Estetica e letteratura. Il grande romanzo tra Ottocento e Novecento 8842057436, 9788842057437

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Estetica e letteratura. Il grande romanzo tra Ottocento e Novecento
 8842057436, 9788842057437

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COLL. ITAL.

P 1Í 1146

Biblioteca di Cultura Moderna

© 1999, G ius. Laterza & F igli Prima edizione 1999

Pubblicazione realizzata con il contributo dell’Università di Parma

è

Giuseppe Di Giacomo

Estetica e letteratura Il grande romanzo tra Ottocento e Novecento

]Editori Laterza

Proprietà letteraria riservata Gius. Laterza & Figli Spa, Roma-Bari Finito di stampare nel marzo 1999 Poligrafico Dehoniano Stabilimento di Bari per conto della Gius. Laterza & Figli Spa CL 20-5743-3 ISBN 88-420-5743-6

È vietata la riproduzione, anche parziale, con qualsiasi mezzo effettuata, compresa la fotocopia, anche ad uso interno o-didattico. Per la legge italiana la fotocopia è lecita solo per uso personale purché non danneggi l ’autore. Quindi ogni fotocopia che eviti l'acquisto di un libro è illecita e minaccia la sopravvivenza di un modo di trasmettere la conoscenza. Chi fotocopia un libro, chi mette a disposizione i mezzi per fotocopiare, chi comunque favorisce questa pratica commette un furto e opera ai danni della cultura.

Prefazione

I presupposti del libro devono essere ricercati nell’esigenza di ri­ scoprire nelle riflessioni del giovane Lukàcs sul romanzo - spesso ingiustamente dimenticate e fraintese - l’occasione per un ripen­ samento di temi e questioni di grande e sorprendente attualità fi­ losofica, quali il rapporto tra senso e non-senso e tra arte e vita; temi e questioni che appaiono non direttamente affrontabili se non in una prospettiva di tipo saggistico e critico, che rifugge da qualunque pretesa sistematica e metafisica. Il libro formula l’ipotesi che i grandi romanzi apparsi tra la fi­ ne dell’Ottocento e la prima metà del Novecento siano fonda­ mentalmente riconducibili a due ‘linee’ narrative lungo le quali si svilupperà il romanzo moderno. Tale ipotesi prende corpo a par­ tire dall’analisi della Teoria d e l romanzo di Lukàcs, giacché pro­ prio in essa appare rintracciabile, seppur soltanto in nuce, l’idea del configurarsi di queste due linee. I romanzi che appartengono alla prima linea, che ho indicato come ‘linea-Flaubert’, sono caratterizzati dalla presenza dell’ele­ mento riflessivo e dal tema della ricerca del senso, ovvero della to­ talità all’interno dell’opera stessa. I romanzi che appartengono al­ la seconda, che ho definito ‘linea-Dostoevskij’, appaiono invece privi di tali elementi: non si dà alcun tentativo di superare il non­ senso del mondo nell’opera poiché, essendo vanificata la possibi­ lità stessa di distinguere il senso dal non-senso, la ricerca del sen­ so è concepita come un compito che appartiene alla vita nella sua contingenza. Se l’elemento riflessivo caratteristico dei romanzi della ‘lineaFlaubert’ tende a trasformare questi ultimi sempre più in roman­ zi di romanzi, fino al punto in cui essi si rovesciano in antiroman­ v

zi, l’assenza di tale elemento fa invece, delle opere che rientrano nella ‘linea-Dostoevskij’, dei non-romanzi. Il libro propone inoltre, anche a titolo di confronto, l’analisi del pensiero di altri teorici del romanzo, quali in particolare Ri­ coeur e Bachtin; tale analisi tuttavia non ha alcuna pretesa esau­ stiva e anzi, nell’aver discusso questi autori rispettivamente in apertura della parte dedicata alla ‘linea-Flaubert’ e di quella de­ dicata alla ‘linea-Dostoevskij’, sono consapevole di aver radicalizzato alcuni aspetti del loro pensiero. Sono però altrettanto con­ vinto del fatto che proprio una qualche radicalizzazione consenta spesso di gettare luce in modo diverso su alcuni aspetti partico­ larmente fecondi di un determinato pensiero. Allo stesso modo le opere letterarie delle quali si propone una lettura sono state scelte nella lo r o esem plarità rispetto ai temi e ai problemi emersi nel corso di una riflessione che non ha alcuna aspirazione alla completezza storica o monografica. Ritengo inoltre doveroso sottolineare il fatto che il Lukàcs più maturo tornerà a occuparsi, in una prospettiva del tutto differen­ te, di alcuni degli autori che negli anni giovanili gli erano apparsi esemplari rispetto alle stimolanti riflessioni che egli andava allora sviluppando e alle quali questo lavoro è appunto strettamente ri­ ferito oltre che pef certi aspetti ispirato. Se nel panorama della letteratura contemporanea, che peraltro non rientra nell’ambito di questo libro, l’idea delle due linee può ancora funzionare come una chiave interpretativa feconda - si pensi all’opera di Georges Perec da una parte e a quella di Tho­ mas Bernhard dall’altra - resta comunque il fatto che tale idea non deve essere intesa né applicata come uno schema rigido. Lo di­ mostra il caso di quelle forme narrative contemporanee che si muovono nel territorio di confine tra le due linee, presentando tal­ volta fenomeni di osmosi o episodi di confluenza: è quanto acca­ de per esempio in alcune opere nelle quali l’elemento saggistico fa tutt’uno con l’esigenza di affidare alla vita il compito di ricercare il senso nel non-senso. Lungi dunque dalla pretesa di classificare e spiegare le opere, il riferimento alle due linee ha piuttosto l’intento di far emergere, all’interno delle opere stesse, le prospettive nelle quali esse si col­ locano rispetto ai problemi che costituiscono il filo rosso del libro: il manifestarsi del senso, la temporalità, la finitezza, la memoria. vi

