Gesù uomo nella storia, Dio nel pensiero

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M a s s im o B o n t e m p e l l i C o stan zo P r ev e

Uomo nella Storia Dio nel Pensiero

L a crisalide 6 La Crisalide è una collana di testi che vorrebbe contribuire a promuovere, con proprie domande, una libera ricerca teori­ ca, ed una comunità il cui legame sociale sia intessuto con il filo a due colori della libertà e della verità. Perché la comunità («la forma che i rapporti umani debbo­ no assumere perché la vita degli uomini abbia un valore») è «l’utopia concreta» che fa muovere la storia: n uova com un ità che sostituisca le vecchie comunità artificiali. La crisalide, allora, in quanto luogo delle metamorfosi, ma­ trice delle trasformazioni. Infatti, più che un involucro protet­ tore, la “crisalide-comunità” di oggi (nel costruire e sperimen­ tare un cammino verso la ‘nuova’ comunità), rappresenta uno stato eminentemente transitorio, in forte ‘tensione’ conosciti­ va fra due momenti del divenire. È la rappresentazione simbolica di un periodo di matura­ zione: in essa si allude e si implica la rinunzia al passato e l’accettazione di un nuovo stato, condizione della realizzazio­ ne, allora sì davvero comunitaria. Fragile e misteriosa come una gioventù ricca di promesse, ma dalla quale non si sa esattamente cosa scaturirà, la crisa­ lide vuole rispetto, cura e protezione: è l’avvenire che si forma.

In copertina: H. Matisse, Icaro, 1943, tavola a pochoir per Jazz, pubblicato nel 1947.

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M assim o B o n tem pelli C ostanzo P reve

G esù U omo nella S toria D io nel P ensiero

N o ta e d ito ria le Chi ama vola, corre, giubila, è libero e nulla può trattenerlo.

Questo libro trae le sue scaturigini da Nichilismo, Ve­ rità, Storia, il testo di Bontempelli/Preve pubblicato dal­ la nostra Editrice nell’aprile 1997. Scriveva allora Preve, nel capitolo II miracolo di Gesù di Nazaret: l’unità di ontologia e assiologia: «Il miracolo consisteva nel conoscere prima di tutto la verità [...]. La verità è unità di ontologia e di assiologia. I due termini si identificano, e non fanno parte di mondi paralleli che non si incontrano mai, come sostiene ciò che più tardi venne denominata “fallacia naturalistica”» (p.115). E Bontempelli, nel capitolo II concetto di libera individualità socia­ le, corroborava la precedente tesi e invitava a ricercare più fecondi orizzonti di senso e di pensiero «in relazione a cui poter progettare nuovi percorsi storici», collocando l’og­ getto teorico di modo di produzione certamente ad un li­ vello ontologico «sovraordinato a quello di storicità», ma «ancora sottoordinato a quello dell’ontologia veritativa», perché, come scriveva, «l’analisi scientifica di un modo di produzione non raggiunge la sua pienezza veritativa se non è filosoficamente correlata ad una verità ontologi­ ca che ne illumini il senso umano» (p. 83): e ciò in quanto il fondamento veritativo intrinseco alla nozione di libera individualità sociale rende tale nozione oggetto teorico di natura eminentemente antropologico-filosofica. Gesù. Uomo nella Storia. Dio nel Pensiero muove da queste premesse. Gli autori, avendo di mira principal­ mente la verità, e non solo la storia, nel prendere in esa­ me la figura di Gesù, non si sono fermati alla narrazione, alla verità narrativa, ma ne hanno ricercato la verità fon­ dativa. 5

La realtà storica indagata è considerata dagli autori infinitam ente più complessa dei modelli dello storico, anche se in essi vuole essere compresa. In questo passaggio d’epoca in cui tutto sembra dis­ solversi in un confuso processo produttivo, Bontempelli e Preve hanno dissotterato una «mina culturale», cercan­ do di porsi ai confini del nostro orizzonte culturale, in­ contrando la figura di Gesù così come canta Puskin in una delle sue più profonde poesie (Versi composti in una notte insonne)'. «Io ti voglio comprendere, / Cerco il senso che è in te». Porsi ai confini può anche significare non aver ségui­ to, non essere compresi, vivere la solitudine della pro­ pria ricerca. Ma giova ricordare due versi di un altro poe­ ta russo, Tiutcev: «A noi non è dato predire, / l’eco delle nostre parole». Diremmo quasi che qui sia l’arte (“arte della filosofia”) a fare irruzione nella storia (in quanto finestra sul pas­ sato), aprendo così una finestra sul futuro, nella consa­ pevolezza che “tra il presente e il futuro scorre l’imprevedibilità”. «Ci vuole un immenso amore [...] per spendere una vita intera a coltivare l’ideale di una società in cui ogni essere umano sia libero di esprimere le sue potenzialità umane. Gesù ha trovato in se stesso tutto questo amore, e ne ha avuto compiuta consapevolezza, perché ha posto l’amore al di sopra di ogni altra legge, prescrivendolo come suo unico comandamento. [...] L’amore, d’altra parte, essendo ontologicamente radicato nel riconoscimento reciproco tra gli individui umani necessario alla costituzione della loro identità sog­ gettiva, rappresenta una sorgente umanamente perenne di comportamenti creativi. [...] Ma la forza creatrice del­ l’amore, il valore universale dell’individualità, la priori­ 6

tà assiologica della giustizia, il principio della speranza, sono, filosoficamente parlando, le dimensioni di esisten­ za della libertà, e le articolazioni concettuali della verità logico-ontologica» (pp. 174 e ss.). Sono questi contenuti che hanno ispirato anche la scel­ ta deirimmagine di copertina: Ylcaro di H. Matisse. Ica­ ro con le braccia aperte in volo, che «tende verso l’alto», verso la luce. La chiave per comprendere Tesplosione di senso” di questa opera d’arte ce la fornisce lo stesso Ma­ tisse, che aspirava a realizzare una «pittura ariosa, addi­ rittu ra aerea» collocata in uno spazio senza frontiere. Nella rivista d’arte da lui diretta, Jazz, Matisse collega il volo, Icaro, «alla purezza e alla semplicità», come dati caratteristici del suo futuro metodo artistico nonché del comportamento morale che lo sottende. Non sorprende allora di trovare in Jazz molte citazioni che Matisse trae da Imitazione di Cristo, un’opera attribuita al fiammin­ go Tomaso Da Kempis (1380-1471) - altri la attribuisco­ no all’italiano Giovanni Gersenio (c. 1180-1240). L'Icaro di Matisse, nei suoi stessi scritti, è la figurazione di colui che ama, e l’artista sottolineava per la sua teoria soprat­ tutto questi passi di Imitazione di Cristo : «Chi am a vola, co rre, g iubila, è lib ero e n u lla può tra tte n e rlo . Egli dà tutto per tutti e tutto trova in tutte le cose. [...] Spesso l’amore non conosce misura, ma divampa fuori misura. L’amore non sente peso, non cura fatica, vorrebbe fare di più di quel che può, non adduce a pretesto l’impossibilità, perché si crede lecito e possibile tutto. L’amore si sen­ te capace di qualunque cosa, e molte ne compie e vi rie­ sce; mentre chi non ama, viene meno e si affloscia. [...] Affaticato non è stanco; pressato, non opera per forza; minacciato, non si turba». C .F. 7

M a s s i m o B o n t e m p e l l i (1946) è nato e vissuto a Pisa, dove insegna storia e filosofia in un liceo. Come studioso si è occupato so­ prattutto del pensiero dialettico, in alcuni interventi su qualche rivi­ sta italiana, e ultimamente in un libro scritto in collaborazione con un altro studioso pisano, Fabio Bentivoglio, Percorsi di verità nella dialettica antica (SPES Editrice, Milazzo 1996). Ma il suo impegno maggiore è stato dedicato ad un tentativo con­ tro corrente di immettere cultura viva, spessore di significati teorici, e strumenti di orientamento etico, nell’insegnamento della filosofia e della storia nella scuola italiana, attraverso corsi ai docenti e pubbli­ cazione di manuali. Tra questi una storia del pensiero filosofico in tre volumi, scritta in collaborazione con Fabio Bentivoglio, Il senso del­ l’essere nelle culture occidentali (Trevisini, Milano 1992), che si se­ gnala per la chiarezza con cui rende accessibili filosofie complesse, quali ad esempio quella di Hegel e quella di Husserl. Importante anche il suo testo in due volumi, Civiltà storiche e loro documenti (Trevisini, Milano 1993), che offre un quadro complessivo e coerente delle civiltà antico-orientale, greca, romana e alto-medioevale, riconducendolo ai loro rispettivi modi di produzione, e presen­ tandolo attraverso una scelta calibrata dei loro documenti. Nel 1996 ha pubblicato, sempre con Fabio Bentivoglio, Percorsi di Verità della dialettica Antica. Eraclito - Platone - Plotino (Spes Editri­ ce, Milazzo).

C o s t a n z o P r e v e (1943) è nato a Valenza Po, in provincia di Alessandria. Da giovane ha studiato scienze politiche, filosofia e gre­ co a Torino, Parigi ed Atene, ed è stato attivo nei movimenti politici e culturali di ispirazione marxista degli anni Sessanta e Settanta. Attualmente vive a Torino, dove insegna in un liceo. E autore di numerosissimi saggi di cultura politica e filosofia marxista, pubblica­ ti su varie riviste italiane e straniere. Numerosi sono anche i suoi libri. Tra questi, La passione durevole (Vangelista, Milano 1989), in cui ha colto, prima ancora che si fosse manifestato il crollo del comuniSmo novecentesco, l’esaurimento sto­ rico della tradizione marxista, ed ha proposto di ripartire da Marx per ricostruire un paradigma di pensiero anticapitalistico, coniugan­ do comuniSmo e democrazia. Per molti giovani il suo nome è legato soprattutto a II filo di Arianna (Vangelista, Milano 1990), magistrale ricostruzione, in quindici lezio­ ni, degli aspetti più vitali e orientativi di un pensiero filosofico ispira­

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to a Marx. Un’altra tappa fondamentale della produzione teorica di Preve è stata segnata dalla pubblicazione de II convitato di pietra (Vangelista, Milano 1991), in cui la dissoluzione nichilistica della si­ nistra politica e sociale è illuminata da una serrata analisi filosofica e storica della natura del nichilismo. La maturazione teorica di Preve è culminata ne II tempo della ricerca (Vangelista, Milano 1993), in cui una approfondita riflessione sulle nozioni di modernità, postmodernità e fine della storia, retroa­ gisce in una critica chiarificatrice delle dicotomie abituali del pensie­ ro marxista e di alcuni punti essenziali dello stesso paradigma origi­ nario di Marx. Su questa linea si è sviluppata la feconda collaborazio­ ne di Preve con Giancarlo La Grassa, acuto studioso del modo capita­ listico di produzione, da cui sono nati importanti saggi, tra i quali ricordiamo La fine di una teoria (Edizioni Unicopli, Milano 1996), magistrale resa dei conti teorica e storica con il collasso della tradi­ zione politica e culturale marxista. Nati culturalmente da esperienze formative giovanili molto diver­ se, e passati attraverso diversi itinerari di ricerca, Bontempelli e Pre­ ve hanno verificato una sempre più accentuata convergenza del loro pensiero su elementi teorici forti: l’inevitabilità storica di un congedo dalla tradizione culturale e politica marxista, la necessità etica di mantenere aperto un orizzonte concettuale anticapitalistico, l’impe­ gno filosofico nella costruzione di un paradigma di interpretazione della realtà che superi i limiti di quello di Marx, mantenendone tutti gli apporti conoscitivi e tutta la forza critica. * * *

In questa stessa collana (La Crisalide 5), di Massimo Bontempelli e Costanzo Preve abbiamo già pubblicato (nell’aprile 1997) N ichili­ smo, verità e storia. Sono le tre nozioni cruciali su cui negli ultimi anni si è sviluppata la riflessione e la convergenza del pensiero di Bontempelli e di Preve. Esse danno perciò non a caso il titolo a questo libro, diviso in due parti: Verità e nichilismo, di Massimo Bontempel­ li; Verità e storicità nel Novecento, di Costanzo Preve. Le due parti del libro sono composte da cinquanta tesi di Bontem­ pelli e cinquanta di Preve, ciascuna delle quali condensa in forma lemmatica i risultati di studi approfonditi, e costituisce una proposta di discussione a tutti coloro che sono sinceramente interessati ad uscire dalla banalità delle idee oggi dominanti.

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La Palestina al tempo di Gesù.

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U om o n e lla S to r ia

1. D a l Gesù d ella tradizion e c ristia n a a l Gesù d e lla storia Gesù di Nazareth non fu ai suoi tempi un personaggio particolarmente famoso. La sua predicazione in Galilea e in Giudea, e la sua condanna a morte per decisione del prefetto della Giudea Ponzio Pilato, non ebbero alcuna eco a Roma e nelle città latine e greche dell’Impero. Nelle regioni ebraiche ebbero probabilmente una certa risonan­ za, di cui oggi è difficile valutare la portata, ma che fu in ogni caso inferiore a quella delle gesta di taluni altri pre­ dicatori coevi. Giuseppe Flavio, lo scrittore ebreo roma­ nizzato che raccolse gran parte della tradizione culturale e religiosa ebraica nei venti volumi delle sue Antichità giudaiche, parlò di lui meno che di Giovanni B attista o di Teuda.i Furono i seguaci di Gesù delle generazioni successive che, con la loro straordinaria capacità di diffondere la sua parola in ogni ambiente geografico e sociale, lo pose­ ro in un ruolo assolutamente fondamentale nella storia del genere umano, trasformando però il suo messaggio nella fondazione di una religione istituzionalizzata, e la sua figura in un’incarnazione divina. L’immagine di Gesù che abbiamo ereditato dalla tradizione cristiana è stata perciò un’immagine teologica, non storica, il cui peso ha irrigidito in schemi storiograficamente sterili la lettura dei libri del Nuovo Testamento. L’intento di riscoprire, dietro al Cristo teologico senza tempo, la vicenda effetti­ va dell’uomo Gesù nella Palestina dell’epoca di Augusto e di Tiberio, si è manifestato soltanto negli ultimi due secoli, ed ha fatto scrivere numerose Vite di Gesù. 1 he A ntichità giudaiche dedicano a Gesù due brevissimi paragra­ fi, il 63 e il 64, del libro XVIII, nel contesto del racconto degli inci­ denti provocati in Giudea dal governo di Ponzio Pilato. G esù

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Chi, tuttavia, legga queste Vite, può rimanere facil­ mente sconcertato dalla diversità delle conclusioni a cui esse giungono, e, se vi presta attenzione, può notare come ognuna delle immagini di Gesù che esse propongono sia in realtà l’immagine degli ideali umani del suo autore.2 Da ciò, e dall’impianto sempre più demolitorio delle tecniche di analisi dei testi, è derivata la convinzione, oggi largamente diffusa, che non ci siano effettive infor­ mazioni storiche su Gesù. La sua figura è diventata allo­ ra, a seconda degli interpreti, o il punto di riferimento della fede, o una costruzione mitologica, o un’elaborazio­ ne delle primitive comunità cristiane a partire da un ori­ ginario, vago ricordo storico, di cui sarebbe andata per­ duta ogni traccia. Noi intendiamo mostrare che le cose non stanno in questi termini, e che siamo in grado di conoscere, della vicenda effettiva di Gesù, certamente non molto, ma nep­ pure tanto poco. Tralasceremo di considerare, in questa sede, i pur in­ teressantissimi processi storici e culturali attraverso i quali la fede di Gesù è diventata, dopo la sua morte, la fede in Gesù dei suoi seguaci, che ha riplasmato la sua immagine come figura divina, per meglio concentrare la nostra attenzione sulla storia dello stesso Gesù. Cerche­ remo di incontrarlo nella realtà dei suoi tempi, dei suoi luoghi, e dei suoi progetti, e di interrogare sul senso della nostra umana condizione non la sua pretesa divinità, ma la sua umanità storicamente determinata. Un personaggio storico non può venire incontrato e interrogato che attraverso le narrazioni con le quali ne è stata tram andata la memoria. Per quanto concerne Gesù, 2 Cfr. R inaldo F abris , Gesù di Nazareth, Cittadella Editrice, 1983, nel capitolo primo (Il dibattito storico su Gesù) e nel capitolo decimo (Il dibattito continua). Gesù

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queste narrazioni sono i Vangeli,3e soltanto i Vangeli, in quanto le poche altre fonti che menzionano il suo nome non dicono quasi nulla di lui. Il breve brano che Giusep­ pe Flavio ha dedicato a Gesù nell e Antichità giudaiche, e che avrebbe potuto costituire Tunica fonte non cristiana sulla vicenda storica di Gesù, ci è giunto soltanto in una versione pesantemente interpolata dai copisti cristiani.4 3 II termine Vangelo, o, più propriamente, Evangelo, è parola greca che significa letteralmente “buona notizia”, notizia, cioè, dell’awenuta salvazione del genere umano nella persona di Gesù, il Cristo. Nel I secolo la parola era usata per designare l’annuncio di salvezza porta­ to da Gesù. Fu soltanto nel II secolo che essa passò a designare la narrazione di questo annuncio, e qualsiasi libro la contenesse. Si par­ lò, allora, al plurale, di Vangeli, perché diversi furono i libri che nar­ ravano questo annuncio. Essi erano scritti anonimi, che circolarono senza titolo alcuno fino alla seconda metà del II secolo, quando la Chiesa ne scelse quattro come canonici, cioè come gli unici autorevoli in quanto ritenuti una rivelazione divina. Gli altri furono definiti apo­ crifi, nel senso non di falsi, ma di non autorevoli. I Vangeli canonici furono intitolati allora, non sappiamo sulla base di quale tradizione, rispettivamente “secondo Matteo”, “secondo Marco”, “secondo Luca” e “secondo Giovanni”. Non c’è però in realtà alcuna prova che quei per­ sonaggi siano stati gli autori effettivi dei Vangeli che sono stati a loro collegati. Ci riferiamo ad ogni modo a questi Vangeli quando diciamo che attraverso le loro narrazioni è possibile arrivare al Gesù della storia. Nei Vangeli apocrifi c’è infatti ben poco che possa risalire al­ l’epoca di Gesù. 4 II brano, che segue alla trattazione di altri personaggi vissuti al­ l’epoca di Pilato (cfr., qui sopra, nota 1), introduce Gesù presentando­ lo come un uomo saggio, considerato un messia dai suoi seguaci, che il governatore romano condannò a morire sulla croce su accusa dei capi del popolo ebraico. Queste sono sicuramente frasi autentiche di Giu­ seppe Flavio, perché un cristiano non avrebbe definito Gesù uomo saggio, avrebbe detto che era, e non era stato considerato, il messia, e ne avrebbe parlato subito dopo la trattazione di Giovanni Battista, che invece è collocata altrove. Il brano prosegue tuttavia dicendo che Gesù fu operatore di miracoli, che fu maestro di coloro che cercavano la verità, che tre giorni dopo la sua morte riapparve vivo a coloro che

Gesù

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I Vangeli, tuttavia, sono i documenti stessi da cui ha preso le mosse la costruzione del personaggio Gesù come figura teologica. Essi sono testi religiosi, non storici, che ci chiedono di credere che Gesù sia stato il Cristo predet­ to dalle Scritture, e che abbia adempiuto la sua missione salvifica. Essi riportano le parole e le azioni di Gesù in pericopi*5decontestualizzate, che riflettono le esigenze di insegnamento e di predicazione delle prime comunità cri­ stiane. La loro lingua è il greco ellenistico, e non l’aramaico parlato da Gesù. I loro racconti sono sicuramente intessuti di vari elementi leggendari. Per tutti questi motivi è stata spesso negata loro ogni storicità. Ma que­ sta negazione non è sensata, perché, se dessimo credito ai motivi per i quali viene sostenuta, ogni genere di atti­ vità storiografica diverrebbe impossibile. La ricostruzione storiografica del passato si avvale soltanto parzialmente di documenti essi stesi di natura storiografica. La nostra conoscenza dell’Atene classica, ad esempio, non dipende esclusivamente da fonti come Erodoto, Tucidide e Senofonte. Un testo come l’Apologià di Socrate è stato scritto da Platone con finalità etiche, per tramandarci l’esemplarità imprescindibile della fi­ gura morale di Socrate, e non certo per darci informazio­ lo avevano amato, e che tutte le meraviglie da lui compiute erano state predette dai profeti. E ovvio che Giuseppe Flavio, il quale non credeva affatto alla messianicità di Gesù, ed era anzi avverso ad ogni forma di messianismo ebraico, non può aver scritto quelle frasi. Esse sono state certamente inserite da copisti cristiani, al posto di ciò che Giuseppe Flavio aveva effettivamente scritto, e che non siamo ormai più in grado di conoscere. 5 II termine pericope è parola greca che significa letteralmente “ta­ gliato intorno”. Si tratta di un termine tecnico per designare piccole unità informative narrativamente autonome e concluse in se stesse, al punto che la loro collocazione potrebbe essere spostata senza rom­ pere il filo di alcun racconto. Gesù

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ni sulle ultime fasi della guerra del Peloponneso e sul regime dei Trenta Tiranni, eppure gli storici se ne avval­ gono senza alcun problema anche a quest’ultimo scopo. La nostra conoscenza delle invasioni germaniche dell’Impero Romano, per fare un altro esempio, non dipende sol­ tanto dalle cronache storiche come quella di Prospero d’Aquitania. Un testo particolarmente illuminante di quell’argo­ mento è considerato il De gubernatione Dei del prete Salviano, benché sia stato scritto con intenti teologici. Un testo religioso che si riferisca, pur senza fini storiografi­ ci, ad una determinata vicenda umana, può dunque co­ stituire una buona fonte storica di quella vicenda. Ciò è possibile, naturalmente, soltanto se la sua uti­ lizzazione è guidata dalla capacità metodologica di sepa­ rare il piano storico che si riferisce alla vicenda da rico­ struire, da un altro piano storico, quello a cui apparten­ gono le idee entro le quali la fonte ha recepito il passato. Senza questa capacità metodologica, sfuma la storicità non soltanto dei documenti privi di fini storici, ma persi­ no delle migliori fonti di sicura natura storiografica. Prendiamo ad esempio l’immagine che Tacito, univer­ salmente e giustamente considerato storico di grande attendibilità, ci ha tramandato degli imperatori romani succeduti ad Augusto. Senza una capacità di separare, da quell’immagine, l’ideologia della classe senatoria a cui Tacito appartiene, che attribuiva alla follia dispotica de­ gli imperatori la perdita del proprio ruolo dirigente poli­ tico, la stessa vicenda da lui narrata risulterebbe priva di storicità. Non ha storicità, infatti, l’immagine di un Impero ro­ mano governato per un intero secolo da scelte scaturite esclusivamente dalle pazzie, dalle ossessioni, e dalle ge­ losie individuali e private dei suoi imperatori. G esù

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La ricostruzione storiografica del passato si avvale normalmente anche di fonti che ce lo restituiscono sotto forma di episodi isolati, non connessi tra loro in una se­ quenza cronologica, e non collocati nel loro originario con­ testo. Le biografie di Plutarco, ad esempio, sono per Jo più costruite in tal maniera, eppure non c’è storico che non le consideri fonti preziose. L’importante è utilizzarle con le cautele metodologiche messe a punto per narrazio­ ni di questo tipo, con i possibili confronti critici tra i loro diversi elementi interni, e con tutte le appropriate com­ parazioni con le nostre conoscenze di altre origine. Se si applicano questi stessi criteri nello studio dei Vangeli, non c’è ragione per escludere la possibilità di far emerge­ re un fondo di storicità dal loro contenuto narrativo. Il fatto, poi, che la lingua in cui sono stati scritti i Van­ geli non sia la stessa lingua parlata da Gesù, è di ben poca rilevanza. Siamo informati, infatti, che la traduzio­ ne di alcune importanti espressioni del messaggio origi­ nario di Gesù dall’aramaico in greco era stata compiuta, ben prima che fossero redatti i Vangeli che conosciamo, in funzione di esigenze di predicazione. Inoltre, quando qualche esperto di lingue antiche si è impegnato a ritra ­ durre in aramaico il testo evangelico greco, ha trovato interi brani disposti in versi, a riprova che la versione greca ha conservato fedelmente un originale aramaico predisposto per la trasmissione orale.6 Del resto, la di­ stanza temporale di Gesù dall’epoca di redazione dei Van­ geli è- di pochi decenni: una situazione molto migliore di 6 La forza della trasmissione orale della memoria storica nelle civil­ tà antiche, e in particolare tra i popoli dell’Antico Oriente, rischia facilmente di venire sottovalutata. Il nostro tempo, che vive già oltre l’età della scrittura, in un mondo televisivo e telematico, ha visto spa­ rire la capacità di custodire il ricordo delle vicende passate nella men­ te umana, e di trasmetterlo con la parola parlata. Ma nelle epoche in Gesù

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quella che lo storico trova, ad esempio, riguardo ad Ales­ sandro Magno, distante alcuni secoli dall’epoca di reda­ zione delle biografie che ci sono pervenute su di lui. Rimangono da considerare, infine, i tratti sicuramen­ te leggendari delle narrazioni evangeliche. A tal proposi­ to si deve osservare che la loro presenza non è affatto di per se stessa indice di una mancanza assoluta di storici­ tà. È certamente sensato non prestar fede a taluni aspet­ ti favolosi del racconto evangelico, come la nascita di Gesù da una vergine, il suo miracoloso salvataggio infantile dalla persecuzione di Erode, la sua capacità di far torna­ re in vita Lazzaro già morto. Ma prestiamo forse fede, poniamo, a tutto ciò che ci è raccontato su Ciro di Persia dal “padre della storia” Erodoto? Crediamo, ad esempio, che Astiage avesse ordinato, sulla base soltanto di un sogno, di ucciderlo non appena fosse nato? Crediamo che fosse stato salvato e allevato, in circostanze stranissime, da un bovaro? Non ci crediamo, eppure non ci viene nep­ pure in mente di inferirne l’assoluta non storicità di Ero­ doto riguardo a Ciro, o di considerare Ciro un personag­ gio storicamente inconoscibile per i panni favolosi di cui la tradizione antica lo ha rivestito. Sappiamo, infatti, che c’è una storicità sottostante anche a determinate leggen­ de, e che portarla alla luce è questione di metodo storico. Non si vede perché tutto questo non debba valere anche per i Vangeli. Quel che intendiamo dire è che le narrazioni evangeli­ che, pur non essendo per nulla documenti storiografici, posseggono tuttavia sicuramente la storicità minima necui la stessa scrittura era una tecnica d’avanguardia, e particolar­ mente tra i popoli dell’Antico Oriente, quelle capacità erano al massi­ mo livello, ed esistevano efficacissime tecniche di memorizzazione delle parole trasmesse soltanto a viva voce, tra le quali l’espressione in versi. G esù

