico, discute le conseguenze di qual­ cosa che era, data la situazione degli elemènti « ·determinanti », « im­ possibile ». E tuttavia non è affatto « oziosa » questa impostazione problematica, la quale cerca che cosa avrebbe potuto avvenire se ad esempio Bismarck non si fosse deciso alla guerra. Poiché essa con­ cerne appunto l'aspetto decisivo per l'elaborazione storica della realtà : quale significato causale debba essere propriamente attribuito a que­ sta decisione individuale entro la totalìtà dei « momenti » , infinita­ mente numerosi, i quali dovevano essere disposti proprio cosi e non altrimenti affinché potesse derivarne quel risultato, e quale posto quin­ di le spetti nella rappresentazione storica. Se la storia vuole sollevarsi al di sopra di una mera cronaca di avvenimenti e di personalità degni di memoria, non resta nessun'altra via che quella di porsi questioni del genere. Ed essa ha anche proceduto cosi, da quando è stata una scienza. Nella formulazione prima riferita di Meyer, che la storia consideri gli avvenimenti dal punto di vista del « diveni­ re », e che quindi il suo oggetto non sia sottoposto alla « necessità » propria ·del « divenuto », l'aspetto di verità è proprio questo, che lo storico procede nella discriminazione del significato causale di un av­ venimento concreto in maniera simile all'uomo storico che prende posizione e che vuole, all'uomo cioè che mai « agirebbe » se il pro­ prio agire gli apparisse « necessario » e non solo « possibile ». La differenza è soltanto questa : l'uomo che agisce considera, in quanto si comporta in maniera rigorosamente « .razionale » � ciò che noi assumiamo - le « condizioni » poste « al di fuori » di lui, date se­ condo l'ampiezza della sua conoscenza della realtà, dello sviluppo fu­ turo che lo interessa ; inserisce poi concettualmente entro il nesso cau ­ sale i diversi « modi possibili » del suo proprio atteggiamento e le conseguenze da aspettarsi in connessione a quelle co:Q.·dizioni « ester­ ne » ; ed infine si decide, a seconda dei « possibili » risultati in tal modo ( concettualmente) stabiliti, per l'uno o per l'altro modo di

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comportarsi, corrispondente al suo scopo. Lo storico è in posizione di vantaggio rispetto al suo errore anzitutto per il fatto che egli sa in ogni modo a posteriori se la valutazione delle condizioni date, sussi­ stenti « al di fuori >> di lui, corrisponda anche di fatto, in base al­ l'ampiezza delle conoscenze e delle aspettative di cui dispone colui che agisce, alla reale situazione di quel tempo : glielo insegna la « conse­ guenza » di fatto dell'agire. E nel caso di quell'ideale massimo di conoscenza delle condizioni, che noi vogliamo e possiamo teoretica­ mente assumere, trattandosi qui semplicemente della chiarificazione di question logiche - per quanto esso possa venir raggiunto in real­ tà solo di rado, e forse mai - egli può -da parte sua compiere retro­ spettivamente la medesima valutazione" concettuale che il suo « eroe » ha pio o meno chiaramente condotto, o che « !lvrebbe potuto condur­ re » ; �d esempio egli può affrontare, con maggiori probabilità di suc­ cesso di Bismarck, la questione concernente le conseguenze che si sarebbero dovute « aspettare » da un'altra decisione. È chiaro che que­ sta considerazione è assai lontana dall'essere « oziosa »- Meyer stesso applica proprio questo procedimento a quei due colpi che, nelle gior­ nate berlinesi del marzo, hanno immediatamente provocato lo scop­ pio della battaglia tra le stra-de. La questione clelia loro provenienza, egli dice, sai-ebbe « storicamente irrilevante ». Perché pio irrilevante che non la discussione delle decisioni di Annibale, di Federico il Grande, di Bismarck? « Le cose stavano in tale maniera che qual­ siasi caso doveva far scoppiare il conflitto » ( !). Come si vede, qui Meyer stesso risponde alla questione dichiarata « oziosa », stabilendo che cosa « sarebbe » accaduto senza quei colpi, e decide quin-di sul loro « significato » storico (in questo caso sulla loro irrilevanza). Nel caso delle decisioni di Annibale, di Federico, di Bismarck le « cose » però « stanno » altrimenti, almeno secondo il parere di Meyer ; non già perché il conflitto, sia in genere sia sotto le concrete costellazioni politiche del tempo che hanno determinato il suo corso e il suo esito, sarebbe scoppiato anche se la decisione fosse stata diversa. Poiché al­ trimenti tale decisione sarebbe storicamente priva di significato al pari di quei colpi. Il giudizio secondo il quale, supponendo assente o mu­ tato un particolare fatto sto�ico in un complesso di condizioni stori· che, ciò avrebbe condotto ad un corso degli avvenimenti storici mu­ tato in determinate relazioni storicamente importanti, sembra essere ·di valore rilevante a nche per la constatazione del « sgnificato storico » di quei fatti ; lo storico, anche se solo eccezionalmente nella prassi, cioè nel caso di una contestazione di quel « significato storico » , può es­ sere portato a sviluppare e a giustificare in maniera consapevole ed esplicita quel giudizio. È chiaro che questa circostanza dovrebbe richie­ dere una considerazione dell'essenza logica dei giudizi che asseriscono

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quale conseguenza « sarebbe » stata da aspettarsi nel caso di as­ senza o di mutamento di una particolare componente causale di quel complesso di condizioni, nonché del loro significato per la storia. Noi vogliamo cercare di pervenire a un risultato piu chiaro in proposito. In quali cattive condizioni sia ancora la logica della storia, ri­ sulta chiaro pure dal fatto che sopra questa importante questione non già storici né metodologi della storia, bensi rappresentanti di discipline assai discoste abbiano impostato le indagini di maggiore importanza. La teoria della cosiddètta « possihiltà oggettiva », che qui in­ tendiamo trattare, poggia sui lavori dell'insigne fisiologo J. von Kries, e l'impiego comune di questo concetto poggia sui lavori, che richia­ mano a von Kries o che lo criticano, di studiosi in primo luogo di criminologia ed in secondo luogo di altri settori giuridici, in parti­ colare sui lavori ·di Merkel, Riimelin, Liepmann, e piu di recente di Radbruch. Nella metodologia delle scienze sociali le nozioni di von Kries sono state fi.nora adottate soltanto dalla statistica: Che proprio i giuristi, ed in prima linea i criminologi, abbiano affrontato il pro­ blema, è cosa naturale, poiché la questione della colpa penale, impli­ cando il problema della determinazione delle circostanze sotto le quali si può affermare che qualcuno ha « causato » mediante il suo agire una certa conseguenza esterna, è una pura questione di · causalità - ed ovviamente riveste la medesima struttura logica della causalità storica. Infatti, proprio come nella storia, i problemi delle relazioni sociali pratiche -degli uomini tra di loro, e in particolare quelli del­ l'amministrazione della giustizia, sono orientati « antropocentrica­ mente », cioè indagano il significato causale di « azioni » umane. E proprio come nella questione concernente il condizionamento causale di una concreta conseguenza lesiva, da espiare penalmente o da ri­ sarcire civilmente a seconda del caso, anche il problema causale dello storico si dirige sempre all'imputazione di conseguenze concrete e cau­ se concrete, non alla determinazione di astratte « uniformità legali ». Da questa strada comune la giurisprudenza, e in particolare la crimino­ logia, si dirige verso una sua specifica impostazione problematica, in quanto le si presenta dinanzi una questione ulteriore : e se quando l'imputazione oggettiva, puramente causale, della conseguenza alla azione ·di un individuo sia sufficiente per la qualificazione di questa azione come sua « colpa » soggettiva. Infatti tale questione non è piu un problema puramente causale, che possa venir risolto mediante una mera constatazione di fatti da stabilire « oggettivamente », me­ diante la loro . osservazione e la loro interpretazione causale, bensi è un problema di politica criminale orientato in base a valori etici e di altro tipo. Ed è a priori possibile e di fatto frequente, oggi anzi regolare, che il senso delle norme giuridiche, esplicitamente espresso o

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stabilito attraverso l'interpretazione, conduce a far dipendere la sus­ sistenza di una « colpa », nel senso della proposizione giuridica in questione, in prima linea da certi elementi di fatto soggettivi da parte di colui che agisce (intenzione, « possibHità », soggettivamente condizionata, di « prevedere » la conseguenza, e simili), e perciò ad alterare notevolmente il significato delle differenze categoriali del mo­ do di connessione causale. Solo che nei primi stadi della discussione questa diversità dello scopo dell'indagine non ha ancora alcun signi­ ficato. Noi ci chiediamo in primo luogo, in comune con la teoria giu­ ridica, come sia in linea di principio possibile, l'imputazione di un « effetto » concreto ad una « causa » particolare, in considerazione del fatto che in verità sempre un'infinita di momenti causali ha con­ dizionato il venire alla luce del « processo » particolare, e che per il presentarsi dell'effetto nella sua forma concreta erano indispensa­ bili senz'altro tutti quei particolari momenti causali. La possibilità di una selezione entro l'infinità degli elementi deter­ minanti è in primo luogo condizionata dal tipo del nostro interesse storico. Quando si dice che la storia deve intendere causalmente la concreta realtà di un « avvenimento » · nella sua individualità, ciò non significa evidentemente, come già abbiamo visto, che essa debba « riprodurlo » abbreviato e spiegarlo causalmente nella totalità delle sue qualità individuali : questo sarebbe un compito non soltanto di fatto impossibile, ma anche in linea di principio privo di · senso. Ma alla storia spetta esclusivamente la spiegazione causale di quegli « elementi » e di quegli « aspetti » ·dell'avvenimento in questione, i quali rivestono da determinati punti di vista un « significato uni­ versale » e perciò un interesse storico, pr�prio come le considera­ zioni del giudice prendono in esame non già l'intero corso individuale dell'accadimento, ma soltanto i suoi elementi essenziali per la sus­ sunzione sotto le norme. A lui interessa -. anche prescindendo dal­ l'infinità di particolari « assolutamente » banali - non già ciò che può interessare altre forme di considerazioni, come quelle -della scien­ za naturale, della storia, dell'arte : non gli interessa sapere se il colpo mortale · abbia « prodotto » la morte per via di fenomeni con­ comitanti che possono a ragione interessare il fisiologo, oppure se la posa del morto e dell'assassino avrebbe potuto essere un oggetto appropriato di rappresentazione artistica, oppure se la morte abbia aiutato un « uomo di secondo piano » della gerarchia burocratica nella « promozione » e sia stata quindi, dal suo punto di vista, causai­ mente « fornita di valore », oppure se sia stata occasione di deter­ minati provvedimenti di polizia, o abbia forse suscitato conflitti inter­ nazionali e si sia cosi mostrata « storicamente » si'gnificativa. Per lui una cosa sola è rilevante : se la catena. causale tra il colpo e la

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morte si sia configurata in maniera, e se l'abito soggettivo dell'agente e il suo rapporto con il fatto siano stati tali da rendere applicabile una determinata norma di diritto penale. Allo storico, d'altra parte, nella morte di Cesare per esempio non interessano né i problemi cri· minologici o medici che il « caso » avrebbe potuto offrire, né i det­ tagli dell'evento, se non in quanto essi siano rilevanti per la « carat­ terizzazione » di Cesare o per la >), oppure infine per « l'effetto politico » della sua morte . ( cioè come « causa reale »). Egli si occupa soltanto della circostanza che la morte è avvenuta proprio allora, in una concreta costellazione politica, e discu­ te la questione, a·d essa connessa, se questa circostanza abbia avuto determinate « conseguenze » di rilievo per il corso della « storia uni­ versale ». Come per l'imputazione giuridica, cosi anche per l'imputazione storica avviene pertanto l'esclusione di un'infinità di elementi del pro­ cesso reale in quanto « causalmente irrilevanti » ; poiché una parti­ colare circostanza, come si è visto, risulta priva di importanza non soltanto se essa non fu in alcuna relazione con l'avvenimento in esame, in maniera da poterla pensare assente senza che si « fosse » presentato qualsiasi mutamento del corso oggettivo, bensi anche se gli elementi in concreto essenziali, e che soli ci interessano, di quel corso non appaiono in parte causati da essa. Ma la nostra questione specifica è però di stabilire mediante quali operazioni logiche cogliamo, e possiamo giustificare dimostrativa­ mente, che sussiste una siffatta relazione causale tra quegli elementi « essenziali » dell'effetto e determinati elementi entro l'infinità di momenti determinanti. Ovviamente non mediante la semplice « osser­ vazione » del processo - in ogni caso non in tale modo, se per « os­ servazione » si intende una « fotografia » spirituale, « priva di pre· supposti », di tutti i processi fisici e psichici che cadono nella sezione di spazio e di tempo in esame, supposto che ciò sia possibile. Ma la imputazione causale si compie nella forma di un processo concettuale, che implica una serie di astrazioni. La prima, e decisiva, è appunto quella che compiamo pensando una o alcune delle componenti causali oggettive del processo mutate in una determinata direzione, e chie­ dendoci se, nelle condizioni cosi mutate dell'evento, sarebbe « stata da aspettarsi » la medesima conseguenza (nei punti « essenziali »), op­ pure quale altra. Prendiamo un esempio dalla prassi storiografica di Eduard Meyer. Nessuno ha come lui illustrato plasticamente e chiara­ mente la « portata » storico-universale delle guerre persiane per lo sviluppo culturale dell' Occidente. Ma come è avvenuto questo, con­ siderato logicamente ? Essenzialmente in quanto viene sviluppata la

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tesi che ci fu una « decisione » tra due « possibilità » - da un lato lo svolgimento di una cultura religioso-teocratica, i cui principi risiedono nei misteri e negli oracoli, sotto l'egida ·del protettorato persiano che ovunque utilizzava il piu possibile la religione nazionale, come presso gli Ebrei, in quanto mezzo di dominio, e dall'altro la vittoria del libero mondo spirituale ellenico, orientato verso questo mondo, il quale ci donò quei valori culturali di cui ancor oggi ci nutriamo ; e che questa « decisione » avvenne mediante un combatti­ mento di ridotte dimensioni quale la « battaglia » di Maratona, che a sua volta rappresentò l'indispensabile « condizione preliminare » ·del sorgere della flotta ateniese e quindi del corso successivo della lotta per la libertà, della salvezza dell'autonomia della cultura ellenica, dello stimolo positivo recato all'inizio della specifica storiografia oc­ cidentale, del pieno sviluppo del dramma e di tutta quella singolare vita spirituale la quale si dispiegò in quella tribuna in miniatura - se misurata solo quantitativamente - della storia universale. E che quella battaglia abbia recato con sé, oppure abbia influen­ zato in maniera essenziale la « ·decisione » tra quelle « possibilità », è ovviamente il solo fondamento sul quale il nostro interesse storico - di noi che non siamo Ateniesi - si riferisce in genere ad essa. Senza la valutazione di tali « possibilità » e degli insostituibili valori culturali che sono « legati », come risulta dalla nostra analisi retro­ spettiva, a quella decisione, sarebbe impossibile determinarne il « si­ gnificato » ; e sarebbe poi di fatto impossibile comprendere perché noi non la consideriamo equivalente ad una scaramuccia tra due tribu di Kaffiri o di Indiani, e non dobbiamo prendere con reale serietà gli stupidi « principi direttivi » della Storia universale di Helmot, di questa « moderna » opera collettiva dove si è proceduto ap­ punto cosi. Quando storici moderni, trovandosi costretti dall'argomento a delimitare il « significato » ·di un avvenimento concreto mediante la considerazione e la rappresentazione esplicita delle « possibilità » di sviluppo, si scusano di solito dell'impiego di questa categoria apparen­ temente antideterministica, essi si comportano in maniera logica­ mente del tutto ingiustificata. Quando ad esempio Karl Hampe nel suo Corradino, dopo un'esposizione molto istruttiva del « significato » storico della battaglia di Tagliacozzo sulla base della considerazio­ ne ·delle diverse « possibilità », tra le quali « decise » il suo esito puramente « accidentale », cioè determinato da processi tattici com­ pletamente individuali, mutando di un tratto cammino aggiunge « ma la storia non conosce possibilità » - bisogna rispondergli nel modo seguente : « il divenire » pensato « oggettivisticamente » sulla base di assiomi deterministici non ne « conosce », in quanto non « conosce » appunto nessun concetto in genere - ma la « storia » ne conosce