Proprio il tema della memoria può esemplificare la distinzione tra le due linee del romanzo: se infatti nella R ech erch e di Proust, che rientra appieno nella ‘linea’ flaubertiana, la memoria signifi­ ca il superamento della finitezza e del non-senso del mondo nell’eternità dell’opera, in Dostoevskij non solo non si dà que­ sto superamento, ma la memoria esprime al contrario il dovere di salvare dall’oblio quella finitezza e mortalità che fanno uomo l’uomo.

Desidero ringraziare la dott. Cecilia Della Santa e il dott. Lorenzo Gasparrini che, nell’ultima fase della stesura del lavoro, mi sono stati di insostituibile aiuto per i preziosi suggerimenti, la lettura attenta del testo e la sua traduzione informatica.

Estetica e letteratura

Abbreviazioni D i seguito forniam o l’elenco delle abbreviazioni usate nel testo, che nelle ci­ tazioni saranno seguite dal num ero di pagina dell’edizione indicata in b i­ bliografia. EH

AE ER D

Bachtin 1988 (L ’autore e l’eroe) Bachtin 1979 {Estetica e romanzo) Bachtin 1968 {Dostoevskij. Poeti­ ca e stilistica)

FA MD

Inn

Beckett 1996 (Trilogia. L'Innomi­ nabile) Beckett 1994 (Teatro)

PS SR TdR

T De FK

Dostoevskij 1958-63b (1 demoni) Dostoevskij 1993 (i fratelli Karamazov) Dostoevskij 1958~63c (L ’idiota) Dostoevskij 1958-63a (Memorie dal sottosuolo)

I MS

TG T UsQ

MB

Flaubert 1993 (Madame Bovary)

CSB

Ded

Joyce 1974a (Dedalus: ritratto dell’artista da giovane) Joyce 1974b (Gente di Dublino) Joyce 1974c [Le gesta di Stephen) Joyce 1960 {Ulisse)

JS OFF

Kafka 1972 (Confessioni e diari. Diari) Kafka 1969 e 1971 {Romanzi. Il processo) Kafka 1972 (Confessioni e diari. Otto quaderni in ottavo) Kafka 1970 (Racconti)

SG

GD GS U Diari

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O IO

Pr

R

AF Lukàcs 1991 (L’anima e le forme) CE Lukàcs 1977 (Cultura estetica) Diario Lukàcs 1983 fDiario 1910-1911)

P

SML SS TR TeR

Lukàcs 1971a (Estetica di Heidel­ berg) Lukàcs 197 lb (Filosofia dell’arte) Lukàcs n.p. (Manoscritto-Dostoevskij) Lukàcs 1981 (Povertà di spirito) Lukàcs 1995 (Scritti sul romance) Lukàcs 1994 (Teoria del roman­ zo) Musil 1986 (Romanzi brevi, no­ velle e aforismi. I tormenti del gio­ vane Tòrless) Musil 1957 (L’uomo senza qua­ lità) Proust 1974 (Contro Sainte-Beu­ ve) Proust 1970 (Jean Santeuil) Proust 1963 (Alla ricerca del tem­ po perduto. A ll’ombra delle fan­ ciulle in fiore) Proust 1963 (Alla ricerca del tem­ po perduto. La prigioniera) Proust 1963 (Alla ricerca del tem­ po perduto. Sodoma e Gomorra) Proust 1984 (Scritti mondani e let­ terari) Proust 1963 (Alla ricerca del tem­ po perduto. La strada diSwann) Proust 1963 (Alla ricerca del tem­ poperduto. T'empo ritrovato) Ricoeur 1986-88 (Tempo e rac­ conto)