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cessaria per consentirci di pervenire ad un’immagine sto­ rica di Gesù. Tale storicità può essere tuttavia effettiva­ mente colta solo a tre condizioni. La prima condizione è che si abbia consapevolezza fi­ losofica del rapporto che l’uomo intrattiene con il suo passato storico. Occorre cioè aver chiaro in quale manie­ ra, e con quale significato per il presente, una vicenda che lo scorrere del tempo ha irrevocabilmente allontana­ to dal presente, e continua incessantemente ad allontanarvela sempre più, possa essere recuperata ad esso sot­ to la diversa forma di una ricostruzione storica. Senza una forte consapevolezza di questo genere un personag­ gio così carico di valenze ideologiche precostituite, e di così impegnativo accesso storiografico, come Gesù, non può venire adeguatamente collocato nella storia reale. La seconda condizione è che non si confonda la storici­ tà di una fonte né con la corrispondenza di ogni suo par­ ticolare narrativo ad accadimenti effettivi, né con un ri­ scontro fattuale degli scopi per i quali è stata redatta. La discussione sulla storicità dei Vangeli è stata tradizio­ nalmente inquinata da questo equivoco, perché si è rite­ nuto che riconoscerla implicasse riconoscere che Gesù avesse risuscitato i morti, e che fosse provato il fonda­ mento di verità della religione nata dalle testimonianze evangeliche. Ciò non soltanto ha favorito l’assunzione di schemi interpretativi precostituiti, portando a decidere su un terreno extrastorico anche questioni di natura schiettamente storica, ma ha anche fatto perdere di vi­ sta lo spessore complesso e polisenso della nozione di sto­ ricità. La terza condizione necessaria per cogliere la storici­ tà delle narrazioni evangeliche è quella di assumere ri­ spetto ad esse un atteggiamento di ricerca non diverso da quello normalmente adottato per tutte le altre fonti Gesù

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storiche. Si tratta di un criterio apparentemente banale, sul quale però solitamente scivolano i tentativi di rico­ struzione della figura storica di Gesù. Di fronte ai Vangeli, infatti, gli studiosi tendono, a se­ conda dei presupposti culturali da cui muovono, o ad una presunzione di verità dei fatti narrati eccessiva rispetto ni normali canoni storiografici, oppure, viceversa, ad un vaglio ipercritico dalle maglie molto più strette di quanto normalmente in uso per le fonti storiche, oppure, su un altro piano, ad un uso del ragionamento inferenziale, per colmare le lacune informative, al di fuori delle precauzio­ ni metodiche solitamente adottate nella ricerca storica. Nel primo caso si apre la strada per contaminare in­ debitamente il Gesù della storia con il Cristo della teolo­ gia. Nel secondo caso si precostituiscono gli elementi per porre il Gesù della storia al di fuori della conoscenza ra ­ zionale, abdicando alla responsabilità di confrontarsi con il suo messaggio, e legittimando produzioni di analisi tan­ to dotte quanto vacue. Nel terzo caso si rende il Gesù della storia ingiustificatamente abbastanza flessibile da poterne disegnare la figura in modo da conformarla alle speranze da cui si è sostenuti. In tutti e tre i casi si fanno cadere le difese metodologiche, che pure esistono, contro una interferenza incontrollabile delle ideologie e dei de­ sideri degli studiosi sul loro oggetto di studio. Per noi non è affatto inevitabile che ogni ricostruzione della figura di Gesù sia di fatto una proiezione di tali ideologie e desideri. Al contrario, riteniamo di poter mo­ strare la possibilità di farla emergere con contorni effet­ tivamente storici, sulla base delle tre condizioni di cui abbiamo detto. La nostra stella polare sarà, in particolare, di non di­ menticare mai, di fronte ad ogni brano dei Vangeli di cui ci serviremo per incontrare Gesù, di come ci regolerem­ Qksù

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mo se il brano fosse di Erodoto o di Plutarco, e ci servisse per arrivare a conoscere un qualsiasi altro personaggio storico. Si potrebbe tuttavia obiettare che un tale criterio è di fatto inapplicabile, per l’assoluta specificità dei Vangeli rispetto ad altre fonti. Le narrazioni evangeliche sono infatti intimamente strutturate fin dall’inizio dalla loro finale e decisiva testimonianza, quella che Gesù è risorto dalla sua morte. Essa ci viene presentata non come una enunciazione metafisica, e neppure come una notizia dai contorni fattualmente indeterminati, bensì come un’in­ formazione storicamente ben circostanziata, e suffraga­ ta da ben definiti riscontri di taluni seguaci di Gesù. Po­ trebbe sembrare perciò ineludibile una scelta di lettura preliminare e radicale, tale da rendere impensabile qual­ siasi analogia di metodo con l’analisi di documenti di al­ tro genere. O, cioè, si sceglie di prestar fede alla testimonianza di quello specialissimo evento che è la risurrezione, ma al­ lora introduciamo nella ricostruzione storica una m ani­ festazione soprannaturale, e adottiamo rispetto al pas­ sato storico la stessa chiave di interpretazione della fon­ te che ce lo ha trasmesso, cioè facciamo due cose che non faremmo con alcuna altra fonte storica. Oppure respin­ giamo quella particolare testimonianza, ma allora taglia­ mo ogni credito ai Vangeli e alla tradizione alla quale i Vangeli attingono. Quella particolare testimonianza, in­ fatti, non si basa su una tradizione impersonale, come tutte le altre informazioni evangeliche, comprese le in­ formazioni storicamente circostanziate sull’ultima setti­ m ana di Gesù a Gerusalemme, ma trasm ette le osserva­ zioni personali di precisi individui della più ristretta cer­ chia di Gesù. Se dunque non la si ritiene credibile, sem­ bra che non si debba a maggior ragione ritenere credibile G esù

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alcuna altra informazione dei Vangeli, e che si debba con­ siderare falsa fin dalla sua origine la tradizione confluita in quella fonte, a differenza di quanto supponiamo per le tradizioni raccolte da altre fonti. Sembra quindi che la scelta dell’interprete riguardo all’evento della risurrezio­ ne, qualunque essa sia, impedisca di regolarsi con i Van­ geli come con Erodoto o con Plutarco. La questione è così decisiva riguardo al metodo di ri­ cerca da adottare, e perciò riguardo alla possibilità stes­ sa di incontrare il Gesù della storia, che richiede un chia­ rimento preliminare. Per questo motivo la nostra storia di Gesù comincia dalla fine, cioè dalle testimonianze del­ la sua risurrezione prodotte dai suoi seguaci dopo la sua morte.

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2. TJincontro con Gesù dopo la sua m orte Il documento più antico che faccia menzione della ri­ surrezione di Gesù non è uno dei Vangeli, ma una lettera di Paolo, nella quale sono elencate le apparizioni di Gesù dopo la sua morte. Gesù, dice Paolo, riferendo la tradizione giunta fino a lui, dopo la sua morte apparve una prima volta a Cefa, che è il nome di Pietro in lingua aramaica. La sua secon­ da apparizione fu al cospetto della cerchia ristretta dei suoi apostoli, i cosiddetti Dodici. Poi, prosegue Paolo, apparve a cinquecento discepoli riuniti, e successivamente a Giacomo. Infine apparve al mittente della stessa lette­ ra.i Questa testimonianza è considerevolmente diversa da quella dei Vangeli, soprattutto perché non fa alcun riferi­ mento alla tomba trovata vuota da Maria Maddalena e da altre donne, ed al ruolo da esse giuocato nei giorni successivi alla morte di Gesù, che nei Vangeli rappresen­ tano invece l’origine della fede nella risurrezione. Si può provare che il nucleo originario dell’intera te­ stimonianza cristiana della risurrezione di Gesù è den­ tro la tradizione confluita nei Vangeli, e che da tale nu­ cleo originario si è sviluppata in tempi brevi una pro­ gressiva amplificazione leggendaria, già a buon punto quando Paolo scriveva le sue lettere. Vediamo. La progressiva amplificazione leggendaria non può essere seriamente negata da alcuno, perché risulta dal confronto dei Vangeli stessi tra loro. Il secondo Vangelo, che è in realtà cronologicamente il primo ad essere stato redatto, e quello nel quale è confluita la tradizione più antica, cioè il Vangelo di Marco, nella sua versione origi1 1 Corinzi 15 , 3-8 . G esù

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nana racconta una risurrezione non vista da alcuno.2Esso narra, infatti, come il primo giorno della settim ana im­ mediatamente successiva a quella della morte di Gesù, Maria Maddalena si fosse recata di buon mattino, insie­ me ad altre due donne, nel giardino dove aveva visto sep­ pellirlo, per prestargli le cure funebri allora in uso. Aven­ do trovata rimossa la pietra sepolcrale, si era introdotta nel sepolcro scavato in una roccia di quel giardino. Den­ tro, il corpo di Gesù era scomparso, e c’era un giovinetto seduto, il quale, rivolto alle donne, disse loro di non cer­ care più il morto, perché Gesù era ormai risorto. Con questa notizia della risurrezione, data senza indicarne né provenienza né fondamento, e con la fuga spaventata delle donne dal sepolcro scoperchiato e vuoto, si chiude l’annuncio evangelico originario.3 La narrazione del Vangelo di Luca diverge dal raccon­ to di Marco, perché attinge ad una tradizione successiva i cui elementi sono parzialmente diversi: le donne che accompagnano Maria Maddalena non sono le stesse, e trovano non un giovinetto ma due uomini; questi uomini, inoltre, non stanno seduti dentro il sepolcro, ma vengono dall’esterno, e dicono cose diverse da quelle dette dal gio­ vinetto nel Vangelo di Marco.4 Quel che qui ci interessa, 2 II Vangelo di Marco (titolo che deve essere inteso, lo ricordiamo, e l’avvertenza vale anche per la designazione che diamo di tutti gli altri Vangeli di qui in poi, non già come Vangelo di cui sappiamo essere stato autore Marco, ma come Vangelo ecclesiasticamente collegato a Marco, secondo quanto spiegato in nota 3 del cap. 1), termina nel suo testo originario, o almeno nel testo che troviamo nei codici più anti­ chi, al 16, 8. Il testo che segue nelle attuali edizioni (16, 9-20), e che riporta un elenco riassuntivo dei riconoscimenti di Gesù risorto nar­ rati dagli altri Vangeli, è stato posteriormente inserito, alla fine del II secolo, nel documento canonico, come è universalmente ammesso. 3 Marco 16,1-8. 4 Luca 24, 1-8. (ÌKSÙ

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tuttavia, non sono tanto queste differenze, quanto il fat­ to che la tradizione a cui appartengono è portatrice di un’amplificazione considerevole della notizia della risur­ rezione: i due uomini che l’annunciano davanti al sepol­ cro vuoto hanno vesti abbaglianti come folgori, e riferi­ scono alle donne che Gesù aveva già predetto in vita il modo in cui sarebbe morto, e come avrebbe vinto la mor­ te dopo tre giorni, assicurando che gli accadimenti si era­ no già svolti esattamente secondo le sue predizioni; le donne, poi, diffondono tra gli apostoli l’annuncio loro co­ municato, dicendo di averlo ricevuto da una visione di angeli, e gli apostoli, inizialmente diffidenti, ne trovano successivamente conferma, perché fanno essi stessi alcu­ ni incontri con Gesù risorto. La narrazione del Vangelo di Matteo riprende gli ele­ menti essenziali del racconto di Marco, dal quale eviden­ temente dipende, ma inserendoli in uno scenario di pro­ digi ben più eclatanti di quelli introdotti da Luca: il gio­ vinetto seduto nel sepolcro, ripreso da Marco, e al quale vengono fatte dire le stesse cose che dice in Marco, è pre­ sentato come un angelo disceso dal cielo; la sua discesa dal cielo è accompagnata da un terremoto che tram orti­ sce alcuni soldati messi a guardia del sepolcro; le donne presenti hanno la visione non soltanto del giovane, di­ ventato angelo, ma anche, subito dopo, di Gesù tornato vivo, che va loro incontro, senza che si dica da quale par­ te provenga, e come sia comparso.5 Abbiamo riassunto l’uno dopo l’altro questi brani dei Vangeli, perché essi, se letti e confrontati con un minimo di sincera volontà di conoscenza, parlano veramente da soli di una leggenda che si forma e si amplifica man mano che viene trasmessa la notizia della risurrezione di Gesù 5 Matteo 28 , 1- 10. G esù

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dalla morte. Non ha veramente senso ritenere religiosamente che ogni cosa raccontata dai Vangeli corrisponda ad un fatto effettivamente accaduto, perché ciò è contrad­ detto da una comparazione interna ai Vangeli stessi: se fosse effettivamente accaduto, durante la visita delle don­ ne al sepolcro di Gesù, il prodigioso terremoto di cui par­ la Matteo, perché Marco e Luca, quando ci informano di quella visita, non ne fanno alcuna menzione? Come può essere accaduto che il giovane che annuncia la risurre­ zione di Gesù alle donne sia stato visto da loro seduto dentro il sepolcro, quando vi sono entrate, e sia stato an­ che visto, invece, scendere dal cielo sopra il sepolcro, sen­ za che esse vi fossero entrate? E se ha ragione Matteo nel dirci che le donne, appena avuta la visione, corsero con gioia a riferirla agli apostoli, come può avere ragione an­ che Marco nel dirci che non si recarono a riferire ciò che avevano visto agli apostoli, perché erano sconvolte dallo spavento? D’altra parte, una volta provato che certe in­ formazioni dei Vangeli non corrispondono ad effettivi ac­ cadimenti, è razionale anche sospettare di tutte le altre che siano contrarie all’ordine naturale delle cose, pur in assenza di disconferme interne alle narrazioni stesse. Ma cosa c’è di più contrario all’ordine naturale delle cose di una risurrezione dalla morte? Se dunque nei Van­ geli c’è, come abbiamo osservato fin dall’inizio, una buo­ na dose di leggenda, e se sono in particolare intessuti di leggende i racconti che hanno come tema la risurrezione di Gesù, non se ne deve allora concludere che nessuna delle informazioni evangeliche sulla risurrezione ha la minima base reale? E da una simile conclusione non de­ riva forse che l’annuncio fondante e strutturante delle narrazioni evangeliche è pura invenzione, e che tale in­ venzione, in quanto relativa a vicende molto circostan­ ziate, poco distanti nel tempo dalle narrazioni stesse, e G esù

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risalenti alle testimonianze di alcune persone ben defini­ te che ne furono protagoniste, suppone alla sua origine una frode deliberata? Se così è, non è forse vero che i Vangeli sono fonti storiche riguardo alla comunità cri­ stiana che ne promosse la redazione, ma non riguardo a Gesù, come, ad esempio, la donazione di Costantino di­ m ostrata falsa dal Valla è per ciò stesso fonte riguardo alla cultura medievale dalla quale è scaturita, ma non certo riguardo all’imperatore Costantino? Non è forse vero, allora, che il Gesù storico è inattingibile? Vediamo. Ci siamo proposti di prendere in considerazione i Van­ geli con lo stesso metodo storico con cui si leggono storio­ graficamente, tanto per fare esempi, Erodoto e Plutarco. Questo metodo annovera tra gli indizi certi di storicità del contenuto narrativo di una fonte il fatto che ciò che è narrato non corrisponda agli scopi propri della narrazio­ ne, sulla base degli intendimenti del narratore e dei cri­ teri di valutazione del suo ambiente. Se per esempio tro­ viamo nelle Storie di Erodoto, con le quali l’autore e la comunità di Atene volevano celebrare la gloria della vit­ toriosa guerra ateniese contro i Persiani, l’accenno ad una manovra politica filo-persiana, all’interno di Atene, alla vigilia della battaglia di Maratona, questa notizia deve essere ricondotta ad una base storica reale, in mancanza della quale né Erodoto né gli Ateniesi l’avrebbero mai diffusa, in quanto offuscava un po’ quella gloria della cit­ tà che era nei loro scopi celebrare. Con lo stesso criterio, deve essere ricondotta ad una base storica reale la noti­ zia, riportata dalle narrazioni evangeliche, della scoper­ ta compiuta da Maria Maddalena e da altre donne, da­ vanti al sepolcro vuoto, della risurrezione di Gesù. Non può trattarsi di un’invenzione, perché non corrisponde al primo e fondamentale scopo per cui sono stati scritti i Vangeli, quello di promuovere e diffondere la certezza che Gesù

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Gesù, essendo il Cristo predetto dalle Scritture, era ri­ sorto dalla morte per instaurare il suo regno. Non giova­ va certo a questo scopo, infatti, dover dire che la prima e fondamentale testimonianza della risurrezione era quel­ la di una donna accompagnata soltanto dalle sue ami­ che, cioè di una testimone ben poco autorevole in base ai criteri di valutazione dell’ambiente ebraico dell’epoca, e di una donna, per giunta, che aveva un fortissimo lega­ me emotivo con Gesù, e un passato di instabilità menta­ le. Nel Vangelo di Luca traspare addirittura esplicitamen­ te il disagio per il fatto che la notizia della risurrezione di Gesù fosse venuta da un gruppo di donne.6 Se dunque i Vangeli riferiscono come Maria Maddalena ed altre don­ ne avessero scoperto la risurrezione di Gesù, ciò non può voler dire altro che si sentivano costretti a riferirlo dal fatto che era giunta fino a loro una tradizione precisa, e nata da accadimenti reali, in tal senso. La leggenda, si deve concludere in base ad un sano criterio di metodo Htorico, ha certamente arricchito questa tradizione con i numerosi elementi favolistici, atti a rendere il più possi­ bile potente e meravigliosa la manifestazione di Gesù ri­ sorto, di cui si è detto, ma non ne ha di sicuro creato il nucleo originario. Ma cosa può significare che la scoperta compiuta da Maria Maddalena e dalle altre donne della risurrezione di Gesù ha una base storica reale? Non si cade, dicendo questo, dalla padella dello scetticismo storico di chi con­ sidera leggendario l’intero racconto evangelico, nella brace di una storia fatta di manifestazioni sovrannaturali, e subordinata alle idee di coloro che ce l’hanno tram anda­ ta? Si può provare che non è questa l’alternativa in cui siamo posti, analizzando un Vangelo che abbiamo finora "

Luca 24 , 22 -24 .

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lasciato da parte, e che fornisce invece gli elementi deci­ sivi per sciogliere la questione, quello cioè di Giovanni. Il Vangelo di Giovanni ci mette dinanzi la scena di Maria Maddalena seduta nel giardino dove era stato se­ polto Gesù, in lacrime presso il sepolcro scoperchiato e ormai vuoto, che si dispera perché non sa dove sia stato portato il corpo del suo amato signore. Volgendo la testa, scorge al suo fianco un uomo in piedi. Ritenendolo il cu­ stode del giardino, e supponendolo quindi informato del­ la traslazione della salma di Gesù, gli chiede, con il volto ancora rigato di pianto, di dirle dove sia stato portato il corpo del morto, perché vuole andare a prenderlo, per poterlo onorare. Non appena l’uomo comincia a rispon­ derle, ella intuisce che è Gesù in persona, e gli si rivolge quindi con un affettuoso diminutivo con cui era solita chiamare Gesù. Quello però rifiuta dolcemente le sue ef­ fusioni, e Maria corre allora dagli apostoli, riferendo loro che ha visto Gesù vivo, e che Gesù le ha detto di annun­ ciare a tutti coloro che lo hanno seguito che è in procinto di salire da Dio suo padre. Soltanto Pietro ed un altro discepolo prendono in qualche modo sul serio le sue paro­ le, precipitandosi al sepolcro per vedere cosa fosse suc­ cesso. E soltanto l’altro discepolo, non Pietro, un discepo­ lo mai chiamato per nome, ma indicato sempre come il discepolo che Gesù amava, entrato dentro il sepolcro, e viste per terra le bende che erano servite per fasciare la salma, senza più alcun cadavere, crede, come Maria Mad­ dalena, che Gesù sia risorto.7 7 Nella ricostruzione dell’episodio abbiamo posposto il racconto di Giovanni 20, 2-10 a quello, che nel testo evangelico lo segue, di Gio­ vanni 20,11-18. Chi legge il cap. 20 dell’ultimo Vangelo può facilmen­ te constatare che solo in questo modo l’episodio acquista senso logico. D’altra parte sappiamo che i redattori dei Vangeli non ne hanno crea­ to il testo, bensì hanno riorganizzato materiali letterari preesistenti, G esù

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Cosa risulta da questo racconto ad un qualsiasi letto­ re che sia interessato soltanto a decifrarne il senso con il normale metodo di analisi di una fonte storica, senza far­ si condizionare da sentimenti di adesione o di avversione alla fede religiosa che sui Vangeli si è fondata? Risulta forse che Maria Maddalena ha visto fisicamente Gesù risorto? Ma via! Allora perché non credere che Bruto ha visto fisicamente Cesare che dopo morto gli ha profetiz­ zato la futura sconfitta di Filippi, come narra Plutarco? E perché non credere, quindi, che Cesare fosse una divi­ nità capace di interventi sovrannaturali, come credeva­ no i pagani? Oppure, al contrario, risulta che l’episodio è un’invenzione, e che al massimo, se non lo è, narra pen­ sieri ed atti di una donna uscita fuori di senno? Ma via! Solo uno sciocco positivismo può impedire di cogliere le vibrazioni di profonda verità che l’episodio trasm ette, soprattutto se lo si legge non nella lingua di oggi, ma nell’originale greco.8

o sono stati proprio alcuni interpreti cattolici a notare come nel cap. 20 di Giovanni il v. 1 sia logicamente continuato dal v. 11.1 v. v. 2-10 costituiscono quindi, evidentemente, un blocco, proveniente da un’al­ tra tradizione, che il redattore ha maldestramente inserito. 8 Nell’analisi delle fonti sono solitamente ritenuti elementi indica­ tori di veridicità quei particolari molto dettagliati la cui menzione non corrisponde ad alcuno scopo preciso della narrazione, e che si spiegano perciò come relitti percettivi di autentiche testimonianze. Particolari di tal genere sono abbondantissimi in questo episodio, a partire dalla sua individuazione temporale, del tutto superflue nel­ l’economia del racconto, con l’avverbio npcut, “di buon mattino”, e l’ul­ teriore precisazione oKortag eri oùar|g, cioè che, pur essendo già mat­ tino, era ancora buio. Poi ci sono le notazioni relative alla corsa verso il sepolcro di Pietro e del discepolo prediletto: quest’ultimo corre più veloce, arriva per primo, ma si ferma, ed è Pietro, non lui, ad entrare per primo nel sepolcro. (insù

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Cosa risulta, dunque? Risulta che qualcuno, estraneo alla cerchia degli apostoli e a loro insaputa,9 qualcuno sulla cui identità e i cui scopi si possono fare soltanto esili congetture storicamente irrilevanti,10 aveva tolto le bende al corpo di Gesù e lo aveva portato via dal giardino in cui era stato inizialmente deposto, e che Maria Mad­ dalena, recatasi in quel giardino, vide fisicamente il giar­ diniere e incontrò spiritualmente Gesù. Avvertiamo il lettore positivista che non stiamo allu­ dendo né ad un’autoillusione né a fenomeni miracolosi o paranormali, ma stiamo parlando di una spiritualità in­ sita nella reale socialità umana. Maria Maddalena, che fu con ogni verosimiglianza la donna di Gesù, se non ad­ dirittura la sua legittima sposa,11 aveva recepito l’inse9 Si tratta forse di Giuseppe d’Arimatea, un giudeo di elevatissimo rango sociale, appartenente alla ristretta cerchia ebraica collocata al vertice della gerarchia del potere di Gerusalemme, tanto che potè tran­ quillamente farsi ricevere da Pilato e chiedergli il corpo di Gesù. Di Gesù, peraltro, egli era discepolo, ma in segreto, senza frequentarne i più conosciuti seguaci, per non compromettere la sua posizione di potere. Ciò è chiaramente detto in Giovanni 19, 38, ed anche in tutti gli altri Vangeli. 10 Interessante, tra le varie ipotesi, quella di H ugh S chonfield, Cri­ sto non voleva morire, Tindalo, 1968, dove si suppone che il corpo di Gesù sia stato levato dal sepolcro ancora vivo, perché Giuseppe d’Ari­ matea era riuscito a farlo togliere dalla croce prima che morisse, in esecuzione di una disposizione datagli da Gesù stesso, il quale avreb­ be quindi sperato non già di risorgere dalla morte, ma di evitarla, con l’aiuto di Dio, imponendosi così a tutti come il Messia liberatore. No­ nostante gli indizi di un certo peso che l’autore è in grado di portare a sostegno della sua tesi, questa rimane pur sempre ima semplice con­ gettura. 11 Maria Maddalena, ovvero Maria la Pettinatrice (tale era il signifi­ cato della parola oggi resa con Maddalena), è un personaggio piutto­ sto misterioso e sfumato nelle narrazioni evangeliche, persino nelle sue denominazioni. Il Vangelo più antico la chiama Maria Maddalena (Marco 15,40). Un altro Vangelo la ricorda come «Maria, chiamata la G esù