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sempre, supposto che essa voglia essere scienza. In ogni pagina di qualsiasi esposizione storica, anzi in ogni scelta di materiali archivi­ stici e di fonti a scopo - di puhblieazione, vi sono, o meglio, non pos­ sono non esserci dei « giudizi -di possibilità », se la pubblicazione deve avere « valore conoscitivo ». Che cosa vuoi dire però quando noi pa:diamo di piu « possibili­ tà » , tra èui quelle lotte debbono aver « deciso »? Ciò significa an­ zitutto, in ogni caso, la creazione - diciamolo pure tranquillamen­ te - di quadri fantastici; formati prescindendo da uno o da vari elementi della « realtà » esistenti di fatto, e mediante la costruzio­ ne concettuale di un processo mutato in rapporto a·d una o ad alcune « condizioni ». Già il primo passo verso il giudizio storico è quindi - questo deve venir posto in rilievo - un processo ·di astrazione, il quale si svolge mediante · l'analisi e l'isolamento coneettuale degli elementi del dato empirico - che viene appunto considerato come un complesso di possibili relazioni causali - e deve sfociare in una sintesi della « reale » connessione causale. Già questo primo passo trasforma pertanto la « realtà » data, allo scopo di farne un « fatto » storico, in un quadro concettuale : nel « fatto » è appunto impli· cita, per dirla con Goethe, la « teoria ». Se si considerano però in maniera ancor piu precisa questi « giu­ dizi di possibilità - cioè le asserzioni su ciò ehe « sarebbe » avve­ nuto nel caso di un'esclusione o di un mutamento di certe condi­ zioni - e se ci si chiede in primo luogo come noi propriamente perveniamo ad essi, non può sussistere alcun dubbio che si tratti senza eccezioni di procedimenti di isolamento e di generalizzazione ; ciò vuol dire che noi scomponiamo il « dato » in « elementi », finché ognuno di questi può venir inserito in una « regola dell'esperienza » e si può quin-di stabilire quale effetto vi « sarebbe » stato da uoi postulati piuttosto nell'elemento etereo del pensiero. Poiché due armi principali che il pensiero possiede, e cioè il procedimento logico­ concettuale e quello empirico-induttivo, in ultima analisi vengono a contrasto l'uno con l'altro, poiché i risultati del puro logicismo pos­ sono essere revocati in dubbio dalla esperienza, e quelli · del puro em­ pirismo dalla riflessione logica e conoscitivo-teoretica. Lo storico, per lo meno quello che non crede di aver ancora soddisfatto al suo com­ pito con la semplice descrizione e concatenazione causale di avveni­ menti, viene di continuo trascinato nel vortice di questi problemi. Egli non può dirsi appagato dalle soluzioni che gli porgono i filosofi, giacché in ognuna di esse, anche in quelle che maggiormente lo con­ vincono, scorge un punto debole, una X insoluta o solo apparente­ mente risolta. Con i propri mezzi conoscitivi egli non può d'altronde arrivare molto lontano ; il succhiello adoperato dalla filosofia e dalla storia trafora gli strati piu molli ma si spezza contro la roccia pri­ mordiale delle cose. Tutto ciò che lo storico può fare è di presentare i fatti particolari del mondo storico, dei quali noi attendiamo da lui una perspicua riproduzione, prospettati nella luce delle forze supe­ riori universali che operano e si realizzano in essi, cioè di mostrarci il concreto « suh specie aeterni » ma questo sommo ed eterno nella sua propria essenza e nel rapporto con la realtà concreta egli non è in grado di determinarlo definitivamente. Egli può dire soltanto che nella vita storica gli sta dinanzi un mondo unitario si, ma a doppia polarità, un mondo quindi che abbisogna di ambedue i poli che, come tali, si contrappongono in maniera assoluta e apparente­ mente inconciliabile ; tuttavia la vita storica che giace tra di loro viene sempre determinata da entrambi a un tempo, anche se entrambi la influen�ano sempre con la medesima forza. Il compito dello storico sarebbe facile, se egli si potesse accontentare di quella semplice con­ cezione dualistica del rapporto tra natura e spirito, quale risponde alla tradizione cristiana e moralistica dei primi secoli. In questo caso non avrebbe che da rappresentare la lotta tra luce e tenebre, tra peccato e grazia, tra ragione e mondo sensibile, alla siregua di un cronista di guerra che naturalmente si colloca nel campo della ragione e sa distinguere esattamente l'amico ·dal nemico. Comunemente si scriveva la storia con tale criterio, ch'è diffusissimo ancor oggi. Ogni storia moralizzante e tendenziosa rientra in questo genere, con la differenza che diversificano le tendenze e le opinioni su ciò ch'è ragione e luce. -

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Ma la storia scientifica · ha superato il grossolano dualismo, non il dualismo in genere, perché la polarità di natura e spirito si impone sempre inevitabilmente. Senonché si insinua a un tempo la misteriosa, impressionante e spesso conturbante esperienza che natura e spiritc non sono cosi facilmente distinguibili tra di loro, come amico e nemico in guerra, e che spesso invece sono fusi l'uno nell'altro. Sono appunto queste zone intermedie crepuscolari tra ciò ch'è elementare e ciò ch'è ideale, che eccitano la riflessione profonda dello storico e lo pongono in permanenza di fronte al dilemma, se abbia da foggiarsi una vi­ sione . dualistica o monistica della vita. A ogni modo rimane suo com­ pito quello di cogliere tutti i fili e i passaggi visibili tra l'elementare e l'ideale. II prodigioso e l'enigmatico delle bipolarità comincia là dove ·d alla consueta connessione meccanica di causa e di effetto sorge una coe­ rente unità di Vita, una entelechia. o, come la definisce lo storico ,per il suo campo, una individualità storica, nella quale un'idea direttiva, nata spontaneamente, · compone le parti in un tutto e, avvalendosi della connessione causale ma anche sempre piti dominandola, tende a realizzare se stessa. La connessione causale tuttavia non si lascia mai dominare del tutto dall'idea, pervade tutte le fibre e le vene dell'essere organico, che senza di essa non sarebbe affatto possibile, ma solo con essa neppure è possibile o per lo meno non è compren­ sibile per noi. Lasciamo da parte la questione ardua ed oscura della relazione tra le formazioni organiche e le entelechie della natura e quelle della storia, perché qui ci interessa soltanto la piti importante e piu vitale di queste formazioni storiche e cioè lo stato. La ragion di stato è la sua idea di vita, la sua entelechia. Consideriamo dun­ que ancora una volta il suo svolgimento che dalle tenebre s'innalza la luce. L'origine della ragion di stato va ricondotta a due fonti, all'istinto personale di potenza · del dominatore e al bisogno del popolo soggetto, chè si lascia dominare per ricevere in cambio dei compensi e che con i suoi propri istinti latenti di potenza e di vita alimenta insieme quelli del dominatore: Per tal modo, dominatore e dominati sono stretti · da un medesimo vincolo e cioè dal bisogno primigenio di associarsi. Conquistato che si sia il potere su di un popolo, questo potere richiede, per sua natura, di essere esercitato, se preme il man­ tenerlo. In quanto esiste va organizzato, in quanto è organizzato diventa una grandezza autonoma, un qualche cosa di superindivi­ duale che richiede cure, ci asservisce e asservisce sopra tutto colui che l'ha . cercato e voluto. II dominatore diventa lo schiavo del pro­ prio potere, i fini del potere cominciano a limitare l'arbitrio per" sonale ; è giunto il momento della nascita della ragion di stato. ·

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Si è giustamente osservato che per quanto in realtà sia nella natura del potere di dominare ciecamente, pure nella vita ciò ap­ pare rara eccezione. Un potere che si effonda ciecamente distrugge se stesso ; esso deve . seguire certe regole e convenienze, dirette ad un fine, perché possa mantenersi e accrescersi. Prudenza e violenza devono quindi unirsi nell'esercizio del potere. In seno alla ragion di stato si forma cosi quel centro unitario, precedentemente caratteriz­ zato, ch'è sempre minacciato e scosso ·dalla naturale cecità e sfrena­ tezza dell'istinto elementare del potere, ma anche sempre reintegrato dal riconoscimento forzato di quella linea di azione che il momento consiglia come la piu conveniente allo scopo, dalla convinzione della « necessità di stato » che dice al dominatore : tu devi agire cosi per conservare il potere sullo stato, che ora è nelle tue mani, e ti è le­ cito agire cosi perché non esiste altra via che conduca alla meta. Sorge per tal modo una entelechia superpersonale, che trasporta �hi agisce, al di là delle sue intenzioni, ma che è anche sempre alimen­ tata e condeterminata dagli impulsi e dagli interessi di lui. Ciò si dimostra già nel rapporto tra il dominatore e i soggetti. Fin dal principio si instaura tra di loro una certa comunanza di in­ teressi la quale concorre prima di tutto a moderare l'istinto del po­ tere nel . dominatore. Questi infatti è costretto a servire in qualche maniera anche gli interessi dei soggetti, in quanto anche su ciò pog� gia l'esistenza dell'intero organismo del potere, perché un popolo con­ tento, produttivo e capace è fonte di potenza. Senonché, egli può servire, e in realtà servirà al popolo, fintanto che il suo sistema di dominio, e quindi la sua posizione di dominatore, e l'interesse per­ sonale di dominio lo concederanno. La ragion di stato costringe l'istinto del potere a soddisfare e�igenze generali, ma esso istinto, a sua volta, contiene tale soddisfacimento entro determinati limiti. L'entelechia superpersonale, una volta creata, è però d'immensa importanza e conduce via via verso piu alti valori. Si serve a una causa superiore che si innalza molto al di sopra della vita indivi­ duale, non si serve piu esclusivamente a se stessi. Questo è il punto decisivo dove comincia la cristallizzazione in forme piu nobili, ·dove ciò che dapprima passava soltanto per necessario e utile comincia ora a essere sentito anche come bello e buono ; finché lo stato da ultimo appare un'istituzione etica atta a promuovere i massimi beni della vita e la volontà istintiva di vita e di potenza di una nazione si cangia nell'idea nazionale moralmente intesa, cioè in quella che vede nella nazione il simbolo di un valore eterno. La ragion di stato dei dominatori si nobilita cosi in gradazioni impercettibili e diventa l'a­ nello di congiunzione tra cratos ed ethos. Lo storico che segue con profondo sentimento questi trapassi e questo mutarsi degli istinti natu-

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rali in idee - quanto pochi purtroppo sono tra di noi quelli che lo fanno ! - torna sempre ad essere colpito dagli oscuri enigmi della vita e precipitanò in singolari e problematici stati d'animo. Egli si sente preso sovente dalle vertigini e cerca un sostegno nella sua via. Qui, piti che altrove, ha bisogno di una propria intuizione del mondo. Deve egli accontentarsi della risposta inconsiderata del positivismo, che spi�ga questi trapassi come un sempre · migliore e piti abile adatta­ mento ai · fini della propria conservazione e che nelle ideologie spiri­ tuali e morali non vede altro che una soprastruttura di accomoda­ menti utilitari? ciò ch'è solamente utile e necessario non potrebbe mai condurre oltre la tecnica stazionaria degli animali e delle asso­ ciazioni animali. Il bello e il buono non possono esser dedotti dal mero utile, ma sgorgano dalle attitudini autonome dell'uomo, dal suo sponta­ neo impulso a spiritualizzare ciò ch'è solo naturale, a eticizzare ciò ch'è meramente utile. Anche se nel loro sviluppo sono legati cau­ salmente da uno stretto e indissolubile rapporto con gli istinti e le inclinazioni basse dell'uomo, per l'intima esperienza di vita, che pe­ netra qui ben piti addentro ·del positivismo, attento soltanto alla pura causalità, il bello e il buono si staccano dagli istinti come una cosa che è in sé peculiare e originaria. Come nell'uomo possano sussistere una connessione causale e una diversità essenziale di inclinazioni igno­ bili e nobili di natura e spirito, è per l'appunto ciò che forma l'oscuro mistero della vita. Senonché la fede in una potenza che esige servizio e dedizione dall'uomo, è sempre quella a cui si attaccano l'elemento spirituale e il morale. La storia dell'idea della ragion di stato ne mostrerà la evidenza, ma discoprirà a un tempo anche l'eterno vincolo dell'uomo alla natura, il ripetuto ricadere della ragion di stato nelle forze eleme ntari fondamentali. È vero che tutti i complessi di costruzione umana rivelano la doppia polarità di natura e spirito, e ciò che in esse si denomina « civiltà » è anzi in costante pericolo di ricadere nel naturale, nel « regno del peccato » . Ma lo stato, a suo discapito, si differenzia da tutte le altre organizzazioni della civiltà per il fatto che queste ricadute nel naturale non derivano soltanto dalla debolezza personale degli uomini che reggono Ùna tale organizzazione, ma sono causate insieme dalla struttura e ·dall'esigenza di vita dell'organizzazione stessa. Ogni altra comunità o associazione legale, dalla Chiesa sino alla piti comune società, fonda la propria costituzione sull'esigenza della vali­ dità assoluta di certe norme ideali. Qualora le �orme vengano intac­ cate, sono i singoli che si rendono colpevoli verso lo spirito dell'intui­ zione : questo spirito stesso però conserva intatta la sua purezza. Ma proprio nell'essenza e nello spirito della ragion di stato sta ·di do-

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versi macchiare incessantemente di violazioni a danno del diritto e della morale, non foss'altro col mezzo della guerra che a lei sem­ bra indispensabile, ma che è sempre un'irruzione dello stato di na­ tll!a nelle norme ·della civiltà, nonostante le forme giuridiche di cui la si voglia rivestire. Lo stato cosi sembra costretto a peccare. Il sentimento morale si ribella di continuo a queste anomalie, ma senza alcun successo nella storia. La realtà piu terribile e impressionante della storia universale è appunto questa : che non si riesce a eticiz­ zare radicalmente proprio quella collettività umana, che racchiude in sé tutte le altre comunità, le protegge, le promuove e comprende tutto ciò che vi è di piu ricco e di piu vario nella civiltà, per cui dovrebbe eccellere sopra le altre tutte per la purezza della sua essenza. L'azione ottundente dell'abitudine e il senso, piu o meno chiaro, di trovarsi di fronte a delle barriere insormontabili per l'umanità, rendono tollerabile questa situazione alla maggior parte degli uomini. Ma né la speculazione storica, né quella filosofica e religiosa possono limitarsi ad accettare passivamente questo stato ·di cose. Certo la storia non può rendersi utile alla civiltà creando delle norme e degli ideali positivi d'azione ; essa persegue anzi esclusivamente l'ideale della pura contemplazione, il valore della verità ; lo comprometterebbe e degenererebbe in storia tendenziosa se volesse porsi immediatamente al servizio del bello e del buono. Mediatamente lo fa, in quanto tutti i valori spirituali della vita operano in sostanza l'uno per l'altro, anzi co� una maggiore profondità e·d efficacia in quanto tendono soprat­ tutto e decisamente ·a realizzare soltanto s e stessi. La trattazione sto­ rica del problema della ragion di stato, che noi · vogliamo tentare, ha dunque da tenersi lontana da ogni mira moralizzante. L'effetto mo­ rale in seguito non mancherà. Si tratta ancora di chiarire, e questa volta in maniera piu pre­ cisa, perché lo stato, il custode del diritto, sebbene obbligato come ogni altra collettività ad attribuire validità assoluta al diritto e alla morale, non li possa tuttavia attuare nella sua condotta pratica. Il potere è elemento essenziale allo stato, che senza di esso non può adempiere al suo compito ·di tutelare il diritto e di proteggere e pro­ muovere la comunità popolare. Tutte le altre comunità abbisognano del suo potere per svilupparsi indisturbatamente e per assoggettare la bestia ch'è nell'uomo. Lo stato solo possiede tale poterè in tutta l'estensione dei mezzi fisici e spirituali. E appunto perché tutte le altre comunità sono bensi costrette a usare del potere, ma non sono chiamate, per loro natura, né atte ad avere una propria potenza fisica, esse restano libere dalle tentazioni · del potere. Il potere veramente non è « in sé malvagio », come affermarono lo Schlosser e il Bur" ckhardt, ma è- simile alle . forze elementari della natura ed è i:i:tdiffe-

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rente al bene e al male. Ma chi lo possiede è pertanto in continua tentazione morale, di abusarne e di estenderlo oltre i confini della morale e ·d el diritto. Questo l'abbiamo veduto esaurientemente nel­ l'esaminare l'azione informata alla ragion di stato. Si può dire che è una maledizione che grava sul potere, u·na maledizione ineluttabile. E appunto perché lo stato ha bisogno di mezzi piu elementari e natu­ rali che ogni altra comunità, è per sua natura in condizioni piu difficili per moralizzarsi radicalmente. Questa moralizzazione radicale delle altre comunità non significa però che la loro pratica è immacolata, ma semplicemente che lo sono le loro norme e i principi d'azione. Perché non può raggiungere al­ lora anche lo stato almeno questa purezza di norme e di leggi di movi­ mento ? Perché non esiste almeno una limpida teoria della vita poli­ tica per quanto la pratica rimanga inquinata ? Si è tentato ripetu­ tamente di costruire una tale teoria di purezza che sottoponga conse­ guentemente lo stato alla legge morale e al precetto ·del diritto, ma, come si è detto dianzi, senza alcun frutto storico. Chi cerca di ricavare la teoria dell'azione politica dalla peculiare essenza storica dello stato, come del resto deve farsi, urta sempre contro quel punto debole dell'azione informata alla ragion di stato, dove apparentemente come forza coercitiva porta lo stato a passare i limiti del diritto e della morale. Esso si trova nell'azione dello stato verso l'esterno, non verso l'interno. Nell'interno la ragion di stato può armonizzare col diritto e la morale, perché ciò è possibile ed eseguibile, in quanto nessun altro potere ostacola il potere dello stato. Le cose non anda­ rono sempre cosi ; questo è soltanto un risultato dell'evoluzione sto­ rica. Finché l'autorità politica non aveva concentrato nelle sue mani ogni potenza fisica interna, finché doveva lottare nell'interno con po­ tenze rivali e opposte, essa era sempre tentata e, secondo lei, spesso costretta a combatterle con mezzi illegali e immorali. E ogni rivolu­ zione che ha da sedare rinnova in lei, anche oggi, questa tentazione, ma con la differenza che vi reagisce un sentimento morale piu raffi­ nato e la forma della legislazione eccezionale permette di legalizzare i mezzi inusitati che lo stato adopera in simili casi. A ogni modo sta anche nell'interesse proprio dello stato di ubbidire esso pure alla legge da esso data, e ·di promuovere, educare, col proprio esempio, la mo­ ralità dei cittadini al suo interno. Morale, diritto e potere possono dunque operare armonicamente nell'interno dello stato e giovarsi a vicenda. Ma quando lo stato entra in rapporto con altri stati ciò non è p in possibile . . Il diritto è salvaguardato soltanto se esiste un potere che sia in grado e disposto a garantirlo. Diversamente subentra lo stato di natura in cui ognuno cerca di conquistarsi quello che reputa pro-