Parte prima

Lukács e le due linee del romanzo moderno

Capitolo primo

Arte e vita nel giovane Lukács

1. Il rapporto tra cultura e vita Uno dei problemi centrali dell’opera del giovane Lukàes è quello relativo al rapporto tra arte e vita, nel senso in cui tale opposizio­ ne è venuta configurandosi all’interno di quella cultura borghese che Lukàes identifica con la ‘crisi’ della cultura. La cultura au­ tentica è infatti « l’immanenza del senso nella vita», là dove l’at­ tuale cultura borghese è invece caratterizzata dalla scissione tra senso e vita. E da questa scissione che deriva quello che Lukàes chiama l’«epoca della compiuta peccaminosità», il «mondo ab­ bandonato dagli dèi», ovvero la separazione tra la «vita» e « l’ani­ ma». Per «vita» Lukàes intende la vita comune, per «anima» la vi­ ta vera. La vita è la semplice esistenza, l’essere non autentico, il mondo delle formazioni (G ebilde) estranee all’uomo, delle istitu­ zioni e delle convenzioni. L’anima è l’essere autentico, l’indivi­ dualità autentica, che vuole realizzare la sua essenza e che, per rag­ giungere questo scopo, lotta contro la vita non autentica. Per ani­ ma dunque Lukàes non intende il mondo della pura interiorità, che insieme a quello delle convenzioni costituisce la vita comune, né un qualche genere di soggettivismo e di relativismo. Nel «mon­ do della compiuta peccaminosità» questa lotta dell’anima con la vita può realizzarsi soltanto n ell’opera d ’arte che mostra, nella sua individualità temporale legata alla vita, l’essenza atemporale. E proprio nel suo ricercare l’«immanenza del senso nella vita» che l’arte si separa dalla vita senza senso. Di qui l’interrogativo presente sia nella Filosofia d ell’arte che n ell’Estetica di H eidelberg: «Si danno opere d’arte - come sono possibili?». Se l’opera sorge dalla vita, se essa è pur sempre qualcosa di contingente e tempo­ rale, come può una tale contingenza e temporalità configurarsi in 5

«destino», dare luogo a qualcosa di atemporale? La risposta a questo interrogativo Lukàcs la trova nel concetto kantiano di «forma». E grazie alla forma che l’anima di volta in volta dà sen­ so alla vita e configura in destino il «meramente esistente». Dare forma vuol dire ordinare e collegare gli elementi della vita, tra­ sformandoli in strutture dotate di senso, in individualità che mo­ strano l’essenza. È grazie alla forma, alla composizione dunque, che l’essenza, l’assoluto, trova luogo nel particolare. Questo però non vuol dire che l’arte tolga il non-senso della vita e restituisca a questa l’immanenza del senso. L’arte infatti re­ sta sempre distinta dalla cultura. E se il problema della cultura, in quanto problema etico, è per il giovane Lukàcs quello di dar for­ ma alla vita stessa, ovvero di ricostituire la totalità dotata di sen­ so, la risposta che viene data è sempre negativa: «E [...] assolutamente impossibile realizzare la grande aspirazione etica del vive­ re’ (erleb en ), interpretare come un destino i fatti gravi della vita [...] è impossibile sostenere la stilizzazione etica della vita» (FA, 104). Anche se mostra l’«immanenza del senso nella vita», l’arte resta differente dalla vita e come tale deve essere interpretata, se non si vuole cadere nel «grande pericolo metodico di accostare eccessivamente l’arte alla realtà vissuta (E rlebniswirklichkeit) co­ sì da misconoscerne la natura più propria» (FA, 9). Così, come si dirà nel saggio su Gauguin - contenuto in Cul­ tura estetica - , l’arte offre una patria, una patria per ciascuno, e tuttavia in modo tale che proprio il suo essere è la prova dell’im­ possibilità di una «patria comune», ovvero della cultura. Nella Teoria d el romanzo invece, come vedremo, la possibilità della cul­ tura, come realtà storica del passato (grecità) e come utopia inde­ finita proiettata nel futuro, è accettata da Lukàcs. Il luogo dell’ar­ te sta dunque nella tensione tra il mondo della forma e il mondo della vita: l’opera d’arte, in quanto forma, composizione, riman­ da dal suo stesso interno alla vita. La perdita della cultura, dell’immanenza del senso nella vita, richiede una filosofia che sia non sapere sistematico, ma interro­ gazione e la forma di questa interrogazione è per Lukàcs la formasaggio. E se Lukàcs riconosce l’opera d’arte quale oggetto princi­ pale del saggio, è perché in essa non si dà nulla che stia ‘al di là’. Sono i platonici e i mistici che cercano ciò che sta ‘dietro’. Per questo il saggio, a differenza della scienza e della filosofia siste­ 6