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gnamento da lui trasmesso con più amore e profondità dei suoi futuri eredi religiosi maschi. Per questo motivo seppe riconoscere l’impronta vivida di Gesù, la sua im­ magine riflessa, nelle parole e negli atteggiamenti del custode del giardino comparso presso di lei, che a Gesù Maddalena, dalla quale erano usciti sette demoni» (Luca 8, 2): esso sottolinea dunque come Maddalena non fosse il suo nome originario, e come avesse avuto una infermità mentale. Il primo Vangelo, però, la chiama Maria di Magdala (Matteo 28,1). Nel quarto Vangelo è egual­ mente menzionata come Maria di Magdala (Giovanni 20,1), ma an­ che come Maria sorella di Marta e di Lazzaro (Giovanni 11,1). L’iden­ tità di Maria Maddalena con Maria di Magdala e con Maria sorella di Marta e di Lazzaro non appare immediatamente evidente nei testi evangelici, ma risulta tuttavia con sicurezza dalla loro comparazione, e dalla loro interpretazione antica. Basti pensare che l’antica liturgia latina celebrava il 22 luglio la festività di Maria Maddalena, identifi­ candola sia con Maria di Magdala, sia con Maria sorella di Marta e di Lazzaro, sia con la peccatrice del terzo Vangelo (Luca 7,37). La figura di questa donna è stata brutalmente cancellata da Paolo, e pesante­ mente ridimensionata e contraffatta dai primi tre Vangeli, tanto che non saremmo in grado di capire la sua importanza se nel Vangelo di Giovanni, il cui redattore, pure, mira egualmente a tenerla in ombra, non fosse confluita una tradizione che la ricordava. Ciò può essere ragionevolmente spiegato soltanto con una volontà di esclusione de­ gli apostoli, che trova conferma nei testi apocrifi, dove è riferito, ad esempio, il fortissimo disappunto di Pietro per il ruolo riconosciuto da Gesù a questa donna (Vangelo apocrifo di Tommaso 114). La gelosia degli apostoli è intuibile, se si pensa al maschilismo dell’ambiente ebraico, e al posto che questa donna aveva nel cuore di Gesù. In un testo apocrifo si legge che «Gesù amava Maria più di tutti i suoi disce­ poli, e spesso la baciava pubblicamente sulla bocca» (Vangelo apocrifo di Filippo 55). Una traccia del rapporto speciale di Maria con Gesù è rimasta del resto nello stesso Vangelo di Giovanni, specie nell’episo­ dio dell’incontro con il custode del giardino. Questi, allo slancio di Maria verso di lui, nel quale ha riconosciuto Gesù, le risponde «pf| pou cottou» (Giovanni 20,17), cioè «non mi abbracciare», pudicamen­ te tradotto «non trattenermi», come se il verbo fosse usato nella forma attiva anziché media, come cioè se ci fosse scritto «pf| pou cotte». Ma­ ria, dunque, era solita abbracciare Gesù. Se si pensa che Gesù è spesG esù

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era stato certamente legato. Costui, che la stava osser­ vando mentre ella stava raccolta presso il sepolcro, non appena la vide voltarsi verso di lui con il volto in lacrime, le parlò dicendole: «Donna, perche piangi?», che corrispon­ deva, ad una maniera di esprimersi di Gesù, e che dovet­ te, in quelle circostanze (Gesù morto da pochissimo in m aniera orribile, il sepolcro misteriosamente vuoto, il futuro incerto), fare una forte impressione su di lei. Subi­ to dopo, alla sua richiesta di chiarimenti sulla sorte della salma, l’uomo rispose non dandole informazioni, ma pro­ nunciando il suo nome: «Maria!». La dolcezza e la peren­ torietà di questa esclamazione, di cui il testo scritto non può restituirci peraltro l’intero contesto espressivo, né dirci i sottintesi riferimenti, richiamò evidentemente alla donna, con molta potenza emotiva, il modo in cui Gesù era solito rivolgerle la parola, e indirizzarla alla consa­ pevolezza di qualche particolare situazione. Ella ebbe perciò uno slancio d’affetto verso quell’uomo in cui aveva riconosciuto Gesù, al quale egli rispose bensì frenandola, ma con una dolcezza e un’autorevolezza che erano le stesse che Gesù aveva in tante altre circostanze espresso nei confronti di altri e di lei stessa. Quel mattino, dunque, benché Gesù fosse morto, Ma­ ria Maddalena ne incontrò realmente, e non illusoriamente, lo spirito. La connessione sociale nella quale soltanto si esprime ogni esistenza umana comporta, infatti, an­ che la trasmissibilità da un individuo all’altro di attegso chiamato nei Vangeli Rabbi, appellativo riservato per legge soltan­ to a uomini sposati, e che la tradizione gnostica conservava il ricordo che Maria fosse il nome della madre, della sorella e della moglie di Gesù, è facile inferirne che Gesù fosse sposato con Maria Maddalena. Del resto i Vangeli dicono che, quando era a Gerusalemme, passava la notte a Betania (Matteo 21, 17), e Betania era appunto il villaggio dove abitava Maria. G esù

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gi amenti esistenziali, pensieri, inclinazioni, valori. È su questo dato di realtà che è stata costruita la nozione filo­ sofica di spirito. È per questo dato di realtà che anche l’uomo comune fa talvolta esperienza, benché di rado pie­ namente consapevole, di frammenti dell’individualità di una persona operanti nel modo di essere di un’altra per­ sona. Gesù, d’altra parte, fu una persona straordinaria, anche per la capacità di comunicare personalmente agli altri i suoi valori di vita. Il suo spirito, quindi, più che quello di ogni altra persona, aveva la forza di manife­ starsi in altre persone, anche dopo la sua morte. In que­ sto senso Maria Maddalena potè incontrarlo. In questo senso potè acquisire la certezza che Gesù fosse sempre vivo. E, prima in lei, poi in loro stessi, anche altri seguaci di Gesù trovarono la stessa certezza, il cui senso era che la splendida speranza diffusa da Gesù, la speranza del prossimo avvento di un regno di Dio sulla Terra, non era morta con la sua morte, ma era sempre attuale nella co­ munità dei credenti. A una tale ricostruzione della base storica reale, de­ purata dalle amplificazioni leggendarie man mano sedi­ mentate dalla tradizione e poi confluite anch’esse nei rac­ conti evangelici, della testimonianza della risurrezione trasmessa dai Vangeli, si potrebbe obiettare che essa tra ­ disce e impoverisce il contenuto di quella testimonianza. Maria Maddalena prima, gli apostoli poi, e i redattori dei Vangeli alla fine, si potrebbe sostenere, intesero testimo­ niare apparizioni di Gesù risorto in carne ed ossa, e non manifestazioni del suo spirito in altre persone, tanto è vero che al cospetto degli apostoli riuniti Gesù risorto mostrò, nel racconto di Giovanni, le ferite ancora aperte nelle sue mani e al suo fianco. Non sul piano di semplice immanenza che abbiamo ricostruito, si potrebbe osser­ vare, ma sul piano religioso, e in una pienezza di fede, Gesù

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Maria Maddalena, gli apostoli, i discepoli, fecero espe­ rienza di Gesù tornato vivo, ed è precisamente questa esperienza che i Vangeli ci consegnano. La possibilità di obiezioni di tal genere esige tre considerazioni chiarifica­ trici. La prima considerazione da fare è che, se intendere le informazioni fornite da una fonte storica in modo diverso da quello implicato dalla forma culturale propria della fonte, e delle testimonianze e tradizioni alle quali la fon­ te ha attinto, significasse tradirne il contenuto, allora il normale lavoro dello storico sarebbe un continuo tradi­ mento delle fonti. Compito dello storico è infatti precisamente quello di svincolare il passato dall’immagine im­ mediata che ne hanno avuto coloro che lo hanno vissuto, perché questa è la condizione per connetterlo concettual­ mente agli sviluppi successivi ad esso, mediante i nuovi elementi di conoscenza fomiti da tali sviluppi, in quel percorso nel tempo che chiamiamo storia. Così, ad esempio, lo storico deiringhilterra moderna che legge nelle sue fonti come Cromwell, prima di pren­ dere le sue fondamentali decisioni militari e politiche, si fosse sempre rinchiuso solo nella sua tenda per consulta­ re Dio, e ne fosse poi uscito con decisioni sempre vincen­ ti, perché espressive della volontà divina, non tradisce certo tali fonti quando, sulla base degli altri riscontri che possiede, intende il Dio incontrato da Cromwell nella sua tenda come l’unità delle forze rivoluzionarie da conser­ vare ad ogni costo. Altrimenti, paradossalmente, per es­ sere fedele alle sue fonti lo storico dovrebbe essere libe­ rale con le fonti liberali, musulmano con quelle musul­ mane, fascista con quelle fasciste. D’altra parte, lo stori­ co che intende le consultazioni di Cromwell con Dio in m aniera diversa da quella immediatamente percepita da Cromwell stesso e dai suoi seguaci in base al loro schema Gesù

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teologico puritano, arricchisce le sue fonti di valenze in­ formative, e il suo personaggio di radici storiche. Quest’ultima osservazione introduce direttamente alla seconda considerazione da svolgere. Nella narrazione dell’ultimo Vangelo Maria Maddalena, quando si trova presso il sepolcro vuoto, scorge Gesù in piedi, suppone dapprima che sia il custode del giardino, si rende conto poi che è Gesù. Noi abbiamo tradotto: scorge il custode del giardino in piedi, gli rivolge dapprima la parola per quello che fisicamente egli è, incontra poi in lui spiritualmente Gesù. Questa traduzione impoverisce forse il con­ tenuto della testimonianza evangelica? Certamente no. Al contrario, ne svela uno spessore spiritualmente più autentico e più ricco. Immaginiamo infatti che Maria Maddalena avesse davvero visto, quel mattino al giardi­ no del sepolcro, l’immagine fisica del corpo di Gesù. In tal caso, il suo riconoscimento di Gesù avrebbe richiesto non più che uno sforzo percettivo, senza alcuna media­ zione spirituale. Ed immaginiamo che gli apostoli ed i discepoli abbiano alla fine creduto alla Maddalena per aver avuto anch’essi vere e proprie apparizioni fisiche di Gesù risorto. In tal caso, la loro fede nella risurrezione non sarebbe stata una creazione storica, e neppure pro­ priamente una fede, ma non avrebbe rappresentato altro che la presa d’atto di una serie di fatti accaduti sotto i loro occhi. La ricostruzione della fede nella risurrezione come prodottasi sul piano dell’immanenza storica chia­ ma in causa, invece, tutta l’intensità dell’amore di Maria Maddalena per Gesù, tutta la profondità del modo in cui ne aveva recepito l’insegnamento, tutto il suo disperato bisogno di lui, e tu tta l’eccezionale capacità di Gesù di lasciare indelebili tracce spirituali nelle menti, nei cuori e negli atteggiamenti dei suoi seguaci, come condizioni della possibilità di Maria Maddalena di incontrare Gesù Gesù

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dopo morto. Essa chiama in causa, inoltre, la grandezza della speranza suscitata da Gesù, e la forza con cui le sue parole, le sue scelte, il ricordo della sua personalità, con­ tinuarono ad alimentarla nei suoi seguaci dopo la sua morte. L’esperienza della risurrezione di Gesù rivela al­ lora il suo valore di scoperta creativa della capacità dello spirito di incontrare e riportare entro certi limiti in vita ciò che il male ha distrutto. In definitiva, è proprio l’in­ terpretazione sovrannaturalistica della risurrezione, come fenomeno da baraccone di un corpo morto che riap­ pare corpo vivente, ad impoverire spiritualmente il con­ tenuto della testimonianza evangelica. Da un punto di vista filosofico dò è persino ovvio, perché trascendenti­ smo sovrannaturale ed empirismo fisico sono due facce di una stessa incapacità a riconoscere l’immanenza onto­ logica dello spirito. La nostra terza considerazione riguarda la forma cul­ turale entro la quale interpretarono la risurrezione di Gesù coloro che vi credettero. Si tratta certamente di una forma culturale che non poteva consentire una compren­ sione dell’idea di risurrezione sul piano dell’immanenza spirituale. Ma si sbaglierebbe a pensare che i racconti evangelici trasmettano un’idea fisicistica della risurre­ zione di Gesù, come nuova apparizione alla percezione del suo corpo biologico. Proviamo a leggerli bene. Gli episodi più antichi della tradizione evangelica sul­ la risurrezione narrano riconoscimenti di Gesù risorto che non hanno alcuna base percettiva, per cui l’abitudine cri­ stiana di chiamarli apparizioni rappresenta una mistifi­ cazione linguistica. Ciò che manca in questi episodi è in­ fatti proprio l’apparizione fisica di Gesù, in quanto egli viene incontrato in persone che non hanno i suoi tratti somatici, né alcuna somiglianza esteriore con lui, e viene riconosciuto esclusivamente dalle sue iniziative e dalle G esù

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sue parole. Il primo di questi episodi lo abbiamo già vi­ sto: Maria Maddalena riconosce Gesù, per il modo in cui si rivolge a lei e per come la chiama per nome, in un uomo che non sembra essere lui, e le cui fattezze fisiche sono quelle del custode del giardino del sepolcro. Il secondo episodio è persino più eloquente: due discepoli in cammi­ no incontrano un viandante, fanno due ore di strada con lui senza sapere chi sia, e lo riconoscono come Gesù, quan­ do se n’è andato, ripensando al modo come ha spezzato e ha dato loro del pane, e a quel che ha detto loro a propo­ sito delle Scritture.1213 Questi due elementi di riconoscimento sono molto si­ gnificativi. Cosa dice infatti il viandante ai discepoli men­ tre fa la strada con loro? Essi gli hanno confidato di aver sperato che il loro maestro Gesù fosse in procinto di libe­ rare Israele, e di essere caduti nello sconforto con la sua morte, e lui risponde loro citando tu tta una serie di brani scritturali degli antichi profeti, e spiegandoli in modo da far risultare come fosse stato preannunciato dalle Scrit­ ture che il liberatore di Israele avrebbe patito le soffe­ renze e le umiliazioni subite da Gesù. Dopo che se ne è andato, i due discepoli si danno questa prova di aver in­ contrato in lui Gesù: «Non ci ardeva forse il cuore mentre egli conversava con noi sulla strada, svelandoci il senso delle Scritture?».12 Risulta qui evidente, ad ogni lettore non prevenuto, come l’idea della risurrezione di Gesù sia nata non da un’apparizione miracolistica del suo corpo tornato in vita, ma dall’esperienza di una rinascita delle speranze messianiche da lui suscitate, e da una nuova coscienza della loro possibile giustificazione proprio con la sua morte. La cultura religiosa dell’epoca esigeva però, 12 Luca 24, 13-35. 13 Luca 24, 32. Gesù

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perché il ravvivarsi di un’eredità spirituale potesse esse­ re inteso come risurrezione, anche una traccia specificamente personale di quell’eredità. Ecco quindi il secondo elemento che rende possibile riconoscere Gesù nel m iste­ rioso viandante: questi benedice, spezza e porge il pane proprio come Gesù. Un terzo episodio narra come un gruppo di seguaci di Gesù, tornati dopo la sua morte a fare i pescatori sul lago di Galilea, mentre cercano di procurarsi il cibo quotidia­ no pescando non lontano dalla riva, sentano dirsi da un uomo a terra: «Figli, non avete da mangiare?».14 Essi gli rispondono che per il momento sono effettivamente sen­ za cibo, e lui consiglia loro il luogo dove gettare le reti, rendendo possibile una pesca abbondante. Da questo con­ siglio, e dal suo atteggiamento premuroso, essi si rendo­ no conto che è Gesù,15anche se non lo hanno fisicamente riconosciuto.16 Si tra tta dunque di episodi che descrivono incontri con la manifestazione dello spirito di Gesù nei pensieri e nel­ le azioni di persone fisiche diverse da lui, tali da non ri­ chiedere affatto un ritorno del suo corpo morto alla vita biologica. Questa ricostruzione dell’esperienza dell’incon­ tro con Gesù dopo la sua morte, tram andata dai suoi se­ guaci, non è soltanto un’interpretazione delle testimonian­ ze evangeliche legittimata dal metodo storico, come ab­ biamo spiegato nella nostra prima considerazione, m a è anche sorprendentemente vicina, come abbiamo fin qui mostrato, al senso esplicitamente esibito da alcune di que­ ste testimonianze.

14 Giovanni 21, 5. 15 Giovanni 21, 6-7. 16 Giovanni 21, 4. G esù

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C’è però ancora di più. Persino negli episodi evangeli­ ci sulla risurrezione che sono frutto di una successiva ela­ borazione della tradizione, in funzione dell’esigenza di predicare la risurrezione a quanti non avevano mai co­ nosciuto Gesù, e che presentano perciò 1’incontro con il risorto come un riconoscimento percettivo della sua cor­ poreità, manca il verbo apparire, nel senso specifico di un’esperienza fisica che si manifesta alla percezione. Questo è uno di quei casi in cui è veramente di decisiva importanza leggere i Vangeli nell’originale greco. Essi non dicono, come invece dice Paolo quando riassume le diver­ se esperienze della risurrezione, che Gesù «apparve»,17 ma dicono invece - proprio, si badi bene, in quei pochi episodi nei quali il risorto è presentato come percettivamente riconoscibile nel suo corpo —che egli «si fece incon­ tro»,18 «si fece conoscere»,19 «stette presente».20Il vocabo­ lario stesso che è usato nelle narrazioni della comparsa corporea di Gesù rivela dunque che il nucleo originario della testimonianza della risurrezione si riferiva alla per­ sonalità spirituale di Gesù e non alla sua fisicità, in quan­ to costruisce un linguaggio dell’incontro, non dell’appari­ zione, ovvero della relazione, e non della percezione. C’è infine un aspetto delle testimonianze evangeliche sulla risurrezione che è di capitale importanza per la ricostruzione storica, e che non è stato tuttavia utilizzato a questo scopo, non perché sia passato inosservato, ma in un certo senso perché è stato considerato troppo, e da sempre, però ad altri scopi, di ordine teologico, cosicché sembra quasi naturale ritenerlo un elemento della cri­ 17 Cioè rijcp0Tì, letteralmente «fu visto», formula usuale per indicare l’apparizione alla percezione, che compare in Paolo, 1 Corinzi 15,6-8. 18 Tjnf)vrr|aEv, in Matteo 28, 9. 19 £(j>av£pcó0r|, in Marco 16,12. 20 è'otr), in Giovanni 20, 19. Gesù

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stologia religiosa, e non prenderlo in considerazione se­ condo il metodo storico. Si tratta delle osservazioni ripe­ tute, convergenti e mai contraddette, con le quali le nar­ razioni evangeliche indicano che Gesù risorto non è ac­ cessibile allo stesso modo e sullo stesso piano del Gesù non ancora morto. Quando viene incontrato in un altro individuo, si rivela impossibile rinnovare con quello i com­ portamenti precedentemente tenuti con lui, perché egli vi si sottrae. La precedente comunanza di vita con lui non può essere ripresa, perché il nuovo individuo, che si sa essere Gesù, o non dice di esserlo, e non si osa chieder­ gli chi sia, oppure, là dove si racconta, ad uso della predi­ cazione, una sua manifestazione fisicamente riconoscibi­ le, si allontana subito. L’incontro con Gesù risorto, inol­ tre, non può essere ottenuto a piacere, andandolo a cer­ care in luoghi da lui abitualmente frequentati, ma biso­ gna attendere la sua manifestazione, per riconoscerla come tale attraverso la fede in lui. Ciò spiega perché non esista un solo episodio in cui la presenza di Gesù risorto sia constatata da persone estranee alla cerchia dei suoi seguaci. Da ciò è nato il discorso giovanneo dello Spirito santo, e da ciò è derivata la cristologia paolina del corpo glorioso. È rimasto invece in ombra cosa ciò significhi sul piano storiografico, e cioè che le fonti evangeliche non testimoniano affatto un ritorno di Gesù, tre giorni dopo la sua morte, alla vita biologica. Non dobbiamo dunque respingere la testimonianza evangelica sulla risurrezione come fonte di informazio­ ne, e non siamo quindi costretti a togliere credito al con­ tenuto informativo dei Vangeli, precipitando così la vi­ cenda di Gesù nel buio deH’inconoscibilità. Né questa accettazione della storicità dei Vangeli anche riguardo alla risurrezione di Gesù ci obbliga ad interpretare i Van­ geli senza la mediazione critica normalmente adottata Gusti

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nell’utilizzazione delle fonti, e a lasciare spazio al sovran­ naturale. Al termine delle nostre considerazioni dispo­ niamo, al contrario, di una certa informazione sulla vi­ cenda della risurrezione, storica e non religiosa, e tu tta ­ via integralmente tratta da un testo religioso come quel­ lo dei Vangeli. Possiamo riassumerla. Gesù fu condannato a morte, vedremo poi come, da chi, e perché. I suoi più stretti seguaci non poterono di­ sporre del suo corpo, che venne dapprima deposto nel se­ polcro più vicino al luogo dell’esecuzione, in un piccolo giardino, poi traslato altrove. Una volta morto, egli natu­ ralmente non tornò vivo, né apparve ad alcuno. La don­ na che più lo aveva amato, però, mossa dal suo disperato bisogno di lui, eccitata dalla scomparsa del cadavere nel sepolcro, condizionata da una cultura religiosa che cono­ sceva la risurrezione, e guidata da una profondissima sensibilità, fece esperienza dello spirito del suo amato maestro nel modo di atteggiarsi verso di lei di un’altra persona, e si convinse che Gesù fosse risorto. Non fu affatto un’allucinazione. La donna incontrò lo spirito reale di Gesù, perché reali erano le tracce di sé che Gesù aveva saputo imprimere nelle fibre più intime dell’animo di altre persone. La donna non si illuse, se non nello slancio iniziale della sua fede, di poter riab­ bracciare lo stesso Gesù, ma ebbe soltanto la certezza che Gesù fosse di nuovo, benché in modo nuovo, presente tra i suoi seguaci. Alcuni tra gli apostoli e i discepoli accolse­ ro da lei questa certezza, e proprio per questo poterono fare anch’essi l’esperienza di un incontro con Gesù dopo la sua morte. Nacque così una tradizione di incontri con Gesù risor­ to che, sviluppandosi nel tempo, e diffondendosi in am­ bienti greci, dove la risurrezione non era intesa se non come reincarnazione fisica, accolse via via anche elementi G esù

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di rappresentazione percettiva e vere e proprie integra­ zioni leggendarie, senza peraltro alterare sostanzialmente le testimonianze originarie, per lo meno nel modo in cui confluì nei Vangeli. In Paolo, infatti, benché le sue lette­ re siano cronologicamente anteriori ai Vangeli, la testi­ monianza più originaria della risurrezione, quella di Maria Maddalena, è maschilisticamente cancellata, e la risurrezione è raccontata non più nel linguaggio biblico della presenza spirituale, ma in quello greco della riap­ parizione corporea. Ad ogni modo, subito dopo la morte di Gesù, incon­ trarlo risorto significò, per i suoi seguaci più stretti, ri­ trovare il suo spirito ancora presente nella nuova situa­ zione determinata dalla sua assenza fisica. Nuove erano le condizioni in cui la sua presenza si materializzava, e nuovo il piano sul quale era possibile entrare in relazio­ ne con lui. Tutto ciò era risaputo, anche se nelle forme di una cultura esclusivamente religiosa che ne appannava la comprensione concettuale. Ma, nella sostanza, credere che Gesù fosse risorto si­ gnificò, per i suoi seguaci, credere che ciò che egli aveva spiritualmente donato loro fosse ancora operante in loro, e che la missione da lui intrapresa non fosse stata inter­ rotta dalla sua morte, ma avesse avuto proprio nella sua morte, prevista e provvidenziale, il momento decisivo per il suo compimento. Poiché a partire da ciò la parola di Gesù fu portata a molti popoli, venne trascritta nei Vangeli, ed è giunta fino a noi, che ora possiamo parlarne, la risurrezione di Gesù è stata in un certo senso storicamente reale: anche noi possiamo incontrare Gesù, venti secoli dopo la sua mor­ te.