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prio diritto con i mezzi di potenza di cui ·dispone. Hegel dice : non v'è pretore che possa pronunzi�re una sentenza sugli stati ed eseguirla d'autorità. Egli non saprebbe neppure a che codice attenersi perché gli interessi vitali degli stati, in lotta tra di loro, si beffano in genere delle massime giuridiche generalmente riconosciute. Con ciò sòno a­ perte le porte all'elementare sfogo di violenza degli stati, in lotta fra loro, e tutte le tentazioni morali dell'istinto del potere trovano piu libero campo d'azione. Ora la ragion di stato torna a manifestare in questa situazione la sua interna duplicità e contrad·dizione, in quanto deve temere pr�prio quelle forze elementari alle quali ha allentato il freno. Dove si pratica esattamente la ragion di stato, il piu libero spiegamento del potere deve veramente essere semplicemente· il mezzo per far valere, mediante la forza, le necessità vitali dello stato che non si possono garantire per via giuridica. Senonché questo mezzo, una volta liberato dai ceppi giuridici, minaccia di imporsi come fine a se stesso e di trascinare lo stato oltre i limiti ·di ciò che gli neces­ sita. Gli eccessi della politica di potenza allora prendono piede, l'irra­ zionale soffoca il razionale. Quella utilità puramente tecnica che, come esponemmo, costituisce quasi il nucleo centrale della ragion di stato, non ha appunto la forza di arginare sempre con efficacia gli impulsi elementari del potere. Tuttavi� · ha forse maggior forza che le idee etiche, le quali accedono alla ragion di stato quando questa è salita alla sua forma suprema. Ragioni di utilità e moralità, operanti di conserva, non poterono finora produrre, nella vita internazionale degli stati, altro che la forni.a precaria del ·diritto delle genti e quella, non meno precaria, della moderna società delle nazioni. E nonostante il diritto delle genti e la società delle nazioni, gli eccessi della politica di potenza di quegli stati, che non hanno da temere un tribunale superiore o uno piu potente sopra di sé, continuano fino ad oggi. È vero che nel corso dei secoli sono subentrate ulteriori trasforma­ zioni nella natura e nello spirito della politica di potenza, che si possono far risalire, seppure non esclusivamente, all'influsso delle idee morali. Ma si può avanzare la ·domanda se tutto quello che si è rag­ giunto in fatto di nobilitazione e umanizzazione della politica di po­ tenza e del suo mezzo piu importante, la guerra, non venga contro­ bilanciato da altri effetti funesti della civiltà, cioè dalla progressiva razionalizzazione e tecnicizzazione della vita. A questa domanda ri­ sponderemo alla fine della nostra esposizione, assieme a tutto quello che si può dire soltanto dopo aver chiarito il processo di svilupp o dell'idea della ragion di stato. Ma è bene considerare ancora piu da vicino quella forza coerci­ tiva che induce la ragion di stato a varcare, nella vita internazionale degli stati, i confini del diritto e della morale. Lo stato, come dicemmo., ·

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·deve conquistarsi da sé quello che crede suo diritto e sua esigenza vitale, perché nessun altro glielo procaccia, non esistendo una potestà politica che si erga giudicatrice e pacificatrice al ·di sopra degli stati. Perché allora il ben inteso interesse degli stati medesimi, in collabo­ razione con moventi etici, non potrà indurre gli stati ad accordarsi, a limitare spontaneamente i metodi della loro politica di potenza, a osservare il diritto e la morale, a elaborare infine le istituzioni del diritto delle genti e della società delle nazioni, fino alla loro com­ pleta e soddisfacente efficienza ? Perché nessuno si fida ·di andar in­ ·contro all'altro. Perché ognuno è pro.fondamente convinto che l'altro non osserverebbe i termini pattuiti in tutte le situazioni, incondiziona­ tamente, ma obbedirebbe, in certi casi, al suo naturale egoismo. La prima ricaduta nell'immoralità, che uno stato commettesse, nell'ansia e nella paura · per il proprio bene, e che fosse coronata da successo, manderebbe a rotoli tutto l'affare e rovinerebbe la reputazione della politica fondata sulla morale. Anche chi volesse condurre la politica estera del proprio stato mediante mezzi eticamente incensurabili, do­ -vrebbe pur sempre vigilare che altri non faccia il contrario, nel qual caso si sentirebbe subito dispensato dalla legge morale secondo la nota frase « à corsaire corsaire et demi » e ricomincerebbe l'antico an­ tichissimo gioco. Ciò che rende apparentemente inattuabile una riforma è la con­ vinzione pessimistica, che risale alla vita istintiva e ha avuto la sua -conferma dall'esperienza storica, che sia impossibile emendare la vita politica. L'idealista l'esigerà e lo dichiarerà possibile. L'uomo di stato, che deve rispondere delle proprie azioni e sente il peso della respon­ sabilità verso la collettività, sarà tratto a dubitare della sua attuabi­ lità, anche se idealista convinto, e sarà spinto ad agire in corrispon­ denza al suo dubbio. Siamo obbligati pertanto a riconoscere un'altra -volta che (< la necessità di stato », la quale scuote da sé il giogo del diritto e della morale, rivela un aspetto etico e uno elementare in­ sieme, e che lo stato è un anfibio che vive contemporaneamente nel mondo etico e in quello di natura. Anche l'uomo e ogni creazione umana sono anfibi consimili, ma lo stato li soggioga, punendo ogni abuso d'istinti naturali, se non altro in quanto offendono le leggi. Senonché lo stato si trova costretto a sua volta a usare e abusare insieme di un istinto naturale. -

(F. MEINECKE, L'idea della ragion di dato nella storia moderna, trad·. D. Scolari, Firenze, La Nuova Italia, 1970, pp. 1-16).

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6. IL COMPITO ODIERNO DELL' UOMO DI STATO Soltanto decidendosi a vedere politica di potenza e ragion di sta­ to nella loro vera problematica e disarmonia, si giungerà a una dot­ trina non solo piu vera, ma anche migliore, e avente ·degli effetti piu morali. Entro l'ambito dell'azione secondo la ragion di stato sono possibili infiniti gradi di graduale mescolanza di avvenimenti elemen­ tari e morali. Ma la dottrina di una morale di stato speciale, che persino Troeltsch ancora nel 1916 chiamò profonda, è ingannevole. Perché essa riguarda solo il caso singolo di un avvenimento molto piu generale, cioè del conflitto di moralità individuale e generale. È stata la grande scoperta della generazione ·di Schleiermacher, in opposizio­ ne ancora con quella di Kant, l'aver trovato e giustificato l'indivi­ duale nell'azione morale. In ogni uomo, in ogni momento del suo agire, si presenta l'ideale universale, puro e rigido, della moralità di un mondo del tutto individuale, mescolato di elementi naturali e spirituali. Ne risultano dei conflitti di tutti i generi, che non si pos­ sono sempre comporre in maniera unica e chiara. La salvezza e la conservazione della propria individualità è poi certamente anche un diritto a un'esistenza morale, se giova alla salvezza dell'elemento spi­ rituale di essa. Ma se essa avviene nello stesso tempo a spese della legge morale comune, come spesso accade, si ha colpa tragica. Essa si deve giudicare in maniera umanamente libera e grande, senza fari­ seismo, ma con rigido mantenimento della legge morale comune. Perché l'etica individuale, che si vuole affermare di fronte alla gene­ rale, non è mai, ciò che non si dovrebbe trascurare, etica pura come quella, ma sempre essenzialmente imbevuta di elementi egoistici, na­ turali, di bisogno di potere. A ogni individuo occorre, per potersi af­ fermare, un minimo di potere. Questo deve, è questa l'aspirazione dell'etica individuale, .servire al perfezionamento spirituale e morale dell'individuo ; il servo rimane raramente puro servo, egli vuole in­ sieme regnare, e colora cosi tutto il suo agire secondo norme indi­ viduali, del suo colore terreno-naturale. Noi abbiamo mostrato, spe­ cialmente con la ragion di stato, la legge individuale di vità degli stati, come questo oscuro elemento naturale giunga fino agli sviluppi piu alti e piu morali nel modo d'agire di un uomo di stato. Ma lo si può anche dimostrare in ogni azione personale secondo norme indi­ viduali. Il riconoscimento dell'individuale nell'etica ha reso la vita morale piu ricca, ma anche pericolosamente ricca. Un'etica complicata offre piu tentazioni della vecchia etica semplice, fino all'imperativo catego­ rico di Kant. In questa, nell'etica generale, nella legge morale univer­ salmente obbligatoria, il divino nell'uomo parla a lui in maniera pura

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e genuina. Nell'etica individuale egli lo sente, unito agli oscuri suoni accessori della natura. Quella è la piu sacra e la pm severa, questa la piu viva. Perché vita altro non è che la misteriosa comu­ nione di spirito e natura, che casualmente sono uniti tra di loro, e pure si staccano sostanzialmente l'uno dall'altra. È questo il risul­ tato dualistico cui è giunto il pensiero moderno, dopo un secolo di difficilissima e ricchissima esperienza, dopo che ha visto tanto il moni­ smo idealistico come quello naturalistico, tanto la filosofia di identità come il positivismo, affaticarsi invano per spiegare il quadro del mondo. Una spiegazione non la può dare neppure il dualismo, ma esso ben può mostrare i fatti piu nudi e piu esatti di quanto lo possa fare un monismo qualsiasi. Rispetto profondo dinanzi all'imperscrutabile e dinanzi alla legge morale nell'anima, che erano le norme del Ranke, devono rimanere anche le norme del pensiero moderno, ma il dualismo mascherato� con cui egli si aiutò e coperse il lato oscuro della vita, deve essere spo­ gliato del suo involucro. Parlare di una speciale morale di stato induce in tentazione di seguire le orme di Hegel e di proclamare che la morale di stato è la piu alta. L'uomo ·di stato che, nel conflitto di politica e di morale, crede di dover salvare l'individualità dello stato a spese della morale, non agisce secondo una morale di stato speciale, ma secondo un'etica individuale piu ampia. Che nello stesso tempo l'agire per delle individualità ·collettive porti con sé delle tentazioni maggiori che l'a­ gire per la propria individualità, lo mostrammo prima contro Treit­ schke. Dal modo personale con cui l'uomo di stato risolve contem­ poraneamente in sé il conflitto tra legge morale e interesse dello stato, dipende se si possa chiamare la sua decisione per l'interesse statale un'azione morale oppure no, se l' errore, come disse il Ranke� sia giustificato davanti a se stesso. Ma il suo agire rimane nondimeno tragicamente colpevole. Se guardiamo ora indietro alla storia complessiva del nostro pro­ blema, si mostra allora un ritmo singolare, una dialettica interna nel suo sviluppo. Il Machiavelli fece vedere la ragion di stato illi­ mitata per QJ.ezzo di una visione mondiale in sostanza ingenuamente monistica. Il bisogno di trovare dei limiti alla demoniaca forza natu­ rale ·della ragion di stato, condusse a un dualismo incompleto e inor­ ganico tra principi praticamente empirici e principi cristiani secondo il diritto di natura. E l'etica cristiana, che piu aspramente di tutte si oppose alla ragion di stato Illimitata, era da parte sua dualistica già di natura. La monistica e panteistica filosofia hegeliana dell'iden­ tità, vinse le imperfezioni del dualismo d'allora, e portò nuovamente in onore il nocciolo delle dottrine del Machiavelli. Tra le conseguenze

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della filosofia dell'identità, rimase viva, in Germania, la particolare sanzione dell'idea del potere. Mentre ci rendiamo oggi conto dell'uni­ lateralità e del pericolo di questa sanzione, arriviamo involontaria­ mente, « fert unda nec regitur », appunto a un nuovo dualismo, che però si sforza di essere piu completo e piu organico di quello di pri­ ma. Del pensiero monistico egli prende ciò che è innegabilmente giu­ sto in esso, l'inseparabile unità causale di spirito e natura, ma man­ tiene altrettanto innegabile essenziale diversità di spirito e natura. La­ sciamo insoluta, perché essa è insolubile, la incognita, che spiega nello stesso tempo questa unità e questo contrasto. In avvenire altre generazioni potranno forse cercare di giungere nuovamente a una nuo­ va filosofia dell'identità e cosi si può sempre nuovamente ripetere la oscillazione del pendolo tra idea dualistica · e monistica del mondo. Una cosa è, in ogni modo, sicura, che il monismo, sia esso spontaneo o riflesso, idealistico o naturalistico, non deve ma può divenire il ter­ reno di una ragion ·d i stato illimitata, mentre i suoi limiti possono ricercarsi soltanto su una qualsiasi via dualistica, . sia essa perseguita consciamente ovvero inconsciamente. Si possono rapidamente fare ul­ teriori deduzioni. Ragion -di stato, politica di potenza, machiavelli­ smo e guerra, non si potranno mai eliminare dal mondo, perché essi appartengono inseparabilmente al lato naturalistico della vita dello stato. È anche da riconoscere ciò che la scuola storica tedesca ha sem­ pre insegnato, che cioè la politica di potenza e la guerra possono agire non solo in maniera distruttiva, ma anche in maniera creativa, che dappertutto il bene sorge dal male, dall'elementare, lo spirituale. Ma ogni idealizzazione di questo fatto è da evitarsi. Non una sottigliezza della ragione, ma un 'impotenza della ragione si mostra in essa. Essa è incapace ·di vincere per forza propria. Essa b€m porta fuoco puro dall'altare, ma ciò che essa accende non è fiamma pura. « Io non esito, dannandomi », ha detto Goethe a questo propo­ sito, il quale, per ogni manifestazione della natura divina non ha nondimeno mai dimenticato le sue .oscure profondità demoniache. Egli lo sapeva : « Chi agisce è sempre senza coscienza ». Con la falsa idealizzazione della politica di potenza, deve anche cessare la falsa adorazione dello stato, che agisce ancora nel pensiero tedesco fin ·dal tempo di Hegel, malgrado l'opposizione del Treitschke . contro di essa. Ciò non significa che si debba ripudiare lo . stato dall'alto rango dei valori vitali, cui esso aspira. Quelle di vivere e di morire in esso, che comprende e difende tutte le reliquie della na­ zione, di contribuire alla sua spiritualizzazione, di intrecciare in esso la propria esistenza personale e di elevarla con ciò intimamente, sono le alte aspirazioni, che hanno guidato lo spirito tedesco fin dal tempo ·della sollevazione tedesca, e valgono piu che mai oggi, in . cui lo stato

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tedesco giace al suolo, profanato da mani straniere e proprie. Lo stato deve diventar morale e aspirare all'armonia con la legge morale uni­ versale, anche se si sa che non potrà mai raggiungerla del tutto, che deve sempre nuovamente peccare, perché la dura necessità naturale ve lo· costringe. L'uomo di stato moderno deve tendere tanto piu fortemente il suo discorde senso di responsabilità verso lo stato e verso la legge morale, quanto piu terribile e pericolosa appunto la civiltà moderna, come vedemmo, è divenuta per l'azione secondo la ragion ·di stato. Motivi utilitari ed etici devono cooperare a opporsi, nell'azione statale, al pre­ potere delle tre potenze, e a ridar ali'uomo di stato quella libertà e indipendenza d'azione secondo una ragion di stato purificata e veramente saggia, che un Bismarck ha posseduto, che nella monarchia da tempo consolidata era piu facile raggiungere che nelle democra­ zie del tempo presente, spinte ·da passioni di masse. L'antica monarchia, dopo che essa è una volta crollata non si può piu ristabilire o si può farlo soltanto con pericoli incalcolabili per l'avvenire statale. Il 9 novembre 1918 la scintilla della ragion di stato tedesco balzò coercitivamente dalla monarchia alla repub­ blica. Ma ora per l'àppunto la bene intesa ragion di stato della repub­ blica democratica richiede anche di dare al potere statale con base plebiscitaria tanta indipendenza e libertà, quanta è conciliabile con questa base. L'erezione di una forte presidenza plebiscitaria offre al go­ verno secondo la ragion di stato purificata, maggiori garanzie ·del parlamentarismo. Questo spinge bensi, come si espresse il Vorwarts (l'Avanti) in occasione della caduta di Stresemann, il 23 novem­ bre 1923, i partiti « attraverso il mulino del governo » e « ostacola l'attività dei demagoghi nelle prossime elezioni », vale a dire, esso riem­ pie fuggevolmente i suoi conducenti fintantoché governano, di ragion di stato, ma ciò non dura, e l'aria della ragion di stato assorbita, si disperde anche troppo presto nuovamente dinanzi alla paura ·del corpo elettorale. E si tratta, inoltre, anche per ragioni di bene intesa ragion di stato, di riconoscere piu coscientemente i limiti della ragion di stato e dell'egoismo statale. Solo limitandosi, purifìcandosi, e frenando in sé l'istinto naturale, la ragion di stato raggiunge il suo effetto migliore e piu duraturo. Buon per lei se le condizioni oggettive di potere del mondo le impongano per se stesse già ·dei limiti. Una mancanza di mezzi di potere è per la vita degli stati tra di loro, come vedemmo, altrettanto pericolosa quanto una sovrabbondanza di essi, special­ mente se questa si accumula in un posto solo, e non ci sono affatto o ci sono soltanto dei contrappesi insufficienti, per ristabilire quello stato di equilibrio che tiene le forze contemporaneamente in una sana

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tensione ed entro sani limiti. Lo stato potente dovrebbe desiderare nel suo stesso interesse che stati potenti vivessero accanto a lui, affin­ ché ognuno fosse tenuto in freno dagli altri, ma fosse in pari tempo costretto a mantenersi in efficienza. Tutto som.i:nato, vale anche per la vita delle potenze, che la misura è la cosa migliore in tutto. E ciò vale principalmente anche per il caso che l'uomo di stato responsabile creda, per la salvezza della patria, di dover ricorrere alle armi di Machiavelli. Una simile risoluzione, nelle condizioni su­ percoltivate e imperscrutabili della civiltà moderna, è molto piu a doppio taglio ancora che nel passato. L'invasione del Belgio ci ha piu nociuto che giovato. Lo sfrenato egoismo di stato che la Francia eser­ citò finora, minaccia di rendere insanabile la catastrofe che si abbatté sull' Occidente. Soltanto nella comunanza familiare degli stati può prosperare durevolmente anche il singolo stato, e cosi esso deve eri­ gere la propria politica di potenza sul riconoscimento che anche i nemici hanno un loro intimo diritto alla vita, e che i veri, bene intesi interessi degli stati, non solo ·dividono, ma anche uniscono. Quel sentimento della comunità europea che era la premessa del giu­ dizio che il Ranke recava sulle lotte di potere europee, e che era la bella e benefica conseguenza dell'idea medioevale del corpus christia­ num, deve essere nuovamente guadagnato. È necessario, come si espres­ se il Troeltsch nel suo discorso del 1922, « un ritorno al pensiero e al sentimento storico universale ». Se mai la vera lega delle nazioni possa divenire realtà, si può mettere in dubbio che faccia il bilancio delle forze naturali e delle forze della ragione della vita della storia. Essa richiede dei sacrifici di sovranità dai singoli membri, che sono sopportati soltanto se tutti siano compresi dagli stessi . sentimenti · di cameratismo e dalla stessa ragion di stato purificata. Ma ·dov'è la garanzia di ciò, vale a dire, chi deve vegliare su di essa ? Se il piu potente assume su di sé questo compito, la lega delle nazioni corre subito il rischio, di degenerare a veicolo del suo potere e dei suoi interessi. Nondimeno nel terribile dilemma in cui si dibatte ora il mondo, ·di cader vittima in caso contrario di un terribile machia­ vellismo, non resta altro che tendere onestamente alla vera lega delle nazioni, e fare almeno il tentativo di salvare il mondo per questa via. Può forse accadere in questo caso che non una vera lega delle nazioni, ma l'egemonia mondiale delle potenze anglosassoni, nelle cui mani si concentra già ora in modo latente, il piu grande . potere fisico della terra, ponga fine all'era dei liberi combattimenti di popoli, del­ l'« anarchia internazionale », non sarebbe in alcun modo ideale, ma sempre ancora piu sopportabile, per la vita propria delle nazioni, che il flagello dell'egemonia continentale francese. Ma non spegnerebbe, quest'è l'ultima domanda da farsi, con lo

