Filosofie di pace e guerra. Kant, Clausewitz, Marx, Engels, Tolstoj 8815037950, 9788815037954

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Filosofie di pace e guerra. Kant, Clausewitz, Marx, Engels, Tolstoj
 8815037950, 9788815037954

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W.B. GALLIE

FILOSOFIE DI PACE E GUERRA

Kant, Clausewitz, Marx, Engels, Tolstoj

UNIVERSALE PAPERBACKS IL MULINO

ISBN 88-15-03795-0

L. 20.000 (i.i.)

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Boccioni, «La caric a dei lancieri», 1915 (particolare). Design Grafici associ ati

W.B. Gallie è professore emerito di Scienze Politiche all’Università di Cam­ bridge. Tra le sue opere ricordiamo «Phi­ losophy and the Historical Understand­ ing» (1968), «Understanding War: Essay on the Nuclear Age» (1990) e, in traduzio­ ne italiana, «Introduzione a C.S. Peirce e il pragmatismo» (Firenze, 1965).

In copertina: U.

Piccolo classico del pensiero politico, questo stimolante libro di W.B. Gallie ci spinge a ripensare le nostre idee sulla guerra e sulla pace, che erroneamente riteniamo nuove e originali, per com­ prendere meglio la situazione politica at­ tuale. La visione moderna della pace e della guerra deriva piuttosto da autori impegnati in campi del sapere del tutto diversi, quali Kant, Clausewitz, Marx, En­ gels, Tolstoj che hanno però in comune il rifiuto dell’idea settecentesca di guerra come meccanismo intrinseco alla socie­ tà occidentale. Attraverso le elaborazio­ ni, variamente orientate, composite e stridenti, di tali pensatori, scorgiamo una prospettiva feconda e inedita su que­ sto tema incandescente in ogni epoca. Rivalutando testi dimenticati o rileggen­ do opere più note, Gallie non intende proporre nuove teorie della guerra e del­ la pace: egli fa dialogare gli autori in questione in un confronto che trascende i confini culturali e temporali, fino a sug­ gerire problemi che essi non hanno po­ sto espressamente ma che spetta ai con­ temporanei affrontare e risolvere.

UNIVERSALE PAPERBACKS IL MULINO 273.

W.B. GALLIE

FILOSOFIE DI PACE E GUERRA Kant, Clausewitz, Marx, Engels, Tolstoj

IL MULINO

ISBN 88-15-03795-0 Edizione originale: Philosophers of Peace and War. Kant, Clausewttz, Marx, Engels and Tolstoy, Cambridge, Cambridge University Press, 1978. Copyright © 1978 by Cambridge University Press, Cambridge. Copyright © 1993 by Società editrice il Mulino, Bologna. Traduzione italiana di Gino Scatasta. È vietata la riproduzione, anche parziale, con qualsiasi mezzo effet­ tuata, compresa la fotocopia, anche ad uso interno o didattico, non autorizzata.

INDICE

Prefazione, di Angelo Panebianco Introduzione

P· 9

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I.

Kant e la pace perpetua

29

IL

Clausewitz e la natura della guerra

69

III. Rivoluzione e guerra in Marx eEngels

IV.

Tolstoj: da «Guerra e pace» a «Il regno di Dio è in voi»

109

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Conclusione

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Nota bibliografica

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PREFAZIONE

PREFAZIONE

Finita la guerra fredda e crollato l’impero sovietico, la guerra è tornata a fare la sua comparsa in Europa. Se nel­ l’epoca dell’«ordine» bipolare la riflessione sulla guerra ri­ guardava essenzialmente la possibilità, puramente teorica, di un apocalittico conflitto nucleare, oggi, nel mondo semi­ anarchico del post-bipolarismo1, le macerie jugoslave e i conflitti interetnici nell’ex impero sovietico (non dimenti­ cando il 1991, che vide il coinvolgimento dei Paesi occiden­ tali nella guerra del Golfo) già provano che dobbiamo tor­ nare a indirizzare le nostre preoccupazioni e la nostra rifles­ sione sulla guerra di tipo classico, la guerra clausewitziana. Ma dobbiamo essere anche sufficientemente modesti da sa­ pere che molto difficilmente le nostre idee attuali sulla guer­ ra e sulla pace possono pretendere il marchio dell’originali­ tà. Secoli di pensiero occidentale le hanno infatti forgiate. La nostra sola alternativa è fra una ripresa consapevole delle idee del passato (che sono comunque la base su cui costrui­ re, eventualmente, tesi nuove) e una ricezione, comunque inevitabile, inconsapevole e acritica di quelle stesse idee. Il libro che qui si presenta al lettore italiano è apparso in edizione originale nel 1978 ed è da allora indicato come un importante testo di riferimento per chi vuole ricostruire le origini delle nostre idee attuali sulla guerra e sulla pace. G allie, filosofo politico di Cambridge, già noto agli addetti ai lavori per i suoi pregevoli studi in materia di filosofia della conoscenza storica2, esamina qui il pensiero di alcuni autori classici che, a suo giudizio, più di altri hanno contribuito a forgiare la visione moderna della guerra: Kant, Clausewitz, Marx e Engels, Tolstoj. Perché questi autori e non altri? E perché solo questi autori? La risposta di Gallie è duplice. In piamo luogo egli osserva, citando con approvazione la tesi di uno studioso di relazioni internazionali, Martin Wight, che

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la filosofia politica occidentale si è occupata assai poco della guerra. Preoccupata per lo più della buona società, dell’ot­ timo governo, ha tradizionalmente concentrato la sua atten­ zione sui rapporti fra lo Stato e i sudditi, fra l’autorità e i membri della comunità politica, e solo marginalmente ha posto lo sguardo sui rapporti fra gli Stati. Come Wight3 sostiene, e Gallie sottoscrive, non esiste, allo stato attuale, in Occidente, una sviluppata teoria politica dei rapporti inter­ statali. Gli elementi di questa teoria dobbiamo allora cercar­ li nelle note a margine, nelle frasi incidentali, nelle appendi­ ci dei trattati politici accumulati attraverso i secoli in Occi­ dente. Ciò significa che, se siamo alla ricerca di riflessioni sistematiche, dobbiamo necessariamente concentrarci su pochi, selezionati autori. La seconda ragione addotta è più importante e da essa dipendono in realtà il pregio e l’origi­ nalità di questo libro. Kant, Clausewitz, Marx e Engels, Tolstoj hanno, apparentemente, assai poco in comune fra loro (anche se è vero che, probabilmente, Kant influenzò indirettamente Clausewitz e Clausewitz, a sua volta, ha eser­ citato sicuramente una forte influenza su Engels, nonché più tardi su Lenin e sui pensatori marxisti in genere). Le loro teorie della guerra e della pace sono diversissime. Ma una cosa in comune questi autori, tuttavia, l’hanno. Con essi la riflessione sulla guerra si stacca nettamente dal modo in cui la guerra era concepita nei secoli precedenti. Dalla na­ scita del moderno sistema degli Stati fino alla Rivoluzione francese i problemi della guerra e della pace erano stati affrontati dal pensiero occidentale, prevalentemente, nei termini propri della dottrina della Macht Politik4. Il sistema degli Stati è in questa visione l’hobbesiano «stato di guer­ ra». L’alternanza di pace e guerra è il «naturale» risultato dell’anarchia internazionale. La guerra segue alla pace e quest’ultima alla prima nello stesso modo in cui si alternano le stagioni. Una volta accertato questo fatto tanto la guerra che la pace cessano di essere problemi suscettibili di ulterio­ re indagine. Se questa era, nella sensibilità del tempo, la visione dominante, chi non si rassegnava ai furori della guerra aveva solo tre alternative: tentare di imbrigliarla e di mode­ rarla attraverso lo jus gentium, fabbricare piani, utopistici e sterili, di federazioni fra i principi europei o, infine, guarda­ re con nostalgia al passato medievale e proporre la «pace

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attraverso l’impero», cioè invocare l’istituzione di un impe­ ro universale o a vocazione universale capace di imporre pace e ordine mediante la forza. Insomma, prima della fine del settecento, la dottrina europea aveva trattato la guerra come un evento naturale cui occorreva rassegnarsi oppure aveva scelto la strada dell’uto­ pia. Gli autori considerati da Gallie introducono prospetti­ ve nuove. Secondo Gallie, essi hanno fortemente influenza­ to la visione contemporanea della guerra e della pace. Ciò non significa che esistano convergenze fra le loro idee (non ne esistono proprio) e, inoltre, non significa che tutti quanti bandiscano l’utopia (non è il caso di Tolstoj, ad esempio). Ciò che essi hanno in comune è di introdurre sensibilità e prospettive nuove nella riflessione sulla guerra (e sulla pace possibile). Ed è possibile dimostrare, secondo Gallie, che il pensiero del ventesimo secolo non è sfuggito all’influenza dell’uno o dell’altro di questi autori. Originale nella pro­ spettiva adottata e nelle scelte fatte, l’impostazione di Gallie lo è anche nel metodo. Che è quello di porsi di fronte a ciascuno degli autori esaminati armato solo di rigore filologico con l’obiettivo di mostrare del loro pensiero punti di forza e di debolezza. I liberali possono continuare ad ispirare le loro idee sulla pace e sulla guerra a Kant, i socialisti marxisti a Marx, Engels e Lenin, i pacifisti a Tolstoj, e tutti possiamo (e dobbiamo) leggere Clausewitz se vogliamo sperare di penetrare i misteri della guerra e dei suoi rapporti con la politica. Ma ciascuno, quali che siano la sua sensibilità e le sue scelte, deve sapere che il pensiero di questi autori sulla guerra contiene, oltre che elementi di forza, di originalità e di innovazione, anche elementi di debolezza e contraddi­ zioni. Non sempre sufficientemente riconosciuta, l’influenza dello scritto kantiano sulla Pace perpetua è stata in realtà molto forte. Forse, fra tutti gli scritti dell’Illuminismo è lineilo che ha esercitato, in tema di pace e di guerra, l’in­ fluenza più profonda. Elaborazione tarda, come quasi tutti gli scritti politici e antropologici di Kant, non ha la forza dei suoi scritti teorici ma la sua originalità, rispetto al pensiero del tempo, è indubbia. Già prima di scrivere la Pace perpe­ tua Kant aveva mostrato l’originalità del suo pensiero osser­ vando, nel 1784, che «il problema di stabilire una perfetta 11

costituzione civile dipende dalla instaurazione di relazioni fra Stati governate dalla legge» e non può essere risolto finché quest’ultima questione non sarà risolta. Kant aveva cioè chiarissima (ed è un fatto assai inusuale nella sua epoca) l’idea di una connessione strettissima fra la forma di gover­ no che gli Stati possono o non possono darsi al loro interno e la qualità dei rapporti internazionali. Questa intuizione contribuisce a spiegare l’originalità degli sviluppi successivi del pensiero kantiano sulla pace. Kant, osserva Gallie, non era, in senso stretto, un pacifista. Era, invece, un legalista. Voleva sottomettere le relazioni internazionali al governo della legge. La sua originalità consiste nel fatto che egli ruppe con gli schemi propri del diritto internazionale del suo tempo. La sua visione cosmopolita, le sue idee di Ragio­ ne e di Progresso (che procede attraverso i conflitti generati dalla «insocievole socievolezza» degli uomini), lo fecero ap­ prodare a un «moralismo legalista» che avrebbe fortemente influenzato le idee e la storia successiva (si pensi, ad esem­ pio, al wilsonismo). Ma la sua ipotesi di una «unione pacifi­ ca» fra Stati sovrani (fra Repubbliche) che si sarebbe alla fine instaurata, dopo molti e lunghi conflitti e sofferenze, pur se originale, non era esente, come Gallie mostra, da contraddizioni e incoerenze. Contraddizioni e incoerenze che il pensiero successivo non è riuscito, per lo più, a porre debitamente in luce. Diverso è il caso di Clausewitz. Qui non siamo in pre­ senza di un pensatore che ricerca le vie per porre termine alle guerra ma di un filosofo della guerra, un pensatore che cercò di comprendere e di spiegare l’essenza della guerra. Gallie segue in larga misura nel suo esame di Clausewitz la strada tracciata da altri studiosi (da Aron a Paret)5. L’origi­ nalità della sua lettura riguarda un solo, ma decisivo, punto. Contro l’opinione prevalente Gallie tenta di dimostrare che Clausewitz non è, essenzialmente, un teorico dei rapporti fra guerra e politica e che, dunque, non bisogna esagerare l’importanza delle sue riflessioni su questo particolare aspetto del problema. Clausewitz fu al contrario, e in toto, secondo Gallie, uno studioso della guerra. Egli appartiene esclusivamente, o prevalentemente, al pensiero militare, non a quello politico. Tesi controversa, ma interessante - si può osserva­ re - che merita di essere confrontata con quella, antitetica, 12

proposta da altri, e in particolare da Aron. Comunque, os­ serva Gallie, e su questo è difficile non concordare, anche le tesi di Clausewitz sulla guerra, come quelle di Kant sulla pace perpetua, hanno esercitato una influenza profonda sul pensiero successivo. Il caso di Marx e Engels è più compli­ cato. A differenza dei due autori precedenti essi non ci hanno lasciato un trattato sistematico sulla guerra o sulla pace. Le loro osservazioni sulla guerra - che pure hanno esercitato una influenza immensa sul pensiero (e sulla prati­ ca politica) del loro e poi del nostro secolo - sono sparse nel più vasto corpo della loro opera. Dei due fu Engels a svilup­ pare una competenza specifica nel settore della dottrina e della storiografia militare (fu lui, fra l’altro, a spingere Marx alla lettura di Clausewitz). Gallie nota l’esistenza di una irrisolta contraddizione nella concezione marxista della guer­ ra. Acutamente rileva la frattura esistente fra la «teoria», il materialismo storico, che lega l’alternanza della guerra e della pace alle evoluzioni dei rapporti sociali di produzione e fa della guerra uno strumento di consolidamento del do­ minio delle classi economicamente dominanti e l’osservazio­ ne storico-empirica che spinse Marx e Engels ad attribuire le cause dei conflitti armati ad altri fattori e ad elaborare spiegazioni incongruenti con la teoria. Nelle pagine storiche di Marx e Engels, quando vengono esaminati casi specifici, l’istituzione della guerra acquista infatti una indipendenza dalle dinamiche socio-economiche che è imbarazzante per la teoria ma che tuttavia consente ai fondatori del marxismo di illuminare, talvolta con grande acutezza e penetrazione, certe guerre del passato. Infine, Tolstoj. Tolstoj elabora una posizione sulla guer­ ra che avrà, in questo secolo, un grande impatto, culturale e politico, soprattutto sulle società occidentali: il pacifismo cristiano nella versione più radicale o estremista elaborato attraverso una originale ripresa di temi propri del cristiane­ simo ereticale. Non c’è bisogno di spiegare ai lettori italiani, che certamente ricordano i dibattiti e le lacerazioni politi­ che dell’epoca della guerra del Golfo, quale forza politica sia in grado di sviluppare il pacifismo di ispirazione religio­ sa. Nelle pagine dedicate a Tolstoj, Gallie ricostruisce con tratti rapidi ma efficaci il pensiero, con le sue interne cont raddizioni, di uno dei padri culturali di quella posizione6.

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Testo prezioso e, grazie al suo stile espositivo semplice e piano, di gradevole lettura per il lettore colto e interessato a ricostruire le origini di tante «idee ricevute» di oggi sulla pace e sulla guerra, il libro di Gallie ha molto da dire anche agli addetti ai lavori, si tratti di filosofi politici o di scienziati sociali che lavorano intorno ai temi della guerra e della pace. Ai primi offre materia di riflessione su problemi che la filosofia politica contemporanea, salvo poche e lodevoli ec­ cezioni tende a trascurare, ai secondi ricorda l’esigenza della modestia. Deludendo molte ingenue attese di qualche de­ cennio fa, la ricerca scientifico-sociale sulla politica interna­ zionale e sulla guerra, che pure ha avuto uno sviluppo impe­ tuoso negli ultimi quaranta-cinquanta anni, non ha svelato, né poteva per sua natura farlo, tutti i misteri della guerra. Abbiamo accumulato tante ricerche preziosissime, sappia­ mo ormai molto su molti aspetti del fenomeno ma non abbiamo, contrariamente alle attese, e probabilmente non avremo mai, una teoria generale della guerra e della pace. Né tanto meno sono state elaborate (come pensavano di essere sul punto di fare qualche anno fa gli esponenti del movimento intellettuale della Peace Research} terapie credi­ bili contro la guerra. Nei suoi aspetti normativi anche la ricerca empirica di oggi continua ad essere debitrice alle dottrine filosofiche del passato. Conoscere e valorizzare queste influenze è, per le scienze sociali, un atteggiamento più realistico, e più fecondo, di quello prevalente in un passato anche recente, quando si riteneva che requisito della «scien­ tificità» nel campo delle scienze sociali fosse fare tabula rasa, dimenticare le lezioni dei maestri del pensiero occiden­ tale. Ed è anche un modo, l’unico possibile, per andare, eventualmente, oltre. Angelo Panebianco

NOTE ALLA PREFAZIONE

1 Per un’eccellente analisi del nuovo «disordine mondiale», del «non-sistema» internazionale nato sulle ceneri della guerra fredda e sulle sue prevedibili tendenze di sviluppo si veda P. Lellouche, Le nouveau monde, Paris, Grasset, 1992 (di prossima pubblicazione italia­ na al Mulino).

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2 Si veda in particolare il suo Philosophy and the Historical Understanding, New York, Schocken Books, 1968. 3 M. Wight, Why is There no International Theory?, in H. Butterfield e M. Wight, a cura di, Diplomatic Investigations, London, Allen & Unwin, 1966, pp. 17-34. 4 F. Meinecke, Die Idee der Staatsräson in der neurenen Geschichte, München-Berlin, Oldenbourg, 1924, trad. it. L’idea della Ragione di Stato nella storia moderna, Firenze, Sansoni, 1977. Si veda inoltre, per una esauriente panoramica sugli sviluppi di questa corrente di pensie­ ro, S. Pistone, a cura di, Politica di potenza e imperialismo, Milano, Franco Angeli, 1973. 5 R. Aron, Penser la guerre, Paris, Gallimard, 1976 e P. Paret, Clausewitz and the State, Princeton, Princeton University Press, 1976. 6 Analisi tuttora insuperate del rapporto fra cristianesimo e guerra sono R. Niebuhr, Christianity and Power Politics, New York, Scribner, 1940 e H. Butterfield, Christianity, Diplomacy and War, London, The Epworth Press, 1953.

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FILOSOFIE DI PACE E GUERRA

INTRODUZIONE

Wo aber Gefahr ist, wächst Das Rettende auch. [Dove è il pericolo, là cresce anche ciò che salva.] F. Hölderlin, Ratmos

I capitoli che seguono prenderanno in considerazione alcuni scrittori le cui opinioni sulla pace e sulla guerra, per quel che ne so, non sono mai state in precedenza accostate per essere confrontate, analizzate e valutate. L’influenza che essi hanno avuto gli uni sugli altri, sebbene interessante, non è stata di primaria importanza, tranne che in un caso. Gli autori da me scelti non formano una scuola, né da loro si può ricavare una chiara successione o sequenza di riflessioni sulla pace e sulla guerra; essi formano piuttosto una costel­ lazione, un certo numero di fonti di luce intellettuale pros­ sime le une alle altre che convergono sui problemi politici più pressanti della nostra epoca, dei quali suggeriscono i lineamenti essenziali. Sia con le differenze nel loro approc­ cio e nelle loro conclusioni che con le somiglianze e le coincidenze delle loro teorie, essi ci permettono di racco­ gliere i nostri pensieri, di iniziare a unificare le nostre linee di pensiero, generalmente ancora distinte, sul ruolo e le cause della guerra nonché sulle possibilità della pace fra i popoli del mondo e sui suoi presupposti: impresa che le menti migliori delle epoche precedenti hanno, con pochissi­ me eccezioni, ignorato o tralasciato e che i ricercatori del nostro secolo, nonostante tutti i loro vantaggi dal punto di vista scientifico e filosofico, hanno fatto purtroppo ben poco per far progredire. Fino al diciottesimo secolo la politica internazionale, centrata sull’uso della minaccia di guerra e l’espansione di contatti commerciali e culturali, non ammetteva affatto un’analisi sistematica: i contatti e i conflitti fra popoli e governi erano troppo sporadici, variabili e mal registrati per permettere una descrizione generalizzata, tanto meno una 19

previsione o un controllo sistematico. Nel corso del diciot­ tesimo secolo, però, si iniziò a distinguere la futura unità commerciale del globo, come anche il prezzo sempre mag­ giore delle guerre fra le potenze europee, che doveva essere misurato non solo dalle tasse in ascesa ma anche dal conti­ nuo rinvio delle riforme costituzionali di cui si aveva estre­ mo bisogno. Questa nuova situazione si trova riflessa, sotto diverse angolazioni, negli scritti di Montesquieu, Voltaire, Rousseau e Vattel, fra gli altri, ma venne espressa per la prima volta con autorità e precisione filosofica da Kant quando scrisse nel 1784 che «il problema di instaurare una costituzione civile perfetta dipende dal problema di creare un rapporto esterno tra gli Stati regolato da leggi, e non si può risolvere il primo senza risolvere il secondo»1. Questa affermazione, come oggi ci sembra naturale pensare, avreb­ be potuto e dovuto dare luogo a una rivoluzione della filo­ sofia politica; non avvenne invece niente del genere. Al contrario, mentre i centoventi anni successivi - all’incirca dall’ ascesa di Napoleone fino alla comparsa di Lenin - vide­ ro molti, notevoli progressi nel campo delle scienze sociali, nel campo specifico del pensiero politico, e in particolare nello studio dei rapporti internazionali, si ebbe un netto regresso rispetto alle promesse settecentesche. Ed alla luce di questo regresso dovremmo meditare sul parere di Martin Wight, uno dei pochi «teorici internazionali» della nostra epoca indubbiamente notevoli, secondo il quale «la teoria dei rapporti internazionali resta confusa, per nulla sistema­ tica e inaccessibile in massima parte ai profani [...] e carat­ terizzata non soltanto dalla pochezza ma anche dalla pover­ tà intellettuale e morale»2. In questo suo giudizio, Martin Wight prendeva in consi­ derazione quella disciplina accademica tradizionale che cer­ ca di raggiungere verità generali e comprensione teorica dei rapporti internazionali sulla base, principalmente, della sto­ ria diplomatica e del diritto internazionale. Mentre però queste due specializzazioni sono indubbiamente indispen­ sabili per ogni studio approfondito dei rapporti internazio­ nali, ci si può chiedere se essi possano evocare o fornire quella visione storica e quella padronanza delle categorie necessarie per comprendere come si è sviluppato il nostro sistema cosiddetto internazionale e perché tale comprensio20

ne rimanga così profondamente insoddisfacente. Le miglio­ ri opere contemporanee sui rapporti internazionali cercano indubbiamente di fornire quella visione e quelle categorie necessarie, ma i progressi in entrambe le direzioni sono stati minimi, e sono stati per di più ritardati dalla profonda sfidu­ cia che gran parte degli storici manifesta nei confronti di modelli esplicativi di qualsiasi genere. Possiamo forse arri­ vare ad apprezzare meglio la struttura caratteristica del pro­ blema internazionale, basato sulla natura e le cause della guerra e le possibilità della pace, analizzando le reazioni ad esso di un gruppo di pensatori che sono stati costretti ad affrontarlo in un momento in cui esso appariva molto più semplice di quanto oggi lo conosciamo. Kant, Clausewitz, Tolstoj e i padri fondatori del marxismo hanno tutti visto il problema internazionale in termini che oggi potremmo de­ finire senza timore semplicistici. Questo però non implica che essi abbiano peccato di eccessiva semplicità nel loro approccio. Al contrario, a mio parere, essi hanno identifica­ to alcuni dei suoi elementi più stabili con una chiarezza che sarà difficile superare; e quanto più apprezziamo le loro conquiste in questo campo, tanto più saremo preparati ad affrontare la nuova complessità dei problemi internazionali che di recente è cresciuta attorno a noi. Gli autori da me scelti presentano un altro interessante aspetto in comune. Ognuno di loro è un maestro insuperato nel suo settore specifico: Kant nella filosofia, Clausewitz nella teoria militare, i primi marxisti nell’economia e nella teoria rivoluzionaria, Tolstoj nella presentazione romanzata della vita civile e militare - e tutti si sono sentiti spinti ad affrontare il problema dei rapporti internazionali dalla loro prospettiva particolare e in termini che riflettono le compulsioni intellettuali di ciascuno. Questo potrebbe far pensare che i miei autori siano tutti dei dilettanti, e perfino che i risultati ottenuti da ciascuno di loro abbiano avuto ben poca importanza per tutti gli altri. La realtà invece è che i loro diversi approcci al problema si integrano a vicenda in modo considerevole. Più approfondivo il loro studio e più mi scoprivo a considerarli quasi come dei partecipanti a un dialogo che trascendeva il tempo. E non si tratta di una totale assurdità, dato che si tratta di persone di immensa forza e portata intellettuale, profondamente interessate alle