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3. Gli in izi d i Gesù con Giovanni B a ttista Abbiamo cominciato la nostra storia di Gesù dalla fine, cioè dal modo in cui si sono riallacciati ad essa i discepoli di Gesù dopo la sua morte, creando la sua risurrezione spirituale. Abbiamo così potuto constatare la profondità e la forza delle tracce lasciate fin nei recessi più interni degli animi dall’attività pubblica di Gesù. Si tra tta ora di considerare storicamente questa attività, a partire dal suo inizio. La tradizione evangelica è concorde nel riferi­ re come l’inizio dell’impegno religioso di Gesù sia stato preceduto dalla sua sottoposizione al rito battesimale praticato da Giovanni Battista. Prima del battesimo, egli non è che un ignoto artigiano della Galilea. Dopo, si im­ pone all’attenzione come maestro e profeta religioso. Il battesimo ricevuto da Giovanni nelle acque del Giordano rappresenta dunque lo spartiacque tra la sua vita priva­ ta e la sua attività pubblica, ovvero l’inizio effettivo della sua vicenda storica. Per questo la nostra ricostruzione della storia di Gesù, cominciata dapprima, per esigenze metodologiche, dalla sua fine, prenderà ora inizio dal suo incontro con Giovanni Battista. Tralasceremo quindi di parlare delle circostanze di luogo e di tempo della nascita di Gesù, e delle contraddit­ torie informazioni che ne danno i Vangeli,1di facile repe-1 1 Nel VI secolo un monaco della Scizia residente a Roma, Dionigi il Piccolo, elaborò un calendario liturgico che per la prima volta compu­ tava gli anni a partire dalla nascita di Gesù, fissata, in base a consi­ derazioni che oggi sappiamo essere state sbagliate, al 25 dicembre dell’anno 753 dalla fondazione di Roma. In tal modo l’anno 754 diven­ tò l’I d. C. Il Vangelo di Luca colloca la data di nascita di Gesù al tempo del censimento di Sulpicio Quirinio. Sappiamo però dalla sto­ ria che questo censimento venne tenuto nel 7 d. C .. Quindi, se Luca avesse ragione, Gesù sarebbe nato sette anni dopo la data di nascita posta a base del nostro computo degli anni, ovvero sette anni dopo la G esù

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ribilità su altri libri. Né diremo nulla della sua formazio­ ne spirituale dalla fanciullezza alla prima giovinezza, di cui le fonti non ci consentono di conoscere alcunché. Sa­ rebbe invece importante chiarire il contesto sociale, eco­ nomico e politico dell’ambiente in cui Gesù nacque e creb­ be, ma per farlo ci occorrerebbe più spazio di quello pre­ visto per il presente lavoro. Elementi di chiarimento ver­ ranno comunque introdotti man mano che si renderanno necessari per evitare che la vicenda di Gesù risulti in­ comprensibile. Per il momento basti ricordare che quan­ do Gesù nacque, al tempo dell’imperatore romano Otta­ viano Augusto, l’intera Palestina formava, insieme ad alcune zone limitrofe della Siria e dell’Arabia, un unico grande regno cliente di Roma, retto da Erode il Grande. Questi, accettando di regnare all’interno dell’Impero Ro­ data calcolata da Dionigi il Piccolo. D’altra parte il Vangelo di Matteo dice che Gesù nacque al tempo di re Erode. Sappiamo però dalla sto­ ria che Erode morì nel 4 a. C. . Gesù, in questo caso, sarebbe nato diversi anni prima della data di nascita fissata da Dionigi il Piccolo e posta alla base del nostro computo degli anni. È comunque impossibi­ le far concordare le informazioni di Luca con quelle di Matteo. Stesse contraddizioni per quanto riguarda il luogo della nascita. Il primo Vangelo fa abitare la famiglia di Gesù a Betlemme, in Giudea, e la fa trasferire a Nazareth, in Galilea, solo diversi anni dopo la na­ scita di Gesù. Il secondo Vangelo pone la famiglia e la nascita di Gesù a Nazareth, in Galilea. Il terzo Vangelo fa vivere la famiglia di Gesù a Nazareth, la fa trasferire a Betlemme in occasione del censimento, e fa quindi nascere Gesù, in tale occasione, a Betlemme. Anche per i luoghi, come per i tempi, non c’è modo di far concordare le informazio­ ni dei diversi Vangeli. Tutto ciò si spiega con il fatto che i redattori dei Vangeli non sape­ vano in realtà assolutamente nulla della vita di Gesù precedente alla sua attività pubblica, e, quando ritenevano di dover dire qualcosa, lo desumevano da quello che gli antichi profeti avevano scritto della fu­ tura figura messianica. Naturalmente pervenivano a conclusioni di­ verse in base ai diversi brani e aspetti delle Scritture profetiche che prendevano in considerazione. Gesù

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mano, e di considerare quindi il suo potere come derivato e subordinato rispetto a quello dell’imperatore, riuscì a dare un nuovo prestigio alla Palestina ebraica, mante­ nendola unita, facendovi ricostruire un Tempio degno di quello di Salomone, rendendola un punto di riferimento per tutti gli Ebrei sparsi nell’Oriente ellenistico, edifi­ candovi numerosissime nuove città e fortezze secondo i modelli della civiltà imperiale dell’epoca. Gli enormi costi monetari derivanti dall’imponente mole delle nuove costruzioni edilizie, dai molteplici ser­ vizi dovuti a Roma, e dal ruolo militare assunto dal re­ gno a presidio del confine orientale delllmpero, aumen­ tarono però a dismisura le richieste fiscali in denaro, pro­ vocando il forzato inserimento di molte attività produtti­ ve in piccoli circuiti mercantili fortemente tassati, e la rovina di quanti non erano in grado di convertirsi in ven­ ditori di merci. Gli strati inferiori della società furono in larga misura espropriati per insolvenza dei loro piccoli possessi terrie­ ri e dei loro modesti mezzi di produzione artigiana, e so­ spinti nell’oppressione e nelTemarginazione della servi­ tù per debiti, della mendicità, e delle infermità da mise­ ria e disperazione (dalla lebbra alla perdita della vista). Al vertice della società, per converso, funzionari di Erode ed alti sacerdoti del Tempio si arricchirono enormemen­ te manovrando gli espropri, praticando l’usura, e facen­ do speculazioni commerciali. La violenta ingiustizia dei mutamenti sociali provoca­ li dal regime erodiano e dall’inserimento della Palestina nell’Impero Romano, percepita attraverso la lente della cultura religiosa ebraica dell’epoca, apparve come pecca­ minosa disubbidienza a Dio, e fu attribuita all’idolatria di Roma, al re non ebreo (Erode proveniva dalla regione araba dellTdumea), al Tempio non amministrato dalla fInsù

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legittima dinastia dei sommi sacerdoti.2Così, tra i sacer­ doti di rango inferiore (i cosiddetti leviti) e i maestri delle sinagoghe, si diffuse la setta religioso-politica dei Fari­ sei, che cercò di preservare la purezza rituale della reli­ gione dagli influssi innovatori degli erodiani e degli alti sacerdoti, e che organizzò un’economia religiosa della carità volta ad alleviare la povertà diffusa. Avversari dei Farisei erano i Sadducei, espressione dell’aristocrazia sacerdotale del Tempio, e partito religioso fautore di un accordo tra cultura ebraica, regime erodiano e influssi greco-romani. Rifiorirono anche antiche aspettative su una prossima comparsa di un Messia, ovvero di un invia­ to di Dio capace di liberare gli Ebrei dal peccato e dalla sottomissione agli adoratori dei falsi dei, e di restituire ad Israele l’antica grandezza religiosa e politica.3 2 Al tempo del re Erode la dinastia legittima dei sommi sacerdoti si era estinta ormai da più di un secolo. 3 II termine Messia traduce l’ebraico Mesiah, che vuol dire letteral­ mente Unto, e indica un personaggio capace di agire sotto l’ispirazio­ ne e con la forza dello Spirito di Dio per adempiere un compito specia­ le nei confronti del popolo di Israele. L’origine del nome sta nell’anti­ ca cerimonia ebraica della sacra unzione, destinata a re e sacerdoti, con la quale si riteneva di poter trasmettere loro una speciale assi­ stenza spirituale divina cospargendo la loro fronte di un olio sacro. Unto si dice in greco Christòs, da cui il nostro termine Cristo. Messia e Cristo sono dunque sinonimi. Nell’Antico Testamento è un Unto di Dio qualsiasi re e sommo sacerdote legittimamente insediato nella sua carica, in quanto prima di cominciare a svolgere le sue funzioni si è sottoposto alla cerimonia della unzione sacra. Un Unto può tuttavia essere tale, anche se non è titolare di una suprema carica in Israele, e se non appartiene neppu­ re ad Israele, in senso esclusivamente spirituale e derivato da Dio, in quanto svolga un ruolo provvidenziale per la storia del popolo ebrai­ co. Così Ciro di Persia venne considerato un Messia. Non disponiamo di fonti che ci consentano di capire quando, come e perché quest’ultima nozione di Messia venne modificata fino ad indicare un liberatore di Israele scelto da Dio al di fuori delle autorità ufficiali del paese. G esù

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Nel 4 a. C. la morte di Erode scatenò in Palestina al­ cuni focolai di rivolta armata, attorno ad alcuni perso­ naggi che si erano proclamati Messia. Forze arm ate ro­ mane, guidata dal legato imperiale di Siria Quintilio Varo, operarono una repressione spaventosamente crudele.4 Il regno di Erode il Grande venne smembrato da Augusto, che ne assegnò metà, costituita da Samaria, Giudea e Idumea, ad uno dei suoi figli, Erode Archelao, con il titolo di etnarca,6e gli altri due quarti ad altri due figli, Erode Antipa e Filippo, con il titolo di tetrarchi. La tetrarchia di Erode Antipa, costituita da Galilea e Perea, fu quella in cui visse Gesù, che era nato e abitava nella Galilea. Nel 6 d. C. l’imperatore Augusto, scontento di Erode Archelao, lo destituì esiliandolo in Gallia, trasferendo al fisco imperiale tutto il suo patrimonio, e riducendo SaSappiamo solo, dai Vangeli, dai Manoscritti del Mar Morto, da Giu­ seppe Flavio e da Filone Alessandrino, che ai tempi di Gesù la figura del Messia aveva ormai acquistato una valenza escatologica, e si era identificata con quella di un liberatore chiamato ad instaurare il re­ gno di Dio sulla Terra. Basandoci in Giuseppe Flavio, dovremmo dire che il Messia fosse un capo guerriero a cui Dio avrebbe fatto vincere le battaglie decisive per la liberazione di Israele. I Vangeli ci offrono una immagine più spirituale e pacificatrice del Messia. Nei Mano­ scritti del Mar Morto troviamo due figure messianiche, il messia di Aronne, che avrebbe purificato il Tempio di Gerusalemme ricondu­ cendolo alla sua funzione di tramite tra Dio e gli uomini, e il Messia di David, che avrebbe regnato su Israele liberata. Si ha la netta impres­ sione che ai tempi di Gesù la fortissima attesa messianica fosse con­ nessa ad una polivalenza non sempre conciliabile dei significati con cui il Messia era inteso. 4 Queste vicende sono raccontate aH’inizio del II libro della Guerra giudaica di Giuseppe Flavio, nei primi cinque capitoli. 5 Etnarca, termine greco che significa letteralmente capo del popolo, è un sovrano, di rango inferiore al re, che non può trasmettere eredi­ tariamente il suo potere, e che non può esercitarlo indiscriminata­ mente sul suo territorio, dove può comandare soltanto su una deter­ minata stirpe della popolazione. Gesù

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maria, Giudea e Idumea a una prefettura annessa alla provincia romana di Siria. Il legato imperiale di quella provincia, Sulpicio Quirinio, dispose nella nuova prefet­ tura, come era necessario in ogni territorio annesso di­ rettam ente alllmpero Romano, l’effettuazione di un cen­ simento fiscale, da ripetersi come d’uso ogni quattordici anni, e ne affidò l’esecuzione ad Aulo Coponio, scelto come primo prefetto di Giudea. «Sotto di lui», scrive Giuseppe Flavio, «un galileo di nome Giuda spinse gli abitanti del­ la Giudea alla rivolta, ingiuriando quelli che avrebbero voluto pagare il tributo a Roma come peccatori disposti ad essere sudditi non di Dio, ma di padroni mortali».6 Giuda il galileo, artefice e capo di questa rivolta contro il censimento del 7 d. C., diede a molti ebrei l’impressione di essere il Messia tanto atteso, ma fu sconfitto e ucciso dai Romani. I suoi seguaci, chiamati zeloti, continuarono però ad alimentare la lotta arm ata contro l’occupazione militare romana, con l’ideale di ristabilire l’antico regno ebraico di David, soggetto soltanto alla legge di Dio e ret­ to da un Messia erede di David. Altri, invece, rinunciando ad ogni pratica violenta, aspettavano il Messia esclusivamente da un intervento straordinario di Dio nella storia, cercando nel frattempo di rendersene degni con l’isolamento totale dalla società peccaminosa. Erano chiamati esseni, e conducevano vita ascetica lontano dalle città e dai borghi, in piccoli gruppi insediati in zone desertiche. Coltivavano una raffinata spiritualità, basata sulla conoscenza di numerosi testi religiosi e sapienziali, sugli influssi della religione avestica, sullo studio dell’astrologia e delle tecniche di gua­ rigione dalle malattie. Seguivano con estremo rigore la legge mosaica, aggiungendovi severe pratiche di purifi­ 6 G iuseppe F lavio, Guerra giudaica, II, 8 , 1. Gesù

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cazione con continui lavacri e digiuni. Erano molto selet­ tivi neH’aminissione dei nuovi adepti, che dovevano esse­ re puri, compiere un faticoso tirocinio di studio e di asce­ tismo, e partecipare alla fine ad una cerimonia di inizia­ zione consistente in una immersione purificatrice nell’ac­ qua. Non ammettevano proprietà privata, per cui nelle loro comunità tu tti i beni erano in comune, e comuni era­ no i pasti. Alcuni di quei pasti in comune erano ritualiz­ zati come prefigurazioni dei banchetti collettivi del futu­ ro regno messianico. Giovanni Battista era un asceta del deserto proprio come lo erano gli esseni. Della sua figura abbiamo una discreta conoscenza, potendo disporre come fonti sia dei quattro Vangeli, sia delle Antichità giudaiche di Giusep­ pe Flavio, la cui testimonianza ci è pervenuta integra, e non alterata come quella su Gesù.7La buona concordan­ za delle informazioni fornite dai Vangeli e da Giuseppe Flavio, cioè da due fonti diversissime per natura e finali­ tà, è una conferma significativa della attendibilità di en­ trambe. Possiamo dunque usarle con tranquillità. La figura di Giovanni Battista ha le sue radici nella cultura religiosa essenica. Lo testimoniano i Vangeli, che ci parlano della sua aspettativa pacifica di un intervento straordinario di Dio nella storia. E lo testimonia Giusep­ pe Flavio, che ci parla della sua saggezza, della sua vir­ tù, e dei suoi lavacri di purificazione. Giovanni B attista ci si presenta tuttavia con una sua specifica individualità religiosa, e non come un adepto della setta degli esseni. La sua aspettativa di un futuro intervento di Dio si riferiva infatti ad un futuro prossi­ 7 Le Antichità giudaiche menzionano Giovanni Battista nello stesso XVIII libro in cui menzionano Gesù, ma parlandone dopo, e dedican­ dogli quattro paragrafi: il 116, il 117, il 118 e il 119. Gesù

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mo, e non indeterminato come quello atteso dagli esseni. Egli era cioè persuaso di aver decifrato nel mondo i segni deH’imminenza del regno di Dio, e il senso di questa im­ minenza pervadeva tutte le sue azioni, conferendogli un ruolo di grandissimo spicco. Non voleva essere conside­ rato il Messia, perché anzi diceva di essere l’anticipatore di un personaggio più forte di lui che sarebbe venuto dopo di lui, e non aspirava ad alcun particolare titolo. Defini­ va però se stesso come il messaggero di Dio dinanzi al mondo, colui che era chiamato, simbolicamente, a spia­ nare i sentieri e a preparare le strade del cammino pros­ simo venturo di Dio nel mondo. L’immagine che aveva di sé non era dunque quella essenica di membro anonimo di una comunità di santi, ma era quella di un personaggio di assoluta unicità nella storia della salvezza. Come gli esseni, anch’egli abbinava al rifiuto rigoroso di compiere atti sanguinari e violenti una visione cruenta e stragista dell’avvento del regno di Dio. L’intervento straordinario e finale di Dio nel mondo sarebbe stato cioè in primo luo­ go un intervento vendicatore del peccato, attraverso una spietata e irrimediabile punizione omicida dei peccatori. Era rimasto ormai pochissimo tempo per scansare la ven­ detta di Dio, e Giovanni offriva la possibilità di farlo a tutti i figli di Israele, invitandoli a fare penitenza per i propri peccati, e a confessarli pubblicamente nel corso del battesimo che egli avrebbe impartito a chiunque vo­ lesse purificarsi dal peccato. Il rito battesimale essenico (cioè il rito di immersione nell’acqua, perché la parola greca battezzare non signifi­ ca altro che immergere, tuffare) fu dunque adottato e nello stesso tempo profondamente trasformato da Giovanni, che proprio da esso prese l’appellativo di Battista, cioè battezzatore, immergitore. Non si trattò più, infatti, di un rito di iniziazione ad una cerchia elitaria di sapienti Gesù

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religiosi, ma si trattò di una celebrazione penitenziale collettiva, guidata da un leader religioso carismatico, al fine di coinvolgere un intero popolo nell’aspettativa mes­ sianica dell’imminenza del regno di Dio. Non a caso la celebrazione veniva compiuta nelle acque del più grande fiume di Israele, il Giordano. Gesù fu uno di coloro che con più entusiasmo si reca­ rono ad immergersi nel Giordano sotto le mani di Gio­ vanni Battista, e con più profondità si lasciarono coinvol­ gere dall’idea dell’imminenza dell’avvento messianico. Le narrazioni evangeliche del suo battesimo mostrano, esat­ tamente come quelle della scoperta della sua risurrezio­ ne, una progressiva amplificazione leggendaria. Il Van­ gelo più antico, quello cioè di Marco, racconta come Gesù, emergendo dall’acqua battesimale del Giordano in cui Giovanni lo aveva immerso, vide i cieli aprirsi e lo Spiri­ to di Dio discendere su di lui similmente al volo di una colomba. Racconta cioè un’esperienza soggettiva di Gesù, che diventa invece un accadimento fisico nel Vangelo di Luca.8 Nel Vangelo di Matteo c’è l’accadimento fisico, e c’è in più Giovanni Battista che inizialmente recalcitra all’idea di battezzare Gesù, uomo senza peccato.9Nel quar­ to Vangelo è addirittura Giovanni Battista che vede lo Spirito di Dio discendere su Gesù, rendendone testimo­ nianza.10 Naturalmente quando Gesù si è fatto battezzare non è apparso fisicamente proprio nulla in cielo, né Giovanni 8 In Marco 1, 9 si dice che Gesù eI8 ev, cioè vide, seppe, che i cieli si aprirono, e che lo Spirito discese cu? jispicrtEpàv, cioè similmente ad una colomba. In Luca 3, 21 si dice che èyéveto, cioè accadde, che il cielo si aprì, e che lo Spirito discese ocopaxiKw eìSei, cioè in forma corporea. 9 Matteo 3,13-15. 10 Giovanni 1, 32. Gesù

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ha riconosciuto in Gesù il personaggio più forte di lui che sarebbe venuto ad inaugurare il regno di Dio. Sono i Van­ geli stessi di Matteo e di Luca a darci, se ce ne fosse biso­ gno, la prova di questo, narrandoci come, molto tempo dopo, Giovanni inviasse alcuni suoi discepoli da Gesù per domandargli se davvero fosse lui l’uomo atteso alle so­ glie del regno di Dio.11 Ora è evidente che Giovanni non avrebbe avuto bisogno di fargli una simile domanda se, quando aveva battezzato Gesù, lo avesse già riconosciuto come Messia, e avesse visto personalmente i cieli aprirsi sopra di lui. L’amplificazione leggendaria non toglie tuttavia, in questo caso come in quello della scoperta della risurre­ zione, che il nucleo narrativo su cui sono state innestate le leggende sia storicamente veritiero. Questo nucleo è appunto il battesimo di Gesù da parte di Giovanni Batti­ sta, che, sulla base dei criteri metodologici normalmente adottati nell’utilizzazione storica delle fonti, non può in alcun modo essere ritenuto una pura invenzione. Il fatto che Gesù abbia cominciato ad impegnarsi pub­ blicamente sul piano religioso andando a farsi battezza­ re da Giovanni, contraddice a tal punto lo scopo essen­ ziale dei Vangeli, quello cioè di presentarcelo come il Cri­ sto redentore senza peccato, che può essere stato riferito solo perché ne era stata conservata una forte e precisa memoria storica. Questo è tanto vero, che le amplifica­ zioni leggendarie di questo fatto servono tutte a neutra­ lizzare i diversi aspetti che lo rendevano inaccettabile, e che non lo avrebbero quindi certo fatto inventare se non fosse stato vero. Il battesimo di Gesù rivela senza ombra di dubbio che Gesù agli inizi si ritenne un peccatore biso­ gnoso di una penitenza purificatrice? Ecco che il redatto- 1 11 Cfr. Matteo 11, 3 e Luca 7,19. Gesù

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re del Vangelo di Matteo rimedia facendo dire a Giovanni che Gesù non dovrebbe venire battezzato. Il battesimo di Gesù implica logicamente che Gesù non svolse fin dal­ l’inizio personalmente un ruolo messianico, che non nac­ que, insomma, Gesù Cristo? Ecco che gli evangelisti ri­ mediano con la rappresentazione dei cieli che si aprono e di Dio che si mostra riconoscendolo come suo figlio. Il battesimo di Gesù ci dice che agli inizi della sua vicenda pubblica Gesù operò non come leader religioso (per non dire fondatore di una nuova religione), ma come seguace di Giovanni Battista? Ecco che alcuni Vangeli rimediano facendo dire a Giovanni Battista parole che lo mostrano consapevole della sua subordinazione a Gesù nel piano divino della salvezza. Troppi rimedi, per far supporre inventato il fatto di cui debbono correggere il significato. No, quel fatto ac­ cadde veramente. E gli inizi di Gesù furono quelli di un seguace religioso di Giovanni Battista.

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4. Gli anni oscuri di Gesù Chi era Gesù quando si mise al seguito di Giovanni Battista? A quale punto della sua vita si trovava? Quali erano le sue aspirazioni? Conosciamo la sua terra di provenienza: era la Gali­ lea, la fertile, popolosa, aspra regione settentrionale del­ la Palestina, abitata da un ceppo ebraico che aveva modi di vita più semplici e rozzi di quelli dei Giudei, ma che condivideva con essi l’osservanza del culto religioso del Tempio di Gerusalemme. Egli nacque probabilmente a Nazareth, o forse in uno dei laboriosi borghi di pescatori e di artigiani che sorgevano sul lago di Galilea.1Quando 1 Gesù non nacque, come comunemente si crede, a Betlemme di Giu­ dea. Il primo e il terzo Vangelo indicano quel luogo soltanto perché si trattava della città dell’antico re David, di cui Gesù, come Messia, si riteneva dovesse essere il discendente. Altri brani evangelici mostra­ no però come alcuni facessero difficoltà a credere in Gesù come Mes­ sia proprio perché non era nato a Betlemme, la città della stirpe di David, ma proveniva dalla Galilea (chiarissimo in proposito Giovanni 7,41-42). D’altra parte, la nascita a Betlemme in occasione del censi­ mento del 7 d. C. contraddice l’informazione, data da tutti i Vangeli, che Gesù nacque al tempo di Erode (il re Erode morì infatti nel 4 a. C.). Una volta stabilito che Gesù nacque in Galilea, si può accettare come sua città natale, per non cadere in uno sterile ipercriticismo, Nazareth di Galilea, indicata come tale dal secondo e dal quarto Van­ gelo. Qualche dubbio è tuttavia legittimo. In Matteo 13, 1 si legge infatti che Gesù, uscito da casa sua, si sedette sulla riva del mare (il lago di Galilea è chiamato mare nelle narrazioni evangeliche). Naza­ reth, però, si trova all’altra estremità della Galilea rispetto al lago, per cui uscendo di casa, non ci si può trovare sul “mare”. In Luca 4 ,2 9 si parla del ciglio di un monte su cui la città natale di Gesù era costru­ ita. Nazareth, però, si trova in un fondovalle. Né l’appellativo evange­ lico di Gesù nazareno indica Nazareth come città di origine di Gesù. Nazareno è infatti una storpiatura, creata proprio dall’esistenza del­ la città di Nazareth, dal greco nazoraio, che indica l’appartenente alla Gusti

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nacque? Questo non lo sappiamo con precisione. Per non sbagliare dobbiamo dire che la sua data di nascita si col­ loca tra il 12 a. C. e il 4 a. C.,2 cioè che egli è nato alcuni anni prima della data attribuitagli dal nostro computo degli anni. Ebbe quattro fratelli3 (Giacomo, Giuseppe, Simone e Giuda), rimasti estranei quando non ostili al suo impegno religioso,4 ma annoverati tra i suoi seguaci setta religiosa nazorea o nazirea, cioè alla setta dei seguaci di Gio­ vanni Battista (esistente ancora oggi in Iraq). Qualche studioso ha creduto di poter identificare la città natale di Gesù in Gamala, situata sulle alture a oriente del lago di Galilea (oggi alture del Golan, tristemente famose perché elemento di contesa tra Israele e Siria). Gamala potrebbe essere stata la città natale di Gesù per una sua triplice caratteristica: si trovava presso il lago di Galilea, sorgeva su un monte, ed era il centro della setta messianica di indi­ rizzo zelotico dei galilei. Ma si tratta di nulla più che di una congettu­ ra. 2 La data del 4 a. C. è quella della morte di Erode il Grande. Gesù non può essere nato dopo tale data, perché sono concordi le attesta­ zioni evangeliche che egli nacque al tempo del re Erode (del re Erode, e non del tetrarca Erode o dell’etnarca Erode, per cui non può trattar­ si né di Erode Antipa né di Erode Archelao). La data del 12 a. C. è quella della comparsa, nel cielo dell’Oriente, della cometa di Halley, che rappresenta l’evento più antico collegabile con la nascita di Gesù. I Vangeli dicono infatti che quando nacque Gesù comparve in cielo una stella. Essi parlando di stella, non di cometa, per cui è probabile che Gesù sia nato nel 7 a. C., quando si ebbe una luminosa congiun­ zione di Giove e Saturno nella costellazione dei Pesci. 3 Come è detto in maniera del tutto esplicita in Marco 6, 3 e in M at­ teo 13, 33. La supposizione che fossero cugini, perché in aramaico esiste una sola parola (ach acha) per indicare sia il fratello che il cugi­ no, è ridicola. I Vangeli sono stati scritti infatti non in aramaico, ma in greco, e il greco ha vocaboli distinti per indicare ogni grado di pa­ rentela. Se perciò i redattori dei Vangeli avessero inteso, anche tra­ ducendo un testo aramaico, parlare di cugini, avrebbero scritto àveipiOL Essi hanno invece scritto à&Ekpoi, che non vuol dire altro che fratelli carnali. 4 Cfr. Marco 3, 31-35. Gesù

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dopo la sua morte.5 La collocazione sociale della sua fa­ miglia è oggetto di vaghe congetture, basate su labili in­ dizi. La vita da lui condotta prima del battesimo imparti­ togli da Giovanni B attista è del tutto ignota. Ci si può chiedere se tutte queste lacune informative non collochino Gesù, anche una volta assodato che le fon­ ti su di lui sono storicamente utilizzabili, in una specie di penombra storica, da cui non possa uscire un personag­ gio pienamente reale. Ma, se così fosse, non esisterebbe­ ro personaggi effettivamente storici nell’età antica. Di quasi tu tti i grandi individui del mondo greco-romano, per non parlare di quelli del mondo antico-orientale, igno­ riamo infatti completamente la vita anteriore alla loro attività pubblica. Eppure non abbiamo alcuna difficoltà a considerare pienamente storici personaggi come Mil­ ziade e Temistocle, ed anche come Assurbanipal e Nabuccodonosor. Ciò è naturale, perché è quel che sappia­ mo della vicenda pubblica di un personaggio a costituire la sua storicità, e ad illuminare, ancorché parzialmente e genericamente, le sue origini. Questo vale per tutti i personaggi storici, e deve quindi valere anche per Gesù. Quanto all’incertezza sulla sua data di nascita, occorre osservare che è il mondo moderno ad aver creato, con la sua lunga pratica di archiviazione dei documenti e di uso di calendari standardizzati, la precisione cronologica in campo biografico. Così è ovvio che noi sappiamo con as­ soluta precisione la data di nascita, poniamo, di Mussoli­ ni, di Churchill e di Roosevelt. Diverso però è il discorso per altre epoche, nelle quali i punti di riferimento crono­ logico sicuri sono costituiti da grandi eventi pubblici, non da dati biografici. Così, ad esempio, di un grande perso­ naggio del Medioevo come Federico Barbarossa, sappia­ 5