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spegnersi delle lotte per il potere, anche la vitalità intima e la forza plastica degli stati, l'eroismo e lo spirito di sacrificio degli uomini? Non si abbasserebbero allora gli stati fino alla condizione di vul·cani spenti, o, come Spengler si esprime non impropriamente, a quella di stati « fellah »? Non sono spirito e natura concatenati in maniera tanto inscin�ibile che ogni civiltà abbisogni di un certo sottosuolo di barbarie, ogni cosa razionale dell'irrazionale ? È in genere la completa razionalizzazione della vita dei popoli e degli stati una felicità ? Non sarebbe la pace ·dei popoli piu un trionfo di una civilizzazione este­ riore, che di una civiltà genuina, nutrita della natura complessiva dell'uomo ? Questi pensieri, che già si fecero sentire in Hegel, che poi ebbero una parte nella valutazione della guerra del Treitschke, e che vengono rappresentati in forma piu rozza o piu fina dei seguaci della pura idea del potere fino a Spengler, non possono essere storicamente semplicemente confutati. Uno ·dei piu sottili pensatori stranieri viventi, la cui filosofia dello stato è in pari tempo nutrita dello spirito del Machiavelli e di Hegel, Benedetto Croce, disse dopo la guerra : « Perché mai si è fatto la guerra, se non per vivere in guisa piu piena, piu degna, piu alta, piu potente ? Tutti, vincitori e vinti, respiriamo cer­ tamente una vita spiritualmente superiore a quella ·di prima della guerra ». Noi vinti, sentiamo nei fatti, ma con intima commozio­ ne, il giusto di questa constatazione. Ma noi sentiamo anche piu fortemente del vincitore, che si trova ora dalla parte piu luminosa della vita, la terribile antinomia tra gli ideali del raziocinio morale e i fatti reali e i nessi causali della storia. Poiché l'acqua ci sale alla gola piu che a lui, vediamo forse anche piu acutamente il pericolo dello speciale momento storico in cui ci troviamo, che cioè la maledizione della guerra, della politica di potenza minacciano di soffocare i] bene che essi possono generare. Da ciò che può venir detto a loro favore, l'ideale della lega delle nazioni non può venir sra·dicato, perché sta nell'essenza stessa della ragione che essa aspiri a giungere al di là della natura, e che si ponga un simile ideale. Il bisogno cocente del tempo la rafforza in questo e richiede nuovamente e impetuosa­ mente quei limiti della ragion di stato per i quali dei secoli si sono invano affaticati. Che questa esigenza si possa anche compiere solo imperfettamente, già l'avvicinamento a un ideale irraggiungibile può essere registrato quale un guadagno. Le forze naturali della vita storica provvedono già in maniera sufficiente perché la pace sulla terra non possa avvenire tanto presto, e non c'è motivo di rinforzarle con una dottrina che esalta la lotta per il potere e il machiavellismo, né ·di spingere con ciò piu che mai nel machiavellismo gli uomini di stato. Quell'oscuro nesso causale tra spirito e natura nella vita dello

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stato, che anche noi sempre accentuammo, si dovrebbe soltanto rico­ noscere ma non esaltare, portarlo come un destino ineluttabile, ma intraprendere anche la lotta col destino ; per quanto a doppio taglio siano ogni azione storica e ogni idea che ci guida. Lo spirito moderno vede e sente forse piu acutamente e piu dolorosamente che il passato le fratture, le contraddizioni e i problemi insolubili della vita, perché gli è andata perduta la fe·de consolante nella chiarezza e nell'assolu­ tismo degli ideali umani, a cagione degli effetti dello storicismo e delle esperienze tendenti allo scetticismo dello svolgimento storico moderno. Ma è un bisogno teoretico e pratico di riguadagnare la fede in qualcosa di assoluto, perché la contemplazione pura si dis­ solverebbe senza questa fede in un semplice gioco con le cose, e l'azione pratica sarebbe irrimediahilmente in balia di tutte le forze naturali della vita storica. Ma l'assoluto si manifesta senza veli all'uomo moderno entro i limiti dell'orizzonte che egli domina, in due punti soltanto, nella pura legge morale da un. lato, nelle piu alte produzioni dell'arte dall'altro. Ben lo sente egli anche altrove, ovunque attivo nel suo mondo, ma egli non può distoglierlo dal velo transitorio in cui è involto. Noi non vediamo Dio nella storia, ma lo intuiamo soltanto nella nuvola che lo circonda. Ma ci sono fin troppe cose in cui Dio e il diavolo sono concresciuti. Vi appartiene in primo luogo, come il Boccalini ha veduto per primo, la ragion di stato. In maniera enigmatica, che conduce e seduce, essa guarda alla vita, dopo che si è resa nuovamente consapevole agli uomini, al principio della storia piu recente. La contemplazione non può stan­ carsi di guardar la sua faccia di sfinge, e non ne tocca nondimeno mai interamente il fondo. Ma all'uomo di stato essa può dire soltanto che deve portare nel cuore efficiente stato e Dio contemporaneamente, per non lasciar divenire strapotente il demonio che non può nondimeno del tutto allontanare da sé. (F. MEINECKE, L'idea della ragion di stato nella storia moderna, trad. cit., pp.

437-444),

VI.

JOSÉ ORTEGA Y GASSET

l. IL FENOMENO DELL'AGGLOMERAMENTO C'è un fatto che, bene o male che sia, è il pio importante nella vita pubblica europea dell'ora presente. Questo fatto è l'avvento delle masse al pieno potere sociale. E siccome le masse, per definizione, non devono né possono dirigere la propria esistenza, e tanto meno governare la società, vuoi dire che l'Europa soffre attualmente la pio grave crisi che tocchi di sperimentare a popoli, nazioni, culture. Questa crisi s'� verificata pio d'una volta nella storia. La sua fisio· nomia e le sue conseguenze sono note. Se ne conosce anche il nome. Si chiama la ribellione delle masse. Per l'intelligenza del formidabile fenomeno conviene che si eviti di dare, fin d'ora, ai termini « ribellione », « massa », « po­ tere sociale », ecc., un significato esclusivamente o principalmente politico. La vita pubblica non è soltanto politica, ma, in pari tempo e in prevalenza, è intellettuale, morale, economica, religiosa ; com­ prende tutti i costumi collettivi, inclusa la maniera di vestire e la maniera di godere. Forse il modo migliore di avvicinarsi a questo fenomeno storico è quello di riferirei a' un'esperienza visiva, sottolineando un aspetto della nostra epoca che è visibile con gli occhi della fronte. Semplicissimo ad essere enunciato, per quanto non sia altrettanto semplice ad essere analizzato, lo possiamo denominare il fenomeno dell'agglomerazione, del « pieno ». Le città sono piene di gente. Le case, piene d'inquilini. Gli alberghi, pieni ' di ospiti. I treni, pieni di viaggiatori. I caffè, -pieni di consumatori. Le strade, piene di passanti. Le anticamere dei medici piti noti, piene d'ammalati. Gli spettacoli, appena non siano molto estemporanei, pieni di spettatori. Le spiagge piene di bagnanti. Quello che prima non soleva essere un problema, incomincia ad esserlo quasi a ogni momento : trovar posto. Nient'altro. C'è un fatto pio semplice, piu notorio, piu costante, nella vita attuale ? Se adesso vogliamo incidere il corpo volgare di questa osservazione, ci sorprenderà vedere come da esso sgorga una sorgente insperata, dove la bianca luce del giorno, di questo giorno,

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del presente, si scompone in tutto il suo ricco cromatismo interiore. Che cosa è ciò che · vediamo, e la cui considerazione ci sorprende tanto ? Vediamo la moltitudine, come tale, che si impossessa ·dei luoghi e dei mezzi creati dalla civìltà. Ma, appena riflettiamo un po', ci sorprendiamo della nostra stessa sorpresa. Perché forse non è questo l'ideale. Il teatro ha i suoi posti perché siano occupati, e, pertanto, perché la sala sia gremita. E allo stesso modo i posti del treno e le camere d'albergo. Però il fatto è che prima nessuno di questi locali e veicoli soleva essere completo, mentre adesso rigur­ gita e resta fuori della gente ansiosa di usufruirli. E sebbene il feno· meno sia logico, naturale, non può negarsi che prima non avveniva e ora si ; pertanto deve ammetterei che è avvenuto un mutamento, un'innovazione, la quale giustifica, almeno in un primo momento, la nostra sorpresa. Sorprendersi, stupirsi, è cominciare · a capire. È lo sport e il lusso specifico dell'intellettuale. Per · questo · il suo atteggiamento distintivo consiste nel guardare il mondo con gli occhi dilatati dallo stupore. Tutto il mondo è strano ed è meraviglioso per le pupille bene . aperte. E questo meravigliarsi è la delizia negata, per esempio, al calciatore, e che, invece, porta l'intellettuale per il mondo in una perpetua ebbrezza di visionario. Il suo attributo sono gli occhi in perpetua contemplazione. Non per . nulla gli antichi assegnarono a Minerva la civetta, l'uccello con gli occhi sempre abbagliati. L'agglomerazione, il pieno, prima non era frequente. Perché lo è a-desso ? I componenti di queste moltitudini non sono sorti dal nulla. Approssimativamente, lo stesso numero ·di persone esisteva quindici anni fa. Dopo la guerra sembrerebbe naturale che questo numero fosse minore. E qui tocchiamo, appunto, la prima nota importante. Gl'individui che formano queste folle preesistevano, però non come moltitudine. Suddivisi per il mondo in piccoli gruppi o solitari, con­ ducevano una vita palesemente divergente, dissociata, distante. Cia­ scuno - individuo o piccolo gruppo - occupava un posto, forse il proprio, in campagna, nel villaggio, in città, in un quartiere della metropoli. Adesso, di colpo, appaiono sotto la forma ·dell'agglomerato, e i nostri occhi vedono dovunque moltitudini. Dovunque? No do­ vunque ; precisamente nei luoghi migliori, prodotto relativamente raffinato della nostra cultura umana, prima riservati a gruppi minori, in definitiva, a minoranze. La moltitudine, improvvisamente, s'è fatta visibile, si è installata nei luoghi migliori della società. Prima, se esisteva, passava inav­ vertita, occupava il fondo dello scenario sociale ; adesso s'è ava n-

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.zata nelle prime linee, è essa stessa il personaggio principale. Ormai non ci sono piti protagonisti : c'è soltanto un coro. Il concetto di moltitudine è quantitativo e visivo. Tra·duciamolo, senza alterarlo, nella terminologia sociologica. Allora troviamo l'idea -della massa sociale. La società è sempre una unità dinamica di due fattori : minoranze e masse. Le minoranze sono individui o gruppi d'individui particolarmente qualificati. La massa è l'insieme di per­ �one non particolarmente qualificate. Non s'intenda, però, per masse soltanto, né principalmente, « le masse operaie ». Massa è l'uomo medio. In questo modo si converte ciò che era mera quantità - la moltitudine - in una determinazione qualitativa : è la qualità comune, è il campione sociale, è l'uomo in quanto non si differenzia dagli altri uomini, ma ripete in se stesso un tipo generico. E che abbiamo guadagnato con questa conversione della quantità in qualità ? È assai semplice : per mezzo di questa comprendiamo la genesi di -quella. È evidente, perfino banale, che la formazione normale d'una moltitudine implica la coincidenza di desideri, di idee, del modo d'essere, negl'individui che la costituiscono. Si dirà che è quello che avviene in ogni gruppo sociale, per quanto pretenda d'essere sele­ zionato. Effettivamente non si può negare ; però c'è una differenza essenziale. Nei gruppi che si caratterizzano per non essere moltitudine e massa, la coincidenza sentimentale ·dei suoi membri consiste in una certa aspirazione, idea o ideale, che per sé sola e6clude il gran numero. Per formare una minoranza, qualunque essa sia, è neces­ sario che prima ciascuno si separi dalla moltitudine per ragioni speciali, relativamente individuali. La sua coincidenza con gli altri, ·che formano la minoranza, è, dunque, secondaria, posteriore, rispetto al fatto che ciascuno si è reso singolare, ed è pertanto, in buona parte, una coincidenza nel non coincidere. Ci sono casi in cui questo carattere isolazionista del gruppo viene perfino ostentato : i gruppi inglesi che chiamano se stessi « non conformisti », cioè, l'aggruppa­ mento di coloro che concordano soltanto nella loro disconformità rispetto alla moltitudine illimitata. Questo motivo d'associarsi in meno, proprio per separarsi dai piti, è sempre insito nella formazione d'ogni minoranza. Parlando del pubblico esiguo che ascoltava un .musicista raffinato, Mallarmé dice graziosamente che quel pubblico sottolineava -con la sua scarsa presenza l'assenza della moltitudine. A rigore, la massa può definirsi, come fatto psicologico, senza necessità d'attendere che appaiano gl'individui come agglomeramento. Anche per· una sola persona possiamo sapere se è massa o no. Massa è tutto ciò che non valuta se stesso - né in bene né in male - me­ diante ragioni speciali, ma che si sente « come tutto il mondo », e

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tuttavia non se ne angustia, anzi si sente a suo agio nel riconoscersi identico agli altri. S'immagini un uonio umile, che, nel tentare di valutarsi mediante ragioni particolari - nel chiedersi se ha talento per questa o per quella cosa, se eccelle in qualche attività - avverte che non possiede nessuna qualità singolare. Quest'uomo si sentirà mediocre e volgare, poveramente dotato ; però non si sentirà « massa »· Quando si parla di « minoranze elette », la consueta vigliacche­ ria è solita equivocare il senso di questa espressione, fingendo d'igno­ rare che l'uomo selezionato non è il petulante che si crede superiore agli altri, ma colui che esige piu degli altri, anche se non arrivi a rea­ lizzare nella sua persona queste esigenze superiori. E non c'è ·dubbio che la divisione piu radicale che occorre fare in seno all'Umanità è questa, in due classi di creature : quelle che esigono molto e accu­ mulano sopra se stesse difficoltà e doveri, e quelle che non esigono nulla di speciale, se non che per esse vivere consiste nell'essere a ogni momento ciò che già sono, senza sforzo di perfezione dentro di se stesse, galleggianti che vanno alla deriva. Questo mi fa ricordare che il buddismo ortodosso si compone di due religioni distinte : una, piu rigorosa e difficile ; l'altra piu fiacca e volgare : il Mahayana « grande veicolo » o « grande strada » e il Hinayana - « piccolo veicolo », « cammino minore ». Tutto sta a porre la nostra vita nell'uno o nell'altro veicolo, in un massimo o in un minimo di esigenze. La divisione della società in masse e minoranze selezionate non è, pertanto, una divisione in classi sociali, ma in classi d'uomini, e non può identificarsi nell'ordine gerarchico di classi superiori e inferiori. È vero che nelle classi superiori, quando arrivano ad esserlo, e finché lo sono effettivamente, è piu verosimile trovare uomini che adottano il « gran-d e veicòlo », mentre le classi inferiori sono normalmente costituite da individui senza qualità. Però, a rigore, nell'interno d'ogni classe sociale c'è massa e autentica mino'ranza. Come vedremo, è una caratteristica di questo tempo il predominio, anche nei gruppi la cui tradizione sia selettiva, della massa e del volgo. Cosi, nella vita intellettuale, che per la sua stessa essenza richiede e presuppone la qualità, si avverte il progressivo trionfo dei pseudo-intellettuali senza qualifica, inqualificabili o squalificati per la loro stessa struttura. Lo stesso avviene nei gruppi sopravviventi della « nobiltà » maschile e femminile. Invece, non è raro trovare oggi fra gli operai, che prima potevano valere come esempio piu puro di ciò che chiamiamo « mas­ sa », anime nobilmente e-ducate. Ebbene : esistono nella società operazioni, attività, funzioni dei piu diversi ordini, che sono, per la loro stessa indole, speciali, e, di conseguenza, non possono essere eseguite senza qualità anch'esse -

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speciali. Per esempio : certi godimenti di carattere artistico e lussuoso, oppure le funzioni di governare o di giudicare politicamente intorno agli affari pubblici. Prima queste attività speciali erano esercitate da minoranze qualificate - qualificate, almeno, come presunzione. La massa non pretendeva d'intervenire in esse : si rendeva conto che se voleva intervenire . doveva effettivamente acquistare queste doti speciali e cessare di essere massa. Conosceva la sua funzione in una sana dinamica sociale. Se adesso ci rifacciamo indietro ai fatti enunciati in principio, ci appariranno inequivocabilmente come sintomi di un cambiamen�o d'attitudine nella massa. Essi indicano tutti che questa ha deciso d'avanzare al primo piano sociale e occupare i luoghi e fruire i mezzi e godere i piaceri che prima erano patrimonio di pochi. È evi­ dente, per esempio, che · gli edifici pubblici non erano previsti per la moltitudine, dato che la loro dimensione è assai ridotta e la folla ne trabocca continuamente, dimostrando a vista e con linguaggio patente il fatto nuovo : la massa che, sen�a cessare di esserlo, soppianta le minoranze. Nessuno, io credo, deplorerà che le folle godano oggi in numero e misura maggiori che per il passato, dato che ne . hanno il gusto e i mezzi. Il male. è che questa decisione presa dalle masse di assumere le attività proprie alle minoranze, non si manifesta, né potrebbe manifestarsi, soltanto nell'ordine dei godimenti, ma essa si rivela come una maniera generale di questo tempo. Cosi - anticipando ciò che vedremo a momenti - credo che le innovazioni politiche degli anni piu recenti non significano altro che l'impero politico delle masse. La vecchia democrazia viveva temperata da un'abbondante dose di liberalismo e d'entusiasmo per la legge. A servire questi prin­ cipi l'individuo si obbligava a sostenere in se stesso una disciplina difficile. Sotto la protezione del principio liberale e della norma giu­ ridica potevano agire e vivere le minoranze. Democrazia e legge, convivenza legale, erano sinonimi. Oggi assistiamo al trionfo d'una iperdemocrazia in cui la massa opera direttamente senza legge, per mezzo di pressioni materiali, imponendo le sue aspirazioni e i suoi gusti. È falso interpretare le nuove situazioni come se la massa si fosse stancata della politica e ne devolvesse l'esercizio a persone « spe­ ciali ». Tutto il contrario. Questo era quello che accadeva nel passato, questo era la democrazia liberale. La massa presumeva che, in ultima analisi, con tutti i loro difetti e le loro magagne, le minoranze dei poli­ tici s'intendevano degli affari pubblici un po' piu di essa. Adesso, in­ vece, la massa ritiene d'avere il diritto d'imporre e dar vigore di legge ai suoi luoghi comuni da caffè. IQ dubito che ci siano state altre epo­ che della Storia in cui la moltitudine giungesse a governare cosi diret-

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tamente come nel nostro tempo. Per questo · parlo d'iperdemocrazia. Lo stesso accade negli altri ambienti, e particolarmente in quello intellettuale. Forse sono in errore ; però lo scrittore, nel prender·e la penna per scrivere intorno a un tema che ha studiato a lungo, deve pensare che il lettore medio, il quale non si è occupato mai dell'argo­ mento, se lo legge, non lo fa col proposito d'apprendere qualcosa da lui, ma al contrario, per sentenziare su di lui quando il pensiero non coincide con le volgarità che questo lettore ospita nella mente. Se gl'individui che affollano la massa si ritenessero particolarmente do­ tati, avremmo non piu che un caso d'errore personale, ma già un sov­ vertimento sociologico. Il fatto caratteristico del momento è che l'ani· ma volgare, riconoscendosi volgare, ha l'audacia d'affermare il diritto della volgarità e lo impone dovunque. La massa travolge tutto ciò che è differente, singolare, individuale, qualificato e selezionato. Chi non sia come « tutto il mondo », chi non pensi come « tutto il mondo » corre il rischio di essere eliminato. Ed è chiaro che questo « tutto il mondo » era normalmente l'unità complessa di massa e minoranze discrepanti, speciali. Adesso « tutto il mondo » è soltanto la massa. (La ribellione delle masse, trad. S. Battaglia, Bologna, Il Mulino, 1962, pp. 3-12).