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condizioni dell’umanità e ognuno a suo modo stranamente consapevole degli sviluppi della situazione internazionale. Le questioni generali che essi si ponevano, così come i loro metodi e i loro approcci, sono a prima vista completamente diverse, ma le questioni, i metodi e gli approcci di persone di estrema intelligenza possiedono sempre una notevole importanza, e gli interessi e le conclusioni fondamentali dei miei autori si influenzano costantemente a vicenda, a volte contraddicendosi e mettendosi reciprocamente in discus­ sione, altre volte sostenendosi nei modi più inaspettati. La risposta di Kant all’interrogativo propriamente filosofico «Come si deve concepire il problema della pace?» potrebbe apparire a prima vista senza alcun rapporto con gli sforzi di Clausewitz tesi a identificare gli elementi razionali della guerra. Ma come sosterrò, è possibile oggi ritenere che le loro argomentazioni e le loro conclusioni, motivate in modo diverso e del tutto divergenti per quel che riguarda lo stile e lo spirito dei singoli autori, si integrino a vicenda secondo modalità di cui nessuno degli autori avrebbe potuto render­ si conto. La stessa cosa accade con gli altri autori che ho trattato: le loro riflessioni e le loro opinioni, così ardite e così ardentemente in conflitto, così coinvolte nelle lotte sociali e politiche dei loro tempi e paesi, sono suscettibili di una vita ulteriore se siamo pronti a farle rinascere come fonte d’ispirazione dei nostri sforzi intellettuali e affinché possano costituire uno studio introduttivo per essi. Nessuno dei miei autori ha mai conosciuto personalmente gli altri; e tranne che per il pronto apprezzamento di Clausewitz dimo­ strato dai marxisti, nessuno di loro ha mai mostrato partico­ lare interesse per l’opera altrui. Nel riunirli in queste confe­ renze, sono però ragionevolmente fiducioso del fatto di non essere incorso in una gaffe storica, filosofica o, per aver appagato il capriccio di un momento, tanto meno sociale. Se ci è possibile scoprire i pregi dei loro diversi punti di vista su questioni internazionali, non è forse ipotizzabile che essi stessi lo abbiano fatto? E questo uno spunto che riprenderò nelle mie osservazioni conclusive. Nei capitoli che seguiranno, comunque, non mi preoc­ cuperò semplicemente di mettere in luce e magnificare i contributi dei miei autori alla comprensione della vita inter­ nazionale. Ho anche davanti a me un compito più prosaico, 22

più arduo ma indubbiamente e necessariamente primario: presentare le loro opinioni sul nostro argomento in forma più completa e chiara e in termini più semplici di quanto essi siano riusciti a fare o di quanto la maggior parte dei commentatori sia riuscita a fare dopo di loro. Qualche paro­ la sulla necessità di entrambi questi compiti potrà essere utile. Con l’eccezione di Kant, tutti i miei autori sono stati abili scrittori e ovviamente alcuni di loro eccezionalmente dotati, ma nessuno di loro ha mai scritto un libro e neanche un saggio che abbia fatto piena giustizia al suo interesse per l’argomento di cui ci stiamo occupando. Tutti gli scritti politici di Kant risalgono alla sua vecchiaia, quando il suo stile era particolarmente scadente. Inoltre Kant è uno dei pochi filosofi nei quali è possibile separare lo stile dall’uo­ mo: il primo meticoloso in modo ossessivo, il secondo, no­ nostante alcune penose pecche, umano fino all’eroismo. Non ho provato dunque alcuna remora nel riformulare e riordi­ nare le opinioni espresse in Per la pace perpetua, in modo da mettere in evidenza le analisi, i quesiti e le conclusioni più originali che i goffi tentativi di Kant di popolarizzare le sue idee in quel breve saggio non hanno fatto altro che celare. Con Clausewitz le difficoltà sono ancora maggiori. Della guerra è un libro enormemente solenne, quasi sublime. Esso però rimase incompiuto e contiene alcune contraddizioni di fondo; inoltre alcune delle sue idee più importanti fanno la loro comparsa nei luoghi più inattesi, quasi come osserva­ zioni marginali o digressioni. Nonostante anni di tentativi, poi, Clausewitz non riuscì mai a trovare un modo soddisfa­ cente per esprimere l’intuizione centrale attorno alla quale ruota gran parte della sua argomentazione. La sua nozione di guerra assoluta non è mai stata esposta in modo adeguato perché non è mai stata analizzata e criticata facendo riferi­ mento alle sue origini, al posto che essa occupa nel sistema concettuale di Clausewitz e agli elementi eterogenei con i quali si trova impigliata nel capitolo iniziale del suo libro. Così Clausewitz, nonostante il suo stile sia stato paragonato per eleganza a quello di Goethe e le sue massime migliori appartengano alla letteratura mondiale, ha indubbiamente bisogno di una revisione interpretativa critica e indulgente. Questo può creare delle difficoltà in alcune parti del mio 23

capitolo su Clausewitz, ma posso aggiungere solo che, a mio parere, se la strada da percorrere è ardua, la ricompensa è maggiore. Con Marx e i suoi luogotenenti la situazione cam­ bia nuovamente. Nessuno di loro scrisse mai qualcosa che si possa avvicinare a un trattato sulle questioni internazionali, o sulla pace e sulla guerra considerate da un punto di vista socialista rivoluzionario. Le loro prese di posizione più acu­ te e in alcuni casi anche più rivelatrici sull’argomento di cui ci occupiamo vanno cercate negli scritti più svariati: opere divulgative delle loro principali dottrine sociali, abbozzi di studi più specialistici, manifesti politici, articoli usciti su riviste, lettere, note e appunti sparsi. Non sorprende molto che esse mostrino contraddizioni delle quali Marx, Engels e Lenin sembrano inconsapevoli. Il riconoscimento di tali contraddizioni si trasforma naturalmente in un giudizio sul­ la loro importanza, che è spesso difficile da dare e sempre opinabile. E non mi aspetto molti ringraziamenti per i miei tentativi in tal senso, da nessuna delle parti coinvolte nello scontro dottrinale. Che dire, infine, di Tolstoj? Si potrebbe presumere che, avendo inserito le sue opinioni generali sugli argomenti da noi affrontati all’interno di uno dei più grandi e più popolari romanzi mai scritti, egli sia certamente riusci­ to a farsi comprendere dal grosso pubblico. Il risultato è stato però diverso. La maggior parte dei lettori di Guerra e pace ha saltato, ha scorso rapidamente o si è addormentata sulle disquisizioni filosofiche che l’opera contiene; gli scritti più tardi di Tolstoj contro la guerra, invece, sembrano esse­ re stati presi seriamente solo dai pacifisti convinti (ed ho il sospetto che si siano trovati stranamente a disagio leggendo­ li) o da studiosi che hanno approfondito il dramma nascosto della sua vita e del suo pensiero. Anche in questo caso la responsabilità è da attribuire in larga misura all’autore. Per quanto sia un titano fra gli scrittori, Tolstoj era carente nell’arte della persuasione politica che, come Platone, non si degnava di coltivare. Di conseguenza, la profusione di verità generali che si percepisce immediatamente al di sotto della vivace superficie di Guerra e pace e le (quanto meno) brillan­ ti mezze verità che appaiaono continuamente fra un dogma e l’altro dei suoi tardi «saggi sulla pace» sono stati quasi completamente tralasciate dagli studiosi dei rapporti inter­ nazionali. 24

Ma se, nonostante tutte le loro doti, i miei autori non sono riusciti a colpire i lettori con i loro rispettivi contributi agli argomenti da noi trattati, questa incapacità è stata ag­ gravata dall’incapacità persistente o dall’eccessiva parzia­ lità dei loro commentatori. Questo è particolarmente vero per quel che concerne Kant. Pochi, anche fra i suoi più acuti commentatori, hanno preso sul serio Per la pace perpetua e gli scritti politici connessi. Al contrario, senza quasi nessuna eccezione, quei teorici politici e giuridici che sono rimasti colpiti da Per la pace perpetua, sono stati colpiti al tempo stesso, come scopriremo nel primo capitolo, da una sorta di amnesia visiva per quel che concerne i suoi reali argomenti e le sue conclusioni. È effettivamente una delle maggiori stranezze della filosofia politica che il mondo abbia dovuto attendere tanto a lungo perché uno studioso di Cambridge interpretasse il testo e ricostruisse il tema dell’opera di Kant con la pazienza e l’attenzione che la sua complessità esige e l’abilità di tocco che la sua prodigiosa originalità richiede. Clausewitz ha avuto sotto certi aspetti una sorte peggiore di quella di Kant, dato che la sua opera non solo è stata espurgata dai suoi primi commentatori - istruttori nelle accademie militari della Prussia e della Francia del diciannovesimo secolo - ma è stata anche alterata deliberatamente in un punto cruciale3. Successivamente, comunque, Della guerra è stato oggetto di una serie di commenti di studiosi di altissi­ ma qualità, in particolare quelli del grande Hans Delbrück e di Raymond Aron, il cui Penser la guerre, Clausewitz è, come ci si poteva attendere, notevole per l’ampiezza e l’ac­ curatezza del commento e altrettanto toccante nella genero­ sa comprensione dello spirito del suo autore. Il campo in cui la critica di Clausewitz è ancora carente è la valutazione e la critica filosofica: né l’originalità della filosofia di Clausewitz nel suo insieme né le perplessità logiche implicite nella teo­ ria della guerra assoluta hanno ricevuto fino a oggi un’atten­ zione adeguata da parte dei filosofi. Per quel che concerne i marxisti, inevitabilmente, le divergenze sulla spiegazione e l’interpretazione dei testi fondamentali sono state general­ mente subordinate a divergenze relative all’ortodossia dottrinale da una parte e all’accettabilità scientifica dall’al­ tra. Di conseguenza, per quel che concerne gli argomenti di cui ci occuperemo, una dimensione rilevante del pensiero 25

marxista è rimasta praticamente inesplorata da marxisti, antimarxisti, marxisti classici e neo-marxisti. Mi sono perciò limitato alle fonti originali del contributo marxista alla teo­ ria dei rapporti internazionali, che hanno mantenuto intatta la loro freschezza soprattutto perché le dispute dottrinali le hanno ignorate. Per quanto riguarda Tolstoj e i suoi critici, non posso esprimermi con altrettanta sicurezza dal momen­ to che le numerosissime opere critiche in lingua russa che analizzano Guerra e pace da un punto di vista storico mi sono note solo di seconda mano. Ho tuttavia la sensazione che i critici di Tolstoj si siano occupati maggiormente delle remore e delle imprecisioni della sua narrativa storica e delle sue generalizzazioni, e quanto a questo anche della sua cosiddetta filosofia della storia, piuttosto che del suo inte­ resse più importante e più appassionato per quello che nel quinto capitolo definisco «la verità della guerra», insieme con le sue infinite falsità. In breve, questo libro prende innanzi tutto in esame un certo numero di testi relativi a un tema immensamente im­ portante, a cui tutti hanno contribuito, a mio parere, con intuizioni di durevole valore. Considerati separatamente, questi testi meritano tutti l’attenta analisi che viene general­ mente riservata ai capolavori riconosciuti della scienza, del­ la storia e della letteratura d’immaginazione. Ho concentra­ to la mia riflessione sulle idee che richiedevano maggiore attenzione, le idées maîtresses, che si trovano alla base di questi testi piuttosto che sulle personalità brillanti e origina­ li che essi hanno contribuito a esprimere. È tuttavia possibi­ le che io venga accusato di avere personalizzato eccessiva­ mente alcune idee il cui valore sta nella loro importanza permanente e impersonale; e in effetti, nel mettere a con­ fronto e in contrapposizione i miei autori, è possibile che io abbia esagerato nel drammatizzare il rapporto logico che esiste fra le loro diverse dottrine. Ma in un campo di studi le cui implicazioni pratiche sono tanto grandi, e la cui ispira­ zione intellettuale è stata fino a poco tempo fa tanto scarsa, mi sembra che personalizzare o drammatizzare troppo gli argomenti in discussione sia una piccola pecca se al tempo stesso galvanizza il pensiero, ravviva il dibattito e dà ai futuri studiosi la sensazione di avere alle spalle grandi allea­ ti. Può sembrare che i testi che ora analizzeremo siano rima-

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sti a lungo a giacere in un terreno sterile: essi però hanno conservato la loro vitalità e forse ora il terreno è pronto perché essi crescano e fioriscano. NOTE ALL’INTRODUZIONE

1 I. Kant, Scritti politici, Torino, Utet, 1978 (la ed. 1956), p. 131. L’autore fa riferimento all’edizione inglese degli scritti politici di Kant, Kant’s Political Writings, a cura di H. Reiss, Cambridge, Cambridge University Press, 1970. 2 H. Butterfield e M. Wight, a cura di, Diplomatic Investigations, London, Allen & Unwin, 1966, p. 20. 3 Per un preciso resoconto di questo scandalo letterario, cfr. R. Aron, Penser la guerre, Clausewitz, Paris, Gallimard, 1976, vol. I, p. 176.

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CAPITOLO PRIMO

KANT E LA PACE PERPETUA

Per la pace perpetua, celebre saggio breve di Kant1, fu pubblicato a Köningsburg, nella Prussia orientale, alla fine del 1795. Si tratta di un’opera unica fra quelle di Kant perché venne scritta per il vasto pubblico e perché la sua pubblicazione si può considerare un atto politico. Sarà utile, quindi, richiamare per sommi capi la situazione politica che la generò. La Prussia aveva avuto un ruolo di primo piano nell’intervento armato contro il governo rivoluzionario francese. Alla fine del 1794 era ormai evidente che la conquista della Francia non sarebbe stata facile e il governo prussiano si preparò a sospendere la guerra, decisione che venne poi ratificata con il trattato di Basilea, firmato nel gennaio del 1795. Questo fatto colpì moltissimo Kant e lo rallegrò gran­ demente; pur essendo in politica un liberale, infatti, Kant era un cittadino rispettoso della Prussia autocratica; e seb­ bene ripudiasse la ribellione politica (e ancor di più il regicidio), egli era pur sempre un ardente difensore dei propositi rivoluzionari. Il clima politico nuovo e maggior­ mente promettente lo indusse a rendere pubbliche le sue idee rivoluzionarie concernenti una revisione del diritto in­ ternazionale, che a suo parere era la condizione necessaria per una pace duratura. Non tutte le conseguenze del trattato di Basilea furono però gradite a Kant. Rinunciato alla guerra con la Francia, la Prussia partecipò alla terza e definitiva spartizione della Polonia, atto che insultava i principi kantiani e che egli giunse quasi ad attaccare nel suo libello, almeno quanto avrebbe osato fare un cittadino prussiano. La possi­ bilità di grandi e nuovi miglioramenti in campo politico, quindi, e la minaccia di nequizie politiche sempre ricorrenti lo spinsero entrambe ad esprimersi in modo del tutto inso­ lito; non, come egli era solito, con un trattato erudito, alta-

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mente formalizzato ma con un libello popolare, straordina­ riamente diretto e su un argomento attuale. E a giudicare dai risultati immediati, il tentativo di Kant di dare espressio­ ne popolare alle sue idee sembrò funzionare bene. La prima edizione di Per la pace perpetua andò esaurita nel giro di poche settimane e una seconda edizione, gravata di due nuove appendici filosofiche che Kant non potè astenersi dall’allegare, apparve all’inizio dell’anno successivo. Segui­ rono in breve traduzioni in inglese e in francese e per tutto il diciannovesimo secolo, soprattutto in edizioni inglesi e americane, il libello di Kant continuò a essere letto e varia­ mente commentato dal movimento pacifista. Nei primi de­ cenni del nostro secolo Per la pace perpetua venne citato frequentemente, anche se raramente in modo corretto, come insigne precursore dell’idea della Lega della Nazioni. Giudicato però secondo canoni più rigorosi, il tentativo di Kant di scrivere un’opera popolare con Per la pace perpe­ tua deve essere considerato un fallimento, anzi un vero e proprio disastro. La sua opera non ha fatto altro che po­ sporre deplorevolmente una giusta valutazione di quello che Kant aveva da offrire per una migliore comprensione dei rapporti internazionali. Kant non aveva affatto il dono di uno stile che fosse lucido e popolare insieme; e non ci si poteva certo attendere da lui che a settanta anni, dopo quaranta anni dedicati quasi esclusivamente a un insegna­ mento accademico astratto e alla stesura di testi dello stesso genere, potesse produrre al primo tentativo un saggio effica­ ce di persuasione politica. E in pratica i suoi tentativi di divulgare le sue idee sulla pace europea avrebbero condotto a una proliferazione di interpretazioni contraddittorie come raramente se ne sono viste nella storia del pensiero politico. Così Per la pace perpetua è stato generalmente inteso come un appello all’azione politica immediata e come un tentativo di proporre un piano per la realizzazione immediata di una pace duratura in Europa2; esso però è stato interpretato anche come la presentazione di un ideale morale al quale gli stati avrebbero dovuto aspirare nei loro rapporti esteri, an­ che se in pratica non c’era alcuna speranza che riuscissero a raggiungerlo3. È stato anche presentato come una supplica accuratamente preparata per la «attuazione della pace» gra­ zie al potere congiunto di una lega di nazioni amanti della

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pace4 - e con altrettanta sicurezza come una dimostrazione dell’impossibilità di tale politica. Per la pace perpetua è stato considerato da molti un trattato pacifista5, anche se in realtà esso auspica espressamente la creazione di milizie cittadine a scopi difensivi6. Ed è stato accolto come araldo di un governo mondiale, nonostante la ferma opposizione di Kant a questo ideale e la sua insistenza sul fatto che il suo proget­ to avrebbe lasciato intatti gli stati con tutti i loro diritti sovrani, escludendo solo il diritto di muovere guerra a loro volontà7. A molte persone potrà sembrare che un’opera che permette interpretazioni così contraddittorie non possa ave­ re grande importanza. Prima di passare a discutere questo punto, però, vorrei cercare di dare un’idea introduttiva del­ lo schema generale e della complessità letteraria specifica del libello di Kant. La sua sezione iniziale è quasi un tour de force. Senza alcuna analisi preliminare dei motivi o delle circostanze nelle quali la guerra deve essere considerata un male inac­ cettabile, Kant presenta immediatamente un certo numero di Articoli preliminari per la pace perpetua tra gli statP. Si tratta di articoli che, se avessero ricevuto adesioni sincere, avrebbero potuto instaurare la pace fra tutte le potenze settecentesche che li avessero rispettati. Essi vincolavano i firmatari a rinunciare a ogni trattato segreto, all’acquisizione di uno stato da parte di un altro per eredità, scambio, ven­ dita o dono, al mantenimento di un esercito permanente, all’assunzione di debiti pubblici a scopi militari, a intromet­ tersi nella costituzione interna di un altro stato e a utilizzare l’assassinio, la sovversione, ecc. che renderebbero i rapporti pacifici futuri fra stati praticamente impossibili. E stata qua­ si certamente questa prima sezione, così veemente e così diretta, a dare al libello la sua immediata popolarità e a far nascere la convinzione che in esso Kant volesse offrire al mondo un metodo per ottenere una pace immediata e dura­ tura. Anche in questa sezione iniziale, però, e in particolare nelle note, compaiono delle tracce che stanno a indicare una regressione verso quelle cavillosità caratteristiche di Herr Doktor Professor Kant, tendenza che si farà più evidente nella seconda sezione, che contiene quelli che Kant definiva gli Articoli definitivi del suo trattato. Con essi egli intendeva i principali presupposti e le tutele politiche senza le quali 31

non ci si poteva seriamente attendere che uno stato sette­ centesco aderisse agli articoli precedenti9. In particolare, i firmatari dovevano godere di quella che Kant chiama una costituzione «repubblicana», vale a dire in qualche misura rappresentativa; la loro unione, o «libera federazione», do­ veva essere del tipo più semplice, limitata al rifiuto di atti di guerra o tali da poter causare la guerra fra gli stati della suddetta federazione, mentre l’applicazione di leggi utili a tutti i firmatari doveva essere lasciata a quello stato partico­ lare che ne era direttamente interessato. In questo modo Kant dichiara esplicitamente che l’adesione ai suoi articoli preliminari non è altro che l’zwtfwgwrazzowe di un progetto a lungo termine per costruire la pace, che sarà realizzato pie­ namente in secoli di esperimenti e tentativi politici nono­ stante delusioni ricorrenti, e che, una volta realizzato, non sarà mai del tutto al sicuro. Questa sezione presenta l’aspet­ to più originale del pensiero politico di Kant, ma come è noto, il pensiero originale e l’esposizione divulgativa non sono facili da combinare. E quasi tutte le esposizioni divul­ gative di Per la pace perpetua presentano la testimonianza del fatto che il fine di Kant nei suoi Articoli definitivi è sfuggito all’attenzione di gran parte dei suoi lettori. Con la terza sezione, che contiene la sua cosiddetta Garanzia della pace perpetua, tutte le pretese di esposizione divulgativa vengono abbandonate. Quella che ci viene data non è una garanzia, nel senso consueto del termine, ma nel migliore dei casi un suggerimento (estremamente sottile ma in questo caso sviluppato in modo del tutto inadeguato) che lascia intendere come un sostegno adeguato alla nozione kantiana di pace perpetua si possa trovare nella sua filosofia della storia. Infine, le due appendici che Kant aggiunse alla se­ conda edizione di Per la pace perpetua sono fra i compendi peggio organizzati ed eccessivamente astratti di argomento filosofico che siano mai stati perpetrati. Lungi dall’essere quell’efficace opera divulgativa che Kant aveva sperato di scrivere, quindi, Per la pace perpetua è un bizzarro guazza­ buglio letterario, con una gamma stilistica che va da passi chiari e vivaci ad altri nei quali, come osservò Goethe, Kant diventa quasi più kantiano di se stesso. Ritorniamo ora brevemente ai commentatori kantiani. Sarà sufficiente menzionare qui un difetto che, più di ogni

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altro, ci aiuta a spiegare le differenze che esistono fra loro. La maggior parte di essi scrisse nella prima metà del nostro secolo e condivise i pregiudizi politici tipici del periodo. In particolare, essi partirono dal presupposto che ogni sincero sostenitore della pace, quale certamente era Kant, avrebbe senza dubbio elaborato le sue idee all’interno di limiti posti da qualcuna o da tutte le seguenti, consuete alternative: egli doveva essere o un sostenitore dell’«applicazione della pace» da parte di una lega di potenze amanti della pace o un pacifista che rifiutava l’idea di una difesa nazionale armata. Egli doveva o presentare un metodo per l’instaurazione di una pace perpetua e immediata o indicare alcune tendenze a lungo termine che, se debitamente seguite e potenziate, avreb­ bero condotto col passare del tempo alla pace (o almeno così si sosteneva). Più in generale, egli doveva basare il suo ragionamento o su un appello morale - sempre contro i mali della guerra, ma a volte anche contro la violenza sotto ogni sua forma - o su un appello a un interesse personale illumi­ nato (che generalmente implicava la fede in un nuovo appa­ rato internazionale che avrebbe permesso agli uomini e alle nazioni di vivere in pace senza dover sottostare ad alcuna drastica trasformazione morale). Mi sembra che gran parte dei commentatori kantiani abbia dato per scontato che egli abbia accettato molte o tutte queste alternative fin dall’ini­ zio. Ma come diverrà chiaro più avanti, Kant in realtà non ne accettò nessuna. Sulla possibilità di una pace perpetua egli assunse una posizione che era tanto originale e unica quanto difficile da ricavare dal testo del suo saggio e che effettivamente nessuno è mai riuscito a estrapolare in modo esauriente fino a che non c’è riuscito F.H. Hinsley una quindicina di anni fa10. Inoltre, dal momento che, come ci si poteva aspettare, i diversi commentatori di Kant hanno dato la loro preferenza a diversi termini all’interno delle alterna­ tive sopra menzionate, non ci sorprende il fatto che essi abbiano cercato di porre i precetti dichiaratamente comples­ si di Kant sotto tante bandiere, in radicale conflitto fra loro. Ma una volta terminate le spiegazioni, resta un dubbio ovvio. Se le idee principali espresse da Kant in Per la pace perpetua fossero dello stesso ordine di quelle che ritroviamo in altre aree della sua filosofia - nella sua teoria della scien­ za, nel suo rifiuto della metafisica, nei suoi fondamenti di 33

etica e di diritto, nella sua filosofia della religione e perfino nella sua estetica - allora sarebbe inevitabile dedurre che nessun infortunio nella loro presentazione avrebbe potuto oscurare quelle idee, nessun pregiudizio dei loro espositori accademici avrebbe potuto attribuire ad esse una tale profu­ sione di significati contrastanti. Come vedremo, però, il pensiero kantiano in Per la pace perpetua tradisce esitazioni e incoerenze di rilievo, confusione e ambiguità. Ed è altret­ tanto vero che il corso del suo pensiero, in tutti i suoi scritti politici, suggerisce non tanto l’urgenza di esperienze reali, quanto piuttosto una coazione a riesaminare le idee di altri pensatori, come se si trattasse di pezzi di un rompicapo (certamente importantissimo). Tali debolezze sollevano ine­ vitabilmente una questione: Kant aveva davvero qualcosa di durevole importanza da dire sui rapporti internazionali, qualcosa che non fosse già implicito nel senso comune illu­ minato della sua epoca o che oggi non venga ormai dato per scontato dagli studiosi di rapporti internazionali? E questo dubbio potrebbe essere corroborato da quasi tutto ciò che sappiamo della vita e del carattere di Kant. Kant trascorse tutta la vita in Prussia, uno stato autocratico e militarista nel quale le classi medie godevano soltanto di diritti politici minimi. Egli fu insegnante e scrittore, un professore che lo stato aveva relegato nella più piccola e più povera università prussiana, alla lontana frontiera nord-oc­ cidentale con la Russia. Privato di ogni esperienza politica diretta, Kant fu un lettore vorace di giornali stranieri. La sua conoscenza degli altri paesi, però, era superficiale e i suoi giudizi sulla loro politica mostravano spesso un’ottusità pe­ dante. Gli mancava completamente, ad esempio, l’acume necessario per individuare e analizzare gli elementi di spicco della politica dei suoi tempi, tipico invece di Hegel. Il suo entusiasmo per la Rivoluzione americana e più ancora per quella francese fu una delle sue caratteristiche più attraenti, ma esso sta a indicare maggiormente la generosità del suo spirito che il suo acume politico. Le sue evidenti ed enormi doti intellettuali, d’altra parte, non erano quelle che gene­ ralmente associamo alla filosofia politica. Per Kant, pensare significava schematizzare e lavorare sui propri schemi: con­ trapporre, separare, combinare e ricombinare, secondo leg­ gi logiche e la spinta delle proprie intuizioni e compulsioni 34

più profonde. Egli è il filosofo per eccellenza delle nette antitesi e delle dicotomie insormontabili. Manifestava poco interesse e comprensione per i problemi e i metodi storici. Sembra non aver mai ammirato quelle doti caratteristiche dello storico che gli permettono di passare da una narrazio­ ne generalizzata a spiegazioni che, pur se logicamente in­ complete, sono ugualmente sufficienti a incanalare l’atten­ zione del lettore in modo appropriato e a suggerire come le influenze e gli interessi, generalmente considerati incompa­ tibili, possano ugualmente essersi combinati in un caso spe­ cifico. Non è quindi, alla luce di quanto detto, il tipo di filosofo dal quale ci si possono aspettare idee politiche ori­ ginali e rivelatrici. Si dovrebbe però riflettere sul diverso modo in cui i vari filosofi politici ci hanno illuminato. Accettando gli svantag­ gi appena citati, sarebbe assurdo attendersi da Kant contri­ buti quali quelli forniti da Rousseau, da Hume o da Mill, i quali, ognuno a suo modo, manifestarono tutti la capacità di elevare il commento d’attualità su questioni politiche a livel­ lo di riflessione filosofica. Sarebbe saggio da parte nostra cercare in Kant un contributo più ambizioso ma articolato in modo meno efficace, altamente schematico ma fornito di una visione concentrata del tutto insolita. E da questo punto di vista è certamente possibile che il carattere limitato del­ l’esperienza politica kantiana si sia trasformato per lui in un pregio. Dal suo nido d’aquila di Köningsburg egli aveva osservato, al di là dei confini della sua Prussia terribilmente oppressa, la politica dell’arena europea. Ed anche se ciò che ne ricavò fu una visione monocroma, altamente semplifica­ ta, egli la vide quanto meno con chiarezza e comprese che era pessima. La Prussia di Federico era infatti solo un esem­ pio estremo di quella che era fondamentalmente la situazio­ ne generale di tutti gli stati dinastici dell’Europa settecente­ sca. Anche in quelli che sembravano maggiormente progressisti, la guerra e l’incessante preparazione per la guerra erano le principali occupazioni dei governi, che ritardavano i progetti di riforma costituzionale se non arrivavano a im­ pedirle del tutto. Ma la Prussia era lo stato di Kant e la sua combinazione di una persistente arretratezza costituzionale con un’aggressività ugualmente persistente verso i suoi vici­ ni lo addolorò e lo mortificò fortemente, ma gli permise 35

anche di formulare opinioni decise e chjare sul rapporto fra un governo arbitrario in patria e una politica estera aggres­ siva. Kant aveva già espresso alcune delle sue opinioni in Idea di una storia universale, pubblicato dieci anni prima di Per la pace perpetua, dove aveva sostenuto, come abbiamo già detto, che «il problema di instaurare una costituzione civile perfetta dipende dal problema di creare un rapporto esterno tra gli Stati regolato da leggi». Con questa afferma­ zione, che avrebbe potuto tranquillamente utilizzare come introduzione a Per la pace perpetua, Kant aveva già compiu­ to un passo rivoluzionario in avanti nell’ambito della filoso­ fia politica, anche se in una direzione nella quale, fino a tempi assai recenti, non ha avuto praticamente alcun segua­ ce. Aveva fatto cioè il primo tentativo significativo - cerche­ remo poi di stabilirne il successo - per costruire una struttu­ ra di idee all’interno della quale si poteva dimostrare che i diritti e i doveri comunemente riconosciuti degli stati nei confronti dei propri cittadini esigessero logicamente il rico­ noscimento di alcuni diritti e doveri di pari importanza di uno stato rispetto agli altri (e dei cittadini di ciascuno stato rispetto a quelli degli altri) se i compiti a loro tradizional­ mente riconosciuti si volevano adempiere in modo efficace. Ed è come parte di questa struttura di idee - del nuovo significato che Kant dà all’idea di diritto internazionale che si deve intendere la sua esigenza di una pace perpetua. È in questo modo indubbiamente originale che Kant sceglie di avvicinarsi alla filosofia politica. E se egli avesse sviluppato le sue premesse in modo adeguato, si sarebbe potuto parlare col tempo di un’ennesima rivoluzione coper­ nicana da lui introdotta in filosofia. Eppure non è questo il solo aspetto originale del pensiero politico di Kant, e forse neanche il più originale: un secondo aspetto che nasce dalle tensioni centrali del suo intero sistema intellettuale può essere descritto qui solo a grosse linee. Fra le nette e rigide dicotomie del suo sistema, la tratta­ zione che egli fa della Ragione spicca per la sua sorprenden­ te flessibilità e per la sua forza immaginativa. Formalmente l’idea di Ragione funziona come costante indefinita in quel sistema, un’idea talmente basilare da non aver bisogno di alcuna definizione. Man mano però che Kant esplora le principali regioni dell’esperienza umana, la sua idea di Ra-