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Cfr. E usebio di C esarea, Storia ecclesiastica, III, 20, 6 e IV 22, 4. 58

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mo con molta precisione quando fu incoronato imperato­ re, e quando fece le sue campagne militari in Italia, ma ignoriamo l’anno di nascita, che possiamo collocare sol­ tanto entro un certo periodo di più anni, proprio come ci accade per Gesù. E, proprio come ci accade per Gesù, igno­ riamo tutto, dalle inclinazioni mostrate all’educazione ricevuta," della sua vita anteriore all’evento che lo proiet­ tò alla ribalta storica, cioè la morte di suo zio Corrado. Eppure nessuno pensa che la sua figura non abbia spes­ sore storico. Perciò non dobbiamo pensare questo nean­ che di Gesù, anche se molti si sentono autorizzati a farlo a causa della deformazione teologica operata sulla sua figura dalla tradizione religiosa. Ma ogni ricostruzione storica è tale proprio perché ha qualche tradizione defor­ mante da correggere. Si potrebbe obiettare che non conosciamo bensì data e luogo preciso di nascita di Federico Barbarossa, e non conosciamo la sua vita privata anteriore all’evento che lo portò sulla scena pubblica, ma sappiamo bene con quali idee, passioni e progetti egli affrontò e visse quell’evento. Ma, a ben guardare, lo sappiamo anche per Gesù, riguar­ do all’evento che portò lui sulla scena pubblica, cioè il battesimo di Giovanni Battista, purché usiamo i normali criteri del metodo storico, per i quali occorre avvalersi non soltanto delle testimonianze dirette delle fonti, ma anche delle indicazioni indirette di altri fatti precedenti e successivi, e di altre nozioni collaterali. Nel caso del battesimo impartito da Giovanni Battista a Gesù, pos­ siamo sapere, in maniera generica ma storicamente so­ stanziosa, le idee, le passioni e i progetti con cui Gesù lo visse, se consideriamo non solo quel che i Vangeli ci dico­ no di quel battesimo, ma anche tutto quel che conoscia­ mo su Giovanni Battista, e sulla vicenda successiva di Gesù, oltre che sul contesto storico del tempo. Gesù

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Quando venne a sapere che dal deserto della Giudea, punteggiato da comunità esseniche pronte a scorgere i segni dell’intervento finale di Dio sulla Terra, era uscito fuori un uomo, Giovanni, che annunciava la prossima punizione dei peccatori, Gesù certamente pensò con en­ tusiasmo che il regno di Dio fosse ormai vicino. Che, cioè, fosse vicina l’ora della redenzione dei poveri, dei malati e degli oppressi, con il rovesciamento di tutti i poteri terre­ ni, e l’instaurazione del governo diretto di Dio su Israele liberata. Non poteva non avere, infatti, queste attese messianiche, se pensiamo alla sua vicenda successiva, e anche alla terra da cui proveniva, la Galilea, a quei tem­ pi segnata da così spasmodiche attese messianiche che l’aggettivo galileo era passato ad indicare il seguace del messianismo zelotico. Che altri pensieri e sentimenti po­ teva avere un uomo che si recava dalla Galilea ad incon­ trare Giovanni Battista? Il Battista rappresentò certamente, agli occhi di Gesù, una conferma per così dire sperimentale delle sue attese messianiche. Infatti, dopo che da secoli si era spenta la voce dei profeti, e la dimensione religiosa delTebraismo si era appiattita al culto del Tempio e all’osservanza del­ la Legge, era m aturata la convinzione, tra tutti coloro che coltivavano l’ideale messianico sulla base di studi biblici, che l’opera di un Messia non avrebbe neppure potuto cominciare se non fosse comparso un ultimo pro­ fèta capace di richiamare l’attenzione sul destino escato­ logico di Israele. Molti pensavano che questo ultimo pro­ feta altri non sarebbe stato che il profeta Elia risuscita­ to, in quanto l’ultimo dei profeti antichi, Malachia, aveva dichiarato che Elia sarebbe tornato prima del giorno del­ l’ira di Dio. Nessuno sapeva in che veste sarebbe venuto e come si sarebbe fatto riconoscere dal suo popolo. Gio­ vanni, d’altra parte, era venuto ad annunciare l’immi­ G esù

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nenza del giorno dell’ira di Dio, ed andava vestito, pro­ prio come Elia, con un indumento di peli di cammello allacciato da una cinta di cuoio. Non poteva perciò non rappresentare, agli occhi di Gesù, con la sua stessa com­ parsa, il segno che egli aveva avuto ragione a pensare che i tempi fossero prossimi alla resa dei conti finale con l’oppressivo sistema di potere che umiliava Israele. Gesù si mise quindi in marcia verso il Giordano per andare a farsi battezzare da Giovanni, con l’idea che l’av­ vento del regno di Dio fosse ormai prossimo, e con il pro­ getto di partecipare in prima persona alla vicenda della sua instaurazione, dopo esseri liberato dai suoi peccati con il battesimo. Abbiamo già visto come i Vangeli descri­ vano il suo battesimo. Il nucleo storico delle loro descri­ zioni è che l’immersione nelle acque del Giordano sotto le mani di Giovanni fu per Gesù un’esperienza interiormente sconvolgente: egli sentì lo Spirito di Dio discendere in lui, ovvero si sentì chiamato da Dio ad un ruolo di prota­ gonista nell’instaurazione ormai prossima del regno di Dio. È probabile che anche in questo caso si trattasse della conferma di un’attesa. È cioè probabile che egli fos­ se effettivamente nato quando una stella insolita brilla­ va in cielo, e che per questo, nell’infanzia, tu tti gli aves­ sero detto che era destinato a partecipare alla liberazio­ ne di Israele, portandolo ad una immagine di sé confor­ me a tali aspettative. È probabile che nella fanciullezza egli avesse ulteriormente elaborato questa immagine di sé con un’educazione sapienziale di tipo essenico. È pos­ sibile che suo padre fosse caduto per la causa messiani­ ca,6 e che un atroce dolore per la sua perdita lo avesse 8 Giuseppe, padre di Gesù, era certamente morto quando Gesù di­ venne adulto, perché non compare mai tra i familiari che ogni tanto vanno a cercarlo (e che sono sempre sua madre e i suoi fratelli), e non è presente accanto a Maria nei drammatici momenti finali della sua G esù

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psicologicamente spinto a voler diventare protagonista della liberazione messianica, a prezzo di qualsiasi sacri­ ficio personale, con l’inconscio bisogno di riscattare il sa­ crificio paterno, di dargli un senso. Sono cose probabili o possibili, niente affatto certe. Quel che è certo, ed è stori­ camente importante, è che Gesù andò a farsi battezzare perché condivideva l’idea di Giovanni Battista della pros­ simità dell’avvento del regno di Dio, e perché voleva libe­ rarsi dai suoi peccati per rendersi degno del regno di Dio. Quel che è certo è che pensò, una volta battezzato, di es­ sere destinato ad un ruolo di primo piano nell’instaura­ zione del regno di Dio, a fianco di Giovanni Battista. Quel che è certo è che il battesimo fece di lui un seguace di Giovanni Battista. Si tra tta ora di capire se è possibile apporre una data certa a questo battesimo, determinando così anche l’età che aveva Gesù allorché vi si sottopose, sia pure in modo approssimativo, dato che conosciamo soltanto con una certa approssimazione la sua data di nascita. Poniamo, cioè, una questione cronologica, non perché sia impor­ tante in se stessa, ma perché, affrontandola in maniera corretta, si aprono, come vedremo, nuovi orizzonti sulla vicenda storica di Gesù. Ci sono elementi che conducono ad una data precisa, il 26 d. C., per il battesimo di Gesù. Il Vangelo di Giovan­ ni, infatti, narrandoci la prima pasqua dopo il battesimo, racconta un episodio in cui alcuni giudei affermano che il Tempio di Gerusalemme ha cominciato ad essere edifica­ to quarantasei anni prima. Si tratta di un’indicazione ben determinata, che riflette certamente un ricordo storico reale, perché il numero degli anni che viene menzionato non segnala alcun arrotondamento per approssimazio­ ne, e non ha alcun valore simbolico. Abbiamo d’altra par­ te la fortuna di sapere in quale anno preciso ha avuto Gesù

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inizio l’edificazione del secondo Tempio: si tra tta del di­ ciottesimo anno di regno di Erode il Grande, ci dice Giu­ seppe Flavio, cioè, poiché Erode fu incoronato re nel 37 a. C., dell’anno 20 a. C .. Orbene: se facciamo scorrere qua­ rantasei anni dal 20 a. C., arriviamo al 27 d. C. .7Dunque la prima pasqua di cui parla il Vangelo di Giovanni, du­ rante la quale alcuni giudei fanno osservare a Gesù che il Tempio è in costruzione da quarantasei anni, è la pa­ squa dell’anno 27 d. C .. Se Gesù a quella data è già stato battezzato da qualche tempo, il suo battesimo non può risalire che al 26 d. C .. Più indietro nel tempo non si può andare, dato che sappiamo che Giovanni Battista comin­ ciò a predicare quando il prefetto della Giudea era Pon­ zio Pilato, e che sappiamo anche che Ponzio Pilato as­ sunse la sua carica nel 26 d. C. (prima di allora il prefetto della Giudea era Valerio Grato). In conclusione, Giovan­ ni Battista comparve sulla scena pubblica nel 26 d. C., e immediatamente, o quasi, dopo la sua comparsa, Gesù andò a farsi battezzare da lui sulla rive del Giordano. Questo almeno è quanto si deve inferire dalla indicazio­ ne precisa contenuta nel Vangelo di Giovanni. Ad identica conclusione conduce un’indicazione ancor più precisa contenuta nel Vangelo di Luca, che conviene leggere per esteso: «Nell’anno decimoquinto del governo di Tiberio Cesare, mentre Ponzio Pilato era governatore della Giudea, Erode tetrarca della Galilea, Filippo suo vita. Poiché Gesù seguiva l’ideale messianico, e poiché allora l’adesio­ ne agli ideali religiosi e sociali si tramandava di padre in figlio, e più che probabile che Giuseppe appartenesse a qualche movimento mes­ sianico. Tenendo conto del dato storico delle ripetute, spietate repres­ sioni dei movimenti messianici compiute dai Romani in Galilea e del dato psicologico della identificazione di Gesù con il Messia sofferente, appare ragionevole, anche se soltanto congetturale e niente affatto provata, l’ipotesi che Giuseppe sia caduto per la causa messianica. 7 Non esiste infatti un anno zero, e dopo l’I a. C. viene l’I d. C .. Gesù

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fratello tetrarca dell’Iturea e della Traconitide, e Lisania tetrarca dell’Abilene, sotto il pontificato di Anna e Caiafa, la parola di Dio fu rivolta a Giovanni, figlio di Zacca­ ria, nel deserto». L’anno della comparsa di Giovanni è identificato dunque, alla maniera in uso tra gli antichi, dal nome dei detentori del potere, la cui estesa menzione rivela non un ricordo per sentito dire, ma una qualche ricerca. Abbiamo cioè a che fare con un’indicazione che va presa molto sul serio. Questa indicazione contiene un riferimento cronologico che è per noi una chiave: Giovan­ ni comparve nell’anno quindicesimo dell’imperatore Ti­ berio. Noi sappiamo con precisione quando Tiberio as­ sunse la carica imperiale: non, come comunemente si dice, nel 14 d. C., alla morte del suo predecessore Augusto, ma nel 12 d. C., perché fu in quell’anno che Augusto gli fece attribuire dal Senato la titolarità dei poteri imperiali, che fecero di lui un imperatore a tutti gli effetti, sia pure, nei primi due anni, come correggente di Augusto. Se Tiberio cominciò a governare llm pero nel 12 d. C., il quindicesi­ mo anno del suo governo, l’anno della comparsa di Gio­ vanni Battista, va a cadere nel 26 d. C .. Gesù aveva allo­ ra poco più di trentanni.8 Tutto chiaro, dunque? Tutti i dati a nostra disposizio­ ne convergono nell’indicare nel 26 d. C. l’anno in cui Gio­ vanni cominciò a battezzare sulle rive del Giordano? Nien­ te affatto. Esistono taluni elementi che sembrano dare un’indicazione diversa. Per esempio, il Vangelo di Gio­ vanni riporta un episodio in cui alcuni giudei si rivolgono a Gesù dicendogli, per sottolineare come non sia molto 8 Se era nato sotto la stella del 7 a. C., aveva, quando andò a farsi battezzare da Giovanni, trentadue anni (cfr. nota precedente). Ciò concorda con un’altra attestazione di Luca (Luca 3, 23), secondo la quale Gesù, quando iniziò il suo impegno religioso «aveva circa trent’anni». G esù

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vecchio, che non ha ancora raggiunto i cinquantanni. Ora, non si dice di una persona che non ha ancora raggiunto i cinquantanni, se non ha passato almeno i quaranta (se ha più di trentanni, gli si può dire che non ne ha ancora compiuti quaranta, e non che non ne ha ancora compiuti i cinquanta). D’altra parte la casualità del riferimento è indizio di storicità. Ma se Gesù, intrapresa la sua missio­ ne, aveva superato i quarantanni, l’anno in cui prima Giovanni e poi lui si trovarono sulla scena pubblica deve ossere stato il 35 d. C., o almeno un anno vicinissimo al 35 d. C. (non si può spostare la data più avanti, perché si cadrebbe fuori dal periodo di governo di Pilato, né più indietro, perché se Gesù era nato, come nell’ipotesi più probabile, attorno al 7 a. C., avrebbe avuto attorno ai quarantanni nel 35 d. C.). L’anno 35 d. C., inoltre, fu un anno censorio per la Giudea (gli abitanti della sua pre­ fettura erano censiti a scopi fiscali ogni quattordici anni a partire dal 7 d. C.), e taluni aspetti della predicazione di Gesù si spiegano nel contesto di un anno censorio. Ma c’è di più. Possiamo essere sicuri che la morte di Giovanni Battista, da cui prese avvio la predicazione autonoma di Gesù, avvenne nel 35 d. C. . I Vangeli ci dicono infatti che Giovanni era stato fatto uccidere dal tetrarca della Galilea Erode Antipa, perché aveva con­ dannato il suo nuovo matrimonio con Erodiade, vedova di suo fratello Filippo. Giuseppe Flavio ci narra come la moglie ripudiata di Erode Antipa, che era la figlia di Are­ ta IV re dell’Arabia Petrea, «fuggì dalla Galilea e rag­ giunse la terra del padre, al quale disse quel che Erode aveva fatto. Areta gli portò allora guerra nel distretto di damala».s Aggiunge poi che l’esercito di Erode Antipa subì una grave sconfitta militare, ed osserva, poco più avanti, "

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G iuseppe F lavio, A ntichità giudaiche, XVIII, 126. 65

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che tale sconfitta fu considerata dagli ebrei una punizio­ ne inflittagli da Dio per aver fatto uccidere Giovanni. L’uc­ cisione di Giovanni Battista e la guerra arabo-galilea fu­ rono dunque due effetti concomitanti di uno stesso even­ to, cioè delle seconde nozze di Erode Antipa con Erodiade. Abbiamo quindi tre eventi cronologicamente vicinissi­ mi, che sono, nell’ordine, le nuove nozze di Erode Antipa, l’uccisione per sua opera di Giovanni Battista, la guerra contro di lui di Areta IV. Trovando perciò il modo di data­ re uno di essi, ne consegue una datazione anche per gli altri due. Ma noi abbiamo appunto un modo facile e sicu­ ro per datare la guerra arabo-galilea, e cioè la lettura delle pagine di Giuseppe Flavio. Infatti, dopo aver rac­ contato la sconfitta militare di Erode Antipa, Giuseppe Flavio prosegue dicendo come il tetrarca sconfitto avesse chiesto aiuto contro Areta al legato imperiale di Siria Aulo Vitellio, e come questi, ottenuta l’autorizzazione dell’Im­ peratore Tiberio, avesse cominciato a raccogliere le forze per attaccare il re arabo. A questo punto, però, ci narra Giuseppe Flavio, l’im­ provvisa notizia della morte di Tiberio indusse Vitellio a sospendere ogni operazione bellica, in attesa delle dispo­ sizioni del nuovo imperatore Caligola. E proprio qui ab­ biamo l’indicazione che ci consente di inquadrare crono­ logicamente l’insieme degli eventi di cui si è detto. Sap­ piamo infatti dalla storia di Roma che Tiberio morì nel marzo del 37 d. C .. Ciò significa che i preparativi bellici di Vitellio si erano svolti nell’inverno del 36-37 d. C., an­ che perché all’epoca le guerre si combattevano tra la pri­ mavera e l’autunno, e si preparavano appunto in inver­ no. Tali preparativi erano stati una conseguenza della sconfitta militare di Erode Antipa, ma ovviamente solo G esù

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dopo che Erode Antipa aveva inoltrato la sua richiesta di aiuto a Vitellio, che Vitellio aveva inviato un messaggio a Roma, che a Roma l’imperatore aveva discusso la situa­ zione con i suoi consiglieri, che la deliberazione imperia­ le era giunta da Roma alla Siria. È perciò ragionevole supporre che la sconfitta militare di Erode Antipa fosse avvenuta non oltre la primavera del 36 d. C., forse nel­ l’autunno del 35 d. C. . Giovanni Battista, ucciso prima che quella guerra fosse cominciata, ma dopo il fatto che l’aveva suscitata, morì dunque probabilmente all’inizio del 35 d. C., e certamente non prima del 34 d. C. . Come sciogliere la contraddizione tra le indicazioni che collocano Giovanni Battista nel 26 d. C. e quelle che lo collocano nel 35 d. C.? Scegliendo di considerare giusta una delle due serie di indicazioni, ed errata l’altra? O collocando Giovanni in una data intermedia tra le due, sulla base del giorno della settim ana in cui i Vangeli col­ locano la pasqua in cui Gesù morì? Queste sono le solu­ zioni che vengono date. E che sono a nostro avviso radi­ calmente sbagliate, perché cancellano arbitrariam ente la ragionevole attendibilità di tutte le indicazioni che por­ tano a collocare Giovanni nel 26 d. C. e nel 35 d. C .. La contraddizione si può perciò sciogliere in un modo solo, e cioè collocando Giovanni sia nel 26 d. C. sia nel 35 d. C., ovvero prendendo atto che egli è comparso ed ha comin­ ciato a battezzare nel 26 d. C., e che è stato ucciso da Erode Antipa nel 35 d. C. (o nel 34 d. C.). Giovanni B attista ha quindi operato come leader reli­ gioso in Palestina lungo un arco di otto o nove anni. Ciò non è mai stato immaginato semplicemente perché nei Vangeli Giovanni compare come una meteora: ha appena il tempo di battezzare Gesù, e subito viene arrestato, poi fatto uccidere. Il suo messaggio, compendiato in poche parole, non lascia minimamente intuire una lunga vicen­ Ge s O

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da di predicazione. Dicemmo però che la via da seguire nell’utilizzazione dei Vangeli come fonte storica doveva essere quella di lavorare su di essi nella stessa maniera con cui normalmente si lavora sulle usuali fonti storiche. Ora, sappiamo che le narrazioni antiche, quando si collo­ cano ad una certa distanza temporale dai fatti narrati, operano spesso processi di condensazione, che situano in un unico scenario vicende avvenute in realtà in contesti cronologici lontani tra loro. Si sottraggono alla condensazione, tra le narrazioni antiche, soltanto quelle poche che si basano su una gran­ de ricchezza di informazioni riguardo a ciò che narrano, e che sono guidate da precisi intenti cronografici e storio­ grafici. Soltanto, cioè, narrazioni come quelle di Tucidi­ de, Polibio, Livio, Tacito, Appiano, Ammiano Marcellino. Ma già, per esempio, nelle Vite di Svetonio o dello stesso Plutarco, molteplici vicende biografiche, separate tra loro da lunghi intervalli di tempo, sono narrativamente ap­ piattite in sequenze continue, che danno l’illusione di una quasi contemporaneità dei fatti che si succedono. Persi­ no storici come Diodoro Siculo e Gregorio di Tours, quan­ do rievocano eventi molto lontani dai loro tempi, fanno sparire le distanze cronologiche che li separano gli uni dagli altri. Si pensi anche ad Erodoto, non quando narra le guer­ re persiane, a lui vicinissime, e sulle quali dispone di in­ formazioni molto dettagliate, ma quando ricostruisce, ad esempio, la civiltà egiziana: lì compaiono in un unico sce­ nario persino realtà storiche risalenti a millenni diversi. Il lavoro dello storico su fonti di questo genere consi­ ste appunto nel ristabilire, usando tutti gli indizi che gli sono stati lasciati, e tutte le risorse logiche di cui dispo­ ne, distanze e prospettive cronologiche annullate dalle condensazioni operate dalla fonte. G esù

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Un lavoro non diverso deve essere fatto sui Vangeli. Facendo questo lavoro, diventa persino ovvio che Giovanni Battista sia stato protagonista della storia religiosa ebrai­ ca per anni, e non per mesi. Altrimenti non avrebbe la­ sciato le tracce profonde che ha invece lasciato. E diven­ ta ovvia anche la condensazione della sua non breve sto­ ria in poche immagini della sua figura, e in poche frasi da lui pronunciate, che danno l’impressione di una figu­ ra comparsa e scomparsa in un rapidissimo volgere di tempo. I redattori dei Vangeli, e lo stesso Giuseppe Flavio, non disponevano infatti di alcuna misura cronologica della vita di Giovanni Battista, non avevano alcun interesse a costruirla, e non possedevano le informazioni minime necessarie per poterla costruire. Essi avevano conserva­ to, oltre ad alcuni relitti di immagini e di parole di Gio­ vanni, la memoria del significato complessivo della sua opera, che è poi l’elemento per noi più importante per concepirlo come personaggio storicamente reale: Giovanni fu l’uomo che condusse talune correnti, probabilmente minoritarie, della cultura religiosa ebraica dell’epoca, alla prospettiva dell’imminenza dell’avvento del regno di Dio sulla Terra, e all’idea di doverlo preparare non con un’in­ surrezione militare, ma in maniera pacifica, attraverso una penitenza collettiva. Capire che questo è il significato storicamente reale dell’opera di Giovanni Battista, m a che tale opera si è svolta attraverso anni, drammi, itinerari e vicissitudini che ignoriamo, è importante non per pura questione eru­ dita, ma perché apre una nuova prospettiva sulla storia stessa di Gesù. Se infatti si ammette che Giovanni Batti­ sta abbia operato come leader religioso lungo un arco di otto o nove anni, dal 26 d. C. al 34 o al 35 d. C., diventa ragionevole supporre che anche la vicenda pubblica di G esù

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Gesù si sia svolta in un simile arco di tempo, dato che i Vangeli intrecciano l’impegno religioso di Gesù sia con l’inizio che con la fine della missione del Battista. Ma se Gesù è stato attivo in Palestina per diversi anni, allora i Vangeli, che condensano le sue parole e i suoi atti in un breve periodo a ridosso della sua morte, nascondono un più lungo periodo formativo della sua personalità pub­ blica. A questo punto dobbiamo tentare di dare una risposta a due domande. La prima: ci sono veramente anni oscu­ ri, per noi, della predicazione di Gesù? Lunghi anni, cioè, che possiamo immaginare densi di vicende drammatiche, e di decisiva importanza per la percezione collettiva del­ la figura pubblica di Gesù, caduti fuori da quadro delle narrazioni evangeliche, le quali saltano dal battesimo di Gesù direttamente al periodo finale della sua predicazio­ ne, cancellando di lui un arco quasi decennale di impe­ gno religioso? La seconda: è possibile ricostruire una vaga traccia e un significato generale dell’itinerario storico percorso da Gesù in quegli anni oscuri saltati dai Vange­ li, naturalm ente se vi sono stati, comprendendo anche i motivi della loro cancellazione? La risposta alla prima domanda è facile, ed è una ri­ sposta positiva. Gesù cominciò il suo impegno religioso pubblico recandosi dalla Galilea sulle rive del Giordano, a farsi battezzare da Giovanni, nell’anno 26 d. C. . Da allora in poi fu attivo per alcuni anni, attraverso vicende che non conosciamo, fino alla fase finale della sua predi­ cazione, iniziata nel 35 d. C. (o al più presto nel 34 d. C.), in coincidenza con l’arresto di Giovanni Battista, e rac­ contata dai Vangeli come diretta prosecuzione del suo battesimo. Diversi sono gli elementi che portano a que­ sta risposta. Innanzi tutto, come abbiamo già visto a pro­ posito della cronologia di Giovanni, gli elementi che in­ Gesù

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ducono a fissare al 26 d. C. il battesimo di Gesù, e al 35 d. C .,o a poco prima, l’arresto di Giovanni, che coincide con l’inizio della predicazione di Gesù n arrata dai Vangeli. È dunque evidente che i Vangeli, facendo iniziare la predi­ cazione di Gesù con l’arresto di Giovanni, ma subito dopo il suo battesimo, saltano quasi un decennio della sua vita. C’è poi da considerare che non è storicamente ragionevo­ le supporre che la traccia profondissima lasciata da Gesù sui suoi discepoli sia stata effetto soltanto di pochi mesi di predicazione. Inoltre i Vangeli sinottici10 raccontano che Gesù, dopo essere stato battezzato, e prima di inizia­ re la sua predicazione, rimase quaranta giorni nel deser­ to, per superare alcune tentazioni. Il simbolismo biblico proprio della tentazione, del deserto, e del numero qua­ ranta, non lascia dubbi sul fatto che il racconto rappre10 Vangeli sinottici è il nome collettivo dato ai tre Vangeli di Matteo, Marco e Luca, a partire dal XVIII secolo, quando gli studiosi si accor­ sero che, se li facevano stampare e impaginare in colonne parallele, potevano seguire con uno stesso sguardo, in greco synopsis, il raccon­ to della vicenda di Gesù L’aggettivo di sinottici, attribuito ai primi tre Vangeli, è dunque inteso a sottolineare il loro parallelismo narrativo. Lo schema generale della narrazione è in effetti quasi identica in tut­ ti e tre i Vangeli, e quasi identiche sono anche molte unità narrative. Caratteristica dei Vangeli sinottici è quella di operare una estrema condensazione della vicenda pubblica di Gesù, che sembra al lettore essersi svolta tutta quanta nel giro di pochi mesi. Essi, inoltre, pur dando ampio spazio agli ultimi giorni di Gesù a Gerusalemme, ne narrano il dramma in maniera spesso sfuocata, e dando talvolta l’im­ pressione di non comprendere la logica del suo svolgimento. Molto più chiari sono invece sulla predicazione di Gesù in Galilea. Ciò non può dipendere che dal fatto che la tradizione, orale e scritta, a cui i loro redattori hanno attinto, risaliva ai più stetti discepoli galilei di Gesù. Costoro, quando seguivano il maestro a Gerusalemme, veniva­ no a trovarsi in un contesto ambientale loro estraneo, che riduceva le loro capacità di comprensione, specie quando entravano in giuoco isti­ tuzioni tipicamente giudee (come il Sinedrio), o quando erano esclusi dalla partecipazione agli eventi (come nel processo a Gesù). G esù