2. VITA NOBILE E VITA VOLGARE, O FORZE E INERZIA Anzitutto .noi siamo ciò che il nostro « mondo » c'invita a-d essere" e i lineamenti fondamentali della nostra anima sono impressi dal pro­ filo dell'ambiente come da una forma. Naturalmente : vivere non è altro che corrispondere con il « mondo ». La configurazione ch'esso ci presenta sarà la configurazione generale ·della nostra vita. Per que­ sto insisto tanto nel far notare che il mondo donde si sono originate le masse attuali, mostrava una fisionomia radicalmente nuova nella Storia. Mentre, nel passato, vivere significava per l'uomo medio in­ contrare nell'ambiente difficoltà, pericoli, angustie, limitazioni del destino e soggezione, il mondo nuovo appare come un ambito di possi­ bilità praticamente illimitate, sicuro, dove non si dipende da nessuno. Intorno a questa impressione principale e costante si viene a formare ciascuna anima contemporanea, come intorno alFopposta si formano le antiche. Perché questa impressione fondamentale si converte in voce interiore, che sussurra senza posa come delle parole nel pili profondo della personalità e insinua tenacemente una definizione della vita che è, nello stesso tempo, un imperativo. E se l'impressione tradi­ zionale diceva : « Vivere è sentirsi limitato e, per ciò stesso, dover fare i conti con ciò che ci limita », la voce modernissima grida : « Vi-

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vere non è incontrare alcuna limitazione, e pertanto abbandonarsi tranquillamente a se stesso. In realtà, nulla è impossibile, nulla è peri­ coloso e, per principio, nessuno è superiore a nessuno ». Questa esperienza basilare modifica interamente la costante strut­ tura tradizionale ·dell'uomo-massa. Perché questo si senti sempre, nella sua costituzione, soggetto a limitazioni materiali e a poteri sociali su­ periori. Ciò era, ai suoi occhi, là vita. Se riusciva a migliorare la sua condizione, se ascendeva nella scala sociale, lo attribuiva a un caso­ della fortuna, che gli era singolarmente favorevole. E se non proprio­ a ciò, a uno sforzo enorme ch'egli sapeva benissimo quanto gli era costato. Nell'un caso come nell'altro si trattava di un'eccezione all'in­ dole normale dell'esistenza e del mondo, eccezione che, come tale, era dovuta a qualche ragione specialissima. Invece la nuova massa trova la completa libertà vitale come uno­ stato nativo · e prestabilito, senza alcuna causa speciale. Nulla dal di fuori la obbliga a riconoscere limiti e, pertanto, a dover fare i conti a ogni momento con altre istanze, soprattutto con istanze superiori.. Il lavoratore cinese credeva, fino a poco tempo fa, che il benessere della sua vita dipendeva dalle virtu private che possedeva l'impera­ tore. Pertanto, la sua vita era costantemente riferita a quella istanza suprema da cui dipendeva. Ma l'uomo che analizziamo si è abituato a non appellarsi a nessuna istanza fuori di se stesso. Egli è soddisfatto cosi come si trova. Ingenuamente, senza necessità d'esser vano, come la cosa pio naturale del mondo, cercherà di affermare e dare per buo­ no quanto trova in se stesso : opinioni, ambizioni, preferenze, gusti. E perché no, se, secondo quanto s'è visto, nulla e ness-qno lo costringe a rendersi conto che egli è un uomo di seconda classe, limitatissimo, incapace di creare o di conservare l'organizzazione stessa che dà alla sua vita questa ampiezza e sufficienza su cui fonda tale affermazione· della sua persona? Giammai l'uomo-maEsa avrebbe fatto ricorso a qualcosa fuori di se stesso, se la « circostanza » non ve lo avesse forzato violentemente. Siccome adesso la circostanza non l'obbliga, l'eterno uomo-massa, con­ seguente alla sua indole, cessa di ricorrere ad altri e si sente sovrano della sua vita. Invece, l'uomo eletto o eccellente è costituito da una intima necessità di appellarsi continuamente a una norma posta al di là ·di se stesso, superiore a lui, al cui servizio si pone liberamente. Si ricordi che all'inizio di questo paragrafo distinguevamo l'uomo eccellente dall'uomo comune, dicendo · che il primo è colui che esige molto da se stesso, e quest'ultimo, colui che non esige nulla, ma si contenta di ciò è, e rimane ammirato di se stesso. Al contrario di quanto si suole credere, è l'essere selezionato, e non la massa, a vivere in essenziale servito. Non ha per lui sens()

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la vita se non la fa consistere a servizio di qualcosa di trascendentale. Per questo non ritiene la necessità di servire come un'oppressione. Quando questa, per un caso, gli manca, egli sente come un'insoddi­ sfazione e inventa nuove norme piu difficili, piu esigenti, che lo oppri­ mono. Tutto ciò è la vita come disciplina, la vita nobile. La nobiltà si definisce per l'esigenza per gli obblighi, non per i diritti. Noblesse oblige. « Vivere a proprio gusto è da plebeo ; l'animo nobile aspira a un ordine e alla legge » (Goethe). I privilegi della nobiltà non sono originariamente concessioni o favori, ma, al contrario, sono conquiste. E in principio, il suo mante­ nimento presuppone che il privilegiato sarebbe capace di riconqui­ starle a ogni istante,- se fosse necessario e se qualcuno gliele contendesse. I diritti privati e privilegi non sono, dunque, possessione passiva e semplice godimento, ma rappresentano il limite a cui arriva lo sforzo della persona. Invece, i diritti comuni, quali quelli dell'uomo e del cittadino, sono proprietà passiva, puro usufrutto e beneficio, dono generoso del destino con cui ogni uomo s'incontra, e che non corri­ sponde a nessuno sforzo. lo direi, allora, che il diritto impersonale si possiede, e quello personale si sostiene. È veramente irritante la degenerazione sofferta nel lessico usuale della parola cosi ispiratrice quale « nobiltà ». Perché, significando per molti « nobiltà di sangue », ereditaria, si tramuta in qualcosa di simile ai diritti comuni, in una qualità statica e passiva, e che si riceve e trasmette come una cosa inerte. Però il senso peculiare, l'etimo del vocabolo « nobiltà » è essenzialmente ·dinamico. Nobile significa « no­ to », s'intende chi è noto in tutta la società, chi è famoso, chi si è fatto conoscere eccellendo sulla massa anonima. Implica uno sforzo insolito che ha motivato la fama. Equivale, dunque, nobile a valoroso o eccel­ lente. La nobiltà o fama del figlio è già un puro beneficio. È noto per riflesso, e, in effetti, la nobiltà ereditaria ha un carattere indiretto, è una luce rispecchiata, è nobiltà lunare come fatta con luci morte. Sol­ tanto rimane in essa di vivo, autentico, dinamico, l'incitamento che provoca nel discendente a mantenere il livello dello sforzo che l'ante­ nato raggiunse. Sempre, per quanto in questo senso deteriore, noblesse oblige. Il nobile originario obbliga se stesso, e il nobile ereditario è obbligato all'eredità. C'è, ad ogni modo, una precisa contrad-dizione nel trapasso della nobiltà, dal nobile . iniziale ai suoi successori. Piu logici, i cinesi invertono l'ordine di trasmissione, e non è il padre che nobilita il figlio, ma il figlio che, conseguendo la nobiltà, la comunica ai suoi progenitori, illustrando con il suo sforzo la propria stirpe umile. Perciò, nel concedere i ranghi nobiliari, essi si gr � duano dal numero di generazioni anteriori che rimangono innalzate, e c'è chi fa nobile solamente il proprio padre e c'è chi estende la sua fama fino al quinto o

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decimo proavo. Gli antenati vivono dell'uomo attuale, la cui nobiltà è effettiva, attiva, vale a dire, è, non fu. La « nobiltà » non appare come termine essenziale fino all'Impero romano, e precisamente per opporlo alla nobiltà ereditaria, già in decadenza. Per me, nobiltà è sinonimo di vita coraggiosa, posta sempre a su­ perare se stessa, a trascendere ciò che è, verso ciò che si propone come dovere ed esigenza. In questo modo, la vita nobile rimane con­ trapposta alla vita volgare o inerte, che, staticamente, si reclude in se stessa, condannata a una perpetua imman-enza, dato che una forza esteriore non la costringa ad uscire fuori di sé. Da qui la ragione di chiamare « massa » questo modo d'essere uomo, e non tanto perché appartenga alla moltitudine, quanto perché è inerte. Inoltrandoci nel car:mnino dell'esistenza, ci si va persuadendo che la maggior parte degli uomini, e delle donne, sono incapaci di fare al­ tro sforzo se non quello strettamente imposto come reazione a una ne­ cessità esterna. Allo stesso modo, rimangono piu isolati e si ergono come monumenti nella nostra esperienza i pochissimi individui che abbiamo conosciuti capaci di uno sforzo spontaneo e aristocratico. Sono gli uomini selezionati, i nobili, gli unici attivi, e non solo reattivi, per i quali vivere è una perpetua tensione, un'incessante disciplina. Disciplina :-- askesis. Sono gli asceti. Non deve sorprendere questa apparente digressione. Per definire l'uomo-massa attuale, che è tanto « massa » come quello di sempre, ma che vuole soppiantare gli uomini « eccellenti » , bisogna contrap­ porlo alle due forme pure che in esso si mescolano : la massa normale e l'autentico nobile e valoroso. Adesso possiamo procedere pi u speditamente, perché ormai siamo consapevoli di ciò che, a mio giudizio, rappresenta la chiave o equa­ zione psicologica ·del tipo umano dominante oggi. Tutto quello che se­ gue è conseguenza o corollario di questa struttura fondamentale che potrebbe riassumersi cosi : il mondo organizzato dal secolo XIX, nel produrre automaticamente un uomo nuovo, ha messo in lui formida­ bili ambizioni e potent� mezzi d'ogni specie per soddisfarle - econo­ miei, corporali (igiene, salute media superiore a quella di tutti i tempi), civili e tecnici ( intendo per questi ultimi l'enorme numero di nozioni parziali e di pratiche realizzazioni possedute oggi dall'uomo medio e di cui il passato è stato sempre privo). E dopo d'aver accumu­ lato in lui tutte queste potenze, il secolo XIX lo ha abbandonato a se stesso ; e, allora, l'uomo medio, seguendo la sua naturale indole, si è chiuso dentro di sé. In tal modo, non ci troviamo dinanzi a una massa piu forte di quella tradizionale, ermetica per se stessa, incapace di subordinarsi a nulla e a nessuno, credendosi autosufficiente : in som-

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ma, indocile. Continuando le cose come finora, ogni giorno si no­ terà ·di piu in tutta l' Europa - e per riflesso in tutto il mondo - che le masse sono incapaci di lasciarsi dirigere sotto nessuna guida. Nelle ore difficili che stanno per scoccare nel nostro continente, è possibile che, improvvisamente angosciate, trovino la buona volontà di accet­ tare, in certe materie particolarmente gravi, la direzione di minoranze superiori. Però anche questa buona volontà è destinata a rovinare. Perché la struttura fondamentale della loro anima è fatta di ermetismo e d'in­ docilità, poiché manca loro dalla nascita la funzione di guardare a ciò che è posto al ·di là di esse, siano fatti, siano persone. Vorranno se­ guire qualcuno, e non potranno. Vorranno ascoltare, e scopriranno d'essere sorde. D'altra parte, è illusorio pensare che l'uomo-medio vigente, per quanto abbia innalzato il suo livello vitale in confronto a quello degli altri tempi, possa reggere, per se stesso, il processo della civiltà. Dico processo, e non già progresso. Il semplice processo di mantenere la -civiltà attuale è superlativamente complesso e richiede sottigliezze incalcolabili. E male può governarlo quest'uomo-medio che ha preso a fruire di molti strumenti di civiltà, ma che si caratterizza per l'asso­ luta ignoranza dei principi stessi della civiltà. Ripeto al lettor�, che, paziente, abbia letto fin qui, la convenienza di non intendere tutte queste enunciazioni attribuendo loro · immedia­ tamente un significato politico. L'attività politica � che è, di tutta la vita pubblica, la piu efficiente e la piu visibile, è, invece, l'ultima risul­ tante di altre piu intime e impalpabili. Cosi, la indocilità politica non sarebbe grave se non provenisse da una piu profonda e decisiva indo­ cilità intellettuale. Perciò, finché non abbiamo analizzato questa, man­ cherà l'estrema chiarezza al teorema di questo saggio. (La ribellione delle masse, lrad. cii., pp. 52-58).

3. IL POTERE SOCIALE

La funzione di comandare e ubbidire è quella decisiva in ogni società. Appena in essa s 'intorbida la questione ·di chi comanda e di chi ubbidisce, tutto il resto risulterà adulterato e senza ordine. Per­ fino la piu segreta intimità di ciascun individuo, salvo geniali ecce­ zioni, rimarrà perturbata e falsificata. Se l'uomo fosse un essere soli­ tario che accidentalmente si venga a trovare implicato in una convi­ venza con altri, forse potrebbe restare inni:tune da tali ripercussioni determinatisi nel rivolgimento e nelle crisi del comando del Potere. Ma siccome è un essere sociale nella sua piu elementare natura, rimane

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trasformato nella sua personale indole da quei mutamenti che, a rigore, sembrano toccare soltanto la collettività. Di conseguenza, se si prende a parte un individuo e si analizza, capita di potere intendere, senza l'aiuto di altri elementi, quale coscienza ·d el comando e dell'obbedienza sia in vigore nel suo paese. Sarebbe interessante, e perfino utile, sottoporre a questa indagine il carattere individuale dello spagnolo « medio ». La disamina sarebbe, tuttavia, tediosa, e, per quanto utile, deprimente : ed è per questo che la elimino. Però farebbe toccare con mano l'enorme dose d'intima demoralizzazione, direi d'abbattimento, che nell'uomo « medio » del nostro paese si origina dal fatto d'essere la Spagna una nazione che vive da &ecoli con una torbida coscienza rispetto al problema del go­ verno e dell'obbedienza. L'abbrutimento non è altro che la accetta­ zione, come stato abituale e costituito, di una anormalità, di qualcosa che, · mentre si accetta, continua a sembrare irregolare, indebolita. E siccome non è possibile tramutare in una sana normalità ciò che nella sua essenza è criminale e anormale, l'individuo finisce con l'adattarsi lui all'irregolare, rendendosi completamente omogeneo al crimine o anormalità che lo circui&ce. È un meccanismo simile a quello enunziato dall'a·dagio popolare quando dice : « Una bugia ne fa cento ». Tutte le nazioni hanno attraversato epoche in cui ha aspirato a comandare su di esse chi non avrebbe dovuto comandare ; però un forte istinto le ha spinte a concentrare al momento giusto tutte le proprie energie e le ha spronate ad espellere quella anormale pretensione di comando. Scacciarono l'irregolarità transitoria e ricostruirono cosi la loro mo­ rale politica. Però lo Spagnolo ha fatto sempre il contrario : invece di oppor&i ad essere dominato da chi la sua intima coscienza respin­ geva, ha preferito falsificare tutto il resto del suo essere per accomo­ darlo a quella frode iniziale. Finché nel nostro paese si perpetuerà questa condizione, è vano sperare nulla ·dagli uomini della nostra razza. Non può avere vigore duttile per la difficile fatica di sostenersi con decoro nella Storia una società il cui Stato, il cui potere di coman­ do è per costituzione fraudolento. Non c'è, quindi, nulla di strano se basta un lieve dubbio, una sem­ pilce esitazione rispetto a chi comanda nel mondo, perché tutto il mon­ do - nella -sua vita pubblica e nella sua vita privata - incominci un processo di decomposizione morale. La vita umana, per la sua stessa natura, ·deve essere rivolta a qual­ cosa, a un miraggio, a un'impresa gloriosa o umile, a un destino illu­ stre o volgare. Si tratta d'una condizione strana, però, inesorabile, pre­ scritta alla nostra esistenza. Per un verso, vivere è qualcosa che ciascu­ no fa da sé e per sé. D'altro canto, se questa mia vita, che soltanto a me importa, non è indirizzata da me verso una meta, procederà mal-