matica, non dà risposte definitive ma pone interrogazioni, espri­ mendo così la ricerca di un senso non dato. Nel saggio l’assoluto non può essere raggiunto, ma solo atteso; la problematicità del saggio, come quella della Teoria d el rom an­ zo, nasce dalla consapevolezza dell’insuperabilità della scissione di senso e non-senso. Di qui Tanti-romanticismo di Lukàcs, il ri­ fiuto cioè di ogni tentativo di superare il finito, di negare il non­ senso. 2. L’opera co m e form a Tali tematiche si ritrovano nel saggio su Kierkegaard, non a caso intitolato Quando la form a si fr a n g e su gli sco gli d ell’esistenza. Per Kierkegaard, come per i romantici tedeschi, la vita e l’arte sono indissociabili. Egli, afferma Lukàcs, confonde poesia e vita im­ mediata, tentando di realizzare nella vita quell’assoluto che inve­ ce è riservato unicamente all’opera. Di qui il desiderio impossibi­ le che consiste nell’applicare alla vita stessa i principi della crea­ zione artistica. E questo il significato che Lukàcs attribuisce al «gesto» di Kierkegaard, la rottura del fidanzamento con Regina Olsen. Così, se «il valore esistenziale di un gesto» è «il valore del­ la forma nella vita», e se «la forma è l’unica via per raggiungere l’assoluto nella vita», allora «solo il gesto esprime la vita» (AF, 55). Per questo, dice Lukàcs, Kierkegaard «costruì tutta la sua vita su un gesto» (ibid.). Il gesto è infatti «il salto con cui l’anima [...] ab­ bandona i dati sempre relativi della realtà e raggiunge l’eterna cer­ tezza delle forme. [...] Il gesto è il grande paradosso della vita, poi­ ché ogni fuggevole istante della vita si placa nella sua immobile eternità e diventa in essa vera realtà» (AF, 56). Di qui la romantizzazione della vita in Kierkegaard e quel «gesto» che Lukàcs spiega proprio come il tentativo di «poetizzare la vita» (AF, 58), di sottoporre la vita al principio estetico. Tuttavia, conclude Lukàcs, ogni tentativo di dare forma alla vita reale secondo i cri­ teri di un principio estetico e di sottometterla al valore di un «ge­ sto» è irrimediabilmente condannato al fallimento. Anche il saggio su Novalis, Sulla filosofia rom antica d ell’esi­ stenza, come quello su Kierkegaard, affronta il tema della ten­ denza a «estetizzare la vita», a vivere secondo principi estetici. È 7

in questo senso che va visto il contrasto tra Goethe e i romantici, contrasto che resterà sempre uno dei punti fermi delle convinzio­ ni estetiche di Lukàcs: mentre Novalis e i romantici «cercavano di creare un mondo nuovo, nel quale l’uomo grande, il poeta, aves­ se una patria», Goethe invece «trovava la sua patria nel mondo contemporaneo» (AF, 80). E questo, continua Lukàcs, «il punto in cui la strada di Goethe si divide da quella del romanticismo» (AF, 81). Lukàcs esprime così la sua difesa della forma compiuta, dell’ironia di Goethe contro l’utopia romantica: Goethe vive per l’opera, i romantici per la propria realizzazione, confondendo co­ sì arte e vita e, se la forza di Goethe deriva proprio dalla distanza tra la realtà dell’arte e quella della vita immediata, la debolezza del romanticismo è dovuta invece alla confusione dell’una e dell’altra. Nulla per Lukàcs può togliere la distanza che separa la poesia e la vita, e se sarà critico nei confronti di movimenti d’avanguar­ dia come l’espressionismo è perché in questi vedrà la rinascita del­ le illusioni romantiche. Cancellando quella distanza, il romantici­ smo si priva infatti della tensione creatrice tra l’arte e la vita. Il ri­ sultato è un «panpoetismo»: «la visione del mondo dei romantici è il più autentico panpoetismo: tutto è poesia, la poesia è ‘l’uno e il tutto’» (AF, 82). Per questo i romantici «crearono un mondo omogeneo, unitario ^ organico, e lo identificarono con quello con­ creto», perdendo così « l’enorme distacco esistente tra poesia e vi­ ta» (AF, 85). Di conseguenza, l’aspirazione dei romantici è stata quella di «negare sempre, con consapevole intransigenza, che la tragedia è la forma della vita [...] la loro massima aspirazione fu sempre quella di eliminare la tragedia, di trovare una soluzione non tragica a situazioni tragiche» (AF, 87). Ma i limiti dell’esi­ stenza devono per Lukàcs essere affrontati e dominati, non nega­ ti per mezzo della creazione di un universo finto. Così a questa poetizzazione del destino, Lukàcs oppone, come sole forme au­ tentiche dell’esistenza, il destino assunto nella tragedia e il sacri­ ficio della vita alla forma concettuale o artistica. Anche nel saggio su Theodor Storm, La borghesia e «L’a rtpou r l ’art», Lukàcs affronta il problema del rapporto tra l’arte, ovvero la forma, e la vita o, il che è lo stesso, tra il senso e il non-senso. In questo saggio Lukàcs mette in evidenza la connessione che ha ca­ ratterizzato lo stile di vita della vecchia borghesia rappresentata da Storm, e il culto dell’arte per l’arte proprio degli artisti tede­