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senti l’ultima, simbolica condensazione del ricordo di un lungo itinerario formativo percorso da Gesù prima della sua predicazione narrata dai Vangeli. La certezza che ci siano stati anni oscuri, precedenti gli episodi di cui sia­ mo a conoscenza tram ite le narrazioni evangeliche, della vicenda pubblica di Gesù, è confermata anche da altri dati, di cui diremo tra poco, perché riguardano il succes­ sivo argomento. La risposta alla seconda domanda è più complessa. Gli anni oscuri di Gesù sono infatti tali appunto perché non ci sono stati tram andati. Come ricostruire allora un sia pur vago disegno, e un sia pur generico significato? E se questa ricostruzione è assolutamente impossibile, la sua impossibilità non infirma la stessa certezza dell’esi­ stenza di quegli anni? Come fare, allora, a trovare una risposta accettabile? Consideriamo i dati, e riflettiamo. Se le tentazioni di Gesù nel deserto sono, come si è detto, una forma di condensazione estrema e simbolica del suo itinerario spirituale di alcuni anni, dopo il suo battesimo, allora il contenuto di quelle tentazioni deve dirci qualcosa di tale itinerario. Come è noto, nelle nar­ razioni di Matteo e di Luca, Satana tenta Gesù chieden­ dogli di accettare il dominio dei regni della Terra, di get­ tarsi dal pinnacolo del Tempio confidando nella protezio­ ne di Dio, di mutare le pietre in pani. Se teniamo presen­ te che un Messia, per essere riconosciuto tale, doveva rin­ novare il miracolo mosaico della manna, facendo saltar fuori pane in abbondanza per i suoi seguaci, e doveva mostrare di avere una speciale protezione divina, e se consideriamo che l’ideale del regno di Dio prevedeva il governo della Terra da parte del Messia da lui scelto, non tardiamo ad accorgerci che il contenuto delle tentazioni rinvia univocamente alla liberazione messianica. Ma Gesù non volle essere appunto il Messia liberatore di IsraG esù

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eie? Perché dunque l’assunzione di quel ruolo finì per condensarsi simbolicamente in tentazioni da respinge­ re? Evidentemente perché alla coscienza retrospettiva dell’ultimo Gesù alcune maniere di interpretare il ruolo messianico apparvero non conformi al disegno di Dio. Quali furono queste maniere che Gesù fu indotto tal­ volta ad adottare, e che, dopo esperienze formative di al­ cuni anni, alla fine respinse come tentazioni di Satana? Ce lo dice appunto il contenuto stesso, simbolicamente condensato, della narrazione evangelica sulle tentazioni: assumere iniziative di liberazione messianica particolar­ mente spericolate e praticamente votate alla rovina, con­ fidando sulla speciale protezione che Dio doveva al suo Messia; raccogliere seguaci con distribuzione di cibo ot­ tenute svuotando a mano arm ata i granai, come aveva fatto Giuda il Galileo di fronte ai Romani; ottenere il so­ stegno di alcuni dei poteri esistenti, e servirsene nell’in­ staurazione del regno messianico. Si potrebbe obiettare che ricavare un contenuto storico da un racconto simbo­ lico, per via di puro ragionamento, costituisce un’opera­ zione interpretativa troppo congetturale. A ciò si deve ri­ spondere che questa operazione interpretativa ha anche precisi riscontri testuali, di cui non potremmo assolutamente disporre se avessimo i soli Vangeli sinottici,11 ma che troviamo nel testo tanto più denso di storicità del quarto Vangelo.112 Il Vangelo di Giovanni non contiene, come è noto, l’epi­ sodio delle tentazioni di Gesù. Contiene però lo scenario, cancellato dagli altri Vangeli, di un Gesù che opera nel­ l’ambiente del Battista, ma in maniera autonoma, che trae i suoi discepoli dai seguaci del Battista, che si fa 11 Cfr. nota 10. 12 Cfr. nota 13. Gesù

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addirittura lui stesso battezzatore. La prima parte del Vangelo di Giovanni, insomma, narra vicende diverse da quelle raccontate dai Vangeli sinottici, che si collocano nel 26-28 d. C. anziché nel 34-36 d. C .. Se il nostro ragio­ namento di prima è giusto, quelle vicende appartengono allora airitinerario formativo di Gesù che i Vangeli si­ nottici simbolizzano nell’episodio delle tentazioni. Dob­ biamo verificare questa nostra ipotesi. Le vicende che sono raccontate nei primi capitoli del quarto Vangelo sono per lo più del tutto nuove per il let­ tore dei Vangeli sinottici, per la ragione che abbiamo det­ to, cioè perché appartengono ai primi e non agli ultimi anni della predicazione di Gesù. In altri termini, rincon­ tro di Gesù con Filippo di Betsaida, il suo riconoscimento come Messia da parte di Natanaele, le sue nozze a Cana, il suo dialogo notturno con Nicodemo, la sua attività bat­ tesimale, le parole rivolte alla donna sam aritana nella località di Sichar, sono tutte vicende del 26-28 d. C., ap­ partengono cioè a quelli che abbiamo chiamato anni oscuri di Gesù, che si stanno rivelando meno oscuri. Tra le nozze di Cana e il dialogo con Nicodemo, il quarto Vangelo inserisce tuttavia un episodio ben conosciuto dal lettore dei Vangeli sinottici, la famosissima cacciata dei mercanti dal Tempio. I Vangeli sinottici lo collocano però appena quattro o cinque giorni prima della morte di Gesù, cioè nella primavera del 36 d. C., mentre il Vangelo di Giovanni lo colloca nella primavera del 27 d. C .. Si può essere certi che quest’ultima è la collocazione giusta. In primo luogo perché il Vangelo di Giovani è sempre più attendibile degli altri riguardo alle vicende svoltesi a Gerusalemme.13In secondo luogo perché è naturale che i 13 II Vangelo di Giovanni è centrato su un’elaborazione teologica del­ la figura di Gesù come il Logo di Dio fattosi carne, e venuto ad abitare G esù

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Vangeli sinottici, saltando l’intero periodo 26-34 d. C. della predicazione di Gesù, ne condensino alcuni indimentica­ bili episodi nella sua ultima fase, dato che è la sola fase della sua predicazione che raccontano. In terzo luogo, e si tra tta di un indizio decisivo, perché Gesù venne accu­ sato, durante l’interrogatorio davanti alle autorità ebrai­ che, anche della minaccia da lui rivolta al Tempio, ma le accuse contro di lui si rivelarono contraddittorie, e non furono esse a determinare il suo rinvio al giudizio di Pi­ lato per la condanna a morte. Ora ciò risulta comprensi­ bile solo se le accuse si riferivano ad una vicenda già lon­ tana nel tempo, e non ad un fatto di pochi giorni prima. nel mondo in mezzo agli uomini. Parrebbe quindi che dovesse allonta­ narsi dal Gesù della storia ben più dei Vangeli sinottici, che non sono interessati a costruzioni cristologiche ulteriori rispetto all’idea che Gesù sia stato il Cristo predetto dai profeti, e sia risorto dalla morte. Ma le cose non sono affatto valutabili in questo modo. Il Vangelo di Giovanni è infatti costituito dalla evidente giustapposizione redazio­ nale di due narrazioni eterogenee, una narrazione teologica delle manifestazioni cristologiche di Gesù, opera del redattore, e una nar­ razione storica dell’impegno religioso di Gesù. Questo secondo filone narrativo ha una storicità maggiore di quella delle narrazioni sinotti­ che, come avremo modo di constatare molte volte più avanti, e dipen­ de chiaramente da una altolocata fonte giudea. Nel Vangelo di Gio­ vanni, infatti, risultano più nitide e logiche le vicende del processo e della morte di Gesù a Gerusalemme, e compaiono fatti e personaggi del tutto assenti nei sinottici. Basti pensare che, se avessimo solo i sinottici, non conosceremmo neppure personaggi come Natanaele, Lazzaro e il cosiddetto discepolo prediletto, che, per il fatto stesso di essere sempre menzionato anonimo, è probabilmente, come la tradi­ zione vuole, l’autore della narrazione storica contenuta nel Vangelo. La tradizione sbaglia però sicuramente neH’identificarlo con l’aposto­ lo Giovanni. Questi infatti era un povero pescatore galileo, e non può quindi assolutamente coincidere con il discepolo prediletto che, quan­ do Gesù fu tradotto dal sommo sacerdote, potè entrare nell’atrio del suo palazzo, perché da lui conosciuto, e potè farvi entrare anche Pie­ tro (Giovanni 18, 15-16). Quindi il cosiddetto Vangelo di Giovanni non è affatto di Giovanni, almeno non del Giovanni apostolo di Gesù. Gesù

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Gesù sferrò dunque il suo attacco alle attività econo­ miche del Tempio di Gerusalemme all’inizio della sua attività pubblica, durante la festività pasquale del 27 d. C .. Se quindi comprendiamo il senso di questo episodio, precedente di otto anni le vicende evangeliche solitamente ricordate, possiamo avere una traccia e un significato dell’itinerario storico percorso da Gesù negli anni oscuri che precedono la fase finale e conosciuta del suo impegno religioso. La prima cosa da osservare è che l’episodio si rivela, se attentam ente analizzato, non una vera e propria vi­ cenda di cui Gesù fu protagonista, ma il frammento di una vicenda per la sua maggior parte cancellata, ovvero un ricordo molto parziale, passato attraverso un filtro altam ente selettivo della memoria storica, che ha fatto cadere nell’oblio l’intero contesto entro cui aveva un si­ gnificato. Esso è così narrato dai Vangeli:14 Gesù entra nel piazzale del Tempio, e con una frusta di corde intrecciate ne scaccia coloro che vi svolgevano per conto dei sacerdoti le usuali attività economiche; poi rovescia le tavole dei cambiavalute, sparpagliando a ter­ ra le loro monete, e i banchi dei venditori di colombe, fa­ cendo fuggire i volatili; infine parla a coloro che hanno assistito alla scena, dicendo che il Tempio doveva essere casa di preghiera, ed è stato invece ridotto a spelonca di briganti. Tutto questo passa, nei titoli solitamente appo­ sti al brano evangelico, come purificazione, o riforma, del Tempio. Ma tutto questo è inverosimile se è preso per l’episo­ dio reale, mentre diventa realistico se viene inteso come un frammento dell’episodio rèale. Gesù, infatti, non può 14 Matteo 21, 12-13; Marco 11, 15-17; Luca 19, 45-46; Giovanni 2, 13-16. Gesù

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essere entrato da solo a prendere a frustate gli operatori economici del Tempio: sarebbe stato immediatamente immobilizzato e arrestato dalla forza arm ata che il som­ mo sacerdote aveva alle sue dirette dipendenze, come ci informano diverse fonti antiche, appunto per mantenere l’ordine pubblico dentro e attorno il Tempio. Siamo perciò costretti a immaginare che Gesù sia en­ trato nel piazzale del Tempio attorniato da una turba numerosa e ben arm ata di suoi seguaci, e che la guardia del Tempio non sia intervenuta perché intimorita dallo spiegamento di forze avverse. Il Vangelo di Marco atte­ sta che questo attacco al Tempio fu ritenuto talm ente grave dai capi dei sacerdoti, che essi cercarono il modo di uccidere Gesù.15Basta riflettere su questa testimonian­ za per rendersi conto che se Gesù fosse stato solo a pren­ dere a frustate gli operatori economici dei sacerdoti, non sarebbe certo uscito indenne dal piazzale del Tempio. Anche una successiva reazione sanguinosa contro Gesù e i suoi seguaci venne scoraggiata evidentemente dalla forza di costoro, oltre che dalla rinuncia di Gesù a fare dell’attacco al Tempio la premessa di un’insurrezione messianica. L’attacco fu invece localmente e temporal­ mente circoscritto, ed ebbe un valore simbolico. Ma che cosa volle simboleggiare Gesù cacciando dal Tempio i cambiavalute e i venditori di colombe? La ne­ cessaria purificazione del Tempio, si dice. Un obiettivo simile significava poco meno che una rivoluzione sociale, in una società di tipo antico-orientale, come quella ebrai­ ca dell’epoca, in cui il culto del Tempio drenava enormi risorse economiche (oltre alla specifica tassa templare, le decime agricole, le offerte pasquali, le offerte espiatorie, i censi sui primogeniti), e in cui la direzione del Tempio 15 Marco 11, 18. Gesù

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coincideva con l’organizzazione di una parte notevole della vita produttiva. L’azione di Gesù, tuttavia, mirava a un risultato ancora più drastico della purificazione delle at­ tività templari da finalità mercantili e di arricchimento privato. Se infatti il suo obiettivo fosse stato quello della purificazione, avrebbe agito fuori dal Tempio, attaccan­ do gli amministratori agricoli dei sacerdoti, o incitando la popolazione a non pagare la tassa templare, e non den­ tro il Tempio contro operatori che in definitiva si limita­ vano ad offrire un servizio per il culto dei pellegrini. I cambiavalute permutavano le monete correnti con spe­ ciali monete prive di effìgi umane e segni pagani, le uni­ che ammesse nelle spese a scopi religiosi, e i venditori di colombe fornivano volatili per i sacrifici che diffìcilmente i pellegrini avrebbero potuto portarsi dietro dai paesi di origine. I profitti sacerdotali su queste attività, se anche c’erano (non abbiamo fonti che li segnalino), non poteva­ no essere neppure paragonabili a quelli tratti dall’esa­ zione della tassa templare e delle decime agricole. Rovesciare le tavole dei cambiavalute e i banchi delle colombaie aveva dunque un senso se si voleva non già ricondurre le attività economiche del Tempio alla loro ori­ ginaria funzione religiosa, ma abolire ogni attività eco­ nomica connessa con il culto templare, ovvero se si vole­ va distruggere il Tempio nell’accezione antico-orientale del termine. Che di questo si trattasse, è confermato da un versetto del Vangelo di Marco, opportunamente con­ traffatto nelle traduzioni, nel cui testo originale si dice che Gesù si mise anche ad impedire il trasporto degli ar­ redi religiosi attraverso l’area del Tempio,16e dalla espli­

16 Cfir. Marco 11,16 dove è scritto « o ù k riqpisv iva xig òievévKr) c n c e tio g 8ià T o t) lepaò», dove aKEùog, in connessione con L e p ó g , è l’arredo sacro. G esù

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cita affermazione di Gesù, riportata da tutti i sinottici, che la casa di Dio debba essere una casa di preghiera.17 Si tratta di una citazione del profeta Isaia, che, riferita ad un Tempio come quello ebraico di Gerusalemme, rap­ presenta un auspicio di distruzione, perchè una semplice casa di preghiera non è più un Tempio antico-orientale. L’idea della necessità morale e religiosa della distruzio­ ne di un Tempio ormai profanato si trova in alcuni testi dei manoscritti del Mar Morto, che rifiutano ogni aspetto della vita templare, dalle attività economiche al culto religioso, dai riti purificatori alla stessa istituzione sa­ cerdotale. Il Messia figlio di David, secondo questi testi, avrebbe determinato con la sua comparsa la distruzione del Tempio, che sarebbe stato sostituito nelle sue funzio­ ni religiose dalla comunità dei credenti. Più volte viene sottolineato, dai medesimi testi, che il vero Tempio è la comunità, e che il vero culto è la vita santa della comuni­ tà. A questo punto la fase iniziale dell’impegno pubblico di Gesù comincia a prendere qualche forma. Fattosi bat­ tezzare da Giovanni nel 26 d. C., divenne seguace del Battista quanto all’idea che il regno di Dio fosse immi­ nente, e che i veri credenti fossero chiamati per questo all’espiazione dei peccati. Giuocò però un ruolo autono­ mo, rendendosi protagonista di azioni che miravano a forzare i tempi dell’avvento del regno di Dio, e che gli procurarono seguaci propri tra quanti avevano simpatie 17 Cfr. Marco 11, 17 dove è scritto «o i k ò s p o u 0 Ì K 0 5 j i p o o e u x f i S k X.t |0t ì J t à c r iv T o ò g e Ov e c h v » , che è una citazione da Isaia 56, 7. In quel versetto di Isaia il Tempio è definito casa di preghiera aperta a tutti coloro che, anche se originariamente stranieri al popolo di Israele, hanno aderito al suo Dio. Per questo Marco parla di casa di preghiera per tutte le genti, mentre nel corrispondente brano di Matteo si parla soltanto di casa di preghiera CMatteo 21, 13). oetcu

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per lo zelotismo o comunque per le forme più radicali del messianismo davidico. Queste azioni culminarono, nella pasqua del successivo 27 d. C., in un attacco di massa, incruento ma molto deciso, alle transazioni commerciali che si svolgevano nel piazzale del Tempio di Gerusa­ lemme, come preannuncio della distruzione messianica del Tempio stesso. Coloro che auspicavano la fine del Tem­ pio in una comunità religiosa rigenerata lo acclamarono gridandogli «Gloria al figlio di David!».18 Gesù però non portò la sua azione fino alle estreme conseguenze di un’in­ surrezione arm ata messianica, sul modello del messiani­ smo zelotico, e anni dopo reinterpretò il successo di mas­ sa avuto dal suo attacco al Tempio come una tentazione satanica di forzare i voleri di Dio. A tale ricostruzione si potrebbe obiettare che né i Van­ geli né gli Atti degli apostoli né le epistole di Paolo ripor­ tano una sola frase in cui Gesù auspichi la distruzione del Tempio, che non esistono parabole o invettive evan­ geliche contro i sacerdoti e il loro culto, e che sono ricor­ dati anzi episodi in cui Gesù consiglia di compiere i riti templari di purificazione, e persino, sia pure con qualche riluttanza, di pagare la tassa al Tempio.19 Ma tutto questo dipende dal fatto appunto che i rac­ conti tram andati dai seguaci di Gesù riguardavano qua­ si esclusivamente la fase terminale della sua predicazio­ ne, lasciando nell’oscurità quello che Gesù aveva detto e fatto prima del 34-36 d. C. . La tradizione, infatti, per molteplici motivi di fede, di catechesi e di rapporto con le comunità cristiane sorte nel mondo greco e latino, non 18 Di tutti i Vangeli, solo quello di Matteo ricorda un’acclamazione messianica di Gesù, e la attribuisce ad una gruppo di bambini (M at­ teo 21,15-16). È però molto verosimile che un’acclamazione messiani­ ca ci sia stata. 19 Matteo 17, 24-27. Gesù

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voleva ricordare, se non sotto la veste simbolica di una tentazione satanica respinta, gli anni in cui Gesù aveva guidato i suoi seguaci in maniere e con finalità contigue a quelle del movimento zelotico. Tanto più era necessario o facile cancellare quegli anni oscuri, in quanto neanche allora Gesù era mai diventato un capo zelotico, e, dopo di allora, aveva considerevolmente mutato il suo atteggia­ mento. D’altra parte, non si può neanche dire che nei Vangeli non sia rim asta traccia del significato dell’azione di Gesù della pasqua del 27 d. C. così come noi lo abbiamo fin qui ricostruito. Tutti e tre i Vangeli sinottici ricordano infatti una predizione di Gesù della distruzione del Tempio di Gerusalemme, che si presenta confusa con elementi tra t­ ti dalla successiva, effettiva distruzione del Tempio com­ piuta dai Romani nel 70 d. C., e che appare del tutto se­ parata dall’azione pasquale contro il Tempio.20 Ma è fin troppo evidente che quella predizione e quel­ l’azione erano connesse, e che la predizione era una mi­ naccia. Era infatti nella tradizione biblica delle profezie escatologiche lanciare minacce contro autorità, città o istituzioni peccaminose predicendone la rovina. Gesù, minacciando la distruzione del Tempio di Gerusalemme, e manifestando la minaccia con la sua azione simbolica contro i cambiavalute e i venditori di colombe, non pen­ sava certo di poterla portare personalmente a compimen­ to, distruggendo con le sue mani le m ura templari, ma riteneva invece, da profeta ebreo, che Dio avrebbe guida­ to la storia a produrre la fine del Tempio, e che egli era legittimato ad anticipare la volontà di Dio in una predi­ zione. La minacciosità di questa predizione rappresentò un’offesa così pesante per la religione ufficiale, che ri­ 20 Matteo 24; Marco 13; Luca 21. Gesù

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comparve nelle accuse rivolte a Gesù durante il suo in­ terrogatorio davanti alle autorità ebraiche. Il fatto che tali accuse si rivelassero contraddittorie, e che non costi­ tuissero l’elemento decisivo del rinvio al giudizio di Pila­ to per la condanna a morte, non dipese, come vollero far credere allora i redattori dei Vangeli, e come vogliono far credere oggi i loro interpreti religiosi, dall’innocenza di Gesù. Dipese, invece, dalla lontananza nel tempo della minaccia di distruzione del Tempio, che Gesù aveva pro­ ferito quasi dieci anni prima dell’interrogatorio in cui gli fu contestata, e dalla episodicità dell’azione in cui quella minaccia si era manifestata. Ma l’eco di quella minaccia raggiunse Gesù persino sulla croce, se sono vere le nar­ razioni evangeliche sui passanti che lo insultavano di­ cendogli «Tu che volevi distruggere il Tempio, salva te stesso, se sei Figlio di Dio!».21 «Tu che volevi distruggere il Tempio»: questo molti abitanti di Gerusalemme ricordavano di Gesù. Si tratta di un ulteriore indizio che si aggiunge ad altri nel darci la certezza che Gesù, nella pasqua del 27 d. C., volle dav­ vero manifestare la necessità morale e religiosa che il Tempio fosse distrutto. Il collegamento tra l’azione esem­ plare con cui egli manifestò simbolicamente la sua volon­ tà di distruggere il Tempio, e la predizione di quella di­ struzione, può venire ricostruito leggendo il Vangelo di Giovanni. Vi si narra, infatti, che dopo che Gesù ebbe rovesciato le tavole dei cambiavalute e i banchi dei ven­ ditori di colombe nel Tempio, alcuni presenti gli chiesero un segno che mostrasse la legittimità del suo atto. Egli rispose loro: «Demolite questo Tempio, ed io lo farò risor­ gere in tre giorni».22 Il significato della risposta è chiaro: 21 Matteo 27, 40; Marco 15, 30. 22 Giovanni 2,19. Gesù

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Gesù si sente legittimato a proporre la distruzione del Tempio perchè si sente in grado, come inviato di Dio e protagonista delTawento messianico, di ricostruire in breve tempo un’organizzazione religiosa, morale e socia­ le della comunità, dopo lo scioglimento di quella templa­ re.23 In un simile contesto argomentativo si colloca facil­ mente la predizione minacciosa che, comunque, il Tem­ pio sarebbe stato distrutto da Dio. Il Vangelo di Giovanni narra un altro episodio emble­ matico degli anni oscuri di Gesù: il miracolo dei pani. Anche questo episodio, come quello dell’azione nel piaz­ zale del Tempio, è raccontato da tutti quanti i Vangeli, ma collocato dai sinottici, con la loro abituale condensa­ zione, nell’ultimo anno della vita di Gesù. Il Vangelo di Giovanni lo colloca invece in una pasqua antecedente a quella della condanna a morte di Gesù, e successiva a quella dell’azione nel Tempio. Quanto successiva? Que­ sto proprio non lo sappiamo. Un ragionamento del tutto congetturale potrebbe portare alla pasqua del 28 d. C. . Ma, mentre possiamo ritenere ragionevolmente certo che l’azione nel piazzale del Tempio si sia svolta nella pa­ squa del 27 d. C., che il miracolo dei pani si sia svolto durante la pasqua successiva, cioè nell’anno 28 d. C., è davvero soltanto, e molto, congetturale. L’episodio si svolge lungo i pendìi di un’altura sul lato sudoccidentale del lago di Galilea, nei pressi del borgo di Betsaida. La località è stata raggiunta da Gesù e dai suoi discepoli in alcune barche venute dalla città di Cafarnao, sul lato nordoccidentale del lago. Poiché a metà strada tra Cafarnao e Betsaida il lago si allarga ad ovest, i due 23 In Giovanni 2,1 9 Gesù dice Xuckxte tòv vaòv tctutov: il verbo che viene solitamente tradotto con “distruggete” è Xvoaxt, che alla lettera vuol dire “sciogliete”. G esù