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gione assume un carattere che, pur se connesso al carattere alquanto composito che gli conferisce la storia della filoso­ fia, mostra ugualmente una coerenza e un dinamismo mai riscontrabili nei sistemi di pensiero precedenti. Per espri­ merci in modo semplice, secondo Kant la Ragione è quella tendenza presente in ogni pensiero umano e in ogni sforzo cosciente che spinge contemporaneamente verso un’unità, un sistema e una necessità sempre maggiori e allo stesso modo verso un’autocritica e un autocontrollo sempre più netti e costanti. Il primo aspetto della Ragione traspare in modo evidente nel suo compito di ordinare le nostre im­ pressioni soggettive derivate dai sensi fino ad arrivare a conoscere un mondo fisico oggettivo, pubblico, governato da leggi; il secondo si può identificare invece nel suo compi­ to di assoggettare i nostri impulsi egoistici a norme di coe­ renza, reciprocità e imparzialità; ma «una sola e unica Ra­ gione», come Kant era solito dire, trova espressione nella vita speculativa come in quella pratica. D’altro canto la Ragione sembra aver incontrato un successo assai disuguale in queste due sfere. Intesi come veicoli della ricerca di unità, sistema e necessità da parte della Ragione, gli uomini hanno generalmente raggiunto senza difficoltà un’intesa sul modo in cui identificare, collegare e spiegare gli oggetti del mondo che condividono. Kant credeva però che essi avessero avuto un successo di gran lunga inferiore nell’accordarsi, o alme­ no nel comportarsi secondo regole convenute, sulle questio­ ni della reciprocità e dell’imparzialità nei rapporti fra uomo e uomo. Di conseguenza, all’inizio della sua carriera Kant fu portato a una visione molto prossima a quella intellettualistica, da «torre d’avorio», secondo la quale la Ragione Teoretica umana «funziona», in particolare in quanto ci dà la scienza, mentre la Ragione Pratica umana, concepita come sistema di regole che limitano l’egoismo umano, no; e in particolare a ritenere che il compito di amministrare e far rispettare le norme comunitarie che costituisce l’essenza della politica ha dato generalmente luogo a una triste vicenda di malgoverno in patria e di feroce anarchia nei rapporti internazionali. Da questo atteggiamento da intellettuale chiuso in una torre d’avorio, Kant ci dice che venne salvato dalla lettura di Rousseau, che gli insegnò a comprendere che le più alte conquiste intellettuali dell’umanità non erano niente se pa-

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ragonate a quelle inerenti alla sfera morale e politica, perfi­ no alle più infime. Ma anche quando Kant ebbe assimilato questa lezione nella sua filosofia, la sua concezione delle due principali funzioni della Ragione, Teoretica e Pratica, lo pose di fronte a enormi difficoltà. Queste erano dovute in larga parte alla sua accettazione della fisica newtoniana come paradigma di ogni conoscenza teoretica. Kant riteneva che la Ragione Teoretica dovesse esigere e dischiudere un mon­ do di determinismo naturale, convalidato in quell’ordine necessario delle nostre sensazioni che si può intendere come mondo ordinato, pubblico e materiale. La Ragione Pratica, d’altra parte, richiedeva o presupponeva la possibilità per la libertà umana di scegliere ciò che il Dovere o la Giustizia esigono, nonostante la determinazione, per cause fisiche o psicologiche, di ogni nostra azione quotidiana. È questa antitesi che, più di ogni altra cosa, conferisce alla filosofia di Kant la sua forza peculiare, anche se quella forza a volte rasenta l’ostinazione. La Ragione Teoretica esige un sistema compiuto; la Ragione Pratica ha un compito o un vocazione sempre aperta, mai conclusa. O, per esprimere l’antitesi in altro modo, il divario postulato da Kant fra Necessità Natu­ rale (l’oggetto della Ragione Teoretica) e Libertà Umana (il presupposto della Ragione Pratica) non potrà mai essere colmato e ancor meno negato. Eppure la tendenza dominan­ te nel pensiero filosofico di Kant durante l’ultima decade del diciottesimo secolo - il periodo in cui si occupò in modo più intenso di politica - fu quella che lo spinse a esplorare quelle aree nelle quali era quanto meno possibile che questi aspetti antitetici del mondo, ugualmente rivendicati dalla Ragione, si potessero concepire come elementi che contri­ buivano a un fine comune. Kant esaminò per primo questa possibilità in rapporto alla pretesa teleologia delle forme viventi e da qui trasferì le sue idee per certi versi provvisorie alla storia dei tentativi e delle sventure politiche dell’umanità. Non era possibile vedere questa storia come una succes­ sione di disavventure dovute a necessità naturali, condite con episodi di presunta buona fortuna, attraverso la quale gli uomini potevano comunque apprendere per tentativi a espandere l’area della loro libertà razionale? In modo più specifico, non era forse possibile che le difficoltà, i fallimen­ ti e le tragedie che si rivelano in modo caratteristico nella

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storia dell’umanità costituissero una condizione necessaria per l’espansione delle capacità dell’uomo di affrontare ra­ zionalmente le sfide che gli poneva la natura e per iniziare a cooperare per affrontarle? Il fine ultimo di tale progresso razionale doveva essere un mondo di pace duratura fra le nazioni, una benedizione che al tempo stesso avrebbe soste­ nuto il godimento di quelle che potremmo definire istituzio­ ni liberal-democratiche in patria e che sarebbe stata soste­ nuta da esse. L’intensità di sentimento che Kant faceva convergere su questa speranza per la Ragione nella vita umana non ha eguali nella storia del pensiero politico, almeno a partire da Platone. A suo parere, il valore dell’intero «esperimento umano» non dipendeva certamente dalla prova dell’esisten­ za di quella speranza - ugualmente impossibile, secondo Kant, delle prove dell’esistenza di Dio, della libertà o del­ l’immortalità - ma da un senso di autentica apertura come necessario contesto delle aspirazioni e dei tentativi politici degli uomini. Contrariamente alla critica comune (diffusa per primo da Hegel) secondo la quale la filosofia morale kantiana era centrata principalmente sull’interesse dell’in­ dividuo per le sue proprie virtù, il concetto che il valore di ogni singola vita si possa giudicare soltanto su una scala che preveda un riferimento alla vita umana nel suo insieme era presente nel pensiero di Kant già prima delle Critiche. E ora la questione dell’essenza dell’unità deH’umanità come idea morale, del modo in cui essa si collega all’idea del valore e del destino e deH’umanità, di cosa significhi per un uomo agire come membro e rappresentante della razza umana iniziano a fondersi nel suo pensiero con quelle nuove spe­ ranze, più specifiche, sollevate dalla Rivoluzione francese e in quella che secondo Kant (con un ottimismo un po’ ecces­ sivo) era stata la ricezione tipica della rivoluzione da parte degli uomini di buona volontà in tutti i paesi europei. Que­ sto strano slancio di entusiasmo morale e intellettuale e la speranza che lo accompagnava, piena di un’ansia quasi pa­ terna per l’umanità, permisero a Kant di abbozzare una posizione politica che è forse ancor più attinente al mondo di oggi di quanto non lo fosse nel momento in cui Kant si sforzava di esprimerla, in una gara contro il tempo e le forze che venivano a mancare, circa centottanta anni fa. Gli scritti 39

politici degli ultimi anni di Kant possono dare l’impressione di un uomo anziano che ha molta fretta e che cerca di afferrare problemi con cui non si è mai sentito del tutto a suo agio e nei confronti dei quali il suo portentoso meccani­ smo filosofico gli dava pochissimo aiuto. Eppure l’effetto generale di questi scritti è toccante nella sua intensità: que­ sto anziano pieno di fretta era una persona che, dopo una vita intera dedicata a inseguire le idee, ora riteneva che le sue idee lo avessero condotto infine al centro della vita umana, in uno dei momenti unici e di massima crescita della storia umana che era suo dovere spiegare e difendere, dal più ampio di tutti i punti di vista possibili, ovvero da quello della Ragione, ma in un linguaggio che anche la gente comu­ ne potesse comprendere. Kant aveva quindi una causa, una motivazione, un’ispi­ razione e una vitalità intellettuale sufficienti a intraprende­ re, per quanto tardivamente e malamente equipaggiato, un suo percorso originale nel campo della filosofia politica. Questo è più che sufficiente a giustificare uno studio parti­ colarmente attento e indulgente di queste opere, senza la­ sciarsi scoraggiare dalle loro difficoltà, per quanto esse pos­ sano essere grandi e a volte estremamente irritanti. E nel corso degli ultimi due decenni il suo pensiero politico, in particolare così come esso traspare da Per la pace perpetua, ha iniziato a ricevere quel tipo di attenzione che merita ed esige. In due aspetti essenziali gli argomenti e le conclusioni di Per la pace perpetua sono stati ora chiariti, se non piena­ mente e in modo definitivo, almeno nella misura in cui l’esperienza di leggerlo è oggi cambiata. In primo luogo, quando si legge il libretto kantiano alla luce dei suoi prede­ cessori, i trattati di St. Pierre e di Rousseau da una parte e di Vattel dall’altra, molte delle peculiarità della sua struttura e della sua argomentazione diventano immediatamente comprensibili. Nel suo Power and the Pursuit of Peace, F.H. Hinsley ci ha presentato un Kant che, per quel che concerne la sua teoria dei rapporti internazionali, in larga misura corregge Rousseau, che egli amava e rispettava; e in studi più tardi Hinsley ha anche dimostrato che grande stimolo fosse venuto a Kant dagli scritti di Vattel, che egli ingiusta­ mente sottovalutava e disprezzava. Ed è sorprendente come sia ancor più facile scoprire cosa Kant sostenga quando si sa 40

con esattezza a chi si sta opponendo. Ma in secondo luogo Hinsley e in misura minore Hemleben, Waltz, Gay e altri, hanno abilmente svelato i principali nessi strutturali e le principali lacune e ambiguità presenti nell’esplicita tesi di Per la pace perpetua-, mi spingerei ad affermare che non esiste oggi alcuna tesi o argomento di rilievo, e nessuna caustica digressione in quest’opera, a cui non si sia dato il giusto peso e il giusto posto all’interno del progetto generale kantiano. Nonostante questa notevole opera intellettuale eseguita da storici recenti - tanto diversa dal disinteresse manifestato dalla maggior parte degli specialisti kantiani c’è ancora qualcosa che oggi mi sembra assente. E come se, pur se sono stati dati giudizi attenti su quasi tutti i singoli punti oscuri del libello di Kant, la caratteristica unità fisiognomica della sua tesi - il fine e il messaggio essenziali delle sue idee spesso disordinate o troncate - debba essere ancora compreso e trasmesso in modo adeguato. E per que­ sto motivo io ora intendo esporre con parole mie, libere da ogni traccia di gergo kantiano, per la prima volta e molto rapidamente, quello che è stato a mio parere il suo maggiore debito verso i suoi predecessori nel nostro campo e in se­ condo luogo e con maggiore attenzione, quelle che io credo siano state le sue intenzioni più esplicite al momento di scrivere Per la pace perpetua. Kant, come Rousseau e Vattel prima di lui, scrisse di rapporti internazionali quasi interamente in termini riferiti alla scena europea settecentesca. Questa si uniformava alla secolare visione della vita degli uomini e delle nazioni come una alternanza senza fine di guerra e di pace (quest’ultima vista come appena qualcosa di più di una temporanea cessa­ zione della guerra) dalla quale non sembrava esserci alcuna via d’uscita possibile. Molti teorici politici settecenteschi, però, credevano che l’Europa, così come la conoscevano, fosse diversa da gran parte o forse da tutti i sistemi statali precedenti per due importanti aspetti. In primo luogo, si concordava sul fatto che tutti gli stati europei erano gli eredi di una grande civiltà comune (per alcuni quella classica, per altri quella cristiana), nonché probabili protagonisti di un grande futuro comune, artistico, scientifico e commerciale. In secondo luogo, si riteneva comunemente che, anche se le guerre continuavano a infuriare quasi senza tregua, la mi-

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naccia maggiore che esse presentavano per la civiltà - ovve­ ro il rovesciamento e la distruzione di unità politiche costi­ tuite aH’interno di confini naturali - era ormai considerevol­ mente mitigata da un principio di equilibrio implicito nel sistema statale settecentesco. Tale principio garantiva che ogniqualvolta una ambiziosa potenza europea minacciava di conquistare e annettere i propri vicini, le sue azioni avreb­ bero finito col produrre un’alleanza delle altre potenze per contrastarla, dal momento che una seria minaccia a un qual­ siasi stato (da parte di una potenza ambiziosa in ascesa) poteva in breve diventare una minaccia per tutte le altre. La guerra non era quindi soltanto un male necessario all’inter­ no del sistema europeo ma anche un’indispensabile tutela per la sopravvivenza e l’indipendenza dei diversi stati euro­ pei. E in quanto tale, nonostante le distruzioni e gli sprechi che portava con sé, era una realtà della vita che gli uomini dovevano continuare a tollerare. Sia Rousseau (che a questo proposito concordava con St. Pierre) che Vattel erano insoddisfatti di questo quadro eccessivamente compiaciuto; in particolare, nonostante al­ tre nette differenze, entrambi diffidavano a ragione del pre­ supposto secondo il quale esisteva un equilibrio stabile fra i principali stati europei, conservato dall’uso o dalla minaccia della guerra. Contrariamente a quasi tutti i suoi contempo­ ranei, Rousseau sosteneva che la guerra fra gli stati europei era in sé un male sempre più grave, che era l’ostacolo prin­ cipale sulla strada delle riforme nazionali, che la Ragione esigeva la sua eliminazione, e che questo si poteva ottenere non con la tirannia tipica di tutti i grandi imperi, ma solo con la formazione di una forte federazione di stati europei. Egli però attenuava la sua conclusione ammettendo di non credere che i diversi stati europei si sarebbero sottomessi a un efficace governo federale; di conseguenza egli dichiarava insolubile il problema internazionale11. La posizione di Vattel era a prima vista maggiormente costruttiva e pratica12. Egli concordava con Rousseau sul fatto che la guerra era intrinseca al sistema di stati europeo ed era al tempo stesso un grave ostacolo allo sviluppo del commercio e della cultura in quegli stessi stati. La cosa migliore che si poteva fare a proposito della guerra, comun­ que, era circoscriverla o limitarla. Questo però esigeva che

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gli uomini e gli stati iniziassero col riconoscere la vera natu­ ra della guerra e i risultati che ci si potevano ragionevolmen­ te attendere da essa. Iniziamo con quest’ultimo punto: mi­ nore era il carattere distruttivo della guerra e minore il carattere vendicativo delle condizioni di pace imposte dal vincitore e maggiore sarebbe stata con ogni probabilità la durata e la certezza della pace che ne risultava; e una pace sicura, vantaggiosa e relativamente duratura è il solo fine razionale di ogni guerra. Vattel insisteva però sul fatto che la moderazione in guerra e al tavolo delle trattative esigeva che gli uomini abbandonassero innanzi tutto l’idea che alcune guerre, o alcune parti in ogni guerra, fossero in sé «giuste» o che ognuno dei contendenti in una guerra fosse autorizza­ to a considerare i suoi atti come «punitivi» in senso giuridi­ co. Al contrario, dal momento che ogni stato sovrano ha il diritto di muovere guerra per quelli che considera i propri interessi, tutte le guerre - e tutte le parti in causa in ogni guerra - sono ugualmente nel giusto. La vittoria e la sconfit­ ta sono soltanto realtà di fatto, risultati di un metodo del tutto arbitrario (irrazionale) di appianare quelle divergenze fra stati che non si riescono a risolvere con i metodi razionali del negoziato e dell’arbitrato. Dobbiamo comunque accet­ tare qualche metodo per appianare tali divergenze. E in un accordo di pace sensato, il vincitore e lo sconfitto iniziano col riconoscere il nuovo stato di cose determinato dalla guerra; e alla sua luce, e non in base a pretese falsamente legali, essi stringono quindi il miglior accordo possibile, che evidentemente favorisce il vincitore ma che non sia tale da spingere il vinto a impugnarlo alla prima occasione. In bre­ ve, quindi, la guerra era per Vattel una realtà e uno strumen­ to della vita politica a cui non si poteva sfuggire, ma si sarebbero dovuti persuadere i governi a usarli con estrema moderazione, sempre più raramente, anche se mai nell’inge­ nua speranza che se ne sarebbe potuto un giorno fare a meno. Nella sua teoria internazionale i debiti di Kant verso Rousseau (tranne che per ispirazione personale) erano mi­ nori di quanto egli immaginasse e quelli verso Vattel mag­ giori di quanto fosse disposto ad ammettere. Kant conveni­ va con Rousseau che la guerra era un male intollerabile e che si sarebbero dovuti intraprendere immediatamente dei passi 43

diretti a porre fine all’uso della guerra fra gli stati per affer­ mare quelli che essi ritenevano essere i loro diritti; un altro punto su cui Kant concordava con Rousseau era quello secondo il quale la nascita di una forte federazione europea, anche se fosse stata teoricamente in grado di porre fine alle guerre fra gli stati che vi aderivano, era praticamente impos­ sibile. Kant però giunse a comprendere che Rousseau aveva sperato in una soluzione troppo semplice e troppo immedia­ ta per un male politico dalla radici così profonde come la guerra. Egli concordava con Vattel su un punto importan­ tissimo, vale a dire sul fatto che solo confusione e danni potevano scaturire dal considerare ogni guerra come giusta o punitiva: la guerra in sé era «anti-legge» pur se inevitabile, e non era certamente un modo in cui persone razionali potevano pensare di far valere i propri diritti. Egli inoltre si avvicinava a Vattel quando ammetteva che il compito di affrontare il male della guerra sarebbe stato inevitabilmente lungo, lento e difficile. D’altra parte egli respingeva con decisione la concessione di Vattel secondo la quale ogni stato aveva il diritto di muovere guerra per far valere quelli che considerava i propri interessi e la conseguente afferma­ zione che la cosa migliore che si poteva ottenere per quel che riguardava la guerra era circoscriverla e limitarla, senza sperare vanamente di eliminarla dalla scena internazionale. In contrapposizione a queste posizioni di Vattel, Kant soste­ neva che il riconoscimento del fine della pace perpetua fra le nazioni era il primo passo necessario per ogni sicuro pro­ gresso verso un ordine internazionale legittimo e di conse­ guenza che credere alla possibilità di circoscrivere e limitare progressivamente la guerra senza accettare quel fine era un’illusione pericolosissima. Ecco, espresso nelle sue linee generali, ciò che Kant accettava e, cosa altrettanto significativa, ciò che rifiutava nelle teorie dei suoi due grandi predecessori. Ci troviamo oggi in una posizione che ci permette di riconoscere il con­ cetto nuovissimo e perfino rivoluzionario di diritto interna­ zionale che Kant avrebbe creato da quegli elementi trovati in Rousseau e in Vattel con i quali concordava, combinan­ doli però in modo tale che gli aspetti delle teorie dei suoi predecessori con i quali si trovava in disaccordo scomparis­ sero completamente dal quadro. Il concetto che ne risultava

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era di gran lunga troppo originale per essere pienamente apprezzato quando Kant lo presentò al mondo per la prima volta. E stato solo negli ultimi quaranta anni che si sono comprese chiaramente la sua audacia, la sua moderazione, la sua evidente praticità e la sua quanto meno permanente attinenza ai problemi internazionali. Ecco, come sorta di indicazione di quanto sto per esporre, quelli che mi sembra­ no i quattro punti salienti della sua teoria. In primo luogo Kant non era un pacifista ma piuttosto un legalizzatore appassionato, un profeta o evangelista di legalizzazioni progressive nei rapporti internazionali. In se­ condo luogo, nonostante la sua continua enfasi sulla neces­ sità della coercizione per far rispettare la legge aH’interno di ogni stato costituito, egli poneva ugualmente l’accento sul fatto che la coercizione utilizzata per far rispettare un ordi­ ne internazionale è assurda sia in termini logici che pratici. Un ordine internazionale può nascere soltanto quando alcu­ ni governi rinunciano liberamente al loro diritto di muover­ si reciprocamente guerra; e si può espandere solo quando altri governi, considerando i vantaggi (in termini di miglio­ ramenti economici e di maggiore sicurezza) derivanti da questa iniziativa, manifestano l’intenzione di unirsi a questo legame (foedus) di non-aggressione reciproca. In terzo luo­ go Kant riteneva - in modo paradossale e alcuni direbbero fanatico - che, per funzionare, un ordine internazionale si dovesse limitare al solo compito, della massima importanza, di mantenere la pace fra quegli stati che manifestavano le stesse opinioni tanto da scegliere di firmare un trattato di non-aggressione (sul modello degli Articoli preliminari da lui suggeriti). La totale non-interferenza negli affari interni di ogni stato firmatario sembrava a Kant una condizione preliminare essenziale per un’adesione fiduciosa da parte di ogni stato sovrano al trattato che egli proponeva. Kant, primo studioso sistematico dei rapporti internazionali, era quindi anche uno degli «statalisti» più risoluti nella storia del pensiero politico. Infine, Kant poneva il compito di creare un ordine internazionale mondiale aH’interno di una prospettiva storica a lunghissimo termine. Sarebbe stato un obiettivo soggetto a ogni genere di attacco, battute di arre­ sto e delusioni, che però potevano essere alleviate da due considerazioni. Kant era convinto che non ci fosse altra via 45

da seguire, nei rapporti internazionali, oltre a quella da lui presentata. Nel seguirla, quindi, gli uomini potevano essere certi di star facendo tutto il possibile per la realizzazione del loro dovere e della loro vocazione cosmopolita. E in senso più generale, gli uomini dovrebbero sempre ricordare che, come specie, essi sono caratterizzati dalla loro capacità di apprendere grazie ai loro errori e alla percezione del loro scopo ideale: vivere in modo giusto e in armonia con gli altri. In questo campo come altrove, quindi, dobbiamo fare ciò che riteniamo giusto, sperando che perfino i nostri erro­ ri, i nostri insuccessi e le nostre delusioni possano risultare alla lunga utili. Il legalismo kantiano Pur non essendo un pacifista, per Kant la guerra era il male peggiore che affliggeva la società umana e in un passo egli arriva perfino a descrivere la guerra come fonte di ogni male e di ogni corruzione morale13. Egli però non considera­ va la guerra come un male a cui è possibile fornire una cura assoluta e immediata, quale essa sia. Era la forma estrema del male generale presente nella natura umana - l’egoismo naturale - che doveva essere sottomessa in primo luogo all’applicazione delle leggi, non importa quanto rigida e imperfetta nella sua razionalità, e che solo in seguito si poteva indirizzare verso l’ideale politico della libertà legitti­ ma, aH’interno della quale la pura moralità sociale - gli uomini che considerano gli altri come fini, mai come mezzi - si sarebbe potuta almeno in parte realizzare. Mentre insi­ ste sul male insito nella guerra, Kant riconosce però che ogni cittadino dovrebbe prepararsi a difendere il proprio paese dall’invasione straniera14. In realtà egli sembra consi­ derare l’autodifesa (a livello nazionale così come a livello personale) come una reazione naturale, essenziale per la vita. In quanto tale essa è ammissibile, anche se non contri­ buisce in alcun modo alla causa della giustizia internaziona­ le. D’altra parte Kant identifica con la guerra la decisione volontaria di un governo di attaccarne un altro e la condanna in quanto totalmente ingiusta o palesemente «anti-legge». La forza dell’atteggiamento legalistico di Kant, che fino 46

a questo punto richiama la sua visione della fedeltà del cittadino allo stato, consiste nel fatto che per lui stimare in modo autentico qualcosa, ad esempio una personalità uma­ na o un qualsiasi diritto umano basilare, comporta l’obbligo di assicurare a quella persona o a quel diritto una condizione giuridicamente protetta, per quanto lo permettano le circo­ stanze e gli altri obblighi15. Quest’obbligo esige prima di ogni altra cosa che gli uomini formino delle comunità poli­ tiche - stati - e che obbediscano alle leggi emanate nel loro stato dal governo riconosciuto dai cittadini. La visione kantiana della fedeltà politica degli uomini al proprio stato si potrebbe descrivere appropriatamente come quella di un Rousseau pietrificato; è spicciativa, grigia e rigida in una misura che nessuno di noi oggi potrebbe accettare. Essa ha comunque il merito di soffermarsi su due punti che, pur essendo perfettamente conciliabili, pochi studiosi recenti di filosofia politica hanno ritenuto opportuno o hanno osato mettere in luce insieme. Si tratta innanzi tutto del fatto che una esigenza autentica del governo della legge comporta l’accettazione di un potere irresistibile nelle mani del gover­ no; d’altra parte, poi, l’esistenza di un governo valido esige che la maggior parte dei suoi sudditi, per la maggior parte del tempo, obbedisca alle sue leggi perché ritiene giusto farlo, non perché ritiene che rispettare una legge vada a proprio personale vantaggio. Kant pensava ovviamente a dei governi i cui compiti, principalmente di natura protettiva e punitiva, erano facilmente individuabili e relativamente co­ stanti, e che erano effettivamente minimi rispetto a quelli che quasi tutti oggi ci attendiamo da un governo. Nonostante questo, e in misura maggiore di quanto si considera general­ mente, Kant ammise la possibilità che per un governo nasca­ no sempre nuovi compiti col mutare delle circostanze, delle necessità e del livello di consapevolezza generale. E fra que­ sti mutamenti politici, gli sembrava ne fosse emerso uno di notevole importanza nell’Europa settecentesca che costitu­ iva ormai un dovere impellente per tutti i governi europei. Si trattava del compito di sostituire alla loro naturale illegalità (o alla loro situazione cronica di guerra o di preparazione alla guerra gli uni contro gli altri) un rapporto giuridico nel quale le divergenze sarebbero state risolte attraverso la me­ diazione e l’arbitrio e non con l’uso della forza e delle armi. 47

Il riconoscimento del secondo grande compito del go­ verno non fu però dovuto a una improvvisa illuminazione morale; la sua necessità e la sua urgenza si erano manifestate anche alle menti più cinicamente egoiste in seguito a diversi sviluppi storici: il sorgere degli stati nazionali sovrani, l’ac­ cresciuta efficienza delle amministrazioni statali a partire dalla metà del diciassettesimo secolo e i costi sempre cre­ scenti delle guerre, dovuti alla formazione di eserciti perma­ nenti. In questa situazione era naturale che gli uomini guar­ dassero con diffidenza alle nazioni europee intente in una guerra quasi ininterrotta e si rivolgessero con interesse a progetti per una pace duratura in Europa. Il progetto di Kant si distingueva da tutti gli altri che lo avevano precedu­ to perché univa una urgente esigenza morale di «azione immediata» a un riconoscimento politicamente accorto del­ la lunga e difficile lotta che tale azione richiedeva. I governi, egli sosteneva, avevano il dovere immediato di inaugurare la pace sotto forma di un ordine giuridico allo stato embrionale16, pace che avrebbe dovuto essere perpetua e che in seguito si sarebbe gradualmente estesa fino a che, infine, non avrebbe coperto l’intero globo. Solo se concepito in questo modo, l’antico desiderio di pace dell’umanità avrebbe avuto qui, ora, ovunque e per sempre una forma coerente, attuabile e al tempo stesso moralmente vincolante. Ma una pace intesa come perpetua non poteva essere inaugurata senza una revi­ sione del concetto di diritto internazionale posseduto dal­ l’intera umanità. La sua inaugurazione sarebbe stata quindi un vero inizio, una trasformazione creativa e rivoluzionaria nella storia del diritto così come in quella della politica. L’approccio «legalistico» di Kant alla politica, quindi, che aveva conseguenze così sgradevolmente restrittive trattando del problema della fedeltà dei cittadini allo stato, doveva rivelarsi invece una forza liberatrice nel campo dei rapporti esteri.