schi. Per la vecchia borghesia, «che l’arte fosse una cosa compiu­ ta in sé [...] non era la conseguenza di una violenta evasione dalla vita, ma veniva considerato come un fatto naturale, poiché ogni lavoro svolto con serietà era di per sé giustificato» {AF, 93). Que­ sto significava che «la perfezione dell’opera d’arte era una forma di esistenza» (ibid.). Il modo di vita borghese si profila così come un’ascesi, «affinché tutto lo splendore possa venir recuperato [...] n ell’opera» (AF, 93-94, corsivo mio). Lo spirito borghese nel suo senso originale significava lavoro svolto con il massimo impegno e il culto dell’arte per l’arte, ovve­ ro dell’opera in quanto realtà autonoma, era considerato l’espres­ sione di uno stile di vita caratterizzato dall’importanza dell’etica: «Professione borghese come forma di esistenza significa innanzi tutto primato dell’etica nella vita: la vita viene dominata da ciò che si ripete sistematicamente. [...] In altre parole: il dominio dell’or­ dine sugli stati d’animo, del duraturo sul momentaneo, del lavo­ ro tranquillo sulla genialità nutrita di sensazioni» (AF, 95). Di qui quell’assenza di tensione tragica che invece, secondo Lukàcs, ca­ ratterizza l’artista moderno. Così Storm è considerato un artista «organico», non problematico, un artista nel quale «condotta di vita borghese» e «attività artistica» trovano un giusto equilibrio (cfr. AF, 100). Questo culto dell’arte per l’arte di Storm e degli esteti tedeschi a lui contemporanei veniva contrapposto all’estetismo di Flau­ bert, per il quale «la vita è solo un mezzo per raggiungere l’ideale artistico» (AF, 101). L’estetismo di Flaubert era un atto di ascesi di fronte alla piattezza della vita, per rifugiarsi nell’assoluto dell’arte; al contrario, per gli esteti tedeschi « l’arte è una manife­ stazione della vita, come tutto il resto, e quindi una vita dedicata all’arte è vincolata agli stessi diritti e doveri di qualunque altra at­ tività umana borghese» (ibid.). In definitiva, se per Lukàcs l’aspi­ razione di Flaubert consiste nel sacrificare la vita per avvicinarsi a un ideale di perfezione, quella degli scrittori tedeschi della stessa epoca sta nella consapevolezza di aver fatto tutto ciò che era in lo­ ro potere per creare qualcosa di perfetto. Il saggio lukàcsiano su Storm entusiasmò Thomas Mann, che dichiarava di condividere l’unità di etica ed estetica, contraria­ mente all’idea di Flaubert di subordinare l’arte aña vita. Così Mann, concordando con quanto il giovane Lukàcs attribuiva a 9

Storm e agli esteti tedeschi di quel periodo - e cioè che l’arte è il mezzo col quale si realizza eticamente la vita e non il prodotto di una sua negazione ascetica -, prendeva le distanze dall’eroe della sua novella Tonio K roger, che sacrifica la vita all’arte. Resta tutta­ via il fatto che, secondo Lukàcs, per l’artista moderno la negazio­ ne della vita appare come una condizione indispensabile al lavo­ ro artistico, E, mentre Storm e gli esteti tedeschi potevano man­ tenere un equilibrio tra l’arte e la vita, una tale «organicità» - co­ me sostiene Lukàcs nella Teoria d el romanzo a proposito del mondo dell’epos - impedirebbe all’artista moderno di respirare. Non a caso l’arte tedesca del periodo di Storm è un’arte pro­ vinciale. L’artista moderno ha scoperto la «produttività delle for­ me» (cfr. TR, 61), e questo significa che la grande arte moderna non può nascere che da un conflitto tra la vita e l’arte. Così per Storm e gli esteti tedeschi questo conflitto poteva essere evitato grazie a quell’equilibrio, ma l’artista moderno invece è segnato proprio dal desiderio (S ehnsucht) di ritrovare nell’arte l’unità per­ duta. Quando infatti la vita reale sembra aver perduto l’imma­ nenza del senso, l’artista si rifugia nella pura interiorità e nella pro­ duttività dello spirito. È quanto emerge nel saggio dedicato a Stefan George, La nuo­ va solitudine e la sua Urica, nel quale Lukàcs sottolinea l’abisso che separa la vita dallo spirito di quella poesia moderna che, indiffe­ rente a tutto ciò che è esteriore, si rifugia nella solitudine della vi­ ta interiore. L’uomo delle poesie di George è infatti un uomo so­ lo, lontano da ogni legame sociale, e la «freddezza» e l’aristocraticismo di quella poesia di George appaiono a Lukàcs il riflesso estremo del destino dell’artista moderno. La seconda metà d ell’Anima e le fo r m e è dedicata a quegli au­ tori per i quali il lavoro artistico richiede l’allontanamento dalla vita reale. L’apologia della forma è il motivo centrale di quest’ope­ ra del giovane Lukàcs e implica la possibilità di superare l’anar­ chia della vita empirica. Ciò che Lukàcs chiama «anarchia», e che considera come una tendenza distruttrice, è il rifiuto di ogni limi­ te. Così egli scrive nel saggio Ricchezza, caos e form a: un dialogo su L aurence Sterne-. «L ’anarchia è la morte. Ecco perché la odio e la combatto. In nome della vita. In nome della ricchezza della vita» {AF, 197). E quanto sostiene Joachim, il personaggio difensore di quella forma che troverà il momento più alto nella tragedia; è lui 10