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ferma, senza tensione e senza « forma ». In questi anni stiamo assi­ stendo al gigantesco spettacolo d'innumerevoli vite umane che cammi­ nano smarrite nel labirinto di se stesse per non avere nulla verso cui rivolgersi. Tutti gl'imperativi, tutti gli ordini, sono rimasti sospesi. Sembrerebbe che la situazione dovesse essere ideale, una volta che ciascuna vita rimane nell'assoluta libertà di fare ciò che piu le aggrada, ·di attendere a se stessa. Lo stesso è avvenuto a ciascun popolo : e l'Eu­ ropa ha allentato la sua pressione sul mondo. Però il risultato è stato l'inverso di quello che ci si poteva attendere. Abbandonata a se stessa,. ciascuna vita rimane · priva di se stessa, vuota, inattiva. E dato che pur deve riempirsi di qualcosa, s'inventa frivolamente una propria espe­ rienza, si dedica a false occupazioni, che nulla di intimo e di sincero può giustificare. Oggi fa una èosa ; domani un'altra, opposta alla prima. Si è smarrita nel trovarsi sola con se stessa. L'egoismo è labirintico. E,. si capisce : vivere e correre verso un miraggio, è avanzare verso una meta. La meta non è il mio camminare, non è la mia vita ; è qualcosa a cui io stesso rivolgo la mia vita che appunto sta fuori di essa, piu oltre. Se mi decido a procedere da solo dentro la mia stessa vita, egoisti­ camente, non avanzo, non mi dirigo a nessuna meta ; ma è un girare e rigirare sullo stesso luogo. Questo è il labirinto, un cammino che non porta a nessuna stazione, che si perde in se stesso, per il fatto di non essere altro che un arrovellarsi dentro di sé. Dopo la guerra del 1914-1918, l'europeo si è chiuso nella sua in­ timità, è rimasto senza miraggio né per sé né per gli altri. Per questo la nostra storia continua ad essere ferma e sbandata. Non si comanda di còlpo. Il comando consiste in una pressione che si esercita sugli altri. Però non consiste soltanto in ciò. Se fosse questo soltanto, sarebbe mera violenza. Non si dimentichi che co­ mandare ha una duplice funzione : si comanda qualcuno, però gli si comanda qualcosa. E ciò che gli si comanda è, in definitiva, di parte­ cipare a un'impresa, a un grande destino storico. Per questo non c'è impero senza programma di vita, e precisamente senza un piano di vita imperiale. Come dice il verso di Schiller : « Quando i re costrui­ scono, tocca faticare ai carrettieri». Non conviene, allora, cadere nell'opinione volgare che crede di vedere nella marcia ·dei grandi popoli - come degli uomini - un'ispi­ razione puramente egoistica. Non è cosi facile come si crede, essere puro egoista, e nessuno, se lo è stato, ha mai trionfato. L'egoismo apparente dei grandi popoli e dei grandi uomini consiste nella du­ rezza inevitabile con cui si deve comportare chi ha affidato la pro-:­ pria vita a una grande impresa. Quando ci si accinge a far veramente qualcosa e ci siamo dedicati a un progetto, non ci si può chiedere di badare ai passanti e di disperderci in piccoli altruismi occasionali..

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Una delle cose che stupiscono di pio i viaggiatori quando attraver­ sano la Spagna è che se domandano a qualcuno per la strada dove si trova una data piazza o una data casa, assai spesso chi è richiesto interrompe il suo cammino e si sacrifica generosamente per il fore­ stiero, guidandolo fino al luogo che gl'interessa. Io non voglio ne­ gare che possa esserci in questa indole ·del buon « celtihero » qualche ragione di generosità, e mi compiaccio che lo straniero dia questa in­ terpretazione al suo comportamento. Però mai, a sentirlo dire o a leggerlo, ho potuto reprimere questo dubbio : ma è proprio vero che il mio compatriotta richiesto era diretto a qualche parte ? Perché potrebbe capitare assai bene che, in molti casi, lo spagnolo non vada verso nessun luogo, non abbia nessun progetto né alcuna missione, ma anzi esce dalla sua vita chiusa per vedere se quella degli altri può riempire un po' la propria. In molti casi mi consta che i miei compatriotti escono dalla loro casa per vedere se incontrano qualche forestiero da accompagnare. È grave che questo dubbio intorno al comando del mondo, eserci­ tato finora dall' Europa, abbia demoralizzato il resto dei popoli, salvo quelli che per la loro giovinezza stanno ancora sul limitare della Storia. Però è molto piu grave che questo piétinement sur place arrivi a demoralizzare completamente lo stesso europeo. E non penso cosi perché io sono europeo. Non è che io dica : se l'europeo non devè phi comandare nel prossimo futuro, non m'interessa la vita del mondo. Nulla m'importerebbe la fine del comando europeo se esi� stesse oggi un altro gruppo di popoli capace di sostituirlo nel Potere e nella direzione del pianeta. Però neanche questo chiederei. Accet­ terei che non comandasse nessuno se questo non traesse come conse­ guenza la volatilizzazione di tutte le virtu e doti dell'uomo europeo. Ebbene : quest'ultimo processo è irrimediabile. Se l'europeo si abitua a non comandare, basteranno una generazione e mezza perché il vecchio continente, e dietro di lui il mondo intero, cada nell'iner­ zia morale, nella sterilità intellettuale e nella totale barbarie. Sol­ tanto l'illusione dell'impero e la disciplina della responsabilità che quella ispira possono mantenere nella tensione le anime dell'Occi­ dente. La scienza, l'arte, la tecnica e tutto il resto vivono nell'atmo­ sfera tonica creata ·dalla coscienza del comando. Se manca questa, l'europeo andrà avvilendosi. Gli animi non avranno piu quella pro­ fonda fede in se stessi che li lancia vigorosi, audaci, tenaci, alla ri­ cerca di grandi idee, nuove in ogni ramo dello scihile. L'europeo diventerà definitivamente ordinario. Incapace di sforzo creatore e rigoglioso, ricadrà sempre nell'esperienza di ieri, nella pura con­ suetudine, nella vita « rutinaria ». Diventerà un essere piatto, for-

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malista, vacuo, come i greci ·della decadenza e come quelli dell'intera storia bizantina. La vita creatrice presuppone un regime di alta igiene, di gran decoro, di costanti fermenti, che eccitano la coscienza della dignità. La vita creatrice è vita energica, e questa è possibile soltanto in una di queste due situazioni : o essendo uno al comando, o trovandosi collocato in un mondo dove comanda qualcuno a cui riconosciamo pieno diritto per esercitare questa funzione. O comando io, o io ubbi­ disco. Però uhhi·dire non è sopportare - sopportare è avvilirsi - ma, al contrario, stimare colui che . comanda .e seguirlo, solidarizzando con lui, mettendosi con fervore sotto il palpito della sua bandiera. Adesso è bene ritornare al punto di partenza di queste considera­ zioni : al fatto, cosi curioso, che nel mondo si parli tanto in questi anni sulla decadenza deli' Europa. Ed è sorprendente il particolare che questa ·decadenza non sia stata notata per la prima volta dagli extra-continentali, ma che la sua scoperta sia dovuta agli stessi eu­ ropei. Quando nessuno fuori del vecchio continente ci pensava, venne ad alcuni spiriti di Germania, d' Inghilterra, di Francia, questa sug­ gestiva idea : « Non si tratterà forse che stiamo decadendo? ». E l'idea ha avuto buona stampa, e oggi tutto il ·mondo parla della deca­ denza europea come d'una realtà inconcussa. Però trattenete chi la enuncia e chiedetegli su quali fenomeni concreti ed evidenti fonda la sua diagnosi. Lo vedrete tentare vaghi gesti e lo vedrete abbandonarsi a quell'agitazione delle braccia verso l'orizzonte che è tipica d'ogni naufrago. Egli non sa, effettivamente, a che appigliarsi. L'unica cosa che senza grande precisione risulta piu palese, quando si vuole definire l'attuale decadenza europea, è l'insieme delle difficoltà economiche che oggi si parano dinanzi a ognima ·delle nazioni europee. Però, quando si cerca di precisare un po' il carattere di queste difficoltà, si avverte che nessuna di esse intacca seriamente il potere creativo di ricchezza e che il vecchio continente è passato attraverso crisi molto piu gravi in questo campo. Forse che l'inglese o il tedesco non si sentono oggi capaci di pro­ durre di piu e meglio ·di prima ? Nient'affatto : ed è molto importante stabilire questo stato d'animo del tedesco o dell'inglese nel cfima economico. Ma lo strano è, precisamente, che la depressione indi­ scutihile del loro spirito non ·deriva dal fatto che si sentono poco ca­ paci, ma, al contrario, sentendosi dotati di maggiore potenzialità che �ai, si scontrano con certe barriere fatali che impediscono a loro di realizzare ciò che invece potrebbe fare assai bene. Quelle fron­ tiere fatali dell'attuale economia tedesca, inglese, francese, sono le frontiere politiche dei rispettivi Stati. La vera difficoltà non consiste, dunque, in questo o quell'altro problema economico che sorga dalla

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realtà, ma nel fatto che la forma di vita pubblica in cui dovreb_bero muoversi le capacità economiche è insufficiente rispetto all'ampiezza di esse! A mio · modo di vedere, la sensazione di svantaggio e d'impo­ tenza che innegabilmente soffoca in questi anni la vitalità europea, si nutre di questa sproporzione fra la grandezza dell'attuale potenzialità europea e i limiti dell'organizzazione politica in cui deve agire. Lo slancio per risolvere le gravi questioni urgenti è tanto vigoroso come non lo è stato mai ; però sbatte contro le anguste pareti in cui sta rin­ . chiuso, contro i limiti delle piccole nazioni in cui finora è vissuta organizzata l' Europa. Il pessimismo, lo scoraggiamento che oggi pesa sull'anima continentale somiglia assai a quello del volatile di ampia ala che nel percuotere i suoi grandi remi si ferisce nei ferri della gabbia. La prova di · ciò si ha nel ripetersi di questa condizione in tutte le altre forme di vita, i cui fattori sono apparentemente tanto distinti da quello economico. Per esempio, la vita intellettuale. Ogni vero in­ tellettuale d' Inghilterra, di Germania, di Francia, si sente oggi soffo­ cato nei . limiti della sua nazione, sente la sua nazionalità come una limitazione assoluta. Il professore tedesco si rende conto che è as­ surda ormai quella maniera di produzione a cui è obbligato dal suo pubblico immediato di . professori tedeschi, e sente la mancanza di quella superiore libertà d'espressione che invece godono lo scrit­ tore francese o il saggista inglese. Viceversa il letterato parigino comincia a capire che è ormai esaurita la tradizione di « mandari­ nismo » letterario, di formalismo verbale, a cui lo condanna la sua discendenza francese, e preferirebbe, conservando Je migliori qua­ lità di questa tradizione, integrarla con alcune virtu del professore tedesco. E nella politica interna capita lo stesso. Non si e ancora analiz­ zata a fondò la vita politica ·di tutte le grandi nazioni. Si dice che le istituzioni democratiche sono cadute in discredito. Però è proprio questo che converrebbe giustamente spiegare. Perché è un discredito strano. Si dice male del Parlamento dovunque ; però non si vede in nessun paese importante il tentativo d'una sostituzione, e neppure si vede che esistano lineamenti utopistici di altre forme di stato, che, almeno idealmente, sembrino preferihili. Non c'è, allora, che insi­ stere sul carattere illusorio di questo ·discredito. Non sono le istitu­ zioni, in quanto strumenti di vita pubblica, quelle che vanno male in Europa, ma i compiti in cui impiegarle. Difettano programmi di grandezza adeguata alle effettive dimensioni che la vita ha raggiunto in seno a ogni individualità europea. C'è qui un errore di ottica che conviene subito correggere, per­ ché fa rabbia ad ascoltare le melensaggini che a ogni momento si sen-

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tono ripetere, per esempio, a proposito del Parlamento. Esiste tutta una serie di obbiezioni valide sul modo di condursi dei Parlamen· ti tra·dizionali ; però, se si considerano ad una ad una, si vede che nessuna d'esse permette la conclusione che debba sopprimersi il Parlamento, anzi, al contrario, tutte conducono direttamente e con chiara evidenza alla necessità di riformarlo. Ebbene : la cosa migliore che possa dirsi d'un prodotto umano è che ha bisogno d'una riforma, perché ciò implica che è imprescindibile ed è capace di nuova vita. L'automobile d'oggi è sorta dalle obbiezioni che si posero all'auto­ mobile del 1910. Ma la volgare ·disistima in cui è caduto il Parla­ mento non procede da simili obbiezioni. Si dice, per esempio, che non è efficace. E allora dobbiamo chiedere : A che scopo non è effi­ cace ? Perché l'efficacia è la virtti che un « utensile » ha per pro­ durre una data finalità. In questo caso la finalità sarebbe la soluzione dei problemi pubblici in ciascuna nazione. Per questo è giusto esi­ gere da chi proclama la inefficienza dei Parlamenti, se in nessun paese risulta chiaro, neanche teoricamente, in che cosa consiste ciò che bisogna fare, non ha senso accusare d'inefficacia gli strumenti isti­ tuzionali. Varrebhe di piti ricordare che mai nessuna istituzione ha creato nella Storia Stati piti formidabili, piu efficienti, degli stati parlamentari del secolo XIX. Il fatto è tanto indiscutibile, che a di­ menticarlo si dimostra una patente stupidità. Non si confonda, dun­ que, la possibilità e l'urgenza di riformare profondamente le assem­ blee legislative, per fa,rle « ancora piu » efficaci, con la loro pre­ sunta inutilità. Il discredito dei Parlamenti non ba nulla a che vedere con i suoi risaputi difetti. Procede da un'altra causa, estranea completamente ad essi in quanto strumenti politici. Procede dal fatto che l'europeo non sa in che adoperarli, dal fatto che non ha piti fiducia nelle fina­ lità della vita pubblica tradizionale ; insomma, perché non sente l'illusione per gli stati nazionali in cui si trova iscritto e prigioniero. Se si osserva con un po' di attenzione questo famoso discredito, quello che si capisce è che il cittadino non nutre rispetto verso il proprio Stato né in Inghilterra, né in Germania, né in Francia. Sarebbe inu­ tile sostituire i particolari delle sue istituzioni, perché non sono queste a non essere rispettate, ma lo Stato stesso, che è rimasto an­ gusto. Per la prima volta, l'europeo, nell'affrontare i suoi progetti eco­ nomici, politici, intellettuali, con i limiti della propria nazione, sente che essi - cioè, le sue possibilità di vita, il suo stile vitale non si possono commisurare alla stregua della limitata collettività in cui è chiuso. E allora ha scoperto che essere inglese, tedesco o franceee equivale ad essere provinciale. S'è trovato, dunque, ad es-

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sere « meno » di prima, perché prima l'inglese, il francese e il tede­ sco credevano, ciascuno per se stesso, di rappresentare l' Universale. Questa è, mi pare, la vera origine di quella impressione di decadenza che opprime l'europeo. Pertanto, un'origine puramente intima e pa­ radossale, giacché la presunzione di essere « diminuito » nasce pre­ cisamente dal fatto che è cresciuta la sua capacità ed egli si trova dentro un'organizzazione antica, la cui angustia n.o n può pio con­ tenerlo. Per dare a ciò che s'è detto una concreta esemplificazione, si con­ sideri qualsiasi attività : per esempio, l'industria automobilistica. L'automobile è un'invenzione puramente europea. Tuttavia, oggi è superiore l'industria nordamericana. Conseguenza : l'automobile eu­ ropea è in deca·denza. E tuttavia, il fabbricante europeo - indu­ striale e tecnico - d'automobili sa benissimo che la superiorità del prodotto americano non deriva da nessuna virtu specifica goduta dall'uomo d'oltremare, ma semplicemente dal fatto che la fabbrica americana può offrire il suo prodotto senza nessun ostacolo a cento­ venti milioni d'uomini. S'immagini che un'industria europea vedesse dinanzi a sé un'area commerciale formata da tutti gli Stati europei e dalle loro colonie e protettorati : nessun ·dubbio che l'automobile prevista per cinquecento o seicento milioni d'uomoni sarebbe molto migliore e piu a buon mercato che quella di Ford. Tutte le virtu specifiche della tecnica americana sono quasi certamente effetti e non cause dell'ampiezza e omogeneità del suo mercato. La « razio­ nalizzazione » della industria è conseguenza automatica della sua estensione. La vera situazione europea verrebbe, pertanto, ad essere questa : il suo magnifico e lungo passato la fa giungere a un nuovo stadio di vita dove tanto è cresciuto ; però, nello stesso tempo, le strutture che sopravvivono di questo passato sono vane e impediscono l'at­ tuale espansione. L' Europa si è fatta in forma di piccole nazioni. In certo modo, l'idea e il sentimento nazionali sono stati la sua in­ venzione piu caratteristica. E adesso si vede obbligata a superare se stessa. Questo � lo schema del dramma enorme che si svilupperà sulla scena negli anni venturi. Saprà liberarsi da quelle sopravvi­ venze, o ne resterà prigioniera per sempre? Perché già è accaduto nella Storia che una grande civiltà morisse per non aver potuto so. stituire la sua idea tradizionale dello Stato. Ho narrato altrove la passione e morte del mondo greco-romano, e per alcuni dettagli rimando a quello che ho già scritto. Però adesso possiamo considerare quell'argomento sotto un altro aspetto. Greci e Latini compaiono nella Storia alloggiati come api nel loro alveare, dentro città e polis. Questo è un fatto incontrovertihile,