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centri, pur trovandosi sullo stesso lato del lago, sorgono su rive poste approssimativamente l’una di fronte all’al­ tra, per cui il loro collegamento più breve è quello in bar­ ca. A Cafarnao Gesù si è affermato come leader religioso ormai autonomo dal Battista, il quale nel frattempo con­ tinua a battezzare e a predicare il pentimento dai peccati sulle sponde del Giordano. Quindi da Cafarnao sono in molti a seguire le sue tracce, uscendo dalla città per ave­ re ancora modo di ascoltarlo. A sera Gesù, che aveva pensato di intrattenere sull’al­ tura i suoi più stretti discepoli, vede invece un’intera fol­ la che si muove in salita verso di lui. Prima di comunica­ re ad essa un qualsiasi messaggio, si preoccupa di come possa mangiare. Tutti, infatti, sono stanchi di una gior­ nata di cammino a digiuno, ma soltanto alcuni hanno preso la precauzione di portarsi dietro una provvista di cibo. La località, d’altra parte, è completamente disabi­ tata. Il borgo di Betsaida è vicino, ma nel senso di alcune ore di cammino, che non sono proponibili ad una folla affamata, quando già il sole è tramontato. E, poi, non servirebbe raggiungerlo nel cuore della notte, oltretutto con pochi denari da spendere. Gesù si preoccupa della cena nel senso che se ne prende cura. A preoccuparsi nel senso di provare ansia sono i suoi discepoli, che nel rac­ conto dei sinottici lo consigliano di prendere la parola per indurre tutti a tornare alle loro case.24*Nel racconto di Giovanni, invece, è Gesù stesso a suscitare la loro preoc­ cupazione, per metterli alla prova. Egli chiede infatti a Filippo, che meglio conosce i luoghi essendo nato appun­ to a Betsaida, dove sia possibile trovare cibo per tutti.26 Naturalmente Filippo e gli altri discepoli ritengono im­ 24 Matteo 14, 15; Marco 6, 35-36; Luca 9, 12. 26 Giovanni 6, 5. Gesù

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possibile risolvere il problema. Gesù, invece, lo risolve in maniera tale da dare a tutti lorp un profondo insegna­ mento. Ordina alla moltitudine di alcune di migliaia di persone di sedersi sul prato, non però tu tta ammassata, ma sparpagliandosi a gruppi di cinquanta o al massimo di cento persone ciascuno, in modo che in ogni gruppo ci sia un certo numero di persone che hanno portato prov­ viste. Ordina poi ai suoi discepoli di dividersi nei vari gruppi, e di operare in ogni gruppo la distribuzione dei pani e dei pesci dalle poche ceste di provviste. Si scopre così che c’è cibo sufficiente per un pacifico pasto colletti­ vo in allegra convivialità, e che residuano anzi degli avan­ zi. Questo è il miracolo, il miracolo della giustizia che, non discriminando alcuni da altri, e non escludendo nes­ suno, è in grado di vincere la penuria. Naturalmente non è esattamente questo che i Vangeli intendono trasmetterci. I loro redattori vogliono farci cre­ dere che Gesù abbia taumaturgicamente materializzato dal nulla pani e pesci. Noi ammettiamo senza difficoltà che non crederemmo comunque ad un miracolo di tal ge­ nere, che, oltre al resto (perchè allora non credere a tutte le meraviglie incredibili testimoniate da tutte le religio­ ni, e non solo dalle religioni?), ci sembra profondamente irrispettoso della serietà e della grandezza della figura di Gesù. Ciò significa che forziamo la narrazione evange­ lica a rivelarci qualcosa che non contiene? Per niente. Vi sono, nei Vangeli, indizi che suffragano la nostra rico­ struzione (la notazione del Vangelo di Marco della suddi­ visione per gruppi,26 il simbolismo numerico dei pani e dei canestri degli avanzi27), e vi è addirittura, in un Van­ 26 Cfr. Marco 6, 39. 27 L’intero racconto evangelico della moltiplicazione dei pani e dei pesci è intriso di simbolismo. Si parte da due pesci e cinque pani i cui numeri, due e cinque, sono quelli delle lettere usate dai primi cristiaGe s (j

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gelo stesso, quello di Giovanni, la prova, se ce ne fosse bisogno, che Gesù non sognò neppure di materializzare dal nulla pani e pesci. Seguiamo dunque il racconto di Giovanni dopo il miracolo. Fattosi buio, i discepoli di Gesù discendono dall’altu­ ra alla riva del lago, e tornano in barca a Cafarnao. Gesù, invece, raggiunge da solo la città, costeggiando a piedi la riva del lago. Il mattino successivo, molte persone che avevano seguito Gesù la sera prima, e altre venute da Tiberiade, vedendo la sua barca ancora a riva, e suppo­ nendo che non fosse ancora tornato a Cafarnao, vanno a cercarlo sull’altura dove era avvenuta la cena con i pani e i pesci. Non trovandolo, si affollano sulle barche, diri­ gendosi verso la riva opposta del lago, a Cafarnao. Qui si raccolgono in una sinagoga dove Gesù predica. Egli chie­ de loro di credere in lui come inviato di Dio. Alcuni repli­ cano: «Quale segno puoi farci, tale che noi, vedendolo, possiamo credere in te? Qual è la tua opera?».28Riflettia­ mo: le stesse persone che appena il giorno prima avevano assistito alla distribuzione dei pani e dei pesci, avrebbe­ ro forse chiesto un segno miracoloso per credere in Gesù, se quella distribuzione fosse avvenuta materializzando dal nulla pani e pesci? Non lo avevano già avuto un se­ gno miracoloso? Certo, ma si trattava del miracolo della giustizia e dell’amore, non di un miracolo come evento sovrannaturale. Altrimenti la richiesta da loro fatta non ni per identificare Gesù Cristo con le formule rispettivamente del suo nome messianico (I. E.) e due suoi attributi soteriologici (I. S. ©. 2.). Le dodici ceste dei pani che avanzano sono il simbolo del cibo spirituale tratto da Gesù, di cui sono elargitori i dodici apostoli. La narrazione del quarto Vangelo successiva al miracolo dei pani è infatti incentrata sull’identificazione di Gesù con il pane offerto da Dio agli esseri uma­ ni. 28 Giovanni 6, 30. G esù

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avrebbe senso. Ed è interessante la risposta che dà loro Gesù. Egli non dice: il segno che mi chiedete per credere in me come inviato di Dio ve l’ho già dato ieri, moltipli­ cando per noi i pani e i pesci. Ma dice: fu Mosè a m ateria­ lizzare cibo per i vostri padri, che poterono mangiare la manna nel deserto, ma il vero pane venuto dal cielo sono io stesso, in quanto nutrimento spirituale che dà vita eter­ na.29 La distribuzione dei pani e dei pesci era comunque così ben riuscita che alcuni la lessero come simbolo di una capacità messianica di assicurare cibo al popolo, e vollero incoronare seduta stante Gesù come re d’Israele, per metterlo alla testa di un’insurrezione armata. Gesù però respinse, per la seconda volta dopo l’azione del Tem­ pio, l’idea di essere alla testa di un’insurrezione arm ata messianica, secondo il modello del messianismo zelotic o .30

E, qualche anno dopo, reinterpretò anche la sua di­ stribuzione di pane come la tentazione satanica di un fa­ cile successo di massa. Una delle tentazioni narrate dai Vangeli sinottici è infatti quella in cui Satana invita Gesù a comandare alle pietre che diventino pane, e Gesù ri­ sponde, respingendo la tentazione, che l’uomo vive non soltanto di pane, ma di ogni parola di Dio. È fin troppo evidente che questa tentazione è connessa con il miraco­ lo dei pani, ovvero è una reinterpretazione simbolica re­ trospettiva del facile ma illusorio successo che si poteva ottenere tra le masse distribuendo loro cibo. Gesù non volle però assaltare granai, come Giuda il galileo, per di­ stribuire grano al popolo. Egli ebbe certamente, negli anni per noi più oscuri della sua vita, non poche contiguità 29 Giovanni 6, 32-33. 30 Giovanni 6,15. G esù

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con il movimento armato zelotico, ma respingendo sem­ pre, alla fine, l’idea di prendere le armi e di diventare il re d’Israele degli zeloti Episodi come l’azione nel piazzale del Tempio, e come il miracolo dei pani, e la conseguente acclamazione rega­ le, avevano certamente fatto proiettare su Gesù l’aspet­ tativa di un esito risolutivo delle iniziative messianiche da lui assunte. Gesù fu probabilmente posto nell’alter­ nativa tra cadere nel discredito, o mettersi effettivamen­ te alla testa di una rivoluzione armata. Egli sfuggì a que­ sta alternativa indirizzando i suoi più fidati discepoli verso una rinnovata attività battesimale.31 Il senso di questa attività era evidentemente che il tempo della preparazione spirituale anteriore all’avven­ to del regno di Dio non era ancora compiuto, e che era quindi ancora necessario un periodo di riflessione inte­ riore e di pentimento dei peccati. Spostando l’attenzione sulla penitenza e sull’attesa, Gesù si sottraeva alla ri­ chiesta di azioni messianiche risolutive, che aveva comin­ ciato a giudicare premature, pericolose, e forse anche peccaminose, perché orientate di fatto a forzare la volon­ tà divina. Inoltre, poiché l’attività battesimale si svolge­ va nel deserto della Perea, egli aveva modo di sfuggire all’osservazione delle autorità erodiane della Galilea e di quelle templari della Giudea, evitando pericoli troppo gravi per la sua vita, e cercando di farsi in qualche m a­ niera dimenticare da suoi nemici. Ricordiamo che il de­ serto era in quella civiltà anche un luogo di isolamento socialmente riconosciuto come tale. Il ritiro di Gesù nel deserto poteva essere interpreta­ to, nell’ambiente di coloro che condividevano le speranze 31 Cfr. Giovanni 3, 22. In Giovanni, l’attività battesimale di Gesù viene prima del miracolo dei pani. Ma è più logico posporla. Gesù

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messianiche, come una diserzione dalle attese che le sue precedenti azioni avevano suscitato, e come una rinun­ cia a continuare ad operare come inviato di Dio. Abbiamo infatti indizi precisi che Gesù perse alcuni discepoli, e vide allontanarsi da lui l’intera cerchia dei suoi paren­ ti.32In realtà molto della grandezza di Gesù sta anche in questa sua capacità di mantenere fermi i suoi ideali sen­ za insistere in azioni che gli procuravano facile consenso ma non avevano futuro, ripiegando su posizioni più ri­ flessive. Egli aveva ormai capito di aver corso inutili pe­ ricoli di morte, e di aver rischiato di far precipitare le speranze messianiche in un puro scontro di armi, non soltanto perdente sul piano della forza, ma anche inca­ pace di far m aturare i cuori. Tornò così a chiedere ai suoi discepoli un periodo di preparazione intellettuale e morale al regno di Dio, sen­ za più azioni pubbliche, isolandosi nel deserto, e m ante­ nendosi in contatto soltanto con quanti erano disposti ad andarlo a cercare in quell’isolamento. Si trattava, dal punto di vista della esteriore vicenda sociale, di un arre­ tramento e di una pausa, che sapeva tali e giudicava ne­ cessari. Si trattava di un ritorno provvisorio alle posizio­ ni di Giovanni Battista, di cui del resto Gesù non aveva mai cessato di considerasi seguace, anche nel periodo in cui aveva assunto audaci posizioni sue proprie. La situazione di cui stiamo parlando non è databile con precisione assoluta. Non si sbaglia però certamente collocandola attorno al 30 d. C., non più di uno o due anni prima o dopo. Giovanni Battista non aveva mai smesso, dal 26 d. C., di predicare l’imminenza del regno di Dio e la necessità della penitenza, e di battezzare sulle rive del Giordano. Anche Gesù si mise ora a predicare il penti­ 32 Cfr. Giovanni 7 , 2-5.

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mento dei peccati e a battezzare, anche lui sulle rive del Giordano. Ognuno dei due era attorniato da un gruppo di discepoli. Si ebbero così, in due località peraltro piut­ tosto distanti del fiume, due gruppi distinti di battezza­ tori, senza rapporti reciproci, né di competizione né di collaborazione, che convergevano comunque nel mante­ nere viva l’idea che l’ingiusto ordine dei rapporti sociali fosse prossimo alla fine. Quanto durò questa situazione? Mesi? Anni? Quanti anni? Né i Vangeli né altre fonti ci rendono possibile ri­ spondere a questa domanda. Sappiamo solo che negli anni oscuri di Gesù ci fu un periodo battesimale nel deserto, e possiamo congetturare che questo periodo durò alcuni anni.

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5. L’anno lum inoso d i Gesù A questo punto possiamo constatare che sappiamo, sulla base di una semplice analisi delle fonti metodologi­ camente condotta nelle maniere d’uso per la ricostruzio­ ne di una figura storica, non poche cose addirittura sul Gesù anteriore all’ultimo anno della sua vita, sul quale si concentrano le narrazioni evangeliche. Possiamo ave­ re un profilo storicamente attendibile del suo personag­ gio, così riassumibile. Gesù nacque in Galilea, probabilmente a Nazareth, altrimenti in qualche borgo vicino, quando l’intera Pale­ stina formava un regno inserito nell’Impero Romano, sotto il re Erode il Grande. Nacque con una certa probabilità nel 7 a. C., ma forse nel 12 o nel 10 a. C., in ogni caso tra il 12 e il 4 a. C .. Adolescente, vide una nuova umiliazione di Israele, con il passaggio della Giudea (insieme all’Idumea e alla Samaria) sotto la diretta dominazione romana, e della Galilea (insieme alla Perea) sotto il tetrarca Erode Antipa, strettam ente subordinato ai Romani, e coltivò sem­ pre più intensamente l’ideale profetico del regno di Dio. Vide probabilmente morire suo padre per questo idea­ le, e si convinse, forse anche perché nato quando in cielo era comparsa una stella di grande splendore, di essere destinato a svolgere un ruolo di protagonista nella sua realizzazione. Questa sua convinzione sembrò ai suoi occhi trovare una decisiva conferma allorché nel 26 d. C., quando egli aveva già passato i trent’anni, tornò a farsi sentire, dopo secoli di silenzio, la voce di un profeta, di nome Giovanni. Costui annunciava infatti che era ormai vicina l’ora in cui Dio avrebbe punito i peccatori e instaurato il suo re­ gno, e praticava un rito di immersione purificatrice nelle G esù

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acque del Giordano per coloro che intendevano, p e r e n ­ dosi dei loro peccati, sfuggire all’ira finale di Dio. Gesù, accorso anch’egli a partecipare al grande rito della immersione, si convinse in tale occasione che Dio lo aveva scelto per portare a compimento ciò che le parole di Giovanni preannunciavano. Rimase quindi nel deser­ to, tra i tanti seguaci di Giovanni dispersi tra le oasi e lungo il Giordano, ma facendosi discepoli propri. Coloro che lo seguivano, già allora vedevano in lui il liberatore di Israele che avrebbe promosso l’instaurazione del re­ gno di Dio sulla Terra. Gesù guidò infatti, nella pasqua del 27 d. C., una dimostrazione messianica di massa nel piazzale del Tempio di Gerusalemme, per chiedere la fine del dominio dell’aristocrazia sacerdotale sul Tempio, lo scioglimento dell’organizzazione economica templare, la restituzione alla comunità dei fedeli dei beni pubblici di cui i sacerdoti si erano arricchiti. Gesù venne così a tro­ varsi al centro di grosse aspettative messianiche, senza aver compiuto alcuna azione risolutiva, e senza voler spin­ gere alle estreme conseguenze la sua contrapposizione al potere sacerdotale. Perciò abbandonò la Giudea, e tornò in Galilea, dove si perdono le tracce del suo impegno reli­ gioso, a parte il fatto che cade forse in questo periodo il cosiddetto miracolo dei pani. Scrive il Vangelo di Giovan­ ni: «In seguito Gesù continuò ad aggirarsi per la Galilea. Non voleva andare in Giudea perché i giudei cercavano di ucciderlo».1Tornò tuttavia a Gerusalemme nell’autun­ no del 28 d. C., in occasione di una festa religiosa, com­ portandosi però come un semplice maestro di sapienza, al punto che potè parlare in pubblico, senza conseguen­ ze, in quello stesso Tempio che aveva invaso un anno e mezzo prima con i suoi seguaci.2Non si presentava, allo1 Giovanni 7 ,1. 2 Giovanni 7,14-15 e 7, 25-26. Gesù

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ra, con una figura ben definita, né, tanto meno, chiariva a coloro che se lo chiedevano se si considerasse il Messia liberatore di Israele.3 Si limitava a dire che il suo tempo non era ancora venuto.4 Poco dopo, attorno al 30 d. C., si fece promotore di un proprio rito di immersione. Il redattore del quarto Van­ gelo, dopo aver riferito a quel periodo l’autoproclamazione di Gesù quale Messia,567si trova in imbarazzo a parlare di Gesù battezzatore, al punto da farvi prima soltanto un brevissimo cenno,® e poi a contraddirlo, sostenendo che non era Gesù a praticare il rito dell’immersione, ma era­ no i suoi discepoli.? Il rifiuto di Gesù di far precipitare lo scontro tra le attese messianiche coagulatesi attorno alla sua figura e l’aristocrazia sacerdotale sfociò insomma, ad un certo momento, nella sua rinuncia ad ogni aspirazione imme­ diata di regalità messianica, e nel suo ritorno alla prepa­ razione battesimale dell’attesa del regno di Dio. Tale si­ tuazione durò per alcuni anni. Questo è quanto sappiamo dell’itinerario storico per­ corso da Gesù negli anni meno conosciuti della sua vita, quelli che abbiamo chiamato gli anni oscuri. E poco, ri­ spetto a quello che vorremmo sapere di un periodo che è stato piuttosto lungo, e durante il quale si è formata, tra dubbi e contrasti, la personalità di Gesù. Ma è molto ri­ spetto alla media di quel che sappiamo dei personaggi dell’età antica della storia. Sappiamo, infatti, il senso generale del suo percorso, e sappiamo la contraddizione nella quale si dibatteva. Egli voleva intensamente giun­ 3 4 6 6 7

Giovanni Giovanni Giovanni Giovanni Giovanni

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7, 40-43. 7, 6. 4, 26. 3, 22. 4, 2. 93

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gere all’instaurazione del regno di Dio sulla Terra, ma voleva evitare che la partita del regno di Dio fosse giuocata in uno sterile scontro militare. Benché il suo mes­ saggio avesse punti di contatto con quello zelotico, e coa­ gulasse speranze di liberazione m aturate negli ambienti zelotici, egli non voleva essere Messia nell’accezione zelotica del termine. A fronte di questi oscuri anni preparatori, l’ultimo anno della vita di Gesù è un anno luminoso, nel doppio senso di illuminato maggiormente dalle fonti evangeliche, e di spiritualmente alto, perché Gesù ha sciolto in se stesso la contraddizione degli anni formativi, ed ha scelto con sicurezza la sua strada, quella che ha fatto di lui una delle più grandi e decisive figure della storia umana. Quando e come Gesù ha scelto la sua strada finale? Questo lo sappiamo. Gesù prese una decisione definitiva riguardo alla sua missione religiosa allorché, nel 34 o nel 35 d. C., il tetrarca della Galilea Erode Antipa fece prima arrestare Giovanni Battista, e poi, poco tempo dopo, lo mandò a morte. «Erode aveva fatto arrestare Giovanni a motivo di Erodiade, moglie di suo fratello Filippo. Giovanni infatti diceva che non gli fosse lecito tenerla come sposa».89Così le narrazioni evangeliche, secondo le quali, poi, Erode Antipa avrebbe fatto uccidere in prigione Giovanni, per compiacere la figlia della sua nuova sposa Erodiade.» «Erode Antipa, temendo che l’influenza di Giovanni po­ tesse provocare un’insurrezione contro i Romani, poiché i suoi seguaci sembravano disposti a compiere qualsiasi cosa per sua ispirazione, ritenne che fosse meglio, date le circostanze, toglierlo dalla circolazione prima che succe­ 8 Matteo 14, 3-4 e Marco 6, 17-18. 9 Matteo 14, 6-10 e Marco 6,19-28. G esù

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desse qualche incidente, e che egli dovesse poi pentirsi di fronte a fatti irreparabili. Perciò, prima di iniziare la guerra contro Areta,. Erode inviò Giovanni in catene nel­ la fortezza di Macheronte, e colà poi lo fece uccidere».1» Così la narrazione di Giuseppe Flavio. I due racconti, a prima vista contrastanti, possono essere entrambi veri. È probabile, infatti, che quello evangelico colga un ele­ mento della predicazione di Giovanni Battista da cui Ero­ de Antipa fu personalmente irritato, e che quello di Giu­ seppe Flavio individui la preoccupazione politica che spin­ se Erode a tradurre la sua irritazione in una decisione di morte. Giuseppe Flavio spiega anche come l’uccisione di Giovanni Battista procurò ad Erode Antipa l’accusa, da parte degli ebrei più religiosi, di aver assassinato un uomo giusto, e come la sua successiva sconfitta militare contro le forze armate arabe di Areta fu considerata una puni­ zione divina. E facile immaginare quanto profondamente Gesù sia rimasto turbato da questo evento. Giovanni, l’uomo al cui seguito egli aveva iniziato la sua missione religiosa, l’uomo dal quale era stato purificato dai peccati con il rito dell’immersione, l’uomo che aveva costituito il suo fondamentale punto di riferimento ideale anche durante gli anni della sua predicazione autonoma, usciva improv­ visamente di scena, prima ancora che con la morte, con la reclusione nella fortezza di Macheronte. Ciò significava forse che il suo annuncio dell’imminen­ za del regno di Dio era stato falsificato dai fatti? Gesù, come abbiamo già visto, aveva fatto alcuni anni prima un netto passo indietro: aveva cessato di operare per por­ tare a compimento l’annuncio di Giovanni, e si era limi­ tato a battezzare e a predicare il pentimento, nel conte-10 10 G iuseppe F lavio, A ntichità giudaiche, XVIII, 119.

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sto di una fase ancora preparatoria al definitivo avvici­ namento del regno di Dio. Avrebbe potuto fare ora, con l’arresto del suo maestro, un ulteriore passo indietro, ac­ quietandosi nella malinconica certezza che il regno di Dio si fosse di nuovo allontanato. La sua interpretazione di ciò che era accaduto fu inve­ ce di segno opposto: Giovanni era stato l’ultimo e il più grande dei profeti, il messaggero di un Dio in procinto di intervenire sulla Terra, e la sua uscita di scena era il se­ gno che il regno di Dio, lungi dall’essersi allontanato, aveva compiuto il suo processo di avvicinamento, ed esi­ geva ormai soltanto la sua piena realizzazione. Si trattava di una interpretazione molto creativa del­ la situazione esistente, con la quale Gesù tornava a ri­ proporre, in maniera nuova ed estrema, la questione del governo divino della Terra, identificando con totale sicu­ rezza l’azione storica che egli personalmente era chia­ mato a intraprendere. E essenziale, per una corretta ricostruzione del Gesù della storia, comprendere con pre­ cisione quale progetto Gesù avesse elaborato, e quali basi sociali e culturali esso avesse. Quando Giovanni fu messo in prigione, Gesù lasciò il deserto della Giudea, e venne a predicare in Galilea, nar­ rano i Vangeli di Matteo e di Marco. Fu, da parte sua, un atto di grande coraggio e risolutezza: andò infatti a ri­ proporre, radicalizzandolo, il messaggio di Giovanni, pro­ prio nel cuore pulsante del dominio territoriale di quel tetrarca Erode Antipa che teneva Giovanni in prigione, giudicandone politicamente molto pericoloso il messag­ gio. Gesù non andò infatti a vivere dai suoi familiari a Nazareth, ma scelse come sua base la popolosa città com­ merciale di Cafarnao, e di lì prese a spostarsi e a predica­ re attraverso tutti i fiorenti borghi rivieraschi del lago di Galilea, facendo discepoli. Gesù

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«Si è compiuto il tempo ed è giunto il regno di Dio: trasformatevi ed abbiate fiducia nel lieto annuncio».11 E poi: «Dai giorni di Giovanni Battista fino ad oggi il regno di Dio ha subito violenza, ed i violenti ce lo strappano».112 Queste due frasi di Gesù mettono particolarmente in evi­ denza il contenuto della sua fede all’inizio dell’ultimo e decisivo anno della sua esistenza.13Occorre dunque ana­ lizzarle con la massima attenzione, pezzo per pezzo: Si è compiuto il tempo:14è alfine arrivato il momento giusto per porre fine al tempo storico umano segnato dal­ la corruzione del peccato, e dominato perciò dalla malva­ gità, dalla m alattia e dalla morte. È arrivato il momento, in altri termini, in cui i giusti sono chiamati a superare la rassegnazione nei confronti di tutto quanto l’ingiusto ordine delle relazioni umane, e ad operare per la libera­ zione del genere umano da ogni potere ingiustamente esercitato. Il momento in cui i poveri e i sofferenti posso­ no dirsi beati, perché possono sperare in una nuova con­ dizione di dignità e di gioia, e in cui invece devono aver paura coloro che hanno tratto consolazione dalla ricchez­ za nel tempo della miseria, e che hanno riso nel tempo del pianto. Un tal momento ha bisogno di quanti hanno fame e sete di giustizia, perché ora essi possono venire saziati, purché continuino ad essere il sale della Terra, e non diventino insipidi. Gesù si mostra cioè convinto che l’intera vicenda umana segnata dalla corruzione del pec11 Marco 1, 15. 12 Matteo 11,12. 13 Matteo 4, 17. 14 jteX.f| porcai ò Kaipóg. La forma verbale jteXf|parcai è il perfetto me­ dio di nX-ripóco, che significa “riempio”, “colmo”, e quindi “porto a com­ pimento”. Il soggetto a cui è riferito è Kcupóg, il tempo, inteso però non come durata (altrimenti sarebbe stato usato il termine xpóvog), ma come momento adatto per qualche realizzazione. Gesù

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cato originale si sia conclusa, e che di conseguenza si sia aperto un nuovo orizzonte storico di straordinarie oppor­ tunità. È giunto il regno di Dio:15il ritorno sulla Terra sotto la sovranità di Dio non deve essere atteso in un futuro lon­ tano, dopo l’apparizione di inequivocabili segni miracolo­ si, secondo la convinzione diffusa tra i dotti dell’epoca, e non deve neppure essere ritenuto soltanto vicino, secon­ do l’annuncio di Giovanni Battista, ma si deve capire che ha già avuto inizio. Dio, cioè, ha già preso la decisione di ricondurre il genere umano sotto la propria sovranità, abolendo il diritto dei popoli a disporre a loro arbitrio delle loro sorti. Tale decisione si è manifestata al mondo con la comparsa dell’ultimo profeta. Giovanni ha quindi segnato, nella concezione di Gesù, una irreversibile ce­ sura di natura religiosa, morale e politica (aspetti che non si presentano tra loro distinti nella m entalità del­ l’epoca). Dopo la sua comparsa, infatti, tu tti i poteri esi­ stenti sono stati ripudiati da Dio, e non possono soprav­ vivere se non temporaneamente, e se non immergendosi sempre di più nel peccato. Gesù vuol cioè dire che Dio è già di diritto sovrano effettivo della Terra, e che questo rende superate le preesistenti tradizioni religiose. 15 %yikev *1 paaiX-EÓa xaO 0 eoù, frase che viene solitamente tradotta “è vicino il regno di Dio”. Si tratta però di una traduzione sbagliata. La forma verbale tìyylkev è infatti al tempo perfetto, che indica l’azio­ ne compiuta, in questo caso il compimento del processo di avvicina­ mento. Senza contare che il verbo da cui viene la forma tfyYikev, significa non soltanto avvicinarsi, ma anche raggiungere. Ap­ pare dunque evidente che quel che Gresù vuol dire è non già che il regno di Dio è vicino, bensì che ha completato il processo di avvicina­ mento, che è arrivato a raggiungere gli uomini, ed è quindi presso di loro. Ulteriore prova di questa traduzione è un altro brano evangeli­ co, in cui Gesù dichiara in maniera esplicita ai farisei che «il regno di Dio è già in mezzo a voi» (Luca 17, 21). G esù