che assicura il rigore del sistema kantiano, che starà appunto alla base del saggio sulla tragedia. Ed è proprio in nome del ‘limite’ es­ senziale e positivo, rappresentato dalla tragedia, che Lukàcs ave­ va denunciato in Kierkegaard e in Novalis i sintomi della malattia e della dissoluzione. Così, contrapponendo Goethe a Sterne, Joachim sostiene che gli scritti di quest’ultimo «sono privi di forma, il loro autore avrebbe potuto portarli avanti all’infinito, e la sua morte avrebbe significato soltanto una loro interruzione, non una conclusione. Le opere di Sterne sono prive di forma, perché sono estensibili all’infinito; le forme infinite però non esistono» (AF, 216). Quella di Sterne è per Lukàcs un’opera dove nulla si com­ pie, dove non è mai dato vivere nulla fino in fondo, dove si è per­ duta la tensione tra arte e vita. Proprio il rifiuto di distinguere tra arte e vita e la convinzione che ogni elemento vitale può avere im­ mediatamente un significato artistico rendono impossibile il com­ pimento dell’opera, che rappresenta per Lukàcs il vero fine di ogni creazione artistica. NeRAnima e le fo r m e compaiono già i temi e le idee che ver­ ranno sviluppati nella Teoria d e l romanzo. Se.infatti la forma non può esistere senza l’immanenza del senso, da quando il mondo empirico è diventato il mondo del caos e del non-senso, l’artista si vede costretto a lottare per la conquista della forma con la sola «produttività dello spirito». La forma nasce dunque dalla separa­ zione tra l’esteriorità empirica e l’interiorità essenziale. 3. L’assolutizzazione della form a Il saggio sulla M etafisica della tragedia, dedicato a Paul Ernst e che chiude L’anima e le fo rm e, diventa la conclusione naturale della concezione dell’opera d’arte come forma. Questa infatti nasce dalla consapevolezza della necessità del limite, ossia del non-sen­ so, e per questo la tragedia è non negazione dell’essere finito ben­ sì «saggezza del limite», «esperienza del limite» (AF, 243). La tra­ gedia è per Lukàcs la massima espressione dell’essenza e di quel­ la forma nella quale egli vedeva la condizione stessa della vera ar­ te. La forma tragica è il mezzo col quale la relatività dell’esistenza quotidiana è definitivamente superata e l’uomo vive in modo pie­ namente consapevole la propria finitezza. Per questo le azioni 11