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·di genesi misteriosa ; un fatto da cui bisogna partire senz'altro ; come lo zoologo parte dal dato bruto e inesplicabile dello sphex che vive solitario, errabondo, nomade, mentre la bionda ape esiste soltanto nello sciame costruttore di favi. Il caso vuole che gli scavi e l'archeo­ logia ci permettano di vedere qualcosa di ciò che c'era nel suolo di Atene e in quello di Roma prima che Atene e Roma esistessero. Però il trapasso da questa preistoria, puramente rurale e senza carattere specifico, allo sviluppo della città, frutto di una nuova specie nato dal terreno di tutte e ·due le penisole, rimane avvolto nell'arcano ; e neppure risulta chiaro il nesso etnico fra quei popoli preistorici e queste strane comunità, che immettono nel repertorio umano una grande innovazione : quella di costruire una piazza pubblica e at­ torno :una città ben distinta dalla campagna. Perché è l'urbe e la polis somiglia assai a quella che scherzos�mente si dà del cannone : si prenda un foro, si circondi di filo di ferro molto fitto, e questo è un cannone. Allo stesso modo, l'urbe o polis comincia per essere un vuoto : il foro, l'agora ; e tutto il resto è pretesto per garantire questo vuoto, per delimitare il suo perimetro. La polis non è origi­ nariamente un aggregato di case abitabili, ma un luogo di civile a·du­ nanza, uno spazio circoscritto per funzioni pubbliche. L'urbe non è fatta, come una capanna o la domus, per ripararsi dalle intemperie e per procreare, che sono necessità private e familiari, ma per discu­ tere intorno agli affari pubblici. Si noti che tutto ciò significa nien­ temeno che l'apparizione d'una nuova categoria dello spazio, molto phi . originale dello spazio di Einstein. Fin'allora esisteva soltanto uno spazio, la campagna, e in esso si viveva con tutte le conseguenze che ciò comporta per l'esistenza umana. L'uomo rurale è sempre un vegetale. In questo senso le grandi civiltà asiatiche e africane sono state delle grandi vegetazioni antropomorfiche. Però il greco­ romano decide di separarsi dalla campagna, ·dalla « natura », dal cosmo geobotanico. Come ciò è possibile? Come può l'uomo riti­ rarsi dalla campagna ? Dove andrà, se la terra è la campagna, se la campagna è illimitata ? Molto semplice : circoscrivendo un tratto di terreno mediante qualèhe muro che opponga lo spazio delimitato e finito allo spazio amorfo e senza fine. Ecco allora la piazza. Non è, come la casa, un « interno » chiuso di sopra, analogo alle grotte che esistono nella campagna, ma è puramente e semplicemente la nega­ zione della campagna. La piazza, mercé le mura che la delimitano, è un tratto di campagna che si distacca dal resto, che prescinde dal resto e si contrappone ad esso. Questo terreno piu piccolo ,e ribelle che realizza una secessione dalla campagna infinita e si chiude in se stesso in contrasto con essa, è campagna abolita e pertanto uno spa­ zio sui generis, nuovissimo, in cui l'uomo si affranca da ogni comu-

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nione con la pianta e l'a �imale, li lascia fuori e crea un ambito a parte puramente umano. È io spazio civile. Per questo Socrate, il grande cittadino urbano, triplice estratto del succo che stilla la polis, dirà : « Io non ho nulla a che vedere con gli alberi nella campagna ; io mi sento accomunato soltanto agli uomini nella città ». Che cosa hanno mai intuito di ciò l'indti, o -l'indiano, o il cinese, o l'egiziano ? Fino ad Alessandro e Cesare, rispettivamente, la storia della Grecia e di Roma consiste nella lotta incessante tra questi due spazi: tra la città razionale e la campagna vegetale, fra il giurista e il conta­ dino, fra ius e rus. Non si creda che questa origine dell'urbe sia una· pura costru­ zione mia e che le corrisponda solamente una verità simbolica. Con singolare insistenza, nello strato piti profondo della loro memoria-t gli abitanti della città greco-latina conservano il ricordo di un synoikysmos. Non c'è, quindi, che interpellare i testi, hastll tradurli. Synoikysmos significa accordo di andare a vivere insieme : perciò municipio, e precisamente nel duplice senso fisico e giuridico di questo vocabolo. Alla dissipazione vegetativa per la campagna suc­ cede la concentrazione civile nella città. L'urbe è la « super-casa », il superamento della casa pre1 storica, la creazione d'una entità, piti astratta e piti alta dell'oikos familiare. È la repubblica, la politeia, che non si compone di uomini e donne, ma di cittadini. Una nuova ·dimensione, irriducibile alle altre primigenie e ancora prossime al­ l'animale, si offre all'essere umano, e in essa vanno ad attuare le loro migliori energie coloro che prima erano appena uomini. In que­ sto modo nasce l'urbe, subito come Stato. In certo senso, tutta la costa mediterranea ha mostrato sempre una spontanea tendenza a questo tipo statale. Con pio o meno pu­ rezza, il nord-Africa ( C �rtago - ma città) ripete lo stesso fenomeno. L' Italia non usci fino al secolo XIX dallo Stato-città e il Levante spagnolo cade quando può nel « cantonalismo », che è un residuo di quella millenaria ispirazione. Lo Stato-città, per la relativa esiguità dei suoi componenti, per­ mette di vedere chiaramente l'essenziale del principio statale. Da una parte, la parola « stato » indica che le forze storiche raggiungono una combinazione di equilibrio, di riposo. In questo senso significa l'inverso ·di movimento storico : lo Stato è convivenza stabilizzata, costituita, statica. Però questo carattere d'immobilità, di forma quie­ ta e definita, cela, come ogni equilibrio, il dinamismo che produsse e sostiene lo Stato. Fa dimenticare, insomma, che lo Stato costituito è soltanto il risultato di un movimento anteriore di lotte, di sforzi, che a d esso tendevano. Allo stato costituito precede lo Stato costi­ tuente, e questo è un principio di movimento.

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Con Cio voglio dire che lo Stato non è una forma di società che l'uomo si ritrova come data in dono, ma che occorre foggiarla peno­ samente. Non è come l'orda o la tribu e altre società fondate nella consanguineità che la Natura s'incarica di stabilire senza collabora­ zione dello sforzo umano. Al contrario, lo Stato comincia quando l'uomo si affanna ad evadere dalla società nativa dentro alla quale lo ha iscritto il sangue. E chi dice il sangue dice anche qualche altro principio naturale : per esempio, l'idioma. Originariamente, lo Stato consiste nella mescolanza di sangue e lingue. È superamento di ogni società naturale. È meticcio e plurilingue. Cosi la città nasce per l'unione di popoli diversi. Costruisce sopra reterogeneità zoologica una omogeneità giuridica : omogeneità che non implica necessariamente centralismo. Ed è chiaro che l'unità ·giuridica: non è l'aspirazione che sollecita il movimento creatore -dello Stato. L'impulso è piu sostanziale d'ogni giurisprudenza, è il proposito di imprese vitali piu grandi di quelle possibili alle minu­ scole società sanguinee. Nella genesi di ogni Stato vediamo e intra­ vediamo sempre il profilo di un grande impresario. Se osserviamo la situazione storica che precede immediatamente alla nascita di uno Stato, troveremo sempre il seguente schema : varie collettività piccole, la cui struttura sociale è fatta perché viva ciascuna dentro se stessa. La forma sociale di ciascuna serve solo per una convivenza interna. Ciò indica che nel passato vissero effet­ tivamente isolate, ciascuna per sé, senza altri contatti, se non ecce­ zionali, con i limitrofi. Però a questo isolamento effettivo è succeduta 'di fatto una convivenza esterna, soprattutto economica. L'individuo di ciascuna collettività non vive piu soltanto di essa, ma parte della sua vita è collegata con individui di altre collettività, con i quali ha scambi commerciali e intellettuali. Sopravviene, poi, uno squilibrio -fra le due convivenze : l'interna e l'esterna. La forma sociale stabilita - diritti, costume, religione - favorisce l'interna e ostacola l'esterna, piu ampia e sempre nuova. In questa situazione, il principio statale è il movimento che porta ad annullare le forme sociali di convivenza interna, sostituendole con una forma sociale adeguata alla nuova convivenza esterna. Si applichi tutto ciò al momento attuale del­ l'Europa, e queste espressioni astratte acquisteranno figura e colore. Non c'è creazione statale se la mente di certi popoli non è capace di abbandonare la struttura tradizionale d'una forma di convivenza e, inoltre, d'immaginarne un'altra non mai esistita. Per questo è autentica creazione. Lo Stato comincia con l'essere un'opera d'im­ maginazione assoluta. L'immaginazione è il potere liberatore di cui l'uomo è dotato. Un popolo è capace di uno Stato nella misura con la quale sappia immaginare. Da qui la conseguenza che tutti i

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popoli hanno dovuto avere un limite nella loro evoluzione statale, precisamente il limite imposto dalla N atura alla loro fantasia. Il greco e il romano, capaci d'immaginare la città ·che trionfa sulla dispersione rurale, si crearono le mura urbane. Ci fu chi volle sospingere pio oltre gli animi greco-romani, chi tentò di affrancarli dalla città ; ma si trattò sempre di un vano impegno. La limitata im­ maginazione del romano, rappresentata da Bruto, s'incaricò di assas­ sinare Cesare, la piu grande fantasia dell'antichità. Interessa molto a noi europei di oggi ricordare questa storia, perché la nostra è giunta allo stesso capitolo. ( La ribellione delle masse, trad. cit., pp. 131.1416).

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L'INTERPRETAZIONE BELLICA DELLA STORIA

L'interpretazione economica della storia è una delle grandi idee .dell'Ottocento. lo l'ho combattuta ardentemente come l'altra grande idea, pio ampia e piii radicale, di cui è un semplice corollario : l'in­ terpretazione utilitaria della vita corporale e spirituale. Ma se l'ho combattuta, è evidente che la stimo altamente. Non capisco come si possa combattere quello che non si stima. Soltanto i grandi errori incitano ad essere debellati. E un'idea può acquistare la misura di grande errore solo quando trascina c�m sé una verità di grande portata. Altrimenti non potrebbe reggersi, fare proseliti e proliferare. Un grande errore è sempre una grande verità esagerata, violentata. La comparsa di questa idea storica ebbe un'enorme importanza. Si può dire che da allora cominci ad esistere qualcosa che merita di essere chiamata scienza storica. Dimostrò subito che l'insieme dei fatti umani non è un semplice andirivieni di fatti suscitati dal caso ma che sotto questa apparenza ·di goccia d'acqua, dove pullulano a capriccio i vibri!)ni, la vita storica ha una struttura, una legge pro­ fonda che la dirige inesorabilmente. Sotto la scena intricatissima e mutevole dei fatti governa rigorosamente l'organizzazione economica di ogni epoca. È la sostanza del processo storico. Da allora, ripeto, la storia non si accontenta di raccontare quello ·che è accaduto ma aspira a ricostruire il meccanismo rigeneratore degli avvenimenti. Ciò nonostante, la parte che si faceva all'ingrediente economico era eccessiva, poiché se ne faceva l'unica autentica realtà storica e si avviliva il 1·esto - diritto, arte, scienza, religione - come mera « superstruttura », semplice riflesso e proiezione dell'interna mecca­ nica economica. Qui è l'esagerazione dimostrata cento volte. Ma, grazie ad essa, restò sempre viva l'attenzione per i dati economici di

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ogni epoca che prima passavano sotto il silenzio della storiografia. Che magnifica luce sconvolse le tenebre del passato, quando Marx e i suoi uomini introdussero nella grande caverna, piena di echi e di ombre, la torcia di questa idea audace ! Sembrò una verità evidente che i fatti stessi ·proclamavano e . imponevano. E - coinci­ denza curiosa ! - mentre sembrava che venisse per evidenza dai fatti esterni, sembrava emergere, come una divinazione lirica, dal fondo delle anime. Quasi sempre succe-de la stessa cosa con le grandi idee : le vediamo, a un tempo, .fuori e dentro, come verità e come desideri, come leggi del cosmo e confessioni dello spirito. Forse è impossibile scoprire fuori una verità che non è preformata, come stupendo delirio, sul nostro fondo intimo. Nel caso dell'interpreta­ zione economica della storia non c'è dubbio che sia cosi. L'esistenza sociale nel secolo XIX dipese, infatti, in un primo tempo, dal fattore economico. L'idea di Marx era, almeno grosso modo, vera per quel secolo e per una parte dei secoli immediatamente anteriori. L'uomo moderno si convertiva progressivamente in homo oeconomicus. Si preoccupava anzitutto di raccogliere « mezzi », « utili ». Sentiva la vita come un bisogno utilitario. Divinizzò lo strumento, l'utile. Fran� klin aveva già definito l'uomo come l'animal instrumenticum ( oggi, dopo gli studi minuziosi di Kohler alla Stazione per lo studio degli antropoidi, a Tenerife, non si può pensare tranquillamente a questa definizione). Marx farà girare il panorama storico sugli « strumenti della produzione ». Chi li ha, comanda. · La storia è una ' lotta per impa·dronirsene. Quando varia la forma di strumento, cambia il paesaggio umano. Questa fede nello strumento è tale un'idea preconcetta di quel tempo che, ignorandosi a vicenda, i pensatori pio distanti la trovano negli ordini pio diversi. L'architetto viennese .Gottfried Semper tenta una Tectonia delle arti plastiche, dove ricostruisce la storia dell'arte della prima ceramica, immaginando che le forme estetiche procedono dagli strumenti e ·dalla tecnica con cui era stato prodotto l'oggetto utile. L'evoluzione degli stili consisterebbe essenzialmente nell'evo­ luzione della tecnica produttrice. Darwin, dopo tutto, non fa altro che restituire al termine « organo » il suo valore etimologico di strumento. La forma organica è un repertorio di utili per la vita. Ma allora? Le stesse idee e - le verità - sono considerate strumentalmente e si chiamano working-hypotheses, strumenti per il lavoro mentale. Per caso, è tutto un puro errore. Non lo credo assolutamente. Questa visione del secolo XIX - a rigore di tutta l'età moderna è sicura ma non lo è esclusivamente. L'utilità, specialmente quella economica - « i mezzi di produzione e di traffico », come ·dice Marx - è una grande ruota della storia ma che gira ingranata a

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molte altre. La macchina è piu complessa : tanto che non intravve­ diamo neppure un piano completo. E probabilmente la scoperta degli altri pezzi si farà a forza di esagerazioni successive. La sua rivelazione comporterà un'ora di frenesia e poi bisognerà tornare alla riflessione. L'interpretazione economica della storia nata nel secolo scorso illumina abbastanza bene la realtà della nostra epoca : ma applicata ad altre ci apparirà subito confusa. No, la storia non è sempre stata governata autocriticamente dai mezzi di produzione e di traffico né è consistita monotonamente in una lotta economica ·di classi. Le classi sociali stesse non sono state, a ogni momento, classi econo­ miche. Forse non lo sono state che nei due ultimi secoli che, in tal caso, risulterebbero un'eccezione storica. Cosi le classi indiane non sono economiche : la suprema, la bramina, è povera e non possiede nulla. Il vero brama è « quello che ha capito », è il saggio per razza e per divina prescrizione. Weber ha - dimostrato nei suoi mirabili studi sulla sociologia religiosa come i credi, lungi dall'essere semplici conseguenze della forma economica, influiscano su di questa, seppure a volte ne siano influenzati. Nel ciclo storico europeo, man mano che dal 1800 risaliamo all'indietro, la teoria di Marx appare sempre meno applicabile. Altri fattori che oggi, infatti, sembrano secondari, passano in primo piano e modellano sovranamente il corpo storico. Ciò fa pensare che non solo varia la pelle della realtà storica - i fatti visibili e super­ ficiali - ma che la struttura latente e sostanziale ·della società cambia da un'età all'altra. In tal caso sarebbe stupido ostinarsi a scoprire un unico principio invariabile che determini tutte le trasformazioni umane. È piu verosimile che esistano diverse forze fondamentali la cui diversa disposizione e combinazione determinano i grandi mutamenti storici. Recentemente Scheler ha fatto notare che in certe epoche sembrano predominare le forze biologiche - il sangue, la razza - per esempio nei popoli molto giovani ; in altre, i fattori politici - la ragione di stato, gli interessi dinastici - tiranneggiano la vita collettiva, e solo in età mature che raggiungono già i tempi di corruzione assume importanza il principio economico. Gli è 'che non avremo una sufficiente comprensione del processo storico se prima non si investiga e non si misura l'influsso di ogni attività umana sul res�o della vita. Una ·di queste ricerche sarebbe ciò che chiamo interpretazione bellica della storia. Non si tratta di tornare a una storiografia che racconti le battaglie ma di mostrare il potere plastico che, oltre la costituzione ·della vita in ogni epoca, ha avuto il modo contempo­ raneo di fare la guerra. Sorprende che nessuno abbia raccolto un

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suggerimento che, con trascuratezza, dà già Aristotele nella Politica quando dice che « in ogni stato il Sovrano · è il combattente e quelli che hanno le armi partecipano del potere ». Questa idea potrebbe offrirei un'interpretazione bellica della storia che formerebbe il perfetto contrapposto dell'interpretazione economica. Secondo questa, la vita di ogni epoca sarebbe non quello che furono gli strumenti di pmduzione ma, al contrario, quelli che furono gli strumenti di distri­ buzione. Una modifica delle armi da combattimento determinerebbe una diversa configurazione della società. La forma politica si model­ lerebbe nella forma della guerra e il potere pubblico sarebbe sempre nelle mani di coloro che hanno le armi. L'interpretazione bellica della storia ha in comune con l'idea di Marx la convinzione che la realtà . storica è lotta e che in essa lottano, piu che gli uomini, gli strumenti. Il potere sociale sembra diviso in ogni epoca, secondo la qualità e la quantità di mezzi di distruzione che ogni uomo ·possiede. A · rigore, questa idea della lotta come suhstrato della realtà cosmica, fisica e storica, riposa nei pio profondi moti dell'anima · moderna. Si sarebbe dovuta fare prima la curiosa osservazione che tutta la fisica moderna è elaborata in­ torno alle leggi dello scontro formulate da Wren. Invece, non si è saputo che fare dell'idea di attrazione universale che, installata in cima alla meccanica di Newton, ha avuto sempre l'apparenza di una nozione magica ed eterogenea a tutte le altre della scienza, come caduta ·da un altro mondo spirituale, diverso da quello moderno. E non è sintomo meno suggestivo che Einstein sia stato il primo a isolare questa idea di « attrazione » e vi abbia assorbito, per modo di dire, tutta la meccanica. Non è stato Marx ad inventare il meccanismo di lotta come spie­ gazione dei mutamenti storici. Guizot interpreta la storia di Francia come una perpetua collisione fra due classi: nobiltà e borghesia. Questa contesa continua si verifica, secondo Guizot, nel campo giu­ ridico. Marx non fece che trasferire la sostanza « classificatrice », creatrice di gruppi sociali antagonisti, dal diritto all'economia, se­ guendo Saint-Simon, autentico paòre della creatura. Sospetto che questa storia per cui · la realtà è lotta, e soltanto lotta, sia una storia falsa : si basa solo sul pathos e non sull'ethos della convivenza umana : è una storia delle ore drammatiche di un popolo, non della sua continuità vitale : è una storia delle sue frenesie, non del suo polso normale, · insomma non è una storia ma piuttosto un feuilleton. Ma è, è evidente, per sé rivelatore che nel secolo passato non si badasse altro che alle stonature storiche. A dire il vero, questo secolo - cosi grande e cosi eccessivo - è il condotto che ha raccolto tutto il torrente di pessimismo che scorre