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Trasformatevi:16 se il regno di Dio è già effettivo in li­ nea di principio, ma non si è ancora concretamente rea­ lizzato nei fatti, ciò significa che occorre un nuovo impe­ gno religioso per promuoverne la realizzazione. Questo nuovo impegno consiste, per Gesù, in una totale trasfor­ mazione interiore, che muti il modo di intendere i rap­ porti con le persone e con le cose, e si traduca in un volon­ tario abbandono delle ricchezze private. Nessuno può in­ fatti servire contemporaneamente due padroni nemici tra loro, e nessuno, quindi che serva il denaro, padrone del mondo corrotto dal peccato, può illudersi di servire an­ che Dio e il suo regno. Soltanto con una disposizione d’ani­ mo trasformata, che induca a disfarsi di tutti i beni pri­ vatamente posseduti, e che predisponga ad una vita co­ munitaria basata sul rispetto di ogni persona, e quindi sull’eguaglianza di tutti gli individui, i giusti possono rendere il regno di Dio concretamente operativo sul pia­ no storico. Abbiate fiducia nel lieto annuncio:17la trasformazione interiore che promuove la realizzazione concreta del re­ gno di Dio esige la fiducia che il regno di Dio sia l’orizzon­ te storico della nuova epoca, secondo l’annuncio allietan­ te prima di Giovanni e poi di Gesù. Senza una tale fìdu16 (xetcxvoieIte, esclamazione che ricorre più volte nei testi evangeli­ ci, e che viene tradizionalmente resa con “convertitevi”. Si tratta di una traduzione esatta, in quanto il verbo viene da voùg, che è la men­ te, lo spirito, e da [xetó, che vuol dire dopo, oltre. Senonché la parola conversione suggerisce talora l’idea di un cambiamento di convinci­ menti intellettuali o morali, mentre il verbo greco uETavoéco allude ad una trasformazione di tutti gli aspetti, anche emotivi ed esistenziali, della mente. Risulta dunque generalmente più chiaro rendere il (xerctvoiEiTE di Gesù con “trasformatevi”. 17 jiloteuete év Tip EÙaYYE^ùb, dove il verbo juctteucd allude ad un cre­ dere per interiore fede religiosa, e xò tva ^tkv o v è il lieto annuncio, cioè, italianizzato, il Vangelo. Gesù

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eia, infatti, non avrebbe senso l’abbandono delle ricchez­ ze private. Come vivrebbe il giusto che si fosse disfatto di tu tti i suoi beni, se rimanesse vigente a tempo indeter­ minato il sistema sociale in cui ciascuno può trarre le risorse di cui ha bisogno soltanto dai beni individualmente posseduti? Gesù incita a non preoccuparsi del cibo, come non se ne preoccupano gli uccelli, che non ammassano raccolti nei granai, e a non preoccuparsi del vestiario, come non se ne preoccupano i fiori nei campi, che non tessono i loro petali. Tutto ciò presuppone però la fiducia di essere in un’epoca in cui Dio interviene ormai a rego­ lare le cose degli uomini, la fiducia, cioè, che il lieto an­ nuncio di Gesù corrisponda a verità. Dai giorni di Giovanni Battista fino ad oggi:18 Gesù sente quindi di vivere in un’epoca diversa da quella se­ gnata dalla legge mosaica e dagli annunci profetici tradi­ zionali. Giovanni Battista ha instaurato una nuova epo­ ca, o, meglio, Dio ha instaurato una nuova epoca, mani­ festandone l’inizio con la comparsa di Giovanni. Questi, perciò, non è un profeta come lo sono stati tutti gli altri, quelli vissuti sotto la legge del peccato originale, ma è l’ultimo profeta, il profeta dei tempi della fine. La sua opera non ha senso compiuto in se stessa, ma esige la comparsa di una figura ancora più forte e autorevole del­ la sua, che ne porti a compimento le istanze. Le azioni e le parole di Giovanni hanno insomma fissato nuove coor­ dinate religiose e storiche, nelle quali soltanto si defini­ sce l’opera di Gesù. 18 curò 6è twv rpiepcòv Icoawou xoi3 (k u m c ra n i ecog apri: dunque i gior­ ni di Giovanni Battista segnano una cesura epocale. Ciò è provato anche, sul piano lessicale, dal fatto che nelle narrazioni evangeliche sovente Gesù qualifica il compimento del periodo aperto da Giovanni come ouvtéteia toù aitòvo? (ad esempio in Matteo 13, 29). Ora aicóv Gesù

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Il regno di Dio ha subito violenza:19Gesù intende quindi il regno di Dio non come un miracolo puramente sovran­ naturale rispetto al quale non si dia che attesa passiva, ma come un decreto sovrannaturale la cui realizzazione terrena richiede l’attivo concorso storico dei credenti. Esso quindi sul piano terreno può subire violenza, e l’ha effet­ tivamente subita, perché altrimenti il suo ordinamento avrebbe già vita concreta. La decretazione sovrannatu­ rale del regno di Dio è paragonata, in un parabola ripor­ tata dal Vangelo di Matteo, alla semina di un campo, ed è distinta dalla sua realizzazione terrena come il momento della semina è distinto da quello del raccolto. Nella para­ bola, un nemico del padrone del campo, che rappresenta Satana, nemico della sovranità di Dio sulla Terra, semi­ na nottetempo nel campo diverse erbacce, le quali quindi crescono poi in mezzo alle spighe di grano. Esse rappre­ sentano i violenti in balla dei quali viene a trovarsi il ha proprio il significato di un’epoca della storia, tanto è vero che le traduzioni latine lo rendono con sevum o sseculum. 19 ii paaaX.eta tùv oùpavwv pia^etai, La prima cosa da osservare è che l’espressione di Matteo significa letteralmente “il regno dei cieli subisce violenza”, e non “il regno di Dio subisce violenza”. Ciò dipende però dal fatto che la cultura ebraica che ispira, come è noto, il Vangelo di Matteo, interdice al suo redattore un uso troppo frequente del ter­ mine Dio. Per questo motivo la sovranità di Dio sul mondo, in quanto sovranità che si esercita sul mondo dalla celeste residenza divina, viene definita regno dei cieli anziché regno di Dio. Ma le due espres­ sioni sono perfettamente equivalenti, come risulta, al di là di ogni dubbio, dal confronto dei contesti in cui Matteo parla di regno dei cicli, e Marco, Luca e Giovanni parlano di regno di Dio. L’altra cosa da osservare è che fhà^ETcu può significare tanto “subisce violenza” quanto “fa violenza a proprio vantaggio”, perché in greco, come è noto, non c’è differenza né di tema né di desinenze tra il presente passivo e il presente medio. Dunque neppure la traduzione degli interpreti che vogliono attribuire a Gesù una concezione violenta della realizzazio­ ne del regno di Dio è grammaticalmente sbagliata. ( Iksù

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regno di Dio dopo la sua instaurazione. La parabola pro­ segue con il divieto, dato dal padrone del campo ai suoi contadini, di strappare sùbito le erbacce, per evitare che le stesse buone spighe ne risultino danneggiate. Dio, cioè, dopo aver già decretato l’instaurazione del suo regno sul­ la Terra, vieta ai suoi angeli di proteggerlo dalla violen­ za, perché solo confrontandosi con tale violenza, ed emar­ ginandola, i giusti potranno rendersi degni sudditi del regno divino. I violenti ce lo strappano:20Dio, con la sua decretazio­ ne sovrannaturale del suo regno sulla Terra, ha reso tu t­ ti i poteri terreni fino ad allora esistenti contrari alla sua volontà ed alla sua legge. Gli uomini malvagi, tuttavia, lasciati liberi di agire (le erbacce non strappate della pa­ rabola), hanno mantenuto in vigore tali poteri, e i corri­ spondenti rapporti sociali, mediante la violenza. I nuovi rapporti sociali, egualitari e pacifici, prescritti dal regno di Dio, non sono perciò entrati in vigore, anche se il re­ gno di Dio è già stato instaurato, cosicché gli uomini giu­ sti e pacifici si sono visti strappare il regno di Dio dagli uomini malvagi e violenti. I violenti sono in grado, con le 20 Pletora! àpjià^ouaiv aimyv, dove il pronome aùrfiv sta per xfiv PaoiX.e!av t o C B e o t j , il regno di Dio. Coloro che interpretano la figura di Gesù come quella di un capo zelota, traducono “i violenti lo conqui­ stano”, nel senso che il regno di Dio spetterebbe a coloro che riescono ad instaurarlo con la violenza. Ma si tratta di un’evidente forzatura lessicale, perché il verbo àpitct^to non ha un significato positivo, ma negativo, del tipo di rapinare e saccheggiare. Gesù quindi non vuol dire che i violenti sono degni del regno di Dio, ma intende significare che i violenti strappano illegittimamente la possibilità di realizzare il regno di Dio ai giusti e ai pacifici. Questa indubbia valenza semantica del verbo àprcà^co rende improponibile la traduzione della prima par­ te della frase, quella che dice fi Pacacela xwv oùpavwv Piatirai, come “il regno di Dio si fa avanti con la violenza”, che pure sarebbe gram­ maticalmente corretta (cfr. n. 19). Gesù

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loro ingiustizie e sopraffazioni, di continuare a differire la concreta attuazione del regno di Dio, finché possono continuare a disporre illegittimamente dei poteri terre­ ni. L’analisi di queste due decisive frasi di Gesù rivela, in conclusione, che la fede alla quale egli è alfine approda­ to, e che ispira l’ultimo, luminoso anno della sua vita, si fonda sulla distinzione del compimento storico del regno di Dio dalla sua instaurazione sul piano sovrannaturale, e sulla certezza che la sua instaurazione sia già avvenu­ ta. Distinguendo, sia sul piano logico che su quello tem ­ porale, il momento sovrannaturale dell’instaurazione del regno di Dio dal momento storico del suo compimento ef­ fettivo, ed inscrivendo il suo impegno religioso nell’inter­ vallo epocale tra i due momenti, Gesù si fa portatore di un progetto di trasformazione sociale agganciato alle con­ dizioni storiche del suo tempo. Il regno di Dio, infatti, non è affatto, entro tali coordinate, l’evento supremo de­ stinato a sorprendere gli uomini in un ignoto futuro,21 21 È ben vero che esistono anche parabole di Gesù nelle quali il re­ gno di Dio viene inteso come un evento che sopravviene inaspettato. Poiché però sono molto più numerose le parabole che presentano l’av­ vento del regno di Dio come un processo di maturazione storica, raffi­ gurandolo come lo sviluppo di un lievito o la germinazione di un seme, le prime devono essere considerate sotto un aspetto diverso. La loro più logica spiegazione è che siano il risultato di una sovrapposizione, sulle parole originarie di Gesù, dell’attesa, da parte delle prime co­ munità cristiane, della seconda venuta del Cristo, assimilata all’av­ vento del regno di Dio. Una cosa tuttavia colpisce, e cioè che tutte le parabole che presentano il regno di Dio come un evento che soprav­ viene inatteso nell’ignoto futuro, sono collocate nelle narrazioni evan­ geliche durante la predicazione di Gesù negli ultimi suoi giorni a Ge­ rusalemme. È quindi anche possibile che Gesù, prospettandosi la sua morte, avesse mutato, in relazione ad essa, l’ottica con cui guardare al regno di Dio. Gesù

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come sarebbe se il suo avvento storico coincidesse con la sua instaurazione sovrannaturale, ma è un processo col­ lettivo di maturazione storica, il cui compimento esige l’attività storica di credenti interiormente trasformati in modo da poter superare difficili ostacoli storici. Far pas­ sare la fede richiesta da Gesù per la pia attesa di un de­ stino ultraterreno è dunque un doppio falso storico, per­ ché per Gesù il destino finale non si compie se è sempli­ cemente atteso, ma Dio lo realizza nella misura in cui i giusti lo costruiscono,22 e perché si tratta di un destino che non è ultraterreno, ma terreno.22Il regno di Dio deve compiersi non nei cieli, ma sulla Terra, come nuovo ordi­ namento sociale della Terra. Questo è il contenuto della fede di Gesù, che, se si vuol parlare del Gesù storico e 22 Questa concezione trova espressione in un paragone famoso, quel­ lo del regno di Dio con il chicco di senape, che si trova in tutte le narrazioni sinottiche CMatteo 13,31-32; Marco 4,30-32; Luca 13,1819). Il chicco di senape ha questa particolarità, dice Gesù, che è il più piccolo di tutti i semi, ma, se è seminato in un campo adatto, e ade­ guatamente coltivato, dà la più grande delle piante da orto. Così il regno di Dio, quando si presenta come sollecitazione esterna, ha po­ chissima concretezza, ma se i giusti ne seminano l’idea nei loro animi, e la coltivano con le loro azioni nella società, diventa la più grande delle realizzazioni. 23 II regno di Dio è sicuramente un regno terreno, storico, perché tale è generalmente considerato nell’epoca di Gesù, come risulta uni­ vocamente dai Manoscritti del Mar Morto. Se Gesù avesse voluto in­ tenderlo come regno ultraterreno, avrebbe dovuto specificarlo con molta forza nella sua predicazione, per farsi capire dai suoi contem­ poranei. Ma egli nelle narrazioni evangeliche non fa mai questa spe­ cificazione. Là dove si parla di regno dei cieli, non si intende regno nei cieli, ma regno sulla Terra la cui sovranità viene dal cielo (cfr. n. 19). E là dove Gesù dice «Il mio regno non è di questo mondo» (Giovanni 18,36), l’espressione usata nel testo greco, che è ék toù KÓopou toùtov, significa che la sovranità di tale regno non proviene dall’ordine socia­ le esistente, e non significa affatto che il regno non si eserciti sulla Terra (altrimenti l’espressione usata sarebbe stata èra. tt]v yryv). Gesù

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non del Cristo teologico, deve essere accuratamente di­ stinta dalla fede in Gesù propria delle successive epoche cristiane. Fu, la fede di Gesù del suo anno ultimo e luminoso, una fede di dirompente efficacia storica. Nel contesto cul­ turale e sociale dell’ebraismo palestinese dell’epoca, in­ fatti, credere che Dio avesse già cominciato a regnare sul piano sovrannaturale, e che occorresse sconfiggere sul piano storico i poteri dei ricchi e dei potenti, per rendere effettivo l’avvento del suo regno nel mondo, non era af­ fatto innocuo come il credere che Dio avrebbe voluto il suo regno in un futuro ancora indeterminato. Significa­ va, invece, credere niente meno che tutte le forme di go­ verno terrestre fossero diventate illegittime, ed implica­ va, quindi, che quanti volessero seguire la volontà di Dio dovessero sciogliere tutti i loro legami con i poteri sociali esistenti, e creare tra loro, già da sùbito, una nuova co­ munità sociale solidale. Ma donde Gesù traeva la certezza che il regno di Dio fosse già stato instaurato sul piano sovrannaturale? La certezza, cioè, che costituiva la vera, grande novità idea­ le deH’ultimo anno della sua vita, e la guida sicura al suo impegno finale? I suoi nemici lo sollecitavano spesso ad esibire una dimostrazione divina di tale certezza, ed a giustificare in tal modo il suo operato. Così nel Vangelo più antico, quello di Marco: «Allora si fecero avanti i fari­ sei e incominciarono a discutere con lui chiedendogli un segno del cielo, per metterlo alla prova. Ma egli sospiran­ do disse loro: quale segno chiede questa generazione? In verità vi dico, nessun segno sarà dato a questa genera­ zione».24 E così il primo Vangelo, cronologicamente suc­ cessivo, però, a quello di Marco, quello cioè di Matteo: 24 Marco 8,11-12. Gesù

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«Allora si fecero avanti i farisei e i sadducei, e per met­ terlo alla prova gli chiesero di m ostrar loro un segno dal cielo. Ma egli rispondendo disse loro: quando si fa sera, voi dite che l’indomani farà bel tempo, perché il cielo ros­ seggia, e quando viene il mattino, e vedete il cielo cupo, dite invece che il giorno sarà burrascoso. Sapete dunque giudicare l’aspetto del cielo, e non siete in grado di giudi­ care i segni dei momenti propizi? Una generazione mal­ vagia e infedele cerca un segno, ma un segno non le sarà dato, se non quello di Giona».25 Per Gesù, dunque, coloro che per credere all’instaura­ zione sovrannaturale del regno di Dio avrebbero bisogno di una spettacolare girandola di miracoli sul piano natu­ rale, manifestano soltanto una pretesa arbitraria atta a coprire la loro voluta cecità storica e umana. L’avvenuta instaurazione del regno di Dio è per Gesù bensì un’evi­ denza, non però degli occhi, ma dell’anima. Essa è cioè affidata a segni della storia che esigono un’interpretazio­ ne escatologica, peraltro più sicura di ogni interpretazio­ ne meteorologica dei segni visibili del cielo, alla quale pure tu tti quanti normalmente si affidano. Quali sono tali segni? La cultura escatologica ebraica dell’epoca, che conosciamo attraverso i Manoscritti del Mar Morto, rite­ neva che quando gli esseri umani avessero portato a una rovina per loro irrimediabile il loro mondo, per effetto dei loro peccati, Dio avrebbe tolto loro il potere di governare 25 Matteo 1 6 ,1 -4 .1 v.v. 2 e 3, quelli cioè sul cielo rosseggiante la sera e cupo al mattino, che ci appaiono così evocativi, sono tuttavia assenti nei codici più antichi, cosicché molti studiosi, anche cattolici, li riten­ gono un’interpolazione. Pare però, dal confronto con Luca 12, 54-56, che essi possano egualmente risalire ad una fonte originaria sulla predicazione di Gesù. In ogni caso, il concetto che esprimono si colloca nel contesto delle maniere in cui Gesù concepiva il fondamento del regno di Dio. Gesù

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il loro destino, instaurando il suo regno. Un livello di pec­ caminosità sociale tale da stravolgere ogni minimo ordi­ ne di giustizia era dunque di per se stesso segno dell’imminenza del regno di Dio. Se, in una tale cornice di de­ grado morale, fosse comparso un messaggero del regno di Dio, allora questo segno ulteriore avrebbe manifestato che Dio aveva instaurato il suo regno. Ma tutti questi segni si erano ormai accumulati nel­ l’epoca di Gesù. Israele era a tal punto precipitato nel peccato da ubbidire ormai direttamente alle autorità pa­ gane di Roma, da avere un Tempio totalmente corrotto, da tollerare che i suoi figli cadessero o nel più sfrenato egoismo o nella più degradante miseria; dentro questo mondo peccaminoso era tuttavia comparso il più puro dei messaggeri di Dio, Giovanni Battista; c’era infine Gesù stesso che avvertiva in se stesso il dono spirituale divino necessario per impegnare tu tta la sua persona nella rea­ lizzazione del regno di Dio. Si trattava, agli occhi di Gesù, di segni evidenti dell’aw enuta instaurazione del regno di Dio. Coloro che non ne coglievano il senso erano colpevolmente ciechi, per cui Dio non avrebbe dato loro alcun segno ulteriore, se non quello di Giona, il segno, cioè, costituito dallo spengersi della voce di Dio, con la morte di Giovanni Battista, e dal ritorno immediato alla parola di quella voce, attraverso Gesù.26Chi non avesse inteso neppure il segno di Giona, 26 Non è questa l’interpretazione del segno di Giona data dalla nar­ razione matteana, per la quale (cfr. Matteo 12, 39-40) tale segno rin­ vierebbe alla morte e alla risurrezione di Gesù. Un simile rinvio è però scopertamente una interpretazione ex-post delle parabole di Gesù, che hanno di certo acquistato nuovi riferimenti con il passare del tempo (cfr. infatti Luca 11, 30-32). Originariamente segno di Giona signifi­ cava nessun segno (cfr. il Vangelo più antico, Marco 8,11-12). E nes­ sun segno significava verosimilmente che solo Giovanni e Gesù erano segni. Gesù

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sarebbe stato inflessibilmente punito da Dio con l’esclu­ sione dal suo regno, al momento in cui l’instaurazione di questo regno fosse stata portata al suo compimento sto­ rico. La parabola delle erbacce lo dice chiaramente: dopo la semina del buon grano (cioè dopo l’instaurazione del regno di Dio), nel campo rimarranno sia il buon grano che le erbacce (cioè nella società saranno compresenti sia i giusti che i malvagi ed i violenti), ma al momento della m ietitura (cioè al compimento storico del regno di Dio), le erbacce saranno separate dalle spighe di grano e date alle fiamme (cioè malvagi e violenti saranno esclusi dal­ la società governata da Dio e condannati a morte eter­ na).27 Traendo la certezza che il regno di Dio fosse già stato instaurato sul piano sovrannaturale, e dovesse essere portato a compimento storico sul piano terreno, da ben determinati segni storici, Gesù esprimeva la necessità storica, per quell’epoca e per la terra in cui viveva, di una rivoluzione sociale. La esprimeva, naturalmente, nella forma religiosa entro cui soltanto era possibile concepi­ re, allora, mutamenti di relazioni fra gli esseri umani. Ma la esprimeva nelle sue radici concrete, e niente affat­ to da fanatico sognatore. Ogni ebreo della Giudea e della Galilea era tradizionalmente educato a pensare che non vi fosse legittima sudditanza se non ai poteri connessi in qualche modo al Dio di Israele, ed ora il popolo della Giu­ dea era suddito dei Romani, e quello della Galilea di un tetrarca sottomesso a sua volta a Roma, e comunque non ebreo. Il Tempio di Gerusalemme era stato, nelle tradizioni sociali e culturali di Israele, il centro organizzativo di una economia pianificata senza appropriazione privata delle 27 Matteo 13, 30. G esù

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ricchezze, e con limitate diseguaglianze sociali, ed era ora un centro di potere mercantile, fonte di crescenti di­ seguaglianze sociali, e di enormi privilegi economici per una ristretta aristocrazia sacerdotale. Il popolo di Israe­ le aveva sempre tratto la sua identità sociale dalla Legge di Mosé, ed era ora esposto a fattori disgregativi di origi­ ne pagana, dall’istituzione della schiavitù all’economia monetaria, dall’usura al latifondismo. La certezza di Gesù che il regno di Dio fosse già stato instaurato faceva leva su queste profonde e laceranti con­ traddizioni sociali e culturali, e vi introduceva una fede capace di mobilitare grandi energie collettive. Il regno di Dio che Gesù prometteva non era quindi l’utopia di un sognatore, perché erano storicamente dati sia i termini religiosi per concepirlo, sia i materiali sociali e culturali per far divampare la volontà di realizzarlo. «Sono venuto per scagliare un fuoco sulla Terra»,28disse una volta Gesù, e aggiunse: «Vi sembra che io sia venuto a portare la pace in terra? No, vi dico, ma la divisione».29Aveva dunque la consapevolezza di essere promotore di una rivoluzione sociale, perché tale era ciò che egli pensava come il com­ pimento terreno del regno di Dio, tale il contenuto del suo ideale religioso. La forza storica dell’ideale di Gesù stava anche nel fatto che esso era recepibile da quasi tutte le componenti sociali e religiose della società ebraica dell’epoca. Si ha infatti l’impressione che i seguaci di Gesù, anche se co­ stituivano una minoranza (se si fosse trattato di un vero fenomeno di massa, come la successiva rivolta antiroma­ na del 66-70 d. C., avrebbe certamente avuto maggiore eco nelle fonti antiche), erano tuttavia di provenienza 28 Luca 12,49. 29 Luca 12, 51. Gesù

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tanto essenica che zelotica, tanto popolana che levitica, e persino farisaica. In pratica, tutti coloro nella cui cultura era presente l’ideale del regno di Dio, erano spinti a di­ ventare seguaci di Gesù, nella misura in cui prendevano sul serio quell’ideale, ed erano disposti a mettersi in giuoco personalmente per renderlo storicamente attuale. Tra i primi seguaci di Gesù ci furono Simone, che di­ venterà, con il nuovo nome di Pietro, il primo degli apo­ stoli, e suo fratello Andrea. Le narrazioni sinottiche del modo in cui essi divennero seguaci di Gesù sono sorpren­ denti. Gesù, camminando un giorno lungo le rive del lago di Galilea, vide Simone e Andrea che gettavano le reti in acqua, perché erano pescatori di mestiere. Disse loro di smettere di pescare e di seguirlo, perché egli li avrebbe trasformati in pescatori di uomini. Ed essi, abbandonate subito le reti, lo seguirono.30 Un simile episodio appare, ad ogni lettura un po’ attenta e riflessiva, del tutto incre­ dibile. Non è infatti sensato pensare che due uomini, i quali traevano dalla loro attività di pescatori il necessa­ rio per vivere, cessassero all’istante di praticarla,31 per seguire uno sconosciuto che si era limitato a dir loro di volerli fare pescatori di uomini. L’episodio diventa invece credibile se si ammette che Simone e suo fratello Andrea conoscessero benissimo Gesù, per essere già stati, alcuni anni prima, suoi seguaci. Riceve così conferma una delle tesi di fondo di questo saggio, che cioè l’impegno religioso di Gesù si sia protratto per anni, attraverso un itinerario 30 Matteo 4, 18-20; Marco 1, 16-18. 31 eùOù? àcpévtE; t à Sù