dell’eroe tragico non hanno motivazioni legate alla vita comune, ma si presentano come atti determinati dal destino. Di qui la net­ ta separazione tra vita inautentica e vita autentica; se nella trage­ dia l’esistenza, spogliata di ogni inessenzialità, si identifica con l’essenza, nella vita inautentica invece «L ’esistenza è un’anarchia del chiaroscuro: nulla si realizza totalmente in essa, mai nulla giunge a compimento [...] mai nulla viene vissuto completamen­ te fino in fondo» (AF, 232). Per questo «La vera esistenza è sem­ pre non reale, non è mai possibile per l’esistenza empirica [...] non si può vivere alle sue altezze - alle altezze della propria esistenza, delle proprie possibilità estreme. Bisogna ricadere nel buio, biso­ gna negare l’esistenza per poter vivere» (ibid.). Nella tragedia dio è spettatore muto e invisibile, esigenza as­ soluta che nega ogni motivazione umana: «Il dramma è un gioco; un gioco tra l’uomo e il destino; un gioco dove dio è lo spettato­ re. E soltanto spettatore, e la sua parola e il suo gesto non si me­ scolano mai alle parole e ai gesti dei giocatori» (AF, 231). Perché ci sia la tragedia è necessario che il mondo abbia perduto l’imma­ nenza del senso, che dio sia morto, e che tuttavia continuiamo a cercarlo con le nostre sole forze. La tragedia richiede dunque l’ab­ bandono dell’idea di redenzione e dell’attesa degli «dèi della realtà e della storia», che ci danno l’illusione del progresso stori­ co (cfr. AF, 233). La scomparsa dei falsi dèi, che promettono una riconciliazione tra gli uomini e il loro destino, apre lo spazio del tragico. Così, nella concezione di Lukàcs, il dio assente della tragedia, in quanto esigenza etica assoluta, è vicino a quello degli eroi atei di Dostoevskij: non c’è altra ‘prova’ di dio che l’esistenza dell’uo­ mo, il quale sotto il suo sguardo invisibile scopre la propria ani­ ma. Questo mondo senza dèi rivela il solo dio possibile nell’ani­ ma dell’eroe e il destino non ha altra funzione che realizzare la ri­ velazione dell’anima a se stessa (cfr. AF, 236). Come nel saggio, così nella tragedia il reale non è che l’occasione della sola realtà dell’anima. In questo senso per il Lukàcs dell’Anima e le fo r m e i due poli della possibilità di una vita autentica sono o l’abbando­ no all’essenza trascendente (mistica), o la lotta per una immanen­ za essenziale, per la manifestazione del «dio trascendentale» nell’uomo (tragedia). A differenza della mistica, la tragedia si svol­ ge dunque sotto il segno del limite. 12

La nozione di limite è legata a quella di finitezza e quindi di mortalità. Proprio perché mortale, il finito, ossia il singolo, realiz­ za l’essenza: «La tragedia a questo punto dà la sua risposta in­ crollabile e sicura all’interrogativo più bruciante del platonismo: se anche le cose singole possono essere idee, possono avere es­ senzialità. La risposta rovescia la domanda: solo il singolo, solo l’individuo spinto ai suoi limiti estremi, è adeguato alla sua idea, è realmente esistente» (AF, 245). La morte tragica non è dunque la negazione dell’essere finito, ma la consapevolezza della neces­ saria finitezza, ossia della necessità del non-senso. Sarà proprio da questo punto di vista che il giovane Lukàcs si avvicinerà all’opera di Dostoevskij. 4 .Tra form a e vita Nel mondo abbandonato da dio, cioè dal senso, quale è espresso dai saggi de\VAnima e le fo rm e, è solo grazie alla forma, alla com­ posizione, che il particolare mostra l’assoluto, il senso, come il suo ‘altro’. Il finito allora deve essere non superato, ma composto, perché l’assoluto si riveli. E solo salvando il particolare, il finito, ovvero è solo dando a questo una forma, che si può salvare l’as­ soluto, il che equivale a dire che è soltanto nell’opera d’arte che si può dare il senso. Ed è proprio nella forma-saggio che ciò si mo­ stra in maniera esemplare. Di qui l’anti-impressionismo del saggismo di Lukàcs, pienamente espresso in quel capitolo della Cultu­ ra estetica intitolato Le v ie si son o divise. E rispetto alla possibilità di esprimere l’essenza delle cose che «le vie si dividono». Una è la via rappresentata dalla pittura ‘impressionistica’, che prescinde del tutto dalle «cose» (cfr. CE, 32): una pittura che si li­ mita al ‘vedere’, ignorando del tutto la «vista spirituale». Si tratta di «un’arte delle superfici: superfici dietro le quali non si nascon­ de nulla, che non significano nulla, non esprimono nulla, si limi­ tano a esserci. [...] L’arte delle superfici non poteva essere che l’ar­ te delle sensazioni» (CE, 34). In quest’arte, dove tutto è affidato al vedere e il particolare non è portatore di un’essenza, manca la forma, vale a dire un vero e proprio principio compositivo, «per­ ché la forma è il principio [...] della creazione di un ordine». Ma oggi, sostiene Lukàcs, «desideriamo che tutte 4e nostre cose ab­ 13