Legalismo e coercizione

Commentatori politici, filosofi e a volte i governi stessi cercarono una via d’uscita dalla successione ininterrotta di guerre con uno di questi due mezzi: immaginando o creando 48

vasti imperi all’interno dei quali ogni ostilità fosse repressa oppure progettando o partecipando a potenti federazioni di stati sovrani unite solo per la difesa reciproca e per quei compiti comuni che questa richiede. Quest’ultima alternati­ va era di particolare interesse per Kant dal momento che essa era stata di recente riproposta (anche se in forma poco convinta e senza molto calore) dal suo idolo Rousseau; Kant però la rifiutò con la stessa fermezza con cui rifiutava il raggiungimento della pace attraverso la costituzione di un impero17. I vasti imperi non risolvono il problema delle relazioni fra gli stati, ma si limitano a sostituirlo con una condizione di tirannia su vasta scala all’interno della quale, per la sua natura, i conflitti fra stati non possono nascere. Ora, dal punto di vista di chi intende ottenere una pace permanente, questa nuova situazione non costituisce un re­ ale miglioramento rispetto alla precedente. I vasti imperi, infatti, non riescono ad avere una fedeltà e un sostegno fortemente radicati e inevitabilmente si disgregano a causa dei bellicosi gruppi che ne fanno parte, per i quali il proble­ ma di creare un ordinamento giuridico si porrà esattamente come si poneva prima della costituzione dell’impero. La sottomissione a un vasto impero è in realtà una condizione ancor più lontana da quella richiesta dalla giustizia interna­ zionale rispetto alla tipica anarchia degli stati sovrani. Que­ st’ultima condizione mette in risalto quanto meno un pro­ blema urgente; la prima illude invece gli uomini inducendoli a pensare di averlo risolto. La seconda soluzione proposta, quella di una federazione di liberi stati, sembra più promet­ tente ma si rivela alla lunga altrettanto illusoria. Ogni gover­ no che aderisca senza riserve alla creazione di una forza congiunta, in grado di imporre la pace all’interno della fede­ razione, si metterà da solo fuori gioco, il che è l’ultima cosa che ci si può attendere da un governo: se infatti la federazio­ ne è abbastanza forte da far rispettare la pace, essa diverrà in realtà un superstato, che inevitabilmente finirà col calpesta­ re i diritti dei suoi membri. D’altra parte, se la federazione non è abbastanza forte, le inevitabili rivalità fra i suoi mem­ bri li ricondurranno ad una condizione di anarchia interna­ zionale. Il rifiuto da parte di Kant di entrambe le posizioni lo mette in difficoltà. Esse avevano chiaramente in comune la 49

certezza che con la coercizione si sarebbe potuta mantenere una pace duratura fra le società umane; e Kant non avrebbe potuto insistere con maggiore enfasi sul fatto che ciò che egli definiva «coercizione pubblica, legittima» era necessa­ ria per assicurare le libertà fondamentali nell’ambito di ogni singola entità politica. Stando così le cose, sarebbe sembrato naturale se egli avesse insistito con enfasi ancora maggiore sulla necessità di una coercizione legale, in qualche sua forma, per istituire e mantenere rapporti giuridici validi fra stati indipendenti che fino ad allora erano stati quasi sempre in guerra. Ma non lo fece. L’impraticabilità dei progetti della pace raggiungibile attraverso l’impero e della pace raggiungibile attraverso una federazione lo aveva persuaso che l’idea di conservare la pace per mezzo di stati sovrani non era altro che una chimera politica. Sotto questo aspetto Kant era giunto a ritenere che esisteva una asimmetria es­ senziale fra l’istituzione e la conservazione di una giusta costituzione all’interno di uno stato e l’istituzione e la con­ servazione di un giusto rapporto fra stati. Questo non signi­ fica che non ci fosse spazio per la forza nei rapporti fra gli stati. Al contrario, Kant ammetteva che, fino a quando l’or­ dinamento giuridico da lui proposto non avesse incluso tutti gli stati, si sarebbe sempre presentata la necessità di usare la forza per motivi di difesa contro aggressori contrari alla legge18. Kant pone però in particolare evidenza il fatto che l’uso della forza in questo senso, pur se sostenuto da altri alleati ugualmente amanti della pace, non è affatto costruttivo né contribuisce in modo specifico a far progredire la causa della pace perpetua. Un atto di guerra difensiva è giustificabile in quanto preserva uno stato di cose (relativamente) giusto, ma non lo è più se si prende come riferimento quel genere di rapporto fra stati per la cui attuazione la Ragione esige esplicitamente che tutte le nazioni si adoperino.

Confederazione, ma per quali fini? La proposta concreta di Kant prevede che gli stati si uniscano per formare una confederazione con uno scopo strettamente limitato. Egli definisce ciò che ha in mente in vari modi: «unione federativa», «società o confederazione»

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e «congresso di stati permanente»19. Ma i membri di questa confederazione kantiana, che cosa sono obbligati a fare - e a non fare? A questo proposito le sue opinioni variavano, e variava­ no molto più di quanto egli fosse consapevole, nei suoi diversi scritti sulla pace. In Per la pace perpetua, l’obiettivo principale è, in modo del tutto esplicito e innegabile, la fine di ogni aggressione fra potenze che sottoscrivano il suo tratta­ to di non aggressione permanente e reciproca. Ma in altri importanti scritti, alcuni anteriori e altri successivi a Per la pace perpetua, che trattano di diritto internazionale e della possibilità della pace, Kant scrisse come se quell’obiettivo «principale» di cui abbiamo detto si dovesse piuttosto con­ siderare la conseguenza di qualcosa di molto diverso, vale a dire di una confederazione per la difesa comune contro l’aggressione esterna a stati che avevano sottoscritto il trat­ tato. Nel primo caso l’obiettivo principale era la pace fra le nazioni che avevano firmato il trattato; nel secondo caso esso sembrerebbe la difesa della pace per quelle nazioni che hanno sottoscritto il trattato, contro le aggressioni esterne. Per molti commentatori novecenteschi di Kant, un modo semplice per riconciliare queste vie verso la pace apparente­ mente assai discordi fu il seguente: la seconda opinione (forse già presagita in Idea di una storia universale del 1784 e quasi certamente implicita nella prima parte di La metafi­ sica dei costumi del 1797) mostra l’aggressività della confe­ derazione proposta, il segreto della sua validità e della forza della sua crescita; laddove la prima opinione, pur se vera, esprime quella che è di fatto una verità per definizione. Infatti, se i confederati non riescono a conservare la pace fra loro, come potranno resistere in modo efficace e respingere gli aggressori esterni? Ma in realtà Kant non sviluppa mai questa seconda opinione, né se ne trova traccia in Per la pace perpetua, l’unica opera nella quale Kant si occupa direttamente ed esclusivamente del nostro argomento. La forza reale - se non l’aggressività - della federazione da lui propo­ sta consisteva nella sua capacità di mantenere ed estendere la pace fra un certo numero di potenze che la pensassero allo stesso modo. Si dimostrerà così che l’arbitrato è l’unica maniera moralmente accettabile per gli stati di difendere i propri diritti e che la spiccata tendenza alla non aggressione 51

paga - in senso affatto materiale - in un mondo nel quale la guerra si dimostra sempre più costosa e distruttiva. Questa posizione prevede indubbiamente che le potenze firmatarie di Kant possano impegnarsi in azioni difensive congiunte contro gli aggressori e che debbano avere delle milizie citta­ dine contro eventuali rischi d’invasione. Tali atti, però, pur se giustificati in quello che Kant definisce senso «tempora­ neo», non contribuiscono in modo diretto alla causa della pace perpetua, che è dovere preciso di ogni governo stabili­ re ed espandere. Un certo numero di precetti kantiani, espressi in forma di massime, di tesi o di critiche, esplicitano con estrema chiarezza che per lui la pace intesa come perpetua è qualco­ sa che si deve propagare da una garanzia dichiarata di non­ aggressione, sostenuta con successo inizialmente da alcuni stati che professano la stessa opinione. Innanzi tutto abbia­ mo in Kant una violenta condanna dei giuristi che si erano occupati in precedenza di rapporti internazionali, come ad esempio Grotius, Pufendorf e in modo specifico Vattel, e che avevano cercato di persuadere gli stati europei ad ac­ contentarsi di conflitti rigidamente limitati, come condizio­ ne necessaria di accordi di pace che si potevano ritenere ragionevolmente duraturi. Kant non vuole saperne di que­ sto approccio insidiosamente «consolatorio» al problema della pace20 e non, come ci si potrebbe aspettare, a causa dell’enorme difficoltà insita nel mantenere ogni conflitto, una volta iniziato, all’interno dei limiti proposti, quanto piuttosto perché, nella ristrutturazione del diritto interna­ zionale da lui proposta, ogni cosa dipende e conduce al­ l’idea che «la guerra non è assolutamente un modo in cui si possano far valere i propri diritti», dato che essa equivale all’accettazione irrazionale della legge del più forte ed è un insulto all’esigenza della Ragione, secondo la quale i rappor­ ti fra gli stati debbono poggiare su basi giuridiche. Quando il principio che informa il comportamento degli stati è inve­ ce quest’ultimo, è evidente che una pace cercata e sostenuta in piena libertà da entrambe o da tutte le parti in causa è un punto di partenza di gran lunga migliore di una pace che dipende dalla forza di un’alleanza nata a scopi difensivi per respingere gli aggressori, che a loro volta potrebbero non accettare la lezione della sconfitta. A questa tesi viene dato

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ulteriore appoggio da un concetto espresso con forza nella prima parte della sua Metafisica dei costumi. Se il fulcro delle sue proposte fosse dato da un’alleanza difensiva effica­ ce, sarebbe difficile negare ai confederati il diritto di co­ stringere altre potenze a unirsi a loro e di costringere ciascu­ no dei suoi membri che intendesse uscire dall’alleanza a rimanervi. Kant però era decisamente incline a negare il primo di questi diritti e nega espressamente il secondo21; entrambi infatti comporterebbero una violazione dei diritti sovrani di ogni stato ed entrambi condurrebbero dal tenta­ tivo paradossale di realizzare la pace al tentativo contraddit­ torio di conservare o rafforzare il meccanismo che dovrebbe conservare la pace con la minaccia o l’impiego della guerra. Altrettanto notevole, da questo punto di vista, è la ver­ sione fornita da Kant di quello che dovrebbe esigere un valido diritto internazionale da chi vi aderisce, prima di ogni altra cosa la decisione di abbandonare la guerra a favore dell’arbitrato nella composizione delle proprie dispute. Da questo fatto si deduce chiaramente che la sua visione di pace perpetua non è quella di un mondo in cui la pace viene conservata da una potenza confederata centrale, ma quello di un mondo nel quale ogni stato manifesta la propria indipendenza adempiendo Punico atto di imposizione che il concetto di diritto internazionale di Kant prevede22. Kant auspica un mondo nel quale sia legalmente accettabile che ogni cittadino di ogni stato possa visitare il territorio di ogni altro stato con l’intenzione di concludervi degli affari. Ma se la forma o gli effetti dei commerci da lui svolti dovessero finire col violare le leggi dello stato visitato, allora si devono costringere i visitatori a lasciare il paese: e dovrebbe essere compito dello stato ospite assicurare che i visitatori se ne vadano - e se possibile sani e salvi. (Dobbiamo ricordare che fra i visitatori a cui pensava Kant c’erano aspiranti colo­ nizzatori e aspiranti commercianti di schiavi, ma anche per­ sone interessate a scambi commerciali e culturali più encomiabili.) Per Kant quindi, come per Adam Smith e i suoi discepoli, il libero movimento di uomini e beni costitui­ va un aspetto essenziale di un mondo pacifico e civilizzato, ma soggetto sempre alle leggi e al potere di farle rispettare degli stati esistenti. Il suo ideale cosmopolita non è quindi né uno stato mondiale, come tanti dei suoi commentatori 53

hanno affermato senza alcun fondamento, né un’utopia anar­ chica nella quale gli stati non esistano più. Esso è piuttosto la speranza o la promessa di un mondo nel quale i diritti dell’individuo arrivino a trascendere i limiti della nazione alla quale egli appartiene, fatti rispettare e ovviamente an­ che limitati non da un’autorità che si pone al di sopra delle nazioni ma dal reciproco riconoscimento fra gli stati confederati dei diritti e doveri di ciascuno di essi nei con­ fronti dei cittadini delle altre nazioni. Tutto ciò non ha niente a che vedere con impegni o piani di alleanza recipro­ ca per la difesa o l’attuazione della pace, ma è piuttosto un primo passo per garantire rapporti concretamente pacifici fra quegli stati indipendenti che mostrano rispetto per la legge entro i propri confini e nei loro rapporti esteri. Quali sono le garanzie di una pace perpetua?

La continua insistenza di Kant sul fatto che la confede­ razione da lui proposta non doveva essere uno «stato inter­ nazionale», che i suoi membri sovrani dovevano rimanere come erano prima di aderire alla confederazione, e che essa escludeva espressamente l’idea di un’imposizione della pace (in particolare per quel che concerneva gli eventuali stati che avrebbero voluto staccarsi dalla confederazione), fa sor­ gere logicamente una domanda: che cosa, oltre al riconosci­ mento deH’inaccettabilità morale della guerra, terrà insieme i suoi membri quando, inevitabilmente, sorgeranno fra essi divergenze, rivalità e sospetti? Questo ci conduce alla cosid­ detta «garanzia della pace perpetua» di Kant, che presenta due aspetti decisamente sorprendenti. Innanzi tutto, come Kant afferma chiaramente in diversi punti, egli non sta of­ frendo una garanzia infallibile che impedisca la disgregazio­ ne della sua confederazione - e sia detto per inciso, egli non offre alcuna garanzia che essa non sarà soffocata sul nascere da potenze militariste che detestano ogni idea o progetto di pace perpetua. Una componente essenziale dell’idea kantiana invece è che la garanzia di successo che può offrire per la sua federazione deve dipendere, in ogni fase del suo sviluppo, dalla possibilità continuamente tenuta presente, se non dalla reale minaccia o dal pericolo, che i suoi membri ricadano 54

nell’abitudine di una guerra irresponsabile. Torneremo su questo punto, che ovviamente si ripresenta nelle teorie mo­ derne della deterrenza, fra breve. Ma in secondo luogo - e si tratta di qualcosa che Kant non riesce a mettere bene in evidenza - la sua cosiddetta «garanzia» sarebbe stata meglio descritta o almeno introdotta come una confutazione del­ l’obiezione naturale che la sua confederazione, mirando alla graduale e difficile espansione della pace, è destinata a di­ sgregarsi, dati l’egoismo, la meschinità, la tendenza all’in­ ganno e alla sfiducia inestirpabili e dominanti nella natura umana. La sua garanzia è in realtà un equivalente quasi perfetto, nell’ambito del suo pensiero politico, delle sue «difese», e non «prove», delle idee di Dio, di libertà e di immortalità che ritroviamo nei suoi scritti metafisici (o se preferiamo antimetafisici). Kant sosteneva in questi ultimi che i limiti necessari della conoscenza umana rendevano impossibile, ad esempio, la prova della realtà della libertà, ma ugualmente escludevano ogni possibile confutazione della sua esistenza; e su questa base egli procede affermando che se e dal momento che alcune necessità morali ci spingono ad agire come se fossimo sempre liberi di scegliere nel modo giusto, siamo dunque autorizzati a credere che (anche se non potremo mai sapere o comprendere come) possediamo una libertà morale. La stessa cosa avviene per ciò a cui Kant ha scelto di dare il nome infelice di «garanzia della pace perpetua». E il modo che egli sceglie per mettere particolar­ mente in evidenza, contro chi trova nella natura umana ostacoli insormontabili al progresso politico, che tali ostaco­ li si possono sempre considerare delle sfide o dei punti di partenza necessari a ogni tentativo umano razionale, e che questa prospettiva è in realtà il solo modo nel quale si può dare un senso a quel poco che sappiamo del progresso poli­ tico dell’umanità. Per rendere più esplicito quest’ultimo punto, Kant ac­ cetta la visione tradizionale dell’uomo come essere in parte bestiale e intrinsecamente egoista, in parte razionale e ri­ spettoso della legge. Queste ultime facoltà di cui è dotato, ovvero quelle razionali, pur se passibili di uno sviluppo limitato in ogni individuo, hanno ugualmente possibilità illimitate di sviluppo all’interno della specie presa nel suo insieme. Ma esse possono agire soltanto attraverso le esigen55

ze e le spinte della nostra natura animale, che è lungi dall’es­ sere adattata in modo ideale all’ambiente circostante e che avvicina costantemente la specie al rischio dell’autodistru­ zione. Sono i pericoli, i momenti critici, i conflitti e le ano­ malie della vita dell’uomo che suscitano naturalmente nel­ l’umanità indolente e abitudinaria l’ingegnosità e l’inventi­ va, la chiarezza di vedute e il rispetto per la giustizia, tutti segni caratteristici della razionalità umana23. Ma la consape­ volezza astratta dell’ingiustizia della guerra, ad esempio, o delle cause principali della guerra o ancora dei mezzi prin­ cipali con cui tali cause si possono sviare o prevenire, non sarà mai sufficiente a produrre la pace fra le nazioni. L’ele­ mento razionale nell’uomo, come osserva Kant con amarez­ za, è tanto ammirevole in sé quanto è impotente nella prati­ ca24. Solo quando la guerra diverrà palesemente più distrut­ tiva e più dispendiosa, gli uomini saranno spinti a fare i primi, difficili passi verso una pace permanente. Il carattere generale di questi passi sembrava a Kant perfettamente evi­ dente; non c’era alcuna difficoltà nel comprendere cosa si doveva tentare, e a cosa si doveva rinunciare, se si voleva inaugurare una pace intesa come perpetua. (L’accettazione degli Articoli preliminari da parte di due o tre potenze avrebbe dato inizio al suo progetto.) Ma Kant riconosceva chiara­ mente che il compito di portare le diverse nazioni umane a realizzare le iniziative e le concessioni necessarie e ad appog­ giarle una volta realizzate sarebbe stato lungo e faticoso, uno degli ultimi problemi che la razza umana avrebbe risolto25. E anche quando poteva sembrare che esso fosse stato risolto, vale a dire quando la libera confederazione di Kant fosse giunta a comprendere tutti gli stati e le nazioni esistenti, sarebbe rimasta comunque la possibilità di incomprensioni e di ricadute spietate e irresponsabili nell’egoismo e nella guerra. Eppure, in modo paradossale, è solo la consapevo­ lezza di questo pericolo incombente a sostenere l’esigenza da parte della Ragione che i diritti degli stati vengano difesi con mezzi legali, il che esclude necessariamente l’uso della guerra.

E tale quindi la struttura fondamentale del pensiero di Kant relativo ai rapporti internazionali. Cerchiamo ora di darne una breve valutazione, iniziando col mettere in evi56

denza la sue carenze e le sue debolezze, le sue esitazioni e le sue incoerenze più evidenti. Fra esse, citerei per prima la limitatezza, il provinciali­ smo temporale e locale della sua visione politica generale. Kant scrive come se tutte le guerre fossero conflitti per profitti locali fra stati europei settecenteschi, generati dal­ l’avidità dei governi più che dei popoli. Sembra quasi che non abbia mai sentito parlare delle invasioni massicce da parte di intere popolazioni, di guerre fra popoli o città tese a sterminare o a ridurre in schiavitù gli avversari per motiva­ zioni economiche, demografiche, religiose o etniche. Egli inoltre non fa alcuna menzione delle guerre sociali o civili, anche se parla, con evidente avversione, delle guerre colo­ niali di conquista combattute dalle potenze europee nelle parti più arretrate del globo. Ed è ugualmente cieco di fronte al fatto che le guerre, fornendo una giustificazione per il potenziamento dell’esercito, hanno avuto come scopo quello di mettere al riparo molti regimi dalle rivolte popola­ ri. In breve, per Kant le guerre riguardano sempre dei go­ verni moralmente deprecabili che ordinano alle loro truppe di attaccare dei nemici moralmente neutrali e di occuparne le terre, anche se tali nemici avrebbero probabilmente com­ messo aggressioni dello stesso tipo se ne avessero avuto l’occasione. La prima carenza di Kant nella trattazione del­ l’argomento di cui ci occupiamo è quindi innegabile. Am­ metterla significa riconoscere che il problema dell’inaugura­ zione e dell’espansione di relazioni pacifiche fra gli stati è una questione di gran lunga più complessa di quanto una rapida lettura di Per la pace perpetua potrebbe indurre a credere. D’altro canto, si dovrebbe tenere a mente che Kant insiste continuamente sulle difficoltà, le delusioni, i duri sforzi e soprattutto il tempo che il suo progetto per la pace perpetua deve inevitabilmente comportare. In secondo luogo, pur concedendo che le guerre di dife­ sa contro un’aggressione devono essere giustificate fino al momento in cui la sua federazione non abbraccerà tutte le nazioni, Kant non traccia alcuna distinzione fra le guerre di natura circoscritta o limitata, come quelle che potrebbero avvenire in uno stato di pace accettabile e durevole, e quei conflitti violenti che si trasformano in massacri e rendono schiavi interi popoli o danno vita a faide interminabili fra

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stati. Secondo Kant, tutte le guerre, senza eccezione, vengo­ no condannate dalla Ragione perché sono evidentemente contro la legalità. A questo proposito egli potrebbe apparire rigido, dogmatico e poco realistico se lo paragoniamo a Vattel, che sosteneva con tanta convinzione l’esigenza di guerre limitate, alla fine delle quali ci si potevano ragione­ volmente attendere accordi duraturi. Si dovrebbe però ri­ cordare che era intenzione di Kant proporre la pace perpe­ tua inizialmente fra alcune nazioni dalle stesse inclinazioni e solo alla fine fra tutte le nazioni, come un nuovo ideale politico, paragonabile per importanza alle recenti dichiara­ zioni dei Diritti Umani. E in questa luce che si deve leggere la sua incondizionata condanna della guerra. In terzo luogo, la descrizione fatta da Kant della struttu­ ra necessaria per inaugurare ed espandere la pace è ridotta ai minimi termini. Da un certo punto di vista, questo è abbastanza naturale. Tutta la filosofia politica costruttiva è necessariamente programmatica. La filosofia non offre solu­ zioni pratiche o dettagliate ai problemi politici. Il suo com­ pito è quello di rendere visibili gli schemi, la geometria e i contorni logici delle aree principali all’interno delle quali sorgono i problemi politici, così che si possa infine concor­ dare sui tipi di soluzione che essi ammettono. Questa rispo­ sta non può però giustificare totalmente Kant per quel che riguarda l’obiezione avanzata, che pone anche problemi di principio. Kant si affida alla mediazione e all’arbitrato per la risoluzione di conflitti fra gli stati, ma questo presuppone con eccessiva facilità la possibilità in tali casi di risoluzioni legali e accettabili. Gli accordi o le decisioni prese confor­ memente alla legge in questo settore, o comunque in ogni settore, saranno rispettati se mancherà loro l’appoggio della forza o della minaccia della forza? Forse la maggior parte di noi rispetterà la legge per la maggior parte del tempo senza aspettare che essa venga fatta rispettare con la forza, ma ci sarà certamente qualcuno che non la rispetterà sempre e comunque. Per tornare alla politica internazionale, se si può ammettere che le potenze più deboli accettino accordi giu­ ridici poco graditi, dal momento che in caso contrario con­ dizioni ancor più dure potrebbero essere imposte loro dagli stati confinanti più forti, come possiamo attenderci che le potenze più forti si inchinino alle decisioni di un arbitro o di 58

un tribunale fisicamente inerme? Più in generale, ogni volta che le parti in conflitto accettano una risoluzione conforme alla legge o comunque, come conseguenza di una mediazio­ ne, esse raggiungono un compromesso o stringono un ac­ cordo, non c’è sempre sullo sfondo il pensiero di una forza più grande, di un potere che sia in grado di farlo rispettare, a costituire un fattore di decisiva importanza nel produrre tale risultato? Quest’ultimo punto suggerisce comunque che la nostra critica si è spinta troppo oltre. Kant infatti, con la sua visio­ ne decisamente realistica della vita umana, sarebbe stata l’ultima persona al mondo a suggerire che ci si sarebbe potuti un giorno liberare della rivalità, delle rivendicazioni e delle controrivendicazioni, delle alleanze di potenti inte­ ressi, delle pressioni di parte e, di conseguenza, di disgrazie e di ingiustizie particolari di ogni sorta. La sua proposta, comunque, è rivolta espressamente contro una forma intol­ lerabile di disgrazia e di ingiustizia, ovvero la guerra; e ancor più espressamente contro la pretesa che la guerra si possa considerare un metodo legittimo per appianare le dispute fra gli stati. A questo proposito, sono due le cose che biso­ gna tenere bene a mente. Innanzi tutto le relazioni interna­ zionali, ai tempi di Kant, erano insieme molto meno svilup­ pate e molto più spietate e cruente di quanto non siano oggi. Forme di pressione fra gli stati meno spietate e cruente - il boicottaggio economico, ad esempio, o la mobilitazione dell’opinione pubblica - non erano ancora in uso; di conse­ guenza la guerra e la minaccia di guerra erano i metodi principali con i quali venivano avanzate e difese le rivendicazioni degli stati. Respingere la guerra, o piuttosto tacciarla di essere del tutto ingiusta e antilegale significava quindi denunciare la concezione corrente dell’ordine inter­ nazionale come intollerabile per principio. Tale denuncia implicava un nuovo inizio, un nuovo ordinamento, l’apertu­ ra di relazioni fra stati basati sulla legge al posto di un sistema fondato sulla guerra e mascherato da qualche orpel­ lo legalistico. E fino a che non ci sarà questo nuovo inizio, fino a che il diritto di muovere guerra non sarà abiurato da almeno due o tre stati dalle stesse inclinazioni e non ci si affiderà all’arbitrato, ogni discorso sul miglioramento delle sorti dell’umanità sarà fiato sprecato. In secondo luogo, 59