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mmterrottamente dalla fine del rinascimento. Dall'epoca del Quijote la bilancia europea pende decisamente dell'equanimità verso la tristezza - il lettore ricordi che nell'Ottocento hanno scritto Byron,. Schopenhauer, Flaubert e Dostoevskj. Enorme, favoloso vento di pessimismo. Per suggerire qualcosa che si possa intendere per « interpreta­ zione bellica della storia » sottolineerò alcuni fatti. L' Europa non sarebbe stata senza Roma che crea il primo schema e quasi il ce­ mento dell'organizzazione. Ma allo stèsso modo Roma non sarebbe esistita senza la Grecia. Per una ragione semplice. C'è un momento in cui l'occidente sembra condannato all'orientalizzazione. È l'epoca in cui la formidabile nazione si lancia sul nostro continente. La Grecia disloca il suo potere con Milziade e Temistocle a Maratona e a Platea. Come ? Perché ? Che magica potenza è scesa sopra questo popolo ateniese, cosi poco numeroso e allora 'cosi giovane, che gli consente di distruggere una delle forze nazionali piu potenti e mature che siano esistite : i persiani. Magia? No affatto. Tutto il contrario. Una invenzione della vivace mente ellenica. Grecia, Roma, Europa sono state possibili grazie alla falange. I persiani possedevano un esercito enorme e .forte ma combatte­ vano in modo confuso. I greci, in falange. L'invenzione sembra sia stata ·dorica e, come tante altre cose, importata da Sparta ad Atene. Rendiamoci conto della questione cosi come la fissa il migliore storico dell'arte bellica, Hans Delbruck. Ne vale la pena. Gli eroi omerici sono combattenti singolari. Se Ettore avesse saputo disporre in fila i suoi troiani e mantenerli disciplinati, tutta la forza e l'abilità di Achille si sarebbero infrante di fronte a queste file sicure. Achille mette in fuga centinaia di troiani perché è superiore a ognuno di essi e non esiste una forza che li unisca contro di lui. Anche se alcuni si fossero uniti per combatterlo, non era probabile il successo perché non c'era nessuna sicurezza che il primo minacciato dalla sua lancia infallibile non sarebbe scappato pieno di terrore : e il piu vicino l'avrebbe seguito e cosi via. Solo un gruppo piu ordinato e numeroso, che con una lunga abitudine e con un lungo esercizio sa mantenere la sua coesione e obbedisce a un comando, può offrire la garanzia che terrà duro unito ·di fronte al pericolo della morte. E questa sensazione di ogni individuo che gli altri non mancheranno - facilita il coraggio nella misura che diminuisce il pericolo di ciascuno. Colui che è inquadrato fra collaterali e posteriori è praticamente impossibilitato a fuggire. La coesione produce per se stessa una forza guerriera accanto e oltre la prestanza bellica dell'individuo. Chiamiamo questa coesione e questo insieme « corpo tattico » . Un corpo tattico è una pluralità di

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combattenti con una volontà unica. Il corpo tattico può essere di una tale solidità da includere e utilizzare bellicamente elementi per nulla combattivi e perfino ostili. Federico il Grande infiltrava dei prigionieri nemici nei suoi battaglioni disciplinati. Tutta la poten­ zialità combattiva si muove tra · i due poli del coraggio e dell'addestra­ mento individuali da un lato e la solidità del corpo tattico dall'altro o, in altri termini, fra chevalerie e ·disciplina. La cosa piu importante è unire le due cose, come fece la falange spartana - ordine lineare con otto uomini in fondo - dove ogni uomo è stato educato dall'in­ fanzia all'eroismo e la cui vita è tutta ispiràta al concetto dell'onore guerriero. Una leggenda narra l'origine di questa falange. Un giorno era stata promessa agli spartani la vittoria, bastava che entrassero nella battaglia al suono dei flauti e non combattessero contro i flau­ tisti. Combattere con i flauti significa marciare ritmicamente, in or­ dine e in fila, insomma in corpo tattico. Ed è curioso notare che tamburi e flauti come mezzo ritmico riappaiono nella storia quando i lanzichenecchi terminano la guerra di « cavalleria » medievale che era anche un combattimento singolare. Ecco il grande strumento di -distruzione che gli ateniesi usarono contro la l'nassa gigantesca della potenza persiana a Maratona. La seconda guerra fu decisa sul mare. C'era stata la geniale pre­ videnza di Temistocle di creare una grande flotta, con una disciplina come quella di terra. Ma questo portò un'altra enorme trasforma­ zione nella politica interna di Atene, esempio mirabile di come la guerra influisca sulla' storia giuridica : di come infatti secondo l'idea -di Aristotele « comandino quelli che combattono e partecipino al potere quelli che sono armati » , creando cosi le forme di governo, la figura dello stato. Ogni nave - trireme - aveva bisogno di 150, 180 rematori: tre file di sessanta, piu qualche soldato, il capitano e i piloti. Gli ateniesi prepararono 127 navi. Ciò fa supporre un contingente di 25.000 uomini. Fino allora avevano combattuto gli uomini liberi e nobili - gli eupatridi - e la costituzione ateniese si era mantenuta, nella sua essenza, dentro i principi aristocratici. Dovendo mobilitare per la flotta tutti gli uomini validi di Atene, bisognò dare le armi ai thetes, alla classe del censo inferiore che non serviva nella falange. Ed ecco che questa grande politica imperialista, ispirata ·da Temi­ stocle ad Atene, porta con sé, per un bisogno di tecnica militare, lo statuto della democrazia. All'ampliamento dell'esercito bellico vien dietro automaticamente l'estensione della sovranità alle classi infime che non erano neppure libere. Il fatto contrasta con l'interpretazione economica della storia, perché i thetes non conquistano il potere dopo essersi impadroniti

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degli strumenti di produzione e ·di traffico ma continuano ad essere poveri e ricevono i mezzi · dell'influenza politica per cessione dei ricchi che hanno bisogno di loro per una nuova organizzazione delle guerre. Ve diamo, · dunque, che il servizio militare generalizzato e la democrazia nascono insieme all'appetito imperialista, proprio come accadde nell'Ottocento. Sarebbe bene ch e i « radicali » meditassero sulla frequenza con cui nella storia l'imperialismo è stato un frutto democratico e viceversa la ·democrazia una preda dell'imperialismo. Verso la stessa epoca esiste in Grecia uno stato rigorosamente aristocratico : Sparta. Si compone di soli' 12.000 spartani, di fronte ai 180.000 iloti e ai 50.000 perieci. Come riescono a farsi ubbidire da una massa cosi superiore di numero ? Il mistero si spiega quando capiamo che gli spartani non permettono agli iloti di prendere parte alla guerra o al massimo li impiegano come scudieri ma sempre senza armi. Ammettevano nel loro esercito soltanto un certo numero di perieci, . tutt'al piu uguale a quello degli spartani. Allo stesso modo che la democrazia · suppone il servizio militare generalizzato, l'aristocrazia deve fare un privilegio ·del combattere. Comandano sempre - come insinuava Aristotele hoi kektemenoi ta hopla, quelli che hanno le armi. Il medioevo . fu di costituzione . aristocratica finché seppe conservare gelosamente per pochi questo privilegio del pericolo e dell'offesa. Mentre il mistico, il cui desi­ derio è trionfare nell'altro mondo, chiede di morire in ginocchio, il barbaro Siguardo, il forte anglodanese, canta nell'agonia : « Solle­ va temi ! Voglio morire come un soldato e non coricato come una vacca. Mettetemi la corazza, l'elmo e mettetemi lo scudo al braccio sinistro e la mia ascia dorata nella mia ·destra, perché io muoia con le armi ». Questo amore dello strumento di distruzione che dà il piacere di comandare, risuona in inni frenetici lungo la storia e non ci mera­ viglia che ai loro tempi gli arabi avessero 500 nomi per chiamare la spada. A volte l'influenza della tecnica bellica sui destini storici scende cosi nei particolari che prende un'apparenza comica. Nella storia della Grecia c'è una tradizione, piuttosto grottesca, secondo la quale, in tempi -di decadenza, gli spartani domandarono alla prepotente Attica un generale. Quasi per burla gli ateniesi man­ darono Tirteo, un vecchio poeta deforme e ridicolo. Ma questi insegnò a cantare le sue poesie ai ragazzi della Laconia e li port� alla vittoria in diverse occasioni. Da allora comincia a farsi forte Sparta, ad aumentare il suo potere fino al trionfo finale sull'Ellade. Questa leggenda oscurl:l, ora seJIIhra che si sia chiarita. Tirteo era infatti un personaggio ridicolo, un vecchio generale e un poeta antiquato. Le nuove generazioni di militari e di poeti si burlavano -

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del suo stile arcaico in strategia e in poesia. Soprattutto i suoi poemi composti in metri antichi e rigidi contrastavano con le forme pio sciolte e leggere della nuova poesia. Ma questi ritmi vetusti, creati all'epoca ·della pio severa disciplina bellica, erano il simbolo di quest'ultima e avevano la virtu di fare marciare in ordine stretto la falange. Il ritmo semplicissimo ipnotizza l'individuo e lo incor­ pora vigorosamente nell'unità del corpo tattico. A ciò si dovette il trionfo degli spartani. Tirteo aveva restaurato l'antica e rigorosa tattica. La sua parte assomiglia in un certo modo a quella di Hin­ denhurg nell'ultima grande guerra. La disciplina bellica è stata una delle massime potenze della storia. Ogni altra disciplina, soprattutto quello che è legata a ogni industria complicata, deriva da questo ordine spirituale inventato dall'uomo per combattere. Quando uno spagnolo geniale cerca di afferrare la mistica disordinata (che significa protestantesimo), trova nelle sue abitudini di guerriero il rimedio e fonda una compagnia, la cui educazione e il cui regime derivano dalle « ordenanzas » morali che egli chiamò ·con linguaggio da capitano « Esercizi spirituali ». Li c'è la famosa meditazione -delle « Due bandiere » che sembra pen­ sata vicino alla tenda di campagna nell'alba rossa di una giornata cruenta. (Agli « esercizi spirituali » è successo un altro tremendo libretto di « ordenanzas » dove si organizzano le nuove forze sto­ riche in squadroni formidabili : il Manifesto Comunista. Le sue pagine non si possono leggere senza sentire in maniera allucinata la marcia ritmica di una moltitudine interminabile che avanza). La sorprendente efficacia che è legata al pugno romano, dacché compare sul terreno storico, la si deve anzitutto a una ·disciplina intensificata. L'esercito ateniese aveva mantenuto solo quella che risulta meccanicamente dal corpo tattico e dal suo esercizio. Man­ cava in cambio il fattore coercitivo. Qualunque soldato, in piena campagna, poteva reclamare davanti all'Areopago contro il suo stra­ tega che mancava di giurisdizione. Di qui la frequente destituzione dei generali durante le campagne. Roma, invece, affida l'esercizio della giustizia al capo dell'esercito, al console. Come esempio del rigore vigente, si ricordava (una ·delle poche notizie autentiche della Roma anteriore alle guerre Puniche) che nell'anno 425 il console Aulo Postummio fece decapitare suo figlio perché aveva abbandonato la formazione e si era battuto con un nemico in un combattimento disuguale, da cui era uscito vincitore. Vero è che il corpo pubblico di Roma si modella piu strettamente dei greci sull'anatomia dell'eseljeito. Gli elettot1i si dividono in classi e il principio della classificazione è la struttura della forza armata. Questa rappresentava un progresso ammirevole sulla falange.

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La falange lunga e agile ondeggia pericolosamente sul campo di battaglia. Ha una scarsa profondità che la rende poco sicura, e non è difficile aprire un varco per dove passi il nemico. È sempre pro­ babile un aggiramento, pericolo costante sulle ali. Da dove risulta che l'eccessiva continuità della linea è soltanto in apparenza una forza. I romani ebbero un 'idea geniale, molto simile a quella degli architetti che dalla costruzione romanica estrassero l'edificio gotico, cosi aereo. Resisi conto che la massa del muro continuo non era necessaria e bastavano i contrafforti, soppressero o traforarono le pareti e lasciarono solo i nervi dinamici dell'architettura. Con una semplice sottrazione risolvettero elegantemente il problema di otte­ nere un edificio piu grande, piu solido e piu luminoso. Allo stesso modo, il romano divide la falange in parti piti corte e ciò che toglie dalla fronte lo aggiunge al fondo. Ne viene fuori cosi il manipolo, corpo tattico di 120 uomini, quasi quadrato, uguale di fronte e di fianco, meno facile da avvolgere e soprattutto straordinariamente mobile. Quando la prima linea cede su un punto, il manipolo di retroguardia è pronto a colmarlo. Orbene, il manipolo si componeva di due centurie di 60 uomini. La centuria e il centurione hanno for­ giato la storia di Roma. Cellula del corpo belligerante, la centuria era, nello stesso tempo, l'unità elettorale in cui era . organizzato il corpo dei votanti. Accanto alle due innovazioni - giurisdizione consolare e ma­ nipolo - non sono di minore importanza queste altre : il pilum e l'accampamento. L'oplita greco combatte con la lancia, il romano col dardo che lancia, dividendo cosi l'incontro in due azioni: una di guerra a distanza che prepara il secondo di lotta ravvicinata alla spada. Di notte l'esercito non dormiva se prima non aveva sca­ vato una fos�a intorno e alzata una palizzata : questo accampamento fortificato costituisce, alla lunga, una delle grandi forze ·del popolo romano. Il popolo romano ! Forse converrebbe che ci mettessimo d'accordo sul senso stretto di questa espressione. Ogni volta che il potere pub­ blico parlava, lo faceva in nome del senato e del popolo Senatus populusque - il S.P. Q.R. delle insegne (che appaiono nelle pro­ cessioni di Siviglia, e un ingenuo sportivo, meravigliato, leggeva SPORT). Anzitutto sorprende il dualismo. Roma non è, a quel che pare, una cosa sola ma due : un senato e un popolo. Quando Roma non fu piu queste due· cose e diventò una sola - come le nazioni attuali - fini di esistere. Questo dualismo ha una forza incalco­ labile che .sarebbe utile proporre alla meditazione dei politici con­ temporanei. Vi è nascosto il segreto della grandezza romana ; e dico il segreto perché infatti si tratta di un mistero, di una costituzione -

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la piu irrazionale che sia esistita finora e oltre a ciò o forse per questo la plu efficace della storia. Ma non è questo il momento. Volevo dire che, se traduciamo il Senatus populusque con il Se­ nato e il popolo, facciamo una traduzione letterale ma falsa. Per popolo oggi intendiamo il corpo civile. Orbene, il vero senso di populus fu in origin'e quello del corpo armato. Ma chi vuole dare H significato piu profondo di questa formula, secondo lo spirito di Roma, ·deve invertire in modo paradossale i termini e dire « il popolo e l'esercito ». Nella mente romana il civile era il senato, i signori terrieri, le vecchie famiglie o gentes che si sposavano per confarreatio e potevano lasciare eredi. Questi eredi - che ereditano tutto, proprietà e pieni poteri - sono gli unici figli . di padre, i patrizi. Gli altri non hanno padre, in puro stile giuridico romano, ma solo genitore : sono prole, e di qui proletari. Questi vecchi agricoltori, il popolo civile, combattono con le armi in mano ma hanno bisogno di ausiliari per le loro campagne e · allora organizzano intorno a sé un corpo di combattenti - il populus - composto · di piccoli pro­ prietari ·di terra che stanno in campagna. Mommsen mette questa parola in relazione con populari che non è popolare ma al contrario spopolare, devastare. (Colui che feriva la vittima del sacrificio si chiamava papa). Il populus i:i:t un primo tempo non interviene che in questioni di guerra e il suo ingresso in politica si fa a forza di scioperi militari. Quando il nemico si avvicina ai colli, il populus si rifiuta -di partire per la guerra. Di qui le innumerevoli e leggendarie r�tirate su questo o quel monte - Aventino, Sacro, Gianicolo che hanno rotto la testa a tanti eruditi. Il romano puro sangue, del buon tempo della Repubblica, non concepiva un cittadino che non fosse agricoltore. E ciò per la sem­ plice ragione che non concepiva si potesse essere cittadini senza soldati. Orbene il soldato dov�va allora equipaggiarsi da . solo, cosa impossibile se non aveva nulla. Ma non è la terra che direttamente gli dà . il comando, bensi l'arma che gli offre la terra. Per questa ragione non acquista i diritti politici finché non ha combattuto, mal­ grado fosse proprietario· da tanto tempo. Si può dire che col pretesto della guerra contro i sanniti questa plebe rurale riesce a costrin­ gere i signori ·del senato e a . trasformarsi veramente nel populus r01nanus. . Non si può capire la storia romana se non si capisce questo dualismo di grandi terrieri che vivono nell'urbe e di piccoli pro­ prietari che vivono in campagna. Fra gli uni e gli altri si accendono le grandi lotte politiche fino all'epoca di Cesare. I signori del senato sono gli ufficiali : i contadini sono i soldati. Gli uni hanno . bisogno

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degli altri e questo origina l'ammirevole, l'organica coesione del­ l'azione romana fino al secolo II avanti Cristo. In questo modo la parola piu docile è civile · di tutte, popolo, a cui ricorsero i pacifisti, ha un'inquietante origine bellica. E, senza dubbio, · lo stesso accade con l'altra parola · che simholizza la pace in ·diverse lingue : villaggio in tedesco è Do,rf che n eli'�ntico tedesco del nord è thorp, da dove viene la nostra truppa : come in russo, popolo è polk e significa esercito. ( Lo spettatore, trad. C. Bo, Milano, Bompiani, vol. II, 1960, pp. 171-184).