biano un senso. [...] E la fede nel fatto che esiste qualcosa di tan­ gibile e di costante nel turbinio degli attimi; la convinzione che esistono delle cose, e che' queste posseggono una sostanza, sono già sufficienti a escludere l’impressionismo con tutte le sue mani­ festazioni» (CE, 35-36). Di contro all’impressionismo per Lukàcs l’arte nasce dal devo, non dal posso, dalla tensione tra d o v ere della forma e mondo del­ la vita. Ed è la nuova generazione di pittori ungheresi, riunita nel cosiddetto Gruppo degli Otto, che per Lukàcs porta avanti, di contro alla via dello «stato d’animo», dell’«attimo» e delle «superfici», la via dell’opera come «qualcosa di concreto-individua­ le», della creazione finita, dello «spirituale nell’arte». Questa ri­ cerca raggiungerebbe il proprio compimento nell’opera di Gauguin, caratterizzata, secondo Lukàcs, dal rapporto tra l’artista e la vita: «Tahiti significa per lui il traguardo, la fine dei tentativi, e non, come molti hanno interpretato, la fuga» (PS, 56); per questo «è l’unico pittore moderno giunto al traguardo» (PS, 57). Resta tuttavia il fatto che, secondo Lukàcs, Ogni artista è alla ricerca della propria Tahiti, ma oltre a Gauguin nessuno è riuscito a trovarla, e non può neppure riuscirvi fino a quan­ do, in un rivolgimento totale di sé, non riesce a immaginare in ogni possibile luogo la propria Tahiti. Ma fino a quando Gauguin rimarrà un caso isolato, continuerà a trattarsi di un bel sogno, di una meravi­ gliosa possibilità, un’illusione incantevole. (PS, 58) Come vedremo, sarà proprio l’opera di Dostoevskij a indicare al giovane Lukàcs la possibilità che l’assoluto e il senso si diano non nell’opera d’arte, bensì nella vita stessa. Ed è sempre sul rapporto tra arte e vita che verte il saggio Cul­ tura estetica, che dà il titolo alla raccolta. In esso Lukàcs vuole non condannare, bensì comprendere la vita nella sua ‘anarchia’. La «cultura estetica», dice Lukàcs, è una cultura che ha perduto la vera Cultura, ovvero il rapporto con la vita. Una tale cultura ha prodotto due tipi umani, lo specialista e l’esteta, il primo caratte­ rizzato da una inesauribile curiosità per i particolari, il secondo dalla vacuità dell’‘arte per l’arte’. In entrambi i casi il mezzo di­ venta lo scopo e viene perduto il problema dell’‘altro’ nelle cose. La cultura estetica aderisce agli stati d’animo con pieno abban­ 14

dono, così in essa « l’unità della cultura sarebbe dunque stata rag­ giunta: la mancanza di unità. Esisteva un centro: il carattere peri­ ferico del tutto [...] e la Cultura aveva raggiunto il suo carattere essenziale [...] niente infatti esisteva che potesse elevarsi al di so­ pra degli attimi vissuti singolarmente» (CE, 15). In questa cultu­ ra si perde il rapporto con le cose, con la vita (cfr. CE, 18), e il fi­ nito è paradossalmente annullato, proprio nel suo essere assolutizzato. E allora, si chiede Lukàcs, «Che cosa può venire adesso? Che cosa deve venire? Tutto, certamente, fuorché una cosa: l’uto­ pistica redenzione del mondo vagheggiata dai sognatori ingenui» (CE, 23). A differenza di quanto aveva fatto nella M etafisica della trage­ dia, Lukàcs in questa sede non oppone alla cultura estetica l’istan­ za della forma, dal momento che né la forma né l’arte hanno que­ sto potere catartico; anzi qualsiasi tentativo di chi lotta in nome di un’arte che abbia come scopo quello di redimere il mondo e di creare una cultura è diventato «risibile» (CE, 24). Se il finito nel­ la Cultura estetica resta un non-senso che nessuna forma può re­ dimere, allora per Lukàcs si tratterà di comprendere questo non­ senso proprio nella sua irreversibilità. Si chiede infatti Lukàcs: è proprio necessario che da tutto ciò scaturiscano solo vacuità e anar­ chia, languori e sterilità, vani lamenti e malinconici orgogli? Non si può forse costruire con questi elementi la ferma e incrollabile fortezza dell’anima, anziché gli evanescenti castelli in aria degli stati d’animo? (CE, 26) Nessuna illusione dunque di una Cultura in grado di dare for­ ma al finito, di cogliere il senso nel non-senso. Solo un’anima che si sia liberata di ogni illusione e che sappia guardare il non-senso del finito con occhi disincantati può dare luogo a una individua­ lità esemplare: E questa la vita dell’anima: strapparsi di dosso tutto quanto non le appartenga veramente; dare una forma all’anima significa rendere l’anima veramente individuale, ma ciò che ha ottenuto una forma si in­ nalza al di là di ciò che è soltanto individuale. Ecco perché una tale vi­ ta è esemplare. E esemplare, perché realizzandosi in un uomo solo, in­ dica a tutti gli uomini la possibilità di raggiungere lo stesso obiettivo. (CE, 29) 15

Ed eroici sono quegli individui che operano nel qui-e-ora «come-se» vivessero in una Cultura: uomini simili non creano una cultura, né hanno intenzione di farlo: la santità della loro vita consiste nel fatto che sono stati privati di ogni il­ lusione. Non creano una cultura, ma vivono come se vivessero in una cultura [...] L’atmosfera di tutta la loro vita si potrebbe forse definire nel modo più esatto con una delle più profonde categorie di Kant, quella del ‘come-se’, à