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dobbiamo ricordare che la fiducia di Kant nell’arbitrato presupponeva una generale ammissione del costo sempre più alto della guerra e del suo carattere distruttivo. In effetti egli pensava a queste remore verso la guerra in termini meno terribili di quelli a cui ora siamo abituati, ma l’intuizione che ebbe scegliendole come condizioni preliminari necessarie per la pace perpetua è tutta a suo merito. Egli riteneva che gli uomini sarebbero stati costretti ad accettare un nuovo ordine internazionale, spinti però dalla Natura - dalle con­ seguenze naturali delle guerre sempre più violente - e non dalla volontà o dalle armi degli uomini. Il quarto punto è più generale: la «garanzia della pace perpetua» di Kant, che non è altro che l’applicazione della sua «filosofia della storia» al suo progetto, richiede indub­ biamente un’attenzione molto maggiore di quella che le è stata data finora. Esaminarla dettagliatamente, però, ci por­ terebbe decisamente fuori strada rispetto al nostro argo­ mento. Mi limiterò pertanto a due osservazioni, una in dife­ sa di questo aspetto del pensiero di Kant e una di critica ad esso. Anche se si possono trovare dei momenti in cui il linguaggio di Kant suggerisce una visione provvidenziale alquanto ingenua, come quando parla di un «piano segreto della Natura» che dovrebbe assicurare il progresso dell’uo­ mo con mezzi che si trovano in totale contrasto con le austere esigenze della Ragione Pratica pura, l’incedere del suo pensiero è qui più efficace di quello di ogni altro filoso­ fo che abbia basato una filosofia ottimista della politica sull’interpretazione del passato politico dell’umanità. In primo luogo, Kant non ritiene né pretende di dimostrare che il progresso umano è stato costante e che continuerà in eter­ no. Egli invece afferma che abbiamo diritto di fare progetti e agire come se così fosse, per sostenere i nostri tentativi e fare in modo che così sarà. Inoltre, anche se la sua termino­ logia è a volte ingenua e anche un po’ ridicola, la sua visione politica è qui particolarmente efficace. L’azione politica è sempre per sua natura una sorta di motore a due tempi: esso richiede il riconoscimento di verità atemporali - quelle che Kant chiama esigenze della ragione - relative al giusto rapporto fra gli uomini e le società, ma anche l’individuazione di ciò che è in atto da un punto di vista politico e di ciò che non lo è, di ciò che è possibile, opportuno, degno di essere 60

rivendicato e per cui vale la pena darsi da fare in un deter­ minato periodo e in un determinato luogo e di ciò che non 10 è, di ciò che è sciocco, un vicolo cieco o semplicemente troppo letale da avvicinare. Il legalismo moralistico di Kant corrisponde al primo tempo del motore della politica: la sua nozione, espressa in modo singolare ma particolarmente acuta, del «piano segreto della Natura», o del modo in cui la «socialità asociale» dell’umanità può contribuire a stimolare le sue facoltà razionali e a far progredire il suo destino razionale, corrisponde al secondo tempo. Ne risulta una interpretazione ipotetica della storia e del destino umani, che non fa niente per adulare l’umanità ma fornisce comun­ que una struttura all’interno della quale le alte esigenze della Ragione nei confronti degli uomini assumono un sen­ so, senza che venga offerta una dilazione o un’assicurazione di successo. Kant non presenta comunque alcuna chiara e coerente spiegazione del ruolo o dei ruoli specifici della Ragione all’interno del «piano segreto della Natura». Il suo pensiero si sposta fra le seguenti posizioni: in primo luogo, la Ragione Pratica di per sé è impotente in campo politico, ovvero anche se stabilisce gli obiettivi dello sforzo razionale del­ l’uomo, essa deve attendere che il tortuoso operare del pia­ no della Natura li realizzi26; in secondo luogo, per contribui­ re al piano della Natura, non è necessaria soltanto tutta l’abilità inventiva dell’umanità (che deriva dalla Ragione Teoretica), ma anche grande fermezza e sapienza umana (che derivano dalla Ragion Pratica)27; e infine in alcune circostanze particolari (Kant cita ad esempio con ottimismo 11 modo in cui le menti generose di altri paesi hanno accolto la Rivoluzione francese) i precetti della Ragion Pratica pos­ sono agire «come una profezia che si realizza da sola» e dimostrano una facoltà autonoma che permette di rafforza­ re la loro presa generalmente debole sulla immaginazione e la condotta degli uomini28. L’incertezza di Kant nell’aderire a una di queste posizioni riflette le difficoltà e le carenze più profonde che sono al centro del suo sistema filosofico. Ma nessuno, tranne un pazzo o un metafisico convinto, potreb­ be attendersi una risposta chiara a una domanda indubbia­ mente fondamentale nella vita e nella pratica umana. Ci sono momenti in cui è giusto riconoscere l’impotenza della 61

Ragione, occasioni in cui essa ci sembra indispensabile e altre in cui possiamo rivolgerci a buon diritto ad essa per la nostra salvezza. Quanto detto ci conduce a parlare dei meriti del proget­ to di Kant per la pace perpetua. Essi si basano su un certo numero di intuizioni che, quando Kant si sforzò per primo di esprimerle, erano in largo anticipo sui loro tempi; certa­ mente nessun pensatore più tardo sembra aver compiuto il tentativo di considerarle nuovamente come quell’unità che esse indubbiamente formavano nella filosofia del Kant più anziano. È sorprendente quanto queste intuizioni siano di­ ventate pertinenti e convincenti alla luce degli sviluppi in­ ternazionali del nostro secolo. Questa non è una prova della loro correttezza, ma almeno fa di esse un punto di partenza utile per una riflessione sul sistema internazionale. Abbia­ mo innanzi tutto la nozione che anche se la pace intesa come perpetua è un compito politico riconosciuto solo di recente, secondo logica essa sarebbe implicita da sempre nell’idea dell’umanità come singola comunità morale e in questo sen­ so essa è un imperativo per tutti gli uomini e più direttamen­ te per tutti i governi di oggi, a partire da ora e per un concepibile futuro. A questo proposito, si potrebbe dire che Kant ha fatto all’ideale stoico-cristiano dell’unità dell’uma­ nità il complimento supremo di prendere seriamente le sue conseguenze politiche. Inoltre abbiamo le nozioni successi­ ve che la pace così concepita, come ricerca di giustizia fra gli uomini attraverso la giustizia fra stati, sia qualcosa che deve ancora essere inaugurato; che tutti i sistemi internazionali a noi noti sono quindi fondamentalmente dei sistemi predi­ sposti per la guerra e che tutte le difese che ne sono state fatte, perfino quelle di legislatori internazionali di nobili sentimenti, non sono state altro che difese della guerra; che intesa in questo senso la pace fra gli stati è al tempo stesso un’esigenza della Ragione e un’esigenza che gli uomini for­ mino stati e appoggino governi per l’applicazione della giu­ stizia (o per la protezione dei diritti fondamentali); che il tipo di patto che ci si può attendere razionalmente che funzioni fra gli stati deve comunque fondarsi su princìpi del tutto differenti da quello che assicura (in una certa misura) giustizia e sicurezza all’interno di quegli stati, e che quindi l’idea di un impero globale o di una forza di polizia 62

superstatale o internazionale non fornisce alcuna soluzione al secondo grande problema della politica; che l’impossibi­ lità di realizzare un sistema internazionale sicuro in modo permanente non rappresenta un’obiezione valida alla sua necessità morale e razionale, anzi, la possibilità permanente del suo fallimento fornisce un motivo essenziale per operare in modo coscienzioso al fine di conservarlo; che se le esigen­ ze della Ragione Pratica (morale) impongono e definiscono l’obiettivo della pace fra le nazioni, esse evidentemente non bastano a ottenerla; e che un contributo a questo obiettivo può essere dato non tanto da considerazioni di interesse o utilitaristiche, ma dal riconoscimento generale della condi­ zione cronica di «socialità asociale» dell’umanità e degli incredibili vantaggi che si possono ottenere sfruttando quel­ le ambiguità della natura umana che Kant ascrive, forse per ingenuità o forse per gioco, al «piano segreto della Natura». Espresso in modo più concreto, quest’ultimo concetto equi­ vale al fatto che, data una pluralità di stati sovrani e data la natura umana così come la conosciamo, l’intesa volontaria fra tutti gli stati per rinunciare alla guerra e sostituirla con varie forme di arbitrato o di accordo sarà possibile solo quando la guerra sarà diventata intollerabile, anzi inconcepi­ bile, non solo dal punto di vista morale ed economico, ma, come aggiungeremmo noi oggi, anche da quello biologico. A saldare tutti questi concetti, troviamo la tendenza dominante nella tarda filosofia kantiana, la sua insistente spinta a esplorare ogni area dell’esperienza umana nella quale si possa celare una forma razionalmente accettabile di teleologia e nella quale il divario postulato da Kant fra Ne­ cessità Naturale e Libertà Razionale possa essere superato in modo appropriato. Anche se questa tendenza non è espli­ cita in Per la pace perpetua come invece avviene ad esempio nell’ultimo libro pubblicato da Kant, Il conflitto delle facol­ tà, la sua influenza sulla prima delle due opere è innegabile. Nonostante tutte le peculiarità, la pedanteria, la discontinuità e l’apparente incoerenza di Per la pace perpetua, Kant si occupa costantemente del rapporto fra la coscienza raziona­ le dell’individuo che pensa liberamente e la storia della razza, tragicamente cieca e incostante, spesso indirizzata in modo esecrabile, al quale l’individuo appartiene, non solo in senso fisico e culturale ma anche per quel che concerne le 63

sue facoltà e le sue attività più elevate. In questo modo Kant riuscì a presentare l’obiettivo della realizzazione della pace perpetua, al pari di altri obiettivi essenziali deH’umanità, fondamentalmente come una nuova creazione che l’uomo fa di se stesso, dei suoi mezzi di sussistenza, del suo ambiente, delle sue istituzioni, delle sue norme etiche e scientifiche, considerati tutti come casi particolari dell’assioma secondo il quale Tinteresse proprio dell’umanità è l’uomo. E in que­ sto senso si può affermare che Kant, il quale secondo la battuta di Heine non aveva mai avuto una vita propria, si trovò nelle sue opere più tarde più vicino al centro della vita umana della maggior parte di coloro che avevano cianciato e predicato sul modo in cui arrivarci. Contro questa elevata pretesa si potrebbe obiettare che il progetto per la pace perpetua di Kant non era in sé né originale né unico come io ho sostenuto e che in particolare, nonostante divergenze profonde per quel che concerne le fondazioni morali, è sorprendentemente simile a quello ela­ borato, in modo ovviamente del tutto autonomo, da Bentham. Entrambi i pensatori si soffermano sul fatto che il migliora­ mento delle relazioni internazionali non può essere ottenuto o mantenuto con la forza, ma deve fondarsi sullo sviluppo di un’opinione pubblica civile. Ed entrambi uniscono a questa intuizione una costante enfasi sulla necessità della forza per istituire un ordine giuridico all’interno di particolari stati. Qual è allora, a parte le diverse inclinazioni filosofiche, la vera differenza fra i due pensatori? Non sono entrambi fondamentalmente liberali - dei liberali particolarmente ottimisti - nella loro posizione rispetto alle questioni inter­ nazionali? Rispondo dicendo che anche se entrambi erano certamente degli amanti della libertà, la serietà di Kant era indubbiamente di tipo più profondo e penetrante. Si è detto a ragione che il grande risultato ottenuto da Bentham è stato quello di rendere pratica la moralità, nel senso che essa deve condurre a riforme politiche, giuridiche ed economiche. In campo internazionale, invece, Bentham fece l’errore di pen­ sare che la riforma potesse essere lasciata agli «affari», ovve­ ro a un mercato internazionale che operasse liberamente. La posizione di Kant era del tutto diversa: si trattava di liberalismo, non nei suoi primi, euforici passi in avanti ma di un liberalismo già prematuramente avveduto, cauto, contri-

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to, eppure del tutto risoluto, pronto a resistere fino alla fine, e convinto che negli affari internazionali, come forse in altre aree specifiche dei contatti e dei conflitti umani, la realizza­ zione della pace si doveva lasciare all’esperienza imperfetta e alla razionalità sempre dubbia delle parti in causa, perché ogni tentativo di far rispettare la pace, concepita come un ordine giuridico fra stati indipendenti, poteva significare soltanto un ripetersi della guerra. Quindi, mentre a Bentham il futuro delle relazioni internazionali appariva simile a una placida navigazione, a Kant esso suggeriva viaggi durissimi inevitabili, imperativi, ma con qualche speranza di salvezza - attraverso un mare letteralmente infinito. Infine, vorrei soffermarmi brevemente sulla struttura filosofica all’interno della quale, nonostante i suoi sforzi di divulgazione, Kant ha inevitabilmente sviluppato il suo pro­ getto per una pace perpetua. Egli cercò di relegare i notevoli risultati che abbiamo indicato in una singola categoria, ov­ vero quella delle esigenze e delle necessità della Ragione (scritta con una R più che maiuscola). La Ragione sembrava a Kant, come ad altri pensatori illuministi minori, una chia­ ve magica, capace non soltanto di dischiudere tutti i segreti del mondo fisico, ma anche di imporre un accordo razionale (anche se non collaborazione e lealtà affidabili) a tutti colo­ ro che avvertivano il suo richiamo. Il concetto di ragione in Kant, come ho indicato, era insolitamente ingegnoso, flessi­ bile e profetico, un candidato molto più promettente per la definizione di «tipo» dell’umanità di quello che avrebbe proposto alcuni decenni più tardi il giovane Karl Marx. Considerata però come parola d’ordine politica, la Ragione ha perso da tempo la sua magia: nel vocabolario delle scien­ ze politiche moderne, essa è ormai poco più che un arcaismo che copre un certo numero di rami del sapere tecnologico. Ma qualunque altra parola glì uomini trovino per sostituirla, possiamo stare certi che essa finirà con il comprendere gran parte dei concetti che si trovano alla base della dottrina kantiana della pace intesa come perpetua. In particolare, essa dovrà esprimere qualcosa di molto prossi­ mo alle speranze che Kant generosamente nutriva per il futuro dell’umanità, insieme alla resposabile consapevolez­ za della materia fragile, indocile e fallace di cui sono fatti gli esseri umani. 65

NOTE AL PRIMO CAPITOLO

1 II titolo originale dello scritto di Kant, 7,um ewigen Frieden, è doppiamente ambiguo, dal momento che riesce a suggerire tre possibili significati: «della pace perpetua», «verso la pace perpetua» e «in pace perpetua», ovvero la pace del cimitero, come Kant mestamente sottolinea. 2 Questa posizione viene assunta da quei critici di Kant che conti­ nuano a lamentare che le sue proposte non forniscono alcuna tutela diretta contro resistenza o la minaccia di aggressione. Questi critici dovrebbero leggere il suo scritto. 3 K.N. Waltz, nel suo altrimenti acuto Kant, Liberalism and War, in «American Politicai Science Review», LVI (1962), 2, pp. 331-340, cade in questo errore, come anche M. Campbell Smith nella sua introdu­ zione a Kant’s Perpetual Peace (1903), citato in F.H. Hinsley, Power and the Pursuit of Peace, Cambridge, Cambridge University Press, 1963, p. 374. 4 Questa è la posizione assunta da coloro che vedono in Per la pace perpetua un’anticipazione dell’idea della Lega delle Nazioni, come ad esempio C.J. Friedrich nella sua introduzione a Inevitable Peace (1945) (e in molti altri saggi successivi), e E.J. Hobsbawm, The Age of Reason, London, Weidenfeld & Nicolson, 1962. 5 Come attesta l’inclusione di Per la pace perpetua in una rilevante raccolta recente di saggi pacifisti: P. Mayer, a cura di, The Pacifist Conscience, Harmondsworth, Penguin, 1966. 6 I. Kant, Per la pace perpetua, Milano, Feltrinelli, 1991, p. 25. [Per il testo originale citato dall’autore, cfr. la nota 1 dell’introduzione.] 7 Perfino Hedley Bull sembra cadere in questo errore. Cfr. H. Butterfield e M. Wight, Diplomatic Investigations, cit., p. 48. La stessa cosa vale per C.J. Friedrich nel suo Essai sur la paix, in La philosophie politique de Kant, Paris, Presses Universitaires de France, 1962. 8 I. Kant, Per la pace perpetua, cit., pp. 23-30. 9 Ibid., pp. 31-58. 10 Cfr. F.H. Hinsley, Power and the Pursuit of Peace, cit., cap. IV. 11 Per un’eccellente sintesi dell’evoluzione e del crollo del pensiero di Rousseau relativo alle relazioni internazionali cfr. ibid., cap. Ill e relative note. 12 Le Droit des Gens, ou Principes de la Loi Naturelle di Vattel è stato ripubblicato in due volumi nella serie Carnegie Classics of International Law. I passi che riguardano la nostra discussione si pos­ sono trovare nel vol. II, libro III, capitoli due, quattro e dodici. 13 Kant’s Political Writing, cit., p. 183. 14 Ibid., p. 170, par. 59. 15 Si tratta della dottrina generale kantiana del «titolo morale». Cfr. anche il suo Sopra il detto comune: «Questo può essere giusto in teoria, ma non vale per la pratica», in Scritti politici, cit., pp. 237-281.

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I. Kant, Per la pace perpetua, cit., p. 40. Ibid., pp. 40-41. Kant’s Political Writing, cit., p. 170. Ibid., pp. 129, 165, 171. I. Kant, Per la pace perpetua, cit., p. 39. Ibid., pp. 40-41 e Kant’s Political Writing, cit., pp. 104 e 171. I. Kant, Per la pace perpetua, cit., pp. 37 e ss. Kant’s Political Writing, cit., pp. 44-46 e 113-114. I. Kant, Per la pace perpetua, cit., p. 53. Kant’s Political Writing, cit., p. 46. I. Kant, Per la pace perpetua, cit., p. 53. Kant’s Political Writing, cit., pp. 123-124. Ibid., pp. 177-178.

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CAPITOLO SECONDO

CLAUSEWITZ E LA NATURA DELLA GUERRA

Ho il sospetto che per la maggior parte di noi Clausewitz sia una figura vaga, misteriosa e anonima, costituita da trop­ pe anomalie per poter essere rappresentata o compresa fino in fondo. Clausewitz fu generale e filosofo, forse ammirato­ re di Kant e obiettivo analista, se non apologista, della guer­ ra. Se, come si è detto, la nozione di un generale colto è eccessiva per l’immaginazione anglosassone, che speranze abbiamo di trarre qualche conclusione dalla figura di questo ufficiale prussiano che sarebbe diventato il primo e, così come stanno le cose, anche l’ultimo filosofo della guerra mai esistito? La soluzione più semplice sarebbe quella di trasfor­ marlo in qualcosa di definitivamente ripugnante: il logico della forza, l’esegeta del bagno di sangue, oppure, secondo la definizione di Liddell Hart, «il Mahdi del massacro col­ lettivo». Ed effettivamente, con una lieve variazione nel­ l’equilibrio delle forze storiche e quindi delle mitologie na­ zionali successive alla sua morte, egli sarebbe potuto diven­ tare uno spauracchio che incuteva terrore, come lo fu Bonaparte per i bambini inglesi del diciannovesimo secolo. Ma in realtà, che tipo di persona era Karl von Clausewitz? Il volto che ci appare nei ritratti che gli sono stati fatti ci coglie di sorpresa. Suggerisce un poeta piuttosto che un filosofo, e ancor meno un generale. Vediamo un uomo di statura media e di fragile costituzione, con capelli castanorossicci, tratti sottili ed eleganti e un sorriso di insolita dolcezza. E dalle sue lettere traspaiono atteggiamenti morali e intellettuali che concordano con questo suo aspetto. Met­ tendo da parte il suo ardore professionale e patriottico (Clausewitz fu sempre un fervente sostenitore delle riforme politiche e militari ed egli stesso ne progettò alcune) esse ci mostrano un uomo di vasta cultura generale, con una note­ vole capacità di stringere profondi legami personali e una 69

vena di malinconia che sfociò, nei suoi ultimi anni di vita, in una insoddisfazione quasi patologica per ciò che aveva rea­ lizzato. Le sue lettere alla moglie, in particolare, esprimono sentimenti che vanno ben al di là delle eleganti attestazioni di affetto tipiche della sua epoca. Una di esse descrive, con toccante semplicità, ciò che egli aveva provato quando ave­ va saputo della morte di Scharnhorst; un’altra, scritta molti anni dopo, descrive la tristezza da lui sempre provata nel visitare Potsdam, dove suo padre lo aveva condotto quando aveva dodici anni perché si arruolasse nell’esercito prussiano. Le descrizioni che di lui ci dà la moglie sono altrettanto rivelatrici. Era più anziana di un anno del marito, possedeva uno spirito straordinario, una grande cultura letteraria e artistica e gli era molto devota. La sua famiglia, von Brühle, apparteneva alla più alta aristocrazia prussiana e la donna impiegò cinque anni per piegare le resistenze dei genitori al suo matrimonio con Clausewitz. Nelle lettere che gli scrisse e nelle sue memorie, ella parla del marito con un’ammirazio­ ne priva di remore per le sue doti intellettuali e morali e con una tenera attenzione per la sua strana fragilità personale. Da queste impressioni introduttive, passiamo ora ai fatti salienti della vita di Clausewitz. Nacque a Burg, Mechlenburg, nel 1780, terzo figlio di una famiglia prussiana di ceto me­ dio, decisamente ordinaria. Nel 1792 viene arruolato come gefreikorporal nella fanteria prussiana, nella quale lo aveva­ no preceduto i suoi due fratelli maggiori; dopo due anni partecipa ad azioni militari. Dei suoi anni come gefreikorporal e portabandiera sappiamo poco, tranne che era un lettore insaziabile e che amava trascorrere le sue licenze in una fattoria nella Renania. E importante tuttavia ricordare che durante i suoi anni giovanili la mancanza di nobili natali aveva reso molto improbabile una sua promozione al rango di ufficiale. Anche dopo la nomina a ufficiale, l’adeguamento alla brutale e snobistica istituzione militare non fu certa­ mente facile per il giovane borghese. Nel 1801, comunque, Clausewitz si iscrisse come allievo ufficiale alla nuova Scuo­ la Militare di Berlino e qui le sue grandi doti vennero notate da Scharnhorst, allora direttore della scuola, di origini ancor più umili di quelle di Clausewitz ma che nonostante questo era stato riconosciuto come il più grande militare tedesco della sua epoca. Fino alla sua morte, avvenuta nel 1813, 70

Scharnhorst non cessò mai di aiutare, incoraggiare ed assi­ stere il giovane militare, più diffidente, vulnerabile e colto. Fu grazie alla sua influenza che Clausewitz venne nominato aiutante di campo del principe Augusto di Prussia con il quale prese parte alle campagne di Auerstadt e Jena, nell’ul­ tima delle quali fu catturato insieme al suo principe dai francesi. Liberato nel 1808, Clausewitz tornò a lavorare con Scharnhorst al Ministero prussiano della guerra e in breve divenne membro di spicco di un ristretto gruppo di ferventi riformatori militari, e quindi, volenti o nolenti, politici al­ l’interno del corpo degli ufficiali. Allo stesso tempo venne scelto, a causa delle sue doti letterarie, per fungere da super­ visore dell’educazione militare del principe ereditario; e dopo aver ottenuto il rango di maggiore potè infine sposare la contessa von Brühle. Durante questi anni apparentemente felici, Clausewitz si era però mostrato sempre più scontento, per un insieme di motivi patriottici e professionali, della posizione politicamente degradata della Prussia, in quel periodo defraudata del suo territorio e sotto la costante occupazione delle trup­ pe napoleoniche dopo il trattato di Tilsit. All’inizio del 1812 la Prussia venne costretta a un’alleanza difensiva con la Francia, apertamente e a tutti gli effetti diretta contro la Russia; questo avvenimento spinse Clausewitz a prendere la decisione più importante della sua vita. Incoraggiato da Scharnhorst e Gneisenau ottenne, conformemente a un’usan­ za abbastanza comune all’epoca, l’esonero da parte del so­ vrano dagli obblighi militari prussiani e se ne andò in Russia per entrare nell’esercito di questo paese, come avevano già fatto molti altri ufficiali tedeschi. Anche se ostacolato dalla sua ignoranza della lingua, Clausewitz prestò considerevoli servizi alla causa russa, come consigliere militare e come principale negoziatore della convenzione di Tauroggen, con la quale nel gennaio del 1813 il generale prussiano Yorck proclamò l’indipendenza delle forze sotto il suo comando dall’alleanza con la Francia. Clausewitz prese anche parte, come ufficiale di stato maggiore, alle battaglie di Witebsk, Smolensk e Borodino; in seguito, unitosi all’esercito di Wittgenstein, seguì e potè osservare da vicino la ritirata e la disfatta della Grande Armata napoleonica. L’esperienza vissuta gli diede una visione straordinaria71

mente equilibrata dell’evento militare più grande e terribile della sua epoca e gli aprì gli occhi sulla possibilità di forme di guerra del tutto nuove. 11 prezzo che pagò fu però pesan­ te. La sua salute rimase danneggiata in modo permanente: uscì dalla campagna di Russia afflitto da una forma di malat­ tia reumatica o artritica che lo costrinse a fare un uso sempre maggiore di oppio e con il viso spaventosamente sfigurato dal congelamento. Anche le sue condizioni mentali risenti­ rono di ciò che aveva visto durante la ritirata francese. Gli sembrava, come osserva nel suo libro a proposito della cam­ pagna del 1812, che non sarebbe mai più riuscito a liberarsi dalle terribili impressioni di quello che aveva visto. Ma poi, con la sua consueta obiettività, aggiunse che la percentuale delle vittime dell’esercito russo settentrionale era stata più o meno la stessa di quella delle vittime francesi. A partire da questo momento, una profonda depressione e l’insoddisfa­ zione nei confronti della sua carriera divennero temi quasi ossessivi delle sue lettere. E, se aveva sperato di essere accol­ to come un eroe al suo ritorno in Prussia, dovette subire una cocente delusione. Per oltre dieci anni venne trattato con continua antipatia e diffidenza dal governo di re Federico Guglielmo III. Unico caso fra gli ufficiali che avevano ade­ rito all’esercito russo nel 1812, a Clausewitz venne più volte rifiutata la riammissione nell’esercito prussiano durante le campagne del 1813-14, nonostante l’intercessione di Gneisenau e di altri amici. I suoi piani per la costituzione di una milizia popolare {Landsturm) a sostegno dell’esercito regolare contro i francesi venne accantonato in quanto essa avrebbe potuto costituire un incentivo alla rivoluzione. Fu solo nel 1815 che gli venne concesso di rientrare nell’eserci­ to prussiano come capo di stato maggiore del corpo d’arma­ ta di Thielmann nella campagna di Waterloo. Alla fine della guerra trascorse un anno piacevole come capo di stato maggiore di Gneisenau con l’armata tedesca renana. In questo periodo iniziò a progettare il suo libro Della guerra. Nel 1818 venne però richiamato a Berlino per fungere da direttore amministrativo della nuova Scuola Mi­ litare, posto che fu per metà di sinecura e per metà un insulto. Clausewitz sperava di riuscire a riformare il piano di studi e lo spirito dell’insegnamento scolastico, ma venne costantemente ignorato da un comitato a tendenza conser-

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vatrice nelle cui mani era posto tutto il potere decisionale. Indubbiamente il posto che ricopriva gli diede tutto il tem­ po di mettere in pratica i progetti che da tempo aveva in mente: non solo la stesura di Della guerra, ma anche un certo numero di storie delle campagne militari del diciottesimo e del diciannovesimo secolo. L’inattività a cui era costretto dal ruolo che ricopriva e la consapevolezza che non avrebbe mai ottenuto un importante comando militare furono però per lui continua fonte di dolore. Solo durante la crisi del 1830 venne richiamato al servizio attivo e con sua grande soddisfazione venne nuovamente nominato capo di stato maggiore di Gneisenau sul fronte orientale. Qui però lo attendevano ulteriori delusioni. In breve comprese che era fisicamente inadatto per il ruolo che ricopriva e inoltre, cosa che forse costituì per lui un colpo ancor più duro, che il suo vecchio compagno non era più quella figura eroica che egli aveva ammirato un tempo con tanto ardore. Si ebbero dis­ sensi e segni di disagio fra i due, anche se Gneisenau non cessò mai di seguire i consigli di Clausewitz. La morte lo colpì repentinamente nel 1831 sotto forma di un’epidemia di colera, che portò via, fra innumerevoli altri, anche Gnei­ senau e Hegel. Clausewitz morì però con tale rapidità da lasciar pensare che la causa reale della sua morte fosse piut­ tosto un aneurisma o una forma di attacco nervoso. Aveva solo cinquantun anni. La personalità e il carattere che possiamo scorgere attra­ verso questa carriera dalle molteplici sfaccettature, così come anche attraverso i suoi scritti, le sue lettere e le testimonian­ ze dei suoi contemporanei, devono rimanere per certi versi oscuri; i suoi tratti fondamentali, però, non sono affatto vaghi, anonimi o inintelligibili. Non ci sorprende certamen­ te il fatto che egli abbia posseduto le principali qualità militari - coraggio, sopportazione, bontà d’animo e fedeltà verso i suoi superiori - e che comunque gli sia mancata quella contagiosa sicurezza necessaria a un grande condottiero a ogni livello: i militari competenti non sono necessariamen­ te persone meno contraddittorie di altre che operano in diversi settori della società. Né è incomprensibile che un uomo il quale, nei rapporti sociali, mostrò una certa diffi­ denza e manifestò il bisogno che altri, più anziani e più sicuri di sé di quanto egli fosse, lo spronassero a risultati più

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alti, sia stato in grado allo stesso tempo di prendere decisio­ ni difficili, coraggiose, solitarie e, una volta coinvolto nel dibattito militare, abbia saputo sollevare questioni e critiche o proporre tesi notevolmente chiare e convincenti. Non è neppure strano che tali doti intellettuali si ritrovino a fianco di altre qualità, più ambigue moralmente, che potevano essere di grande aiuto a un capo militare: un’ambizione continua di mettersi in luce in campo militare, un forte senso dell’onore personale e una pericolosa tendenza a idea­ lizzare ogni causa - si trattasse di un esercito, di un paese o di un’alleanza - alla quale si era legato. Queste qualità a loro volta ne suscitarono altre che rivelano l’aspetto più fragile della sua natura: brevi attacchi di entusiasmo e di audacia quasi frenetici interrotti da periodi di irritata esasperazione e intolleranza e, in particolare negli ultimi anni di vita e dopo il crollo del suo stato fisico, da fasi più lunghe di depressione acuta. Sarebbe comunque errato considerare Clausewitz un disadattato, pensarlo come un intellettuale, e quindi certa­ mente una persona «sensibile», condannato a vedere le sue doti trattate con disprezzo o indifferenza nell’atmosfera da camerata dello stato prussiano. Egli fu in ogni suo aspetto un uomo della sua epoca, nella quale un numero sorprenden­ temente alto di ufficiali militari si dimostrarono almeno uguali per levatura intellettuale ai loro equivalenti in campo civile. Ed è difficile credere che le sofferenze, gli insuccessi e le delusioni della sua carriera non gli furono utili quando si propose di ordinare in modo sistematico le sue idee sulle linee generali che segue la guerra. Certamente in questo compito - che in una prospettiva storica costituì l’opera della sua vita - Clausewitz manifestò il suo attaccamento alla massima «Conosci il tuo mestiere», la cui importanza è paragonabile a quella che i massimi filosofi hanno concesso a «Conosci te stesso» o «Conosci i limiti del tuo sapere». Se non aveva raggiunto la grandezza in campo militare, Clausewitz avrebbe portato la grandezza della guerra sotto il suo dominio intellettuale. Egli avrebbe spiegato, a se stes­ so e alle menti del suo stesso calibro, cosa era la guerra, cosa si poteva ottenere per suo tramite e cosa non si sarebbe mai ottenuto, quale era il suo funzionamento, in che misura essa funzionava, e come con ogni probabilità si sarebbe svilup­ 74

pata, se tale previsione era possibile. E da questa prospetti­ va le delusioni da lui avute nella sua carriera e la sua incapa­ cità di ottenere posizioni di alto comando persero comple­ tamente di importanza. Egli infatti aveva osservato da vici­ no, con un’ammirazione caratterizzata al tempo stesso da una nobile invidia e da un freddo distacco, moltissimi gran­ di condottieri in situazioni cruciali; e dalla sua vantaggio­ sa posizione, al loro fianco, era stato in grado di individuare e soppesare mentalmente - e in seguito di delineare sulla carta - problemi, questioni e princìpi che uno Scharnhorst, un Kutuzov o quanto a questo lo stesso Napoleone non sarebbero mai riusciti a esprimere con altrettanta forza e chiarezza. Cosa lo spinse a questo compito? Ecco un breve resoconto del modo in cui Clausewitz giunse alla stesura di Della guerra·. Tali materiali si sono venuti accumulando senza un piano prestabilito. In origine intendevo formulare, all’infuori di ogni concatenazione sistematica, in proposizioni succinte, precise e sostanziali, i punti principali dell’argomento, quali si erano pre­ sentati alle mie meditazioni [...] Pensavo che capitoli brevi e sentenziosi [...] avrebbero costituito un’attrattiva per le intelli­ genze più coltivate: e ciò, non tanto per quello che già di per sé stabilivano, quanto per gli sviluppi che se ne sarebbero potuti trarre. Con ciò, io mi figuravo di rivolgermi a un lettore illumina­ to e già al corrente dell’argomento. Ma la mia natura, che mi spinse sempre a sviluppare tutto in forma sistematica, ha finito per venire in luce anche in questo campo. [...] Quanto più progredivo in tale lavoro, quanto più mi abban­ donavo allo spirito d’investigazione, tanto più ero ricondotto a questo sistema. E così, via via, vennero inserendosi nell’opera capitoli dietro capitoli. Era mia intenzione di eseguire, infine, un riordinamento or­ ganico del tutto. Mi proponevo di motivar meglio, qua e là, qual­ che argomento nelle redazioni più antiche [...] Mi animava l’am­ bizione di scrivere un libro che non potesse essere dimenticato dopo due o tre anni: un libro che sarebbe stato ripreso in mano più di una volta da quanti si interessano dell’argomento1.

A prescindere dal fatto che queste parole facciano da premessa a un trattato sulla guerra o sulla pace, sul diritto, sulla retorica, sulla logica, sulla matematica, sull’economia, sull’ingegneria o sulla navigazione, credo che qualsiasi per­

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sona dotata di una conoscenza seppur minima di filosofìa non possa fare a meno di sospettare che l’autore sia stato una persona di notevoli capacità filosofiche. Esse rivelano la visione ampia, la compostezza, la coscienza di sé lievemente autoironica, la modestia e la sicurezza che sono necessarie a ogni opera di valore in questo campo. Sono anche le parole di un uomo che sa molto bene di cosa si occupa ma anche quanto poco e nel migliore dei casi con quanta parzialità riuscirà a comunicare tutto ciò che sa. Più di ogni altra cosa esse suggeriscono un uomo che comprende fino a che punto ogni pensatore è in balia della propria opera, che l’opera migliore si ha quando essa prende il sopravvento e che il compito fondamentale dell’autore è di fare in modo che questo avvenga il più spesso possibile. Tutto ciò sta a indi­ care un autentico se non un grande filosofo. Quali sono allora i principali contributi che Clausewitz ha dato alla filosofia? Sono ovviamente di tipo limitato, ma sarebbero stati molto apprezzati da Aristotele e lo sono stati, alquanto stranamente, da alcuni dei migliori filosofi del nostro secolo. Si potrebbe dire, per usare un gergo corrente, che essi erano fondati sulla nozione di pratica e sulle sue implicazioni per le scienze sociali in genere. Ma in primo luogo vorrei mettere in luce quello che oggi potrebbe sembrare scontato ma che all’epoca costituì un notevole risultato, ovvero la collocazione dell’analisi della guerra fra le altre indagini intellettuali. Clausewitz respinge ogni ten­ tativo di assimilare la guerra alle arti meccaniche, come l’ingegneria, fondate su leggi oggettive che si sono scoperte valide per tutti i sistemi fisici, o alle arti immaginative per le quali, secondo l’autore, non si può stabilire alcun principio definitivo, nonostante l’intesa generale sui capolavori da esse prodotti. Contro queste posizioni, egli sottolinea il fat­ to che la guerra appartiene al dominio della vita sociale. È un conflitto di grandi interessi, che ha una soluzione sanguinosa, e solamente in questo differisce dagli altri. Si potrebbe piuttosto paragonarla al commercio che a qualsiasi altra arte, poiché il commercio è anch’esso un conflitto di interessi e attività: e alla guerra si accosta ancor più la politica, che può anch’essa, a sua volta, considerarsi come un commercio in grande scala. [...]

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La differenza essenziale sta nel fatto che la guerra non è l’effetto di una volontà esercitata sulla materia inerte, come avvie­ ne nelle arti meccaniche, o verso un oggetto vivente ma passivo, senza reazione, come lo sono lo spirito ed i sentimenti umani nei riguardi delle arti immaginative: la guerra agisce invece sopra un oggetto vivente e reagente2.

In altre parole, gli interessi, gli obiettivi, i mezzi e le mosse delle forze che si oppongono, nei quali consiste la guerra, si influenzano continuamente e reciprocamente e, quel che è più importante, ciò avviene attraverso tentativi ininterrotti da ambo le parti di celare le proprie intenzioni, di ingannare, sorprendere e di spiazzare l’avversario, e al momento cruciale di mostrarsi più forte di lui. E mettendo in rapporto questi fatti con l’inevitabile carenza e imperfe­ zione di reali informazioni sulla guerra, Clausewitz conclu­ de, in contrasto con alcuni teorici della sua epoca e alcune teorizzazioni a noi contemporanee sulla guerra, più sofisti­ cate nella terminologia ma in pratica banali, che l’ideale di una «risposta» logicamente completa o sufficiente a qualsia­ si problema relativo alla guerra è pura illusione. Questo però non significa che non possa esistere nessu­ na teoria della guerra, o nessuna regola fondata su una teoria. Questo, secondo Clausewitz, avverrebbe soltanto ade­ rendo a una concezione eccessivamente ristretta - e indub­ biamente pedante - di ciò che è e che può fare la teoria. Alcuni aspetti del mondo permettono una conoscenza teori­ ca altamente sistematica, come ad esempio la fisica. Ma altri aspetti del mondo, in particolare quelli che riguardano le azioni umane, non ammettono né richiedono un trattamen­ to altrettanto sistematico, eppure hanno chiaramente biso­ gno di una teoria di qualche genere se si vuole tutelare e sviluppare la comprensione che abbiamo di essi. La teoria esiste e opera, secondo Clausewitz, ogni volta che una serie di regole e di massime generali contribuiscono in modo evidente alla valutazione o alla decisione, pur mancando di quella quantità sufficiente di logica alla quale ogni scienza pura aspira e che permette di risolvere qualsiasi problema3. Tutto ciò ci porta a due dei maggiori risultati conseguiti da Clausewitz nel campo della filosofia: la sua versione della natura o dello status logico dei princìpi della guerra e l’at-

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teggiamento o forma mentale che la realtà della guerra ri­ chiede a comandanti di ogni livello. Su entrambe le questio­ ni, ciò che Clausewitz ha da dire possiede importanti impli­ cazioni per l’esistenza umana al di là della sfera militare. Clausewitz analizza un certo numero di «princìpi della guerra», ma è degno di nota il fatto che egli non cerca mai di dedurre tali princìpi da una singola fonte né di stabilire fra essi rapporti di priorità e di conseguenza logica. Inoltre, a questo proposito egli mostra un’abitudine singolare e a pri­ ma vista irritante quando elenca alcuni princìpi dettati di­ rettamente dal buon senso, come ad esempio quello della fermezza nel raggiungere il proprio obiettivo, quello della concentrazione, dell’economia e della sicurezza nell’uso delle proprie forze; egli però passa poi a mostrare come altri princìpi militari si trovino generalmente in contraddizione con essi, fino al punto di modificare o perfino di cancellare la loro autorità in determinate situazioni. Il suo scopo nel procedere in tal modo, però, è estremamente importante: Clausewitz intende dimostrare come ogni principio, oltre a non essere mai sufficiente per decidere cosa fare in ogni situazione bellica, non è mai necessario per una decisione militarmente giusta, nel senso che ad esso si può sempre contravvenire. I princìpi della guerra invece sono necessari in senso soggettivo o educativo, per il fatto che ognuno di essi richiama l’attenzione su situazioni, sviluppi, eventuali­ tà, rischi che si presentano continuamente in guerra e che possono essere di importanza cruciale nel determinare il successo o la disfatta. Nessun condottiero esperto dimentica mai un principio militare tradizionale, ma ogni condottiero esperto deve essere pronto a ignorare, in situazioni di parti­ colare emergenza, perfino quello che fra i princìpi militari potrebbe sembrare il più importante. I princìpi militari devono essere semplici, prosegue Clausewitz, nel senso che devono suggerire l’opportunità di fare o non fare una possibile mossa per ragioni che siano perfettamente familiari; infatti non vale mai la pena di ten­ tare in guerra niente che sia intrinsecamente complesso o la cui riuscita dipenda dalla cooperazione di un alto numero di fattori4. Allo stesso tempo, però, i princìpi militari devono essere facilmente adattabili, in modo da poter aiutare il comandante a prendere in considerazione il maggior nume78

ro possibile di cambiamenti e sviluppi che possono risultare significativi. Questo spiega perché il carattere logico dei princìpi della guerra e in particolare il rapporto che esiste fra essi sia a prima vista così stranamente impreciso. Un altro fatto importante consegue dal bisogno di adattabilità: il comandante deve avere sempre ben presenti i suoi princìpi, perché in determinate occasioni potrebbe essere impossibi­ le prevedere il criterio con cui applicarli. In quasi tutte le altre arti e attività della vita, l’uomo può far uso di certe verità da lui apprese solo una volta, nello spirito delle quali egli non vive, e che ritrova al bisogno nei libri polverosi. Anche le verità di uso quotidiano possono restargli completamen­ te estranee. [...] Egli se ne serve macchinalmente. Ma in guerra ciò non avviene. La reazione spirituale, la forma costantemente mutevole delle cose fanno sì che colui il quale dirige debba porta­ re in sé tutto l’apparato intellettuale del proprio sapere, e che egli, in ogni luogo e ad ogni istante, debba esser capace di attingere in se stesso la decisione opportuna. Il sapere, assimilato intimamen­ te in tal modo con il proprio spirito e colla passione, deve trasfor­ marsi in un vero potere. Ecco perché i capi illustri sembrano agire in guerra con tanta facilità, ed ecco anche perché si è attribuito questo fatto al talento naturale [che è distinto] da quello acquisito in seguito alla meditazione ed allo studio5.

Questo punto viene approfondito in altri passi, come quando Clausewitz ci dice che in guerra le verità teoriche sono maggiormente efficaci quando perdono «la forma obiet­ tiva del sapere per prendere la forma subiettiva del potere»6, o che «in guerra il generale deve obbedire a queste verità teoriche assimilandole piuttosto che considerandole leggi inflessibili esteriori»7, o che la teoria «deve dunque formare lo spirito del futuro capo o piuttosto dirigerlo nel lavoro di formazione di se stesso»8 e che le sue verità esistono solo «per offrirsi all’impiego, e sta sempre al criterio il decidere se siano o no attinenti al caso»9. Questa enfasi sulla sogget­ tività dei giudizi e delle valutazioni militari può apparire strana e sospetta a menti abituate a confidare soltanto in verità oggettive, vale a dire riconoscibili da tutti. In realtà però la soggettività sulla quale Clausewitz insiste non è tan­ to una soggettività del giudizio, quanto piuttosto una re­ sponsabilità delle azioni che ne conseguiranno. Innanzi tut79

to, secondo Clausewitz, il giudizio soggettivo di un coman­ dante è necessariamente guidato e limitato dal potere educativo ed evocativo dei princìpi della guerra dai quali egli è permeato. E dobbiamo ricordare ugualmente che, per la pratica della guerra, la correttezza del giudizio è priva di valore tranne che in relazione all’efficacia dell’azione che essa genera. In ogni operazione militare un solo uomo deve prendere la decisione finale perché un unico comando può, con la sua convinzione e la sua sicurezza, dare luogo all’ope­ razione più appropriata o imporre al suo moto una nuova forza e una nuova direzione. Clausewitz descrive questo aspetto dell’azione di un comandante in modo particolarmente originale e suggesti­ vo. Egli osserva come noi «ascoltiamo il linguaggio dei gran­ di generali, i quali si esprimono in argomento con termini semplici e chiari; vediamo che nelle loro espressioni, il go­ verno e il movimento di questa pesante macchina dalle mille articolazioni sembra identificarsi colla loro sola persona, sì che l’atto immenso della guerra si riduce alle proporzioni di un combattimento singolare»10. E aggiunge quindi che «il punto di vista libero ed elevato del condottiero, il suo modo semplice di concepire le cose, l’immedesimazione della sua persona nell’atto della guerra costituiscono a tal punto, in modo completo, il nocciolo di ogni buona condotta di guer­ ra, che solo in questo modo grandioso è concepibile la liber­ tà di spirito necessaria per dominare gli avvenimenti senza venirne sopraffatti»11. Questa apparente semplicità del sa­ pere richiesto a ogni condottiero non implica che tutto in guerra sia semplice o che ogni operazione militare possa essere eseguita senza una buona dose di conoscenze tecni­ che, padronanza delle pratiche in uso, ecc., da chiunque si trovi a doverla guidare. E neppure essa esclude la possibilità che un condottiero non possa in qualche modo rappresenta­ re a se stesso il problema da risolvere in termini astratti, matematici. Clausewitz vuole piuttosto affermare che l’atto di unificare e dominare in ogni azione militare tutte le varie inclinazioni ed eventualità necessarie al successo richiede qualcosa di molto più prossimo alla consapevolezza del pro­ prio corpo e al controllo su di esso di ogni uomo (e in particolare di un atleta) piuttosto che quel genere di sapere del quale i filosofi (fino all’epoca di Clausewitz) si erano

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generalmente occupati, vale a dire la comprensione di un principio matematico o di un macchinario alquanto com­ plesso, o perfino la padronanza di una tecnica complessa. Ovviamente Clausewitz non sta affermando che la facoltà di «concepire» una situazione e «immedesimarsi» in essa è sufficiente ad assicurare il successo in guerra, ma solo che una certa dose di essa è necessaria ad ogni successo, dal momento che nessuno può guidare un’operazione militare a meno che non la unisca dirigendola, così come il corpo raggiunge il proprio equilibrio ed esegue movimenti ed eser­ cizi fisici. E ancora una volta è evidente che questa parte della dottrina di Clausewitz possiede implicazioni che van­ no al di là della sfera militare. Sarebbe interessante mettere a confronto questa versio­ ne che Clausewitz ci dà della dottrina militare con la sua discussione sull’uso della storia militare e dell’analisi critica delle battaglie e delle campagne meglio documentate per l’addestramento dei futuri condottieri, discussione nella quale egli anticipa la nozione di R.G. Collingwood della storia come nuovo svolgimento di eventi trascorsi, prendendo però in considerazione le amare realtà della storia che Collingwood, con le sue inclinazioni idealistiche, minimizza o ignora12. Credo tuttavia di aver detto abbastanza per far comprende­ re quanto siano originali e forti le capacità filosofiche di Clausewitz. Ho ritenuto importante mettere in evidenza questo fatto per due motivi: innanzi tutto perché, mentre i commentatori tedeschi, francesi e americani hanno mostra­ to una certa considerazione per la sua filosofia, spesso a dire il vero senza avere la minima idea dello scopo che essa serviva, i suoi critici inglesi più famosi, Basil Liddell Hart e il maggior generale Fuller, l’hanno considerata di importan­ za minima o equivalente a un cumulo di chiacchiere. Questi critici comunque non sono privi di scusanti per il loro carat­ teristico atteggiamento anglosassone. Infatti - e questo è il secondo motivo per cui ho messo in evidenza la competenza filosofica di Clausewitz - quando giungeremo alla sua que­ stione più famosa e per i nostri fini centrale, ovvero al rapporto esistente fra ciò che egli definisce guerra assoluta e guerra reale (o guerra concepita come strumento politico), scopriremo che egli incorre in gravi confusioni filosofiche, e che il compito di farci strada attraverso i due tipi di guerra

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in modo da raggiungere quelle autentiche intuizioni da esse oscurate richiede comprensione per le difficoltà da lui in­ contrate ma anche rispetto per la sua consueta capacità di esprimere i propri pensieri in modo semplice e chiaro. Uno dei risvolti ironici di questa situazione è che, affrontando le questioni filosofiche discusse fino ad ora, Clausewitz mostra un’ottima padronanza dei suoi argomenti e delle sue analisi, poco professionale ma attentamente meditata, che merita pienamente il commento di Marx secondo il quale Clausewitz «ha quel tipo di buonsenso che si avvicina molto all’acu­ me»13. E quando si affida a quelli che egli ritiene termini e metodi filosofici incontestabili - siano essi quelli dei grandi filosofi del suo tempo o quelli della logica tradizionale in disuso che egli ebbe la sfortuna di ereditare - che la sua impronta scompare ed egli cade in errori ed equivoci. Le difficoltà che ora incontreremo non si limitano però a questioni di terminologia, di logica e di metodo. Esse derivano anche dal fatto che Della guerra rimase incompiuto o almeno venne rivisto in modo imperfetto a causa della morte dell’autore. Sappiamo che le attente riflessioni e gli scritti che avrebbero dovuto comporre un esauriente tratta­ to sulla Grande guerra risalgono al 1816 e che intorno al 1827 egli aveva già abbozzato lo schema degli otto libri di cui è composto Della guerra. La famosa Avvertenza del 1827, una sorta di prefazione provvisoria, manifesta la sua inten­ zione di rivedere l’intera opera sulla base di una terminolo­ gia più semplice (e a mio parere più promettente). Ma anche se Clausewitz apportò revisioni considerevoli ai primi sei libri, il solo capitolo del quale egli era soddisfatto era il primo capitolo del primo libro. E qui, lungi dal semplificare la sua terminologia e i suoi princìpi, egli piuttosto li compli­ cò con i suoi tentativi di fornire una esposizione preliminare coerente della struttura della sua teoria militare. Lasciando da parte le molteplici complicazioni di second’ordine che questo implica, ci troviamo dunque di fronte - e con noi tutti i lettori di Clausewitz - al seguente problema: il primo capitolo del primo libro non ha alcun rapporto con gli altri capitoli perché presenta un’esposizione estesa, e anche un’ap­ plicazione radicalmente alterata, di un insieme coerente di idee che Clausewitz aveva usato per molti anni ma che non aveva mai cercato di formulare e difendere in modo sistema­ 82

tico. Sorge quindi la seguente domanda: dobbiamo conside­ rare questo capitolo come il locus classicus per comprendere la struttura logica di Della guerra? Quasi tutti i commenta­ tori, sulla base della tarda data di composizione, della revi­ sione apportata, evidentemente accurata, della struttura com­ plessa e della conclusione apparentemente equilibrata, sono di questa opinione. Ma d’altro canto si potrebbe sostenere che il prezzo pagato per eliminare le nette antitesi che carat­ terizzano altri passi di Della guerra sottoposti a relativa revisione è stato troppo alto e che le conclusioni del capitolo iniziale, dopo la revisione, mancano della forza penetrante o della promessa di penetrazione e illuminazione - che viene trasmessa con vigore in molti dei passi (relativamente) non rivisti di Della guerra. Non intendo in alcun modo entrare in questo dibattito fra esperti che si basa, a mio parere, su due presupposti singolarmente ingenui14: innanzi tutto che Clausewitz sareb­ be rimasto senza ombra di dubbio soddisfatto del primo capitolo del primo libro, così come oggi lo leggiamo, dopo aver cercato di rivedere alla sua luce un numero di brani a esso connessi, in particolare nei libri 1-4 e 8. Tali revisioni infatti sarebbero state più ampie, tali da trasformare com­ pletamente i brani in questione e il tentativo di apportarle avrebbe certamente aperto gli occhi all’autore su alcune debolezze, compresa la conclusione quasi banale del capito­ lo iniziale, già sottoposto a revisione. Ma in secondo luogo il dibattito fra esperti si basa su un presupposto più generale, ovvero quello che l’insieme coerente di idee che Clausewitz adoperò dal 1804 in poi ogni volta che affrontò il tema della guerra in generale (pur dando di volta in volta maggiore o minore importanza all’una o all’altra cosa) permette effetti­ vamente di identificare un’interpretazione evidentemente preferita, corretta, autorevole e soddisfacente. Eppure, quanto più esaminiamo quella struttura all’interno della quale Clausewitz si sforzò di collocare in modo sistematico e di difendere le concezioni che furono per molti anni al centro della sua teoria e quanto più ci chiediamo che cosa lo abbia attratto in essa e dove egli riuscì a trovarla, tanto meno riusciamo a considerarla indiscutibile o indispensabile per la valutazione di elementi eterogenei e a volte in contrasto nel suo pensiero. La struttura concettuale in questione, per 83

quanto ne so, non è mai stata adeguatamente smontata, analizzata e ricostruita a fini comparativi, né è mai stata sottoposta a un’analisi critica sistematica: e il problema del­ la sua principale fonte o ispirazione filosofica non è mai stato sollevato. Intendo dimostrare nelle pagine seguenti che la struttu­ ra concettuale di Clausewitz, così come viene espressa nel primo capitolo del primo libro, è disgraziatamente piena di pecche e che fino a che non si comprenderà di quali pecche si tratta e ad essa non si sostituirà qualcosa di più semplice e di logicamente più sensato, l’unità del suo pensiero rimar­ rà necessariamente oscura e perfino i suoi concetti più bril­ lanti dovranno essere colti attraverso una nebbia di misti­ ficazioni e distorsioni. Sono convinto che sia questa l’espe­ rienza fatta da molti dei lettori più intelligenti e sinceri di Della guerra. Essi si sono sforzati di cogliere, accettare e applicare una struttura di idee centrata sul contrasto fra guerra assoluta e guerra reale, ma non sono riusciti a com­ prendere che, come accade con altri grandi ma oscuri filoso­ fi, la struttura di idee propria di Clausewitz lo ha forse aiutato inizialmente ad affrontare alcuni dei temi esposti ma in seguito può aver esercitato un’influenza inevitabilmente restrittiva e deformante sulla sua trattazione di tali temi. Non voglio dire con questo che Clausewitz debba rimanere di conseguenza un pensatore impenetrabile nella sua oscuri­ tà, campo di studi di pochi specialisti eruditi ed esperti che soli possono distinguere ciò che in lui c’è di meglio da quanto rimane invece confuso e fallace. Al contrario, sareb­ be più esatto dire che è mia intenzione quella di liberare Clausewitz dagli specialisti. Nonostante il lavoro eccellente e indispensabile questi ultimi che hanno fatto per quel che concerne la delucidazione particolareggiata della sua opera, non è mai capitato loro di domandarsi se il suo sistema concettuale è intellegibile di per sé o se invece sia necessario metterlo a confronto con altri sistemi concettuali riscontrabili nelle scienze sociali. Essi hanno proceduto, come spesso accade a devoti divulgatori di filosofi oscuri, come se aves­ sero dovuto dischiudere un angolo eccezionale dell’univer­ so intellettuale, che non ammette alcun utile confronto con altre regioni a noi familiari, ma che deve essere compreso, seguito o riformulato usando termini propri ad esso e a 84

nessun altro. Ma senza possibilità di confronto, e quindi di critica, non può esistere autentica comprensione. E mi sem­ bra intollerabile che per gran parte dei suoi lettori tanti aspetti del pensiero di Clausewitz siano rimasti velati da una certa oscurità che un minimo di critica e di riorganizzazione avrebbero potuto facilmente disperdere; e questo è ancor più vero se consideriamo come le sue debolezze e i suoi insuccessi siano dovuti soprattutto alla sua infelice eredità filosofica e più specificamente logica. Come sa chiunque abbia letto, pur se superficialmente, Della guerra, il problema centrale che esso pone si può collocare fra due gruppi di frasi, che per comodità trarrò dal primo capitolo del primo libro. Le prime cinque derivano dalle sezioni iniziali del capitolo, le altre cinque dalle sezioni conclusive. La prima e l’ultima frase ci forniscono rispetti­ vamente la definizione iniziale di guerra («a un livello») e quella finale («a tre livelli») forniteci da Clausewitz. ( 1 ) «La guerra è [...] un atto di forza che ha per scopo di costringere l’avversario a sottomettersi alla nostra volontà». (2) [Nella sua «forma elementare» o essenza] «la guerra non è che un duello su vasta scala [...] può rappresentarsi con l’azione di due lottatori. Ciascuno di essi vuole, a mezzo della propria forza fisica, costringere l’avversario a piegarsi alla propria volontà'; suo scopo immediato è abbatterlo e, con ciò, rendergli impossibile ogni ulteriore resistenza». (3) «Poiché l’impiego della forza fisica in tutta la sua portata non esclude affatto la cooperazione dell’intelligenza, colui che impiega tale forza senza restrizione [...] acquista il sopravvento sopra un avversario che non faccia altrettanto». (4) «I belligeranti si impongono legge mutualmente; ne ri­ sulta un’azione reciproca che logicamente deve condurre all’estremo». (5) «La guerra deve dunque mirare sempre a disarmare, o ad abbattere che dir si voglia, l’avversario». ( iosì si esprime Clausewitz introducendo il concetto di guerra assoluta. Passando al secondo gruppo di frasi abbiamo: (6) «La guerra costituisce dunque un atto politico [...] ma [anche] un vero strumento della politica, un seguito del procedi­ mento politico, una sua continuazione con altri mezzi». (7) ■ In ogni caso la guerra deve essere concepita non come cosa

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a sé stante [...] La politica è strettamente connessa con l’atto della guerra e deve esercitare su di essa un influsso ininterrotto». (8) «Le guerre debbono essere diverse, a se­ conda dei motivi e delle condizioni da cui traggono origi­ ne». (9) «Il primo, ed in pari tempo il più considerevole e decisivo, atto di raziocinio esercitato daH’uomo di Stato e condottiero, consiste nel giudicare sanamente, sotto questo punto di vista, la guerra che egli sta per intraprendere, anziché valutarla o volerla valutare per ciò che non può essere secondo la natura delle cose». (10) La guerra è «uno strano triedro composto dalla violenza originale dei suoi elementi [...], dal giuoco delle probabilità e del caso, che le imprimono il carattere di una libera attività dell’anima; dalla sua natura subordinata di strumento politico, ciò che la riconduce alla pura e semplice ragione»15. In questo modo Clausewitz introduce la sua nozione di guerra reale, ovvero di guerra concepita come strumento politico. Tutti i commentatori concordano sul fatto che Clausewitz incontra i maggiori ostacoli quando si trova a dover spiegare il rapporto che esiste fra queste due «idee di guerra» e quasi tutti i commentatori sono partiti dal presupposto che il suo apparato logico è adeguato al compito di mostrare se i nostri due gruppi di frasi sono in contraddizione o almeno in contrasto come sembrano, oppure se forse sono in qualche modo complementari, o ancora se uno di essi si trova in posizione subordinata all’altro. A questo riguardo, abbiamo testimonianza di almeno quattro diverse posizioni assunte in vari periodi da Clausewitz, in differenti fasi di stesura di Della guerra. La prima posizione, che risale al suo saggio Strategia del 1804, è che il solo obiettivo militare appropria­ to è l’annientamento (o l’abbattimento) del nemico (come affermato sopra nelle frasi 3-5) e che quindi ogni considera­ zione politica che ostacoli tale obiettivo finirà per definizio­ ne con l’intralciare l’efficacia dell’azione militare16. La se­ conda posizione è più moderata. Ogni comandante deve prendere in considerazione sia l’obiettivo militare primario - l’annientamento o abbattimento del nemico - sia gli obiet­ tivi e le condizioni politiche che si trovano alla base di ogni guerra reale e che indubbiamente la motivano. In qualche modo, e Clausewitz non riesce a fornirci alcuna formula per spiegarci con maggiore esattezza in quale modo, il condottiero

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deve cercare di riconciliare questi due obiettivi laddove essi entrano in conflitto. Secondo la terza posizione, nel caso si verifichi un conflitto del genere, la precedenza deve essere data a considerazioni politiche. Le esigenze militari possono a volte oscurare per un breve periodo questa verità, ma la guerra non potrebbe essere affatto compresa, non potrebbe a rigor di termini funzionare in alcun modo, se non si pones­ se sotto il controllo e la direzione della politica17. La quarta posizione spinge molto più oltre questa linea di pensiero. Il conflitto fra obiettivi militari e politici, finora dato per scon­ tato, è più apparente che reale. Dietro ogni guerra, qualun­ que sia il suo grado di intensità e di distruzione, si trovano situazioni e decisioni politiche che concordano e spiegano quel grado di intensità e di distruzione. Nonostante le appa­ renze, nessuna guerra è più o meno influenzata dalla politica di altre. Se la politica è meschina, attentamente calcolatrice o esitante, le mosse militari che essa richiederà saranno dello stesso genere. D’altra parte, «appena questa politica diviene grande e vigorosa, lo diviene anche la guerra, per assurgere fors’anche fino all’altezza in cui la guerra giunge alla sua forma assoluta»18. È possibile riassumere e generalizzare queste diverse posizioni ponendosi la seguente domanda: il quadro che la logica ci dà della guerra, ovvero quello di un’attività fonda­ mentalmente lacerata, con situazioni e rivendicazioni politi­ che che spingono in una direzione ed esigenze esclusivamente militari che spingono dall’altra, è da preferire a quel­ lo della guerra come attività fondamentalmente unificata, sotto l’egida della politica di uno stato, condizione utile a unificare, ai fini della teoria, guerre apparentemente diver­ sissime per natura e intensità? Ma piuttosto che cercare di scegliere fra queste due immagini della guerra, vorrei ora mettere in discussione i presupposti comuni a entrambe le posizioni. E a questo scopo, anche se l’idea di Clausewitz della guerra come strumento politico viene generalmente considerata come l’apice del suo pensiero militare, è sulla sua idea di guerra assoluta che dobbiamo focalizzare la nostra attenzione. Mentre infatti la sua versione della guerra come strumento politico può essere criticata, non sorge al­ cun problema sul significato dei termini usati. La situazione è del tutto diversa quando passiamo alla nozione di guerra 87

assoluta. È questa un’espressione creata per l’occasione e Clausewitz non spiega mai in modo completo come la sua importanza richiederebbe il posto che essa assume nel suo pensiero. Cercherò quindi di mostrare ora come Clausewitz si sia imbattuto nella nozione di guerra assoluta e come sia giunto a considerarla la chiave d’accesso principale a ogni interpretazione della guerra e come infine, in seguito, egli abbia cercato di presentarla come una conseguenza necessa­ ria della sua (prima) definizione di guerra e anche di ciò che intendiamo o abbiamo in mente ogni volta che usiamo il termine generico «guerra» in astratto o nel corso di un ragionamento teorico. In questo modo si può cogliere in modo sufficientemente chiaro in cosa consiste il sistema o schema concettuale di Clausewitz e anche perché esso non si dovrebbe accettare come base necessaria delle sue principa­ li teorie sulla guerra. Il sistema concettuale di Clausewitz si basa sul presup­ posto che i due gruppi di frasi da noi appena presentati (15 e 6-10) non si limitano a descrivere e mettere a confronto due grandi forze o interessi che trovano espressione in ogni guerra: si presume piuttosto che queste forze o interessi, e la loro evidente contrapposizione, si impongano necessariamente alla nostra mente nel momento in cui ci poniamo a riflettere in modo chiaro e sistematico sulla natura generale della guerra. Comprendiamo allora che le prime cinque afferma­ zioni ci mostrano la logica interna dell’operazione bellica mentre le altre cinque affermazioni ne rivelano la fondamentale funzione sociale. Che cosa ha portato quindi Clausewitz a ritenere che la logica interna della guerra sia contenuta nella sua nozione di guerra assoluta? Non sappiamo nulla dell’origine di questa nozione nel pensiero di Clausewitz, ma credo che si possa presumere con ragionevole sicurezza un fatto di notevole importanza a questo proposito. Ci sono prove fondate che Clausewitz abbia subito in qualche modo la profonda influenza di Kant, anche se il modo in cui ciò avvenne rimane tuttora oscuro19. Esistono comunque fondati motivi per ritenere che l’in­ fluenza kantiana si fece sentire maggiormente in Clausewitz nella metodologia da lui usata, dal momento che un aspetto essenziale della sua struttura concettuale segue da vicino un principio metodologico che tutti i lettori di Kant conoscono

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bene. Spogliato dai termini tecnici con cui viene espresso in Kant, si tratta essenzialmente di questo: nello stabilire le principali divisioni all’interno del campo di interessi del­ l’uomo, ad esempio fra conoscenza formale ed empirica o fra elementi razionali e animali (o meccanici) nella condotta umana, Kant ritiene che il principio di divisione debba esse­ re espresso nella forma più marcata ed estrema possibile, come se ad esempio potesse esserci (mentre in realtà non c’è) un comportamento che sia totalmente razionale o una conoscenza che prescinda totalmente dai sensi. Una volta stabilito il nostro principio di divisione (che in Kant è quasi inevitabilmente dicotomico) in questa forma estrema, che non può dare adito a errori, allora possiamo prendere tran­ quillamente in considerazione tutti i fattori che potrebbero modificarlo nei casi specifici. Clausewitz utilizza questo prin­ cipio metodologico ad ogni stadio del suo pensiero fino alla sua revisione finale del primo capitolo del primo libro allo scopo di distinguere la guerra da altre forme di azione socia­ le organizzata; ne risulta la sua nozione di guerra assoluta. Dato che la guerra si distingue da altre forme di azione sociale per il modo in cui impiega la violenza, l’uso che essa fa della violenza deve essere inizialmente colto nella sua forma più estrema, nella quale non ci sia traccia di sovrap­ posizione con i processi di negoziazione, di persuasione o di pressione non militare di qualunque tipo20. E questo signifi­ ca l’uso della violenza per una vittoria totale a qualunque prezzo, vale a dire fino all’annientamento o all’abbattimento completo delle forze nemiche. Ora noi sappiamo che Clau­ sewitz frequentò le conferenze di Kiesewetter su Kant quan­ do si trovava alla Scuola militare di Berlino nel 1803 e che la nozione di guerra assoluta compare, in pratica anche se non sotto questo nome, in un saggio sulla strategia che egli scris­ se l’anno seguente. Mi sembra quindi estremamente proba­ bile che questa nozione sia di origine o almeno di ispirazio­ ne kantiana, il che ovviamente non significa affermare che Clausewitz conoscesse direttamente o in dettaglio gli scritti di Kant, né che comprendesse a fondo la sua filosofia. Come si è spiegato fino ad ora, la nozione di guerra assoluta non poggia su valide fondamenta. Sembra anzi evi­ dente che in alcuni campi una distinzione strutturata secon­ do il principio kantiano finisce purtroppo col dimostrarsi 89

ingannevole. (Immaginiamo di dover lavorare nel campo degli studi politici sul principio che ogni parte o ogni grup­ po si debba definire sulla base delle sue manifestazioni o dei suoi membri più estremi.) Ma fin dall’inizio Clausewitz sem­ bra aver avvertito che, con la nozione di guerra assoluta, egli si era imbattuto in qualcosa di più di un principio metodologico, che ora possedeva un talismano o una guida verso ciò che, con deliberata vaghezza, chiamerò «il fatto più impor­ tante relativo alla guerra». E questa credenza venne in breve rafforzata da due considerazioni, che posso menzionare qui solo rapidamente. Innanzi tutto, egli riteneva che i successi di Napoleone fossero dovuti al fatto che questi progettava le sue campagne e le sue battaglie in modi che si avvicinavano molto alla nozione di guerra assoluta, mentre i suoi avversari progettavano le loro come se fosse stata in ballo soltanto una perdita o una conquista territoriale di minore importanza e non una guerra contro Napoleone. Forse Napoleone non insegnò al mondo cos’è la guerra, nella pratica o come regola generale, ma secondo Clausewitz egli aveva insegnato certa­ mente al mondo come la guerra andava combattuta, aveva riconosciuto che la guerra è una questione seria, in cui è in gioco la sopravvivenza o l’estinzione di intere nazioni. In secondo luogo, quando Clausewitz si accinse a scrivere i saggi e i capitoli sull’addestramento militare, egli notò che i princìpi tradizionalmente riconosciuti di tattica e strategia sono esemplificati in forma molto più chiara e efficace in guerre che si avvicinano alla forma assoluta piuttosto che in quelle da lui definite, a un certo stadio dell’evoluzione del suo pensiero, come «mezze guerre», vale a dire guerre la cui logica interna è nascosta o confusa dall’interferenza di con­ siderazioni politiche che non contribuiscono in alcun modo a un’efficace esecuzione della guerra stessa. Si tratta di considerazioni di grande importanza che vorrebbero spiegare la convinzione di Clausewitz che la nozione di guerra assoluta era o almeno indicava «il fatto più importante relativo alla guerra». Fu solo durante la revisione definitiva del primo capitolo del primo libro, tut­ tavia, che egli tentò di dare una dimostrazione formale della sua posizione. Il capitolo sottoposto a revisione definitiva consiste in un ragionamento insolitamente compresso e com­ plicato, che mette in evidenza il modo in cui un certo nume­ 90

ro di concetti che altrove vengono trattati separatamente sono connessi nel pensiero di Clausewitz, come ad esempio il rapporto dialettico che esiste fra attacco e difesa in tutte le fasi e a tutti i livelli della guerra, lo stretto legame che esiste fra ciò che egli definisce «contrasto» in guerra e tutti gli aspetti contingenti e incerti, e tutte le interferenze politiche, alle quali ogni guerra è soggetta. E a questo proposito il primo capitolo del primo libro fornisce un utile servizio ai lettori ben preparati. Ma per il nostro attuale scopo - l’inte­ resse di Clausewitz per la natura generale della guerra - ciò che esso ha di rilevante è la struttura logica della sua argomentazione di fondo, che si rivela del tutto inadeguata e confusa, e in alcuni punti apertamente fallace. E di prima­ ria importanza per gli studi su Clausewitz mostrare il motivo per cui questo avviene, non solo perché questo famoso pri­ mo capitolo ha suscitato tanto disorientamento in innume­ revoli lettori, ma perché, una volta esposte le sue debolezze, è relativamente semplice comprendere come Clausewitz avrebbe potuto evitarle, se solo avesse sviluppato alcune intuizioni esposte in altri punti di Della guerra. Se quindi nei prossimi paragrafi potrò sembrare ingiustamente severo con Clausewitz, sarà con l’obiettivo di recuperare e ridefinire la sua fondamentale intuizione sulla guerra in una forma che permetta un’accettazione e un’applicazione più semplici. Due grosse difficoltà ci attendono quando leggiamo il primo capitolo del primo libro. Come indicato dalle affer­ mazioni da noi riportate nelle pagine precedenti, esso inizia con un’argomentazione che si propone di provare in modo definitivo il primato della nozione di guerra assoluta, vale a dire, grosso modo, che essa esprime il fatto più importante relativo alla guerra, sia nella pratica che per una sua com­ prensione teorica; e passa, a circa un terzo del capitolo, a un complesso ragionamento con il quale si vorrebbe dimostra­ re che la nozione di guerra assoluta, presa isolatamente, non è altro che un’astrazione fuorviante, i cui usi devono essere subordinati alla nozione di guerra come strumento politico. E nel passaggio dal primo al secondo stadio del capitolo che sorgono le difficoltà. Inoltre nello stesso passaggio si verifi­ ca una ulteriore difficoltà evidente a livello terminologico, che però risulta essere ben più complessa. La prima serie di argomentazioni, che mira a fondare il primato della guerra 91

assoluta, si può riassumere nell’affermazione che questa nozione consegue dalla prima definizione di guerra data da Clausewitz (quella a un unico livello): la guerra assoluta viene presentata come una verità per definizione, una verità necessaria. La seconda serie di argomentazioni, che mira a sminuire la nozione di guerra assoluta, si fonda su una dot­ trina relativa al significato delle idee e dei termini astratti in generale, senza considerare il modo in cui essi vengano eventualmente definiti in una particolare teoria. Entrambe le argomentazioni sono terribilmente condensate e oscure, ma è indubbio quali funzioni esse intendano adempiere, su quali ampie basi si fondino le loro conclusioni e come sia pessimo il loro carattere. Nella prima serie, la conclusione necessaria non conse­ gue dalla prima definizione della guerra data da Clausewitz (la nostra frase 1), ma da un suo caso altamente specifico (la nostra frase 2). Né d’altra parte si sarebbe raggiunto l’obiet­ tivo principale, ovvero dimostrare che la nozione di guerra assoluta esprime il fatto più importante relativo alla guerra, se la sua conclusione fosse derivata dalla sua definizione di guerra. Non esiste alcun motivo intrinseco per cui il fatto più importante relativo a ogni termine debba essere deducibile dalla sua definizione; in questo senso esso può essere indub­ biamente accidentale da un punto di vista logico. Si può quindi affermare che il fatto più importante relativo alla famiglia è che essa serve a conservare la proprietà privata e che il fatto più importante relativo al denaro è che esso facilita il credito; nessuna di queste due funzioni, però, si può dedurre dalle definizioni comunemente accettate della famiglia o del denaro. Di conseguenza, questo tentativo da parte di Clausewitz di fornire una difesa formale del prima­ to della guerra assoluta si deve dichiarare fallito. Passiamo ora però al modo in cui Clausewitz, nelle ulti­ me sezioni del capitolo, cerca di rinnegare il primato che aveva in precedenza accordato alla nozione di guerra assolu­ ta. Fino a che viene messa in evidenza l’importanza del contrasto, dell’incertezza e della asimmetria nei confronti della forza che Clausewitz individua nel rapporto fra difesa e attacco in tutte le forme di guerre conosciute, il ragiona­ mento è pertinente e colpisce favorevolmente. Esso porta alla luce un certo numero di considerazioni che, prese com92

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plessivamente, mostrano come sia spesso molto difficile, se non impossibile, preparare, condurre e combattere una bat­ taglia ispirandosi ai princìpi della guerra assoluta. Stando così le cose, il primato che Clausewitz attribuisce a questa nozione richiede indubbiamente ulteriori approfondimenti e dimostrazioni, o eventuali confutazioni. Ma in pratica Clausewitz non fornisce né gli uni né le altre. Ancor prima di sollevare le critiche pertinenti appena elencate, egli am­ mette che accettare la nozione di guerra assoluta come logi­ ca interna che regola ogni conflitto significa volgere le spal­ le ad alcune delle realtà più evidenti dell’esperienza milita­ re e indulgere in una sorta di «fantasticheria della dedu­ zione logica». Come va spiegato questo incredibile voltafac­ cia? Il fulcro del ragionamento è qui la pretesa, familiare a tutti i lettori di Berkeley e di Hegel, che ogni idea astratta sia una falsificazione della realtà semplicemente in quanto è, per definizione, selettiva. Astrarre significa semplificare e accettando la semplificazione si viene fuorviati. Ma la rispo­ sta ovvia e sufficiente è che ogni confronto, ogni generaliz­ zazione, ogni teoria, ogni pensiero, perfino, include una certa dose di astrazione e di generalizzazione. Pensare non significa abbracciare la totalità del reale, né essere assorbiti da essa. È quindi privo di senso accusare ogni singola astrazione semplicemente perché è astratta; la questione pertinente, in ogni caso, è stabilire se una specifica astrazione può essere più o meno d’aiuto, se può essere illuminante, verificabile, adeguata, all’interno dei limiti di una data area problematica. L’idea di guerra assoluta getta luce su deter­ minati aspetti della guerra che altrimenti sarebbe facile tra­ lasciare? Se è così, allora essa ha un’importanza reale e perfino estrema sia per la pratica che per la teoria militare. Clausewitz però, nelle importantissime sezioni sei, sette e otto del primo capitolo del primo libro, adotta un atteggia­ mento talmente polemico verso l’astrazione in genere da dimenticare queste evidenti verità. Clausewitz scrive come se non potesse esistere alcuna connessione fra le astrazioni semplificate della teoria della guerra, con i loro significati semplici e prestabiliti, e il carattere infinitamente comples­ so, variabile, «camaleontico» della guerra, così come essa ci viene rivelata dall’esperienza e dalla storia. «Il puro concet-

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to astratto» di guerra, ovvero la guerra secondo la concezio­ ne che ne abbiamo, diviene per lui qualcosa che non ha controparte o giustificazione «esterna alla nostra mente»: è una «guerra sulla carta», con «leggi puramente speculati­ ve», una sorta di «fantasticheria della deduzione logica»21. Si tratta di una conclusione incredibile dato che egli, in un altro punto del suo libro, fornisce una motivazione ben più persuasiva della necessità (a fini educativi) di stabilire i princìpi generali della guerra e del bisogno di adattarli co­ stantemente alle esigenze dell’azione. Questa parte del pensiero di Clausewitz fornirebbe una riserva di caccia ideale per gli studiosi di filosofia logica. Essa presenta esempi insolitamente diretti e rilevanti di que­ gli errori assai generali (categoriali) dei quali i filosofi si accusano costantemente gli uni con gli altri, ma che rara­ mente vengono esemplificati in opere di teoria scientifica: in particolare, essa si basa su un caso da manuale, la cosiddetta «teoria del significato dei termini generali». Più che dedi­ carmi alla caccia dei suoi errori, però, preferisco cercare di ricostruire, basandomi su molti altri passi di Della guerra, quello che è a mio parere l’indiscutibile pur se inconsapevo­ le fondamento dell’ossessione di Clausewitz, a lungo soste­ nuta pur se infine rifiutata, per la guerra assoluta. La rico­ struzione che segue ci permetterà di comprendere come egli abbia potuto per tanto tempo considerare la nozione di guerra assoluta di suprema importanza per la teoria della guerra, pur sapendo che essa si trova in contraddizione con i fatti più evidenti dell’esperienza militare. La mia ricostru­ zione presenta cinque stadi: (1) Combattere significa cercare di infliggere trasforma­ zioni fisiche dolorose o inabilitanti - più comunemente col­ pi, ma anche torsioni, cadute e qualunque altra cosa atta a provocare invalidità - a un avversario attivo. (2) Maggiore è l’intensità con cui assestiamo i nostri colpi, minore è la capacità da parte del nostro avversario di tollerare la situa­ zione in cui si trova; e se assestiamo i nostri colpi con suffi­ ciente intensità nei posti giusti, essi piegheranno la sua forza o la sua volontà di combattere. (Un caso estremo della prima possibilità è la morte dell’avversario, della seconda la sua resa incondizionata). (3) La previsione o il timore di un risultato del genere può indurre il nostro avversario a smettere 94

di combattere molto tempo prima che tale risultato venga raggiunto; questa possibilità non può influenzare comun­ que il modo - il solo modo logico - in cui dovremmo con­ durre la lotta (o la guerra), vale a dire applicando fin dal­ l’inizio e per tutto il tempo necessario Finterà forza di cui disponiamo. (4) Tutto ciò che è stato detto finora «dalla nostra parte» vale anche per quel che concerne il nostro avversario; ognuna delle due parti, se agisce in modo logico, deve quindi combattere nel modo e con i mezzi che aumen­ tano al massimo le sue possibilità di vittoria totale, anche se questo va al di là dei suoi interessi reali, e nella consapevo­ lezza che l’avversario, se si comporta in modo logico, farà altrettanto. (5) Questo è il principio della guerra assoluta. Il problema centrale di Clausewitz è come riconciliare la sua logica o subordinarla a quella calcolatrice, spesso compromis­ soria, dell’arte del governare. Il problema, posto in questi termini, è poco realistico e poco utile perché nel terzo punto si fonda su una contraddi­ zione logica. Quando affermiamo che «questa possibilità non può influenzare comunque il modo ...» tutto ciò che siamo autorizzati ad affermare è invece: «questa possibilità non dovrebbe influenzare il modo ... in cui dovremmo con­ durre la lotta (o guerra)». E infatti facile osservare che se il nostro avversario sembra disposto a cessare le ostilità in termini che sarebbero vantaggiosi per noi, allora la logica richiede che bisognerebbe almeno domandarsi se continua­ re a combattere a oltranza sia razionale. Questa ultima pos­ sibilità potrebbe invece avere esiti terribilmente devastanti o distruggere la possibilità di una pace vantaggiosa alla quale ci potrebbe condurre una diminuzione della pressione ■ militare da noi esercitata. Si può ammettere che nessuna di » queste considerazioni sia sufficiente, in un caso specifico, a giustificare una diminuzione della pressione militare da noi esercitata su un avversario. Si tratta però certamente di considerazioni simili a quelle spesso studiate e utilizzate da governi intelligenti per condurre a una conclusione vantag­ giosa una guerra gravosa. E di conseguenza è lecito avanzare dubbi di carattere ancor più generale sulle affermazioni latte ai punti tre e quattro, ovvero che esiste un solo modo logico di combattere che consiste nell’aumentare al massi­ mo le propie possibilità di vittoria totale. 95

Vari passi di Della guerra si possono considerare costrui­ ti a partire da quest’ultima critica o dando ad essa una forma positiva. In modo esplicito nell’Avvertenza del 1827 Clausewitz asserisce che esistono due tipi radicalmente di­ versi di guerra: la prima (guerra assoluta) nella quale l’obiettivo è l’«annientamento» completo dell’awersario, tale da potergli imporre i termini che più ci convengono; l’altra nella quale lo scopo è quello di assicurarsi determinati van­ taggi (in particolare territoriali) nei confronti dell’avversa­ rio che si potrà sfruttare in seguito come mezzo di scambio al tavolo di pace. Clausewitz osserva che «forme interme­ die» fra i due tipi di guerra sussistono sempre ma che co­ munque le tendenze dominanti della guerra verso l’uno o l’altro obiettivo saranno sempre evidenti. Questo impliche­ rebbe l’esistenza di due modi o stili di combattimento che corrispondono ai due obiettivi ma che ammettono una tran­ sizione o passaggio dall’uno all’altro nel corso di una guerra reale. Come già osservato, però, Clausewitz non sviluppa questa linea di pensiero nella sua revisione finale del primo capitolo del primo libro. Inoltre, in tutto il secondo capitolo del primo libro, Clausewitz insiste sul fatto che, pur se esistono evidente­ mente diversi obiettivi e scopi nella guerra, i mezzi caratte­ ristici con cui ottenerli si riducono a uno solo, necessario e in fondo sufficiente in sé: il combattimento o lotta. È questo l’elemento comune o mediatore che giustifica la possibilità di transizione fra i due tipi di guerra descritti OeXüAvverten­ za. Nella prima, che per convenienza chiamerò d’ora in poi «guerra a eliminazione», i colpi vengono assestati continuamente e principalmente in un’unica direzione, con l’inten­ zione di colpire l’avversario nel suo punto debole e invalidarlo. Nel secondo tipo di guerra, che chiamerò d’ora in poi «guerra di convenienza», i colpi vengono assestati laddove il nemico è maggiormente vulnerabile, con l’intenzione di danneg­ giarlo e di porlo in condizioni di inferiorità, nonché di sco­ raggiarlo, in senso più generale22. Il primo modo di combat­ tere può sembrare meno frequente e più costoso ma, in caso di successo, quest’ultimo è incomparabilmente maggiore. L’altro modo di combattere, però, sembrerebbe permettere assestamenti più sottili e potrebbe essere quindi uno stru­ mento politico più sensibile (su questo punto torneremo in 96

seguito). All’inizio di una guerra di convenienza ognuna delle due parti metterà a confronto i probabili guadagni con I probabili e tollerabili costi che tali guadagni comportano. Se eventualmente i costi si mostrassero troppo alti, si po­ tranno smorzare o sospendere le ostilità e accettare le sco­ raggianti perdite preferendole ad altre, ancor meno tollerabili. Clausewitz termina però questa parte della sua argomenta­ zione con una nota sorprendente, mettendo in guardia condottieri e governi che privilegiano le «guerre di conve­ nienza» nella certezza che con esse si possano evitare i disa­ stri peggiori o più gravosi perché la loro fiducia può essere tradita. Le strategie calcolate fin nei minimi particolari, ba­ sate sull’equilibrio fra rischi e vantaggi propri e dell’avversario, può esporre il condottiero più scaltro a un inatteso colpo dell’avversario che potrebbe perfino annientarlo, se ne sottovaluterà le risorse o l’audacia; è questa la calamità più grande che può incontrare un condottiero in guerra. Questo rischio - la possibilità sempre presente più che la probabilità calcolata di un attacco annientante - più di ogni altra cosa può spiegare l’ossessione di Clausewitz per la guerra assoluta. Essa deve sempre essere presente alla mente del condottiero perché rappresenta i risultati peggiori e migliori che gli si possono accreditare23. Questa linea di pensiero, che ricorre in molti altri passi di Della guerra, venne ripresa da Hans Delbrück, il maggio­ re divulgatore e critico di Clausewitz, che fece derivare da essa la sua teoria dei due tipi di strategia: quella dell’annieni amento {Niederwerfungsstrategie} e quella dello sfinimento (Ermattungsstrategie}24. In questa teoria i principali punti di sostegno della possibilità di transizione da una forma di guerra all’altra sono messi in evidenza con una chiarezza che ( lausewitz non aveva mai raggiunto. Ci si può chiedere comunque se Delbrück, più di quanto abbia fatto Clausewitz, abbia riconosciuto il ruolo cruciale che la nozione di questa transizione gioca necessariamente nella delucidazione del < oncetto di guerra. Entrambi i teorici tendono ad assumere, scrivendo, il punto di vista di un condottiero che accetta un « ompito e stabilisce fin dall’inizio il modo migliore per por­ la rio a termine - decidendo in pratica le linee su cui si innoverà la battaglia o la campagna futura e quale ne sarà la nai ura. Ma è ben noto che la battaglia o la campagna futura

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dipenderà altrettanto, se non in misura maggiore, dalle de­ cisioni prese dell’avversario. Tocchiamo qui un punto che, come vedremo nel quinto capitolo, colpì fortemente Tolstoj: una serie di mosse improvvisate ad hoc da parte di due eserciti può progressivamente determinare, limitandoli, i movimenti e gli schieramenti futuri reciproci, fino a che la battaglia non diventi inevitabile, anche in circostanze e forse con conseguenze che nessuna delle due parti può affermare di aver progettato o deciso a tutti gli effetti, o in tutta onestà dichiarare di aver accettato. Clausewitz mostra di aver preso in qualche considerazione questo argomento in alcune delle sue analisi storiche (in particolare nel suo resoconto della campagna del 1812) e, indirettamente, nei tanti passi di Della guerra nei quali si sofferma sull’importanza per ogni condottiero di persistere nell’obiettivo assegnato, contro la tentazione di deviare da esso come le circostanze, i rischi o le opportunità potrebbero suggerire. Clausewitz però non mostra di valutare nella giusta misura il fatto che nel corso di una campagna anche il condottiero più risoluto può esse­ re costretto, di fronte al rischio dell’annientamento totale del suo esercito, a passare da una forma (un obiettivo o una strategia) di guerra all’altra. Le campagne di Napoleone, che Clausewitz considera il maestro supremo della guerra a eliminazione, offrono svariati esempi di cambiamenti impo­ sti dalle circostanze. Ma per comprendere fino in fondo il punto in questione, ovvero l’importanza centrale della tran­ sizione da una forma di guerra all’altra o da uno stile di combattimento all’altro, vorrei chiudere questa sezione del­ la nostra analisi con un esempio semplicissimo. Prendiamo il caso di un normale incontro di pugilato. È del tutto plausibile che ciascuno dei due avversari inizi a combattere con un piano chiaro e definito in mente: egli mira alla vittoria ai punti o per knock out e, dopo alcune manovre preliminari, procederà secondo il suo piano. Ma è ben noto che chi inizia con un piano in mente può essere indotto dall’opportunità o dalla disperazione di fronte a una resistenza inattesa, o ancora del mero crescendo della lotta, a cambiare il suo metodo di combattimento nel corso dell’in­ contro. Il rischio di una sconfitta ai punti può indurlo a sforzi affannosi tesi a mandare al tappeto l’avversario, così come l’impossibilità di ottenere una vittoria per knock out 98

può indurlo a combattere per una semplice vittoria, un pareggio o perfino un’onorevole sconfitta ai punti. Ogni combattimento, quindi, e non solo la guerra, contiene in sé i germi o la possibilità di un altro tipo di risultato; e la natura di tale risultato, così come la questione di chi risulterà vin­ citore, può restare incerta fino alla fine del confronto.

Vorrei ora riassumere la ricostruzione da me proposta del sistema concettuale di Clausewitz. Clausewitz percepiva una frattura di estrema profondità - che a volte gli sembrava una vera e propria contraddizione - fra la progettazione e l’esecuzione di ogni guerra. Egli inizialmente identificò tale frattura con un semplice conflitto fra la logica del combatti­ mento e le funzioni e i presupposti politici della guerra. In seguito cercò di spiegarla in vari modi e infine arrivò a subordinare completamente la logica del combattimento all’idea della guerra come strumento politico. Ma a fianco di tale sviluppo, che culmina nella conclusione del primo capi­ tolo del primo libro, si può rintracciare un’altra tendenza nel suo pensiero, vale a dire la convinzione che esistano due modi di combattere fondamentalmente diversi: il primo nel quale ogni sforzo è diretto a infliggere un colpo annientante all’awersario, l’altro nel quale si fa uso della propria posi­ zione, della propria forza e delle proprie risorse per ottenere tutti i vantaggi possibili. Nessuno di questi due modi di combattere è più naturale o più logico dell’altro. Ognuno di essi possiede una propria utilità nei rapporti internazionali; ognuno di essi richiede, da un punto di vista militare, sforzi, abilità e disciplina specifici; ognuno di essi esige scelte poli­ tiche risolute e fondate. La principale attrazione di questa seconda tendenza nel pensiero di Clausewitz sta nel fatto che essa rende giustizia alla realtà della storia militare, com­ preso il fatto che entrambi i tipi di guerra sono soggetti alla direzione e al controllo della politica, anche se indubbia­ mente di genere diverso. Allo stesso tempo, mettendo in evidenza i frequenti passaggi da un tipo di guerra all’altro, essa ci permette di rendere giustizia ad entrambe le seguenti affermazioni: innanzi tutto che, nella realtà storica, pochis­ sime guerre si avvicinano alla sua forma assoluta e inoltre che, nonostante questo, la semplice possibilità che una guerra si avvicini alla sua forma assoluta è e dovrebbe essere il 99

pensiero dominante di ogni condottiero, dal momento che essa rappresenta il successo supremo o il peggior disastro che gli possa capitare. Se ora mi si obietta che Clausewitz non ha mai sviluppa­ to fino in fondo quest’ultimo punto, la mia risposta è che in un certo numero di passi egli giunge molto vicino a esporlo chiaramente e questo può bastarci: in tal modo egli, inoltre, riconcilia le due principali tendenze (e polarità) del suo pensiero militare, nel senso che rende giustizia a entrambe; si tratta inoltre di una posizione che si accorda bene alla sua visione storica della guerra, allo sviluppo della guerra che egli ha visto con i suoi occhi e del futuro del tutto impreve­ dibile che egli prevede per essa. Concluderò con alcune considerazioni su quest’ultimo argomento. La visione comunemente accettata della filosofia della guerra di Clausewitz ne colloca il centro nella sua concezio­ ne della guerra come continuazione della politica con rag­ giunta di altri mezzi, o più semplicemente della guerra come strumento politico. Ma questa visione, anche se sostenuta da ammiratori sinceri di Clausewitz, ci porta fuori strada. Essa suggerisce che il suo interesse reale, anche se focalizzato in molti dei suoi capitoli su questioni specificamente milita­ ri, sia stato di tipo più vasto, ovvero rivolto verso la politica e più in particolare verso le relazioni, le tensioni e i conflitti fra diverse entità politiche. Tale ipotesi rende Clausewitz più rispettabile, dal momento che è oggi opinione comune che la guerra, tranne quando viene analizzata all’interno dell’orizzonte più ampio della politica e della sociologia, è un argomento tanto ripugnante nel suo contenuto quanto privo di interesse teorico. Ma la verità pura e semplice è che a Clausewitz interessa in primo luogo la guerra in sé; in questo il libro riflette l’autore, che è a sua volta il portavoce della sua epoca. Della guerra è esplicitamente un libro sulla guerra ed è stato scritto in primo luogo per militari. Il suo argomento è la guerra e le diverse proprietà, rapporti e dipendenze che Clausewitz attribuisce a essa nel corso del suo libro sono collegate da un unico obiettivo: chiarire di cosa si occupa questo aspetto terribile e tragico dell’esisten­ za umana e qual è il modo in cui esso opera. Della guerra, come hanno osservato molti dei suoi commentatori, non presenta un’apologià della guerra ma piuttosto una sua 100

fenomenologia: compito che è reso necessario dalla difficol­ tà di tenere presente alla coscienza l’idea di guerra con chiarezza e completezza, come avviene con nozioni ugual­ mente fondamentali e sfuggenti come pace, giustizia, liber­ tà, felicità e amore. Al contrario, le osservazioni di Clausewitz sulla politica sono (almeno in Della guerra) stranamente astratte e scarne. In pratica esse si limitano a un’unica, brillante intuizione, che nessuno dei suoi commentatori sem­ bra aver notato, vale a dire che lo stato è il rappresentante, o agente, degli interessi generali di una data comunità nei confronti di altri stati. L’apparente circolarità dell’afferma­ zione esprime in realtà il riconoscimento da parte di Clausewitz dell’importantissima verità che parlare di «sta­ to» in sé e per sé è sempre fuorviante: nessuno stato sarebbe tale se non esistesse come uno stato in una pluralità di altri stati che sono (almeno potenzialmente) suoi rivali. E questo è un concetto che, considerata la tradizione radicata della filosofia politica occidentale, difficilmente poteva venire in mente a uno scrittore che non si stesse occupando in primo luogo della natura della guerra. Ma l’ipotesi che Clausewitz sia fondamentalmente un teorico politico (nonostante l’accurato travestimento milita­ re) deve essere respinto per un secondo motivo. In questo modo, infatti, si finirebbe col negargli la sua originalità e la sua unicità. Altri prima di lui avevano riconosciuto il ruolo cruciale della guerra in politica - Machiavelli, Hobbes, Locke, Montesquieu e Rousseau, per menzionare soltanto le perso­ nalità maggiori. Ma l’interesse primario di Clausewitz diver­ ge radicalmente dal loro. Della guerra nasce dall’insod­ disfazione dell’autore nei confronti di alcune dottrine spe­ cificamente militari, come ad esempio il modo in cui una guerra andava intrapresa e vinta, e non dall’eventualità di usare le guerre per ottenere obiettivi politici quali la sicurez­ za, la forza o la libertà della propria nazione, o altri dello stesso genere. E vero che nelle analisi più generali della natura della guerra Clausewitz richiama la nostra attenzione su aspetti di essa che sono di primaria importanza per la politica, e quindi Della guerra è un’opera di notevole valore educativo sia per i teorici della politica che per chi se ne occupa praticamente. Ma si deve aggiungere che questo fine educativo ulteriore è sempre espresso in termini del tutto 101

generici: l’ultima cosa che Clausewitz avrebbe affermato di voler fare nel suo Della guerra era insegnare ai politici a fare il proprio mestiere. E questo è indubbiamente vero anche alla luce del fatto che un luogo comune della critica di Clausewitz, in particolare fra i lettori di orientamento socio­ logico, è che egli dà la guerra per scontata, la considera un dato di fatto e non mostra alcun interesse particolare per le situazioni politiche e sociali specifiche che generalmente la generano, la prolungano o la intensificano; tanto meno egli si chiede se la guerra si possa contenere, limitare o elimina­ re del tutto dalla scena umana. In breve, Clausewitz può essere criticato, con qualche motivazione ma senza ren­ dergli realmente giustizia, per averci dato un’illuminante anatomia della guerra - delle sue azioni in generale e dei possibili movimenti delle sue singole parti - senza però aggiungere niente alla nostra comprensione della sua fisio­ logia, delle forze fondamentali che la suscitano e la tengono attiva. Queste affermazioni e queste repliche, queste critiche e contro-critiche relative agli interessi e alle intenzioni princi­ pali di Clausewitz ci spingono a tentare di delineare qualco­ sa che egli non ha mai pensato di darci: una descrizione generale di quella che si potrebbe definire la sua visione storica della guerra. Innanzi tutto, come già detto, Clausewitz non presenta alcuna teoria politica o sociologica della causa o delle cause principali che conducono alla guerra. Egli basa invece le sue analisi generali sulla varietà straordinaria di obiettivi, mezzi, intensità e livelli di complessità delle guerre registrate dalla storia. Uno dei passi più notevoli di Della guerra, un brillante schizzo panoramico della storia della guerra dalla Grecia classica all’era napoleonica, si apre con le seguenti parole: «I tatari semi-civili, le repubbliche anti­ che, i feudatari e le città commerciali del Medioevo, i sovra­ ni del secolo XVIII, infine i principi ed i popoli del XIX, tutti hanno fatto la guerra a loro modo, diversamente, con mezzi e scopi diversi»25. Da questo consegue che ogni guer­ ra va studiata all’interno del suo contesto sociale specifico e ugualmente che, se vogliamo cercare cause, elementi o princìpi stabili della guerra, essi devono restare fluidi nella nostra mente, come nella mente dei grandi condottieri, e non biso­ gna mai permettere che si irrigidiscano in dogmi. In secon102

do luogo, per quel che riguarda il futuro della guerra, la questione è semplice: Clausewitz non prende in considera­ zione l’eventualità di una scomparsa della guerra dalla scena umana. Questo non deve sorprenderci: egli mostra a questo proposito lo stesso atteggiamento dei suoi pari - filosofi e politici, come anche militari - con un’unica, autorevole ec­ cezione, quella del suo maestro filosofico Kant. Quel che invece potrebbe sorprenderci è la veemenza con cui, nei primi paragrafi di Della guerra, Clausewitz inveisce contro quei teorici settecenteschi che avevano suggerito che la guerra, con il progresso della civiltà, sarebbe potuta diventare sem­ pre meno brutale e sanguinaria e sempre più un esercizio strategico di grande abilità, nel quale entrambe la parti avrebbero appreso ad accettare le perdite e le conquiste secondo le «regole del gioco». Contro l’ottimismo superfi­ ciale di questa posizione, Clausewitz insiste sul fatto che più le motivazioni sono serie, più la posta in gioco è alta, più le questioni in ballo sono vitali, più il coinvolgimento popola­ re in entrambe le parti in causa è ampio e più la guerra che ne deriverà sarà sanguinosa e distruttiva. Sarebbe comunque un grave errore dedurre da tutto ciò che Clausewitz sia stato un brutale militarista che si diletta­ va di guerre violente e aggressive. Al contrario, ed è questo uno degli aspetti del suo pensiero che dovrebbe sbalordire sia i militaristi che i pacifisti, egli considerava la guerra non solo come qualcosa che aveva radici saldissime nella competitività dei gruppi umani, ma anche come qualcosa che veniva suscitato e tenuto in vita principalmente da quei gruppi relativamente più deboli, «innocui difensori», per i quali egli provava una spontanea e giusta comprensione umana. Come si espresse con estrema arguzia, in frasi che in seguito sarebbero piaciute molto a Lenin quando le lesse nel 1915, Il conquistatore [ovvero, diremmo noi, l’aggressore] ama sem­ pre la pace (Napoleone lo ha sempre affermato nei propri riguar­ di) e pretenderebbe entrare tranquillamente e senza opposizione nel nostro Stato; ora noi dobbiamo volere la guerra, e quindi prepararla, appunto per impedirglielo. In altri termini, significa che sono precisamente i deboli, coloro cioè che sono esposti a doversi difendere, che debbono sempre essere armati per non venire sorpresi.

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Queste parole non implicano che la guerra sia una neces­ sità permanente per gli stati che amano la libertà, ma si avvicinano molto a una spiegazione del motivo per cui il ruolo della guerra nella storia è sempre stato lungi dall’esse­ re distruttivo o retroattivo. Esse concordano inoltre con l’interessante proposta del professor Howard secondo il quale è possibile che Clausewitz abbia trovato la dottrina esposta da Kant in Per la pace perpetua (se l’avesse interpre­ tata in modo corretto) del tutto compatibile con il suo og­ gettivo resoconto dei princìpi della guerra così come vengo­ no offerti dalla storia militare26. In che modo però questa generale accettazione della guerra come aspetto inevitabile della vita politica influenzò la concezione che Clausewitz aveva del sistema di stati euro­ peo? Su questo argomento le sue opinioni si basavano su quelle dei suoi maestri illuministi ma venivano comunque sviluppate con quella mistura di scetticismo e di eroismo che gli era tipica. Pur senza trovare alcuna prova di una certa o almeno probabile evoluzione in quello che egli cono­ sceva della storia europea, egli riteneva comunque che, con il sorgere di una decina di stati realmente indipendenti, nessuno dei quali sembrava in grado di raggiungere una preponderanza militare permanente sugli altri, si sarebbe avuta nell’Europa moderna una sorta di equilibrio politico difficile da sconvolgere. Fino a che la maggior parte degli stati indipendenti avesse conservato un interesse comune per la propria indipendenza, i tentativi di creare un’egemonia efficace o un impero in Europa non avevano molte possibi­ lità di avere successo, come testimoniavano le vicende di Carlo V, Luigi XIV e Napoleone. Ovviamente, questo pre­ sunto equilibrio si basava sull’uso continuo della guerra o almeno sulla costante preparazione ad essa e questo bastava a giustificarla agli occhi di Clausewitz. Ma sarebbe sciocco attenderci troppo da tale equilibrio. Pur offrendo una ragio­ nevole prospettiva di un’indipendenza durevole per alcuni e forse per quasi tutti gli stati europei, l’equilibrio in questio­ ne non poteva garantire la sopravvivenza di ogni singolo stato europeo, ancor meno quella di ciascuno di essi27. Al contrario, Clausewitz vedeva la storia dell’Europa moderna come una continua lotta che implicava sempre dei rischi, a volte minori e tollerabili, altre volte penosi e letali, sia per le 104

nazioni grandi e potenti che per quelle deboli e senza prote­ zione. Eppure la parte predominante ricoperta dal caso nel gioco della sopravvivenza delle nazioni non era motivo per lui di particolare angoscia. Fin dagli anni della sua formazio­ ne egli aveva riconosciuto la posizione rilevante del caso nella guerra; e il fatto che esso riapparve in un gioco più vasto nel quale la guerra era lo strumento principale gli parve semplicemente un ennesimo appello a quel tipo di coraggio che (per richiamare una delle sue espressioni più belle) si può permettere di lasciare qualcosa alla sorte. D’al­ tra parte questa concezione della guerra e della politica era conforme nelle sue linee generali alla tendenza pessimistica della natura di Clausewitz. Come scrisse quest’ultimo alla sua fidanzata all’età di ventisette anni: «Anche le creazioni più sublimi della società portano dentro di sé il germe della propria distruzione»28. La guerra moderna europea, quindi, significava per Clau­ sewitz un conflitto continuo nel quale nessun successo era garantito per sempre e nessuna conquista, per quanto conso­ lidata con cura, avrebbe potuto durare a lungo. Ma questa era solo una faccia dello scetticismo stoico di Clausewitz nei confronti della guerra. C’era anche il problema delle varia­ zioni di intensità che si potevano riscontrare in essa, come ad esempio quella individuabile mettendo a confronto alcu­ ne delle guerre dinastiche minori nell’Europa settecentesca con le battaglie fra nazioni del 1812-14 alle quali Clausewitz aveva preso parte. Nel corso della sua vita, il numero e l’importanza delle innovazioni tecniche nella guerra terre­ stre erano stati minimi: a parte la dimensione stessa degli eserciti che Napoleone cercò di controllare, lo sviluppo più importante, che Clausewitz fu fra i primi a riconoscere, fu la guerriglia. Egli attribuì quindi le profonde differenze d’in­ tensità delle guerre a una causa fondamentale: il grado di coinvolgimento, generalmente sulla base della sopravviven­ za della nazione, di uno o di entrambi i popoli in guerra. E fu perciò indotto a identificare le guerre che «si avvicinavano al punto assoluto» con quelle che potremmo definire «guerre di democrazie armate». Ma ancora una volta, con straordi­ naria saggezza, si rifiutò di stilare previsioni o consigli pre­ cisi. Due delle sue frasi sull’argomento vengono spesso cita­ te, ma meritano di essere citate e meditate ancor di più:

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Saranno tutte le future guerre in Europa condotte coll’intera potenza degli Stati, e quindi soltanto per grandi interessi dell’in­ tera nazione, oppure si ristabilirà nuovamente un isolamento fra i governi da un lato e i loro popoli dall’altro? E difficile giudicar­ lo [...] Ma indubbiamente si converrà con noi che quegli intralci i quali, in certo qual modo, esistevano solo per chi mancava della coscienza di quanto sia possibile compiere, una volta eliminati non potranno esser facilmente ristabiliti: e che quanto meno, sempre quando si tratterà d’ora in poi di grandi interessi, l’ostilità reciproca si scaricherà in modo analogo a quanto abbiamo veduto avvenire ai giorni nostri29.

Scetticismo? Certo, ma con un tono terribilmente ammo­ nitore che graverà su un secolo intero e che non è stato ancora interamente assorbito. Qui, come molto spesso gli accade, Clausewitz scrive di una guerra il cui stile e le cui dimensioni sono state del tutto superate nel nostro secolo, ma riesce ugualmente a portare la nostra attenzione sugli aspetti imponderabili della nostra situazione. Clausewitz ci spinge a tornare sul paradosso supremo della guerra, che è anche uno dei principali paradossi della politica: saremo giudicati per come ci siamo preparati ad affrontare ciò che è del tutto imprevedibile, ciò che non ci si può mai attendere.

NOTE AL SECONDO CAPITOLO

1 K. von Clausewitz, Della guerra, Milano, Mondadori, 1991 (I ed. 1942), p. 5. L’autore fa riferimento alla traduzione inglese dell’opera di Clausewitz in tre volumi di J.J. Graham, pubblicata da Routledge and Kegan Paul all’inizio del secolo e ripubblicata in seguito diverse volte, e a quella di Michael Howard e Peter Paret, uscita presso la Princeton University Press nel 1976. 2 Ibid.., p. 130. 3 Ibid., p. 118. 4 lbid., pp. 132 e ss. 5 Ibid., pp. 126-127. 6 Ibid., p. 117. 7 /£/